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RASSEGNA STAMPA
martedì 30 giugno 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 26/06/15
Bambini di strada in pista nei circhi sociali
con Circomondo
Il festival internazionale del circo sociale per accendere i riflettori sui
diritti dell'infanzia. La tre giorni vedrà protagonisti circhi sociali in arrivo
da Roma, Napoli, Brasile, Palestina, Afghanistan, Spagna e Kenia. Oggi
nel mondo vivono in strada da 150 a 500 milioni di ragazzini. Nel 2020
potranno essere 800 milioni
ROMA - Ragazzi e bambini di strada in arrivo dalle zone e dai quartieri più degradati di Rio
de Janeiro, Beirut, Kabul, Valencia, Nairobi, Roma e Napoli scendono in pista a San
Gimignano con Circomondo, Festival internazionale di circo sociale per accendere i
riflettori sui diritti e la tutela dei minori nel mondo. L'appuntamento è in programma da
venerdì 26 a domenica 28 giugno e vedrà protagonisti venti bambini e ragazzi tra gli 11 e i
20 anni strappati da situazioni di forte disagio e inseriti in progetti di recupero sociale
attraverso l'arte circense.
I bambini di strada nel mondo. Si stima che le bambine e bambini tra i 3 e 14 anni che
vivono per strada siano tra i 150 e i 500 milioni, pari al 7 per cento della popolazione
mondiale e al 27 per cento dei bambini sotto i 15 anni di età (dati Rapporto Unicef, 2012).
150 milioni di bambine e 73 milioni di bambini sotto i 18 anni, inoltre, sono sottoposti a
rapporti sessuali forzati o ad altre forme di violenza. (I bambini che vivono in strada spesso
non sono neppure registrati all'anagrafe. La maggior parte delle indagini volte a
quantificarne il numero globale sono quindi approssimative, rese ancor più complesse
dall'inesistenza di un consenso internazionale circa la definizione di 'bambino di strada'.
Nel 2020 arriveranno ad essere circa 800 milioni).
Giocolieri, acrobati, clown, equilibristi. Nei tre giorni della manifestazione, i piccoli artisti
animeranno le vie e le piazze della città trasformandosi in giocolieri, acrobati, clown,
equilibristi e trapezisti e in ambasciatori dei progetti di circo sociale da cui provengono.
Non mancheranno, inoltre, occasioni di riflessione e coinvolgimento sul tema
dell'esclusione e della marginalizzazione sociale dei minori nel mondo attraverso seminari
di approfondimento, mostre, laboratori per bambini e proiezioni di film-documentari. Nelle
giornate di sabato 27 e domenica 28 giugno, il Festival vedrà il suo momento più
importante con lo spettacolo circense inedito "Bing Bang Circus - Un viaggio nel mondo",
curato dal regista Emmanuel Lavallè, dove saranno protagonisti assoluti i piccoli ospiti, per
la prima volta insieme nella performance, e i loro accompagnatori. Nella giornata di sabato
27 giugno, inoltre, Circomondo sarà inserito nel programma di Nottilucente,
manifestazione promossa dal Comune e che animerà San Gimignano dalle ore 17 fino a
tarda notte, trasformando la città in un palco a cielo aperto.
Cos'è il circo sociale. Il circo sociale si rifà a una metodologia pedagogica di integrazione
sociale, avviata negli Stati Uniti negli anni Venti per recuperare i bambini vittime della
Grande Depressione, facendo leva sulla loro creatività attraverso l'arte circense. Da allora,
il circo sociale si è diffuso in tutto il mondo come metodo educativo per lavorare con i
bambini e i ragazzi emarginati o in condizioni di rischio e svilupparne l'autonomia,
l'autodisciplina, il senso di dignità e la responsabilità personale.
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Circomondo e Carretera Central: i protagonisti. Circomondo nasce dall'esperienza
maturata negli anni dall'associazione Carretera Central - braccio della cooperazione
internazionale dell'Arci di Siena - nel circo sociale in Brasile, a Cuba e in altri Paesi del
Sud del mondo. Su queste basi, l'associazione sta portando avanti un progetto di circo
sociale ad Haiti, a Port-au-Prince. La prima edizione di Circomondo si è svolta a Siena nel
gennaio 2012 con bambini e ragazzi in arrivo dalle favelas di Rio de Janeiro, dalle periferie
di Buenos Aires, dai sobborghi di Ramallah (Palestina) e dai quartieri più difficili
dell'hinterland napoletano (Barra e Scampia). Nella sua seconda edizione in programma a
San Gimignano, Circomondo vedrà protagonisti i circhi sociali Crescer e Viver, da Rio de
Janeiro (Brasile); Al Jana, da Beirut (Libano/Palestina); Mobile Mini Circus for Children, da
Kabul (Afghanistan), A. p. e. c C. V, da Valencia (Spagna); NAFSI Africa, da Nairobi
(Kenya); Piccolo Circo di Roma e Tappeto di Iqbal di Napoli.
Il premio: "Bambini che cambiano il mondo". Circomondo dedicherà al tema dei diritti
dell'infanzia anche il Premio artistico "Bambini in pista che cambiano il mondo", rivolto agli
alunni delle scuole primarie e secondarie di tutta Italia e alle associazioni giovanili. Il
Premio prevede la presentazione di elaborati artistici realizzati con tecnica a piacere e
dedicati al tema dei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza e alla metodologia pedagogica
del circo sociale, che valorizza l'arte e la cultura come strumento di integrazione verso
bambini e adolescenti a rischio di esclusione sociale. Gli elaborati potranno essere
presentati entro il 18 giugno e il primo premio prevede attrezzature didattiche per un valore
di 750 euro. Per conoscere il bando e le modalità di partecipazione consultare il sito di
Circomondo.
Promotori e sostenitori. Circomondo 2015 è organizzato dall'associazione di volontariato e
cooperazione internazionale Carretera Central in collaborazione con il Comitato dell'Arci di
Siena, con il contributo della Chiesa Valdese e in partnership con l'Arci nazionale e
regionale Toscana e il Consorzio Nazionale NOVA. La manifestazione conta anche sul
patrocinio di Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, Comune di San
Gimignano e Regione Toscana, oltre ad altri enti nazionali e internazionali e partner locali.
Informazioni e social network. Per saperne di più su Circomondo, è possibile consultare il
sito e visitare le sezioni di approfondimento sul Festival. Circomondo è anche sui social
network Facebook, Twitter e Instagram. Su You Tube, inoltre, è possibile vedere i video
dell'edizione 2012.
http://www.repubblica.it/solidarieta/volontariato/2015/06/26/news/arci-117780761/
Da DazebaoNews e Articolo21 del 27/06/15
Terrorismo. Solo una politica di pace e
cooperazione può fermare l’Isis
ROMA – “Tunisia, Kuwait e Francia sono al centro di terribili e feroci attentati.
Se nel caso francese la matrice dell”attentato è per ora più incerta, non vi sono dubbi che i
25 assassinati dal kamikaze in Kuwait e la strage di Sousse in Tunisia facciano parte
dell”offensiva sanguinosa che l’Isis ha deciso di scatenare proprio in occasione del
Ramadan. Ancora una volta si colpisce la Tunisia. Non a caso”. E’ l’Arci a sottolineare che
“è qui che la primavera araba ha dato i frutti più duraturi”. “E’ qui che il fondamentalismo
religioso non ha sfondato. E’ qui che le istituzioni e la società civile si ergono a barriera dei
nuovi spazi democratici. Tutto questo -si legge in una nota- si oppone di fatto alle mire
espansionistiche del califfato. Quindi deve essere abbattuto. E’ una logica crudele che non
conosce remore. La Tunisia viene colpita in uno dei punti chiave della sua economia: il
turismo. Purtroppo il Consiglio europeo é più impegnato in una vera e propria guerra
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contro i migranti piuttosto che a trovare un nuovo piano per fermare l’Is ed aiutare la
democrazia nella regione mediterranea”.
“Ma difendere la democrazia in Tunisia dev”essere una priorità assoluta, nello stesso
interesse dell’Europa, perché è dalla frustrazione sociale e dalla mancanza di lavoro che
traggono alimento le culture violente e reazionarie”.
“Per questo -prosegue l”Arci- l”Europa dovrebbe sollevare dal debito quel paese, debito
accumulato durante la dittatura di Ben Alì, il pagamento dei cui interessi privano la Tunisia
di qualsiasi possibilità di investimenti pubblici per l”occupazione. Vanno fermati gli accordi
di libero scambio completo e approfondito (ALECA), che aprono all”invasione delle
multinazionali e distruggono la fragile economia locale”. “Questo serve -viene rilevato- per
fermare anche il terrorismo, di sicuro non un nuovo intervento militare, dal momento che
sono stati i precedenti ad alimentarlo. Insieme a una lucida politica di pace, di
cooperazione e di solidarietà. E” ciò che manca e per cui ci battiamo”.
http://www.articolo21.org/2015/06/terrorismo-solo-una-politica-di-pace-e-cooperazionepuo-fermare-lisis/
Da Si24.it del 27/06/15
Sale l'allerta
Isis, sventato attentato terroristico a Londra
In Tunisia chiuse 80 moschee, turisti in fuga
di Redazione. Categoria-: Esteri
Il giorno dopo la strage di Sousse e l’attentato di Lione, l’Europa torna a temere la
minaccia jihadista dell’Isis. Secondo quanto riportato da “The Sun”, l’unità antiterrorismo di
Scotland Yard avrebbe sventato un attentato terroristico a Londra.
Il piano di un gruppo di jihadisti legati all’Isis, prevedeva di far esplodere un ordigno
durante la parata con cui si celebra il giorno delle forze armate nella capitale britannica.
Una vera e propria escalation di terrore alla quale tutti i principali governi dell’area del
Mediterraneo provano a reagire. “Ormai la domanda non è più se ci sarà un attentato, ma
quando”, ha detto il premier francese, Manuel Valls.
“È difficile per una società vivere per anni sotto minaccia, ma la Francia deve imparare a
convivere con la minaccia costante di attentati terroristici”, ha quindi aggiunto.
Il governo tunisino guidato da Habib Essid, ad esempio, ha deciso la chiusura di 80
moschee non controllate dallo Stato, per incitamento alla violenza. Un provvedimento
tampone al quale ne seguiranno altri ben più drastici.
Ed è proprio il massacro tunisino a preoccupare maggiormente, in primis per la sua
portata simbolica: “Ancora una volta si colpisce la Tunisia. Non a caso – ha sottolineato
l’Arci – È qui infatti che la primavera araba ha dato i frutti più duraturi”. Intanto migliaia di
turisti lasciano il Paese.
È di almeno 15 morti il bilancio dei turisti britannici rimasti uccisi nell’attacco terroristico a
Sousse. Lo ha confermato il Foreign Office, scrive la Bbc, mentre il sottosegretario agli
Esteri Tobias Elwood ha avvertito che il bilancio potrebbe ancora salire. Si tratta, ha detto,
“del più grave attentato contro cittadini britannici” da quelli del 7 luglio 2005 a Londra.
“È qui che il fondamentalismo religioso non ha sfondato. È qui che le istituzioni e la
società civile si ergono a barriera dei nuovi spazi democratici – prosegue la nota – Tutto
questo si oppone di fatto alle mire espansionistiche del califfato. Quindi deve essere
abbattuto. È una logica crudele che non conosce remore”.
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Un attentato mirato: “La Tunisia viene colpita in uno dei punti chiave della sua economia: il
turismo. Purtroppo il Consiglio europeo é più impegnato in una vera e propria guerra
contro i migranti – accusa l’Arci – piuttosto che a trovare un nuovo piano per fermare l’Is
ed aiutare la democrazia nella regione mediterranea”.
“Ma difendere la democrazia in Tunisia dev’essere una priorità assoluta, nello stesso
interesse dell’Europa, perché è dalla frustrazione sociale e dalla mancanza di lavoro che
traggono alimento le culture violente e reazionarie“.
La soluzione? “L’Europa dovrebbe sollevare dal debito quel paese, debito accumulato
durante la dittatura di Ben Alì, il pagamento dei cui interessi privano la Tunisia di qualsiasi
possibilità di investimenti pubblici per l’occupazione“.
“Vanno fermati gli accordi di libero scambio completo e approfondito (ALECA), che
aprono all’invasione delle multinazionali e distruggono la fragile economia locale”.
In sostanza: “Questo serve per fermare anche il terrorismo, di sicuro non un nuovo
intervento militare, dal momento che sono stati i precedenti ad alimentarlo. Insieme a una
lucida politica di pace, di cooperazione e di solidarietà – conclude l’Arci – È ciò che manca
e per cui ci battiamo”.
http://www.si24.it/2015/06/27/isis-attentato-londra-in-tunisia-chiudono-80-moschee/96837/
Da Redattore Sociale del 30/06/15
Arci al fianco della Grecia, "per un’Europa
fondata sui valori, non sulla finanza e la
tecnocrazia"
L’associazione descrive la situazione in atto e lancia una petizione.
“Raccogliamo l’invito di tante organizzazioni sociali europee per
l’organizzazione di una settimana straordinaria di mobilitazione,
invitiamo i nostri soci e tutti i cittadini a sottoscrivere la nostra
petizione”
ROMA - La crisi greca vista dall’Arci, L’associazione, in una nota, così descrive la
situazione in atto: “Si contrappongono, come non mai, due visioni di Europa. Una
ostinatamente perseverante in politiche di austerity che hanno aumentato disuguaglianze
e compresso i diritti. Un'altra invece che guarda al primato della politica e della pratica
della democrazia e della solidarietà”.
