Isola Nera 3/52

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Isola Nera 3/52
Isola Nera 3/52
casa di poesia e letteratura
Casa aperta alla creazione letteraria degli autori italiani e di autori in lingua italiana.
Isola Nera è uno spazio di libertà e di bellezza per un mondo
di libertà e bellezza che si costruisce in una cultura di pace.
Direzione Giovanna Mulas. Coordinazione Gabriel Impaglione.
[email protected] - gennaio 2009 - Lanusei, Sardegna
Pubblicazione Patrocinio UNESCO. Inserita nella categoria Riviste (Italia)
http://www.unesco.org/poetry/
“L'unica battaglia che ho perso è stata quella che ho avuto paura di combattere.”
( E. Che Guevara )
Quando comare morte si avvicina
Eugen Berthold Friedrich Brecht
Lode del dubbio
Sia lode al dubbio! Vi consiglio, salutate
serenamente e con rispetto chi
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti, che non deste
con troppa fiducia la vostra parola.
Leggete la storia e guardate
in fuga furiosa invincibili eserciti.
In ogni luogo
fortezze indistruttibili rovinano e
anche se innumerabile era l'armata salpando,
le navi che tornarono
le si poté contare.
Fu così un giorno un uomo sulla inaccessibile vetta
e giunse una nave alla fine
dell'infinito mare.
Oh bello lo scuoter del capo
su verità incontestabili!
Oh il coraggioso medico che cura
l'ammalato senza speranza!
Ma d'ogni dubbio il più bello
è quando coloro che sono
senza fede, senza forza, levano il capo e
alla forza dei loro oppressori
non credono più!
Oh quanta fatica ci volle per conquistare il principio!
Quante vittime costò!
Com’era difficile accorgersi
che fosse così e non diverso!
Con un respiro di sollievo un giorno
un uomo nel libro del sapere lo scrisse.
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Forse a lungo là dentro starà e più generazioni
ne vivranno e in quello vedranno un'eterna sapienza
e spezzeranno i sapienti chi non lo conosce.
Ma può avvenire che spunti un sospetto, di nuove esperienze,
che quella tesi scuotano. Il dubbio si desta.
E un altro giorno un uomo dal libro del sapere
gravemente cancella quella tesi.
Intronato dagli ordini, passato alla visita
d'idoneità da barbuti medici, ispezionato
da esseri raggianti di fregi d'oro, edificato
da solennissimi preti, che gli sbattono alle orecchie
un libro redatto da Iddio in persona,
erudito da impazienti pedagoghi, sta il povero e ode
che questo mondo è il migliore dei mondi possibili e che il buco
nel tetto della sua stanza è stato proprio previsto da Dio.
Veramente gli è difficile
dubitare di questo mondo.
Madido di sudore si curva l'uomo
che costruisce la casa dove non lui dovrà abitare.
Ma sgobba madido di sudore anche l'uomo
che la propria casa si costruisce.
Sono coloro che non riflettono, a non
dubitare mai. Splendida è la loro digestione,
infallibile il loro giudizio.
Non credono ai fatti, credono solo a se stessi.
Se occorre, tanto peggio per i fatti.
La pazienza che han con se stessi
è sconfinata. Gli argomenti
li odono con gli orecchi della spia.
Con coloro che non riflettono e mai dubitano
si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono.
Non dubitano per giungere alla decisione, bensì
per schivare la decisione. Le teste
le usano solo per scuoterle. Con aria grave
mettono in guardia dall'acqua i passeggeri dl navi che affondano.
Sotto l'ascia dell'assassino
si chiedono se anch'egli non sia un uomo.
Dopo aver rilevato, mormorando,
che la questione non è ancora sviscerata vanno a letto.
La loro attività consiste nell'oscillare.
Il loro motto preferito è: l'istruttoria continua.
Certo, se il dubbio lodate
non lodate però
quel dubbio che è disperazione!
Che giova poter dubitare, a colui
che non riesce a decidersi!
Può sbagliare ad agire
chi di motivi troppo scarsi si contenta!
ma inattivo rimane nel pericolo
chi di troppi ha bisogno.
Tu, tu che sei una guida, non dimenticare
che tale sei, perché hai dubitato
delle guide! E dunque a chi è guidato
permetti il dubbio!
Bertolt Brecht
nacque ad Augusta il 10 febbraio 1898 da Berthold Friedrich Brecht e Sophie Brezing, in una
famiglia di recente borghesia. I nonni paterni erano originari del Baden, mentre quelli materni provenivano da Bad
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Waldsee, nell'Alta Svevia. Il padre era cattolico, sua madre era protestante e il giovane Brecht fu educato nella fede
della madre. Il 20 marzo Bertolt venne battezzato nella chiesa evangelica Barfüßerkirche e il 18 settembre la famiglia
traslocò nella nuova abitazione nella città bassa vicino a Perlachberg, quartiere di artigiani e artisti. La fede protestante
della madre segnò l'educazione culturale e linguistica del figlio, nella quale la lirica religiosa evangelica e il tedesco di
Lutero lasciarono un'impronta decisiva.
Il 29 giugno del 1900 nacque il fratello Walter, che più tardi diventerà professore di tecnologia cartaria al Politecnico di
Darmstadt e il 12 settembre dello stesso anno la famiglia si trasferì in un appartamento più grande nella Bleichstraße 2,
in una delle case della Fondazione Haindl, costruite qualche anno prima per i dipendenti nel sobborgo di Klancke.
Come città industriale e commerciale, Augusta si distingueva, oltre che le sue imprese bancarie, per i tessili, per
l'industria dei coloranti e per le cartiere. Il padre era emigrato dalla Foresta Nera proprio per lavorare nella cartiera
Haindl, di cui, in seguito, diventò il direttore.
Bertolt ebbe un'infanzia poco felice a causa del carattere schivo e di frequenti problemi di salute. Dopo la scuola
elementare frequentò il Realgymnasium Augsburg. Come compagni di classe ebbe tra gli altri Caspar Neher e
Rudolf Prestel. Nel 1913 cominciò a scrivere le prime poesie, tra cui L'albero in fiamme. Tra il 1914 e il 1915
scrisse altre poesie, imbevute di patriottismo e di entusiasmo per la guerra e di tutto ciò che è tedesco. Nel 1916,
in un tema in classe sul verso oraziano Dulce et decorum est pro patria mori, Brecht espresse un giudizio negativo sulla
morte eroica affermando tra l'altro:
« Il detto che dolce e onorevole è morire per la patria può essere considerato solo come propaganda con determinati
fini [...] solo degli stupidi possono essere così vanitosi da desiderare la morte, tanto più che pronunciano simili
affermazioni quando si ritengono ancora ben lontani dall'ultima ora. Ma quando la comare morte si avvicina, ecco che
se la squagliano con lo scudo in spalla come fece nella battaglia di Filippi l'inventore di questa massima, il grasso
giullare dell'imperatore. »
L'episodio provocò un piccolo scandalo e Brecht evitò l'espulsione dalla scuola solo grazie all'intervento del padre
benedettino Romuald Sauer, amico di famiglia. Scrisse altre poesie, tra cui La leggenda della prostituta Evelin Roe e
L'Inno a Dio.
Nel 1917 ottenne il cosiddetto Notabitur (diploma d'emergenza concesso anzitempo agli studenti che intendevano
arruolarsi) a causa degli eventi bellici. Il clan brechtiano festeggiò con canzoni, che Brecht compose e suonò con la
chitarra, e scorribande notturne. Già al liceo Brecht mostrò un comportamento indipendente, anticonformista, polemico
e tendente a primeggiare sui suoi compagni di classe. Insieme ad essi Brecht scriveva la musica per le sue poesie e tutti
insieme giravano per la città.
Sempre nel 1917 si iscrisse all'università dove frequentò in modo discontinuo le facoltà di scienze naturali, medicina e
letteratura.
Nel 1918, dopo aver partecipato ai funerali di Frank Wedekind a Monaco, dedicò al drammaturgo - grande modello
degli anni giovanili (il primo figlio di Brecht si chiamò Frank) - la quartina Alla sepoltura di Wedekind. Dello stesso
periodo è la commedia Baal.
La giovinezza e le prime opere
In seguito Brecht dovette interrompere gli studi perché arruolato e distaccato al corpo sanitario, in un ospedale militare
di Augusta. In questo periodo conobbe Paula Banholzer che nel 1919 gli diede un figlio, Frank, che cadde nel 1943
durante la seconda guerra mondiale sul fronte russo. Scrisse la Canzone per i cavalieri del reparto D. Nel novembre
scrisse la poesia la Leggenda del soldato morto. Nel 1919 scrisse anche critiche teatrali per il giornale socialista
Augusburger Volkswille; si avvicinò al movimento spartachista.
Il 1° maggio 1920 morì sua madre ed il giorno successivo scrisse la poesia Canzone di mia madre. Nello stesso
anno divenne amico del celebre cabarettista Karl Valentin. Il lavoro con Valentin influenzò molto le sue opere
successive. In quegli anni si recò spesso a Berlino costruendo importanti relazioni con persone che gravitavano intorno
all'ambiente teatrale. A Monaco consegnò il manoscritto di Baal in un teatro e scrisse la tragedia Tamburi nella notte.
Nel 1921 Brecht conobbe il drammaturgo Arnolt Bronnen, di cui diverrà grande amico.
Tamburi nella notte
Nel 1922, anno in cui vinse il Premio Kleist per Tamburi nella notte, andò a Berlino dove il 3 novembre sposò l'attrice e
cantante d'opera Marianne Zoff. Un anno dopo nacque la loro figlia Hanne. Dello stesso periodo è la poesia Del povero
Bertolt Brecht,
Nel 1923 scrisse il dramma Vita di Edoardo secondo di Inghilterra e conobbe la futura moglie Helene Weigel.
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Nel 1924 si trasferì definitivamente a Berlino dove lavorò con Carl Zuckmayer come drammaturgo presso il
Deutsches Theater, e (sempre nel medesimo anno) nacque suo figlio Stefan. A novembre conobbe la futura
collaboratrice Elisabeth Hauptmann.
Nel 1925 scrisse la commedia Un uomo è un uomo. Dal 1926 intrattenne stretti contatti con artisti di tendenza socialista
e ciò influenzò molto la sua Weltanschauung. Le sue prime opere furono influenzate dallo studio degli scritti di Hegel e
Marx. Nel 1927 uscì il primo libro di poesie Il libro di devozioni domestiche (Hauspostille). Conobbe il sociologo Fritz
Stengerg che lo stimola ad approfondire gli studi di marxismo. Scrisse la tragedia Mahagonny. Collabora con Erwin
Piscator all'interno di un collettivo di un teatro di cui fanno parte anche Tucholsky, Kisch e altri. Il 2 novembre divorzia
da Marianne Zoff. Nel 1928 scrisse la commedia L'Opera da tre soldi su musica di Kurt Weill che va in scena il 31
agosto e che divenne il maggior successo teatrale della Repubblica di Weimar.
Nel 1929 sposa, in aprile, Helene Weigel. Il 1 maggio assiste ad una manifestazione di operai che vengono maltrattati
dalla polizia tedesca.
Nel 1930 andò in scena la commedia Ascesa e caduta della città di Mahagonny. Scrisse il dramma didattico La linea di
condotta, dove Brecht ormai mette in scena tematiche marxiste. Scrive il dramma Santa Giovanna dei Macelli e il
dramma didattico L'eccezione e la regola. Scrisse, anche, il dramma didattico Il consenziente. A ottobre gli nasce la
seconda figlia, Barbara.
Nel 1931 terminò la sceneggiatura del film Kule Wampe e scrisse il dramma La madre.
Nel 1932 Brecht andò a Mosca per la rappresentazione di Kule Wampe. Da novembre con Doblin, Brecht frequentò un
ciclo di otto lezioni sul marxismo tenute dal filosofo Karl Korsch. Tiene discussioni con Korsch anche a casa sua per
approfondire la dialettica materialistica. Scrisse la commedia Teste tonde e teste a punta. Conobbe Margarete Steffin
(Grete).
All'inizio del 1933 la rappresentazione di Linea di condotta (Maßnahme) venne interrotta da un'irruzione della
polizia e i produttori vennero accusati di alto tradimento. Il 28 febbraio, giorno successivo al rogo del Reichstag,
Brecht, insieme alla moglie, il figlio Stefan ed alcuni amici, abbandonò Berlino. Egli al momento dell'avvento al potere
di Hitler, si trovava ricoverato all'ospedale, senza neanche passare da casa sua, egli fece le valigie e dall'ospedale fuggì
a Praga, poi successivamente a Vienna, Zurigo, poi a giugno a Parigi, dove andava in scena il balletto I sette peccati
capitali. Lì venne raggiunto anche da Margarete Steffin. L'amica Karin Michaelis invitò la Weigel a trasferirsi a
Skovsbostrand presso Svendborg in Danimarca dove rimase per cinque anni. Nel maggio dello stesso anno i suoi libri
vennero messi al rogo.
L'esilio fu molto duro anche se in quegli anni produsse le sue opere più note. Viaggiò molto a Parigi, Londra e New
York per rappresentare i suoi testi teatrali. Scrisse numerosi articoli su giornali per rifugiati ed emigranti di Praga,
Parigi ed Amsterdam. Ritornò a Parigi, incontrò Margerete Steffin e si mise d'accordo con l'editore Willy Munzberg per
pubblicare una raccolta di poesie Canzoni, poesie, cori (Lieder, Gedichte, Chore) che sarà pubblicata l'anno seguente.
In autunno l'attrice danese Ruth Berlau andò a conoscere Brecht per invitarlo a una lettura nella capitale danese. A
dicembre Brecht si trasferì nella casa di Svendborg dove arrivò anche Margerete Steffin.
Nel 1934 pubblicò il Romanzo da tre soldi, scrisse il dramma didattico Gli Orazi e i Curiazi. Scrisse anche il breve
saggio Cinque difficoltà per scrivere la verità. Nel 1935 partecipò a Parigi al Congresso internazionale degli scrittori
antifascisti, dove lesse un suo testo per la difesa della cultura e contro il nazismo. Nel 1936 diresse una rivista
pubblicata a Mosca La parola. Nel 1937 scrisse il dramma I fucili di Madre Carrar. Nel 1938 scrisse il dramma
Terrore e miseria del terzo Reich.
Nel 1939 fuggì dalla Danimarca e si recò a Stoccolma in una fattoria nell'isola di Lidingo. Pubblicò il libro di
poesie Poesie di Svendborg. Scrisse la tragedia Madre Coraggio e i suoi figli. A questo periodo risale anche Vita di
Galileo. Nel 1940 fuggì dalla Svezia e andò in Finlandia. Scrisse il dramma La resistibile ascesa di Arturo Ui, ultima
opera scritta in collaborazione con Margerete Staffin. Nel 1941 fuggì dalla Finlandia per recarsi a Mosca dove il 30
maggio morì Margarete Steffin. Attraversò la Russia, imbarcandosi a Vladivostok per stabilirsi in California. Per cinque
anni abitò a Santa Monica, non lontano da Hollywood. Il suo tentativo di entrare nel mondo del cinema non ebbe
successo per cui si limitò ad organizzare alcune rappresentazioni teatrali per piccoli teatri.
In seguito decise di concentrare la sua attenzione sulle sue opere maggiori. Il 9 settembre 1943 a Zurigo esordì Vita di
Galileo.
Tra il 1942 e il 1945 scrisse il dramma Le visioni di Simona Machard e il dramma Schweyk nella seconda guerra
mondiale. Nel 1946 scrisse la seconda redazione della Vita di Galileo.
Accusato di avere opinioni comuniste, il 30 ottobre 1947 fu interrogato dallo House Committee on Un-american
Activities di cui riportiamo un breve estratto dei verbali:
Stripling: Mr Brecht, would you mind stating your personal particulars, your name, address, birth date and place etc.
to put on record?
Brecht: My name is...
Stripling: Speak in the microphone, please.
Brecht: My name is Bertolt Brecht.
Stripling: Spell your name, please.
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Brecht: spells BERTOLT BRECHT.
Stripling: Where do you live?
Brecht: I live number 34 Seventy-third Street West, New York.
Stripling: Where were you born?
Brecht: I was born in Augsburg, Germany, the 10th of February 1898.
Stripling: The Committee has… Could you repeat your birth date?
Brecht: February 10 1898.
Stripling: 1898?
Brecht: 1898.
Stripling: I think particulars from the immigration office state it was 1888.
Brecht: I beg your pardon?
Stripling: I need to check whether details from the Immigration Office are correct…
Brecht: I was born in 1898.
Stripling: Mr Brecht, do you wish to use an interpreter?
Brecht: Yes, I would like an interpreter.
Stripling: Call the interpreter.
Stripling: Mr Baumgardt, do you swear you will diligently, and with exactitude, translate all of the questions that
witness Bertolt Brecht will be asked, and that you will equally diligently and with exactitude translate all of his anwers;
will you swear this unto God?
Baumgardt: Unto God.
Stripling: You may take a seat.
Il giorno successivo, durante la prima di Vita di Galileo a New York, fuggì a Zurigo, dove rimase per un anno
(l'ingresso in Germania gli fu proibito) e mise in scena Antigone di Sofocle tragedia da lui scritta e ispirata a quella
sofoclea. Tre anni dopo ottenne la cittadinanza austriaca.
Nel 1948 ritornò a Berlino Est insieme alla moglie, Helene Weigel, dove fondò il teatro Berliner Ensemble che diventò
una delle più importanti compagnie teatrali europea e si dedicò soprattutto alla attività di regista. Completò il dramma I
giorni della Comune.
Nel 1953 assistette all'insurrezione degli operai di Berlino e scrisse una lettera in cui difendeva il partito
comunista. Scrisse le poesie Elegie di Buckow. In realtà furono pubblicati, della sua lettera, solo i passaggi
relativi all'appoggio dato al Partito,e la propria dichiarazione di lealtà, mentre nella sostanza il documento era
fortemente critico nei confronti della repressione del movimento operaio.
Gli anni successivi lo videro impegnarsi molto per il teatro. Alcune rappresentazioni in città europee gli crearono delle
tensioni con i vertici del partito SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands). Alcuni suoi pezzi teatrali furono
rifiutati.
Nel 1956 Brecht era da tempo in cattive condizioni di salute. All'inizio di maggio s’ era fatto ricoverare all'Ospedale
della Charitè per curare i postumi di un'influenza da virus. Morì il 14 agosto a causa di un infarto cardiaco. Alla sera,
alle sei, perse conoscenza, poco prima di mezzanotte morì.
Secondo la sua volontà, Brecht fu seppellito senza cerimonie nel cimitero di Dorotheenstädtischer Friedhof in
Chausseestrasse, che si scorgeva dalle finestre della sua abitazione dove viveva da separato in casa con la moglie. Là
giace in un angolo adiacente la strada, di fronte alle tombe di Hegel e di Fichte, sotto una pietra dai contorni irregolari,
che porta incise soltanto le lettere del suo nome: Bertolt Brecht.
Il 17 agosto alle nove del mattino ebbero luogo i funerali in forma strettamente privata. La famiglia, i collaboratori più
stretti, come pure gli amici Hanna Eisler, Erich Engel, J. Becher accompagnarono il feretro alla tomba. Accanto alla
tomba di Brecht ora riposano le persone che gli hanno voluto bene e che hanno lavorato con lui: la moglie Helene
Weigel, Elisabeth Hauptmann, Ruth Berlau, Kurt Engel, Gaspar Neher.
LE OPERE
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Baal (1919) - Scritto nel 1919 ma rappresentato per la prima volta a Lipsia nel 1923
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Im Dickicht der Städte (1921) - La prima stesura fu del 1921 ma la prima rappresentazione ebbe luogo nel
1923 a Monaco di Baviera.
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Tamburi nella notte (Trommeln in der Nacht) (1922) - Viene rappresentato per la prima volta il 29 settembre
1922 a Monaco. La prima versione del pezzo si chiamava "Spartakus" in quanto ispirata dalla rivolta spartachista di
Berlino (5-12 gennaio 1919)
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Libro di devozioni domestiche (1927)
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L'Opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper) (1928) - La versione cinematografica seguirà nel 1931.
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Ascesa e caduta della città di Mahagonny (Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny) (1929) - Nel 1930 a Lipsia
la prima di quest'opera crea uno scandalo teatrale.
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Linea di condotta (Die Massnahme) (1930)
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L'eccezione e la regola (Die Ausnahme und die Regel) (1930)
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Santa Giovanna dei macelli (Die heilige Johanna der Schlachthöfe) (1930)
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La madre (Die Mutter) (1932)
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Canzoni, poesie, cori. (Lieder, Gedichte, Chore)(1934)
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Poesie di Svendborg (Svendborger Gedichte) (1934)
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(Die Gewehre der Frau Carrar) (1937) - La prima venne rappresentata a Parigi
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Terrore e miseria del Terzo Reich (Furcht und Elend des Dritten Reiches) (1935-38)
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Madre Coraggio e i suoi figli (Mutter Courage und ihre Kinder) (1939) - La prima viene rappresentata a
Zurigo nel 1941.
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L'anima buona di Sezuan (Der gute Mensch von Sezuan) 1938-40
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Poesie 1938 - 1941 (1938 - 1941)
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Raccolta Steffin (1938 - 1941)
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Il signor Puntila e il suo servo Matti (Herr Puntila und sein Knecht Matti) (1941) - La prima viene
rappresentata a Zurigo nel 1948.
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Vita di Galileo (Leben des Galilei) (1938-56) - Esistono tre versioni differenti di quest'opera. La prima è quella
danese, poi vi è quella americana (1945) infine quella berlinese (1956)
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La resistibile ascesa di Arturo Ui (Der aufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui) (1941)
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Il cerchio di gesso nel Caucaso (Der kaukasische Kreidekreis) (1944-45)
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Antigone (1948) Riduzione e adattamento dell'Antigone di Sofocle basata sulla traduzione che Friedrich
Hölderlin aveva realizzato nel 1804.
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Storie da calendario (Kalendergeschichten) (1949)
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Gli affari del signor Giulio Cesare (Die Geschäfte des Herrn Julius Cäsar)(1937-1939; pubblicato postumo).
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Scritti sulla letteratura e sull'arte (raccolta di saggi postumi).
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Scritti teatrali - Torino, G.Einaudi, 2001 (Trad. di E.Castellani, R.Fertonani, R.Mertens).
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Diario di lavoro a cura di W.Hecht (traduzione di B. Zagari) Torino, Einaudi, 1976 (Diario di lavoro 1: 19381942 e Diario di lavoro 2: 1942-1955 )
•
I capolavori, 3a edizione, a cura di Hellmut Riediger, traduzione di Emilio Castellani, Ruth Leiser, Franco
Fortini, Laura Pandolfi, Ginetta Pignolo e Nello Sàito, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2007. ISBN 9788806174279
Fonte: Wikipedia.it
Dici: «Per noi va male. Il buio
cresce. Le forze scemano.
Dopo che si è lavorato tanti anni
noi siamo ora in una condizione
più difficile di quando
si era appena cominciato.
E il nemico ci sta innanzi
più potente che mai.
Sembra gli siano cresciute le forze, ha preso
una apparenza invincibile.
E noi abbiamo commesso degli errori,
non si può più mentire.
Siamo sempre di meno. Le nostre
parole d'ordine sono confuse. Una parte
delle nostre parole
le ha stravolte il nemico fino a renderle
irriconoscibili.
Che cosa è ora falso di quel che abbiamo detto?
Qualcosa o tutto?
Su chi contiamo ancora?
Siamo dei sopravvissuti, respinti
via dalla corrente? Resteremo indietro, senza
comprendere più
nessuno e da nessuno compresi?
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O dobbiamo sperare soltanto
in un colpo di fortuna?»
Questo tu chiedi. Non aspettarti
nessuna risposta
oltre la tua.
“Meditate che questo è stato”
Primo Levi
Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
"Se questo è un uomo" è la poesia che fa da preludio all'omonimo libro. Qui, Primo Levi, racconta con estrema
forza la dura esperienza vissuta nei Lager. In "Se questo è un uomo" vengono raccontate le dure regole dei campi di
sterminio. "Considerate se questo è un uomo/Che lavora nel fango/Che non conosce pace/Che lotta per un pezzo di
pane/Che muore per un sì o per un no", ed i versi diventano ancora più forti se paragonati alla normalità descritta dal
Nostro: "Voi che vivete sicuri/Nelle vostre tiepide case,/voi che trovate tornando a sera/Il cibo caldo e visi amici" È una
poesia che offre anche uno spaccato di storia, facendo luce sui quello che avveniva nei Lager. Profonda è la riflessione
di Primo Levi, nel guardare alla condizione delle donne: "Considerate se questa è una donna,/Senza capelli e senza
nome/Senza più forza di ricordare/Vuoti gli occhi e freddo il grembo/Come una rana d'inverno." Il Nostro invita
poi a riflettere, anzi, a "meditare" affinché non venga dimenticato quello che è stato. Per Primo Levi è necessario
che ciò che di assurdo qualcuno ha commesso, non cada nell'oblio : "Vi raccomando, queste parole/ scolpitele nel
vostro cuore".
Primo Levi nacque a Torino il 31 luglio del 1919. La sua giovinezza fu caratterizzata da studi regolari e profonde
letture. Appartenne ad una famiglia ebraica, si laureò in chimica nel 1941, ottenendo il massimo dei voti. Il suo diploma
reca la menzione "di razza ebraica". Levi entrò nel Partito d'Azione clandestino. Il 25 luglio del 1943 cadde il governo
fascista Tuttavia, le forze armate tedesche occuparono il nord e centro Italia. Levi si unì ad un gruppo partigiano
operante in Val d'Aosta, ma venne arrestato. Fu poi deportato nel campo di sterminio di Auschwitz, dove vi rimase dal
febbraio 1944 al gennaio 1945. Per tutta la durata della permanenza nel Lager, Levi riuscì a non ammalarsi, eccezion
fatta per la scarlattina venutagli proprio quando nel gennaio 1945 i tedeschi, sotto 1'incombere delle truppe russe,
evacuarono il campo, abbandonando gli ammalati al loro destino. Nel giugno iniziò il viaggio di rimpatrio che durò
circa 5 mesi. Una volta a Torino trovò lavoro presso una fabbrica di vernici. Intanto, nacque "Se questo è un uomo". A
settembre del 1947 sposò Lucia Morpurgo, da cui ebbe due figli: Lisa, Lorenza e Renzo. Levi presentò il dattiloscritto
alla casa editrice Einaudi, che lo rifiutò. Il testo fu invece pubblicato dall'editore De Silvani di Torino. Il successo,
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all'inizio, fu scarso. Le cose cambiarono quando il libro uscì nella collana dei"Saggi" Enaudi. Nel 1963 , la stessa Casa
Editrice, pubblicò La tregua. Nel 1978, Primo Levi, diede vita a La chiave a stella, vincitore del premio Strega.
Nell'aprile del 1982 uscì Se non ora, quando?, con immediato successo. Primo Levi fu anche impegnato in attività
giornalistiche. Nell'aprile del 1986 pubblicò I sommersi e i salvati, ritornando così sulla traumatica esperienza dei
Lager. Morì a Torino l'11 aprile del 1987.
Ringraziamo vivamente la Fonte: Netverbum.it, rubrica a cura di Maria Antonietta Izzinosa
Elie Wiesel
( tratto da La notte. Wiesel fu rinchiuso ad Auschwitz all'età di 15 anni )
Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte
sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un
cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del
deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso.
Mai.
la Giornalisti Specializzati Associati – Milano
Gli albori del tango
"Il tango è un pensiero triste che si balla"
(Anibal Troilo “Pichuco”)
Così si dice nella tradizione porteña. E’ un ballo basato sull'improvvisazione, caratterizzato da
eleganza e passionalità. Il passo base del tango è il passo in sé, dove per passo s'intende il normale passo di una
camminata. Essendo ballo d’ improvvisazione, in pista non esiste l'idea di sequenze di passi predefinite, e sta alla
fantasia dei ballerini costruire come in un dialogo il proprio ballo.
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La posizione di ballo è un abbraccio frontale asimmetrico in cui l'uomo con la destra cinge la schiena della propria
ballerina e con la sinistra le tiene la mano, creando quindi una maggiore distanza tra la spalla sinistra dell'uomo e la
destra della donna.
Poche regole semplici dettano i limiti dell'improvvisazione: l'uomo guida, la donna segue.
Fondamentalmente è l'uomo che chiede con un linguaggio puramente corporeo alla propria ballerina di
spostarsi. Tuttavia, per motivi didattici sono state introdotte delle sequenze con passi predefiniti, come la Salida
basica.
Il termine "tango" iniziò a diffondersi a Buenos Aires verso il 1820, riferito ad un tipo di percussione usata dagli
afromaericani. Può sembrare una forzatura associare questo significato con la danza che, sebbene almeno in apparenza
porti lo stesso nome, si diffuse sessant'anni dopo.
Ecco il perchè.
Nell'800 Buenos Aires è la città dove "far fortuna". Nonostante la durezza dei lavori disponibili, data la grande
disponibilità di manodopera, i salari erano piuttosto miseri. Famiglie di Italiani, Francesi, Ungheresi, Ebrei e Slavi, cui
presto si unirono schiavi liberati e Argentini della seconda e terza generazione, provenienti dalle pampas, convivevano
in squallidi appartamenti in quartieri costruiti dal nulla, detti "Orilla", creando una miscela unica e irripetibile di
tradizioni etniche e culturali che è diventata l'ingrediente magico di un processo creativo.
Nei vicoli dell'Orilla, i nuovi Argentini condividevano un destino di disillusione disperazione, da cui ben presto
emerse una speranza comune rappresentata da una volontà di fuga, sia pure soltanto momentanea,
dall'oppressione, sentimento forte espresso in canzoni, cantate in "Lunfardo", il dialetto degli emarginati, sorta
di lingua comune fortemente influenzata dal Francese e dall'Italiano. Le canzoni cantavano la tristezza delle
persone, ma anche la loro felicità e le loro gioie. Cantavano la nostalgia e la distanza, ma anche le speranze e le
aspirazioni. Cantavano la solitudine, ma anche la lealtà e la fratellanza nell'avversità. La canzone, come in tante altre
parti del mondo, divenne la consolazione in musica dell'uomo. E la canzone richiede come suo completamento
espressivo la danza ed è così che nel vicoli di Buenos Aires, è nato il tango.
La gente della pampa, i Gauchos, portano la Payada, un'antica forma di poesia popolare caratteristica delle feste di
paese: il Payador improvvisa sei versi endecasillabi, seguiti da un caratteristico stacco di chitarra. Intorno al 1870 la
payada si evolve e ad essa si unisce il ballo: è la Habanera, danza spagnola diffusasi a Cuba e portata dai marinai fino
alle due sponde del Rio della Plata, che si diffonde ma immediatamente si trasforma, assumendo l'andamento
caratteristico e insolito di una camminata in cui l'uomo avanza e la donna indietreggia. Nasce così la Milonga(che in
Spagnolo significa festa), e milonguear significa passare la notte alternando canto e ballo.
Dal porto di Buenos Aires arriva anche il Candombè, danza caratteristica dei neri (che avevano abitato un piccolo
borgo nella parte vecchia prima di scomparire decimati dalla febbre gialla), in cui le coppie ballano separate ma molto
vicine, abbandonandosi a sensuali movimenti pelvici.
Sono gli ingredienti che si fondono nel tango.
Il '900: sviluppi e tendenze
A partire dal 1900, quando il tango comincia a entrare nei teatri e nei caffè, si impone il trio bandoneòn-violinopianoforte. Mentre il genere si evolve e l'orchestrazione diviene più ricca, negli anni '10 al trio si sostituisce sul palco il
sexteto tipico: due bandoneònes, 2 violini, pianoforte, contrabbasso. Cominciano così a dedicarsi al tango strumentisti e
direttori sempre più colti musicalmente, quasi sempre italiani.
Il tango divenne intenso, drammatico, malinconico. Il giro di bassi cadenzava la situazione di inerzia impotente che si
rivelava agli occhi di quei suonatori del "ghetto" mentre la melodia traduceva le emozioni di coloro che la canzone
cantava. La lotta per superare l'inerzia delle circostanze e la bramosia di una nuova libertà si trasferivano
prepotentemente nella musica del tango, come lava eruttata da un vulcano. Un famoso tango di Canaro e Mores, "Adios
Pampa Mia", esprime perfettamente questo stato d'animo.
I parolieri descrivevano una visione fatalistica delle loro sfortunate condizioni sociali, cui spesso associavano la
vergogna di deludere e tradire la loro classe sociale, la famiglia, gli amici e la nostalgia per i tempi perduti e gli
amori sfuggiti. Il tango divenne così, quasi automaticamente, una metafora della vita stessa. Discepolo, uno dei primi
compositori di tango, disse:"Il tango è un pensiero triste espresso in forma di danza". Ma il tango non è solo un
pensiero, è un'emozione, una sensazione, un enigma. E' una danza non solo del momento, ma della potenzialità del
momento. E' la danza con centinaia di segreti, migliaia di ombre, milioni di misteri. E' la danza della velatura azzurrina
della nebbia e dello sfavillio del riflesso delle luci dei lampioni sui mosaici di petra delle strade; è la danza di uno
sguardo scambiato, di uno stiletto in una mano invisibile.
