Introduzione - egea editore

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Introduzione - egea editore
Prefazione
di Massimo Marrelli*
Il primo incontro tra economia e musica è ascrivibile all’analisi di Baumol, proposta sull’American Economic Review nel 1965 e formulata in modo più organico negli anni a seguire, con l’etichetta Baumol Desease1. Un lavoro in cui l’economista statunitense esplicita il paradosso in base al quale è possibile asserire
un’idea scientifica (interna alla teoria economica) per cui le performing art (e
quindi la musica) possono vivere solo in presenza di finanziamento pubblico.
I musicisti hanno nel 2016, come nel Settecento, la stessa produttività: non
è possibile introdurre innovazione tecnologica, per esempio, in un concerto
di musica da camera. Un quartetto di Mozart, con un tempo di esecuzione di
mezz’ora, che nel XVIII secolo richiedeva X ore-persone di esecuzione, richiede esattamente la stessa quantità di tempo oggi. Nel frattempo in quasi
tutte le attività economiche la produttività è cresciuta in maniera esponenziale,
proprio a causa del progresso tecnologico. Ma, poiché i salari del settore artistico sono correlati a quelli del resto dell’economia, ne consegue che il costo
per spettacolo nel settore artistico deve crescere a un tasso più alto di quello
rilevabile in tutti gli altri settori. E, quindi, che i fondi destinati alle arti dello
spettacolo debbano crescere ogni anno a un tasso eccedente il tasso d’inflazione, se non si vuole che le attività artistiche, messe fuori mercato, scompaiano.
Baumol parla quindi di sindrome, o malattia, per segnalare che la musica non può vivere con il solo mercato come unico criterio remunerativo, complice la rigidità di un testo scritto e da interpretare. Una storia, insomma, che,
con il proprio tempo tendenzialmente anelastico allo sviluppo tecnologico, richiede la presenza dello Stato. Una mano visibile.
*
Professore ordinario di Scienza delle finanze, Magnifico Rettore dell’Università degli Studi
di Napoli Federico II.
1 William J. Baumol e William G. Bowen, «On the Performing Arts: The Anatomy of their
Economic Problems», American Economic Review Papers and Proceedings, 55, 1965, pp. 495-502.
XIVol’impresa,olavita
Il percorso, ampio e non sempre lineare, che dall’economia pubblica transita
agli studi di management e ad altre aree delle scienze umane e sociali è un filo conduttore della ricerca condotta da Luigi Maria Sicca, e trova in questo libro
una nuova tappa volta a promuovere la circolazione di linguaggi di eterogenea
provenienza teorica. Lo stesso contributo di Baumol è stato in tal senso al centro di un ampio dibattito internazionale e interdisciplinare, teso a mettere in luce
i limiti di quella formulazione teorica e il relativo possibile superamento. Ne è
derivata una corsa per dimostrare scientificamente che le arti meritano di essere
sussidiate2: numerosi lavori di economia della cultura hanno assunto nel tempo,
con l’emergere del tema del merito, un taglio proprio degli studi di art management (e cultural policy), a partire dall’analisi dell’impatto che un singolo evento
culturale (un festival, per esempio) ha sull’intera vita di una città, di una regione
o di un paese. Sono i cosiddetti impact studies, che puntano a misurare il valore delle arti attraverso effetti diretti, come l’occupazione e il reddito, generati da
attività artistiche; effetti indotti, chiamati anche customer effects (chi domanda
consumi culturali spende per esempio anche per trasporti, ristorazione, alloggi),
per cui la spesa in arte e cultura genera valore, altrove nell’economia; effetti indiretti come moltiplicatore di effetti diretti e indotti; effetti esterni.