L’associazione si schiera al fianco del popolo greco, partendo dal presupposto che “da
troppo tempo il progetto dell'Europa unita resta schiacciato su uno schema in cui la politica
soggiace alle ragioni della tecnocrazia e della finanza. Di fronte alla resistenza del governo
greco, questo schema ha generato un cortocircuito che non solo rischia di abbattersi sui
cittadini ellenici ma mette in pericolo le basi che fondano il progetto dell'Europa unita. Per
questo pensiamo che in queste ore drammatiche stiamo assistendo ad una crisi che
travalica il conflitto tra Grecia e vertici Ue.
Quanto al referendum a cui sarà chiamata la Grecia, l’Arci afferma: “La possibilità che avrà
domenica prossima il popolo greco di esprimersi sulla proposta dell'ex trojka rappresenta
un sussulto di dignità, sovranità, democrazia, in questo buio passaggio della storia
dell'Unione europea. Potrà rappresentare un'altra visione dell'Europa unita, quella
secondo cui al centro ci sono i popoli e la democrazia. Raccogliamo l’invito di tante
organizzazioni sociali europee per l’organizzazione di una settimana straordinaria di
mobilitazione, invitiamo i nostri soci e tutti i cittadini a sottoscrivere la nostra petizione”
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La petizione dell’Arci. Una petizione dal titolo “No all’austerità, sì alla democrazia!”, in cui
si ribadisce che “l'Europa è a un bivio. Non stanno solo cercando di distruggere la Grecia,
stanno cercando di distruggere tutti e tutte noi. È il momento di alzare la nostra voce
contro i ricatti delle oligarchie europee. Domenica prossima – si legge nella petizione - il
popolo greco potrà decidere di rifiutare il ricatto dell'austerità votando per la dignità, con la
speranza di un'altra Europa. Il momento storico impone a ciascuno in Europa di schierarsi.
Diciamo NO all'austerità, ad ulteriori tagli alle pensioni, ad altri aumenti delle imposte
indirette. Diciamo NO alla povertà e ai privilegi. Diciamo NO ai ricatti e alla demolizione dei
diritti sociali. Diciamo NO alla paura e alla distruzione della democrazia. Diciamo insieme
SÌ alla dignità, alla sovranità, alla democrazia e alla solidarietà con il popolo greco”.
“Ma questa non è una questione tra la Grecia e l'Europa – conclude ancora l’appello -.
Riguarda due visioni contrapposte di Europa: la nostra Europa solidale e democratica,
costruita dal basso e senza confini. E la loro versione che nega la giustizia sociale, la
democrazia, la protezione dei più deboli, la tassazione dei ricchi. Basta! È troppo! Un'Altra
Europa è possibile ed è davvero necessaria. Costruiamo un forte OXI, un chiaro NO
europeo e partecipiamo al nostro referendum, on line e fisicamente nelle piazze di tutta
Europa. In questo momento storico, facciamo appello al popolo europeo, ai sindacati, alle
forze politiche, alle organizzazioni e movimenti sociali a esprimere il loro NO visibile alla
austerità venerdì 3 luglio in tutta Europa. Troviamo il nostro modo per dire NO in tutte le
lingue d'Europa! Troviamo il nostro modo per dire OXI!”.
“Domenica sarà un giorno decisivo per l'Europa. Per noi, popolo europeo. Per i nostri
sogni, per le nostre speranze. Ma non dobbiamo dimenticare che non sarà l'ultimo nella
strada della lotta comune per un'altra Europa, fatta dalle persone e al loro servizio.
Continueremo a difendere la democrazia”.
Da Redattore Sociale del 26/06/15
Razzismo, Erri De Luca e Wu Ming tra gli
ospiti del Meeting di Cecina
Dal 1 al 5 luglio il tradizionale appuntamento promosso da Arci e
Regione Toscana. L’assessore Saccardi: “Evento che contribuisce a far
crescere la coscienza civile sulla lotta alle discriminazioni”
FIRENZE - Lo scrittore Erri De Luca, il comico Giorgio Montanini e il collettivo Wu Ming, il
presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. Sono alcuni degli ospiti della XXI edizione
del Meeting internazionale antirazzista promosso da Arci, con il sostegno di Regione
Toscana, Provincia di Livorno, Comuni di Livorno, Cecina, Rosignano e Bibbona, Cesvot.
Il Meeting, che si svolge a Cecina Mare nel parco I Pini (località Cecinella) dal primo al 5
luglio prossimi, prende quest'anno il titolo di "Mare Aperto" ed è stato presentato questa
mattina in Regione.
"Il meeting antirazzista è un appuntamento importante – afferma la ex-vicepresidente
Stefania Saccardi che nella nuova giunta avrà le deleghe a sanità, sociale e sport - a cui la
Regione tiene particolarmente perché ha contributo a mobilitare e a far crescere la
coscienza civile sul grande tema dei diritti umani e della lotta alle discriminazioni,
concentrandosi di anno in anno sugli argomenti emergenti, come quest'anno il tema
dell'immigrazione. 'Mare aperto', come luogo di pace e di confronto di culture e religioni, ci
sembra dare un'indicazione suggestiva verso quella che è la nostra idea di accoglienza,
messa in atto anche tenendo come timone l'art.10 della nostra Costituzione.
Un'accoglienza che intendiamo coniugare con l'integrazione sociale e con l'autonomia:
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percorso, accreditato come modello toscano, che ha dimostrato di funzionare con piccoli
numeri sparsi sul territorio e non accentrati in grandi strutture o tendopoli. Grazie ad Arci
per avere posto questo tema delicato, rivendicando l'esistenza di valori che vogliamo
continuare a difendere".
"Il meeting resta ancora oggi – spiega Gianluca Mengozzi, presidente di Arci Toscana uno dei principali appuntamenti italiani di confronto sui temi del contrasto alle
discriminazioni e alla xenofobia. Siamo contenti che questa storica manifestazione si
continui a tenere in Toscana, terra che in questi anni ha saputo costruire, attraverso il
modello di accoglienza diffusa, una visione alternativa alla strumentalizzazione della
paura. Siamo fiduciosi che le resistenze all'accoglienza poste finora da 150 comuni siano
superate. E dal meeting non rinunceremo a lanciare nuovamente l'offerta di collaborazione
della società civile toscana ai sindaci".
"L'Europa – commenta Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci - sta scrivendo
un'altra brutta pagina della sua storia, che sconfessa le sue radici. Se all'Italia spetta
mettere a sistema il proprio sistema dell'accoglienza superando l'approccio emergenziale
e contrastando la controffensiva leghista andata in scena anche ieri nel corso dell'incontro
del comitato delle regioni, i paesi membri dell'Ue non possono opporre solo rifiuto a
principi di solidarietà e criteri di condivisione. Il fenomeno dei flussi migratori è ormai un
dato strutturale del nostro mondo. O lo affrontiamo senza superficialità oppure saremo
dominati da dannosi conflitti. Da qui, credo, che ripartirà la nostra riflessione al meeting".
Anche quest'anno al Meeting parteciperanno personalità politiche, amministratori, studiosi
del fenomeno dell'immigrazione, rappresentanti di reti e alleanze contro il razzismo. E si
consolida la collaborazione con il progetto Atlante delle Guerre e dei Conflitti nel mondo.
Particolare spazio, come di consueto, avranno gli appuntamenti di formazione. Non
soltanto l'università sul diritto d'asilo, che ogni anno richiama addetti ai lavori e operatori.
Quest'anno il Meeting sarà l'occasione per lanciare la prima edizione della Summer
School dell'Antirazzismo, promossa da Arci in collaborazione con Anci e Unar: nel corso
del suo svolgimento in quattro sessioni, punterà a riprendere il filo dell'analisi e degli
strumenti a disposizione del movimento antirazzista alla luce del contesto in cui si trovano
Italia ed Europa. Numerosi, infine saranno, gli appuntamenti laboratoriali per i più piccoli.
Mentre ogni giornata si chiuderà con gli spettacoli in programma sul palco centrale della
Cecinella.
Da Adn Kronos del 26/06/15
Il Meeting Antirazzista di Cecina nel nome del
"Mare Aperto"
FIRENZE - Lo scrittore Erri De Luca, il comico Giorgio Montanini e il collettivo Wu Ming, il
presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. Sono alcuni degli ospiti della XXI edizione
del Meeting Internazionale Antirazzista promosso da Arci, con il sostegno di Regione
Toscana, Provincia di Livorno, Comuni di Livorno, Cecina, Rosignano e Bibbona, Cesvot.
Il Meeting, che si svolge a Cecina Mare nel parco I Pini (località Cecinella) dal primo al 5
luglio prossimi, prende quest'anno il titolo di "Mare Aperto". Mare Aperto perché il
Mediterraneo torni ad essere il mare che per millenni ha unito culture e popoli, invece che
un'immensa tomba di persone innocenti. Mare Aperto perché la società italiana si perde
nelle tensioni e nelle paure alimentate da pulsioni discriminatorie e non riesce ancora a
trovare la via di un governo del fenomeno delle migrazioni. Mare Aperto perché in questo
modo gli organizzatori della manifestazione concepiscono un modello di accoglienza e
gestione dei flussi migratori che sia davvero efficace, umano e civile. "Il meeting
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antirazzista è un appuntamento importante – afferma la ex-vicepresidente Stefania
Saccardi che nella nuova giunta avrà le deleghe a sanità, sociale e sport - a cui la Regione
tiene particolarmente perché ha contributo a mobilitare e a far crescere la coscienza civile
sul grande tema dei diritti umani e della lotta alle discriminazioni, concentrandosi di anno
in anno sugli argomenti emergenti, come quest'anno il tema dell'immigrazione. 'Mare
aperto', come luogo di pace e di confronto di culture e religioni, ci sembra dare
un'indicazione suggestiva verso quella che è la nostra idea di accoglienza, messa in atto
anche tenendo come timone l'art.10 della nostra Costituzione. Un'accoglienza che
intendiamo coniugare con l'integrazione sociale e con l'autonomia: percorso, accreditato
come modello toscano, che ha dimostrato di funzionare con piccoli numeri sparsi sul
territorio e non accentrati in grandi strutture o tendopoli. Grazie ad Arci per avere posto
questo tema delicato, rivendicando l'esistenza di valori che vogliamo continuare a
difendere". "Il meeting resta ancora oggi – spiega Gianluca Mengozzi, presidente di Arci
Toscana - uno dei principali appuntamenti italiani di confronto sui temi del contrasto alle
discriminazioni e alla xenofobia. Siamo contenti che questa storica manifestazione si
continui a tenere in Toscana, terra che in questi anni ha saputo costruire, attraverso il
modello di accoglienza diffusa, una visione alternativa alla strumentalizzazione della
paura. Siamo fiduciosi che le resistenze all'accoglienza poste finora da 150 comuni siano
superate. E dal meeting non rinunceremo a lanciare nuovamente l'offerta di collaborazione
della società civile toscana ai sindaci". "L'Europa – commenta Francesca Chiavacci,
presidente nazionale Arci - sta scrivendo un'altra brutta pagina della sua storia, che
sconfessa le sue radici. Se all'Italia spetta mettere a sistema il proprio sistema
dell'accoglienza superando l'approccio emergenziale e contrastando la controffensiva
leghista andata in scena anche ieri nel corso dell'incontro del comitato delle regioni, i paesi
membri dell'Ue non possono opporre solo rifiuto a principi di solidarietà e criteri di
condivisione. Il fenomeno dei flussi migratori è ormai un dato strutturale del nostro mondo.
O lo affrontiamo senza superficialità oppure saremo dominati da dannosi conflitti. Da qui,
credo, che ripartirà la nostra riflessione al meeting". Anche quest'anno al Meeting
parteciperanno personalità politiche, amministratori, studiosi del fenomeno
dell'immigrazione, rappresentanti di reti e alleanze contro il razzismo. E si consolida la
collaborazione con il progetto Atlante delle Guerre e dei Conflitti nel mondo. Particolare
spazio, come di consueto, avranno gli appuntamenti di formazione. Non soltanto
l'università sul diritto d'asilo, che ogni anno richiama addetti ai lavori e operatori.
Quest'anno il Meeting sarà l'occasione per lanciare la prima edizione della Summer
School dell'Antirazzismo, promossa da Arci in collaborazione con Anci e Unar: nel corso
del suo svolgimento in quattro sessioni, punterà a riprendere il filo dell'analisi e degli
strumenti a disposizione del movimento antirazzista alla luce del contesto in cui si trovano
Italia ed Europa. Numerosi, infine saranno, gli appuntamenti laboratoriali per i più piccoli.
Mentre ogni giornata si chiuderà con gli spettacoli in programma sul palco centrale della
Cecinella.
http://www.adnkronos.com/fatti/pa-informa/politica/2015/06/26/meeting-antirazzistacecina-nel-nome-del-mare-aperto_yXPfP6qT4U2jueKaajqPuJ.html
del 27/06/15
MIGRANTI
Roma e Bruxelles, una gara a chi fa peggio
Filippo Miraglia
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Italia ed Europa sembrano impegnate in una gara a chi fa peggio sulla questione dei
migranti.
Il governo italiano si ispira al principio per cui i richiedenti asilo si accolgono mentre i
cosiddetti migranti economici andrebbero espulsi e rimpatriati. Ciò avverrebbe attraverso
una sorta di «accoglienza differenziata» fra Nord e Sud del nostro paese. Infatti
sparirebbero tutti i centri di primo soccorso e di accoglienza. Al loro posto vi sarebbero
degli hotspot, 5 o 6, che si apriranno nelle regioni mediterranee, quindi in Sicilia, in
Calabria, in Puglia e forse anche in Campania. Dove più frequenti sono stati gli sbarchi e
le tragedie che hanno portato alla morte migliaia di persone. Dopo 48 ore di permanenza,
quando le misure di prima accoglienza verranno praticate solo se possibili, i migranti
verranno spostati negli hub, ovvero grandi centri di smistamento, suddivisi in «chiusi» e
«aperti». Qui avverrà la suddivisione tra chi ha diritto all’accoglienza e chi no. Questi
ultimi, gli «irregolari» finiranno nei vecchi Cie, pronti per l’espulsione. Gli altri verranno
«accolti» negli hub aperti e nello Sprar, il sistema di «protezione» dei richiedenti asilo e dei
rifugiati affidato all’Anci. Le strutture aperte saranno situate al Nord, quelle chiuse e che
fungono rampe di lancio per l’espulsione al Sud. Ovvero i «buoni» nel Nord del paese, i
«cattivi» nel Meridione.