Il Tango univa la sua persone e divenne quasi un inno alle loro aspirazioni. Leone Tolstoi, il grande scrittore russo,
descrisse il tango come l'"inno di morte" del capitalismo. Essendosi attirato addosso la disapprovazione delle autorità
costituite, il tango divenne una forma di espressione underground.
L'adolescenza del Tango era passata nelle osterie e nei bordelli di Buenos Aires. Gli adepti si incontravano in oscuri
bar per bere, suonando e ballando in angoli scarsamente illuminati. La sensualità e l'eroticità del Tango fecero ben
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presto nascere l'identificazione fra la capacità di ballarlo bene e la mascolinità e il machismo. Gli uomini si insegnavano
trucchi e segreti l'uno con l'altro, esercitandosi fra di loro prima di mostrare la propria abilità per attrarre e sedurre le
ragazze nei bordelli. Jorge Luis Borges, il grande scrittore sudamericano, così esprimeva questo concetto: "Nessuno può
dire in quale città il tango sia nato, Buenos Aires, Rosario o Montevideo, ma tutti sanno in quale via - la via delle
prostitute".
La Legge per il suffragio universale del 1912 condusse ad una maggiore integrazione delle classi popolarie il
tango conquistò una nuova libertà. Ma nonostante lo si potesse nuovamente danzare alla luce del sole, il tango
aveva ormai acquisito il sapore di un frutto proibito. Ognuno voleva ballare. Ognuno voleva essere visto ballare.
Era diventato più popolare di prima, aveva conquistato l'alta società, per cui vennero organizzate feste di tango e aperte
sale da ballo per soddisfare la crescente domanda e la sua fama ben presto varcò i confini del Sud America. Nel 1911,
mentre a Londra George Grossmith e Phyllis Dare si esibivano al Gaiety Theatre, nella New York Revue per la prima
volta negli Stati Uniti si sentiva parlare del tango. A partire dal 1912, i due danzatori americani Irene e Vernon Castle
ballarono una loro personale reinterpretazione del ballo e in Europa il tango furoreggiava nei Tango Café e nelle Tango
Tea Rooms. Le caratteristiche audaci del tango ovviamente fecero in modo che non venisse approvato da tutti. Nel
1913, il teologo americano Campbell Morgan espresse una curiosa ipotesi insinuando che il tango fosse la conferma
della teoria di Darwin, ovvero della discendenza dell'uomo dalla scimmia. Contemporaneamente, in Europa,
l'Arcivescovo di Parigi, il Cardinale Amette, dichiarava che "I Cristiani non dovrebbero in buona coscienza prendere
parte al tango". L'anno successivo, lo stesso Papa Benedetto XV si scagliò veementemente contro il tango, "è
oltraggioso che questo ballo indecente e pagano, un assassinio della famiglia e della vita sociale, sia anche ballato nella
residenza papale!". Il tango si diffuse in tutta Europa, causando problemi ovunque veniva danzato. Nel 1914, il Kaiser
Guglielmo II proibì ai suoi ufficiali di ballare il tango in uniforme considerandolo lascivo e contrario alla pubblica
decenza. Il capò della polizia di Monaco di Baviera bandì il tango una volta per tutte alle festività primaverili,
sostenendo che "... ha molto più a vedere con la stimolazione sensuale ed erotica che con la danza".
Canzoni celebri e grandi geni del tango
Uno dei più famosi tanghi è "La Cumparsita" di Gerardo Matos Rodriguez, scritta nel 1916, che descrive una piccola
banda o processione di strada come quelle che si vedono durante il periodo di carnevale.
Un altro famoso tango è "El Choclo", di Angel Villoldo, composto nel 1905. In Sspagnolo "choclo" significa
pannocchia di granoturco, ma nel gergo colloquiale sta ad indicare anche una parte dell'anatomia maschile. In questo
caso, però, molto probabilmente "El Choclo" era il soprannome di un amico di Villoldo, così soprannominato per il
particolare colore dei suoi capelli.
"Caminito" di Filiberto, 1926, è invece dedicata a un vicolo del quartiere portuale di Buenos Aires, La Boca, dove
approdavano gli immigrati. Nonostante i vent'anni che separano la composizione di questi tanghi, tutti e tre raccontano
di uomini traditi dalle donne che amavano.
"A Media Luz" del 1925, composta da Edgardo Donado, ritrae la visione nostalgica di una camera col sottofondo
musicale di un grammofono che suona vecchi tanghi della gioventù del cantante vicino ad una tavola perennemente
apparecchiata in attesa del ritorno della donna amata. Rodolfo Valentino nel film "I quattro cavalieri dell'apocalisse"
rese popolare una versione piuttosto melodrammatica e teatrale del tango, ma il più grande impulso alla sua diffusione
venne da Carlos Gardel. Figlio di una stiratrice di origine francese che era emigrata in Argentina, Gardel crebbe con il
tango e ne condivise le umili origini. La prima partitura di tango fu pubblicata nel 1888, contemporaneamente alla
nascita di Gardel. Famoso, di bell'aspetto, popolarissimo cantante di tanghi, compositore e stella cinematografica,
Gardel divenne ben presto popolarissimo in Argentina. Nel 1930 l'esercito prese il potere e la gente perse la libertà
politica e il diritto di voto. Il tango, la voce del popolo, fu ridotto al silenzio. Gardel emigrò da Buenos Aires a Parigi
seducendola prima di essere tragicamente ucciso, vittima di un disastro aereo, a Medellin in Colombia. E ancora oggi la
sua tomba, al cimitero Chacarita di Buenos Aires, è meta di pellegrinaggi.
Negli anni Trenta, George Raft, che mostrava alcune delle autentiche emozioni del tango, colpì l'immaginazione di
milioni di spettatori cinematografici. Il ballo che George Bernard Shaw considerava "...essere l'unica danza sociale
moderna che è riduttivo chiamare un ballo" era entrato nella fase della sua maturità.
I MUSICISTI ITALIANI
Julio De Caro (1899-1989), assieme al fratello Francisco, viene cacciato di casa dal padre, originario di Milano e
insegnante di conservatorio, alla notizia che i due hanno tradito la musica classica per suonare tanghi nell'orchestra di
Arolas. I due fratelli porteranno nel tango degli anni '20 una straordinaria inventiva, che si esprime in contrasti
dinamici, fantasie contrappuntistiche, brillanti trovate esecutive: glissandi, effetto chicharra ("cicala - sfregando le corde
del violino dietro il ponticello), effetto lija ("carta vetrata"), fischi, risate.
Francisco Canaro (1880-1964) introduce l'uso dell' estabillista (un cantante che interviene solo nel ritornello)
preferendo un modello di esecuzione che non è ne' semplicemente strumentale, ne' pienamente vocale. Tipico l'effetto
canyengue, ideato dal contrabbassista Leopoldo Thompson, ottenuto battendo con l'archetto o con la mano sulle corde
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dello strumento.
Juan D'Arienzo (1900-1976) sviluppa un ritmo molto ballabile, quasi ossessivamente metronomico, alternando pause a
strappate simili a colpi di frusta o di zappa.
Carlos Di Sarli (1900-1960) valorizza gli archi, usa fraseggi melodici che valorizzano spesso l' unisono e ritmi
articolati su contrasti legato-staccato.
Osvaldo Pugliese (1905-1995) si distingue per ardite tessiture armoniche e una accentuata poliritmìa, ossia una
particolare forma di canyengue da lui stesso chiamata la yumba.
ASTOR IL RIVOLUZIONARIO
La sua opera, che comprende più di 1000 composizioni, continua ad influenzare i migliori musicisti del mondo di ogni
generazione; per citarne solo alcuni Gidon Kremer, il violoncellista Yo-Yo-Ma, il Kronos Quartet, i pianisti Emanuel
Ax e Arthur Moreira Lima, il chitarrista Al Di Meola, gli Assad brothers, e numerose orchestre sinfoniche e da camera.
Il suo è uno stile unico, ribelle
Ringraziamo la Fonte: tangoargentino.altervista.org / Wikipedia It
Poesie e Parole del Tango
All'inizio le parole del Tango erano in generale comiche. Erano normalmente scritte in prima persona e descrivevano
alcune delle caratteristiche salienti del personaggio principale. Man mano che la popolarità del tango cresceva sia a
Parigi che nel resto del mondo ed il mercato del tango si espandeva anche tra le classi medie dell'Argentina anche le
parole e, non solo la musica, iniziavano a cambiare.
Dal 1917 in poi, un nuovo tipo di parole cominciò ad essere scritto. Molti dei più celebri poeti argentini e uruguaiani
scrissero per il tango. E visto che le parole migliorarono in qualità, questo fu il periodo in cui iniziarono a comparire
molti tra i più famosi cantanti di tango che avrebbero dominato il panorama.
Con lo sviluppo del tango come forma strumentale, anche la forma della canzone del tango iniziò a guadagnare
sempre più popolarità intorno alla metà degli anni venti. Molti dei primi tanghi con parole sono stati inclusi nel
sainete, una forma di teatro popolare. I cantanti, sia uomini che donne, adattarono questa forma e la inserirono
nei loro repertori, con l'accompagnamento delle chitarre. Tra i cantanti di tango più famosi di questa generazione si
trovano i nomi di Agustín Magaldi (1901-1938), Azucena Maizani (1902-?), Rosita Quiroga (1901-1984), Mercedes
Simone (1904-?) e Libertad Lamarque (1909-1999).
Carlos Gardel è nato l'11 Dicembre 1890 a Tolosa, Francia. Si è trasferito con sua madre in Argentina quando aveva
appena 27 mesi. La sua carriera finì il 24 giugno 1935 quando perse la vita in seguito ad un tragico incidente aereo che
avvenne a Medellin, in Colombia. Registrò centinaia di canzoni e creò alcune tra le più belle interpretazioni di classici
come Volvió una Noche, El Día que me Quieras, Tomo y Obligo, Madreselva e Mi Buenos Aires Querido. Diventò
molto famoso nell'America Latina e parte del suo successo era dovuta alla sua continua presenza alla radio e alla
televisone. Anche gli anni quaranta registrano una nuova crescita della canzone che diede origine a una nuova
generazione di cantanti, tra i più famosi citiamo: Roberto Goyenche (1926-1994), Alberto Podesta (1924- ), Francisco
Fiorentino (1905-1955), Alberto Castillo (1914- ) e Ángel Vargas (1904-1959).
Tra gli autori più famosi Santos Discepolo, Homero Manzi (1907-1951), Catulo Castillo (1906-1975), Homero
Expósito (1918-?) e Enrique Cadicamo (1900- ?). Il contenuto delle loro canzoni andava oltre la tematica tradizionale
dell' amore e della delusione d'amore, loro creavano dei veri e propri ritratti di vita.... Tra i centinaia di titoli disponibili
è necessario menzionare almeno i seguenti “Uno” (Discepolo, com música de Mariano Mores), “Sur” (ManziTroilo), “La última curda” (Castillo-Troilo), “Malena” (Manzi-Demare) e “Los mareados” (Cadicamo-Cobian).
El Dia Que Me Quieras
Acaricia mi ensueño
el suave murmullo de tu suspirar.
Como rie la vida
si tus ojos negros me quieren mirar.
Y si es mio el amparo
de tu risa leve
que es como un cantar,
ella aquieta mi herida,
todo todo se olvida.
El día que me quieras
la rosa que engalana,
se vestirá de fiesta
con su mejor color.
Y al viento las campanas
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dirán que ya eres mía,
y locas las fontanas
se contaran su amor.
La noche que me quieras
desde el azul del cielo,
las estrellas celosas
nos mirarán pasar.
Y un rayo misterioso
hara nido en tu pelo,
luciernaga curiosa que veras
que eres mi consuelo.
El día que me quieras
no habra más que armonía.
Será clara la aurora
y alegre el manantial.
Traerá quieta la brisa
rumor de melodía.
Y nos daran las fuentes
su canto de cristal.
El día que me quieras
endulzara sus cuerdas
el pajaro cantor.
Florecerá la vida
no existira el dolor
La noche que me quieras
desde el azul del cielo,
las estrellas celosas
nos mirarán pasar.
Y un rayo misterios
hará nido en tu pelo.
Luciernaga curiosa que veras
que eres mi consuelo
Dimitri Ruggeri
Cluster Bombs
Sono come coriandoli:
cadono su maschere bianche.
E’ un aratro che scava la terra:
ferita di guerra!
E’ un nero che cade sul grano.
E’ privazione di terra.
E’ privazione di fame.
(cadono coriandoli)
Maschere sinistre decapitano
i loro boia a colpi di pala,
piccone e vanga:
ferita di guerra!
Adora la terra!
Sui tuoi altari inesplosi!
Benedici Dio tuo.
Nascosto tra maschere.
Ne avrà bisogno anche Lui.
La carne è rigonfia e sradicata.
E’ l’ora del Carnevale.
E’ l’ora delle Maschere,
sinistre,
solo sinistre;
quelle che sognavi da bambino
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quando nel letto inumidito
ti nascondevi.
(Al Libano e al suo Carnevale)
Menzione speciale Giuria al Premio Europeo di Poesia Wilde - [email protected]
Ermanno Eandi
Siamo sensibili
Siamo sensibili,
il vetriolo del mondo attuale
non deturperà la nostra fantasia.
Siamo sensibili,
orologi rallentati
sfiorano i nostri animi giocondi,
acquistiamo minuti indispensabili
con la moneta dell’irrazionalità.
Siamo sensibili,
non indosseremo mai
abiti d’apparenza,
scoperchieremo
tombe mnemoniche
inesplorate.
Siamo insensibili,
al disprezzo dei non volanti,
alla tortura della nostra ineguaglianza,
al possesso smisurato
di alambicchi posticci.
Siamo inutili,
le vostre necessità
svaniscono nell’eterno.
Anche se calpestate
il nostro cipiglio brumoso,
e calpestate ogni giorno
la nostra incoerente duttilità;
Noi,
con l’orgoglio di saper piangere
e l’angoscia di guadare
luoghi irraggiungibili
vi rammenteremo che...
...siamo sensibili.
Ermanno Eandi (Torino 1963). Poeta, Giornalista, scrittore. Numerosi gli eventi
culturali internazionali che l’hanno visto protagonista. È iscritto alla SIAE come autore della parte letteraria delle canzoni.Collabora
con diversi quotidiani nazionali. Ogni settimana appare una sua poesia dedicata a Torino nella rubrica “Torino in versi”, sul
quotidiano “Torino Cronaca Qui”. Ha pubblicato, inoltre: Il Pazzo della Mole (1994);“Particelle d’Ipertensione” (1995); “Esso”
dialogo con un pronome (1996); “Sportiamoci in versi” antologia di poesia sportiva (Bradipolibri edizione 2003, 2004, 2005);
“Dove osano i granata” (Bradipolibri 2004); "Segnali di vita dal pianeta Sedna" antologia poetica con i detenuti della Casa
Circondariale di Asti (Colibrì 2005); “Il Toro Siamo Noi” ( edizioni Toronews 2006). Info: http://www.eandiermanno.it
Alfonsina Storni
Argentina
Novembre stava spegnendosi quando ti
incontrai. Il cielo era azzurro e gli alberi di un
verde acceso. Mi ero addormentata a lungo,
stanca d’aspettarti, credendo che non saresti mai
arrivato. Dicevo a tutti: guardate il mio petto, lo
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vedete?, il mio cuore è livido, morto, rigido. Ed
oggi dico: guarda il mio petto: come il mio cuore
è infuocato, vigoroso, meravigliato.
Chi é colui che amo? Non lo saprete mai. Mi
scruterete gli occhi per scoprirlo e non vedrete
mai il fulgore dell’estasi. Io lo imprigionerò
perché mai sappiate immaginare chi ho dentro il
mio cuore, e lì lo cullerò, silenziosamente, ora
dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Vi darò i miei canti, ma non il suo nome. Lui
vive in me come un morto nella sua tomba, tutto
mio, lontano dalla curiosità, dall’indifferenza,
dalla malvagità.
LUCIANO SOMMA
Il tuo sorriso
Ovunque andrò
quasiasi cosa
possa accadere
lungo il corso
della mia esistenza
non potrò staccarmi
dall'immagine nitida
che ho nel mio cuore
del tuo sorriso
non è possibile
trovare un'altra
che possa sorridermi
come facevi tu
in quelle ore fantastiche
dove sogno e realtà
formavano un connubio
confidavamo i nostri desideri
le nostre ansie le nostre aspirazioni
tutto è legato a quei momenti
ogni attimo ogni gesto
ogni suono ogni parola
ed è per questo
che ovunque andrò
ti vedrò accanto
YOUR SMILE
(Traduzione di Pamela Franz Allegretto)
Wherever I go/ anything/ can happen/ along the course/ of my existence/
I can't rid myself/ of the sharp image/ that I have in my heart/ of you smile/
it's not possible/ to find another/ that can smile at me/ like you did/ in those unearthly hours/
where dream is reality/ a marriage was formed/ we confided our desires/ our anxieties our dreams/
everything is bound to those moments/ every instant every gesture/ every sound/ every word/
and it is for this/ that wherever I go/ I'll see you at my side.
da LA MIA RICCHEZZA- Ed.L'Araldo del Sud- Napoli- 1971 eda L'ALBA DI DOMANI Ed.NOIALTRI- Pellegrino(Messina)Febbraio 2005
-http://www.partecipiamo.it/Poesie/Luciano_Somma/1.htm
http://www.scolastica2000.it/MUSICALMENTE/somma/somma.htm
Salvatore Maresca Serra
E’ questo segno
E’ questo segno, muto e lacerato,
antico eppure nascente,
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urlante sotto la pelle risarcita dai giorni
tutto il suo dolore e la sua gioia.
E’ questo segno,
tormentato dalle lunghe orazioni,
e scarno di peccato,
debitore e creditore della tua grazia.
Ignoto a se stesso e ignaro.
Scavato dall’essenza del suo nulla.
Operoso, instancabile, tremendo:
che fissa il mio sguardo senza pietà alcuna.
E senza alcun rancore.
Che mi ricorda il nome ignoto delle cose,
le vanità perdute nel gioco,
le saggezze noiose degli adulti.
E’ lui, questo Prometeo,
ladro di fuochi che brillarono,
solo nell’ore dell’attesa.
Quando invecchiai sognando d’essere ancora feto.
E’ questo segno,
che pullula d’immortali finzioni,
di nomi che rubai al destino,
di storie sofferte e gioite che mai vissi.
In fondo a quella strada,
asfaltata di derisioni
e percorsa da mille ruote,
e così, battuta da mille meretrici che vissero in me.
ANNA BAITON
Storie scritte di donne dl nuovo millennio
ancora abbracciate alle canzoni d'amore.
Piccole e grandi veneri che vivono solocon le forti emozoni
e tradiscono cercando nuove illusioni.
Donne che non hanno più tempo per fare l'amore
con giorni per loro senza ore.
La domenica con elmetto e bastone
o con una medaglia appesa al collo per una forte passione.
Nel nuovo millennio rapite,tradite, ancora schiave
privato il loro cuore della chiave.
Vestite di niente con lunghe gambe
abbracciate ad un palo per provocare e pensare di avere.
Coperto il corpo, nascosti i capelli,senza trucco
per impedire sogni impossibili e belli.
Donne che ormai vivono davanti ad un televisore
con i battiti impazziti del cuore.
Luminose come luna e stelle
leggere nel tener per mano delle piccole ombre nere.
Chat, messaggi, ore ed ore
per scoprire con amarezza inutili viaggi.
Donne di tanti colori
donne che fanno vivere esclusivi amori.
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IL RACCOLTO DELLE PATATE
Adriana Alarco de Zadra / Bolivia
Non posso alzarmi. Tremo di freddo anche se il mio corpo é caldo per la febbre. L’esaurimento che ho da qualche
settimana non migliora ed ogni giorno sono più debole. Giuseppe vuole che vada in campagna per il raccolto ma oggi
non ne ho proprio le forze.
María, mi dice, dai, muoviti… come finiremo di riempire i sacchi di patate da vendere se te ne stai cosí oziosa... e lo
sai che vengono a prenderli più tardi. Non posso fare tutto io, anche se chiamo i miei fratelli ad aiutarmi. Sei una
fannullona. ¡Alzati! Non mi servi più!
Ma non è vero. Lavoro duramente quando me lo chiede, anche se mi manda i fratelli al materasso, all’imbrunire, e non
posso riposare tutta la notte. Ma dice che mi vuole bene. Vuole aver un figlio e chiamarlo Gesù, per formare una Sacra
Famiglia, ma io prendo delle erbe per non restare incinta, se no come potrei aiutarlo in campagna? Meno male che lui
questo non lo sa.
‘Le donne che appartengono ad una famiglia lavorano per i loro uomini nel campo di giorno ed aprono le gambe
la sera’, ripete sempre Giuseppe.
Sará cosí come la mia, la vita di altre donne? Scavare, aprire i solchi, seminare, pulire i canaletti, raccogliere,
riempire i sacchi, vendere, cucinare la minestra, preparare i formaggi con latte di capra, pulire, lavare, soddisfare gli
uomini della famiglia. Le piantagioni più vicine sono assai lontane e, a parte i mercanti, non abbiamo altri visite. Di
giorno mastico la coca e di notte fumo marihuana per poter resistere. Forse é quella la ragione che alle volte non penso
bene e non so cosa rispondere a Giuseppe o ai suoi fratelli. Non mi sono mai negata prima a fare i lavori che mi
impongono, perché non mi picchiano e mangio bene. Ma oggi sto proprio male. Tremo tanto che le tavole su cui sono
sdraiata rimbombano contro la branda.
Vedo dal mio angolo che è arrivata una persona alla porta della capanna. Non so se è un mercante che viene a prendere
le patate, ma da come si comporta capisco presto che deve essere un medico. Mi esamina, mi osserva, mi fa delle
domande. Che se ho avuto figli, o malattie o se ho sanguinato. Se mi porta all’ospedale potrò curarmi presto.
È malconcia, dice il visitatore. Non posso darti più monete di quelle che hai già avuto.
Vedo che Giuseppe mette i soldi in una scatola ed è molto di più di quello che lo pagano per le patate. Tra i due mi
caricano sul camion e mi accomodano fra le borse piene di tubercoli della raccolta della settimana. Non hanno potuto
riempire più sacchi senza il mio aiuto, allora formo parte io della transazione. Mi porteranno ad un ospedale che non so
se è molto lontano e lo chiamano postribolo. Spero che sia meglio del mio giaciglio e che mi assistano bene.
Preparati ad aprire le gambe e tirar fuori la lingua dice il dottore, mentre io tremo come una foglia per la febbre e mi
raggomitolo sul fondo del camion, coprendomi con un sacco di yuta che è rimasto vuoto.
II Edizione Concorso Internazionale di Poesia
Città di Sassari
“L’Isola Dei Versi” 2008/2009 - SCADENZA: 30 Aprile 2009
Inserito all’interno della rassegna “OTTOBRE IN POESIA”. Ideatore e direttore artistico: LEONARDO OMAR
ONIDA. Organizzazione: ARTS TRIBU & Progetto OttobreinPoesia Con il patrocinio di: Comune di Sassari,
Provincia di Sassari, Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Lettere e Filosofia, ERSU
Sono previste due sezioni: A e B. Si può partecipare anche ad entrambe le sezioni, seguendo il regolamento apposito e versando le
quote di partecipazione di ciascuna sezione.
INDIRIZZO SPEDIZIONE – Spedire le opere concorrenti a Onida Leonardo Omar, Premio Internazionale Città di Sassari
“L’isola dei Versi” – Via Einaudi, 14 – 07100 (Sassari) - Allegare attestazione del pagamento agli elaborati.
SEZIONE (A) – POESIA EDITA
Libro di poesia e/o prosimetri, in lingue: Italiana, Sarda (redatto in sassarese, gallurese, logudorese, campidanese, nuorese). Per
questa sezione, ciascun autore può partecipare con un solo libro edito.
SPEDIZIONE - NUMERO COPIE - Inviare a mezzo raccomandata A/R 4 copie del libro e in busta chiusa i propri dati anagrafici,
indirizzo, e-mail, numero di telefono (cellulare e/o fisso) e soprattutto curriculum artistico dell’autore.
QUOTA DI PARTECIPAZIONE SEZIONE (A) – Euro 20,00.
I volumi entreranno a far parte dell’archivio del Progetto OttobreinPoesia. Il Progetto,tra le tante iniziative, prevede anche la
divulgazione delle novità editoriali all’interno dei propri siti internet, in molti blog letterari e presso le Facoltà di Lettere e Filosofia
delle Università di Sassari e Cagliari.
Di ciascun volume pervenuto verrà realizzata una “Scheda Artistica” che sarà presentata all’interno delle 3 giornate della III edizione
del Festival Internazionale OTTOBRE IN POESIA 2009, attraverso reading, incontri, performance artistiche e teatrali all’aperto. Al
vincitore unico : - Euro 300,00 (- Targa o medaglia - Attestato di merito)
SEZIONE (B) – POESIA INEDITA
Da una a tre poesie a tema libero di non più di 60 versi ciascuna (sono inclusi anche gli spazi bianchi).
TESTI – I testi devono essere inediti e in lingue: Sardo (redatti in sassarese, gallurese, logudorese, campidanese, nuorese), Italiano,
Inglese, Spagnolo, Francese, Arabo, Russo.
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Non sono ammessi testi che siano già stati premiati ai primi 3 posti in altri concorsi.
SPEDIZIONE - NUMERO COPIE – i partecipanti dovranno spedire:
- o in busta chiusa a mezzo posta un totale di 7 copie per ogni poesia, di cui 6 anonime riportanti solo uno pseudonimo e 1 sola copia
completa dei dati anagrafici, indirizzo, e-mail, numero di telefono (cellulare e/o fisso), riportante in alto lo stesso pseudonimo
indicato nelle copie anonime.
- o, (solo per la sezione B) via e-mail, allegando un file riportante i dati dell’autore e il titolo delle opere partecipanti. In questo caso,
la quota potrà essere versata solo attraverso bonifico bancario (vedi PAGAMENTO QUOTA DI PARTECIPAZIONE SEZIONE B) Allegare attestazione del pagamento agli elaborati.
QUOTA DI PARTECIPAZIONE SEZIONE (B) – Euro 15,00.
Paola Musa
Amore sciamano
Vieni discendi ora lo sguardo sui miei sensi.
Alita in me,
versa il tuo calice d'ombre
su questo cielo rovesciato,
rifulgimi accanto.
Ti sento - oh come fiorisci furtivo tra i canneti del mio lago!
sei un'onda lenta, silenziosa.
Rimesti il mio richiamo in questa luminosa oscurità.
Non esitare, non pensare, è tempo ti ho atteso così tanto
amore, ma adesso non parlare bevi,
disciogli con me
il bagliore dei tramonti,
disserra le aurore acerbe delle labbra
sii pietra focaia
su questa piccola morte .
Non c'è argine o solco qui percorri dunque con le dita ogni confine
indietro, avanti , ancora sali su queste vette di carne e sangue
attraversa i valichi della mia bocca
danza su queste dune agitate dal vento
e suona sul ventre i tuoi tamburi di sciamano .
Suona, amore, i tuoi tamburi,
adesso intona con me
le corde di questo rito breve.
Il giallo di ginestra sulle scogliere
siano il nostro giaciglio
Il cielo, sgombro e attonito,
effonda i nostri fuochi fatui.
Adesso salgono,
salgono i canti verso gli dei invidiosi.
Li vedi?
Stanno spiando i nostri corpi dai loro astri immoti.
Paola Musa è nata in Sardegna e vive a Roma. Laureata in lingue, è scrittrice, poetessa e paroliere.
Ha vinto una selezione di poesie raccolte in un volume dalla casa editrice “Arpanet”, recensita da Elisabetta Sgarbi, Editor Bompiani, e una targa
di merito nel concorso “Renata Canepa” per la poesia “L’Angelo sterminatore”.
Ha composto le liriche per la commedia musicale “Datemi tre caravelle” interpretata da Alessandro Preziosi, con musiche di Stefano di Battista. Ha
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pubblicato il suo primo romanzo, “Condominio occidentale” (Salerno Editrice - 2008). E’ di prossima pubblicazione il secondo romanzo, “Il terzo
corpo dell’amore”.
Giacomo Leopardi
L’infinito
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare
Carlos Sànchez
Argentina
Dramma
Quello che osserva
Quando osserva sa
Che non ci sei tu.
Ma dato che lui è debole
Tu ritorni un’altra volta
Al tuo antico sguardo.
Egli guarda e tu lo sai
Tu guardi e lui lo vede.
Quando si ignorano
Tu sei morto.
(estratto da L’ inquilino Scomodo - bilingue )
Alessandro d’ Angelo
Notte
Il domani si avvicina,
il sonno ci sorprende,
un futuro avanza.
Nell’ultimo gesto,
nell’ultimo sorriso
la forza di vivere ancora.
Night
Tomorrow is comming near,
sleeep surprises us…
Future advances.
--In the last gesture,
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in the last smile…
The strength to live still.
Maya ( illusione)
Gente ancorata alla terra,
umanità ancorata alle illusioni,
gente felice di avere.
Di avere il non avere,
di rispettare il non avere,
di valutare il non essere.
( traduzione al tedesco)
Leute der Erde verbunden,
Menschen dem Wahn festgelegte,
Leute zufrieden zu haben.
Keines Gut zu haben,
Das nichts haben hochzuachten,
Das nicht sein zu schatzen.
Due anime s’ incontrano
Un gesto,
un cenno,
una voce.
Un saluto,
una risposta
noi siamo!
( traduzione al francese)
Un geste,
un signe,
une voix.
Un salut,
une reponse,
nous sommes !
Alessandro D’Angelo ( Roma, 1943) , vive e opera a Roma. Poeta e Studioso di Scienze biologiche, fitoterapia e astrologia, dopo
aver vinto una Borsa di Studio all’Istituto Superiore di Sanità approfondisce gli studi attraverso ricerche istopatologiche su cervelli
umani presso l’Ospedale Santa Maria della Pietà applicandosi allo studio dell’immunofluerescienza. Pubblicazioni :“Dai Silenzi”;
ediz. Il Campidoglio 1978; “Luna – Dalla Mitologia alla Scienza”; –ediz. I Templari 1980,“Parole di Luce” – ediz. I Templari
1985,“Astrodiagnosi Storica ed Astro-Alchemica di Luigi Capuana” 1995. Articoli presenti su riviste italiane ed estere: Filosofia
della poesia, Caino e l’umanità Benedetta, L’amore nell’antico testamento, Melchisedec nei vangeli apocrifi, il perdono nel Talmud,
Parallelismo storico fra Buddha e Cristo.
Siti, blog di riferimento: http://www.polarisweb.it/dangeloalessandro/religione.htm, http://mercurio30.spaces.live.com /
http://www.polarisweb.it / dangeloalessandro/poesialettera.htm , e-mail: [email protected]
Daniela Micheli
IL GRIGIO PRIMA DEL NERO
Non si salutano. Qui non ci si saluta mai. Deve essere una delle abitudini del luogo, e dà una sensazione di vuoto anche
se siamo in tante, ammassate in questa sporcizia dalla uniforme tonalità di grigio.
Io lo so che è una delle abitudini di questo posto e non delle persone che lo occupano, perché tanti di questi fantasmi io
li conosco e non erano così taciturni e indifferenti. Tempo fa, abitavano con me e tante altre anime dietro un muro,
assieme a me lottavano per sopravvivere e con me sono arrivati alla nostra nuova residenza stamattina, stipati
come bestie dentro camion odoranti di carne già cadavere e gli occhi accecati dal ricordo dei morti lasciati sul
selciato a diventare liquame per le fogne.
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Ora mi ritrovo a pensare che, in previsione di questo viaggio, ci avevano abituati agli spazi ristretti senza luce ed aria e
che tutto questo fa parte di un progetto del quale mi è sconosciuto il senso. Mi ricordo quando iniziarono a costruire i
muri dentro la città e ci imposero di non varcarne mai i confini se non provvisti di permesso di lavoro ed anche per
quelle uscite le regole erano ferree e la punizione di piombo.
Da tempo erano iniziati i lavori di congiungimento delle nostre case ed era strano osservare nell’unire i muri in un
unico, lungo serpente di mattoni, come avessero cura di escludere ogni giardino, ogni prato da quello che sarebbe stato,
mesi dopo, il nostro ghetto.
Una città nella città.
I più fortunati erano riusciti a salvare un albero ed era un privilegio che i proprietari impararono a sfruttare, chiedendo
qualche cosa in cambio per sedersi all’ombra, generalmente un pezzo di pane perché i crampi della fame erano sempre
in agguato e mai si placavano.
Gli affamati aumentavano di giorno in giorno e anche quelli di noi più orgogliosi furono costretti a scendere nelle strade
a scambiare i loro oggetti più preziosi con il pane.