Sono le potenzialità di crescita dell’intero sistema, prodotte da un investimento in ricerca, che orientano il lavoro in ogni area disciplinare. Ma la crescita
non è da intendere come effetto sul Prodotto interno lordo o altra misura economicistica; molti economisti oggi si rifanno alla accumulazione del sapere,
del well-being, piuttosto che alle sole misure di reddito. È così per ogni forma
di sviluppo della conoscenza intradisciplinare dove, per definizione, il tema
della dimostrazione non si pone o, comunque, non passa per una funzione ancillare (di questa o quella disciplina) a un possibile impatto, altrove, in termini di effetti diretti, indotti, indiretti, esterni. È questa, in termini metodologici,
la posizione dei ricercatori di economia, di politica e di management delle arti, quando affermano che le finalità proprie dell’arte hanno piena cittadinanza
nella competizione per il finanziamento pubblico. Senza dover dimostrare, in
tal senso, che le arti vanno sostenute perché generano ricchezza in altri settori.
Esattamente come avviene in ogni altro ambito del sapere, insomma, quando
la conoscenza (scienza), tradotta in tecnologia, produttività e formazione, alimenta nuovamente il ciclo della ricerca.
Specularmente, arte ed economia trovano un fertile spazio di confusione
quando la circolazione dei linguaggi consente di generare processi di forma2 Luigi M. Sicca, «Dall’economia della cultura a un ripensamento della cultura dell’economia», L’acropoli, 3, 2016.
prefazione
XV
zione di manager e di professionisti d’impresa più solidi, in grado di fronteggiare l’instabilità dei mercati che caratterizza l’evoluzione degli scenari macro.
È questa la sfida teorica lanciata da Sicca in questo nuovo libro, che accosta storie di musicisti e di manager, senza soluzione di continuità, ponendo il
non facile tema delle logiche che possono orientare la management education
in tempi di crisi strutturale. Mettendo intorno allo stesso tavolo, in modo paritario, aree di ricerca e di azione professionale tra loro anche molto diverse.
Questa visione viene di solito rappresentata attraverso la teoria delle reti sociali che presentano come agenti, soggetti delle più svariate categorie tutti però connessi da relazioni, fini e con-testo; le caratteristiche della rete, più che
quelle dei singoli individui che la compongono, spiegano le varie misure del
well-being di un popolo. Si tratta, utilizzando la terminologia classica, di effetti esterni e interni alla rete che aumentano più che proporzionalmente il benessere collettivo. Quest’ultimo, più che essere correlato con le caratteristiche
degli individui, è spiegato dalle loro relazioni e dal grado in cui gli agenti sono connessi. Ciò vale, a maggior ragione, per le diverse aree del sapere; in parole povere, dalle interconnessioni fra i diversi modi della conoscenza.
La management education ha, come sottinteso, questa constatazione.
Questo approccio alla formazione, apparentemente nuovo, è di fatto solo la
punta dell’iceberg di un più articolato percorso di ricerca e di azione economico manageriale che trova spazio su prestigiose riviste internazionali dalla metà degli anni Settanta, con una crescente attenzione assegnata ai saperi umanistici e alle esperienze emozionali, nella messa a fuoco dei meccanismi che
orientano i processi di decision making3. Il modello di education ipotizzato
come ideale da uno studioso di Harvard come Mintzberg4 assegnava un ruolo paritario a entrambi gli emisferi del sistema nervoso centrale, destro e sinistro, per la corretta costruzione dei processi decisionali. Questo approccio
è stato liberamente associato a un altro movimento che ha interessato gli studi economici, con l’assegnazione, nel 1978, del premio Nobel per l’economia a
Herbert Simon «per le sue pioneristiche ricerche sul processo decisionale nelle
organizzazioni economiche». Un contributo che, irrompendo nella tradizione
del pensiero economico neoclassico, introduce il concetto di «razionalità limi-
3
Luigi M. Sicca, Alla fonte dei saperi manageriali. Il ruolo della musica nella ricerca per
l’innovazione e per la formazione delle risorse umane, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012.
4 Henry Mintzberg, «Strategy Making in Three Modes», California Management Review,
16/2, 1973, pp. 44-53; H. Mintzberg, «Planning on the Left Side and Managing on the Right»,
Harvard Business Review, July 01, 1976, pp. 49-58.