Difficile immaginare un sistema più perverso, in cui si fonde la vecchia questione
meridionale nostrana con il nuovo razzismo nei confronti dei migranti.
In questo sistema ogni diritto viene travolto. Ai migranti viene tolta la possibilità di
dichiarare quali sono i motivi della loro richiesta di protezione che invece viene affidata ad
una commissione. Facile prevedere una catena di ricorsi nei confronti di decisioni
negative. Il diritto a cercare lavoro viene calpestato, mentre formalmente sarebbe uno dei
pilastri dei trattati europei.
Come si vede Renzi ha poco da alzare la voce in sede Ue, dove peraltro non fanno
meglio. Le conclusioni del Consiglio europeo sono davvero umilianti e vergognose. Si è
litigato, con i paesi dell’Est nel ruolo dei più intransigenti, su 40mila rifugiati già presenti in
Europa da ridistribuire in due anni tra i diversi paesi europei. Cifre tutt’altro che inquietanti,
soprattutto se si tiene conto che secondo l’Unhcr più di 100mila persone sono giunte in
Europa dall’inizio dell’anno considerando solo quelle che hanno battuto la via
mediterranea. Contemporaneamente la Ue mantiene la missione di pattugliamento e di
respingimento dei barconi, salvo l’obbligo del salvataggio in mare che anche le navi militari
devono operare. Inoltre le procedure di espulsione vengono rinforzate tramite accordi con
paesi retti da dittature o nei quali è ancora in corso un conflitto sanguinoso.
Il Consiglio europeo dimostra ancora una volta di essere del tutto prigioniero della logica
dell’Europa come fortezza. Mentre il governo italiano cerca di venire a patti con le sempre
più forti pulsioni xenofobe e razziste che attraversano il nostro paese, su cui le destre
soffiano a pieni polmoni e che purtroppo si diffondono rapidamente anche a livello
popolare. Non è un mistero per nessuno che gran parte della campagna elettorale per le
regionali si sia giocata proprio sulla questione dell’accoglienza dei migranti. D’altra parte
bisogna aver chiaro che questa dell’immigrazione è una questione che rappresenta una
delle discriminati più evidenti tra la destra e la sinistra in ogni paese e in Europa.
*Vicepresidente Arci
Da Redattore Sociale del 27/06/15
Migranti. Alfano: "Rimpatriare il più alto
numero di persone possibile"
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Così il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, in un videomessaggio
inviato al Festival del lavoro di Palermo. "Garantire accoglienza a chi
scappa dalla guerra, ma rimpatriare chi non ha diritto di stare in Italia".
Intanto cresce lo scontento delle associazioni
ROMA - "L'accoglienza dobbiamo garantirla a chi scappa dalla guerra, ma dobbiamo
anche rimpatriare chi arriva illegalmente. L'opinione pubblica è stanca. Accogliamo i
profughi e facciamo tornare a casa chi non ha diritto di stare in Italia. Rimpatrieremo il più
alto numero di persone che possiamo rimpatriare". Parola del ministro dell'Interno
Angelino Alfano intervenuto oggi al Festival del Lavoro in corso a Palermo in un
videomessaggio. L'inquilino del Viminale torna a parlare di immigrazione dopo il vertice del
Consiglio europeo a Bruxelles conclusosi con un "compromesso" sulla questione della
redistribuzione dei richiedenti asilo. Per Alfano, il risultato di ieri è da considerare un
"primo passo avanti". "Non abbiamo ottenuto tutto quello che avremmo voluto - ha
spiegato Alfano -, ma abbiamo ottenuto più di quanto si sia mai ottenuto in Europa in
materia di immigrati".
Il muro di Dublino. Il ministro dell'Interno, poi ha criticato ancora una volta il regolamento di
Dublino, definendolo "una sorta di muro" che per Alfano si è rivelato "penalizzante per
l'Italia". Per Alfano, però, qualche segnale arriva proprio dall'accordo di ieri che, secondo il
ministro, "ha messo in crisi il regolamento di Dublino e crea 24 mila brecce nel muro di
Berlino". Sul regolamento e sempre da Palermo è intervenuto anche il ministro della
giustizia Andrea Orlando. "Il segnale che è venuto sulla messa in discussione di Dublino è
un primo ma importante segnale - ha spiegato il ministro - che l'Europa non scarica più sui
paesi del Mediterraneo questo tema".
Non esiste la bacchetta magica. Da Palermo è intervenuto sul tema Khalid Chaouki,
deputato del Partito democratico. "Sull''emergenza immigrazione nessuno ha la bacchetta
magica - ha detto -, tantomeno la Lega Nord che, al di là degli slogan, quando ha
governato non ha cambiato nulla di fronte ai flussi di migranti dal Nord Africa". Per
Chaouki, "su questioni serie come il dramma dei profughi - ha proseguito - invito Salvini ad
abbandonare la sterile propaganda e a sostenere il governo e sostenere l''Italia in questa
difficile trattativa con gli altri Paesi europei che sta portando a risultati positivi ma ancora
insufficienti".
Cresce lo scontento delle associazioni. Se la politica sottolinea soprattutto il successo di
un accordo, dal mondo delle associazioni guarda con diffidenza alle decisioni prese nelle
sedi europee. Amaro il commento di Gian Carlo Perego, direttore generale della
Fondazione Migrantes. "Ancora una volta ha vinto la chiusura e ha perso l’accoglienza;
ancora una volta ha vinto la tutela delle merci e della proprietà intellettuale, ma ha perso la
tutela della vita delle persone; ancora una volta la sicurezza è legata alla crescita di
armamenti e meno a un impegno europeo in percorsi di conoscenza, incontro, tutela.
Ancora una volta ha perso l’Europa, la casa comune”. Di risultati "tutt’altro che
soddisfacenti" parla invece il Centro Astalli, secondo cui nelle sedi europee "si continua a
ragionare su numeri ridicoli che di fatto non tengono minimamente conto del fenomeno
nelle sue reali dimensioni". Numeri che preoccupano anche la Cisl. Per Liliana Ocmin,
responsabile del Dipartimento Politiche migratorie della Cisl, “l'accordo raggiunto sul
fenomeno dei migranti è incompleto: non sono riusciti a far passare la condivisione di
responsabilità da parte dei 28 paesi dell'Ue, non è passata l'obbligatorietà della
distribuzione né tantomeno la volontarietà". L'Arci, invece, denuncia "l’incapacità
dimostrata finora di pianificare gli interventi e di costruire un sistema efficace e rispettoso
della dignità delle persone”. Per Save the Children, l'impegno preso dall'Ue è solo "un
primo passo": "positivo", spiega, ma "largamente insufficiente". Dei numeri si lamenta
anche la Comunità di Sant’Egidio, secondo cui il vertice europeo ha rivelato un’Europa
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condizionata da "egoismi e paure ingiustificate”. Per l’associazione, “il risultato è un
compromesso al ribasso per la redistribuzione di un numero limitatissimo di richiedenti
asilo". Per l'Unhcr, "si dovrà fare molto di più, tra cui affrontare le cause alla radice del
fenomeno". Da Medici senza frontiere arriva l'appello per un "ripensamento radicale delle
politiche migratorie, perché i bisogni delle persone coinvolte siano al centro degli sforzi per
affrontare questa crisi".(ga)
Da Redattore Sociale del 26/06/15
Consiglio d’Europa sui migranti, “la
montagna ha partorito il topolino”
Le reazioni delle associazioni. Centro Astalli: “Risultati tutt’altro che
soddisfacenti”. Arci: “Il Governo ipotizza un’accoglienza differenziata”.
Cisl: “L’accordo raggiunto è incompleto”. Msf: “Serve un ripensamento
radicale delle politiche migratorie”. Sant'Egidio: "Ue condizionata da
egoismi e paure"
ROMA - Alla luce di quanto approvato ieri in Consiglio d’Europa in merito all’Agenda
sull’immigrazione, le associazioni italiane continuano a mostrarsi molto critiche. Ecco
alcune reazioni.
Il Centro Astalli perplesso: “Risultati tutt’altro che soddisfacenti”. In particolare, afferma
l’associazione, “si devono evidenziare nuovamente delle criticità su alcuni punti specifici.
Si continua a ragionare su numeri ridicoli che di fatto non tengono minimamente conto del
fenomeno nelle sue reali dimensioni. Basti pensare che solo il Libano, la cui superficie è
pari alla metà della Regione Lombardia, ospita attualmente più di 1 milione di rifugiati”.
Per il Centro Astalli, con le decisioni prese, “l’Europa realizzerà un progetto di
reinsediamento facoltativo da parte degli Stati membri di soli 20 mila rifugiati in due anni.
Ricordiamo ancora una volta che per i soli siriani l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite
per i Rifugiati aveva chiesto un reinsediamento di 130 mila persone. Rimane anche
confermata la misura del ricollocamento che riguarderà appena 40 mila persone in due
anni di cui 24 mila dall’Italia e 16 mila dalla Grecia. Solo lo scorso anno l’Italia ha assistito
allo sbarco di 170 mila persone”.
Ulteriore elemento di forte preoccupazione rimane il fatto che “il Regolamento Dublino che
stabilisce di chiedere asilo nel primo Paese di ingresso in Europa non solo non è stato
superato, ma anzi tutto lascia intendere che verrà applicato con ancor maggiore rigidità,
come già si coglie da alcuni segnali alle frontiere interne dell’Europa”.
“Se così fosse – conclude l’associazione -, considerando che nel 2014 più di 100 mila
persone sbarcate sulle nostre coste hanno scelto di non chiedere asilo in Italia, non è
difficile prevedere, sulla base dei dati del primo semestre 2015, che l’Italia si troverebbe a
dover far fronte a un numero di domande più che raddoppiato rispetto alla situazione
attuale”.
Arci: “Ora il governo si inventa l’accoglienza ‘differenziata’”. Per l’Arci, il Governo, per far
fronte al caos dell’accoglienza in Italia, di cui è il principale responsabile, avanza proposte
che questa confusione aumenteranno, inventandosi nuove strutture ‘chiuse’ o ‘aperte’ di
accoglienza e tentando una suddivisione del tutto arbitraria tra persone meritevoli di
accoglienza e no, e tra regioni del nord e del sud. Un po’ di fumo per nascondere
l’incapacità dimostrata finora di pianificare gli interventi e di costruire un sistema efficace e
rispettoso della dignità delle persone”.
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Continua l’Arci, “ci sono migliaia di persone arrivate in Italia per chiedere protezione e che
sono invece costrette a vivere nel degrado, senza alcuna certezza del diritto (…). Intanto
le stazioni delle maggiori città sono diventate dei dormitori per i cosiddetti transitanti. Il
regolamento Dublino, inapplicabile, che viene usato dai governi europei per dimostrare
l’inadempienza dell’Italia, che non solo non identifica chi arriva ma addirittura li invita
esplicitamente a raggiungere altri paesi. Insomma un vero caos, che in un Paese normale
avrebbe portato alle dimissioni del Ministro dell’Interno. E invece è lo stesso presidente
del consiglio a correre in aiuto di Alfano ipotizzando, anche per inseguire il razzismo
istituzionale dei governatori di Regione leghisti, l’accoglienza differenziata, che ricorda le
vecchie gabbie salariali: al nord i ‘buoni’ (i rifugiati), al sud i ‘cattivi’ (migranti economici o
irregolari), da rispedire al mittente”.
Per l’Arci, infine, “decidere poi di moltiplicare i campi per stranieri, grandi luoghi di
segregazione, anche quando vengono definiti ‘aperti’, come la storia di questi centri
insegna, da Mineo, a Crotone a Lampedusa, non fa che alimentare razzismo nella
comunità ospitante, sprechi e corruzione”.
Cisl: “La montagna ha partorito il topolino”. Per Liliana Ocmin, responsabile del
Dipartimento Politiche migratorie della Cisl, “l'accordo raggiunto sul fenomeno dei migranti
è incompleto: non sono riusciti a far passare la condivisione di responsabilità da parte dei
28 paesi dell'Ue, non è passata l'obbligatorietà della distribuzione né tantomeno la
volontarietà".
"Unico punto positivo – per la Cisl - è il contrasto alla tratta, in attesa comunque della
risoluzione Onu. L'intesa, poi, riguarda solo i 40 mila eritrei e siriani, nulla è stato detto o
fatto rispetto agli odierni flussi. L'italia e la Grecia sono state lasciate ancora una volta da
sole, vince ancora l'egoismo nazionalista. Quindi occasione mancata per una Ue politica e
sociale unita nella sfida a favore della accoglienza dei richiedenti asilo”.
Per la Cisl è necessario rivedere gli accordi con i paesi terzi, paesi di transito per prevenire
l'odioso traffico degli esseri umani e garantire l'accoglimento delle domande dei profughi
con percorsi legali, onorando, così, gli accordi internazionali. “Fondamentale, non
smetteremo mai di dirlo, è superare Dublino III per dare respiro ai Paesi più esposti e per
permettere una ripartizione equa nei 28 Paesi dell'Unione dei rifugiati che continuano ad
arrivare in Italia e dunque in Europa".