Io ero una ragazza fortunata perché mio padre era stato beneficiato del permesso di lavoro nella fabbrica: ogni mattina
all’alba lui si incolonnava assieme agli altri fortunati e si recava fuori le mura, sfilando dentro ad un tunnel di fucili
spianati e pronti a sparare contro chiunque osasse fare un passo diverso e fuori dalla fila; a volte, quando rientrava,
estraeva una pagnotta nera da sotto la giacca ed era una festa, anche se mia madre piangeva mentre divideva il pane in
pezzi che parevano enormi ma che, una volta terminati, avevano solamente riempito un angolino della nostra immensa
fame.
Mio padre ci raccontava che si era fatto un amico, un controllore polacco che lo aveva preso in simpatia e, quando
poteva, gli passava di nascosto il pane, consapevole che se lo avessero scoperto avrebbe rischiato grosso.
Credo che fu grazie a quel signore polacco se io e mia madre ora siamo qui e non siamo morte di fame come quelli
restati a vermificare per le strade del ghetto.
Mio padre lo abbiamo visto ieri mattina per l’ultima volta poi ci hanno divisi: lui con gli altri uomini, io e mia
madre con le donne ed i bambini. Treni diversi, destinazioni ignote.
Quanti bambini sul nostro treno… alcuni neonati sono morti per gli stenti delle loro madri; io e la mia lo
abbiamo capito dal pianto di dolore delle donne che chiamavano disperate i loro piccini scuotendoli e ricevendo
in risposta solo le grida di dolore dalle madri che ancora vedevano nei loro bambini un alito di vita.
Io e mia madre ci siamo tenute abbracciate tutto il viaggio, cercando di non udire i gemiti, i lamenti e le invocazioni; ci
siamo dette che in fin dei conti siamo fortunate perché siamo ancora assieme e vive, e che i nostri occhi non avrebbero
certamente potuto vedere più orrore di quanto già impresso per sempre nella nostra memoria.
Ci hanno fatto scendere dal treno dopo non so più quanto tempo, a spintoni e urla ci hanno fatto entrare, assieme alle
altre, in uno stanzone enorme: qui erano già altre donne ed altri bambini, tante persone, ma non c’era confusione di voci
alte, solo brusii leggeri e parole sussurrate piano.
Nessuno ci ha salutate. Nessuno ha salutato nessuno.
Una di loro ci ha indicato due tavoloni di legno con materassi lerci e consunti in un angolo scuro e sporco; abbiamo
obbedito e la donna ci ha detto di non protestare e di tacere sempre, qualsiasi cosa fosse successa sarebbe stato meglio
non fare sentire la nostra voce.
Ci ha anche consegnato una cartolina con un panorama di montagne che non riconosco, assieme alla raccomandazione
di scriverla subito e spedirla ai nostri parenti per rassicurarli che siamo arrivate al campo lavoro e che tutto sarebbe
andato per il meglio.
Io e mamma non sappiamo a chi indirizzarla perché dei nostri parenti non abbiamo più notizie da molto tempo;
decidiamo allora di spedirla alla signora Schicklgruber che ci ha sempre aiutate quando poteva e siamo certe che è
preoccupata della nostra sorte.
Nel nostro angolo c’è una finestra con le sbarre che dà su un cortile di ghiaia: qui, incolonnate, parecchie donne che
tengono per mano i loro bambini, si dirigono verso uno stabilimento che sulla facciata riporta la stella che da tempo ci
decora le vesti e dal nostro punto di osservazione privilegiato, io e mia madre riusciamo a vedere anche una tenda
davanti al portone d’ingresso; è simile al tendaggio che avevamo all’ingresso della nostra sinagoga ed anche la frase è la
stessa: “Questa è la porta per la quale entrano i giusti”.
Con i loro cani lupo di fianco, i tedeschi ridono mentre spintonano le donne ed i bambini nel portone; non capisco
quello che dicono; anche se il mio tedesco alla scuola era sempre stato lodato non riesco ora ad afferrare tutte le parole
che pronunciano, ma percepisco tutto lo scherno e la cattiveria attraverso il vetro sbeccato e mancante in diversi punti,
prima delle sbarre arrugginite.
Sentiamo una nenia risuonare nella sala e ci scostiamo dalla finestra, unendoci alla preghiera.
Io e mia madre non chiediamo nulla, seguiamo il consiglio della donna che ci ha dato la cartolina, ma siamo stupite
dell’ora insolita in cui viene intonato il Kaddish, così come del fatto che ad intonarlo sia una del nostro stesso sesso.
Ci ritroviamo a rispondere assieme alle altre donne Yeè Shemè Rabbà Mevarach fino a che un grido di gioia ci
interrompe: è una ragazzina, con due enormi e affamati occhi neri sul volto scavato, che indica fuori dalle finestre
sbarrate la neve che ha iniziato ad imbiancare il cortile.
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Per un attimo dimentichiamo dove ci troviamo ed osserviamo in silenzio la magia che scende dal cielo.
Il turbinio di fiocchi si posa a terra e, immediatamente, si colora di nero: è come se una cenere si mescolasse al ghiaccio
facendone poltiglia lordata.
Sporca come gli abiti che indossiamo, come i letti che abitiamo, come gli occhi avari di speranza che non vogliamo
chiudere.
Sorrido nel pensare che come tutto ciò che vedo qui, anche la neve è sporca.
N.B. Racconto tratto da Incipit La neve era sporca di George Simenon
Daniela Micheli, chi è: “Io non so se le biografie si fanno così; accontentatevi.”
…abbiamo aperto il forum ,invitando alcune delle persone che conoscevamo dagli altri siti a partecipare. E' un luogo
così, una via di mezzo tra il serio e il faceto, nel senso che si pubblica, ci si commenta, ma non disdegnamo nemmeno
due battute fini a se stesse. Ci sono degli autori che io ritengo validissimi, sia in prosa che in poesia, tutti comunque
legati dall'urgenza di gettare le loro emozioni prima sulla carta e poi condividerle con gli iscritti. A fine anno ho
raccolto 30 pagine degli autori iscritti, Pinina Podestà ci ha regalato un suo quadro e ho stampato su
www.ilmiolibro.com la nostra antologia: un anno di parole vissute assieme.
Vengono organizzati periodicamente una sorta di laboratori di scrittura che a me personalmente hanno aiutato
moltissimo a crescere nella scrittura. Ora vorremmo crescere, andare su carta regolarmente con le pagine migliori e
da qui nasce il progetto di Costantino ( Liquori, N.d.R.), la Plumen, che per ora è semplicemente un blog ove
raccogliere le pagine, domani chissà cosa potrà diventare...
Ulteriori su: www.inpuntadipenna.org, www.paginediplumen.com
Antonella Colonna Vilasi
Intelligence. Nuove minacce e terrorismo
Edizioni Universitarie Romane – 2008
( a cura di Enrico Pietrangeli)
E’ uscito in libreria il nuovo libro della saggista Antonella Colonna Vilasi, Intelligence. Nuove minacce e
terrorismo. L’autrice è al suo quindicesimo libro; ha pubblicato libri sulla mafia ed il terrorismo, è esperta di psicologia
giuridica, storica, giurista, internazionalista e criminologa, inoltre svolge attività di didattica universitaria su tematiche
criminologico-forensi. E’ la prima scrittrice europea ad aver pubblicato una trilogia sull’intelligence: Segreto di stato e
intelligence, Intelligence, Intelligence. Nuove minacce e terrorismo. Nei prossimi giorni uscirà in Francia l’inedito
L’intelligence expliquee aux enfant.
Il libro, presentato dal giudice Ferdinando Imposimato, è suddiviso in sette capitoli, L’intelligence contemporanea: le
nuove minacce e le nuove sfide; il reato di terrorismo nella storia e nel diritto internazionale; brevi cenni sull’escalation
del terrorismo internazionale islamista: un approccio sociologico; psicologia del terrorismo; la nascita del SISDE ora
AISI; brevi cenni sulla nascita dei servizi di intelligence italiani; lo stemma dell’ AISE (ex SISMI) ed il logo dell’AISI
(ex SISDE).
La pubblicazione evidenzia come, in seguito all’attacco alle Torri gemelle, si sia intensificato in maniera
esponenziale il dibattito attuale sul ruolo dell’intelligence nella sicurezza delle Nazioni occidentali. L’autrice
analizza quindi, dopo brevi cenni sulla storia dei servizi di intelligence italiani nei primi anni di vita dalla loro
istituzione, attraverso un approccio multi-focus, il terrorismo dal punto di vista sociologico, psicologico, storico
ed internazionalistico. Infatti, in quasi tutti i Paesi occidentali, seppur con diversi gradi di coinvolgimento politico, ci
si è adoperati nel ridefinire priorità, compiti e ruoli degli organismi di intelligence, riformando strutture e modalità
operative, aumentando la dinamicità di un settore fortemente condizionato dalla burocrazia, sviluppando nuove capacità
di contrasto nei confronti degli emergenti network criminali organizzati a livello internazionale e transnazionale,
elaborando delle strategie di prevenzione e gestione degli attacchi asimmetrici portati a livello globale. I moderni servizi
di intelligence dovranno affrontare nuove minacce incombenti, in evidenza, tra le tante, la scarsità delle risorse idriche
ed il problema energetico.
Premio “POESIA SENZA CONFINE” 2009
LA GUGLIA Associazione Culturale – Onlus, con sede ad Agugliano (Ancona) ha indetto il concorso di poesia
“POESIA SENZA CONFINE” 2009 che si sviluppa in tre sezioni : A) a carattere nazionale, poesia in lingua, sezione
rivolta a tutti i poeti italiani- B) a carattere regionale, poesia dialettale, riservata ai poeti marchigiani- C) a carattere
regionale, poesia in lingua e in dialetto, riservata agli studenti marchigiani- Scadenza 31 marzo 2009- La partecipazione
al concorso è gratuita. I REGOLAMENTI e la scheda di iscrizione sono reperibili nel
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sito www.associazionelaguglia.it
Segreteria del premio nazionale “POESIA SENZA CONFINE” 2009, [email protected]
FRANCO PROVASI
PENSIERI DI UN SOGNO
Facendo provare ad altri quello che la vita un giorno ha regalato ha noi, è il modo peggiore
-per essere soli con se stessi.Si cresce apprendendo non quello che la vita insegna tramite il vissuto, perché ci cambia,
e la nostra rivalsa la rivolgiamo sulle persone fragili che ci circondano: - ma si cresce rimanendo
sempre noi stessi, nel bene e nel male.I nostri comportamenti rivelano il nostro passato e si deve avere il coraggio che non influiscano
sul nostro futuro, e su chi ci circonda.
A Moira
La sorgente luminosa accende il cielo
ricamando un canovaccio
che stringe a sé nell’azzurro delle sue vesti il mondo.
Occhi invisibili di un manto scordato
celano nell’aurora dal rosso chiarore
visioni trasportate su candide onde al risveglio della vita.
Le foglie dei mandorli abbracciano i loro bianchi germogli,
accarezzati dalle ali degli uccelli
che tessono i sogni nel profondo mare del cielo,
alimento dell’anima.
Lacrime di un pianto antico,
gocce di speranza che dissetano i fiori,
cuori in cerca d’amore
ghirlande al sorriso di un volto.
Le farfalle raccolgono con le loro ali,
mani disegnate dalla fantasia
il candore dei fiori,
come parole,
invocazioni elevate al cielo
promuovendole al tempo
come polline d’amore.
Rincorro l’amore
come il dannato culla la sua disperazione,
ubriaco di un sogno
di un gesto mancato,
un dono,
parole ingoiate assorbite dal timore
dall’incertezza nel vortice dell’abisso,
riecheggiano mute nella valle del dolore.
Come vorrei essere
il mantello del suo vagabondare,
abbracciarla
come una sera d’estate
coi suoi sogni argentati
avvolge il giorno,
donandole ristoro,
nella passione del mio cuore.
Il tremore del corpo
come vela strappata dall’albero della vita,
nei solchi dello spirito
i pensieri come vento agitano le membra;
le mie gesta,le parole
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simili a una scogliera frastagliata dalle onde dell’esistenza
e la morte mi accarezza l’anima.
Ogni stella è una lacrima,
i fiori hanno perduto il loro calore:
il mio corpo è sospeso nel vuoto in un tempo senza luce,
come foglie portate dal vento,
vascelli senza prora.
Antonella Masia
Io nel mio volo d’ aquila
Sorvolo il deserto dei sentimenti
che annebbiano le menti degli esseri umani
Fin dalla notte dei tempi si sa dell'esitenza dell'amore
ma pochi ne conoscono la nostalgia, il calore
Quanto male può fare se ne stiamo così a distanza
vela i nostri sguardi di malinconia alla sua sola invocazione
E' fisica, è così forte questa sensazione
risentita dal più profondo del nostro essere
Volo davanti all'immensità della felicità
a questo mare limpido infinito
così simile ma così diverso
come l'onda in un mare in tempesta
che si lascia morire sulla spiaggia
per poi rinascere nuovamente mare
Volo d'aquila alla ricerca di un nido
in un paesaggio lunare
dove si mischiano le armoniche note del cuore
i miei occhi pronti ad affrontare l'arsura del giorno
e gli avvoltoi in caldissimi cappotti di egoismo
Malgrado la mia stanchezza
continuo a far scintillare i raggi del sole
con un velocissimo
e maestoso colpo d'ala andrò a posarmi
sui rami della libertà
Da aquila non conosco la saggezza che molti hanno
contesto la cosiddetta sanità di mente
io innamorata dell'amore
Vivo nel vento e nell'oasi della vita
dentro una clessidra di sabbia colorata
mista a frammenti di spazi infiniti
Aquila così diversa e audace nei suoi pensieri
salgo sul treno dei sogni
che sanno sempre dove andare
anche a costo di viaggiare da sola,
in ogni ovunque, in ogni dove, in ogni cielo
io sono umana e volo.
UGO FOSCOLO
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Sepolcri
All'ombra de' cipressi e dentro l'urne
Confortate di pianto è forse il sonno
Della morte men duro? Ove più il Sole
Per me alla terra non fecondi questa
Bella d'erbe famiglia e d'animali,
E quando vaghe di lusinghe innanzi
A me non danzeran l'ore future,
Né da te, dolce amico, udrò più Il verso
E la mesta armonia che lo governa,
Né più nel cor mi parlerà lo spirto
Delle vergini Muse e dell'amore,
Unico spirto a mia vita raminga,
Qual fia ristoro a' dì perduti un sasso
Che distingua le mie dalle Infinite
Ossa che in terra e In mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
Tutte cose l'obblio nella sua notte;
E una forza operosa le affatica
Di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe
E l'estreme sembianze e le reliquie
Della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé Il mortale
Invidierà l'illusion che spento
Pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l'armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de' suoi? Celeste è questa
Corrispondenza d'amorosi sensi,
Celeste dote è negli umani; e spesso
Per lei si vive con Pamico estinto,
E l'estinto con noi, se pia la terra
Che lo raccolse infante e lo nutriva,
Nel suo grembo materno ultimo asilo
Porgendo, sacre le reliquie renda
Dall'insultar de' nembi e dal profano
Piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
E di fiori odorata arbore amica
Le ceneri di molli ombre consoli.
Sol chi non lascia eredità d'affetti
Poca gioja ha dell'ur'na; e se pur mira
Dopo l'esequie, errar vede il suo spirto
Fra 'l compianto de' templi acherantei
0 ricovrarsi sotto le grandi ale
Del perdono d'Iddio; ma la sua polve
Lascia alle ortiche di deserta gleba
Ove né donna innamorata preghi,
Né passeggier solingo oda il sospiro
Che dal tumulo a noi manda Natura.
Pur nuova legge impone oggi I sepolcri
Fuor de'.guardi pietosi, e il nome a' morti
Contende. E senza tomba giace il tuo
Sacerdote, o Talia, che a te cantando
Nel suo povero tetto educò un lauro
Con lungo amore, e t'appendea corone;
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E tu gli ornavi del tuo riso i canti
Che Il lombardo pungean Sardanapalo
Cui solo è dolce il muggito de' buoi
Che dagli antri abduani e dal Ticino
Lo fan d'ozj beato e di vivande.
0 bella Musa, ove sei tu? Non sento
Spirar l'ambrosia, indizio del tuo Nume.
Fra queste piante ov'io siedo e sospiro
Il mio tetto materno. E tu venivi
E sorridevi a lui sotto quel tiglio
Ch'or con dimesse frondi va fremendo
Perché non copre, o Dea, l'urna del vecchio
Cui già di calma era cortese e d'ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
Vagolando. ove dorma il sacro capo
Del tuo Parini? A lui non ombre pose
Tra le sue mura la città, lasciva
D'evirati cantori allettatrice,
Non pietra, non parola; e forse l'ossa
Col mozzo capo gl'insanguina il ladro
Che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti' raspar fra le macerie e i bronchi
La derelitta cagna ramingando
Su le fosse, e famnelica ululando;
E uscir del teschio, ove fuggia la Luna,
L'ùpupa, e svolazzar su per le croci
Sparse per la funerea campagna,
E l'immonda accusar col luttuoso
Singulto i rai di che son pie le stelle
Alle obbliate sepolture. Indarno
Sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
Dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
Non sorge fiore, ove non sia d'umane
Lodi onorato e d'amoroso pianto.
Dal dì che nozze e tribunali ed are
Diero alle umane belve esser pietose
Di sè stesse e d'altrui, toglieano i vivi
All'etere maligno ed alle fere
I miserandi avanzi che Natura
Con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a' fasti eran le tombe,
Ed are a' figli; e uscian quindi i responsi
De' domestici Lari, e fu temuto
Su la polve degli avi il giuramento:
Religion che con diversi riti
Le virtù patrie e la pietà congiunta
Tradussero per lungo ordine d'anni.
Non sempre i sassi sepolerali a' templi
Fean pavimento; né agi incensi avvolto
De' cadaveri il lezzo i supplicanti
Contaminò; né le città fur meste
D'effigiati scheletri: le madri
Balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono
Nude le braccia su l'amato capo
Del lor caro lattante onde nol desti
Il gemer lungo di persona morta
Chiedente la venal prece agli eredi
Dal santuario. Ma cipressi e cedri
Di puri effluvj i zefiri impregnando
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Perenne verde protendean su l'urne
Per memoria perenne, e preziosi
Vasi accogliean le lacrime votive.
Rapian gli amici una favilla al Sole
A illuminar la sotterranea notte,
Perché gli occhi dell'uom cercan morendo
Il Sole; e tutti l'ultimo sospiro
Mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
Amaranti educavano e viole
Su la funebre zolla; e chi sedea
A libar latte e a raccontar sue pene
Ai cari estinti, una fragranza intorno
Sentia qual d'aura de' beati Elisi.
Pietosa insania, che fa cari gli orti
De' suburbani avelli alle britanne
Vergini dove le conduce amore
Della perduta madre, ove elementi
Pregaro i Genj del ritorno al prode
Che tronca fe' la trionfata nave
Del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d'inclite geste
E sien ministri al vivere civile
L'opulenza e il tremore, inutil pompa,
E inaugurate immagini dell'Orco
Sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed Il patrizio vulgo,
Decoro e mente al bello italo regno,
Nelle adulate reggie ha sepoltura
Già vivo, e i sternmi unica laude. A noi
Morte apparecchi riposato albergo,
Ove una volta la fortuna cessi
Dalle vendette, e l'amistà raccolga
Non di tesori eredità, ma caldi
Sensi e di liberal carme l'esempio.
A egregie cose il forte animo accendono
L'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta. lo quando Il monumento
Vidi ove posa il corpo di quel grande,
Che temprando lo scettro a' regnatori,
Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
Di che lagrime grondi e di che sangue;
E l'arca di colui che, nuovo Olimpo
Alzò in Roma a' Celesti; e di chi vide
Sotto l'etereo padiglion rotarsi
Più mondi, e il Sole irradiarli immote,
Onde all'Anglo che tanta ala vi stese
Sgombrò primo le vie del firmarnento;
Te beata, gridai, per le felici
Aure pregne di vita, e pe' lavacri
Che da' suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell'áer tuo veste la Luna
Di luce limpidissima i tuoi colli
Per vendemmia festanti, e le convalli
Popolate di case e d'oliveti
Mille di fiori al ciel mandano incensi:
E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco,
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E tu i cari parenti e l'id'ioma
Desti a quel dolce di Calliope labbro
Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
D'un velo candidissimo adornando,
Rendea nel grembo a Venere Celeste.
Ma più beata ché in un tempio accolte
Serbi l'itale glorie, uniche forse
Da che le mal vietate Alpi e l'alterna
Onnipotenza delle umane sorti
Armi e sostanze t'invadeano ed are
E patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
Intelletti rifulga ed all'Italia,
Quindi trarrem gli auspicj. E a questi marmi
Venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a' patrii Numi, errava muto
Ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
Desioso mirando; e poi che nullo
Vivente aspetto gli molcea la cura,
Qui posava l'austero; e avea sul volto
Il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno, e l'ossa
Fremono amor di patria. Ah sì! da quella
Religiosa pace un Nume parla:
E nutria contro a' Persi in Maratona
Ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,
La virtù greca e l'ira. Il navigante
Che veleggiò quel mar sotto l'Eubèa,
Vedea per l'ampia oscurità scintille
Balenar d'elmi e di cozzanti brandi,
Fumar le pire igneo vapor, corrusche
D'armi ferree vedea larve guerriere
Cercar la pugna; e all'orror de' notturni
Silenzj si spandea lungo ne' campi
Di falangi un tumulto e un suon di tube,
E un incalzar di cavalli accorrenti
Scalpitanti su gli elmi a' moribondi,
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Felice te che il regno ampio de' venti,
Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l'antenna
Oltre l'isole egèe, d'antichi fatti
Certo udisti suonar dell'Elleaponto
I liti, e la marea mugghiar portando
Alle prode retèe l'armi d'Achille
Sovra l'ossa d'Ajace: a' generosi
Giusta di glorie dispensiera è morte;
Né senno astuto, né favor di regi
All'Itaco le spoglie ardue serbava,
Ché alla poppa raminga le ritolse
L'onda incitata dagl'inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d'onore
Fan per diversa gente ir fuggitivo,
Me ad ad evocar gli eroi chiamin le Muse
Del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de' sepolcri e quando
Il tempo con sue fredde ale vi spazza
Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
Di lor canto i deserti, e l'armonia
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Vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Tròade inseminata
Eterno, splende a' peregrini un loco
Eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio
Onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
Talami e il regno della Giulia gente.
Però che quando Elettra udì la Parca
Che lei dalle vitali aure del giorno
Chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove
Mandò ìl voto supremo: E se, diceva,
A te, fur care le mie chiome e il viso
E le dolci vigilie, e non mi assente
Premio miglior la volontà de' fati,
La morta amica almen guarda dal cielo
Onde d'Dlettra tua resti la fama.
Così orando moriva. E ne gemea
L'Olimpio; e l'immortal capo accennando
Piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
E fe' sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme Il giusto
Cenere d'Ilo; ivi l'iliache donne
Sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
Da' lor mariti l'imminente fato;
Ivi Cassandra, allor che Il Nume In petto
Le fea parlar di Troia il di mortale,
Venne, e all'ombre cantò carme amoroso,
E guidava i nepotì, e l'amoroso
Apprendeva lamento ai giovinetti.
E dicea sospirando: Oh, se mai d'Argo,
Ove al Tidìde e di Laerte al figlio
Pascerete i cavalli, a voi permetta
Ritorno il cielo, invan la patria vostra
Cercherete! Le mura opra di Febo
Sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Pepati di Troja avranno stanza
In queste tombe; ché de' Numi è dono
Servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
Piantan di Priamo, e crescerete ahi presto!
Di vedovili lagrime Innaffiati,
Ptoteggete i miei padri: e chi la scure
Asterrà pio dalle devote frondi
Men si dorrà di consanguinei lutti
E santamente toccherà l'altare.
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
Mendico un cieco errar sotto le vostre
Antichissime ombre, e brancolando
Penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne,
E interrogarle. Gemeranno gli'antri
Secreti, e tutta narrerà la tomba
Igio raso due volte e due risorto
Splendidamente su le muto vie
Per far più bello l'ultimo trofeo
Ai fatati Pelidi. Il sacro vate,
Placando quelle afflitte alme col canto,
I prenci argivi eternerà per quante
Abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai
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Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finché il Sole
Risplenderà su le sciagure umane
Manuela Pagliuca
Magico istante
Fiamma luminosa
rubino
rosso brillante
del mio cuore.
Rara avis
amore estremo
amore grande
sentimento profondo
pàthos struggente
della mia vita.
Magico istante
misterioso incanto
d’ ogni respiro.
I tuoi occhi
il mio sole.
Il solo pensarti
dona luce e calore
il solo pensarti
ogni nembo dirada.
Torno felice a casa la sera
perché tu ci sei .
Vascello fantasma
alla deriva sarei
se tu non ci fossi
e
questo mondo
alieno
e
quest’ etra
plumbea.
È grazie a te che riesco ad incedere
tra gli impervi
angusti anfratti della vita.
Ti amo…
Giovannimaria Fresu
In effetti, la cassiera del market aveva lo sguardo visibilmente preoccupato. Poi, con un tono di rassegnazione ci
rivolge una domanda: perdoni l'impertinenza, ma lei, mi trova sufficientemente bella? Non mi prenda per matta, ma
sono giorni che non mi dò pace. Perché, vede, non sono più tanto sicura che la mia presenza fisica, il mio incarnato,
rientri nei requisiti necessari per far parte della categoria di belle donne e poter, quindi, aver diritto ad un soldato per
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proteggermi dagli stupratori. Il mio ragazzo me lo dice sempre che sono bella, ma lui fa il manovale in nero in un
cantiere edile e ha poco tempo per affinare il suo senso estetico. Io, per quanto mi sforzi e pur trascurando i fianchi che
ricordano i quadri di Botero, non raggiungo un metro e sessantotto con un tacco da dodici, che, nel mio caso, non è più
una scarpa ma uno sgabello. Il Premier Berlusconi, lui si che se ne intende di fascino muliebre, guardi le gnocche
che affollano le sue reti televisive e si rende conto che il suo concetto del bello ha misure a me inaccessibili. La
Carfagna, ha presente? Nessuno conosce i suoi trascorsi politici, eppure l'ha voluta come Ministro della
repubblica. Lei crede che il lato estetico non c'entri niente? Mio fratello, intanto, si è buttato in politica, in camera sua
tiene appesa una foto della Ministra, tratta da un vecchio calendario, ci ha scritto sopra: le mie pari opportunità. Io al
confronto non potrei fare neppure il consigliere comunale di Nughedu. Conta, il bell'aspetto, conta. Oramai è applicato
anche sul lavoro. Vede quella mia collega? E' bella, si, ma non riesce ad impilare due barattoli di pomodori e l'hanno
assunta a tempo indeterminato, io, pur con un diploma, sono precaria. Ma poi, uno stupratore, quale metro estetico
adopera quando sceglie le sue vittime? Uno suo, violento, patologico e casuale o quello di Berlusconi, secondo cui, se
vanno difese solo quelle belle, un minimo di selezione è d'obbligo. Perciò, se sei vittima di violenza entri di diritto nella
categoria delle donne belle, se, al contrario, la fai franca cominci a porti qualche dubbio sul tuo grado di femminilità.
Anni addietro, una pubblicità di un noto purgante per l'infanzia, diceva: “ai bambini buoni la dolce...”. E quelli meno
buoni? Che spingano.
Roberto Miano
DiGì
Aveva un cognome strambo e lungo, il nome dal canto suo non era affatto breve, si chiamava Dominijanni
Giovanbattista. A lui piaceva, ma gli amici per comodità lo abbreviavano, si trattava di una vera e propria
inizializzazione istintiva, “DiGì” suonava facile per chiunque e poi si prestava a diversi pseudonimi.
Alle elementari, per esempio, fu proprio la maestra a battezzarlo affettuosamente “Di Già”, perché era bravo nel dettato,
gli piacevano le parole e finiva sempre prima di tutti, ogni volta diceva “fatto!” alzando la mano, lei lo guardava e gli
chiedeva “Di gia?”.
Allora “DiGì” diventò per tutti “Di già”.
Alle medie, invece, sul registroverso delle presenze, alla lettera D ricorreva in appello “Dai Gioca…” (senza punto
esclamativo).
DiGì non era bravo col pallone e poi aveva una tuta acetata celestina ed argento così brutta da fargli preferire Saccoia,
esemplare di “homo apallonis” in via di estinzione ma dotato di tuta blu adidascalica tale da giustificare ogni volta una
scelta speranza nuova.
Quando però mancava qualcuno, e l’adidas di Saccoia non bastava a far numero, il capitano della squadra, vinto il
pariddispari finale, costretto a chiamare DiGì, alzava le spalle e urlava “Dai Gioca…” (senza punto esclamativo).
E allora DiGì giocava, e non tirava mai indietro né la gamba né il cuore, si impegnava più di tutti, e di sicuro più di
Saccoia che, pur immobile, continuava a godere dell’immunità adidas (al day dream about sporting).
“Dai Gioca” era uno degli studenti più promettenti, anche e soprattutto nel senso che prometteva ai genitori di
studiare, ai professori di impegnarsi e ai compagni di passargli i compiti, azione che gli risultava meno
complicata rispetto a quella omologa da svolgersi col pallone.
Studiava perché era un dovere, non perché gli piacesse, lo doveva fare, non gli risultava complicato, lo faceva e gli
riusciva anche bene. Aveva una calligrafia strana con la quale scriveva temi di italiano decisamente contorti, troppo per
l’interesse da mezzo foglio protocollo della professoressa. Indipendentemente da cosa scrivesse e da come lo scrivesse,
l’elaborato gli fruttava puntualmente un “sei più”, una volta, soltanto una, la matita blu ex cattedra abbozzò un
“settuguale”.
“Uguale a cosa?”
Chiese Di Gì alla professoressa, senza riuscire a staccare gli occhi da quell’equivalenza impossibile
“Uguale a nulla, è un “sette menomeno”!
Rispose lei senza guardarlo in faccia.
Si trattava di un tema sul lavoro del papà.
DiGì sapeva del papà soprattutto dai racconti della mamma, aveva notizia che non era tornato dal lavoro un giorno
quando lui aveva 5 anni. Del papà portava con orgoglio il cognome lunghissimo, ma avrebbe volentieri scambiato
qualche lettera di quel cognome per qualche giorno con lui.
Il tema era buono, il “sette menomeno” era però un volto politico che la prof. aveva elargito a tutta la classe, con
qualche variante, perché a giorni avrebbe incontrato i genitori.
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Tema: il lavoro del mio papà.
di Domnijanni Giovanbattista
Papà fa un lavoro difficile. Lui è pilota di arioplani, lo so che si scrive aeroplani, ma papà ride quando li chiamo
arioplani, e allora ce lo spendo un errore da matita rossa per un sorriso. Lui li sa guidare tutti, ma per andare al lavoro
prende il Jumbo Jet, che si pronuncia “giambo” ma si scrive “jumbo” con la ju di juventus.
A casa papà non c’è quasi mai, non c’è quando mamma è silenziosa, non c’è quando si arrabbia con me, non c’è quando
piange da sola in cucina, non c’è quando guardiamo nel lettone “sette sere per non dormire”. Papà però ci manda un
sacco di cartoline, che però non sono proprio un sacco perché c’entrano in un cofanetto di caramelle, quelle Sperlari,
che non si incartano mai. Pubblicità stupida, io le caramelle le scarto, mica le incarto. Le cartoline più belle però le
attacco al frigorifero, con la calamita, vicino ai personaggi di Capitan Harlock che si attaccano col sapone. Mamma ogni
tanto le guarda le cartoline, io la vedo, le legge, le guarda, le rilegge e poi le avvicina al naso, forse l’inchiostra
profuma, forse le parole di papà profumano, forse invece pensa, soltanto, sola, tanto.
Mamma li odia gli arioplani. Lei va al lavoro con l’autobus infatti.
Papà è un papà speciale, si perché lui sa volare, come gli angeli. Infatti mamma un giorno mi ha detto che lui sta in
cielo, allora io ho detto:
“Certo mamma, dove vuoi che sta? E’ un pilota di arioplani!”
Lei mi ha dato un bacio in testa e poi mi ha risposto “hai ragione”. Ma non mi sembrava convinta.
Papà ci manca tanto, io aspetto che ritorna, dalla finestra guardo il cielo, ogni tanto passa qualche arioplano, il
cielo è grande, molto grande, ce lo ha detto anche la professoressa, io dico che invece è anche più grande di
quanto dice, tanto che anche un papà con un jumbo jet ci può si perdere, deve essere così.
Mio papà fa un lavoro difficile, e mi sa che alla riunione dei genitori non potrà venire.”
DiGì aveva pochi amici e neanche troppo buoni, ma lui non lo ignorava e semplicemente voleva loro bene. Erano
diversi, brancolavano intorno a lui, difficilmente con lui, loro collezionavano figu dei calciatori, lui collezionava tappi
di bottiglia, che riempiva con la cera e schiccherava su piste disegnate col gesso. Loro guardano jeeg robot, lui preferiva
meravigliarsi con spazio 1999 oppure disegnare. Colorava interi fogli bristol A3, con pastelli azzurri e blu e poi, in un
angolo in alto, vicino al sole giallogoro, ci disegnava piccoli aeroplani. Nel finestrino, con la matita stilizzava il
dettaglio di un omino che presumibilmente guidava.