Msf: “Politiche di contenimento, muri e misure deterrenti non sono la risposta a questa crisi
umanitaria globale”. Per Loris De Filippi, presidente di Medici senza frontiere, “non faranno
che continuare a spingere persone disperate in viaggi lunghi e pericolosi nelle mani dei
trafficanti. Finché non verranno offerte alternative legali e sicure alle traversate sui barconi
e ai pericolosi viaggi verso la Libia, la sofferenza estrema di migliaia di persone non si
fermerà.”
“I decisori politici – afferma il responsabile di Msf - non hanno capito che la maggior parte
di queste persone non ha altra scelta che venire in Europa per fuggire a conflitti, crisi o al
caos della Libia. Con o senza un sistema obbligatorio di rilocazione, la portata e le
condizioni dell’accoglienza per chi arriva in Italia, come in Grecia, devono essere
urgentemente migliorate perché queste persone siano trattate con umanità.”
Msf chiede allora “un ripensamento radicale delle politiche migratorie, perché i bisogni
delle persone coinvolte siano al centro degli sforzi per affrontare questa crisi. Gli impatti
delle decisioni politiche devono essere misurati per garantire che non contribuiscano al
pesante bilancio di sofferenza umana che questa crisi da troppo tempo comporta”.
Alle persone in fuga Medici senza frontiere ha dedicato la campagna #Milionidipassi, con
un appello all’opinione pubblica e ai governi perché sia ridata umanità al tema delle
migrazioni forzate e venga garantito il diritto di tutti ad avere salva la vita.
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www.milionidipassi.it. In questi giorni rilancia l’appello attraverso l’hashtag
#VergognatiEuropa.
Comunità di Sant’Egidio: “Il vertice europeo ha rivelato un’Europa condizionata da egoismi
e paure ingiustificate”. Per l’associazione, “il risultato è un compromesso al ribasso per la
redistribuzione di un numero limitatissimo di richiedenti asilo: 40 mila persone, tra le
migliaia già arrivate sulle coste italiane e greche rappresentano una cifra estremamente
ridotta per l’Unione, anche perché sono da dividere tra 28 nazioni”. “L’Europa è nata su
ideali ben diversi – continua -, che parlano di difesa dei diritti e di accoglienza. Non si
possono rimettere in discussione questi princìpi sanciti da tutti i trattati che sono alla base
dell’Unione. Sono trattati da rispettare. Invece altri testi, come gli accordi di Dublino, che
obbligano il migrante a chiedere asilo solo nei Paesi di arrivo, possono e devono essere
modificati”.
E di fronte ad un compromesso che, in sostanza, si basa sulla volontarietà e lascia gli Stati
liberi di stabilire le loro quote di accoglienza, la Comunità di Sant’Egidio lancia un appello
a tutti i Paesi dell’Unione: “puntare sull’integrazione è molto più redditizio che alimentare
paure per motivi di politica interna e di pura propaganda”.
Unhcr: "Si dovrà fare molto di più". L'Unhcr prende nota della decisione di ieri sera del
Consiglio europeo di trasferire 40 mila persone bisognose di protezione internazionale e di
reinsediare 20 mila rifugiati. La decisione è un importante passo nel percorso di risposta a
questa crisi, ma è chiaro che si dovrà fare molto di più, tra cui affrontare le cause alla
radice del fenomeno. In mezzo alla più grande crisi globale di migrazioni forzate dei tempi
moderni, è essenziale che gli Stati lavorino insieme per elaborare delle risposte e che
l'Europa mostri leadership e capacità di visione per affrontare la sfida del proteggere
migliaia di rifugiati che oggi sono in fuga dalle guerre. Per quanto riguarda l’accordo sul
trasferimento di 40 mila persone in evidente bisogno di protezione internazionale, la
partecipazione di tutti gli Stati membri sarà la chiave per la riuscita. Queste misure
dovranno essere ampliate per soddisfare le esigenze attuali e per rispondere al fatto che
una parte sempre maggiore di arrivi via mare sta avendo luogo in Grecia. Questa iniziativa
può contribuire ad alleviare parte della pressione sull’Italia e sulla Grecia, ma deve essere
accompagnata anche da un migliore funzionamento del sistema di Dublino. Per quanto
riguarda la proposta di reinsediare 20 mila rifugiati in tutta l’Ue, l'Unhcr esorta gli Stati
membri ad assumere impegni concreti per raggiungere questo obiettivo, al di là delle
quote di reinsediamento esistenti. Chiediamo inoltre agli Stati membri di offrire altre vie
legali per le persone bisognose di protezione internazionale - tra cui una più efficace,
puntuale e coerente applicazione delle procedure di ricongiungimento familiare, come
proposto nell'Agenda europea sulla migrazione della Commissione. Fornire canali
alternativi realistici e significativi per le persone che cercano protezione sarà anche un
modo per sostenere gli sforzi internazionali volti a combattere il traffico di esseri umani.
Oxfam: "Un'Europa piccola piccola". Destano forti perplessità le conclusioni emerse dal
Consiglio Europeo dei capi di Stato che a Bruxelles sembra più aver rinviato che affrontato
i punti nodali intorno all’emergenza immigrazione verso l’Italia e l’Europa. A denunciarlo è
Oxfam, a partire da due punti cruciali all’ordine del giorno del dibattito europeo: il rimpatrio
dei migranti ritenuti illegali e la ridistribuzione di 40 mila migranti accolti in Italia e Grecia.
“Dal summit è emersa ancora una volta un visione generale “securitaria” nella gestione
dell’emergenza immigrazione, più che rivolta ad un concreto miglioramento del sistema di
accoglienza a livello europeo. – afferma il direttore dei programmi in Italia di Oxfam,
Alessandro Bechini – Seppur rappresenti un primo timido passo in avanti, appare del tutto
insufficiente la redistribuzione in due anni, di soli 40.000 migranti da Italia e Grecia con
una procedura per consenso tra gli Stati, e il reinsediamento di 20.000 rifugiati ospitati in
Paesi terzi. Più che una breccia sul muro del Regolamento di Dublino, si tratta di una
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fessura attraverso cui si intravede un’Europa piccola piccola”. Secondo Oxfam infatti la
sostanziale mancanza di vie di accesso legali all’Europa per i migranti, non può che avere
come risultato quello di attivare canali illegali che mettono in pericolo la vita dei migranti.
Colpisce al contrario come le conclusioni del vertice non facciano nessun cenno alla
possibilità di incentivare forme di migrazione legale.
Migrantes: "Ha vinto la chiusura, non l'accoglienza". L'amaro commento di Gian Carlo
Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, al termine del Consiglio
europeo.“Ancora una volta ha vinto la chiusura e ha perso l’accoglienza; ancora una volta
ha vinto la tutela delle merci e della proprietà intellettuale, ma ha perso la tutela della vita
delle persone; ancora una volta la sicurezza è legata alla crescita di armamenti e meno a
un impegno europeo in percorsi di conoscenza, incontro, tutela. Ancora una volta ha perso
l’Europa, la casa comune”. Secondo Perego, il superamento di Dublino "non può avvenire
con un’azione ‘eccezionale’, quale è quella decisa in questi giorni al Consiglio europeo,
ma sarà reale quando si condividerà in maniera ordinaria e strutturale in ogni città e Paese
europeo, a partire anche dall’Italia, l’accoglienza di persone che hanno diritto a una forma
di protezione internazionale. E’ necessario, a questo proposito, rafforzare alle frontiere
europee l’attenzione anche a riconoscere nuovi volti e storie di profughi che fuggono da
disastri ambientali, violenze, tratta, per evitare respingimenti e rimpatri che non tutelano la
vita e la dignità delle persone”.
Save the Children: "Impegno Ue insufficiente". Questa in sintesi la posizione di Save the
Children riguardo la decisione del Consiglio Europeo. Per l’Organizzazione, si tratta di
"numeri ben al di sotto di quanto necessario per fare fronte al fenomeno e c’è ancora tanta
strada per raggiungere livelli accettabili - spiega una nota -. Secondo le stime di Save the
Children, dal 1 gennaio al 25 giugno 2015 sono arrivati via mare solo in Italia circa 66.280
migranti, di cui almeno 6.300 minori, tra loro 4.000 circa sono non accompagnati. Per
Valerio Neri, direttore generale di Save the children, "l’accordo sul ricollocamento, in
particolare, è solo una procedura “temporanea ed eccezionale” e, come tale, non è un
approccio sistematico e strategico per affrontare queste emergenze nel lungo periodo e
può mettere a rischio le persone più vulnerabili, come migliaia di bambini in fuga da
guerre, violenza e povertà".
del 26/06/15
«Correa estrattivista, i movimenti lo
contestano»
Geraldina Colotti
«I movimenti in Ecuador hanno fatto cadere tre presidenti, Correa potrebbe essere il
quarto». Non usa mezzi termini, Pablos Davalos, ex viceministro dell’economia in
Ecuador. Se fosse ora nel suo paese, starebbe in piazza, con i manifestanti che, dal 15
giugno, sfilano gridando «Fuori Correa». Invece ha un incarico di ricerca universitaria a
Grenoble e si propone di raggiungere le proteste appena terminata la missione. Lo
abbiamo incontrato a Firenze, ospite di un dibattito sull’America latina organizzato
dall’Arci. In italiano, i suoi libri sono pubblicati da una piccola casa editrice dalle risonanze
zapatiste “Caminar domandando”, e compaiono a fianco dei testi di Esteva e di Zibechi.
Un filone di pensiero che antepone «la resistenza dal basso al potere» e che, nelle
affermazioni di Davalos, considera obiettivo prioritario e irrinunciabile «la lotta contro
l’estrattivismo».
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Gli abbiamo chiesto di motivare la sua pervicace opposizione al governo di Rafael Correa,
sotto attacco dopo la proposta di legge per aumentare le tasse sull’eredità e sul
plusvalore. Progetti che, per il governo, riguarderebbero solo quel 2% della popolazione
che possiede «oltre il 90% delle risorse» e non colpirebbero né le classi medie, né la
piccola proprietà famigliare. A guidare le proteste sono soprattutto i sindaci di opposizione,
nella capitale Quito e a Guayaquil, e i cartelli che chiedono la cacciata di Correa non
lasciano dubbi sugli interessi che le muovono. Dicono, «Impoverire i ricchi non fa ricchi i
poveri», «Libertà di impresa» e «Non vogliamo essere come il Venezuela». E i militanti di
Alianza Pais hanno denunciato la presenza delle destre venezuelane nelle manifestazioni,
venute ad arringare la cittadinanza con improvvisi comizi nella metropolitana.
In piazza, però, sfilano anche alcune organizzazioni indigene e sindacali, e la tensione
sale in vista dell’imminente visita del papa Bergoglio. Nonostante abbia un’ampia
maggioranza parlamentare, Correa ha ritirato momentaneamente il progetto chiamando il
paese a discutere. Una decisione approvata, secondo recenti inchieste, dal 70% della
popolazione, che comunque rifiuta le proteste al 60,2%. Ma, per Davlos, Correa cerca solo
di mantere il potere, e il suo discorso va «decostruito».
Davalos tiene ai suoi trascorsi di attivista nei movimenti indigeni. Ricorda che, nel 2005,
come viceministro ha dovuto «affrontare uno scenario simile a quello della Grecia in cui il
Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale avevano impoverito la popolazione,
portato il paese in recessione e si dovette cacciarli e sospendere il pagamento del debito
per riprendere in mano la nostra sovranità». Riprende anche i contenuti racchiusi nella
costituzione ecuadoriana, nata in seguito a un ampio processo di consultazione popolare,
«dall’idea di stato plurinazionale, ai diritti della natura».
Tuttavia, sostiene che il governo Correa, «pur non essendo neoliberista come i precedenti,
sta consegnando gran parte dei territori indigeni all’estrattivismo, soprattutto cinese,
reprime l’opposizione e imbavaglia il dissenso creando organizzazioni sociali amiche». Un
progetto alternativo? «Aumentare i salari degli operai, eliminare le leggi che limitano il
diritto di sciopero, applicare una vera riforma agraria e una tributaria che facciano pagare
le tasse ai ricchi. Invece, col pretesto che occorre aumentare la produttività, Correa ha
lasciato campo libero all’agrobusiness e ha fatto arricchire i più ricchi, un’oligarchia che si
concentra in piccoli gruppi imprenditoriali a struttura famigliare e controlla in modo
monopolistico l’economia».
Ma come si può pensare che un progetto simile possa coincidere con gli interessi della
destra? Davalos risponde che «la confluenza di due proteste andrebbe comunque a
vantaggio dei movimenti popolari, i quali non consentirebbero il ritorno a qualcosa di
peggio». In Ecuador «non valgono gli stessi criteri utilizzati in Europa. Le comunità
indigene non vogliono uno sviluppo per possedere più merci a scapito del buen vivir. E
anche la nozione di classe media va inquadrata diversamente. Quella di oggi è composta
da giovani ecologisti che hanno studiato e che vanno in bicicletta». Sono loro «e non gli
operai o le popolazioni indigene ad aver appoggiato di più il progetto per preservare il
parco Yasuni dall’estrattivismo». Correa «non è un socialista, ma solo uno che sta facendo
il lavoro al posto del capitalismo. Perché certi progetti passano meglio con un governo che
appare di sinistra piuttosto che con uno di destra».
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Da il Messaggero.it del 27/06/15
Migranti, il Prefetto: «La Tuscia al momento
può ospitarne 220»
«Finora abbiamo registrato una generale tranquillità nell'accoglienza dei migranti, tranne
sporadici casi che andrebbero chiamati di intolleranza ma che voglio definire di vivace
dissenso, avvenuti a Canino e San Lorenzo Nuovo». Rita Piermatti, appena insediata in
Prefettura al posto di Antonella Scolamieri, affronta il tema dell'emergenza immigrazione,
intervenendo al convegno organizzato ieri l'altro dal deputato viterbese del Partito
democratico, Alessandro Mazzoli; con ospite Enzo Amendola, capogruppo Pd alla
commissione Esteri.
Dal dibattito sono emerse le luci (tante) e le ombre (poche) dell'accoglienza nel Viterbese:
dal caso scuola di Tessennano, dove vengono ospitati minori non accompagnati, al
j'accuse dell'Arci verso «strutture di prima accoglienza tirate su alle ben'e meglio».
Il nuovo prefetto ha spiegato che - al momento - la provincia ospita 196 richiedenti asilo
nelle strutture di accoglienza che hanno vinto il bando. Strutture che si trovano in sei
comuni: Orte, Viterbo, Graffignano, Canino, San Lorenzo e Celleno.
«La formula scelta dal mio predecessore, ovvero quella di strutture piccole, ha consentito
di spalmare gli stranieri in piccoli gruppi per meglio gestirli. A oggi - ha continuato Piermatti
- abbiamo un totale di 220 posti per la prima accoglienza, di cui solo 196 occupati. I nuovi
arrivi verranno assegnati dal tavolo di coordinamento presso la prefettura di Roma».
A Tessennano, invece, un caso unico (solo Bologna fa altrettanto). «Abbiamo partecipato
a un bando europeo - ha spiegato il sindaco Ermanno Nicolai - per l'accoglienza di minori:
nell'arco del 2015 ce ne assegneranno 50. Sono sia maschi che femmine. Arrivano da noi
con i pidocchi, hanno anche la scabbia. Molte ragazzine erano piene di fratture: le
abbiamo fatte operare in accordo con la Asl. Noi li curiamo e diamo loro una prima
alfabetizzazione. Siamo fieri del nostro impegno».
Alcuni nei nel sistema sono invece stati segnalati da Alessandra Capo dell'Arci,
associazione che si occupa di 40 rifugiati in prima accoglienza (il bando prefettizio) e 160
in seconda. E accusa: «Le prime strutture spesso sono improvvisate e calate sui territori
senza che l'ente locale sia coinvolto. Non offrono la necessaria assistenza, soprattutto
legale, che invece - ha concluso - è fondamentale per i richiedenti asilo».
http://www.ilmessaggero.it/viterbo/migranti_prefetto_tuscia_ospiti_220/notizie/1433785.sht
ml
Da Repubblica.it (Parma) del 26/06/15
Festival teatrale di Resistenza
Al Museo Cervi. La quattordicesima edizione dal 7 al 25 luglio. Il
programma completo
Giunge alla sua quattordicesima edizione il Festival Teatrale di Resistenza, rassegna di
teatro civile contemporaneo che anche quest’anno porterà in scena, dal 7 al 25 luglio, al
Museo Cervi di Gattatico (Reggio Emilia), sette compagnie di rilievo nazionale individuate
sulla base del Bando di Concorso uscito a marzo.
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Il Festival è ideato e promosso dall’Istituto Alcide Cervi e da Cooperativa Boorea, con il
patrocinio dell’Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, con il patrocinio
del Comune di Reggio Emilia e Comune di Parma, della Provincia di Reggio Emilia e di
Parma, dei Comuni di Gattatico, Campegine, Sant’Ilario d’Enza, Castelnovo di Sotto,
Fontanellato, Poviglio, in collaborazione con Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Festival
ErmoColle, Festival Teatro Civile della Val d’Enza, Quinta Parete, Teatro del Cerchio,
Teatro MaMiMO, Arci Parma, Strada dei Vini e dei Sapori Colline di Scandiano e Canossa,
Associazione Culturale Dai CampiRossi.
14 edizioni hanno fatto del festival un punto di riferimento a livello nazionale per il teatro
che vuole misurarsi con le questioni che attraversano la contemporaneità, che interessano
la vita individuale e collettiva delle donne e degli uomini, dei giovani, e che guardano alle
contraddizioni del nostro tempo.
Progetto e non solo rassegna, il festival anche quest’anno vuole essere spazio di
conoscenza e di rinnovo della memoria, di rappresentazione della complessità del
presente, ma anche di confronto e di intervento, di partecipazione in un momento di
indebolimento del senso di appartenenza e del collettivo.
Gli spettacoli selezionati porteranno in scena le resistenze di oggi e uno spaccato della
società contemporanea come esito di percorsi di ricerca e di inchiesta, come stimolo alla
riflessione e alla presa di coscienza. Un ruolo importante lo ha la Storia, con l’attenzione ai
conflitti che hanno attraversato il ‘900 e a quanto ancora segnano il nostro tempo.
La collocazione del Festival, negli spazi esterni della casa contadina abitata dalla famiglia
Cervi, oggi moderno Museo di Storia contemporanea, contribuisce a sua volta a
determinarne i temi ricorrenti. Elemento unificante degli spettacoli è lo stimolo che
intendono portare, sensibilizzando alla riflessione ma anche all'azione come presa di
posizione.
http://parma.repubblica.it/cronaca/2015/06/26/news/festival_teatrale_di_resistenza117739790/
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 30/06/15, pag. 5
VENERDÌ 3 LUGLIO MOBILITAZIONE NAZIONALE
a fianco del popolo greco e per cambiare l’Europa. Uno sforzo straordinario di
partecipazione per riempire l'Italia venerdì 3 luglio sera di manifestazioni unitarie visibili e
partecipate in tante città. E un invito per oggi 30 giugno a organizzare riunioni unitarie per
far partire da subito la mobilitazione locale; e a costruire per mercoledì 1 luglio, dove
possibile, azioni di denuncia contro la condotta delle istituzioni e dei governi europei
rispetto alla Grecia. Sono queste le indicazioni che arrivano dalla riunione unitaria di
organizzazioni, reti e movimenti che si è svolta ieri. «Cambia la Grecia Cambia l’Europa» è
un appello affinché ciascuno faccia tutto quello che è possibile, da subito in tutta Italia.
«Serve la contro-informazione contro le bugie dei media di regime e del nostro governo,
schierato come sempre dalla parte dell'austerità». Data, orario e caratteristiche di tutte le
iniziative di questi giorni e delle manifestazioni di venerdì devono essere comunicate a:
[email protected]
del 30/06/15, pag. 1/15
Una svolta culturale che fa epoca
di Piero Bevilacqua
Si afferra con maggiore pienezza la portata eversiva dell'enciclica Laudato si' di Papa
Francesco – rispetto a tutta la tradizione millenaria della chiesa- se si tiene conto della
storia del pensiero ambientalista.Nel 1967, uno storico americano, Lynn White jr, pubblicò
su Science un saggio che fece scandalo . Nel suo Le radici storiche della nostra crisi
ecologica, White sosteneva, con notevole precocità, che le condizioni di progressiva
alterazione degli equilibri ambientali risiedevano nel dominio esercitato in Occidente dalla
cultura religiosa giudaico cristiana. Già nella Bibbia, nel libro della Genesi egli ritrovava le
prime origini di quella cultura «E Dio disse: “Facciamo l'uomo a nostra somiglianza, e
domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie
selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Era dunque la Chiesa, al centro
dell'accusa. L'ampia discussione che ne seguì ridimensionò in parte le argomentazioni di
White.Qualcuno ricordò che della storia del cattolicesimo faceva parte anche San
Francesco. Giusta osservazione, specie in questo caso. Ma San Francesco fu una stella
solitaria. Altri ricordarono che in Giappone, plasmato da una ben diversa storia religiosa,
già a fine 800 lo sviluppo industriale aveva generato gravi alterazioni ambientali. Vero. Ma
ormai il capitalismo poteva vincere anche le resistenze religiose più radicate. In realtà
nessuno poté sminuire il carattere per così dire fondativo della cultura cattolica nel
plasmare il rapporto dominante uomo-natura nelle società dell'Occidente. Del resto lo
stesso Francesco – all'interno di un ragionamento “laico”- ammette che «il pensiero
ebraico-cristiano ha demitizzato la natura» .Mentre Max Weber, che oltre a essere un
grande sociologo era prima di tutto uno storico delle religioni, ha ricordato, nei sui studi sul
capitalismo, come le religioni orientali, col loro animismo, tendessero a rendere sacri non
solo le altre creature, ma anche , i territori, le acque le montagne...
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Ora è vero che nel frattempo la Chiesa ha mutato la sua visione della natura.In questa
enciclica Francesco ricorda i primi contributi “ambientalisti” di Paolo VI, quelli di Giovanni
Paolo II, di Bendetto XVI. Ma la sua posizione è oggi dirompente: «Siamo cresciuti scrive, a proposito della Terra - pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori,
autorizzati a saccheggiarla.» Ma non solo non siamo più padroni incontrastati, siamo fatti
della stessa materia che stiamo distruggendo: «Il nostro stesso corpo è costituito dagli
elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e
ristora». Qui papa Francesco fa proprio il più avanzato pensiero scientifico ambientalista.
Si pensi alle affermazioni sorprendenti a proposito della biodiversità:««Probabilmente ci
turba venire a conoscenza dell’estinzione di un mammifero o di un volatile, per la loro
maggiore visibilità. Ma per il buon funzionamento degli ecosistemi sono necessari anche i
funghi, le alghe, i vermi, i piccoli insetti, i rettili e l’innumerevole varietà di microorganismi.»
Anche se non appare citato Edgar Morin, con i sui studi pubblicati nei volumi della
Méthode, o la vasta letteratura ecologista radicale, l'impronta a ma pare onnipresente.
Non meno coerente con tale impostazione appare la critica alla cultura dominante: «La
tecnologia che, legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi, di
fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e
per questo a volte risolve un problema creandone altri.».
Ma un altro aspetto della radicalità eversiva di questa enciclica risiede a mio avviso nel
fatto che papa Francesco evidenzia costantemente la connessione tra la violenza alla
natura e dominio di classe: lo sfruttamento esercitato dalle potenze economiche del nostro
tempo contro i poveri della terra. Egli coglie «l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del
pianeta» e mette in luce come il saccheggio delle risorse colpisce l'economia delle
popolazioni, mentre l'inquinamento danneggia in primo luogo i più deboli. E non rimane nel
vago.E' il caso di una risorsa come l'acqua. « Un problema particolarmente serio è l’acqua
disponibile per i poveri, che provoca molte morti ogni giorno. » Problema che non è frutto
della fatalità: «Mentre la qualità dell’acqua disponibile peggiora costantemente, in alcuni
luoghi avanza la tendenza a privatizzare questa risorsa scarsa, trasformata in merce
soggetta alle leggi del mercato. In realtà, l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto
umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle
persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani.»
Infine un altro elemento sembra dare a questa enciclica un profilo politico di assoluta
novità. E' la denuncia, se non di un nemico, certamente di un avversario.Sappiamo che in
passato la Chiesa non ha mancato di esprimere denunce serrate alla società capitalistica
e alle sue ingiustizie. Nella sua dottrina sociale, negli ultimi decenni, è venuta accentuando
la radicalità di queste critiche. Ma alla fine una sintesi ecumenica finiva col rendere
indistinguibili i responsabili.Gli agenti, i reali vessatori, assumevano un profilo
evanescente.
Il papa, naturalmente non può scendere in casi particolari, ma denuncia apertamente –
come ha ricordato E.Scandurra( Il manifesto, 23/6) - che «Molti di coloro che detengono
più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel
mascherare i problemi o nasconderne i sintomi ». E il problema del debito dei paesi è
lumeggiato come meglio non si poteva:«Il debito estero dei Paesi poveri si è trasformato in
uno strumento di controllo, ma non accade la stessa cosa con il debito ecologico. In
diversi modi, i popoli in via di sviluppo, dove si trovano le riserve più importanti della
biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo dei Paesi più ricchi a prezzo del loro
presente e del loro futuro. La terra dei poveri del Sud è ricca e poco inquinata, ma
l’accesso alla proprietà dei beni e delle risorse per soddisfare le proprie necessità vitali è
loro vietato da un sistema di rapporti commerciali e di proprietà strutturalmente perverso.»
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E poiché il papa ha parole per tutti, non manca di ricordare le responsabilità dei governi e
del ceto politico del nostro tempo:«La sottomissione della politica alla tecnologia e alla
finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente.»
Dunque, la Chiesa, la più antica istituzione di potere della storia umana,per due millenni
strumento di controllo e conservazione sociale, rovescia il suo passato e lancia la sua
sfida aperta ai poteri del mondo laico. Lo fa, naturalmente col suo linguaggio, che può
essere quello di tutti, credenti e non credenti:«Abbiamo bisogno di nuova solidarietà
universale.». Credo che la sinistra debba cogliere questa svolta culturale che fa epoca.
Essa può ritrovare il suo universalismo perduto, quell'”internazionalismo proletario” ,
naufragato con l'involuzione autoritaria dell'URSS, che era stato la stella polare di diverse
generazioni.
In 'Italia ha un grande precedente storico cui ispirarsi. Quando, ai primi anni '60, emerse la
figura di Papa Giovanni e si aprì il Concilio Vaticano II, il Partito comunista avviò un ampio
dialogo con il mondo cattolico, sui temi della pace nel mondo e dell'emancipazione
sociale. Ne seguirono conseguenze politiche di grande portata, con tante nuove forze che
entrarono nella lotta politica progressista. La salvezza della casa comune della Terra oggi
è il nuovo terreno di dialogo. Ma occorre un mutato paradigma e nuovi dirigenti politici
all'altezza della sfida, che non possono certo essere i giovani “rottamatori”di oggi, in realtà
rappresentanti del fronte avversario, tardi epigoni di una cultura senza avvenire.