Anche nei disegni il cielo era troppo grande, tanto che negli angoli di ogni foglio sembravano quasi poter scappare,
prima le speranze poi anche i ricordi.
Ma mentre DìGì cresceva il cielo stava cessando di essere così ingombrante. Appariva ogni giorno più piccolo, non era
più ovunque, ma piuttosto dietro un motorino, sullo sfondo di un calcio di rigore, tra i gesti improvvisamente
interessanti di una ragazzina, sullo sfondo del desiderio di una bicicletta nuova oppure riflesso in una vetrina di giacche
per papà o nell’acqua sul marmo di una fontanella.
Il cielo sembrava meno affamato e meno celeste, sempre più grigio, forse perché troppo curioso di guardare in basso e
sempre più puzzolente di silenzio, forse perché livido di rimorsi. Forse.
Fatto sta che quel cielo non faceva più paura il giorno delle pagelle.
DìGì prese la sua, era un ottimo, la guardò, esclamò “ottimo!”, poi la piegò più volte a farci un aereo e la lanciò,
seguendone la planata fin sotto la scaletta della Giacomo Puccini.
Volo breve, ma pur sempre un volo ottimo.
La raccolse, e la portò a casa per spiegarla di nuovo, anche alla mamma.
Al liceo DiGì era entrato in punta di piedi, il suo nome venne presto sostituito da Dotto Giullare, perché era bravo,
perché non era alto e perché era goffo e faceva ridere tutti. Continuava ad avere pochi amici, ma questa volta erano
buoni. Poteva sempre contare infatti sui suoi pennarelli “punta fine”, sulle tdk-d, su Giallo ("compagno" di banco e
spacciatore di musica rock) e sulla propria coscienza, incontrata per caso un giorno, al bagno, durante una vicenda
decisamente personale.
DiGì si innamorava ogni mese di una compagna di classe (erano dodici e, a conti fatti, ne aveva per un anno intero), era
in grado di formulare e disegnare la derivata di ogni suo attimo felice, ma di contro non avrebbe mai potuto descrivere
né la sensazione né il sapore di un bacio, tanto meno avrebbe inventato nulla, per uno stupido senso dell’onore e per la
consapevolezza che mentire non avrebbe certo ingannato la sua fame di sentimento.
Il sesso era un mistero di cui sentiva dire e di cui iniziava a vagheggiar da solo in bagno.
Dalla I alla III C sarebbe stato invisibile. In quegli anni comprese che Pitagora oltre aver scritto un teorema
aveva ispirato una canzone di un tal Marco Ferradini, che per l’occasione si affidò alla teoria di H. Pagani. DiGì
invece, consapevole che la donna triangolo era quanto di più complesso un uomo potesse desiderare, preferì
decisamente la lirica di Pitagora.
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Prendi un cateto, costruisci il quadrato, fai lo stesso sull’altro lato.
Somma le aree e ne estrai la radice, solo se tu hai la calcolatrice.
Hai ottenuto un risultato importante di cui ognuno oggi abusa,
fino a ieri tu eri ignorante, oggi tu sai cos’è l’ipotenusa.
In tre anni era mancato da scuola due sole volte, aveva sempre lo stesso libretto delle giustificazioni, tutti i suoi
compagni, specie durante latino ed inglese, lo considerano indispensabile. Fuori di scuola DiGì era impalpabile per
chiunque. A far eccezione, confermando la regola, c’era sempre e comunque Giallo che continuava a registrargli quella
musica strana dei Led Zeppelin.
Fu proprio mentre guardava la copertina del DiriGibile che DiGì comprese che il papà non sarebbe tornato più, le
cartoline erano da tempo tutte nel cofanetto, sul frigo c’erano i post.it e qualche bollettino da pagare.
La mamma non piangeva più, di tanto in tanto invece piangeva lui, specie se a cantare era Janis, o se Crosby, Stills,
Nash e Young gli ninnanannavano un “our house” da brividi.
Il cielo non c’entrava proprio nulla, non era “stairway to heaven” (Led Zeppelin) la canzone giusta, piuttosto “highway
to hell” (AC/DC). Si perché il papà, pilota di aerei di linea, era morto per un incidente stradale, sul taxi che lo portava
all’aeroporto.
Sua madre glie lo aveva ripetuto, di nuovo.
“Papà è in cielo”.
“Si mamma, ho capito. Papà è in cielo, ma io ti ripeto la mia domanda, che è retorica, ma è l’unica possibile e anche
l’ultima su papà
“Dove vuoi che stia un pilota di “arioplani?”
DiGì aveva due biglietti dell’autobus in tasca. Quel giorno sarebbero andati al cimitero. Nel walkman aveva la tdk
nuova degli ac/dc, “back in black”, dipingeva di nero la voglia di spaccare il culo al mondo, ma suonava così romantica.
Back in black, I hit the sack,
I've been too long, I'm glad to be back
Yes I'm let loose from the noose,
That's kept me hangin' about
I been livin like a star 'cause it's gettin' me high,
Forget the hearse, 'cause I never die
I got nine lives, cat's eyes
abusing every one of them and running wild *
Quella foto impolverata, quella col berretto da comandante, così come quella puzza di fiori marci, non se li ricordava,
non poteva.
DiGì ebbe la certezza di essere orgoglioso di suo padre, potendogli dare un voto, quel giorno decise che valeva almeno
un “otto menomeno”.
Un “otto menomeno” è un “ottuguale” e cioè uguale all’infinito. Si perché l’infinito è un otto sdraiato a guardare il
cielo.
DiGì era cresciuto molto quel giorno, sua madre dopo tanto tempo aveva sorriso di nuovo, mandando giù la tristezza
con due leccate di lacrime finalmente salate, e lo fece per la prima volta senza far colare neanche un po’ di ombra dal
suo cono stretto in pugno.
La vita è bizzarra, perché può scegliere di cominciare da dove non te l’aspetti, la consapevolezza della morte è il punto
di unione con la cognizione della realtà, se la si acquista successivamente al punto, la consapevolezza torna dietro, gli
uomini la chiamano memoria.
DiGì stava riflettendo proprio su questo fatto e gli tornavano in mente le lezioni di geometria, di filosofia, di religione,
tutti i voti “menomeno”, stava rielaborando ogni ipotesi, ogni cosa, e tutto finalmente tornava, molte cose strane tali non
lo erano più.
“Il cerchio non perde consapevolezza, continua ad essere, raddoppia – sdoppiandosi – simmetricamente, diventa
infinito, questione di punti di vista, l’otto “menomeno”, caro papà, è un infinito sdraiato, costretto tra due trattini. Si
poteva obiettare – come Ileana per esempio, la filosofanciulla del primo banco - che tra due trattini non ci sarebbe mai
stato un infinito, ma DiGì era convinto che ad un numero infinito di coscienze-vite, contenute ognuna tra due trattini,
nascita e morte, riesce solo di immaginare che ciò che si osserva, e cioè la vita al margine dei sensi soggettivi, sia
infinita o forse infinibile. Si perché è disumano anche soltanto provare ad rappresentarsi che tutto finisca con noi,
disumano, o meglio assolutamente egoistico, e l’egoismo altro non è che la pretesa di rinchiudere l’inesauribile tra due
punti. Arroganza di chi vuole far vestire l’universo con i suoi panni. E quando l’uomo, che è nato, muore, i due trattini
svaniscono e il suo infinitotale deluso si ridistribuisce sugli altri ancora illusi.
Questa teoria elaborata nello spazio di almeno 4 fermate di autobus non era poi da scartare, ne avrebbe preso nota DiGì,
stava acquisendo la consapevolezza di avere un ruolo, di essere (in)dotto, un piccolo scioccomplicato uomo. Sfrattato da
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una favola, si sentiva costretto a combattere i luoghi comuni, al-fiero donchisciotte contro l’avvento dei mulini, lui nano
con il pisello piccolo, giullare senza circo, né corte. I suoi spettatori erano occasionali, ma DiGì avrebbe recitato
ovunque ci fosse stata voglia di ascoltarlo. Ascoltare lui, pigro, che non leggeva, ma che scriveva di vita.
Se dalla matematica aveva imparato la formulazione di equazioni esistenziali, dal latino aveva compreso che “è morta
solo quella lingua che viene ignorata dall’orecchio”, la letteratura invece lo annoiava, odiava gli autori, almeno quelli
fin lì studiati e, soprattutto, non tollerava i “saggiatori”, i libri di scuola erano scritti dagli studiosi e non dagli studiati.
Che senso ha studiare l’idea di Sapegno se poi è Dante che è in discussione?
La scuola non funzionava. DiGì se ne sarebbe definitivamente reso conto durante l'esame di maturità. Il membro
esterno della commissione esordì con una domanda scandita pesantemente.
“Lei non crede che la vita sia rappresentata al meglio in tutte le sue sfaccettature dalla metafora de “i promessi
sposi”?
DiGì non era d’accordo.
Ma analizzò attentamente la domanda. Era una domanda retorica. Di quelle che ammettono e pretendono solo un cenno
di consenso. “Strutturazione” narrativa e “struttureazione” emotiva sono separate da una semplice vocale che diventa
muta nella “assaggistica” esposizione ex cattedra, laddove una teoria filosofica diventa assioma e un’opera qualsiasi
diventa L’opera. Manzoni Alessandro, uno dei nomi più citati sulle tavole dei tuttocittà italiani, diventò per lo stesso
motivo “il Manzoni”. Costui scrisse “Fermo e Lucia” nel 1821, la sua fortuna fu di non vivere nell’era di Marta Flavi,
moglie del signor Costanzo Show, imbonitrice televisiva per madri Agnesi, anagnostiche, spossate e affamate di
promesse.
E poi cos’è una metafora? Un'immagine, un’allegoria, una figura, un simbolo, un traslato. DiGì faceva il tifo per la
parola allegoria, perché aggiungeva la vocale “o” ad allargare l’allegria. Non c’era alcun segno di allegria in quel poco
che aveva letto de “i promessi sposi”, eppure sembrava che un personaggio di quel lago di Como fosse fuggito al
tempo, al romanzo e alla trama nascondendosi nei quiz televisivi dai tempi della tivvì. Il signor Michele Buongiorno,
che ripeteva a tutti “alleg(o)ria!”, sembrava un personaggio ossessionato da un ruolo, né più ne meno di una Gertrude di
Monza o di un Don Rodrigo. Dunque la vita è romanzabile? O soltanto giocabile? Chi è talmente genio da riuscire
costringere la complessità della vita (infinita nei tratti pur brevi) nelle righe di un opera pur buona (finita nelle
argomentazione pur infinite). DiGì era decisamente perplesso, considerava i “promessi sposi” un’opera totalmente da
rileggere, forse, senza note al margine, senza interrogazioni al limite, senza “tropi” a squittire nascosti tra le righe.
Il prof Smiroldo fissò DiGì pregandolo, con gli occhi, di tacere.
Digì non era d’accordo, non con quella domanda fornita di risposta pre-affrancata, e lo dimostrò al suo professore di
Latino con un gesto di stizza invisibile al membro esterno.
Cinque anni a maturare opinioni e poi all’esame devi abbassare gli occhi e non rispondere ad una domanda che ti sfida a
farlo, se ne hai coraggio. La verità è che poi DiGì non credeva di avere il coraggio per sfidare un professore, armato di
penna e diritto di voto, era dell’opinione che Manzoni avesse mentito sulla vita, la sua non era una metafora, al limite
un “metà forum” (gioco di parole riservato al suo pensiero). Sorrise. Alessandro non aveva avuto il coraggio, per
esempio, di raccontare che Lucia aveva capito in gran segreto che si può amare anche dopo aver scopato “da bravi” con
un amante “innominato”, aveva omesso di raccontare che Don Abbondio era un povero diavolo che si masturbava
riciclando storie dal confessionale e non aveva rivelato che Renzo (molto meglio il nome Fermo) probabilmente non
sarebbe mai stato un buon marito e che sarebbe stato salvato non tanto dalla divina provvidenza quanto invece
dall’ipocrisia e dalla mancanza dell’istituto giuridico del divorzio. L’unica intuizione felice sembrava essere che quel
matrimonio, in effetti, non s’aveva da fare e quindi – ma questo DiGì l’avrebbe potuto dire anni dopo, forse in suo libro
- neanche quel romanzo del cazzo!
DiGì sollevò gli occhi, senza dire nulla, accomodandosi sulla sedia.
“Mi dica signor Dominijanni, come la giudica la figura de “il popolo” nell’episodio de “l’assalto ai forni”?”
Anche qui DiGì aveva un’idea precisa, ma era consapevole che la risposta non sarebbe mai stata soddisfacente, il prof.
Smiroldo lo guardò riuscendo per la prima volta, e con un solo sguardo, a spiegargli cosa significasse rimettersi alla
divina provvidenza, manzoniana o no. Ma era un esame di maturità e DiGì stava soprattutto giudicando se stesso,
doveva rispondere secondo coscienza.
“Positivo! Mi perdoni, volevo dire positiva, la figura del popolo è positiva, secondo me, perché quello dell’assalto ai
forni è un gesto estremotivato!”
“Che significa estremotivato? Inventa le parole signor Dominijanni?”
Il membro interno guardò DiGì che non fece una piega e anzi sorrise, prima di rispondere.
“Sì signore, lei sta inventando la morale, decidendo che sia assoluta e prendendola in prestito dal nipote di Cesare
Beccaria, lei è un manzoniano inguaribile, lei giustifica ogni cosa solo se rientra nel cono d’ombra metaforico de “i
promessi sposi”, allora io, che invece lecco con gli occhi ciò che vivo e non ciò che leggo, ebbene, io invento le parole,
ma mi rendo conto che in sede d’esame potrebbe non essere opportuno e chiedo scusa per la precedente licenza
glottologica. Ma per tornare alla sua domanda, se io dovessi “aver fame” perché, per esempio a causa di un brutto voto
al liceo, non riuscissi a trovare un lavoro, assalterei senza ombra di dubbio un alimentari, perché ciò ha senso, più di
quanto non ne abbia assaltare la logica, depredando “podiosamente” quegli spiccioli di preparazione che i maturandi si
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portano ad un esame, non trova?”
DiGì fece silenzio, era tremendamente serio, il professor Smiroldo sembrava incazzato, ma abbassati gli occhi e portata
una mano sui capelli, con lo sguardo basso, sorrise di gusto.
Il signor membro esterno non aggiunse nulla, non fece alcuna questione nemmeno sul “podiosamente” pronunciato da
DiGì, se fosse cioè un impertinente neologismo o solo un refuso da ec-citazione.
Fece altre domande.
DiGì rispose su Leopardi, su D’annunzio ed ebbe modo di leggere e commentare qualcosa dell’inferno di Dante.
Non ricevette alcun encomio, ma neanche alcun biasimo per il contenuto irriverente delle sue esternazioni. Il
membro esterno gli fece gli auguri, stringendogli la mano professionalmente, il prof. Smiroldo non disse nulla, gli
mise una mano sulla spalla, senza aggiungere nulla.
DiGì, il nano giullare, quel giorno aveva rovesciato il contenuto del proprio cono d’ombra interamente sulla giuria.
Quella mano del prof. di Latino fu più di un diploma, era il voto migliore che avrebbe potuto sperare, era
l’annullamento dello spazio infinito dei punti che costituiscono la retta che va dal banco alla cattedra.
Il voto fu “ottimo menomeno”. Un voto con le palle. Saccoia aveva preso sessanta sessantesimi, così come Licopoli,
DiGì, invece e soltanto lui, cinquantasei sessantesimi. Un ottimo menomeno è un ottimo non fine a se stesso, uguale a
qualcosa, all’università, per esempio.
Quando non hai un traguardo scegli di andare avanti. Strada facendo succederà qualcosa. Così fece DiGì
(non)scegliendo “Economia e Commercio”.
In facoltà tutto era diverso, tutto troppo facoltativo, e non era un gioco di parole.
I primi due anni furono spesi al prezzo equo dell’incapacità di gestirsi.
Erano molte e fin troppo le opportunità dell’apparente “far nullaccademico”, come per esempio vagheggiare
l’universognato con le tette, calcolare la derivata di un culo, tenere il libro chiuso e il walkman sempre acceso e far in
modo di non trasformare una fila in-mensa in immensa. DiGì comprese tardi che tutte queste cose si dovevano fare a
corollario di un “progetto di studio” e lui, tra l’altro, era privo di un progetto qualsiasi.
Non riusciva a prefigurarsi dottore (con le virgolette ), non ne aveva né il vanto né l’ansia, sapeva che doveva laurearsi,
ma non aveva un’idea concreta del quando e del cosa diventare.
Al terzo anno, quando certi esami di diritto erano ormai improcrastinabili, DiGì aveva un nuovo soprannome, alcuni
amici de “l’acquario” (la gigantesca aula di studio, a vetri, della facoltà) lo battezzarono “Dopo, giuro!”.
Era divenuta nota infatti la sua ritrosia a frequentare contesti sociali impegnativi, come le feste universitarie, o emotivi,
come l’altro sesso. Il concetto di far festa con l’altro sesso poi metteva in ballo opzioni incrociate ingestibili.
In più di un occasione si tirava fuori di impaccio con frasi tipo “ci vediamo dopo” e alla domanda “dopo quando?”
rispondeva puntualmente “Dopo, giuro!”. L’ultima la disse a Marinella, timidamente, senza alzare la testa dal
Trabucchi.
Diritto Privato era il suo incubo peggiore, aveva sentito parlare di Tolkien e del suo Signore degli Anelli, ma era
convinto che nessuna trama fantasy avrebbe mai potuto salvare DiGì dal Potere del Legislatore.
Maturato al liceo dove regna la regola del “di tutto un poco” si trovava, non senza affanno, nell’elegante palude
brachilogica del “tutto di ogni cosa!”
Un esame di diritto, che si palesava curiosamente come un dovere, era prova ardua. DiGì trovò conforto e chiavi di
lettura nel latino. Il giorno dell’esame fu proprio una breviloquente citazione in latino che impressionò un esaminotauro,
tanto da consentirgli di arrivare a chiudere l’esame con una gratifica di ventiquattro trentesimi. Fu un “sette
menomeno”, stessa emozione del tema delle medie, un sette uguale, questa volta ad una cosciente molta soddisfazione.
Quel giorno infatti DiGì si riconobbe il diritto ad un premio, un cd doppio live dei Police.
Ci furono altri esami, tutti difficilissimi. Rimandò ogni volta l’intento di farlo al primo appello, trattava se stesso come
gli altri.
Si ripeteva “lo faccio dopo!”
“Dopo quando?” Si domandava.
“Dopo, giuro!” Si convinceva.
Si laureò tardi, con quasi due giri di tabellone, qualche tassa patrimoniale, poche probabilità e qualche imprevisto e
nemmeno una roulotte in “vicolo corto”. Furono sette anni, anziché quattro, alla fine dei quali discusse una tesi di
demografia, un’opera decontestualizzata e totalmente inutile ai fini professionali, gli valse però dieci punti. Ottenne un
“centoquattro”, un onestoico ottomenomeno. Un'altra equivalenza infinita. Infinita come la sensazione di non arrivare
pur comunque a “mai nulla”.
La laurea significava anche Doc Gi. Per un solo giorno però, perché DiGì abbandonati i marmi e le angosce
universitarie smise di essere da subito studente universitario, mettendosi in tasca quel diploma di laurea, quasi a
difendere un forsegreto che solo qualche benzinaio avrebbe svelato di tanto in tanto (“ah dotto’ quanto metto?).
Fu l’inizio della fine, o la fine dell’inizio.
DiGì smise di andare in bici, in piscina, e di giocare a calcetto. cominciò a prendere peso. Nel frattempo la musica era
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cresciuta con lui. I dischi erano diventati cd, e nel computer vivevano specie clonate di canzoni, prima disperse in
singole unità, poi in riunite i ellepingui riserve di cartelle, destinate ad essere masterizzate o magari direttamente fruite,
crude appena pescate dal web, come sushi, senza essere cotte dal burning rom. Era l’era in cui la musica fuggiva dalla
case editrici per andare a vivere nel web allo stato brado, certi computer erano in grado di catturare mandrie intere di
mp3, altri di razziarne intere vallate, l’onestà non reggeva il confronto con la possibilità spudorata di poter clonare
musica. Erano lontani i tempi di my sharona, 45 giri pluriregalato di qualche festa medie-vale. La pirateria navigava in
internet senza la jolly roger, la normalità era ormai la devianza dalla legge. Un cd masterizzato costava un pezzo da
mille lire, un originale almeno trenta.
Giunto al confine dell’anno 2000, quando l’ombra del millenium bug minacciava l’ordine delle cose tutte, DiGì
passò la sera del 31 dicembre 1999 lavorando come cameriere a Planet Hollywood, gli sembrò una sera come
tante altre e lo fu, ma solo dopo il brindisi con i colleghi realizzò che quello che per anni era stato un film di
fantascienza, era invero diventato un film di storia. “Spazio 1999” telefilmoon di infanzia meravigliata era ormai
fuori gioco, fantascienza squalificata dal tempus fugit, come le tute a zampa di elefante dello sfigato equipaggio
di quella luna sfuggita all’orbita terrestre e, questo era anche più figo, alle ispirazioni dei poeti più coglioni.
DiGì entrò nel nuovo millennio con un vassoio in mano, poco più tardi scoprì il sesso, cioè tutto quello che facevano gli
altri a differenza di lui, lui lo aveva fatto molto tardi e continuava a farlo poco e male, troppo per non iniziare a
collezionare rimpianti. Era una sorta di maniaco intenzionale, dotato di notevole autocontrollo in virtù del quale riusciva
a sostituire con le seghe mentali quelle più convenzionali, un’autoflagellazione con cui lasciava andar via ogni
occasione di amore “superficiale” per cercare di essere sopra le righe e risultare oltremodo accettabile, piuttosto che
desiderabile. Questa cosa cominciò a montare sulla sue spalle mediocri come una scimmia, e si sa che le scimmie sanno
tenersi ovunque, e accompagnò la sua involuzione fisica. Fu allora che Glauco, esteta omosessuale, nonché cameriere
suo collega, lo battezzò, “Dolce e Gabibbo”, perché portatore sano di una latente sensibilità femminile, perché di
carattere dolce e perché tondelirante come il Gabibbo. A completare il tutto contribuiva la felpa rossa con cappuccio da
cui difficilmente DiGì si separava.
Intanto i Led Zeppelin erano stati integrati dai Tool, Janis Joplin da Elisa, i Queen dai Porcupine tree, I Jethro Tull dai
Metallica, gli AC/DC dagli Stone Temple Pilots (…). La musica, quella con la emme di mood e non di mp3, continuava
a fornire vie trasversali, paralleli intersette. Le parallele intersette (concetto del tutto inventato) erano le strade musicali
capaci di districare i nodi umorali ovvero in grado di far intersecare sensazioni parallele. Concetto difficile, complesso,
ma per DiGì assiomatico.
Il suo mondo era continuamente segnato da un cono d’ombra enorme, proiettato dalla realtà quotidiana che si
frapponeva tra lui, osservatore, e quello idealizzato.
La vita per DiGì era ciò che lui “osservava”, ma raramente nelle sue osservazioni era presente Giovanbattista. Era
persona sensibilmente estroversa, ma assolutamente insensibile dell’io.
Un giorno, un’amica, togliendo un capello dalla sua felpa rossa, non avendo nulla di meglio da fare e dire, fece una
domanda apparentemente banale a DiGì
“Ma tu, chi sei veramente?
DiGì ci pensò qualche secondo, si rese conto che nessuno gli aveva mai chiesto questa cosa.
“Io sono DiGì”, e cioè Dominijanni Giovanbattista. Tu e tutti gli altri esistete almeno finché io vi vedo e vi racconto,
foss’anche a me stesso.”
“Che cazzate dici DiGì?”
“Dico che l’importante è che almeno io dica!”
“Sei strano, lo sai, vero?”
“Si lo so!”
“Quand’è che metterai a posto la tua vita, e – oserei dire - i tuoi fianchi?”
“Non lo so. Tu invece faresti all’amore con me?”
“Sono sincera, credo proprio di no…”
“Risposta banale!”
“Sarà banale, ma è anche l’unica che opziono!”
“Io però non merito un’unica risposta”.
“Io invece non ti sto seguendo più, Dolce.”
“Non fa niente, non preoccuparti, ci sono abituato.”
“A cosa? A non scopare?”
“No, cioè si, forse anche a quello, ma comunque mi riferivo al non essere compreso.”
“Ma a te non piacciono gli uomini?”
“A me piacciono le persone, e quindi tra queste anche gli uomini, ma rispondendo più specificatamente alla tua
domanda, direi che preferisco le donne, senza dubbio alcuno!”
“E perché ti chiamano Dolce e Gabibbo?”
”Perché fa ridere!”
“Dici? Io non sto mica ridendo”
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“Beh un po’ fa ridere. E i tuoi occhi stanno sorridendo. Alla prossima, allora.”
“No aspetta, prendiamo un caffè, ti va?”
“Mi va? Si! Direi però di prenderne due, o al limite uno con due cannucce!”
“Sei un collione!”
“Collione”?
“Un “coglione” ellenico!”
“Cosa significa un coglione ellenico?”
“Che sei in parte coglione e in parte-none”
“Uh madonna, che stronzata!”
“Si in effetti. Dai, era per dire che mi piaci, in fondo!”
“In fondo o in parte?
“Infondomipiacinparte. E non ti fare strane idee”
“No! Semmai me ne faccio di belle”
“E cioè?”
“Iniziamo col caffè”
“Iniziamo! ‘spe’, cellulare…
“Caffè rinviato?”
“No, appuntamento rinviato!”
“Hai rinviato un appuntamento per un caffè? Ci mettiamo un minuto a bere un caffè.”
“Si lo so. ma magari per parlare spendiamo qualche minuto in più, o no?”
“Non capisco, cosa è cambiato da due minuti a questa parte?”
“Diciamo che sei uscito da un cono d’ombra.”
“Interessante.”
“Esatto, interessante, ora mi sembri improvvisamente interessante nonostante questa insopportabile felpa rossa.”
“Ne ho anche una verde dei Queen.”
“E perché non una blu degli Alice in Chains?”
“Ti piacciono i Chains?”
“Da morire!”
“Sai, questo conferma che la musica intersetta le strade.”
“Che vorrebbe dire ‘sta stronzata?”
“Ti spiegherò, andiamo?
“Andiamo!”
* AC/DC - back in black
Fonte: Plumen - www.paginediplumen.com
www.ilromanziere.com – Il Sito Letterario
GIOVANNI PASCOLI
LA FONTE DI CASTELVECCHIO
O voi che, mentre i culmini Apuani
il sole cinge d'un vapor vermiglio,
e fa di contro splendere i lontani
vetri di Tiglio;
venite a questa fonte nuova, sulle
teste la brocca, netta come specchio,
equilibrando tremula, fanciulle
di Castelvecchio;
e nella strada che già s'ombra, il busso
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picchia de' duri zoccoli, e la gonna
stiocca passando, e suona eterno il flusso
della Corsonna:
fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
dove brusivo con un lieve rombo
sotto i castagni; ora convien che corra
chiusa nel piombo.
A voi, prigione dalle verdi alture,
pura di vena, vergine di fango,
scendo; a voi sgorgo facile; ma, pure
vergini, piango:
non come piange nel salir grondando
l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
io solo mando tra il gorgoglio blando
qualche singhiozzo.
Oh! la mia vita di solinga polla
nel taciturno colle delle capre!
udir soltanto foglia che si crolla,
cardo che s'apre,
vespa che ronza, e queruli richiami
del forasiepe! Il mio cantar sommesso
era tra i poggi ornati di ciclami
sempre lo stesso;
sempre sì dolce! E nelle estive notti,
più, se l'eterno mio lamento solo
s'accompagnava ai gemiti interrotti
dell'assiuolo,
più dolce, più! Ma date a me, ragazze
di Castelvecchio, date a me le nuove
del mondo bello: che si fa? le guazze
cadono, o piove ?
e per le selve ancora si tracoglie,
o fate appietto? ed il metato fuma,
o giàpicchiate ? aspettano le foglie
molli la bruma,
o le crinelle empite ne' frondai
in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
frasca di faggio ? od è già l'Alpe ormai
bianca di neve ?
Più nulla io vedo, io che vedea non molto
quando chiamavo, con il mio rumore
fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
macole e more.
Col nepotino a me venìa la bianca
vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
andare come vaccherella stanca
va col suo redo.
Nella deserta chiesa che rovina,
vive la bianca Matta dei Beghelli
più ? desta lei la sveglia mattutina
più, de' fringuelli?
Essa veniva al garrulo mio rivo
sempre garrendo dentro sè, la vecchia:
e io, garrendo ancora più, l'empivo
sempre la secchia.
Ah! che credevo d'essere sua cosa!
Con lei parlavo, ella parlava meco,
come una voce nella valle ombrosa
parla con l'eco.
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Però singhiozzo ripensando a questa
che lasciai nella chiesa solitaria,
che avea due cose al mondo, e gliene resta
l'una, ch'è l'aria.
www.piccoligiornalisti.it
Mauro Petrelli
PENSIERI E STRADE
Roma di notte è incantevole. I lampioni bronzano l’atmosfera e tutto sembra sospeso e stregato. I negozi chiusi, il
rumore delle auto e sirene in lontananza, cani che comunicano tra loro, con noi, con il mondo o abbaiano e basta.
Qualche ombra sfugge veloce alla vista per infilarsi in un portone o auto, qualche altra scorre lentamente tra pensieri e
strade, tra quartieri e monumenti e tra palazzi e storia, o storie. Roma è una città viva, pulsante, è un organismo, e come
tale la notte è esposto agli attacchi dei parassiti, dei germi e batteri.
Jerome si definiva anima sociale, culo capitale. In verità, lui era un parassita, un problema paesaggistico per la società,
uno di quelli che la gente preferiva ignorare, o per appagare il proprio falso altruismo, gli dava qualche moneta, senza
accorgersi che chi da l’elemosina non era lui, ma quell’ammasso informe e maleodorante che alla sua moneta
rispondeva con un sorriso.
Dormiva, lontano dagli sguardi puliti e salvi dei passanti, tra la parete di un tabacchi e quella di un bancomat
dove si era ricavato una nicchia in cui dormire, d’inverno è frequente vedere, nel centro di Roma, clochard
dormire nei luoghi più disparati. Ormai ci dormiva da due mesi, era come casa sua. Generalmente si
addormentava quasi subito, grazie all’aiuto del vino, ma a volte di vino non se ne trovava, allora elemosinando
qualche spiccio riusciva a comprarsi una bottiglia di vodka scadente che lo assopiva, in parte lo sedava, ma non
lo faceva dormire come avrebbe voluto. A volte beveva anche solo per sopportare il suo odore, piscio misto a
merda e muffa, decorato con puzzo di vino di seconda scelta e sudore. D’inverno era un problema lavarsi, era
preceduto e seguito dal suo odore. Quando passava, la gente spariva, quando chiedeva, la gente spariva. Girava per
Trastevere, Campo dé fiori, Piazza Navona, Lungotevere, Ponti. Vedeva luci, colori, persone con calde pellicce e sorrisi
smaglianti, tutte gioielli e brillanti, ma anche persone più misere che ostentavano ricchezze che non avevano, e altre,
poche che sembravano semplici, vere.Mentre passeggiava sul Lungotevere tra penombra e realtà, pensava agli anni in
cui abitava con Nancy e nei quali era felice. Lavorava come tipografo e Nancy come cameriera, non erano ricchi, ma
per loro era come se lo fossero stati, erano pieni d’amore, di gioia, di speranza. La notte dormivano abbracciati, anche
senza far l’amore, si coccolavano e Nancy rideva, rideva sempre. Nancy cucinava da dio e Jerome beveva come un dio,
ma senza creare disagio a Nancy, combaciavano perfettamente.
Da un pò di tempo Nancy non si sentiva troppo bene, e una sera ebbe un malore, Jerome la portò subito all’ospedale.
Gli diagnosticarono un tumore.
“Fase terminale.” Gli disse il dottore, e timbrò a vita il cervello di Jerome con quella dicitura: ”Fase terminale.”.
“Fase terminale!” Ripeté Jerome, mentre scavalcava un ramo caduto sul marciapiede del Lungotevere. Durò tre anni il
calvario di Nancy. Sorrideva sempre a tutti, a tutti quelli che la venivano a trovare, poche persone, Jerome, Anna e due
loro amici, che sparirono dopo la morte di Nancy. Nancy morì una sera di novembre. Jerome aveva speso tutto ciò che
possedevano per cure e medicine. Fu licenziato cinque giorni prima per “lunghe e prolungate assenze ingiustificate sul
posto di lavoro”.
Beveva sempre di più, beveva e piangeva, camminava e si lasciava andare. Nancy gli sorrise anche prima di morire,
rideva, rideva sempre. Faceva molto freddo quella notte. Il Tevere era ingrossato e le luci sembrava fossero trascinate
via dall’acqua del fiume. Aveva raccattato qualche euro, si toccò la lunga barba bianca e gialla e si diresse all’unico bar
che ancora gli dava ascolto. Chiese un rhum, una bottiglia di vino scadente e un caffè.Pagò il caffè e il rhum, gli diedero
il vino a credito. Lui fece la finta di non accettare e di fare per andarsene.