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ESTERI
del 30/06/15, pag. 2
Grecia, un grande no ai tecnocrati
Grecia. La proposta di referendum preoccupa la popolazione greca,
stretta tra la volontà di resistere all’«ipocrisia» dei creditori e il rischio
di un’uscita dall’eurozona
Pavlos Nerantzis
ATENE
L’intero paese sta vivendo con sentimenti opposti il bras de fer tra il suo governo e i
creditori internazionali, ma nel pomeriggio di ieri piazza Syntagma ad Atene è tornata a
riempirsi e per le migliaia di persone scese per strada a incoraggiare il proprio governo,
non c’erano dubbi: bisogna dire «no» alle proposte dei creditori e al loro tentativo di
mettere in un angolo la Grecia, costringendola ad uscire dall’eurozona.
Anche i media mainstream hanno dovuto riportare le foto e i video che arrivavano da una
piazza stracolma e indirizzata al «no», il giorno dopo le file e il presunto panico di un
popolo che al massimo, riflette e ragiona su quanto potrebbe accadere in un caso o
nell’altro.
Le migliaia di persone scese in strada, inoltre, hanno manifestato la propria solidarietà ad
un governo costretto a richiedere il pareredella popolazione, su una decisione di cruciale
importanza per il futuro della Grecia.
Le voci moderate che invitano alla calma, per il momento non vengono ascoltate, mentre
si registra una tensione anche nel dibattito parlamentare, nei talk show televisivi, nei
discorsi per strada. E tutti, tranne chi fa il gioco dei «falchi», concordano sul constatare
l’ipocrisia di Lagarde, Schaeuble, Dijsselbloem. «Ci vogliono umiliare», «fanno finta di
volerci aiutare», dicono.
Tsipras ha annunciato il referendum, mettendo alla prova la proposta dei creditori, perché,
a sentire la popolazione, «i potenti potrebbero isolarci, obbligando il governo a uscire
dall’eurozona». C’è, allora, chi consapevole della partita in corso insiste e invita alla
resistenza (il campo del «no») e chi, vittima di una propaganda intimidatoria o per
pessimismo, si schiera contro la proposta di Tsipras, allineandosi con Nd, Pasok e Potami
(il campo del «si»). Infatti, in questo stato di guerra non dichiarata — con le banche chiuse
e un’economia in ginocchio che rappresenta appena il 2% del Pil europeo –la parola
«guerra» è sempre presente nei discorsi quotidiani– e il «nemico» usa tutti i mezzi e i
metodi per abbattere l’avversario, ovvero Tsipras.
Dai media, che non fanno altro che terrorizzare i greci, criticando la scelta di governo per il
referendum, fino ai dirigenti della Commissione Ue che si presentano come colombe di
pace, mentre è più che evidente ormai che gran parte di loro vorrebbero che un governo
delle sinistre in Grecia fosse solo una parentesi nella storia del paese e dell’Europa.
«Amiamo la pace, ma quando ci dichiarano guerra, siamo capaci di combattere e vincere»
ha sottolineato Alexis Tsipras nel suo discorso in tv, rivolgendosi alla nazione. «Non
chiederemo il permesso a Wolfgang Schaeuble o a Jeroem Dijsselbloem per fare il
referendum, i tentativi di cancellare il processo democratico sono un insulto e una
vergogna per le tradizioni democratiche in Europa» ha aggiunto.
Sabato dopo mezzanotte con 178 voti a favore (di Syriza, «Greci indipendenti», partner di
governo e dei nazisti di Alba dorata) e 120 contrari (Nea Dimokratia, Pasok, Potami e
Kke), tra insulti e tafferugli, il parlamento ha approvato la proposta dell’esecutivo per la
consultazione popolare. Il premier greco è stato categorico, rispondendo a chi cerca di
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trasformare il referendum in un ricatto per la permanenza della Grecia nell’eurozona, ma
anche alla decisione dell’Eurogruppo di escludere il ministro delle finanze greco dalla
riunione di venerdì scorso.
«Nessuno — ha detto Tsipras– ci può buttare fuori dall’Europa. Noi non combattiamo
contro il Vecchio continente, ma contro pratiche in cui l’Europa dovrebbe vergognarsi. E
stiamo facendo quello che Pasok e Nea Dimokratia non hanno fatto: resistere». Il «no» di
Tsipras alle proposte dei creditori viene condiviso da migliaia di greci. Il problema — però
— che pongono alcuni, pur condividendo la problematica del governo, è «la mancata
chiarezza della consultazione» e il timing, dato che oggi insieme alla scadenza del
programma dei creditori non saranno più valide neanche le loro proposte per le quali è
stato annunciato il referendum. «Qual è il senso pratico del voto del 5 luglio» si chiedono
tanti.
«Dobbiamo dire no ai tecnocrati e sì alla sovranità nazionale, un grande «no» aumenterà il
nostro potere negoziale con i creditori» ha detto Tsipras. Ma la gente comune insiste: «nel
caso di un risultato positivo per il governo aumenterebbe la sua forza contrattuale, se i
creditori non vogliono piú negoziare, la Grecia dove andrà a finire?”. «Il governo avrebbe
dovuto fare il referendum alcune settimane prima e non adesso che scade il programma
dei creditori» ha affermato il costituzionanlista, Kostas Chrysogonos, eurodeputato di
Syriza. Secondo Chrysogonos, «i tagli dei creditori nel caso di un default saranno enormi»,
mentre «la rottura delle trattative avrà come conseguenza l’ingabbiamento del paese in un
nuovo memorandum con termini ancora peggiori».
All’interno di Syriza ci sono voci che invitano alla moderazione, mentre altri si schierano a
favore di una rottura dei rapporti con i partner europei, sostenendo che si può
sopravvivere anche con la dracma. «Meglio avere un po’ di soldi in tasca (dracme) che
niente, come sarebbe sucsesso se fossero passate le nuove misure restrittive» ha detto il
ministro della Previdenza sociale, Dimitris Stratoulis ad un pensionato che aspettava in
coda a un bancomat. Di fatto la decisione di Tsipras era una scelta quasi obbligatoria, ma
di alto rischio.
Da ieri a domenica prossima il tempo dal punto di vista politico è troppo grande: molte
cose potrebbero cambiare, le trattative — a sentire Yanis Varoufakis e il suo omologo
francese — rimangono aperte, ma la chiusura delle banche per sei giorni consecutivi crea
un clima di tensione e di paura tra la gente. Secondo il consiglio per la stabilità finanziaria,
la decisione presa era obbligatoria perché soltanto venerdì scorso i risparmiatori avevano
prelevato più di un miliardo di euro.
Oltre ai controlli sul trasferimento dei capitali e ai 60 euro che potrà prelevare chiunque ha
un conto corrente in una banca ellenica, il governo ha preso anche altre misure per
salvaguardare i pensionati (dovranno essere pagati oggi da alcuni filiali) e il flusso turistico
(chi possiede un conto corente all’ estero può prelevare il massimo previsto dalla sua
banca).
Intanto stasera alle 18.00 ora locale di Washington scade il dovere di Atene di versare 1,6
miliardi di euro al Fmi. Varoufakis ha detto che la Bce potrebbe pagare il Fmi con gli
interessi incassati dal collocamento dei bond greci nel 2014. «Perché non possono
spostare quei soldi da una tasca all’ altra» si è chiesto il ministro delle finanze greco.
Del 30/06/2015, pag. 6
Le storie. Viaggio nel Paese del controllo dei capitali, dove i soldi sono
contati e c’è il boom delle carte di credito
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Auto in garage,bus gratis e spese col
contagocce ma Atene supera indenne il primo
giorno senza cash
DAL NOSTRO INVIATO ETTORE LIVINI
ATENE. «Barbounias, Sardeles, Arpazon!». «Triglie, Sardine, dentici!». Può sgolarsi fin
che vuole Yannis, grembiule che sa di mare e due guanti coperti di squame fino al gomito,
ma oggi – ad occhio – marca male. La Grecia ha i contanti contati. Qui al mercato antico
del pesce di Atene quasi nessuno – mica è antico per niente – prende la carta di credito.
«E il risultato lo vede da sé – dice sconsolato spostando gli sgombri sul loro letto di
ghiaccio - . A quest’ora di solito c’è la ressa. Invece niente. Ho venduto il 50% in meno di
lunedì scorso. Vanno tutti al supermercato, dove accettano quel maledetto denaro di
plastica. E stasera metà del mio bancone finirà in pasto ai gatti qui fuori».
Benvenuti nel paese del controllo dei capitali. Dove i bancomat distribuiscono soldi con il
contagocce, al ritmo di 60 euro al giorno a testa. E dove 11 milioni di persone, dalla sera
alla mattina, hanno rivoltato la loro vita come un calzino, imparando a campare tirando
fuori di tasca meno banconote possibili. «Non volevamo più austerity e invece l’austerity
eccola qua!» scherza Evangelis Mitropoulos, tassista di 42 anni fermo al parcheggio di
Omonia. Ieri sera ha riunito moglie e due figlie attorno al tavolo – racconta – ha calcolato
quanto denaro liquido c’era in casa e poi ha dato disposizioni tassative: «Il motorino della
mia primogenita da oggi resta nel box. Bar e ristorante sono out fino al 5 luglio perché
ormai tutti vogliono essere pagati in contanti. Si esce con pochi soldi in tasca per evitare
furti. E la spesa si fa solo al mini-market sotto casa, dove per fortuna prendono la Visa». I
Mitropoulos non sono stati i soli a fare i conti della serva. Risultato: «Guardi Odos Stadiou
qui davanti. Nota niente di strano? E’ vuota, come in una domenica d’agosto! - ride
Evangelis - . L’auto nel box l’ha lasciata mezza Atene. Per risparmiare benzina».
I veri politici sono quelli che capiscono al volo di cosa ha bisogno il popolo. E Alexis
Tsipras- in queste ore in cui tutti si ingegnano a tirare la cinghia – ha dimostrato di aver
fiuto: ieri sera – tra una telefonata ad Angela Merkel e una con Jean Claude Juncker – ha
convocato il ministro dei Trasporti dandogli un ordine irrevocabile: «Da ora e fino al 6
luglio, tutti i mezzi di Atene saranno gratuiti ». Liberi tutti. Si può salire su autobus, tram e
metropolitana senza biglietto. «Non che cambi molto visto che già prima lo pagava si e no
il 10% dei passeggeri – confida Helena alla stazione di Syntagma - . Ma almeno non c’è
l’ansia da controllori».
La situazione è grave ma non seria, direbbe Ennio Flaiano. A 12 ore dalla serrata
bancaria, Atene vive una giornata tranquilla e sembra aver già imparato ad arrangiarsi.
Non fosse per il dramma degli esodati del bancomat, quelle decine di migliaia di pensionati
che con Pin e sportelli automatici non hanno mai voluto aver niente a che fare. Maria
Metaxas - 72 anni tutta grinta, ferma dalle nove di mattina davanti alla Alpha Bank ai
Propilei - è una di loro. «Me l’aveva detto mia figlia che avrei dovuto imparare a usarla
quella benedetta targhetta », confessa. Non l’ha fatto («non l’ho nemmeno ritirata…») ed è
pentita: «In casa mi sono rimasti pochi euro. Se non riaprono la banca, mi tocca andare a
casa di mio genero ». Immaginiamo la felicità (del genero). In suo soccorso però è in
arrivo l’aiutino di un San Tsipras in campagna elettorale: il governo ha obbligato i big del
credito ad aprire giovedì pomeriggio 840 filiali solo per servire i pensionati allergici agli
Atm. Anche se i prelievi – la legge è uguale per tutti – saranno contingentati a 240 euro.
La vita sotto la spada di Damocle dei controlli dei capitali non è naturalmente tutta rose e
fiori. A ricordare a tutti che non siamo su un reality sponsorizzato dai teorici della
decrescita felice ma in una tragedia sociale nel cuore d’Europa è stata ieri l’associazione
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delle aziende farmaceutiche europee. «In questa situazione e in caso di Grexit la fornitura
agli ospedali ellenici è a rischio », hanno scritto alla Ue. Atene ha arretrati per un miliardo.
E loro, per continuare a garantire le forniture, vogliono certezze (leggi fideiussioni) da
Bruxelles. Speriamo non servano. Per ora a soffrire, fatte le debite proporzioni, sono i
turisti stranieri che sabato e domenica hanno vissuto ore da incubo, passate a rimbalzare
da una banca all’altra a caccia (spesso infruttuosa) di un bancomat funzionante per
riempire il portafoglio. «Ho perso una giornata intera di vacanza. – racconta James
Kepner, in viaggio con un gruppo della tedesca Tui - . Per fortuna oggi l’agenzia ci ha
mandato una mail dicendoci che per gli stranieri non valgono i tetti ai bancomat. E dieci
minuti fa sono riuscito a prelevare 250 euro». Tra gli sguardi d’invidia dei greci, ammette.
Meglio che non si sieda sugli allori e li metta al sicuro rapidamente nel “safe” dell’albergo.
In questa città a corto di contanti, le comitive dei viaggi organizzati – confidano ridendo i
taxisti di Syntagma – sono «piccole banche a cielo aperto». E diversi hotel hanno deciso di
pagare di tasca loro vigilantes privati che sorvegliano i bancomat più vicini per evitare
spiacevoli incidenti ai loro ospiti. Chi ha poche armi per difendersi sono i negozianti.
«Come va? Male. Ogni giorno devo sborsare almeno 800 euro tra farina, latte, uova,
uvette, cioccolata e crema – racconta Elena, alla cassa della panetteria all’angolo tra
Mavromichali e Akadimias - . E senza liquidità qui rischia di fermarsi tutto ». Le grandi
imprese, più lungimiranti, si sono messe al sicuro per tempo, trasferendo la liquidità
all’estero e tenendo ad Atene solo il necessario per pagare gli stipendi: «La crisi era
nell’aria e noi avevamo dato indicazioni precise - confermano alla Confindustria ellenica e speriamo che si possa prelevare il necessario per le buste paga». La prima giornata
senza contanti, insomma, è andata in porto in Grecia senza scossoni. Ci si arrangia, si fa
di necessità virtù. Si compra pollo invece di carne, pesce azzurro invece di ricciola. Si
rimandano gli acquisti non necessari. Sperando che passi la nottata. Tutti sanno bene che
se il black out bancario dovesse continuare a lungo la musica sarebbe diversa. Il governo
Tsipras ha iniziato a prepararsi. Ha messo la polizia in stato d’allerta, ha bloccato le ferie
delle forze dell’ordine. Domenica si vota. E Atene, incrociando le dita, spera che da lunedì
tutta la città possa tranquillamente tirare le macchine fuori dai box.