“Nessuno ti offrirà niente stanotte! Prendi e non rompere!” Gli urlò il barista.
Jerome allora, come toccato dalla consapevolezza del freddo e del dolore, si avvicinò al bancone, bevve il rhum tutto
d’un sorso, il caffè, poi prese la bottiglia di vino, ringraziò ed uscì. Si diresse da Mc Donalds e ordinò un hamburgher
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con patatine, mangiò con foga e uscì all’aria aperta. Accese un mozzicone che aveva in tasca e si diresse verso la sua
nicchia.. La sua roba si trovava dentro un rottame d’auto incendiata e abbandonata a pochi metri da lì. Buttò il
mozzicone e preparò il suo giaciglio. Un panino di cartoni e una coperta come materasso, poi cartoni, giornali e stracci,
sembrava un cassonetto. Ma almeno lì stava al caldo. Da sotto le coperte si scolò la bottiglia di vino, pian piano si
addormentò e questa gli scivolò di mano con l’ultimo quarto che si rovesciò, un altro tassello tra i suoi odori. ”Nancy è
in Francia” Fu l’ultima cosa a cui pensò, prima di perdere i sensi. Sognò di lunghe strade, una strada che sapeva di
dover percorrere. Cominciò a camminare, quando d’improvviso si svegliò. Il bancomat emetteva degli strani rumori
metallici ed elettrici, poi aumentarono, poi diminuirono, poi ci fu un colpo sordo e ricominciarono, solo che ora erano
più cadenzati. Si alzò, il vino doveva essere proprio schifoso perchè, ne sentiva più del solito, il suo peso in testa.
Mentre tentava di raggiungere lo schermo del bancomat, per cercar di capire cosa stesse succedendo, vide in terra un
biglietto da 500 euro, poi più in là da 50, 100, 20 e altri ne uscivano dalla fessura. Uscivano in continuazione, facevano
un lento giro della morte oppure uscivano e planavano dolcemente in terra. Lo sportellino si apriva e chiudeva e molte
banconote si spiegazzavano tutte, senza indugiare oltre cominciò a raccoglierli. Prese prima i tagli più grandi e li mise
nelle scarpe, poi nelle mutande. Cazzo, ne uscivano come vomitati, Jerome raccoglieva e godeva, stentava a crederci.
Poi i soldi finirono e cominciarono ad uscire ricevute. Raccolse anche i pezzi da cinque, si allontanò e lasciò lì tutta la
sua roba.
”Servirà a qualcun’altro”pensò.
Si diresse senza esitare un attimo, verso l’hotel dei Patrizi, un albergo a cinque stelle, luminosissimo, vicino Campo dé
fiori.
“Non ci credo, non può essere vero! Non ci credo!” Pensava fra se, mentre attraversava la piazza. Qualcosa stava
cambiando, la speranza, la vita, l’identità, ora era qualcuno, qualcuno con i soldi.
Salì il gradino ed entrò. Un enorme masso di sdegno con aculei di critica lo investì. Aprì le braccia e urlò:
”Lo so! Puzzo da far schifo. Ho fatto una scommessa e ho perso. Dovevamo vivere un mese da barboni e non ho
resistito! Ho i soldi per pagare!”
Un addetto alla sicurezza fece per avvicinarlo, il puzzo gli diede la nausea e, ad un metro da lui Jerome disse:
”Guarda ho i soldi! Per favore fatemi lavare e ripulire!”
e tirò fuori due banconote da 500 euro, il vigilante si fermò, guardò il direttore che fece cenno all’uomo di farlo
avvicinare. Jerome guardò l’uomo poi il direttore, e si avvicinò sicuro. Si sentiva come Mel Brooks in “vita da cani”,
l’unica differenza era che Jerome non è mai stato ricco e il direttore somigliava ad un prete impomatato.
“Buona sera, vorrei la stanza migliore che avete. Inoltre vorrei una camicia della mia taglia, pantaloni, una giacca…
colori scuri vanno bene...e non dimenticate la biancheria intima!” Il direttore lo guardò sconcertato, disgustato,
imbarazzato e incredulo contemporaneamente.
”Signore.”Disse,
”Tutto questo ha un costo.” Cercava di trovare in Jerome la consapevolezza che quei soldi che possedeva li aveva rubati
e che non poteva chiedere e pretendere.
“Costo?”Chiese Jerome.
“Posso pagare qualsiasi cifra! Ah, vorrei anche un tagliacapelli elettrico e lamette da barba!” Disse Jerome chinandosi e
tirando fuori dei calzini quattro banconote da 500 accartocciate, le stese per bene, le poggiò a ventaglio sul banco e
disse:
“...e la cena in camera, vino incluso.”
“Ho bisogno di un documento, signore.” Chiese il direttore.
Jerome mise la mano all’interno della giacca lacera e tirò fuori la carta d’identità.Gliela porse, il direttore annotò tutto e
disse, porgendogli le chiavi:
“Ecco a lei, signore, la sua camera è la 105, buona permanenza signore!”.
Jerome prese al volo la chiave e chiese,
“Quando potrò avere ciò che ho chiesto?”
“Tra meno di un’ora, signore.” Rispose il direttore con un inchino lento e ruffiano.
Jerome entrò in camera, si diresse al frigo bar. C’era una bottiglia nuova nuova di vodka alla fragola, ne bevve
una bella sorsata e se la portò in bagno. Si spogliò, aprì l’acqua della doccia, la miscelò e s' infilò dentro.
Cominciò ad usare una quantità esagerata di sapone, s’insaponò quattro volte di seguito. Rimase lì sotto per tre
quarti d’ora, fino a quando non bussarono alla porta. Bevve un’altra lunga sorsata, prese un asciugamano, se lo
avvolse intorno alla vita e andò ad aprire. Erano tre dipendenti dell’albergo con pantaloni, scatole di scarpe,
camicie, cravatte e varie scatole. Li fece entrare. Qualcuno si presentò, ma lui non lo sentì.
“Porto la 48.” Disse, mentre si asciugava.
“Ecco a lei il tagliacapelli e le lamette.”. Gli disse un tipo con la faccia da faina, prese il rasoio elettrico e le lamette e
rientrò in bagno. Mentre i tizi si organizzavano e sistemavano le loro cose, la macchinetta faceva il suo lavoro, poi
scrosci d’acqua e tirate di naso.
Jerome uscì, completamente rasato e sbarbato, aveva dei piccoli taglietti che sanguinavano sul mento e il suo viso era
più pallido che mai a causa della recente rasatura, si notava anche al buio.
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“Sono pronto!” Disse con l’accappatoio semi aperto. Infilò subito un paio di mutande grigie, poi chiese un tagliaunghie
e la faina si prodigò non poco per cercarlo, lo interruppe uno di loro, uno con una faccia tonda e gli occhi piccoli, vicini
e luminosi, il quale gli diede il suo tagliaunghie. Jerome amava questo rito, il piacere superava la parola, era come una
liberazione, un desiderio nascosto, completò l’opera e infilò i calzini. Gli passarono un paio di pantaloni grigi e neri, poi
due o tre cravatte, quattro camicie mentre lo guardavano con meraviglia e curiosità, ma a lui andava bene qualsiasi
colore. Era ubriaco ed estasiato, gli diedero la giacca, la indossò, si guardò allo specchio, sorrise, fece una piroetta e
cadde all’indietro, su alcune scatole. Scoppiò a ridere, rise di gusto per un paio di minuti, poi si alzò, porse 200 euro a
ciascuno come mancia e disse:
“Ok, ok ragazzi! Bravi! Molto bene!” Poi con calma teatrale aggiunse:
“Ora, ragazzi, fuori dai coglioni!” Emanò un sorriso enorme, aprì loro la porta e li accompagnò dicendo,
“Sera..” I tizi uscirono in fila indiana,
“Buonasera signor De pien.”
“Sera..”
“Buonasera signor De pien.”
“Sera..”
“Buonasera signor De pien.”
“Sera..”
Chiuse la porta, guardò l’ora dal televisore. Le cinque e trentacinque del mattino. Un’ora come un’altra per rinascere, si
sedette e cominciò a contare i soldi.
“5.500 euro!” pensò,
“Cazzo credevo di più!”.
Poi cominciò a bere, dalla vodka passò allo spumante, poi birra e whisky. Decise di uscire, prese i soldi e scese nella
hall.
“Signor De Pien, scusi!” lo chiamò il direttore. Si fermò.
“Le chiedo di saldare ogni volta che uscirà, sono spiacente, ma sono regole ferree.”Continuò il direttore.
“Quanto devo?” chiese Jerome, poggiandosi con i gomiti sul banco e dondolandosi con il resto del corpo.
“Ecco... con l’anticipo di 2.000 euro... con i vestiti...tutte ottime marche...lei deve... 1.500 euro.”. Disse il direttore
porgendo il conto a Jerome.
“Cazzo, 1.500 euro!” Esclamò Jerome e continuò,
“Ma Cristo iddio, come cazzo è possibile dico io...”.
“Questo è uno degli alberghi più costosi di Roma, lei sicuramente…”
“Si... si, ha ragione!” Lo interruppe Jerome e barcollando mise vistosamente sul banco 1.500 euro in contanti, salutò,
prese il documento e uscì. Il direttore, serio e impassibile, probabilmente pensò:
“Feccia, spurgo della società, chissà a chi li avrà rubati, quei soldi!”
Ma a Jerome non importava ciò che pensavano gli altri, ormai era troppo ubriaco per pensare, camminava, ha
continuato a camminare per circa due ore. Il traffico si era come rinvigorito, cresciuto e guardando la strada, lo sfondo,
le pubblicità, si accorse che non lo avevano avvisato per la cena. Si fermò a fare colazione in un bar molto esclusivo,
all’ultima moda. Pagò, uscì e in un tabacchi notturno si comprò due sigari toscani “Gran riserva” e si avviò verso il
Tevere, così per passeggiare e per vedere se la sua roba c’era ancora. C’era tanta gente invece, una pattuglia e
un’autoambulanza stavano nei pressi della sua nicchia. Si avvicinò e vide se stesso disteso, con barba e capelli lunghi,
paonazzo, con la bottiglia di vino che aveva macchiato la sua lacera giacca a vento. Aveva fatto freddo la notte.
Guardò il Tevere, non pensava più a nulla, s’incamminò e sparì nell’aria stanca del mattino.
Rivista Letteraria Trimestrale Nugae: rivistanugae.blogspot.com
Mauro Montacchiesi
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Una liturgia mistagogica
Nel mio labirinto di specchi
si rifrange il glissando di una cetra orfica!
La mia scettica acatalessia
non mi comporta, invero,
di comprendere se sia lo stesso,
mitico aèdo Orfeo, col suo plettro,
a blandirne le corde!
E laggiù, in quel mio diorama,
in quella mia grande tela di scene dipinte,
dove giochi di luce tutto fanno sembrare reale,
ma dove tutto è una Fata Morgana,
laggiù,
nei penetrali, nei plessi più reconditi del mio labirinto,
avverto, senza vedere,
una liturgia mistagogica che mi centripeta,
che mi coopta,
ma che poi mi centrifuga verso l’ ascetica anagogia,
verso la catarsi dell’ anima,
unici egressi dalla reclusione della materia!
LA PAROLA NEL WEB - www.netverbum.it
PIA DEIDDA E L’ ULTIMA FATA
“C'erano tante cose che le sorelle non capivano di lei. Spesso si chiedeva se fosse nata dalla stessa jana maista tanta
era la differenza che riscontrava con le altre tre. No, non avrebbe volato nemmeno quella notte. Avrebbe attraversato il
bosco utilizzando le gambe”.
Cicytella è diversa dalle sue sorelle fate-streghe e ci accompagna in una storia fantastica e passionale, che si
snoda fra fornelli, piatti prelibati e succulenti della cucina sarda, prodotti dell'artigianato, feste e ricorrenze,
indimenticabili paesaggi, in una lontana Sardegna medievale e pur ancora a noi vicina nelle sue tradizioni e nella
sua bellezza. L'autrice, ispirandosi ad una leggenda che si racconta nelle grotte Is Janas a Sadali, ha creato una favola
piena di sentimento, a volte umoristica, a volte ironica, sicuramente intrisa di amore e di nostalgia per una terra antica
piena di fascino come la Sardegna.
Della stessa autrice ricordiamo “Rubia”.
PIA DEIDDA, L'ultima jana, Fabriano Edizioni, 2008 - www.lezionidibello.it - il sito della scrittrice
Daniela Rindi
Infelicità: complemento d’emozione
“Il fatto successe la mattina del 30 aprile 1971. Mia moglie portata in chirurgia io alla neuro in camera di sicurezza come detenuto.
Il giorno 4 maggio portato a Montelupo dalla polizia con la Pubblica Assistenza di La Spezia. Il 5 visita e medicazione alla gola.”
N. N.
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Si chiamava Natale, perché era nato il giorno di Natale, nel 1884, era un ex ferroviere, ma iniziò come “Frenatore”. Ai
tempi, in cima ad ogni vagone c’era un piccolo scompartimento di pochi metri quadrati, all’interno un volano che,
quando la motrice frenava al segnale del macchinista, con un fischio del treno, ogni frenatore doveva girare a mano per
rallentare il proprio vagone. Non ha mai fatto carriera perché antifascista, comprava l’Avanti tutti i giorni, era un
socialista vero. Il fascismo gli consentì solo lo scatto a “Capotreno”, niente di più di quello che oggi è un “Controllore”.
Una vita passata a fare il capotreno. Un giorno, mentre stava tornando a casa alla fine di un turno, fu fermato da
una squadra, perché era sparito un carico di farina da un vagone. Fu interrogato e fortunatamente rimandato a casa,
ma fu lui a frenare il treno nella galleria tra la stazione di Rio Maggiore e La Spezia, per permettere lo scarico dei sacchi
di farina. Lo sapevano tutti. Aveva solo la quinta elementare, ma una dote innata per la scrittura, aveva studiato da
autodidatta e leggeva tantissimo. Scriveva lettere talmente belle che suo nipote fu l’unico a cui i sindacati accettarono la
richiesta di trasferimento dalle Poste di Sestri Levante a La Spezia. Solo grazie alla sua lettera. Aveva anche l’abilità di
raccontare. Riusciva ad incantare con le sue storie narrate con sapienza, le rendeva vive, faceva realmente lavorare
l’immaginazione. Era anche un esploratore, amante della montagna. Fu il primo a guidare la spedizione del giro delle
Dolomiti partendo da La Spezia… in vespa!
Quando andò in pensione non interruppe la sua attività al sindacato, continuò a procurare tessere, a presenziare a
riunioni e si mise pure a fare il calzolaio, per aiutare un amico. Sua moglie si chiamava Maria, lei è sempre stata una
casalinga, entrambi nonni di innumerevoli nipoti, a loro volta figli di numerosi figli, però soli, chiusi nella loro
vecchiaia quasi centenaria. Sono sempre stati poveri, la pensione non permetteva granché, una modesta casa in curva
con un piccolo balconcino affacciato sulla ferrovia, a Pegazzano. Il treno era una presenza che, col suo suono
rassicurante, accompagnava le loro giornate, un passaggio ritmato e inesorabile... tutum tutum tutum tutum. Carne una
volta al mese, per il resto molta minestra di patate. I fagioli venivano utilizzati almeno tre volte: prima inzuppando il
pane nel brodo e condito con olio e sale, poi solo i fagioli conditi, infine il terzo giorno pasta e fagioli. La stufa era
sempre spenta, la legna costava troppo, allora Maria la sera sferruzzava maglioni e sciarpe uno dietro l’altro. Il tempo si
muoveva lento, come i loro corpi anziani in attesa della fine. Ogni mattina lui andava a passeggiare lungo la
ferrovia…in fondo su quelle rotaie c’era cresciuto, c’era vissuto. Ricordava ancora quando con i suoi compagni
di scuola veniva lì a giocare agli indiani, si sdraiavano poggiando le orecchie sui binari, per sentire le vibrazioni
dell’arrivo del treno. Il treno rappresentava i cow-boy e quando passava gli venivano lanciati i sassi, che erano le
frecce degli indiani. Ad un certo punto Maria s’ammalò, non si sa bene di cosa, all’epoca tutte queste certezze mediche
non c’erano, uno stava male e basta…tutt’al più ad un certo punto moriva. Il male era all’intestino, fu operata, le
inserirono una deviazione, un ano artificiale, che servì solo a rendere la vita un inferno ad entrambi. Doveva fare tutto
lui, la spesa, gestire la casa, accudirla, cambiare il catetere, svuotare il sacchetto delle feci. Un amico al dopolavoro
ferroviario gli raccontava della sua esperienza, della moglie nella stessa situazione e lo spaventava dicendogli che non
ce l’avrebbe mai fatta, come sua moglie d'altronde. La malattia la stava corrodendo lentamente da dentro e la sofferenza
diventando un’agonia. Senza mezzi, senza medicine, ogni notte addormentarsi diventava sempre più difficile e
insopportabile. Neanche lui dormiva più, non sopportava la sua sofferenza, la propria impotenza. Tentò di comunicarlo
ai figli, di chiedere aiuto…intanto la sua angoscia, la sua disperazione crescevano silenziose. Una vita passata uno
accanto all’altro è sufficiente a rendere inaccettabile una fine sbagliata, a farti soffrire al punto di sfiorare la follia.
Quella notte questo doveva essere il sentimento che guidò la sua mano, impugnato un martello, a colpirla così forte
sulla fronte. Per ben tre volte il sangue gli schizzò sulla faccia. Andò poi in cucina, si asciugò il viso, prese dal cassetto
un coltello, tornò in camera e si sdraiò a letto affianco a lei. Le prese una mano, se la strinse al petto e con l’altra fece
correre la lama lungo il collo.
Così li trovarono il mattino dopo, in un letto di sangue, mano nella mano…a novant’anni.
Non erano morti, però, questo il paradosso, questa la tragedia. Le sue mani erano troppo fragili per infierire colpi
mortali.
Lui fu rinchiuso nel carcere psichiatrico a Montelupo Fiorentino, poi successivamente trasferito all’ospedale
psichiatrico di Castiglione delle Stiviere. Questo gesto d’amore folle li separò per sempre, lui non tornò più a casa, lei
non lo perdonò mai. Passò il resto della sua breve vita da solo. Morì per un raffreddore a 91 anni. Quello stesso Natale
disse ai pronipoti:-Quando morirò ricordatevi sempre di questo vecchio…-.
Progetto Babele Rivista Letteraria - www.progettobabele.it
Oronzo Liuzzi
42
Andante in
la maschera di Arlecchino è incisa sul volto della verità
…inafferrabile e inquieta e chiassosa e arrogante. relativa
e volubile. il tempo trasparente sopravvive all_ombra
del tempo della passione nella passione…del sacro e
nel sacro e del canto libero diss’io…
la maschera…in figura…camaleontica lingua. strozza
il pensiero del profeta Nel mezzo del cammin di nostra
vita la maschera…
salutai con rammarico l_ideologia appassita insoddisfatta
inesistente fuori dal senno. L’ inganno trionfa Nel mezzo
del cammin sul palco di una piazza cittadina e nei dialoghi
televisivi e nelle campagne elettorali e nella new economy
…finge e tranquilla si atteggia a velina in un
talk show e strizza l’_occhio al grande fratello e spreme
il vuoto del sapere. diss’io…
Carlo Molinari
Estratto da L’ era della ghirlanda
Pascal Guitton e Janette Leroy, artisti di strada a Parigi, vivono un rapporto d’amore molto intenso. Tutto
s’interrompe bruscamente dalla sera alla mattina per la fuga di lei con un uomo benestante. Il racconto narra la
situazione interiore e la vita quotidiana del giovane Pascal nel “dopo Janette”: un mondo che sprofonda
psicofisicamente, fino all’intervento dei servizi sociali e di uno psichiatra.
Ma si intromette anche la vicina di casa, Veronique Perrin, più vecchia di lui di una quindicina d’anni e…
L’era della ghirlanda era terminata.
Ogni cosa s’era fatta acerba, amara da sopportare, nera nella tetra notte più nera.
Tutto declinava senza che vi fosse un sole al tramonto.
Gli uccelli impigliati nei rovi si erano zittiti, quasi quella fosse la loro ultima destinazione, naturale.
Tutto ammutoliva anche in mezzo alla baraonda e alle fragranze delle bancarelle rionali.
Sciami di casalinghe ronzavano intorno ai carretti che svendevano pentolame e cianfrusaglie, con il deciso rifiuto di
comunicare tra loro.
Nessun colore tinteggiava l’arcobaleno del dopo temporale, poiché la tempesta aleggiava ancora e si abbatteva come
un uragano silente dentro il suo animo.
Ogni sera.
L’era della ghirlanda era compiuta.
Costringeva a deglutire penosità e a stringere i denti, come se vi fosse una lama conficcata in fondo alla
schiena.
Troppo tempo passato nella solitudine del proprio monolocale, tra oscure serrande e mura che trasudavano
odore pestifero di chiuso.
Colonie di muffe che si espandevano a macchia di leopardo.
Un frigorifero gelidamente rinsecchito e depredato dagli ultimi avanzi di cibo e scatolette che Pascal Guitton aveva
acquistato giorni addietro alla bottega alimentare di fronte a casa sua.
I ronzii delle auto che frusciavano sotto casa non parevano altro che sarabande di pulviscoli.
Nulla che stordiva, nulla che infastidiva.
A volte - ma sempre e solo di sera o a notte fonda - Pascal riusciva a galleggiare per qualche attimo sulle onde della
cupa depressione che lo tormentava ormai da oltre sei mesi.
Altre sere invece vi riusciva per ore intere.
Ed esplodevano scatti d’euforia fulminea, quasi avesse ingurgitato venti caffé in un colpo solo.
Si ritrovava così quasi sempre in camera sua, in canottiera e mutande, di fronte ad una grande specchiera montata fra
le ante di un vecchio armadio stile primo novecento.
A ballare, a simulare coreografie, secondo la creatività del momento.
43
Ballava in modo stralunato senza mai fermarsi anche per ore e ore, immaginando di filmarsi con una videocamera al
ritmo di qualche hit del momento o placandosi, con qualche brano più melodioso.
Per tentar di dimenticare.
Non vi era mai una consequenzialità logica: ogni sera tutto mutava in base allo stato d’animo più o meno abbattuto.
O in base all’euforia, del tutto imprevedibile.
Pascal aveva acquistato al mercato delle pulci qualche musicassetta di artisti vari e un vecchio radio-registratore.
Pochi euro ma tutto funzionava bene.
A meraviglia (…).
Carlo Molinari è nato a Conegliano (TV) nel 1964 ed è laureato in Giurisprudenza, vincitore di numerosi premi letterari
internazionali.
Ha pubblicato “Tra Strelizia e Calycanthus, “Voci da galera” (Marca Aperta Editrice), “La Margherosa”, “Il libro dei mesi 2008”
(Antonio Carello Editore) e “Cantico” (EdiGiò).
DOMENICO DEFELICE
SENSAZIONI E NEBULOSE
LA PITTURA EMOTIVA DI OTTAVIO CARBONI
(estratto)
Per la voglia d’esplorare il mondo che lo circonda, a tappe coloristiche, Ottavio Carboni ci riporta ai periodi di Picasso.
Sono momenti distinti da una determinata cromia, che denotano l’umore, il suo stato d’animo in quel preciso istante, ma
scandiscono anche il lento maturare, il modificarsi, della sua interiorità.
E’ così che nascono i vari periodi della sua pittura, come il verde, il rosa, il grigio, e pure il grigio-azzurro, del quale,
troviamo molti interessanti esempi nel catalogo curato dall’Amministrazione comunale di Sassari per l’Antologica tenuta
dall’otto novembre al 6 dicembre 2003. Ed è sulle quaranta e più opere in esso riprodotte, che, in sintesi, si può percorrere
il lento cambiamento nel tempo dello stile della sua pittura, la quale, dal frammentismo quasi astratto degli anni quaranta e
cinquanta, pur mantenendosi sempre nello stile dei macchiaioli, si avvicina al perfetto figurativo degli anni settanta e
ottanta, culminato in una serie di ritratti, specialmente femminili, in cui, a zone sapientemente curate (il viso, per esempio,
il seno), si associano altre (i vestiti, lo sfondo) realizzate con tocchi veloci d’ abbozzo. Ogni opera ha origine da due stili ed
è dalla lettura in contemporanea di entrambi che si comprende il narrato dell’arte di Ottavio Carboni.
Le radici - Esempi di tecnica bifronte possono essere considerati La modella1, Nudo2, ma anche Maria Silvia3 e
Maternità4, che dimostrano come questa maniera di sentire ed esprimere la pittura non sia un vezzo, ma abbia radici
profonde in tutta la formazione e il carattere dell’artista.
La nostra preferenza va ai lavori citati, è vero, ma anche a quelle opere ove canta la luce oltre il colore o attraverso il
colore (egli dà “forza ai colori - scrive Tonino Meloni - , esaltando la luce come fosse una struggente sinfonia”5),
metamorfosi che troviamo in Paesaggio d’estate6, per esempio, Villa antica con giardino fiorito7 o nei vasi con fiori, dove
la vaghezza delle pennellate, la quasi astrattezza delle figure, l’appena accennato, il non detto, si riassumono in un canto
basso, che altro non è se non il lieve sussurro della poesia.
Sono questi i punti sui quali è nostra intenzione soffermarci, nel tentativo di ricondurre a sintesi – anche se col
rischio di più di una ripetizione – la ricerca e il cammino da lui effettuati in tanti anni: le radici da cui ha origine la
1
1975 - Olio su tela 70 x 100.
1975 - Olio su tela 70 x 100.
3
1962 – Olio su tela 60 x 80.
4
1962 – Olio su tela 60 x 80.
5
Ottavio Carboni. Antologica 1948 – 2003, pag. 62. D’ora in poi citeremo il Catalogo solo con Antologica.
6
1970 – Olio su tela 60 x 80.
7
1959 – Olio su tela 60 x 80.
2
44
sua pittura; il canto di una Natura nella quale sembra del tutto assente l’uomo e la contraddizione della caccia; la
luce e le sue nebulose; la poesia della periferia; la bellezza della imperfezione...
Quello che presentiamo è il nostro Carboni. La nostra è una libera, personalissima interpretazione di una parte
della sua pittura. Se, poi, dovesse coincidere con quella di altri, meglio.
Ottavio Carboni è nato a Sassari il 16 novembre 1927. Dal 1939 al 1942 ha frequentato l’atelier di Giuseppe Biasi. E’
andato a bottega, insomma, come hanno fatto tutti i grandi artisti. Ma aveva appena quindi anni quando ha deciso di
abbandonare gli studi ed arruolarsi volontario nella Marina Militare, partecipando, suo malgrado, alla seconda Guerra
Mondiale dal 1943 al 1945, e perdendovi un rene. Negli anni 1946 – 1952 è a Roma, dove frequenta corsi di
Restauratore Artistico e, per pagarsi gli studi, “vivacchia a Cinecittà – scrive Enrico Porqueddu8 -, dove fa la comparsa
in film che hanno segnato la storia del cinema italiano e internazionale come “Ladri di biciclette”9, “La carrozza
d’oro”10 con Anna Magnani, “Cielo sulla palude”11 e il mitico “Quo Vadis”12.
Gli anni dal 1953 al 1957 sono per lui assai intensi di lavoro e di apprendimento. A Sassari, studia decorazione
pittorica con maestri come Filippo Figari e Stanis Dessy e consegue (1957) la Maturità Artistica a pieni voti, con
relativo diploma di insegnante di Educazione Artistica e Disegno. In quanto a lavoro, “per conto dell’Istituto d’Arte e
con il patrocinio della Sopraintendenza ai Beni Culturali, restaura alcuni dipinti al Museo Sanna di Sassari, la
Cantoria di San Michele ad Alghero, gli altari della chiesa di Santa Maria in Betlemme, gli stemmi del Vescovo
Monsignor Mazzotti e due pale d’altare del maestro di Perfugas in aiuto al Prof. Pagliani di Roma13”.
Dal 1957 si può dire che ritorna a risiedere stabilmente a Sassari (nonché a Guspini), insegnando fino al 1993 e
partecipando a una infinità di collettive in tutta Italia, oltre ad allestire, pure in Italia e all’Estero, numerose personali.
Dal 1980 ha preso parte alla Giuria di molti concorsi d’Arte organizzati in Sardegna. Lungo sarebbe, pertanto, l’elenco
dei Premi e dei Riconoscimenti ottenuti tra il 1953 ed oggi14.
Non lo abbiamo mai incontrato di persona. Allorché, a Roma, abbiamo iniziato l’attività critico- artistica, dalla quale è
scaturito, poi, Andare a quadri15 – il nostro primo lavoro in tal campo -, Carboni aveva lasciato già la Capitale.
Attraverso le tante foto che si possono ammirare: in occasione del Primo Premio assegnatogli, per esempio, al Concorso
regionale Città di Cagliari 1965; del Premio Marc’Aurelio, Roma 1975; del Premio Viareggio 1976; del Premio Dante
Alighieri, Roma 1977; del Premio Città di Lecce 1978, tutte presenti nella citata Antologica; nonché di quelle con D.
Fantini (1962), Pietro Annigoni (1962), Stanis Dessì (1962), Guttuso (1963), Aligi Sassu (1964), e le tante apparse su
quotidiani e riviste: La Nazione Sarda (1963), Sassari Sera (1 maggio 1973), Il Giornale d’Italia (1997), Il Sassarese
(30 novembre 2003), eccetera, il pittore ci appare un uomo di statura media e mingherlino, stempiato, dagli occhi
penetranti, vivace, carico di energia. “Ottant’anni, uno dietro l’altro vissuti sempre... “armato” di pennelli. Li ha
festeggiati il 16 novembre scorso. In famiglia con discrezione, com’è nel suo carattere schivo. Ottavio Carboni, classe
1927. Piccoletto, con il nasino alla Pinocchio e una testa ormai... deserta. Ma piena di momenti – scrive nel cappello
8
Il Sassarese, del 30 novembre 2003.
del 1948, della coppia Vittorio De Sica/Cesare Zavattini; il film, di recente restaurato, è tratto dal romanzo di Luigi Bartolini e narra l’esperienza
dolorosa di un disoccupato. Tra gli interpreti: Lamberto Maggiorani, Lianella Carell, Elena Altieri, Enzo Staiola.
10
(Le carosse d’or, 1952, di Jean Renoir, con Anna Magnani, Duncan Lamont, Paul Campbell, Odoardo Spadaro.
11
del 1949, di Augusto Genina, con Rubi D’Alma, Ines Orsini, Mauro Matteucci e Michele Malaspina.
12
Questo Quo vadis? (del 1951, tratto sempre dal romanzo di Sienkiewicz, già tradotto in film nei primi anni del Novecento) è di Mervyn LeRoy e ha
come interpreti Peter Ustinov, Leo Genn, Deborah Kerr e Robert Taylor.
13
Ottavio Carboni. Antologica 1948 – 2003, pag. 69.
14
Ricordiamo soltanto - perché il primo - il Primo Premio al Concorso provinciale di pittura “Marina di Stintino” (1956) e due dei più recenti: Primo
Premio al Concorso Nazionale di pittura estemporanea “Lucca e le sue mura” (1979) e il Primo Premio alla Biennale Internazionale d’Arte “Artisti
per la pace”, La Spezia 1991. Per altro si rimanda al capitoletto Premi e riconoscimenti anch’esso, comunque, incompleto.
15
Edizioni Pomezia-Notizie, 1975.
9
45
Enrico Porqueddu all’intervista apparsa su Il Sassarese del 30 dicembre 2007 -, episodi, ricordi di personaggi che lo
commuovono anche se non lo dà a vedere”. L’intervistatore lo definisce “La concretezza della fantasia” e “Un
quindicenne in divisa”, rilevando che “L’incontro con Giuseppe Biasi è stato determinante per iniziare un percorso
artistico che ancora continua” e che “L’otto settembre lo sorprende a Venezia: ‘La Patria in armi ha bisogno di voi’ e
Ottavio finisce nella Repubblica Sociale”. Uomo d’arte ma anche d’azione, insomma, personaggio che già altrove, in
altra intervista “Obiettivo Ottavio Carboni” – quasi certamente degli anni Cinquanta16 -, rilasciava battute al vetriolo nei
confronti di suoi colleghi “neonati che, pure, si avviano tranquillamente verso l’età di Matusalemme” e, a domanda su
coloro che “per spalmare i colori, usano tutto fuorché i pennelli”, rispondeva secco: “Evidentemente non li sanno
adoperare”. L’unica cosa che gli si può rimproverare è un po’ di reticenza. All’insistenza dell’intervistatore di far nomi,
rimane tetragono nel rifiuto, non volendo, confessa con ironia, inimicarsi nessuno e tanto meno uno che, oltre a
dipingere, si diletta di critica, prima per se stesso (in positivo, naturalmente!) e poi per gli altri... Noi, col nostro
carattere, ce lo saremmo senz’altro inimicato, e con gioia!