Del 30/06/2015, pag. 9
Jean-Paul Fitoussi
“La Germania potrebbe ricordarsi che dopo la seconda guerra mondiale
le fu condonato un immane debito”
“Rischiamo il disastro la Merkel poteva
evitarlo se voleva salvare la Ue”
EUGENIO OCCORSIO
ROMA. «Io mi chiedo come sia stato possibile che dei governi moderni, responsabili, pieni
di ottimi cervelli, non siano riusciti ad evitare che si andasse a finire in una situazione così
drammatica». Jean-Paul Fitoussi, decano degli economisti della gauche più illuminata, non
riesce a darsi pace. «L’Europa ha accettato, pur di non ricorrere a un supplemento di
solidarietà, di prendere un rischio gigantesco, quello di una deflagrazione finanziaria
mondiale di portata inimmaginabile. Ma ha anche accettato qualcosa di ancora più
orribile», dice il guru di quel crogiuolo di pensiero progressista che è l’università parigina
SciencesPo.
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A cosa si riferisce, professore?
«Ha ragione per una volta la Merkel. Se salta la Grecia, e con essa sicuramente verrebbe
giù l’intera architettura dell’euro, se finisce insomma l’idea di una moneta comune che
avrebbe dovuto unirci anziché dividerci, salta l’intera idea dell’Europa. Solo che la
cancelliera aveva in mano la possibilità di evitare tutto questo. Non lo ha fatto. Mi dannerò
l’anima cercando di capire perché».
Forse perché non è facile negoziare con Tsipras e Varoufakis. Si raccontano
aneddoti imbarazzanti sull’atteggiamento al tavolo negoziale.
«Macché. Se avesse voluto il governo tedesco avrebbe chiuso l’accordo. Certo, si trattava
di fare ulteriori concessioni alla Grecia, che non ha fatto molto per meritarle. Ma bisognava
avere l’intelligenza di astrarsi dal mero contenuto finanziario: bisognava salvaguardare
l’integrità dell’Europa, visto che in un’Europa così fatta, ci piaccia o no, ci troviamo a
vivere. Bisognava salvare l’idea di un continente che fino a pochi decenni fa era sconvolto
da guerre vere, con milioni di morti, e oggi si trova a vivere in pace con una comune
ambizione al progresso. Poi, la Merkel poteva, se non altro per riguardo agli altri, pensare:
le vicende della storia portano la Germania ad essere la potenza dominante, però la
memoria non inganna. Dopo la seconda guerra mondiale a Berlino fu condonato quasi per
intero un immane indebitamento, perché non si ripetesse quello che era successo dopo la
fine della prima, di guerra, quando invece i debiti non erano stati perdonati e si è dato il via
a Weimar e tutto quello che è seguito. Ma dobbiamo proprio ricorrere a questi ricordi
odiosi per spingere la Germania ad essere realista, flessibile, magnanima?»
Non c’era solo la Merkel a quel tavolo. Dagli altri governi europei perché non è
venuta una parola in favore del buon senso?
«Semplicemente perché Hollande e Renzi si sono dimostrati non voglio dire delle mezze
figure, ma solo dei generici dispensatori di buoni sentimenti. L’iniziativa politica è rimasta
ai tedeschi, che sono di natura rigidi e inflessibili. Però in questo caso è inutile scomodare
le categorie della differenza antropologica fra un berlinese e un ateniese: serviva uno
sforzo di realpolitik. Anche perché c’è una teoria economica di base, che viene insegnata
alle scuole medie, che dice che quando hai un forte credito non ha senso accanirsi sul
debitore per spillargli per intero quanto dovuto, perché così si finisce con l’ottenere niente.
Bisogna per forza negoziare per recuperare almeno metà, o due terzi o un terzo che sia».
Il problema è nelle cifre in gioco, che sono enormi: il salvataggio dell’Argentina
costò 100 miliardi, qui ne sono già stati dispensati 350 e non bastano, fin dove si
vuole arrivare?
«Guardi, innanzitutto la Germania e gli altri membri della troika, Bce e Fmi, devono
mettersi la mano sulla coscienza. Hanno fin dall’inizio imposto una ricetta, quella
dell’austerity, che non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Avete corso lo stesso
pericolo in Italia, vi siete salvati perché avete una struttura industriale di prim’ordine a
differenza della Grecia. Io ho scritto l’anno scorso un libro, “La teoria del lampione”, per
dimostrare che non bisogna guardare solo al cono di luce del lampione, dove
evidentemente si vede solo che bisogna risparmiare, ma ampliare la visione al contesto. E
si sarebbe visto che nella condizione attuale imporre alla Grecia una terapia lacrime e
sangue avrebbe portato al punto in cui siamo ora. E alla vittoria dei movimenti antieuropei
alle elezioni. Bel risultato».
Del 30/06/2015, pag. 5
Per la Merkel una leadership in crisi
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“Se fallisce l’euro fallisce l’Europa”
La Cancelliera: spero che Atene non esca, serve un compromesso
Tonia Mastrobuoni
Torna sempre utile, la storiella di Angela Merkel che durante le lezioni di nuoto saltava dal
trampolino dopo la campanella, alla fine della lezione. Troppo tardi. Lo ha fatto più volte,
durante l’interminabile crisi greca. Ma lo scorso fine settimana è stato fatale. Ieri ha riunito
il partito, ha ricompattato la coalizione di governo dietro la linea del “falco” Wolfgang
Schaeuble, ma la sua disfatta storica è sotto gli occhi di tutti. Sarà la “leader riluttante” di
un’Europa titubante che ha permesso che la Grecia finisse sull’orlo del lastrico, rischiando
di disgregare l’euro. Almeno, la festa per i 70 anni della Cdu non è stata allegrissima, ieri
mattina. All’ingresso del Konrad-Adenauer-Haus, il commissario europeo Oettinger ha
dato il tono già la mattina presto, alla riunione del partito: «Vorremmo mantenere la Grecia
nell’euro, ma non so se ci riusciremo».
A chi dare la colpa
Nel confronto con i cristianodemocratici, come è emerso più tardi, il tentativo di Merkel e
Schaeuble è stato quello di sostenere che è tutta colpa del governo Tsipras - versione
espressa anche in una lettera inviata dal ministro delle Finanze al partito.
Con la decisione di indire un referendum, ha detto Merkel, la Grecia ha interrotto le
trattative. Il suo tentativo, in conferenza stampa, di sostenere che «oggi l’Europa può
reagire in maniera più robusta rispetto a cinque anni fa» rasentava tuttavia il patetico, con
le Borse in picchiata da Tokyo a Washington. La Cancelliera ha sottolineato che «l’Europa
può esistere solo se è capace di fare compromessi», e «se fallisce l’euro, fallisce
l’Europa». Merkel ha aggiunto che l’Europa deve sempre trovare un equilibrio «tra
solidarietà e responsabilità», soprattutto che «bisogna sempre trovare un compromesso»
perché «nessuno può ottenere il 100%». La Cancelliera si è detta «disponibile» a
riprendere il dialogo con Atene, dopo il referendum. Secondo la Cancelliera la Grecia ha il
diritto di indire un referendum e la Germania ne accetterà il risultato.
La leadership del partito
Molto più duro della leader del Cdu, il vicecancelliere socialdemocratico Sigmar Gabriel.
Accanto a Merkel in conferenza stampa - la Cancelliera ha anche incontrato i capi di tutti i
partiti per informarli sul fine settimana brussellese più drammatico della storia dell’euro - il
ministro dell’Economia ha detto che per la Grecia devono valere le stesse regole che per
gli altri paesi europei. Gabriel ha accusato Tsipras di atteggiamento «ideologico» e ha
detto che il referendum sarà una scelta del popolo greco sulla «permanenza nell’euro».
Dopo le tensioni delle ultime settimane nel partito, emerse quando erano circolate voci
sulle possibili dimissioni di Schaeuble, Merkel ha deciso dalla scorsa settimana di restituire
lo scettro della trattativa al suo ministro più importante.
Qualche sondaggio l’aveva anche data in discesa di qualche punto, rispetto ai suoi soliti,
stellari indici di popolarità, a causa della disponibilità a trattare mostrata in queste ultime
settimane. Ora che il negoziato sulla Grecia è naufragato, si è ripresa il partito. Ma la
corona di regina d’Europa è piuttosto ammaccata.
Del 30/06/2015, pag. 5
Juncker agli elettori greci
“Al referendum votate sì ”
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Rotta la neutralità della Commissione. E Schulz (Spd) farà campagna ad
Atene
Marco Zatterin
L’emergenza riscrive il galateo politico dell’Europa. Il presidente della Commissione Ue,
Jean-Claude Juncker, ha rotto ieri uno storico tabù e ha invitato gli elettori greci a votare
“sì” al referendum del 5 luglio. Non s’era mai vista un’invasione di campo nelle questioni
nazionali così netta. Il lussemburghese ha voluto giocare il tutto per tutto. «Un “no”
sarebbe interpretato come una presa di distanza, un rifiuto dell’Unione e dell’euro», ha
detto, dando la linea al dibattito che ha animato il fronte a dodici stelle sino a notte. Da un
lato, si invita Atene a evitare il peggio. Dall’altro, si continua a tendere la mano per
scongiurare il tracollo e la crisi. «Se fallisce l’euro - afferma con tono grave la cancelliera
Merkel - fallisce l’Ue».
Oggi è l’ultimo «G-Day» che rientra nelle regole già scritte, il «Giorno più lungo della
Grecia» che, salvo miracoli, comporterà due eventi da «peggior scenario». Alle ore 18 di
Washington, il Fondo monetario si aspetta che Atene gli invii un bonifico da 1,6 miliardi,
cosa che difficilmente accadrà. A mezzanotte scade anche il secondo programma di
salvataggio coi 7,2 miliardi che avrebbero permesso a Tsipras di pagare i debiti per
qualche settimana: la rottura di venerdì sera ne ha impedito l’utilizzo. Ora c’è che dice,
come la stessa Merkel, che «l’Ue non può abbandonare solidarietà e responsabilità» ed è
pronta «a negoziare ancora, se Tsipras vorrà». Restano poche ore, l’impresa è ardua.
L’alternativa è una soluzione-ponte che arrivi sino al lunedì del dopo referendum senza far
fallire i greci, sperando poi che una affermazione del «sì» consenta di rimettere - e non
sarà semplice - le cose lentamente a posto. Sarebbe essenziale che il Fmi non
assumesse decisioni troppo rapide, cosa che più voci da Washington lasciano pensare
possibile. La Bce farebbe il resto. Tsipras ha scritto ai leader europei sollecitando la
proroga di un mese del piano di assistenza, così da non creare troppe turbolenze con
l’approssimarsi del referendum. Non risulta che gli abbiano risposto. Ma il fatto che gli
sherpa dei tre creditori siano riuniti in permanenza significa che il paziente è vivo.
Il resto è pressing politico. Juncker ha illustrato il suo appello per il «sì» con l’esigenza di
parlare ai cittadini greci perché «non voglio che Platone finisca in serie B», e «perché non
ci si deve uccidere per paura della morte». «Mai chiesto tagli agli stipendi e alle pensioni»,
ha assicurato mentre ribadiva che il referendum è sull’Europa, non solo sul piano dell’ex
Troika. Anche lui ha parlato di «porta aperta», come il presidente Hollande che ha avuto
un colloquio con Obama. Gli Usa spingono per un accomodamento, alla stregua della
Cina, il cui premier Li Kequiang ha detto a Bruxelles di essere «pronto a giocare un ruolo
costruttivo», perché la Grecia nell’euro è «nell’interesse di tutti». Lo è al punto che il
numero uno dell’Europarlamento, Martin Schulz, ha deciso «di andare a fare campagna
per il “sì” in Grecia». E’ una mossa politica inedita per il tedesco come per il
lussemburghese. Coraggiosa quanto rischiosa. Ma qualcuno, a questo punto, doveva
uscire a viso aperto per difendere l’Europa e la sua integrità.
Del 30/06/2015, pag. 34
Li: «Tenete la Grecia nell’euro»
L’appello del premier cinese ai partner Ue - «Vorremmo partecipare
all’Efsi»
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Non poteva svolgersi in una giornata peggiore per l’immagine dell’Europa il 17mo vertice
bilaterale tra la Cina e l’Unione europea che si è svolto ieri qui a Bruxelles. Mentre la
Grecia sta tenendo la zona euro drammaticamente in bilico, il premier Li Keqiang ha
incontrato ieri il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il presidente della
Commissione europea Jean-Claude Juncker. Insieme, hanno discusso della crisi debitoria
greca, di cooperazione economica e di diritti umani.
«Siamo pronti a lavorare con l’Europa per aumentare la cooperazione sul fronte degli
investimenti: vorremmo partecipare al Fondo europeo per gli investimenti strategici», ha
detto Li. «La Cina - ha aggiunto - è disposta a lavorare con il programma di investimenti
dell’Ue per l’Europa e fare un passo avanti per lo sviluppo delle infrastrutture». Ancora una
volta, tuttavia, il governo cinese non ha precisato quanto denaro sia pronto a versare
nell’EFSI che nascerà con un capitale iniziale di 21 miliardi di euro.