La ricerca - La tecnica pittorica carboniana si dispiega tra figurativo ed astrattismo, generando una specie di perenne
nebulosità, nella quale si sciolgono non solo erbe e fiori, ma qualsiasi oggetto: le barche, le case, i paesaggi e gli stessi
esseri – animali e uomini nei casi rari in cui sono presenti -, in qualunque tempo o stagione. Un latte primordiale, un
liquido amniotico multicolore, uno speciale nutrimento-base senza del quale, forse, l’arte di Ottavio Carboni neppure
esisterebbe. Un elemento distintivo insomma. Così, Autunno nella campagna sassarese17, per esempio, acquista
l’aspetto di un fantastico paesaggio sottomarino, con le case, in alto, sciabordate da limpide e calme acque e, in
primo e secondo piano, masse mobili di alghe in cui a predominare sono il verde, il giallo e l’arancione, tutti in
una più o meno ampia gradazione di colori. Una impressione, che trasforma la realtà solida (terreno, roccia) in sogno
liquido, come avviene anche in Campagna sassarese18, dove l’agglomerato di case sembra venire investito da destra da
una specie di tsunami. In entrambi i lavori, piccoli arbusti sfrondati in primo piano sono come fragili scheletri senza
speranza sul punto di dissolversi, in un ambiente già abbandonato dall’uomo e che il tempo va riducendo in frantumi, in
polvere, in un nuovo humus sul quale innestare una nuova creazione.
La pittura di Carboni si dispiega in uno spazio da lui di continuo esplorato tra l’arte classica della figura ancora
levigata e gli impressionisti, i macchiaioli, fino a sfiorare il vero e proprio astrattismo. In un pot-pourri di tecniche,
insomma, inteso, naturalmente, in senso positivo, più come costante ricerca, scelta di motivi via via sempre più adatti a
rappresentare il vissuto istantaneo, che come arida mescolanza di formule. Carboni non si lascia influenzare facilmente
dai movimenti, ma se ne serve piegandoli alle sue necessità contingenti, pervenendo, così, a uno stile tutto suo, nel
quale, anche quando sembra abbandonarsi “alla elaborazione sa non essere artificioso”19.
Vista in questi termini, l’etichetta di impressionista è per lui riduttiva. Lo stesso Impressionismo non è un monolitico.
Nato in Francia intorno al 1870, nel corso degli anni prese strade tutte particolari, influenzato dalla natura e dalla cultura
dei vari artisti, nonché dalle regioni in cui gli stessi si trovavano a vivere ed operare.
Carboni è legato all’Impressionismo italiano e, più ancora, a quello elaborato dai pittori sardi.
Fin dall’origine nel Movimento c’è stato uno scambio tra l’arte del riprodurre la figura – la pittura in particolare – e la
cultura letteraria in genere – narrativa e poesia. Nel Gruppo iniziale – via via sempre più numeroso -, che si riuniva al
Caffé Guerbois di Parigi, accanto a pittori come Cézanne, Monet, Renoir, Sisley, Bazille, Degas, Pizzarro, c’era, per
esempio, lo scrittore giornalista e romanziere Émile Zola (e anche musicisti, come Maître20). Ebbene, per
l’Impressionismo italiano il percorso è stato simile, come pure per la frangia operante in Sardegna. Ne è un esempio
proprio Carboni, che accanto a pittori come Filippo Figari, Giuseppe Biasi, Stanis Dessy, eccetera, non mancò di
frequentare, tra gli anni 1939 – 1942, il poeta Salvatore Ruju. Così ha ragione Wally Paris21 allorché avvicina Carboni
alla musica di Paul Hindemith e Ferruccio Busoni, come segno di mescolanze diverse e come aderenza, non voluta, del
Nostro, ma epidermicamente sentita, ai canoni fondamentali del Movimento, che è stato, fin dall’origine, mescolanza di
culture.
Carboni deve essere pittore che usa lo Studio solo in fase di ritocco e completamento dell’opera. Egli, come tutti gli
impressionisti, ama dipingere dal vivo, all’aperto – partecipa a una infinità di estemporanee -, dove i fenomeni della
Natura non sono offuscati ed elaborati dal filtro del ricordo.
Sotto il cielo al naturale, nello svolgersi delle diverse stagioni, gli accidenti investono e rivestono direttamente
l’artista, il quale s’imbeve di essi e ad essi trasmette i propri stati d’animo. Simbiosi perfetta, cioè, tra esterno e intimo.
Il pittore dipinge la realtà, o, almeno, pensa di dipingere ciò che si svolge sotto i propri occhi, ma, in vero, il risultato
è solo ciò che più gli urge dentro in quel preciso istante. Vuol dire che, senza volerlo, interpreta.
16
L’Informatore, senza data.
1972 – Olio su tela 60 x 80.
18
1960 – Olio su tela 60 x 80.
19
A. M., in Nuova Sardegna, 5 giugno 1958.
20
E’ uno dei personaggi che appaiono ne Lo studio del pittore, di Edouard Manet e che viene definito, a pag. 228, vol. VIII, della Storia dell’Arte
(Istituto De Agostini, Novara 1978) “pianista e critico”.
21
Wally Paris – Ottavio Carboni o la pittura come espressione della musica del Novecento, in Antologica, già cit, alle pagine 10 e 11.
17
46
L’essenza del perfetto impressionista è il reale che si catapulta nel suo intimo, che si mescola al suo interiore e
gli fa vedere tutto colorato e frammentato in ragione del suo momentaneo onirismo. E ciò ch’è del momento, non
sarà dell’attimo successivo. L’evoluzione è rapida come il trascorrere del tempo. Così possiamo avere, dello stesso
pittore, più opere del medesimo personaggio, del medesimo paesaggio, del medesimo oggetto, ma che rendono sulla
tela prospettive, ampiezze o campi visivi, particolari e, principalmente, differenti varietà di colori perché visti in attimi
diversi. Come esempio, prendiamo due lavori, entrambi intitolati Campagna d’inverno22, che nell’Antologica sono
distinti con i numeri 81 e 82. Sono ripresi dallo stesso punto, stessa la prospettiva, stesso il formato 60 x 80. Ma ci sono
differenze. Qualche particolare dell’uno è sparito nell’altro, forse inghiottito da quella specie di galassia in cui il
paesaggio è immerso, e alcune spatolate di bianco accennano alla luce solare, leggermente spostata in senso orario, in
una scansione di vero, come se si assistesse al trascorrere del tempo stando anche noi accanto al pittore a guardare lo
stesso punto, mentre la terra continua il suo giro intorno al sole, modificando e spostando via via le ombre e le luci.
L’impressionista è artista che coglie sensazioni d’attimi che possono, ma non debbono essere necessariamente visive.
Del visivo, però, hanno certamente l’impulso. In ogni modo, vanno oltre, fino a giungere a ciò che vien detto “musica
d’uso” (Hindemith) o “durata pura” (Bergson), che con la pittura hanno attinenza solo perché questa non è la
pedissequa riproduzione del continuo vissuto – fatta assai bene dalla fotografia -, ma dell’interpretazione in relazione a
rigurgiti interiori.
L’aspetto sfumato, quasi astratto, dell’Impressionismo, è da ascriversi proprio al fenomeno del continuo e
scambievole travaso: dalla Natura agli occhi e al cuore dell’artista e, da questi, nuovamente alla Natura. Ciò e come
Ottavio Carboni vede, non è, non può essere, la mia casa, il mio paesaggio, l’oggetto, il cielo...
Che la diversità delle tinte sia lo specchio momentaneo del suo intimo sentire, lo dimostrano anche i vari “periodi” in
cui qualcuno ha tentato di dividere la sua pittura, stadi nei quali, di volta in volta, si trova a dominare un colore o,
perfino, la semplice sua sfumatura.
Per noi non si tratta di veri e propri stacchi, cioè di serie assai consistenti di opere dello stesso taglio, intensità e
cromia, come, per intenderci, nei famosi e già citati “periodi” picassiani.
In Ottavio Carboni abbiamo solo momenti - pause pure fluttuanti, intermittenti – nei quali uno o più colori
predominano su altri o si alternano. Pezzi di una certa intensità e di una particolare gamma coloristica, certo, ma non tali
da poterli accostare ad altri e formar le serie. A unirli, questi lavori, è sì l’intensità e la quasi unicità delle tinte, ma non
la scelta tecnica, né la volontà seriale.
Enzo Espa23, nella Presentazione all’Antologica, ne fa, comunque, un puntiglioso elenco, non soltanto dei periodi
(“Periodo verde, periodo grigio, periodo rosa, periodo bruno, periodo sfumato, rosa puntinato”), ma anche della
sfumatura del colore dominante (“Bruno grigio, bruno sfumato, bruno rosa, blu bianco, bianco-paesaggio-invernale,
rosa puntinato...”). Una circolarità. Il rosa puntinato e, ancora, il rosa puntinato...
Ma, pure a condividerli, sono sempre – ripetiamo – periodi assai brevi (che, a quel che si dice24, si esaurisce, ciascuno,
al massimo entro la durata di un anno) che si alternano, o si accavallano. L’altalenare di chi cerca, non di chi ha già
imboccato la strada maestra che conduce alla meta; è il tormento di chi è ancora alterato dalle interne passioni, non di
chi le domina. Forse, per questo ha ragione Giovanni Fadda25 (ma non solo) quando afferma che Ottavio Carboni
“potrebbe essere definito un impressionista romantico”.
L’animo tormentato è quasi nota dominante dei romantici. Sennonché, affiora – o ci sembra che affiori – una qualche
contraddizione tra gli estimatori del pittore. Perché qualche pagina dopo Fadda, Wally Paris lo accosta – come già
ricordato – alla “musica d’uso”, la quale – si faccia attenzione – “era in opposizione all’estetismo romantico”. Pur
essendoci differenza tra romanticismo puro e il suo estetismo, la verità sta in ciò che noi succintamente abbiamo già
indicato, e né Fadda, né Paris, allora, sono in contraddizione: Carboni non ha mai navigato nelle acque tranquille di un
Movimento, ma in quelle perigliose della ricerca continua e forse neppure oggi, sebbene superati gli ottanta anni, ne
scorge il difficile e lontano approdo.
La Natura e la quasi assenza dell’uomo - Barche26: un’autentica selva di barche (tanto che le acque si vedono a
sprazzi); di case sulla riva; vari dossi di colline sullo sfondo; il cielo al di sopra, ridente. Natura paesaggistica, ma non
un essere umano, non un pesce, un uccello: una carne viva, cioè.
Non sappiamo quante siano le tele che hanno come soggetto Guspini. Ci sembrano abbastanza, un segno d’amore
verso quel paese, non c’è dubbio. La Chiesa di Guspini27: la piazzetta (o semplice strada?), il piccolo sagrato, il frontale,
il campanile, le case... Ma non un uomo e neppure un cane. Ecco Scorcio guspinese28: anche qui, case e case (forse la
22
Ambedue del 1978 e misura 60 x 80.
Enzo Espa: La retrospettiva di Ottaviano Carboni. Una rassegna d’arte in uno spazio-ambiente fuori del tempo – In Antologica, alle pagine 7 – 9.
24
E’ ancora Enzo Espa.
25
Assessore alla Cultura del Comune di Sassari, in Antologica..., pag. 4.
26
Il lavoro è apparso in bianco e nero su L’Unione Sarda del 24 febbraio 1968.
27
In bianco e nero sul Quotidiano Sardo del 16 Giugno 1958.
28
In bianco e nero nella rubrica “Gazzettino culturale” de L’Unità.
23
47
vista dell’intero paese), al centro la chiesa e la vetta del campanile, le colline di sfondo e il cielo. Anche qui Natura
paesaggistica, ma neppure un essere vivo. Siamo nel mezzo del giorno e gli abitanti, o sono tappati nelle proprie
abitazioni, o tutti al ...lontano mare, a tuffarsi in splendide acque! Ancora Case di Guspini29: completamente
abbandonate? Guspini: case del centro storico30: anche qui non ci sono esseri viventi e porte e finestre in primo piano –
quelle che si distinguono meglio – sono ermeticamente chiuse...
Lasciamo Guspini, andiamo altrove, chissà! Ecco le case di campagna di un Paesaggio invernale31: sono deserte, ma
forse perché fa freddo, tutto è spoglio e c’è pure la spennellata di neve. Anche in Sera d’inverno a Baddi Manna32 la
popolazione è sparita, sta forse ermeticamente chiusa in quelle case divorate dagli umidori e dalle ombre che si
addensano...
Quanti saranno i paesaggi dipinti da Ottavio Carboni? Forse migliaia e gli unici umani che ci è dato incontrare sono le
ombre dei pescatori di tonno33 e altre due ombre di pescatori che stendono le reti34, forse perché, le reti, non hanno virtù
e potere di stendersi da sole!
La nostra non vuol essere ironia, ma esagerazione, come la zummata per mettere a fuoco ed evidenziare un
particolare. Un particolare, però, che nella pittura di Ottavio Carboni è regola, o quasi. Vuol essere la messa in evidenza
di come il pittore eviti maniacalmente, accuratamente, di inserire nei suoi paesaggi persone e animali; di come egli
ponga attenzione massima alla scena e alle cose, in cui trova umori e sensazioni e nelle quali riversa passioni. A lui non
interessa eccessivamente neppure la prospettiva, né verità formali e coloristiche (…).
http://www.bibliotecaresistente.tk – Contro ogni forma di silenzio colpevole: la lotta
Natascia Prinzivalli
Sono
Sono gli zigomi austeri di mia nonna
la bellezza romana di mia madre
lo stupore di mia figlia
un rossetto sbavato
il nero che trucca un desiderio morente
una smagliatura di rete.
Sono i miei libri
i pensieri apocrifi
la solitudine sul ciglio del letto
una eco di caverna.
Noia che uccide l’enfasi
Tedio vittorioso
Cannibale ruminatrice
Sono una Parsifal
Sono Ginevra
Genevieve
Genoveffa
Non ducor duco
Moschea di El Riferc
Una strada di Roma
29
Ancora in bianco e nero, ne La Nuova Sardegna, del 1970.
1959 – Olio su tela 70 x 100.
31
1977 – Olio su tela 60 x 80.
32
1959 – Olio su tela 70 x 100.
33
Pescatori di tonno, 1958 – Olio su tela 60 x 80.
34
Stesura delle reti, 1965 – Olio su tela 60 x 80.
30
48
Missionaria
Geografa
Metamorfica
Gesuitica inquisitrice
Pagana inquisita
Il desiderio di un uomo
Santa
Cortigiana
Demiurgica
La tua febbre di conquista
Violentatrice di amori
Memoria violentata
Cieca dogmatica
Ingenua cartesiana
Strega all’indice
Paladina in terra santa
Arpedonapta del Nilo
Pellegrina per paura
Eremita per necessità
Lanzichenecca
Elegante epicurea
Impudicamente casta
Schiava di una lusinga di carne
Lavandaia parigina
Geisha del Celeste Impero
Piacere di bordello
La tua mancanza nei miei interspazi
Sono l’aguzzina che si crocefigge.
Giuseppe Giuntoli
Io la nuvola
Il vento mi porta
La’ dov’e’ l’infinito ;
Cresce in me il desiderio
di conoscere chi mi tiene
Chi sono , dove vado , che faro’ ?
Io povera nuvola alla ricerca del calore ,
quando mi sciogliero’ ,
quanto vapore ancora dovro’ raccogliere
perche’ in me diventi goccia di vita ?
David Ismaele
Bramo
La mia bramosia d'amore per te non ha tempo.
Ho atteso anni per averti,ma non sono mai passati.
Nel momento in cui sei stata mia,tutto è sparito.
Avrei potuto aspettare un eternità,e poi un altra ancora,se avessi saputo che alla fine arrivavi.
Il tuo cuore un secondo della tua anima,averla potuta sfiorare è stato sublime,luce d'eternità mi abbracciano,ed io ho
la gioia nel cuore che rifugge il tempo e lo spazio attorno a me.
Amo la vita che si esprime nell abbandono dell'altro con la paura in una mano ed il cuore nell'altra.
Pensieri
Se pensavo
Ma non pensavo
Se sapevo
Ma non sapevo
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Non voglio sapere.
Voglio farmi travolgere,e quando smetto di girare,capire che sto solo riprendendo fiato per ricominciare.
Non ho le parole.
Il tuo silenzio.
L'indifferenza.
sono la cosa più bella.
dopo la naturalezza della morte nel bruco,e degli occhi nuovi,con cui la farfalla guarda il mondo.
A volte la morte del cuore è la rinascita dell'anima.
Consigliamo vivamente ai Lettori il dialogo: periodico di cultura, politica, dialogo
interreligioso dell'Irpinia - Direttore: Giovanni Sarubbi
Serena Milisenna
LABIRINTI DELLA MIA STORIA
Vivo questo tempo.
E ne sono lo specchio
delirante
di delusioni e sogni.
La mia anima m'accompagna in questo tintinnante oscillare.
Di sole e di pioggia.
Non ho nulla.
Se non l'essere, il vivere, la memoria, la speranza.
Se non questo mio scrivere adesso di cristallo e sangue.
Non so nulla.
Ma del passato so tutto:
la mia vita è intessuta
intorno ai visi, ai racconti, alle morti, alle nascite
di nomi che mi hanno preceduto.
Che negli abissi del ricordo sono simulacro della mia Storia.
Tiziana Liverani
Madre del Mondo
nuda
ti porgo
l'incavo
delle mie mani
e l'invisibile luce
del mio cuore
Giuseppe Savazzi
Le promesse sono collegate allo scopo
La protezione, la sicurezza, la credibilità e l’autentico valore di un prodotto non dipendono dal suo costo, ma dalla
stabilità e dalla sicurezza del produttore. Il valore della garanzia del produttore è pari alla forza della ditta. Non importa
ciò che l’azienda ti promette quando acquisti il prodotto; se essa non esisterà più, quelle promesse saranno nulle, vuote,
ed inutili. Così, la cosa più importante non è la promessa, ma colui che promette. Forse hai comperato un’auto che non è
più in fabbricazione. Non solo la fabbrica ha smesso di costruire quel modello, ma ha anche smesso di produrre i
ricambi. Ora l’unico posto in cui potrai trovare i ricambi è dallo sfasciacarrozze. Le garanzie non significano
niente quando la ditta non può più mantenere le promesse. Le promesse e le garanzie vengono formulate per
produrre, mantenere e sostenere lo scopo del prodotto. Quando una fabbrica dà una garanzia, non controlla prima
il tuo ambiente, le tue condizioni o cosa sta accadendo nel tuo Stato. Il suo unico interesse è che ciò che hai
acquistato rientri nei termini della garanzia. Ogni altra condizione non influenza il contenuto della garanzia. Le
garanzie vengono elaborate dalla prospettiva del produttore, non del consumatore. Se sta piovendo, o se sta
arrivando un uragano, o se il cane è appena stato ucciso, o se hai appena perso il lavoro, la garanzia è ancora
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valida, a patto che siano rispettati i termini specificati. Al produttore non interessa ciò che sta accadendo nella tua
vita. Se ciò che hai acquistato rientra nei termini della garanzia, ti spedirà i ricambi. Il tuo ambiente non è parte delle
sue considerazioni.
Le promesse di Dio per noi funzionano allo stesso modo. Il loro valore si basa sulla stabilità e sulla credibilità di Dio.
Diversamente da molti produttori, Egli non dichiarerà mai fallimento. Terrà fede alle sue promesse in eterno, perché
sono state fatte per mantenere, sostenere e produrre i Suoi scopi per le nostre vite individuali e per l’umanità in
generale. Le Sue promesse non possono fallire perché i Suoi scopi prevalgono sempre. Come per le garanzie dei
prodotti le promesse di Dio non dipendono dal nostro ambiente. Le condizioni della nostra vita non influenzano la Sua
capacità di mantenerle. Quello a cui Dio tiene di più è la nostra relazione con Lui e la nostra fedeltà nell’aderire alle Sue
richieste. Non dovremmo permettere alle circostanze di influenzare le Sue promesse. Egli vuole che noi abbiamo
fede nella Sua intenzione e nella Sua capacità di mantenere le Sue promesse, qualsiasi cosa stia accadendo nelle
nostre vite. Non serve che noi aiutiamo Dio ad onorate i Suoi impegni.
Abramo e Sara lo impararono quando lei, trascorsi venticinque anni dalla promessa del dono di un figlio da parte di
Dio, divenne impaziente. Non era ancora diventata madre, così pensò lo scopo facendo concepire un figlio da Abramo e
Agar, la sua schiava. L’Eterno però, non gradì il tentativo di Sara di assisterLo e, quando nacque Ismaele, Dio non lo
riconobbe quale figlio della promessa, non essendo nato da Sara. “Or quello (il figlio di Abramo) che nacque dalla serva
fu venerato secondo la carne, ma quello che nacque dalla libera fu generato in virtù della promessa” (Galati 4:23). I tuoi
piani non cambiano e non possono cambiare gli scopi di Dio più dei piani di Sara. Non importa quanto tu voglia
l’approvazione di Dio nel realizzare le Sue promesse secondo i tuoi piani; Dio sosterrà solo il Suo scopo. Dio si è
completamente impegnato a sostenerti se sei all’interno dei Suoi scopi, ma se sei fuori dimenticatene. Le sue promesse
sono più potenti dei tuoi piani. Il piano di Sara non faceva parte dello scopo di Dio, così Egli non lo sostenne. Le Sue
promesse vanno di pari passo con il Suo scopo, perché tutte le garanzie sono correlate al fine prioritario del produttore.
Così vediamo che lo scopo precede sempre ed influenza la funzione, il progetto, il potenziale, la natura e le capacità
intrinseche di un prodotto. Predetermina anche le richieste ed i compiti che il Creatore chiederà ad un prodotto e le
dotazioni da lui fornite a tale scopo. Infine è una priorità rispetto alle promesse, in quanto le promesse vengono fatte
per consentire al prodotto di realizzare l’intento originale del Creatore.
Domenico Turco
Il pane della libertà
Petali di fiori, rugiada e sogni:
nient’altro pasto ci sarà concesso
nel freddo inverno che trascorreremo
in questo campo di concentramento.
Resi pazzi dal digiuno forzato
trasformiamo in pietanze immaginarie
le cose quotidiane: la luna
è marzapane, cioccolato il ferro
delle catene, e zucchero a velo
la neve che fascia di gelo i piedi
avvolti a malapena da scarpe consumate.
Ma il cibo che qui ci manca di più
è il pane della libertà, negato
a tutti i prigionieri della Terra,
agli innocenti vinti dalle tenebre,
devastati da una fame ancestrale.
Generata Su una Nuvola
Lontano lontano c’è una ragazza
con fiori colorati tra i capelli,
la misteriosa regina dei sogni
che strega la mente in volo nel tempo
come stelle cadenti a San Lorenzo…
Lei vive di polline e rugiada fresca
raccolta dalle mani delle fate,
vestita di raggi d’arcobaleno
51
danza sotto la luce del mattino,
seta che avvolge l’aria e la accarezza
gentilmente, gentilmente svelando
i segreti dell’infinito all’Anima,
figlia della Bellezza inalterabile.
Ed io, nato dal fango originario,
divento statua d’oro a mezzogiorno
quando le acque ambrate del paradiso
invadono le terre del crepuscolo
e un nuovo giorno appare all’orizzonte
illuminando di splendore il mondo.
Il cuore s’incatena nel tormento
se nel gioco dei colori riemerge
lo spettro di colei che spicca il volo,
la più bella di tutte, la radiosa
fanciulla generata da una nuvola…
L’ uomo libero
L’Uomo Libero non ha confini,
il suo limite è l’infinito,
le sue vie sono sempre aperte
come le porte di un tempio invisibile
– è lui, il sacerdote dell’Ignoto…
L’Uomo Libero spregia le catene
ma non si lascia travolgere dalla lotta,
il suo campo di battaglia è la vita,
la prima preoccupazione, l’Amore.
L’Uomo Libero è vento:
accende le ceneri addormentate,
spettina le foglie degli alberi,
grida dall’alba del sole
al tramonto della luna
per ricordare al mondo
una sola parola: libertà!
“La sostanziale irriducibilità della vita alla ragione non implica tuttavia la rinuncia ad indagare le misteriose ragioni che la
governano.”
Domenico Turco ( Canicattì –AG- 1976) Poeta-filosofo, saggista e scrittore, autore di 5 libri pubblicati dal 1994 al
2006. Collabora come critico, editor, operatore culturale e giornalista "free lance" con quotidiani, periodici, riviste, case
editrici e siti Internet nazionali e internazionali. Ulteriori su: http://www.mondo3.it - http://rossoenero.myblog.it
Sibilla
Aleramo
Chiudo il tuo libro,
snodo le mie trecce,
o cuor selvaggio,
musico cuore…
con la tua vita intera
sei nei miei canti
come un addio a me.
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Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,
liberi singhiozzando, senza mai vederci,
né mai saperci, con notturni occhi.
Or nei tuoi canti
la tua vita intera
è come un addio a me.
Cuor selvaggio,
musico cuore,
chiudo il tuo libro,
le mie trecce snodo.
(Sibilla Aleramo a Dino Campana, Mugello, 25-7-1916)
Dino
Campana
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose.
( Dino Campana a Sibilla Aleramo, 1917)
Vito Maltese
Ci sono Angeli fermi al metrò,
in attesa di una corsa che vegli sul desiderio,
e pensi che il mondo sia follia
vestiti di piacere che imbracano cavalli,
ed io in attesa del tuo risveglio ammirato dal fisico estasiante,
piango felice come se vedessi una donna in bilico su di una corda da circo,
e penso che sparirò...
dopo aver regalato emozioni
di un tempo che parli del cielo,
cancellando ipocrisie in fremiti partorenze.
Costantino Liquori
Tu suoni alla porta
La porta trattiene il respiro. Tu suoni alla porta, io ti vengo ad aprire. La mia mano destra accompagna la porta. Tu
hai la mano sinistra occupata, una valigia.
Ci guardiamo, tu non dici niente. Appari presso di me con un collo troppo lungo e due spalle troppo esili. Cerco i tuoi
occhi.
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Stai per fare un passo avanti, dunque lo fai. Chissà per quale motivo mi viene in mente che dietro potresti avere una
coda di gallo. Potresti avere un cigno sgozzato nella valigia, potrebbe essere un dono per me.
Ora poserai il cappotto, oppure senza fare nulla tornerai indietro, o piuttosto aprirai quella bocca nascosta dalla quale
usciranno arance invece che parole.
Posi la valigia, lo fai senza piegarti, senza cambiare il ritmo del tuo mistero. Quando hai suonato sapevo il tuo nome e
tutto il resto, ora ti guardo e devo pensarci bene.
Ti stai per liberare del cappotto, non dici niente. Adesso sarebbe del tutto naturale se la tua valigia si aprisse da sola,
solamente comandata da un’esigenza.
Ne uscirebbe una sola stanza con nel mezzo una sola sedia e in alto una sola finestra, con un solo raggio di sole.
In un angolo remoto un sognatore orologio.
Cosa hai intenzione di fare adesso? Entrerai più in fondo e prenderai possesso dei sogni ancora a disposizione? Vorrai
senz’altro lavarti le mani, ed io potrò finalmente dirti.
No, l’attesa non si rompe, ed io devo ancora rispondermi a proposito di te, che per il momento non accenni ad andare
avanti.
Tu mi osservi da un universo ritagliato e incollato, universo che tende al marrone, o meglio, il marrone tiene insieme
codesto universo.
Alle tue spalle, dietro di te più nitida e lontana, in prospettiva, una teoria di costruzioni con finestre fitte, tante,
tutte uguali. Sulla strada un uomo tende le braccia ad una donna costretta a subire il prolungamento della sua
stessa testa. Ma c’è anche un secondo uomo che vorrebbe prenderla con sé. Per strapparle le budella e sputarle
via.
A fianco, a sinistra della contesa, una figura in negativo guarda un punto lontano e non dice. Forse è di te che si tratta.
Immediatamente sotto, un insetto pare sbocciare da un volto più grande, un viso che gli fa da tana, una faccia d’argilla.
E’ un pensiero che ti rientra addosso dal plesso solare. E’ una presentazione come un’altra, un modo di farsi ricevere, un
sistema per mostrarti a me. Un rebus.
Avanzi nella penombra, emerge il tuo viso.
Mi appari disegnata su di un pallidissimo celeste, un celeste raschiato via nel vano tentativo di consumarlo, di
estinguerlo. Un celeste anziano.
La bocca tua un accennato rombo, dipinto giusto perché ci deve stare, giusto perché è giusto che ci si metta. Un rombo
che adesso è muto, stretto e intenzionato a non aprirsi, almeno per il momento.
Nel celeste sbiadito e corroso hai una moneta per orecchino, e la collana si compone di altre monete con altrettante
facce messe a confronto con la tua. Tante copie di te.
Il filo bianco che tiene insieme il tuo viso si immerge nel corpo che non si vede, che non trova la luce che abbisogna.
Ti trovi già, senza aver camminato, ai margini della stanza che promette. Ma che ancora non regala luce piena.
E’ lì, ai margini del cambiamento di stagione, che si rivela per un lungo attimo la donna fiore.
Linee rosa, linee blu di Prussica. Questi sono i contorni che la finestra, ancora lontana, mi rivela per dimostrare la sua
commozione nel riceverti.
La donna fiore un folletto, la donna fiore dura ben poco. Ti guardo meglio Ti osservo di più e non riesci a diventare un
fiore a me familiare, non so ancora distinguere.
Non ti decidi.
Adesso avverrà l’esplosione, ti solleverà e, invece di scagliarti, ti terrà sospesa in alto, inclinata ad arco. Nel fumo
soltanto un uccello impassibile osserverà la tua sospensione, a sorvegliare che tu non ricada, che la tua scomoda
situazione si tramuti in disegno e ti condanni.
Non c’è verso di decifrarti, non c’è verso di chiarire.
Il qualcosa che ti ha seguito fin qui non vuole farsi avanti, resta timido e si dimostra garbato dietro di te.
Il gonfio e verde mostro ha un pallido sfondo di cartone attaccato al sedere. Non avanza, aspetta l’evolversi della scena,
che io dimostri almeno piacere nel riceverlo.
Immenso nella sua mole e leggero al tempo stesso. La sua una terracotta di un bel verde davvero. La sua una testa metà
di toro, l’altra metà appartiene all’elefante. Le corna e le zanne sono bianche, gli occhi, due fori neri spaventosi e
profondi, hanno qualcosa dell’animale domestico. La terrificante mascella non è altro che un origamo di cartone.
A piacere si può scegliere il verso del mostro, si può anche unire il davanti con il didietro. La proboscide,
all’occorrenza, può partire dal sedere e andare a congiungersi alla bocca, diventare coda. Sta di fatto che il mostro
domestico è tutto lì, da qualsiasi parte si cominci a considerarlo. Sta di fatto che tu l’hai portato.
Cos’altro hai lì con te, cosa vuole significare tutto questo? Sei nella stanza premiata dalla finestra in piena luce. Forse
vuoi sederti, hai ancora il cappotto.
Ma il buio improvviso ti riassale, ti afferra, vuole cambiarti fisionomia. Tu non fai resistenza.
La tua metamorfosi assume l’aspetto di un polmone canceroso, adesso possiedi una testa di varano. Il braccio di
cobra accarezza affettuoso una forma composta di pezzi che potrebbero essere i tuoi.
Ogni particolare si allontana e diventa difficoltoso il riconoscerti.
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Stregonerie. Ti impregni nuovamente di colore, di molto più alta, accetti e ingoi la luce. Un grande e vaporoso mantello
rosso, rosso di piume al posto di un comune cappotto, per farti regina, per elevarti a sposa.
Sopra il mantello la testa di civetta, una civetta dagli occhi gelidi e cattivi,come di solito non si addice ad una sposa in
carne ed ossa.
Con la nuova testa sei altera, finalmente più forte. Non hai alcuna pietà per la tua parte scacciata, che si attarda ancora ai
tuoi piedi, che si ostina e piange. Non accetta di essere di molto più brutta e fragile della madre sua.
Tu sei l’atroce sposa e fai la prova generale dei tuoi atteggiamenti.
Potrei metterti a disposizione una frase esca, per darti l’opportunità. Vorrei individuare il costruttivo nel tuo silenzio
enigmatico.
Ora è la volta del Papa e dell’antipapa. Ora hai una testa di cavallo, hai due teste di cavallo che si stanno davanti.
La prima con tanto di armatura e grandiosa nel suo aspetto, servita e amata quanto le si addice. La seconda nel suo
logoro vestito rosso stracciato e vinto, ma doppiamente pericolosa nella sua sottomissione.
Ambedue si gettano in faccia quello che posseggono di regale.
Tu mi osservi. Si è rotto il ghiaccio oppure stai per andartene di nuovo. Se posso ardire vorrei la tua idea sul silenzio.
Sei sul divano marrone. Il muro, lo spigolo, il chiaroscuro, il palmo cubista della tua mano. Il concavo, l’orecchino e la
profondità, il pollice, l’ornamento e la solidità. Il muscolo, il tendine, le dita della mano e della candela l’immagine
ricorrente. La piramide e il recipiente, la proposta trapezoidale. Il tuo laboratorio di falegname. Il tuo negozio di
bambole.
Ti riproponi, continuamente mi costringi.
Accanto a te un frutto aperto, la sua polpa rossa e lacerata. Te come il frutto, il suo dividersi, il suo miracolarsi in viva
carne. Tu e i miracoli, uniti e inseparabili.
Pieghi la testa all’indietro, questo il momento cruciale, questa la chiave del rebus, un’incrinatura nella tua ermeticità.
L’occasione di saperti con dettagli maggiori.
La testa all’indietro. Qual è il movimento seguente?
Sul tuo viso un intero paesaggio. Neve e rocce, tetti e camini, scalini e vento, laggiù alberi secolari, colline e colline,
echi e sogni, una finestra. Sanatorio.
La mia casa sembra già al corrente, ma io fatico a capire. Ora ti espandi fino ad abbracciare una figura che si forma sul
momento, approfittando degli spazi che tu stessa lasci vuoti. La circondi, fai in modo che il suo colore sia digerito dal
tuo.
E’ un lungo e totale baciarsi senza che nessuno spazio resti escluso.
Dove sei tu, dove il tuo rosso? E’ turgido e immerso nel bacio. Si scorge solamente un tuo piede, rimasto nel suo colore
d’origine. Un piede che all’amplesso arrendersi non vuole.
La tua entrata.
Vado con gli occhi al pavimento. La valigia ti è affianco e tu sei intenta ad estrarre. Ben venga un’azione precisa.
Estrai e posi delicatamente, sistemi sul pavimento quello che la valigia ti vuole dare. Gesti da rituale.
Affondi la mano fino quasi a far scomparire il gomito, tiri su, estrai e posi, tiri su ancora, ancora estrai, posi.
Ecco la donna foglia, la donna libro e la donna preghiera. Segue la donna lillà, la donna lievito e la donna sussurro.
Inoltre la donna acqua, la donna profumo e la donna esternata. Segue la donna anagramma. Esce la donna ricamo, la
donna rifiuto e la donna girasole.
Posi la donna lucertola, la donna sirena e la donna troppo alta.
Lentamente la donna erba, la donna gravida e la donna bambina. Distribuisci anche la donna leonessa, la donna
indaffarata e la donna hollywoodiana.
Vuoi grattarti il naso ma continui il flusso, si fa strada un tic nervoso.
Una dopo l’altra la donna incarico e la donna sorriso, la donna sonno e la donna martello, la donna inchiostro e la donna
che va via. La donna che mai più si ripresenta, la donna offesa e la donna derisa.
La donna guerrigliera, la donna buongiorno e la donna speranzosa sono le ultime ad uscire dalla valigia.
Una folla sul pavimento. Io vorrei osare un chiarimento. Io che sperimento obiezioni.
Sei senza cappotto, sei con le gambe accavallate e ti rivolgi a me, limpida e inesorabile.
Costantino Liquori nasce a Roma nel 1952, Artista poliedrico.
Collabora a diverse sceneggiature cinematografiche. Realizza più di 60 documentari per la rete 3 della Rai. Regista di studio dei
seguenti programmi: “Tortuga”, “L’Altra Edicola”, “Parola di medico”, “Edicola medica”. Dal 1997 si interessa alla fotografia e
all’elaborazione digitale.Pubblica il libro “Orango patata” con la casa editrice “Sottotraccia”.Consulente della società Tecnark Italia
per mostre ed eventi culturali, firma i seguenti progetti: “La gente Inuit”, “On the way” ( le invenzioni più importanti dell’uomo dalla
nascita di cristo fino ad oggi), “Il Tevere e l’acqua sua”, “L’acqua e le sue storie”, “Capri fra 800 e 900”. Nel 2008 pubblica i libri
“Caimani” e “Etilico punto it”. Contatti:[email protected]
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III Festival Parola nel mondo
Vorto en la mondo, Palavra no mundo, Palabra en el Mundo,
Worte in der Welt, Rimayninchi llapan llaqtapi,
Paraulas in su Mundu, Cuvant in Lume III, Parole dans le Monde,
Word in the world
Dal 14 al 17 maggio 2009
La Pace, il pane e l’acqua di ogni giorno
Ai poeti che pure si ritengono buoni organizzatori, gente di coerenza e azione; ai professori, col
compito di dare luce alle menti; ai giornalisti, quelli dalle verità che non zittiscono, agli operatori culturali, quelli che
fanno fiorire i sogni. Cinque esperienze di Palabra en el Mundo valgono una storia, cinque volte abbiamo convocato
per celebrare la poesia e leggendo come atto di solidarietà, sia col Festival Internazionale di Poesia dell’ Habana, sia col
Congresso Brasiliano di Poesia. E la risposta è stata sempre più dello sperato, comunque sempre meno del possibile.
Con la presente convochiamo tutti i poeti, professori, giornalisti e operatori culturali, artisti in generale, affinché si
sommino all’ iniziativa: adesso Parola Nel Mondo è un Festival di Poesia che si svolgerà in ogni luogo dove
incontreremo riscontro.
Diciamo che la pace mondiale è possibile se raggiungeremo l’ obiettivo di unire le nostre voci, diciamo che l’acqua e la
terra possono e devono essere una risorsa di tutti, diciamo che il futuro dipende dai nostri atti di presenza, diciamo che
la poesia degli atti può più che i cannoni, diciamo che la civilizzazione tutta dipende da quanto saranno più forti la
parola e l’amore per la vita dell’ecatombe di armi o i crolli in borsa. Diciamo poesia e diciamo di unire le nostre voci in
coro, diciamo poesia e con questa illuminiamo la vita, alleggeriamo un cammino, indichiamo i risultati, abbracciamo la
causa di cantare all’ alba, all’ erba che cresce, al fiore mentre sboccia, diciamo poesia per carezzare, per sussurrare, per
cantare, per gridare e, in ognuno di questi gesti, diciamo Cambiare la Vita.
Per queste ragioni d’amore e poesia invitiamo ad organizzare Palabra in ogni luogo: scuola, teatro, caffè letterario,
ristorante, anfiteatro, spiaggia, parco, piazza, strada, case, circoli culturali, stazioni radio o tv, salone di conferenze,
centri commerciali, stazioni…ovunque sia impossibile.
Una o tante letture di poesia, che unite ad altre in diversi punti del pianeta daranno forma al Festival di Poesia di
Parola nel Mondo.
Le idee che vogliamo mettere in movimento partono dalla poesia, e questa va sempre più in là del semplice leggere
poesia. Pretendiamo che questo Festival sia luogo d’ incontro, un invito inesorabile, una comunione tra quelli che
scrivono e quelli che vivono. Un’ impronta nell’anima, un metterci d’accordo nel necessario, ciò che non ha nome, un
momento per caricare le nostre armi di futuro.
Il III Festival Parola nel Mondo si svolgerà, in ogni luogo che vorrà accogliere l’invito, dal 14 al 17 maggio 2009.
Crediamo che si possa, crediamo che si debba e soprattutto vogliamo portare poesia da leggere agli studenti; che pure
loro la leggano, e che esprimano le emozioni provate con disegni, scritti, ogni forma d’arte.
E che questi risultati vengano scambiati con altre scuole della stessa zona o diversa, poco importa.
O evidenziati in mostre estemporanee.
Questo è invito del Progetto Culturale SUR Internazionale (Proyecto Cultural SUR Internacional) e della rivista di
Poesia Isla Negra, destinato, in ogni luogo, a coloro che possono fare proprio il lavorare in comune accordo con diverse
entità culturali. Lo lasciamo nelle vostre mani, affinché si sommino cuori e forze. Perché la poesia sia qualcosa in più
che una parola.
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Gabriel Impaglione
Tito Alvarado
Contatti, info per l’ Italia: [email protected] / [email protected]
Enzo Cumpostu
Operazione Shardana
Oggi, al sorgere del terzo millennio, prestare servizio per tutelare e garantire la giustizia e l’ordine nella
nostra isola potrebbe essere considerato, per certi versi, quasi una vacanza, un premio, vista l’eccezione di
relativa beatitudine, rispetto alla regola diffusa della globalizzazione criminale in tutta Europa, in certe aree
dell’isola; in questo senso l’isola dei nuraghi e dei dolmen, delle domus de janas; tutti gli antichi e silenziosi
testimoni, forse, di tanti efferati misfatti e crimini nella storia antica della nostra terra e delle genti che
l’hanno abitata, potrà sembrare davvero un Eden. Tuttavia, tutto questo è solo apparenza poiché la realtà ha
mille e più sfaccettature; realtà spesso isolate e non sempre conosciute ai più,, drammi sociali che hanno
investito e che investono comunità intere, famiglie: dalle leggi delle chiudende del periodo di Carlo Alberto
alle new economies con internet in primo piano, il crimine continua, purtroppo, il suo diabolico “itinere”.
Ma ieri, però, di certo così non era; ieri inteso come il passato appena trascorso, quei pochi decenni che ci
separano e che comunque abbiamo vissuto, io per primo: nella mia infanzia, nella mia giovinezza; altri, tra
voi, in età adulta e altri ancora leggeranno, solo nei libri e nelle cronache dei giornali rispolverate negli
archivi microfilmati, quel che avvenne in questa frazione di tempo passato non lontano dai nostri ricordi.
Fantacriminalità ,fantapolitica, fantaspionaggio o fantaterrorismo? Niente di tutto questo: semplicemente un
qualcosa che sarebbe potuto accadere realmente…
La nave arrivò, come tutte le mattine, puntualmente alle sei e trenta di quella giornata d’Aprile del
1980, attraccando nel molo; il solito viaggio, la solita traversata e monotona spola quasi fosse un Caronte di
dannati peregrinanti, traghettati da una parte all’altra del Tirreno con il suo carico di merce umana, talvolta consistente e
talvolta meno.
L’umido mattino di primavera apparve subito agli occhi del giovane Capitano Gigli, promettente ufficiale della
Gendarmeria, capocorso all’Accademia Militare, due encomi al suo attivo, profondo conoscitore di diverse lingue
straniere, comprese quelle orientali; diversi, inoltre, gli incarichi importanti e delicati ricoperti nella sua seppur breve
carriera di ventottenne ufficiale dell’Arma combattente.
Un ragazzone alto ben più di un metro e ottanta, biondo dagli occhi azzurri, con origini nordiche; sportivo, ben piazzato
e così non poteva che essere per lui, paracadutista e istruttore esperto di alpinismo e rocciatore, subacqueo e pilota
d’elicottero e questi erano i brevetti che luccicavano sopra i taschini che addobbavano la sua impeccabile uniforme
fresca di sartoria.
Le ragazze del paese, dove avrebbe trascorso le ore libere dagli impegni di lavoro frequentando i caffè del centro
cittadino, non sarebbero rimaste insensibili di fronte al fascino del giovane fiorentino; schivo e sospettoso ed allo
stesso tempo attento, perfetto calcolatore, freddo e determinato qualora il caso lo avesse richiesto.
E con un debole, quasi un tallone d’Achille: la sua – spesso poco controllata – passione per le donne; questa,
forse, la vera ragione che gli era valso il trasferimento, di certo inatteso e non considerato, in quel luogo, quale
comandante della Compagnia.
La sua Alfa impiegò poco più di un’ora per giungere a destinazione, dove nella caserma del Comando v’ era, ad
attenderlo, il Colonnello De Dominicis, un poco meno che sessantenne ufficiale in prossimità della sospirata pensione,
oramai rassegnato per la sua mancata promozione a Generale, visto che la greca sulle spalline la vedrà solo il giorno in
cui lascerà il servizio.
De Dominicis, Comandante della Legione, si chiedeva cosa diavolo aveva fatto questo promettente giovane ufficiale per
essere trasferito, dall’oggi al domani, in piena Barbagia.
La risposta non si fece attendere: lo chiamò, giorni prima, un suo vecchio compagno di corso, il Colonnello Rosario
Mancuso del Comando Generale.
Gli disse che Gigli fino a pochi giorni prima era in servizio in uno speciale Nucleo Operativo Antidroga appena
costituito e che seguiva una importante nonché delicata indagine relativamente a un grosso traffico di cocaina tra il Sud
America e la capitale.
E nel corso di queste indagini – spiega sempre Mancuso a De Dominicis – Gigli, attraverso una attività di copertura, era
riuscito ad introdursi in ambienti della “città bene” dove, senza rivelare la propria identità, frequentava una ragazza,
Veronica, figlia di un alto magistrato, dedita all’uso di coca in maniera assidua e amica di alcuni personaggi equivoci,
probabilmente gli stessi che provvedevano a rifornire la cerchia dei suoi amici ogni qualvolta veniva organizzato un
festino “ a tema”.
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Gigli preparò dopo alcune settimane di paziente e meticolosa opera investigativa con un pizzico d’ intelligence una
trappola ben ingegnata per i trafficanti; i quali lo credettero, oltre che intimo amico di Veronica, interessato all’acquisto
di una consistente partita di coca. Il giovane Capitano si dimostrava pratico nel camuffare e interpretare parti
estremamente rischiose.
E ci cascarono proprio “come dei grulli” – amava scherzosamente ricordare Maurizio ai suoi colleghi, compiaciuto per i
risultati operativi ottenuti.
La risposta della malavita locale, purtroppo, non si fece attendere: dopo circa una settimana, mentre usciva di casa, in
pieno centro e in una via non lontana dalla caserma in cui Gigli lavorava Veronica venne avvicinata da un uomo,
travestito da finanziere; due, tre, quattro colpi di Luger P08, alla quale preventivamente era stato applicato un
silenziatore, di certo non capace di attutire completamente i gas dello sparo ma utile per confondere il rumore, nel pieno
caos delle ore di punta in un intensissimo e caotico traffico; colpi sparati in rapida successione con la canna che toccava
le costole e nessuno, per strada, si era accorto di quel che stava accadendo, se non quando la videro cadere bocconi,
pesantemente, sull’asfalto, con un sordo tonfo. Credevano, i malavitosi, che Veronica fosse una spia dei Gendarmi
mentre così non era; durante una perquisizione, ordinata dal magistrato e coordinata operativamente dallo stesso Gigli
vennero sequestrati nella villa del capo dell’organizzazione (e nel bunker seminterrato della medesima) quantitativi
industriali di cocaina, migliaia e migliaia di banconote dai più svariati tagli: dalle dieci alle cinquanta e centomila lire
nonché dollari, lire sterline, marchi tedeschi, tanti marchi tedeschi…
E poi armi, munizioni, esplosivo e, dulcis in fundo, una serie di videocassette e pellicole Super 8 e 35 mm., riprese
con videocamere e cineprese professionali nascoste nelle case dove si svolgevano i coca-party; in alcuni, Gigli
riconobbe Veronica ma era facile riconoscere anche molti altri personaggi di rilievo: i criminali, evidentemente,
avevano acquisito i filmati con la chiara intenzione ricattatoria nei confronti di qualcuno.
Fu questa la vera ragione per la quale Maurizio, il capitano fiorentino, venne di punto in bianco trasferito nell’isola di
Sandalyon: il padre di Veronica voleva a tutti i costi che la storia si chiudesse lì e tutto fosse messo a tacere; lo voleva
lui e lo volevano gli amici del padre, alcuni dei quali erano presenti e ingloriosamente immortalati proprio in questi
filmati estremamente compromettenti con altre donne della Roma dei salotti “bene”.
L’Alfa bianca acquistata dal padre di Maurizio un mese prima a Firenze, quasi a festeggiare la promozione al grado di
capitano, arrivò sulla piazza antistante la caserma del centro, nel quale ad attenderlo vi era il Colonnello De Dominicis.
Dopo una veloce presentazione, De Dominicis accompagnò Gigli all’interno della caserma, nell’ufficio del
Comandante. Gli onori di casa li fece il Maggiore Mendez, altro valido ufficiale e abile investigatore, Comandante ad
interim.
De Dominicis presentò Gigli al suo predecessore, il Capitano Solanis, destinato ad altro incarico al Nord.
Il Colonnello, in un improvvisato briefing, insieme al Maggiore Mendez avvertì Gigli che nel luogo, negli ultimi tempi,
erano stati segnalati strani movimenti che facevano ritenere imminente la preparazione di un ennesimo sequestro di
persona.
E, sempre nell’ufficio di Mendez, Solanis lo istruì su quelli che riteneva i personaggi sui quali avrebbero dovuto
ricadere maggiormente le attenzioni degli uomini della Compagnia, in particolare quelli della “squadriglia”.
Dopo pranzo, il Colonnello si congedò dai suoi uomini e ripartì mentre Mendez, Solanis e Gigli si avviarono ad
accompagnare verso la sede di destinazione il capitano nuovo arrivato.
La strada per raggiungere il paese era tortuosa e poco sicura, tant’è che per percorrere poco più di trenta chilometri
impiegarono tre quarti d’ora.
Gigli prese possesso dell’alloggio del comandante e a dire il vero fu come impressionato dal poco felice luogo nel
quale era stata costruita la caserma, con le sbarre alle finestre e la porta blindate non perfettamente integrata al
piccolo borgo:
il terrorismo rosso faceva paura anche lì, non solo nelle metropoli del Centro e del Nord.
L’indomani, di buon mattino, Gigli chiamò a raduno tutti i suoi uomini: “ Buongiorno a tutti, sono il nuovo
comandante della Compagnia, sono il Capitano Gigli, Maurizio Gigli, fiorentino. Per me la Sardegna è un
ambiente nuovo sotto la veste di ufficiale dell’Arma della Gendarmeria, non capisco un’accidente del vostro
dialetto! Spero che con il vostro aiuto e i vostri consigli riesca a continuare nel migliore dei modi il lavoro portato
avanti in questi anni dal mio collega Solanis. Penso che andremo d’accordo: sono qui sperando che diate il
meglio di voi perché si giunga a importanti risultati”.
Gigli fece parlare un po’ tutti, cercando di capire carattere e personalità in ognuno dei suoi uomini: il maresciallo
maggiore aiutante Abis, quello che sarà il suo braccio destro, Comandante della Stazione; sempre con la battuta pronta,
un barzellettaro simpatico e sornione che abitava, insieme alla consorte e ai suoi due bambini, poco lontano dalla
caserma; e poi Lorenzi, il brigadiere trentenne appassionato di caccia e cercatore esperto e appassionato di funghi,
conoscitore dei posti, compresi quelli meno accessibili. E via via gli altri.
Gigli volle subito toccare con mano quanto raccomandatogli il giorno prima da De Dominicis e Solanis: chiamò il
maresciallo per farsi consegnare i fascicoli con tutti i rapporti informativi dei personaggi che rappresentavano la cerchia
dei pregiudicati sui quali riporre particolare attenzione: tra questi spiccavano i nomi di Iuanneddu Tancas, conosciuto
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come “Recottu”, due rapine a mano armata alle spalle, tentato omicidio, detenzione e porto d’arma da guerra,
detenzione di esplosivi, indagato ma poi prosciolto per un tentativo di sequestro.
A seguire, nel suo sfogliare ed esaminare le carte, c’era Peppeddu Frues noto “Ballasola”, nomignolo che gli venne
cucito addosso allorché a soli diciotto anni uccise un suo confinante di pascolo con una fucilata a palla che squarciò,
devastandolo, il torace della vittima, uccidendolo all’istante. Per quel gesto insano da balente Frues scontò dodici anni
di prigione. Gesto attribuibile sia a futili motivi di sconfinamento del bestiame ma soprattutto a una relazione segreta
che la vittima ebbe la disgrazia di avere con la fidanzata di Frues il quale, evidentemente, non dimenticò.
Gigli mandò subito Lorenzi verso le località nei quali entrambe – “Recottu” e “Ballasola” – avevano i loro ovili; ovili
che erano – secondo gli uomini di Gigli – luoghi pretestuosamente utilizzati quali attività di lavoro dove tutto accadeva
e si faceva fuorché praticare l’antica e nobile arte professionale “de sos pastores”.
Il livello d’allarme era alto, sia Recottu che Ballasola mancavano dal paese da più di una settimana e tutto lasciava
presagire che da lì a poco sarebbe successo qualcosa.
Ci fu una spiata via radio.
Gigli lesse la nota e da decisionista senza mai esitare un attimo, passando rapidamente dall’idea all’azione disse: “
andiamo! Forse facciamo in tempo”. Radunò di tutta fretta i suoi uomini e partì velocemente per il luogo segnalato.
Fece fermare le auto lassù in alto, prima che i tornanti in discesa permettessero loro, zigzagando sui tornanti quasi se
fosse un percorso da gara rallystica, di raggiungere il porto; da lì sopra, con un panorama davvero mozzafiato, sarebbe
stato molto facile controllare i movimenti dei due, visto che i militari rimasero nascosti tra la macchia mediterranea e
con i binocoli e le radio trasmittenti a portata di mano, perfettamente mimetizzati per non farsi notare non solo dai due
interessati, relativamente distanti, ma soprattutto da qualcuno di passaggio che avrebbero potuto fungere da palo o
comunque essere in combutta con loro.
Dopo tante ore l’attesa di Gigli e dei suoi uomini la faticosa opera di sorveglianza dei due fu premiata: all’orizzonte,
infatti, si delineò la sagoma di una imbarcazione, presumibilmente una motobarca, tra novanta e i cento piedi di
lunghezza.
Lorenzi prese il suo Swarowsky: “ strano capitano… non mi sembra una motobarca del posto…da pesca o turistica…
questa è più grande, sembra più grande e diversa”
Gigli controllò: aveva la passione per il mare e la vela, quindi di imbarcazioni da diporto se ne intendeva eccome.
“ Quello infatti a prima vista sembrerebbe un motopesca ma non lo è” disse Gigli. Intanto s’ accorsero che Recottu e
Ballasola si erano frettolosamente avviati verso un gommone ormeggiato lì vicino, dove un ragazzo era lì pronto ad
attenderli.
“ La barca non entrerà in porto, stanno andando a recuperare qualcosa” disse con certezza Gigli; così effettivamente fu:
al loro rientro, il gommone conteneva un pesante carico, ne contarono otto di casse, parte di legno e altre ancora
metalliche.
“Capità e che cos’è? Droga?” chiese quasi con una espressione di meraviglia il giovanissimo Gavino Manicas,
assegnato di recente.
“ No Gavi’, non è droga..Secondo me… è altro…” disse sottovoce Gigli rispondendo agli interrogativi dell’altro.
Non appena i gommone toccò terra, Gigli diede ordine ai suoi di abbandonare le postazioni e ritornare alle auto.
“ Qui Condor Uno a Cervo Quattro e Cervo Cinque: non intervenite, ripeto: non intervenite! Lasciamo ritornare Alfa e
Bravo ai loro obiettivi” ordinò il capitano via radio ai suoi.
Così fecero: Lorenzi e altri tre militari seguirono il furgone senza farsi notare e venne confermato il sospetto del
capitano e cioè che quel misterioso carico venne dapprima portato in prossimità dell’ ovile di Recottu per poi essere
trasferito, in nottata, verso le pendici di Monte Contone.
All’alba del giorno dopo, Gigli che con Abis e Lorenzi aveva pianificato una perlustrazione a ventaglio, alle pendici del
monte - prima di procedere alla perlustrazione meticolosa delle grotte – diede ordine di agire. Era questa, infatti, la zona
dove erano stati visti i due disgraziati trasportare il carico sbarcato dalla misteriosa motobarca.
Monte Contone era a circa due chilometri dagli ovili dei due pseudo allevatori e sulle pendici vi erano gli accessi,
non visibili e difficilmente accessibili ai più di diverse grotte naturali; c’è da dire che gli uomini della squadriglia
di Lorenzi conoscevano le più note e accessibili ma ve ne erano alcune, in particolar modo una, non facilmente
raggiungibile se non con particolari attrezzature.
“Vediamola” - disse deciso Gigli “ potrebbero esserci delle sorprese”.
Lorenzi entrò per primo e lo seguirono a ruota i suoi, poi entrò Gigli e poi ancora Abis, visibilmente provato data l’età e
il fisico non più di un ragazzo ventenne, mentre ad altri – tra cui Manicas – venne ordinato di restar fuori qualora
qualcosa di strano succedesse, compreso l’arrivo dei due disgraziati.
“ Sa grotta de sos mortos “ era veramente impervia e il suo percorrerla, all’interno, non era di certo agevole e richiedeva
perizia, attenzione. Per fortuna, già da anni prima il comando Generale aveva dato disposizioni che il personale
operativo nell’isola di Sandalyon fosse dotato nei Comandi di Compagnia e Stazione di tutte le attrezzature necessarie
per accedere all’ interno delle grotte, essendo -o meno- dei provetti speleologi.
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D’improvviso un grido provenne dal fondo della caverna la cui fine si poteva fare, per fortuna, quasi orizzontalmente:
“Capitano, venga qui a vedere!”
Abis e Gigli, con le loro lampade poste sopra il casco protettivo, si avvicinarono: casse accatastate, di color verde oliva,
decine e decine; molte, molte di più di quelle viste il giorno prima scaricare dal gommone in quel di Cala Monaca;
alcune in legno recanti caratteri stampigliati in cirillico mentre altre erano contenitori metallici, sempre di color verde
oliva o mimetico, apparentemente a tenuta stagna.
“ Queste sono armi sovietiche” disse Gigli, esterrefatto.
Con calma, le casse vennero portate fuori, all’aperto, dove il Capitano, non senza attimi di impazienza, diede ordine di
aprirle.
C’era un po’ di tutto, sembrava l’arsenale dell’Armata Rossa: Simonov, fucili per tiratori scelti Dragunov, gli
immancabili e tristemente famosi AK-47 e AKM-47 Kalashnikov.
Poi pistole, tante pistole: Tokarev, Makarov, e le tristemente note pistole automatiche VZ 61 Skorpion di fabbricazione
cecoslovacca.
Molti anche i razzi controcarro RPG-7. Altre casse vennero aperte, con cautela, dalle quali uscirono fuori mortai e
relativi proiettili, mitragliatrici leggere, munizionamento di tutti i generi.
“ Signor Capitano che faccio… chiamo via radio Santu Onofre e facciamo avvertire la Procura?” chiese il maresciallo,
indeciso sul da farsi.
“No, per ora no“ disse secco Gigli – “ avverta De Dominicis al comando Legione, ci penseranno loro ad attivarsi in
questo senso, eventualmente”.
De Dominicis arrivò quasi con la velocità di un lampo, in poco più di un’ora, nelle campagne dove era avvenuto il
ritrovamento, il rumore dell’aria spezzata dalle pale del rotore dell’elicottero si fece sempre più forte e assordante, da
rimbombare nelle vallate circostanti; l’AB-205 decollato da Alas posò i pattini su un pianoro poco distante la grotta.
“Fiamma cinque-zero” era atterrato e dall’aeromobile scesero, oltre al De Dominicis, altre tre persone in borghese che
Gigli non conosceva.
L’anziano Colonnello, alla vista di tutto quell’armamentario, assunse uno sguardo di forte preoccupazione e,
rivolgendosi ai tre in abiti civili che lo accompagnavano, disse: “ ci troviamo di fronte a un qualcosa che va ben
al di là alle nostre previsioni e ben oltre alle capacità dei due farabutti. C’è qualcosa che non va.”
De Dominicis fece allontanare dal luogo tutti gli uomini, restando da solo con Gigli e con i tre passeggeri partiti con lui.
“Gigli, questi signori sono ufficiali ma fanno capo al controspionaggio, nella capitale” disse con una voce flebile il
colonnello – “e lei dovrà collaborare mettendosi a loro completa disposizione”.
Il capitano fiorentino, confuso e sempre più insospettito, non fece in tempo a prender parola che il più giovane dei tre si
avvicinò alle armi e data una breve occhiata e improvvisando una più che approssimativa ispezione tecnica disse:
“certamente, Capitano Gigli, lei si chiederà se è un caso oppure no che noi tre siamo qui in Sardegna proprio in questi
giorni” disse l’uomo, capelli tirati all’indietro, castano e non alto, senza nessuna inflessione dialettale. “ veda Capitano
la nostra Sezione è stata informata da fonti attendibilisime di strani movimenti che avvengono intorno alle acque
dell’isola, esattamente nella orientale e sud-orientale con un notevole movimento di naviglio che non sempre si limita e
restare in acque internazionali” continuò “e il direttore del Servizio vuole vederci chiaro su questa vicenda, non vorrei
che si tratti di un qualcosa ordito a livello NATO e del quale i nostri “cugini” di Forte Braccini non ci hanno informato.
E la cosa, ovviamente, non ci sorprende affatto.”
Il Colonnello si allontanò per pochi minuti con i colleghi della venticinquesima e, dopo alcuni minuti di discussione,
visibilmente animata, tornarono a parlare con Gigli.
“Capitano – disse ancora l’ufficiale dei servizi con una espressione visibilmente seria fissando Gigli – so che lei
conosce personalmente il comandante del Centro Incursori e Sabotatori di Torretta, nel quale ha frequentato con
brillanti risultati diversi corsi d’ardimento; credo sia il caso di parlare con lui, qualcosa saprà dirci. Intanto andiamo a
fare una visitina a questi qua… Beh si insomma…Come si chiamano? I due…
Tancas e Frues, dopo un blitz improvviso, furono accompagnati coattivamente in caserma dagli uomini di Lorenzi e lì
tenuti, per ore, ad aspettare prima di poter parlare con il neo-comandante dei Gendarmi del paese.
Finito il sopralluogo intorno alla grotta e dato ordine di far presidiare le armi ritrovate Gigli tornò per qualche
ora in paese per sentire quel che avevano da raccontare i due.
“Tancas, Frues… non rovinate la vostra esistenza con le vostre mani… vi abbiamo seguito passo dopo passo,
assisitendo e filmando ogni vostra mossa. Siete in trappola ora non vi resta che raccontare, a me e ai miei colleghi
chi, perchè e per cosa servono tutte queste armi. Ora parlate, con calma, io non ho fretta, nessuno qui ha fretta,
resto qui a vostra disposizione ad ascoltare i vostri racconti”.
Poi si avvicinò ai due, scuri e tristi in volto, con il capo chino; e i due non avevano più quell’aria sbeffeggiante e
sogghignante che li caratterizzava, balentes per eccellenza del vecchio paese, incutendo timore un po’ ovunque, non
solo tra le campagne e la gente di Ghìrtala.
Offrì loro le sue sigarette e cominciò a parlare: “Tancas, so che tu hai un bambino” disse il capitano “ ti do la mia parola
e ti prometto sul mio onore di ufficiale della Gendarmeria e dell’Esercito che mi adopererò con il Procuratore e con i
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magistrati per far sì che tu abbia un trattamento di favore ma devi assolutamente collaborare con noi, devi darci una
mano, sappiamo che tu e Frues sapete di certo moltissime cose e che le vostre parole saranno determinanti.”
“ Su capità… Ma bois itte nazzis: amus a torrare in galera o nono?” chiese Tancas. Gigli fece cenno al maresciallo Abis
di non aver capito e subito il sottufficiale tradusse: “ signor capitano, Tancas chiede se dovranno tornare in galera o se
invece potranno restare liberi”.
“Vi faremo cambiare identità e residenza” assicurò il capitano “le vostre mogli e compagne, i vostri figli, vi seguiranno,
lascerete la Sardegna, vi daremo una casa, un lavoro dignitoso” disse rassicurando i due – “ ma sia chiaro che se non
collaborerete lo Stato sarà inflessibile con voi e non ci sarà nessun avvocato prezzolato che potrà tirarvi fuori dai guai.
Avete un paio di giorni per pansarci, ci sentiremo.”
Fatti portare via i due, Gigli prese la cornetta in mano e chiamò il Centro di Torretta.
Il Capitano di Fregata Aurelio Ferraris Bardolini era un vecchio amico di famiglia (il padre di Gigli aveva frequentato
l’Accademia Navale ma dopo pochi anni di servizio da Sottotenente di Vascello si congedò per sposarsi e andò a
lavorare in un grosso istituto di assicurazioni fiorentino) e di Gigli conosceva non solo il carattere e il suo particolare
dinamismo ma soprattutto le sue doti di militare, essendo stato lui stesso il suo istruttore per il brevetto di subacqueo
incursore.
Il giovane capitano fiorentino non era fatto per le carte bollate e le aule dei Tribunali poiché il suo ruolo, quello che
praticamente gli era più congegnale e che rispondeva maggiormente alla sua indole era sicuramente quello di uomo
d’azione. Anche in operazioni al di fuori dei confini nazionali.
Ferraris arrivò a Ghìrtala in piena notte bordo di un elicottero che atterrò nel campetto sportivo del paese laddove la
Ghirtalese, squadra di seconda categoria, giocava le sue partite; l’ufficiale degli Incursori di Marina fu fatto
accompagnare da Gigli nella zona dove furono ritrovate le armi; Gigli era sempre seguito a vista dagli ufficiali del
controspionaggio, con De Dominicis sempre al seguito.
“Comandante Ferraris” disse l’ufficiale fiorentino al vecchio amico di famiglia “che piacere rivederla! Allora, dia una
occhiata in giro, mi dica… vorrei la sua opinione in merito: ma che è… i pastori sardi vogliono fare un colpo di stato? ”
ironizzò Gigli.
“ Dai Maurizio, portaci in caserma che ne parliamo…piuttosto: hai del buon vino in dispensa? Che ci hai preparato per
cena? ” disse sorridendo e assolutamente non stupito di vedere quella santabarbara dentro quelle casse accatastate
vicino alla grotta.
Durante la cena che Lorenzi aveva organizzato, improvvisandosi quale provetto cuoco, gli ufficiali vollero restare soli,
conversando tutta la notte.
Perché non era certo una questione da poco.
E è a questo punto che Ferraris prese in contropiede tutti, anticipando la pioggia di interrogativi che gli ufficiali,
soprattutto quelli del controspionaggio, stavano per porgli.
“Signori, noi del Centro sapevamo che ci avreste chiamati. Abbiamo solo dovuto aspettare ma ora, vista la vostra voglia
di conoscere e visto che le armi sono state ritrovate vi parlerò del perché qui in piena Barbagia sono piovute tutte queste
armi.”
Ferraris aprì la sua ventiquattr’ore e tirò fuori un mare di carte e fascicoli: “ come voi ben sapete l’attacco cruento alle
istituzioni portato avanti dalle Brigate Rivoluzionarie negli ultimi anni ha pesantemente influito sulla politica nazionale
con riflessi diplomatici anche in quella internazionale. Sappiamo tutti che le Brigate sono addestrate in campi
paramilitari in Cecoslavacchia, in altri paesi del Patto di Varsavia e addirittura in Palestina. Abbiamo avuto la notizia
dalle nostre Unità Speciali della Sezione “Sierra” di Mosca che l’Armata Rossa da più di un anno prepara e non solo
sulla carta dei piani di invasione dell’Europa e Sandalyon è stata presa in considerazione quale luogo di un ipotetico
aviosbarco da effettuare con degli ekranoplani (1) e con aviolancio di VDV.
“ Ma a che pro questo?” domandò Gigli, l’unico che osò rompere il silenzio in quella notte, davanti al camino e a
diverse bottiglie di Cannonau.
“ perché in questo modo” - continuò Ferraris sgranocchiando con gusto “pane carasatu chin casu marzu” (2) spalmato
sopra dall’inconfondibile sapore particolarmente piccante, spento dai sorsi di buon vino del luogo che viaggiava sui
quattordici gradi – “ il Cremlino toglierebbe ogni possibile via di fuga ai membri del Governo italiano: la prima ondata
dello sbarco, quella grossa e consistente, potrebbe avvenire in Calabria o in Puglia, per poi risalire in poche ore verso
Roma. L’isola di Sandalyon, di fatto, potrebbe divenire un presidio d’emergenza per l’Italia anche grazie alla
collaborazione del mio Centro, dal quale continuare a impartire direttive e dal quale mantenere i contatti con le altre
regioni d’Italia, l’Europa e gli altri stati aderenti alla NATO.”
Il Maggiore del controspionaggio, infuriato, chiede a Ferraris: “Comandante, mi pare di capire che si tratta di
una operazione dietro la quale si cela la regìa della vostra Divisione e del vostro Centro, avreste però dovuto
avere l’accortezza se non il dovere di avvisarci! E che cazzo!” urlò furibondo il Maggiore, mentre De Dominicis
annuiva e approvava – scuro in volto e visibilmente incazzato - l’indignazione dell’ufficiale.
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Ferraris ribattè subito: “Appunto, Maggiore, non sono cazzi vostri, se la missione è stata scoperta come temevamo e
avevamo – tra l’altro - messo in conto anche questo è per via degli innumerevoli spostamenti di armi e munizionamento
di vario genere. Lei non immagina che tutta ‘sta roba ha fatto il giro del globo prima di approdare qui.”
“ Ah, lo immagino perfettamente Comandante Ferraris! Eccome se lo immagino!” urlò ancora il Maggiore.
Ferraris chiese la parola, tirando fuori dalla sua borsa un copioso dossier sul quale, di sfuggita, era possibile leggere:
SMD Stato Maggiore della Difesa – Unità Speciali Difesa – Classifica di segretezza: SSS Segretissimo.
L’ufficiale di Marina spiegò che Recottu e Ballasola erano stati assoldati dal Servizio anni addietro, allorché vennero
colti in flagranza di reato mentre cercarono di rapire, in Toscana, un ricchissimo imprenditore.
“ Vede caro De Dominicis… furono proprio i suoi colleghi a consigliarci i loro nominativi, visto che nel contesto
dell’operazione loro conoscevano e sapevano perfettamente come muoversi neii luoghi laddove l’equipaggiamento
avrebbe potuto essere custodito. Avremmo potuto facilmente distribuire materiale nostro, magari proveniente dai
depositi e magazzini dell’Esercito o della Marina ma abbiamo preferito utilizzare armi di fabbricazione sovietica e
nond’ordinanza italiana poiché, in caso di effettiva occupazione e sbarco da parte del nemico, sarebbe stato più facile
reperire le munizioni, le parti di ricambio, attraverso operazioni di sabotaggio.”
Ferraris continuò tra l’attenzione e l’incredibile silenzio dei presenti: “ Bruxelles e Washington gradirebbero che la cosa
restasse tra queste mura, nessun magistrato deve esserne a conoscenza, nemmeno i suoi uomini Gigli, faccia in modo di
istruirli in questi termini…Depisti… E i due ghirtalesi beh… lasciateli liberi, dopotutto sono molto meno pericolosi
liberi che in un carcere di massima sicurezza… Credetemi, e sono anche più al sicuro”.
NATO Clandestine Special Forces HQ – Object: Non-Orthodoxe War Project: TOP SECRET: Operation Shardana: così
gli Alleati avevano battezzato questa inusuale operazione che prevedeva delle contromisure in caso di invasione
dall’Est, nello specifico in Sardegna.
Recottu, Ballasola e un altro centinaio di unità, uomini e donne tutti reclutati nei centri abitati della provincia, facevano
parte della “Operazione Shardana” che, oltre a garantire l’aspetto logistico ovvero distribuire le armi, le munizioni,
l’esplosivo nascosti nei depositi clandestini presenti a macchia di leopardo avevano il compito di consegnare ai membri
dell’organizzazione le decine di radio ricetrasmittenti BLU (3), dotate di un sofisticato sistema di scrambler(4) la cui
decodifica era estremamente difficile; questo per garantire un buon livello di comunicazione interno nella rete
clandestina e segretissima non intercettabile dal nemico; i satelliti, allora, erano quasi una chimera. Gli “Shardana”, i
pastori-guerriglieri che avrebbero dovuto fronteggiare la prima ondata dello sbarco: minando le strade principali e
secondarie, distruggendo porti turistici e commerciali, aeroporti come Terranoas e Kalarium, reti ferroviarie, seppur a
scartamento ridotto; la seconda ondata dell’aviosbarco sarebbe stata contrastata dai riservisti richiamati in loco
attraverso un’altra rete clandestina “ufficiosa”, questa volta completamente militare che aveva previsto il richiamo in
loco, nei diversi centri abitati dell’isola, operato tramite ufficiali e sottufficiali nativi del posto.
Gigli, prima che un uomo era un militare: ubbidì, senza esitazione, agli ordini e fece liberare i due, che ritornarono alle
loro case. Nessuno dei suoi uomini seppe mai nulla, né alcun magistrato di Santu Onofre e tanto meno di altre città
venne messo a conoscenza del ritrovamento.
Il capitano fiorentino prestò servizio in paese per altri due anni, quando nell’inverno nel 1982, a seguito di un tentativo
di sequestro non andato in porto, partecipò ad un conflitto a fuoco nel quale rimase gravemente ferito, perdendo l’uso
del braccio sinistro, conflitto estremamente cruento nel quale furono sparati migliaia di colpi e nel quale, iroia della
sorte, Recottu e Ballasola rimasero uccisi e con loro due giovanissimi militari.
Per quella brillante operazione fu promosso di grado a soli trent’anni, era l’ufficiale superiore più giovane d’Italia,
trasferito poi vicino casa, dove diede addio ai suoi sogni e ai suoi progetti d’azione, assegnato ad un anonimo ufficio del
Ministero.
Era emerso, ancora una volta, l’italico neo dei paradossi che ha visto un giovane capitano alternarsi tra cacciatore e
“compagno di battaglia”, per una causa che forse andava ben al di là degli articoli del codice penale e del T.U.L.P.S.
Un po’ come quando nella Grande Guerra qualche cittadino chiamato alle armi e partito da Sandalyon, divenuto dopo il
conflitto bandito e braccato in ogni dove dell’ isola, venne decorato o promosso sul campo per meriti di combattimento.
Legenda ( punti 1-2-3 from Wikipedia.it)
(1)Ekranoplano:
Questo tipo di aeromobile si muove volando a pochi metri dalla superficie (in genere sull'acqua), sfruttando, per il
sostentamento, l'effetto suolo. Sostanzialmente una volta che il mezzo ha accelerato si sviluppa al di sotto di esso quello
che può essere definito come un cuscino d'aria dinamico. Sono anche noti come WIG (Wing In Ground effect), Ala ad
effetto suolo o GEV (Ground Effect Vehicle) Veicolo ad effetto suolo, quest'ultimo il termine più generico.
Il termine ekranoplano è l'adattamento dal russo del termine экраноплан, ekranoplan, letteralmente "schermoplano".
Infatti questa particolare tipologia di velivoli, che a prima vista sembrano grandi idrovolanti caratterizzati da ali tozze
e da giganteschi piani di coda, venne sviluppata dai sovietici a partire dagli anni'50. Il loro inventore, un ingegnere
navale sovietico, Alexeev Rostislav Evgenievich.
Il programma KM: venne portato avanti dall'Unione Sovietica a partire dal 1963. Il primo mezzo di questo tipo, il
KM-1 ("Caspian Sea Monster", Mostro Marino del Mar Caspio, soprannome datogli dall'intelligence statunitense),
62
"volò" per la prima volta nel 1966. Questo fu la base sulla quale venne sviluppato il primo schermoplano
appositamente progettato per la produzione in serie, l'A-90 Orlyonok. Questo, costruito in soli 3/4 esemplari, entrò
effettivamente in servizio con la Marina Sovietica.
Un'ulteriore versione, il Lun, venne costruito a partire dal 1987. Si trattava di uno schermoplano armato con sei missili
antinave, posti sul dorso della fusoliera. Ne venne costruito un solo esemplare, con un altro mai completato.
Tutto il programa venne cancellato nel 1992, in seguito al crollo dell'URSS ed alla conseguente crisi economica.
(2)Casu marzu
Il casu marzu (o hasu muthidu) è un particolare prodotto alimentare della Sardegna, che desta tanta curiosità a causa
del suo particolare processo di formazione. È conosciuto anche come casu frazigu, casu modde, casu becciu, casu
fattittu, casu gumpagadu (i nomi si differenziano a secondo delle regioni storiche dell'Isola). Si tratta di un particolare
formaggio dal gusto piccante, che gli è conferito dalle larve della mosca casearia (Piophila casei) che lo contaminano.
Le norme comunitarie non ne consentono più la produzione ed è severamente proibita dalla legge la
commercializzazione, perché in contrasto con le norme igieniche e sanitarie. Per poter salvaguardare questo prodotto
la regione Sardegna lo ha inserito nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani: tale riconoscimento
certifica che la produzione è codificata da oltre 25 anni così da poter richiedere una deroga rispetto alle normali
norme igienico-sanitarie.
Familiarmente, viene ancora ottenuto, in modo naturale, tramite la Piophila casei (conosciuta anche come mosca
casearia), un insetto dalle cui uova, deposte sulla forma di pecorino, nascono centinaia di larve che traggono
nutrimento dalla forma di cacio stessa, cibandosene e sviluppandosi in essa. Formaggi con larve o contenenti le
deiezioni di queste ultime sono presenti non solo in Italia ma anche su territorio extranazionale. In particolare, sono
presenti sul mercato europeo il formaggio tedesco German Milbenkäse e la specialità francese mimolette, oltre,
naturalmente, ad altre varietà meno note ma che ripropongono tutte lo stesso procedimento biologico di costituzione
del formaggio sardo.
(3)BLU: Banda Laterale Unica
Nelle radiocomunicazioni, una banda laterale è una banda di frequenze più alta o più bassa rispetto alla frequenza
portante, contenente un'energia risultante dal processo di modulazione. Nonostante tutte le modulazioni abbiano bande
laterali per definizione, esse sono più discusse e rilevanti in modulazione di ampiezza.
La modulazione in ampiezza di un'onda portante è caratterizzata normalmente da due bande laterali. Le frequenze al
di sopra della frequenza portante costituiscono la banda laterale superiore (upper sideband - USB) mentre le frequenze
al di sotto della portante costituiscono la banda laterale inferiore (lower sideband - LSB). Nelle normali trasmissioni
AM sono presenti la portante ed entrambe le bande laterali, mentre se non è presente la portante viene definita banda
laterale doppia.
Una trasmissione nella quale rimangono una intera banda laterale e parte dell'altra, è chiamata trasmissione in banda
laterale residua, usata soprattutto nella diffusione televisiva, che altrimenti occuperebbe un'eccessiva larghezza di
banda.
Una trasmissione nella quale è trasmessa una sola banda laterale è chiamata modulazione a banda laterale singola
(Single-sideband - SSB). La SSB è usata soprattutto nelle frequenze inferiori ai 30 MHz, dai radioamatori e nelle
comunicazioni navali, aeree, militari e diplomatiche.
Nella SSB la portante è soppressa e ciò riduce significativamente la quantità di potenza elettrica usata (circa il 70%
rispetto alla AM), ma lasciando comunque inalterata tutta l'informazione trasmessa nella banda audio.
La ricezione della SSB avviene in modo simile alla AM, ma si deve reintrodurre nel ricevitore la portante soppressa nel
trasmettitore, con un circuito chiamato BFO per questa ragione un ricevitore AM convenzionale non e' in grado di
demodulare correttamente un segnale in banda laterale a portante soppressa.
L'estensione delle bande laterali stabilisce l'ampiezza del canale radio utilizzato. Se due emissioni sono troppo vicine
rispetto a questa ampiezza, si crea una interferenza tra di esse. Per questo motivo il segnale audio modulante è in
genere filtrato prima del processo di modulazione, in modo da lasciar passare le sole frequenze comprese tra 300 e
3000 Hz (tipicamente). In questo modo una emissione SSB occupa una banda passante di 2,7 kHz, contro i 6 kHz di
una emissione AM equivalente.
(4)Scrambler: apparecchio elettronico utilizzato per distorcere il segnale radio e che rende necessario l’utlizzo di un
decodificatore per procedere alla ricezione
Enzo Cumpostu (Nu,1963). E’ affetto da osteogenesi imperfetta, malattia delle ossa fragili (Per informazioni utili sulla patologia
rimandiamo al sito Web dell'Associazione Italiana Osteogenesi Imperfetta www.asitoi.it ).
Radioamatore, ha lavorato come impiegato contabile, è Volontario del Soccorso della Croce Rossa Italiana a Nuoro e lavora come
coadiutore amministrativo presso l’Azienda Sanitaria Locale di Nuoro, in forza alla Unità Operativa Ser.D. – Servizio per le
Dipendenze, alle dirette dipendenze del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze – D.S.M. e D. – Direzione Amministrativa.
Nel 1995 è stato candidato alle amministrative quale consigliere comunale per la sua città.
E adesso…libri
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Penelope Guzman - Il colpevole
Di Elliott Parker
Una cittadina degli Stati Uniti dei nostri tempi. Un’investigatrice privata, Penelope Guzman,
conosciuta per la sua abilità e professionalità. Una donna dalla personalità complessa e multiforme,
un affascinante mix di dolcezza e riflessività, impulsività e determinazione. Un’avventura intrigante
e coinvolgente, da leggersi tutta d’un fiato.
"Era un uomo di circa quarant’anni, atletico e di bell’aspetto. Indossava un cappotto di pelle scuro che lasciava
intravedere un elegante completo, anch’esso scuro. La pelle bianchissima, la folta capigliatura bionda e due penetranti
occhi azzurri color ghiaccio tradivano allo sguardo di un osservatore attento le sue origini germaniche. Anche se a
dire il vero in quel momento i suoi occhi erano nascosti da un elegante paio di occhiali, anch’essi scuri, che
contribuivano a dare al suo look un certo stile Matrix."
Info, ordini: http://www.penelopeguzman.com/ [email protected]
Vincenzo Ierardi
(estratto da Nel Bianco Mattino)
Nel bianco del mattino
le colombe velate,
recitavano la mia
iniquità nell’ombra.
Un lieve soffio
da quelle mie labbra
uscì,
in un silenzio
che coronava
la mia fronte sudata
come una preghiera
dolce di vergini.
Sono
peccatrice di me,
è la mia pena
s’innalza
contro me stessa.
Ecco le rose
dell’ardore,
ecco il mio pianto
prezioso
con una voce più
soave e singhiozzante:
sibilava…
Mi abbandono solo
al tuo amore eterno.
Caterina Massaiu
ali di libertà
le ali della libertà
la guerra non piegherà ,
grondano rosso spavento
e aliti senza respiro ,
ma il seme cadrà sempre,
è si riapriranno forti
saranno i morti
dei due popoli a coltivare
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su terre lontane d'oriente
primavere di bianco azzurro e di verde
sui muri di cemento che cingon le fronti.
Massimo Zaccheddu
Una principessa vive il suo principe,
quando in esso trova
la sensibilità dei momenti,
i quali,
spesso,
non vengono riproposti,
la chiave della nobiltà
recrimina l'umanità,
una sensibile armonia
del buon cuore,
può far rifiorire
un vero amore.
Quando gli alberi
non hanno il vento,
i colori della natura
regalano vitalità
alla tristezza autunnale
lasciando che le foglie
vivano l'ultimo alloro.
Massimo Zaccheddu è cantautore riconosciuto e poeta pluripremiato, impegnato nella diffusione della musica e la cultura sarda in
Italia e all’ estero.Vive ed opera a Santhià ( Vercelli).
Lavora alla diffusione di musica che combina il dialetto e i suoni della tradizione etnica rigenerati dalla sensibilità moderna. Fra
tutti, si ricorda il brano NINNIU. ETNO 1, prodotto da Rai Trade ed Helikonia con il supporto di Toast Records.
Antonello Cassan
Fabrizio De André diceva
del poeta Riccardo Mannerini: …"da lui ho imparato a pensare"…
"Riccardo Mannerini era un altro mio grande amico. Era quasi cieco perché quando navigava una caldaia gli era esplosa
in faccia. E’ morto suicida, molti anni dopo…
Abbiamo scritto insieme il Cantico dei Drogati, che per me, che ero totalmente dipendente dall’alcool, ebbe un valore
liberatorio, catartico. Però il testo non mi spaventava, anzi, ne ero compiaciuto. E’ una reazione frequente tra i drogati
quella di compiacersi del fatto di drogarsi. Io mi compiacevo di bere, anche perché grazie all’alcool la fantasia
viaggiava sbrigliatissima.".
EROINA
Testo successivamente rielaborato dall’Autore e da Fabrizio De André con il titolo
“Cantico dei drogati” per l’album “Tutti morimmo a stento” del 1968 (n.d.c.).
Come potrò dire
a mia madre
che ho paura?
La vita,
il domani,
il dopodomani
e le altre albe
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mi troveranno
a tremare
mentre
nel mio cervello
l’ottovolante della critica
ha rotto i freni
e il personale
è ubriaco.
Ho paura,
tanta paura,
e non c’è nascondiglio possibile
o rifugio sicuro.
Ho licenziato
Iddio
e buttato via una donna.
La mia patria
è come la mia intelligenza:
esiste, ma non la conosco.
Ho voluto
il vuoto.
Ho fatto
il vuoto.
Sono solo
e ho freddo
e gli altri nudi
ridono forte
mentre io striscio
verso un fuoco che non mi scalda.
Guardo avvilito
questo deserto
di grattacieli
e attonito
vedo sfilare
milioni di esseri di vetro.
Come potrò
dire a mia madre
che ho paura?
La vita,
il suo motivo,
e il cielo
e la terra
io non posso raggiungerli
e toccare…
Sono sospeso a un filo
che non esiste
e vivo la mia morte
come un anticipo terribile.
Mi è stato concesso
di non portare addosso
vermi
o lezzi o rosari.
Ho barattato
con una maledizione
vecchia ma in buono stato.
Fu un errore.
Non desto nemmeno
più la pietà
di una vergine e non posso
godere il dolore
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di chi mi amava.
Se urlo chi sono,
dalla mia gola
escono deformati e trasformati
i suoni che vengono sentiti
come comuni discorsi.
Se scrivo il mio terrore,
chi lo legge teme di rivelarsi e fugge
per ritornare dopo aver comprato
del coraggio.
Solo quando
scadrà l’affitto
di questo corpo idiota
avrò un premio.
Sarò citato
di monito a coloro
che credono sia divertente
giocare a palla
col proprio cervello
riuscendo a lanciarlo
oltre la riga
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.
Come potrò dire a mia madre
che ho paura?
Insegnami,
tu che mi ascolti,
un alfabeto diverso
da quello della mia vigliaccheria.
SIGNORE, GUARDAMI, IO SONO IRISH
Testo successivamente rielaborato dall’Autore e da Fabrizio De André con il titolo
“Signore, io sono Irisch” per l’album dei New Trolls del 1968 “Senza orario senza bandiera” (n.d.c.).
Signore, sono qui, io sono Irish,
quello che non ha la bicicletta.
Tu lo sai che lavoro dai Lancaster
e che, a sera,
le mie reni non cantano.
Mi hai date tante cose belle
e il mio cuore le ha viste volentieri:
i boschi, le rose, la fratta,
i piccoli stagni dei cieli e la notte,
le labbra di Ester,
i suoi seni,
quei suoi impossibili occhi,
il sonno, il risveglio, il rumore
del fiume,
l’odore dei legni
duri…O mio Signore,
purtroppo c’è qualcosa che non va!
Io
che lavoro dai Lancaster,
dormo e mangio a trenta miglia
dalla chiesa di padre Enrico.
Come posso, o Signore,
santificare il tuo giorno?
I camion sono fermi,
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le auto non passano,
ed io nel tuo giorno
sono stanco, Signore.
Trenta miglia più trenta
sono troppe a piedi ed Irish,
tu ricordi Signore,
non ha la bicicletta.
I passeri, gli scoiattoli, le lepri
gioiscono nel tuo giorno, io nò.
Non so più se io sono tuo figlio:
in quel giorno non vengo alla tua casa,
io non ti onoro; come posso fare,
dimmi?
Posso stare sul prato a parlarti di me?
O debbo venire in fondo alla valle?
Soffro, Signore e tu devi,
capisci?
devi fare qualcosa.
Andrà bene anche vecchia
la bicicletta
che manderai ad Irish,
perché tu, che sei buono,
hai tanti amici e a qualcuno
di loro
la puoi chiedere una vecchia bicicletta.
Che sia robusta, piuttosto, e grazie,
mio Signore, grazie!
Dio, pardon….la Madonna
Te ne renderà merito, di certo.
Io sono Irish, Signore,
quello che verrà da te in bicicletta.
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Tiziana Aresu
A me stessa
Ricordati di portare con te
l’amore per il tuo cuore, per la tua mente, per il tuo corpo.
La ragione ed il cuore non disgiungerli mai,
perché tu non debba lottare contro di te.
E quando non capisci perché proprio quello è il sentiero che ti si è aperto dinnanzi,
non porti domande.
Abbi il coraggio di procedervi senza fiatare
perché il lamento è tempo perso.
Amati fino alle lacrime
solo così saprai di cosa hai bisogno
e chi ti può stare accanto.
Quando rivolgerai lo sguardo indietro, fallo con tenerezza,
ma non tergiversare.
Quando guarderai in avanti, ammantati di coraggio
E non scordare la fiducia nel tempo che viene.
Sorridi al presente, anche se le lacrime righeranno il viso
E non temere nulla di ciò che vivi
Temi soltanto te stessa, quando avrai rinunciato a vivere.
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Alma Saporito
Segnano le stagioni
i miei capelli sciolti
imprigionati poi da copricapo
guardi
- credendoti non visto il mio transito
ipotetica mappa
di giorni infausti.
Tocco
la superficie delle pietre
gesti sovrapposti
a mani antiche.
Aspetto
che la corsa delle nubi
oscuri il sole
allora tornerò tra spazi chiusi
rassicuranti costrizioni.
Ridono le foglie
tra i riflessi di luce
delle gocce d’acqua
lucidi di verde i prati
accoglieranno presto i fiori
io dipingo le labbra di rosso
in attesa dell’estate.
Carlo Caredda
L’ invasione delle locuste
Memento:
Cogito ergo sum,
Cassetto della memoria
Meteore,Galassie,Universo
Inizio,Fine,Big-Bang,Big Crunch
Colori e Luce,Spettro,Diffrazione,Rifrazione
Prisma,Arcobaleno!
Relativo,Assoluto,non ricordo…
Atomi, Molecole,Bombe,Morte ?
Hiroshima,Nagasaki,Fungo Velenoso o mangereccio ?
Probabilmente è scritto nel DNA,
Elica,Aereo,Volo,Uccello,
Ali…..
Il pensiero affiora o affonda ?
Mi dicono che dipende dal Sig. Archimede.
Azzurro (Cielo ?),Rosso (Fuoco?),Bianco (Sposa ?)
Ho bisogno di riposare ………..
Cervello,Computer…….
Differenze ??
Tante,Nessuna.
Potenza ed impotenza,ritorniamo ai colori !
Bianco o Nero ?
Impressione primigenia,
Esistenza di Universi paralleli (Probabilmente non si incontrano !...)
Bosoni,Protoni,Muoni,
meccanica Quantistica
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Protervia dell’Uomo,
ascolto e non sento,
guardo e non vedo,
parlo e non dico.
Muoio e son Vivo !
Sogno e son Desto !
Oggi ho aumentato la RAM al mio computer !
Ho visto la luce ed il buio
Assonanze e dissonanze….
Sono Agnostico…!
Rasoio di Ockham o…da Barba ?
Risposta,Domanda,Rifletto,
Lucidità o Verità?
Forse ho bisogno di Credere
Esiste un Dio Vero ??
Ho una forte Emicrania,
Mangiato pesante !
Alto,Scosceso,Montagna,
Fatica, sono forse vicino alla vetta ? ( DIO ??....)
Non Riesco,il mio cervello sin rifiuta di capire
Questo l’ho scritto ieri,ho capito !
Apoteosi dell’assurdo. Finalmente Riposo.
Francesca Farina
Io sono l’albero e la foglia,
sono il frutto, il miele e l’ape
e la nuvola e il vento e l’alto cielo,
sono il gatto, la martora ed il muschio,
sono il coltello, il taglio e la ferita,
sono la squadra, il cerchio ed il tamburo,
il suono, il cadavere e la danza,
il rigoglio, il verme, oscura terra,
zolla, scorpione, indice, lanterna,
guaio, detrito, scarto ed illusione,
mente, memoria, e te, mano che scrivi.
Sono la goccia, io, e sono il lago,
acqua perenne e pozza insanguinata,
sono mannaia e chi mi ha sferrata,
sono mortaio e seme che ho pestato,
io sono il pianto e chi mi ha consolato,
sono radice, fiore, sputo, fiele
e sono cedro, puro arco, piede,
sono puttana e chi mi ha generato
e sono uno rimasto senza fiato,
sono quel fiato a lui presto fuggito,
sono il cucciolo che si è assopito,
la biada, il forno, il pane che ho sfornato,
io sono l’ultimo, ramingo, smorto nato,
il derelitto e il diseredato,
il letto, il fianco, il sesso avvelenato
ed il piacere, il cuore, lo starnuto,
sono violino, sono alto liuto,
il cameriere e il vino che ha versato,
il commensale e il vino che ha libato,
il panettiere e il filone che ha bruciato,
la legna, il fuoco, l’arbusto incendiato,
il dio, il lampo, il tuono risuonato,
il fulmine di Giove, il fulminato
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Amelia Rosselli
Parigi, 24 marzo 1930 – Roma, 11 febbraio 1996
O mio fiato
O mio fiato che corri lungo le sponde
dove l’infinito mare congiunge braccio di terra
a concava marina, guarda la triste penisola
anelare: guarda il moto del cuore
farsi tufo, e le pietre spuntare
sfinirsi
al flutto.
Uno spazio Libero!!!
Il blog di Isla Negra
http://isla_negra.zoomblog.com
IL GRIDO D’AIUTO DELL’AGRICOLTURA SARDA
“Pastori sardi-per un giusto prezzo del latte ovino”. È un gruppo creato nel social network Facebook, a
sostegno del settore agricolo della Sardegna e come denuncia della perenne crisi della nostra amata terra, che rischia di
portare all’estinzione coloro che l’hanno resa celebre nel mondo e in essa sono stati l’essenza della sua storia: i pastori.
La situazione ormai è al limite della tolleranza; prima che s’ arrivi ad un punto di non ritorno, sinonimo di perdita di
valori, passioni e sentimenti fino ad oggi presenti in tutti noi; è fondamentale agire. L’agricoltura sarda è attanagliata da
una dura crisi. A causa di chi? Sono molte le risposte a questa domanda, senza dubbio grave responsabilità sta nelle
istituzioni; le quali sebbene si siano impegnate per il settore, forse non l’hanno fatto in modo corretto. Dopo decenni di
finanziamenti oggi ci ritroviamo in una situazione di disagio, frutto delle politiche distorsive soprattutto dei
decenni passati. Atteggiamenti che concedevano denaro in abbondanza a questo settore, che posero le basi per un
suo sviluppo , ma che non hanno avuto risultati soddisfacenti. La crisi si manifesta ad ampio spettro, dalla non
adeguata retribuzione del prodotto agricolo, al continuo abbandono dei giovani delle campagne, alla crescente
subordinazione del settore da aiuti. Nei famosi piani di modernizzazione economica della Sardegna degli anni
Settanta e Ottanta vennero concessi tanti finanziamenti per lo sviluppo agricolo, che al tempo non educarono
l’agricoltore a un loro proficuo utilizzo. Queste politiche non erano intese molto spesso come investimenti a lungo
termine, ma come sussidi economici per un limitato periodo, i quali hanno portato la nostra terra a una continua
dipendenza da queste entrate. Tali errori stanno alla base poiché al tempo favorirono lo sviluppo di tanto capitale
fisico nel settore, ma forse ancora nessuno pensava al potenziamento di un altro tipo di capitale, quello umano,
che a distanza di anni avrebbe potuto aiutare il settore ad espandersi e dare impulso a ragionamenti con un
maggiore carattere imprenditoriale.
I prodotti delle campagne sarde vengono retribuiti in modo non dignitoso, si pensi al latte ovino pagato circa 0,75 euro
al litro a fronte di un costo di produzione (stimato dalla Coldiretti) di circa 1,20 euro, al prezzo della carne di agnello
pagata all’allevatore anche a 2,00 euro il chilo mentre al mercato viene venduto a un prezzo che arriva ad essere sette
volte superiore, o al valore dato a tutti quei prodotti di nicchia che ormai sono prossimi all’estinzione per la loro non
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valorizzazione sebbene ricercati dagli estimatori. Se a tutto ciò si aggiunge la lievitazione dei prezzi del mangime e dei
concimi che sono raddoppiati, che futuro ci attende? Dove sono le istituzioni? La Sardegna grida aiuto, fino ad ora
sono arrivate solo promesse, al limite qualche sussidio elargito durante campagne elettorali passate, per
conquistare una poltrona politica che fa dimenticare in fretta gli impegni assunti in precedenza. Non vogliamo
che ci si faccia stare zitti con sussidi economici spesso aventi l’aria di un atto commiserevole, per poi tornare al punto di
partenza. Si ha bisogno di nuove politiche, con strategie ben definite e non vaghe, meglio se associate anche a una
valorizzazione nella formazione di figure professionali che sappiano guidare il settore. Il pastore per secoli ha preso
dalla sua terra, ma ha anche saputo ridarle ciò che meritava, oggi a questo nessuno ci pensa? I pastori hanno bisogno di
utilizzare un social network per esporre i loro problemi? Forse non si sentono più in mano alle istituzioni o ai sindacati?
Tutto ciò è sinonimo si di innovazione, d’altra parte siamo nell’era di internet, ma anche d’ una reale e concreta distanza
da chi dovrebbe risolvere i problemi e ascoltare la nostra voce.
Una Sardigna chena pastores est comente a la bider chena nuraghes.
Contatti/ sostegno alla causa:
[email protected]
Isola Niedda
Dae Sardinia po su Mondu Escrie a [email protected]
Casa di poesia e letteratura aperta alla creazione letteraria
degli autori italiani e di autori in lingua italiana.
Il progetto Isola Nera riguarda la prossima pubblicazione in
formato cartaceo.
Isola Nera merita degli sponsors in grado di valorizzare
l’iniziativa e dalla quale vengano valorizzati.
Si accettano e vagliano proposte.
Isla Negra
En español
Casa de poesìa y literaturas.
Director Gabriel Impaglione
[email protected]
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