Li ha colto l’occasione del vertice per assicurare l’establishment europeo che avrebbe
continuato a detenere debito europeo, nonostante la drammatica crisi che sta colpendo la
Grecia e potenzialmente la zona euro. Il gigante asiatico rimarrà «un detentore
responsabile e di lungo termine del debito pubblico della zona euro», ha detto il primo
ministro cinese durante una conferenza stampa, un esercizio che i dirigenti cinesi
prefriscono tendenzialmente evitare in Europa. Riferendosi alla crisi greca, Li ha spiegato:
«Non è solo un problema europeo, ma riguarda anche le reazioni cino-europee ed è un
problema mondiale». Proprio a proposito della Grecia, un paese nel quale la Cina ha
investito negli ultimi anni nonostante la crisi debitoria, Pechino ha confermato ieri che il
paese «ha interesse» perché la Grecia rimanga nella zona euro. «Chiediamo ai creditori
internazionali - ha precisato Li - di fare progressi e di raggiungere un accordo con Atene».
A una specifica domanda se la Cina fosse pronta a offrire prestiti alla Grecia, Li non ha
risposto direttamente. Si è limitato a spiegare che l’obiettivo della Repubblica popolare è di
avere una Europa “unita”, “prospera”, e un euro “forte”. Sempre a proposito della
situazione in Grecia, ieri Mosca ha esortato Bruxelles a evitare «uno scenario nefasto» e
spiegato di “capire bene” il premier Alexis Tsipras che nell’indire un referendum sulle
ultime proposte di accordo con i cfreditori ha creato nuove tensioni tra Atene e Bruxelles.
Proprio in questa fase, Pechino sta premendo per poter ottenere lo status di economia di
mercato, ma l’establishment comunitario vuole aspettare prima di concedere questa
possibilità. «Sappiamo che la Cina è molto interessata ad ottenere questo status – aveva
spiegato prima del vertice un funzionario comunitario –. Una scelta dovrà essere presa nel
dicembre 2016 (quando scadrà un protocollo dell’Organizzazione mondiale del
Commercio del 2001, ndr). Stiamo ancora analizzando la questione». La Cina è il secondo
partner commerciale dell’Unione dopo gli Stati Uniti. Nel 2014, ha rappresentato il 14%
del’interscambio europeo con paesi terzi. Sul fronte più politico, Tusk ha incoraggiato
durante la conferenza stampa di ieri sera la dirigenza cinese a riprendere con i
rappresentanti del Daila Lama «un dialogo che abbia senso». Il presidente del Consiglio
europeo ha anche espresso «preoccupazione» per la situazione delle minoranze cinesi
nel Tibet.
del 30/06/15, pag. 3
Troika
Appesi alla Bce di Draghi
Anna Maria Merlo
PARIGI
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Mancano poche ore alla scadenza ultima, il rimborso di 1,6 miliardi all’Fmi che salvo un
colpo di scena improbabile non sarà onorato. Non sarà il default immediato ma l’inizio di
una procedura che, se nulla cambia, avrà inevitabilmente questa destinazione finale. Ma
gli europei hanno passato la giornata a insultarsi e a scaricarsi reciprocamente le
responsabilità dello stallo. Ha cominciato Jean-Claude Juncker, che si è detto “tradito” dal
governo greco, che ha “spezzato lo slancio del compromesso in modo unilaterale”
organizzando il referendum di domenica. Il presidente della Commissione ha chiuso
l’apertura ventilata in mattinata dal commissario Pierre Moscovici, per il quale siamo “a
pochi centimetri dall’intesa” e la “porta dei negoziati è aperta”. Nessuno a Bruxelles ha
ascoltato la raccomandazione di riprendere il negoziato venuta dal segretario al tesoro
Usa, Jack Lew (Obama ne ha parlato al telefono con Hollande).
Juncker ha invitato i greci a votare “si’”, perché un “no” sarebbe un “no all’Europa”, e “per
paura della morte non ci si deve suicidare”. La situazione è surrealista, perché il
referendum sarà sul testo di un accordo che nei fatti non esiste più. A Bruxelles e nelle
capitali dell’Eurozona il risultato della consultazione popolare di domenica sarà letto come
una scelta pro o contro l’appartenenza della Grecia all’Euro (e alla Ue).
Tsipras ha cercato contatti ieri. Ha telefonato a Juncker e a Martin Schultz (Parlamento),
per chiedere di nuovo un’estensione del cosiddetto programma di “aiuti” almeno fino al
referendum. “No way” per Bruxelles, che spera di avere presto altri interlocutori ad Atene.
L’Europarlamento chiede un vertice straordinario e anche Schultz ha invitato i greci a
votare “si”: prese di posizione che rischiano di favorire il “no”. Angela Merkel, che ha
riunito i leader dei partiti, ha affermato che “la Germania è disposta” a riaprire il dialogo,
sempre che “la parte greca ne senta il bisogno”. Ma per il momento Merkel aspetta il
risultato del referendum e rifiuta un vertice straordinario. François Hollande, che ha
presieduto in mattinata un consiglio ristretto all’Eliseo, ha condannato l’idea del
referendum, proprio quando “eravamo molto vicini a un accordo”, anche se si rassegna
alla consultazione popolare: “è democrazia, è un diritto del popolo greco di dire cosa vuole
per il futuro”. Accuse di “menzogne” tra Tsipras e Juncker: per il presidente della
Commissione il governo greco “mente” al suo popolo, mentre per il premier greco “il primo
indice di buona fede in un negoziato è la sincerità”.
Ma una volta detto che tutti vogliono tornare a negoziare e che nessuno vuole che la
Grecia esca dall’euro, la preoccupazione è di evitare il peggio in caso di Grexit. Le Borse
tremano, i mercati sono in agguato, Merkel drammatizza: “la fine dell’euro sarebbe la fine
della Ue”. Ci sono paesi a rischio sul fronte del debito pubblico. Tutti hanno cercato di
rassicurare. Da Bruxelles insistono sul fatto che dal 2011 sono stati messi in atto dei
parafulmini: il Mes (salva-stati), un abbozzo di Unione bancaria (dall’aprile del 2014, senza
grandi passi avanti al momento, pero’), e anche la manovra di quantitative easing della
Bce, che potrebbe comprare debito per evitare un effetto contagio a valanga, dalla Spagna
al Portogallo, all’Italia, persino alla Francia nello scenario più nero. “Ci sono inquietudini
che possono esistere sui mercati, ma voglio essere chiaro su questo punto – ha precisato
Hollande – da vari mesi sono state prese misure molto importanti per consolidare la zona
euro”. E la Francia “non è più nella stessa situazione di 4 anni fa”, ha “un’economia
robusta”, vuole rassicurare Hollande.
La Bce è l’ultimo filo che lega la Grecia alla Ue. Francoforte non ha chiuso il rubinetto
dell’Ela (liquidità di emergenza), l’ultimo rimasto, ma ha rifiutato un aumento
dell’erogazione di 6 miliardi, richiesto ieri da Atene. In caso di “no” al referendum anche
questa linea sarà chiusa e addirittura il Mes, stando a un articolo del Memorandum firmato
da Atene nel 2012, potrebbe chiedere il rimborso dei prestiti, 150 miliardi. Come dire che il
nodo scorsoio è sempre più stretto sul collo della Grecia, se non accetta i termini del
negoziato proposti dai creditori.
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del 30/06/15, pag. 3
Land della ex Ddr in bancarotta. E tre milioni
di nuovi poveri
Germania. Statistiche illuminanti sul «lato B» dell’unificazione. Effetto
Hartz IV per 499 mila anziani. E si allunga la coda degli indigenti
Sebastiano Canetta
BERLINO
È il vero default che preoccupa Berlino. Un fallimento politico, economico e sociale ormai
conclamato. Un buco nero più profondo di quello di Atene. La Grecia? Resta saldamente
dentro i confini. E parla — perfettamente — tedesco…
A 25 anni dalla «riunificazione» la Grosse Koalition fa i conti con la bancarotta (non solo)
dei Land dell’ex Ddr. Il risultato è un esercito di indigenti che si ingrossa a vista d’occhio.
Tre milioni di cittadini sotto la soglia di povertà; 400 mila abitazioni in cui non si accende
nemmeno più il riscaldamento; altre 500 mila persone fanno i salti mortali per mettere
insieme pranzo e cena; altrettanti pensionati a cui non basta più l’assegno mensile.
Assistiti, soccorsi, finanziati. Tutti a carico dei ricchi «terroni» della Germania del Sud che
pagano — a pie’ di lista — la social card con cui campa il 7,6% dei tedeschi.
È il «modello Nord Est» del Paese che guida l’Europa: anche l’ennesimo doppio-standard
della Bundesrepublik che vale soltanto per chi ha il passaporto federale.
Nessun segreto di Stato, anzi. Basta aver voglia di sfogliare, come sempre, i dati ufficiali.
Quelli diffusi dal portale Statista di Amburgo parlano da soli. Analizzano la distribuzione
geografica dell’Hartz IV (il pacchetto di aiuti sociali varato 11 anni fa dall’ex cancelliere
Spd Gerhard Schröder) e disegnano la mappa dei nuovi e vecchi poveri della Germania.
Ad aprile 2015 la situazione era la seguente: il 16,5% delle indennità (399 euro al mese a
persona) viene assorbito da Berlino, il 14,6% dalla città-stato di Brema, l’11,9% dalla
Sassonia Anhalt, l’11,7% dal Mecleburgo-Pomerania Anteriore e il 10,5% da Amburgo.
Seguono Brandeburgo (9,6%), Nordreihn-Westfalia (9,4%) Sassonia (9,3) Saar e Turingia
(8%) insieme allo Schleswig-Holsten (7,9%). Appena sotto la media si classificano Bassa
Sassonia (7,5%) Assia (7,1%) e Renania-Palatinato (5,7%). Di fatto i Land dell’ex Ddr si
«mangiano» il 9,9% degli aiuti, mentre i «cugini» dell’ex Germania Ovest si fermano a
quota 6,5%.
A pagare, da oltre un decennio, sono gli svevi del Baden-Württemberg (4,2%) e i bavaresi
che usufruiscono solo del 3,5% delle risorse Hartz IV. Un Paese a due velocità, proprio
come l’Europa. E un muro sociale più insuperabile della vecchia cortina di ferro, che divide
ancora gli ossi dai wessi.
Ma non basta, perché a livello Hartz IV stanno precipitando anche i pensionati. Secondo
Destatis (l’istituto statistico federale) a fine 2013 la quota di Over 65 sulla soglia della
povertà aveva raggiunto 499.295 tedeschi (+7,4 rispetto al 2012). Le più colpite sono le
donne e chi vive nelle città-stato come Berlino o nelle aree portuali di Brema e Amburgo,
particolarmente investite dalla recessione.
A questo si aggiungono 600 mila persone che non hanno i soldi per comprare un mezzo di
trasporto, e metà del campione analizzato che non può permettersi neppure una settimana
di vacanza durante l’anno.
L’ultimo scalino è occupato dalla casta di miserabili e nullatenenti «intoccabili» perfino
dalla statistica. Sopravvivono grazie agli aiuti della Caritas o di Mission, l’equivalente della
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chiesa evangelica: fanno la coda dalle 8 del mattino ai centri nelle stazioni ferroviarie (a
Berlino allo Zoo e Ostbahnof) per due brioche e una tazza di tè; raccolgono i vuoti delle
bottiglie di birra (valgono 8 cent l’una); aprono la porta o fanno i custodi delle biciclette di
chi entra nelle filiali bancarie.
Un vero e proprio dramma come e peggio di quello greco, di pubblico dominio almeno da
gennaio. «Il numero di lavoratori con reddito appena al di sotto o leggermente al di sopra
dell’Hartz IV è allarmante» aveva detto sei mesi fa Ulrike Maschner, 76 anni, presidente
dell’associazione VdK Deutschland, in un’intervista al Saarbrücker Zeitung.
Fa il paio con la spia accesa sulla rete N24 da Ulrich Schneider, direttore generale del
Deutsche Paritätische Wohlfahrtsverband: «Abbiamo bisogno in primo luogo di aumentare
il salario minimo (da gennaio è 8,5 euro all’ora ndr) e dobbiamo accompagnare questa
politica con assegni familiari più elevati per le famiglie a basso reddito e aumenti dei
sussidi per l’alloggio». È il lato B dell’inflessibile Germania di Angela Merkel. E —
parafrasando il motto dell’ex borgomastro della capitale Klaus Wovereit — l’altra faccia
della medaglia di «Berlino (sempre più) povera e (sempre meno) sexy».
Del 30/06/2015, pag. 14
L’inchiesta. Nonostante i bombardamenti aerei della coalizione guidata
dagli Usa, lo Stato islamico è più forte oggi di quanto non fosse quando
è stato proclamato. Fra le cause della disfatta, le valutazioni sbagliate di
Stati Uniti e Unione europea, ma anche la debolezza degli alleati
iracheni e siriani
Un anno di califfato così gli errori
dell’Occidente hanno aiutato l’Is
PATRICK COCKBURN
Lo ”Stato islamico” oggi è più forte di quanto non fosse quando è stato proclamato, il 29
giugno dell’anno scorso, poco dopo la conquista di gran parte dell’Iraq settentrionale e
occidentale. La sua capacità di continuare a incamerare vittorie è stata confermata il 17
maggio scorso in Iraq, quando le truppe dell’Is si sono impadronite di Ramadi, capoluogo
della provincia dell’Anbar, e di nuovo quattro giorni dopo in Siria con la presa di Palmira,
una delle città più famose dell’antichità e importante snodo dei trasporti in tempi moderni.
Queste due vittorie sono la dimostrazione di quanto si sia rafforzato l’Is, che ora è in grado
di attaccare simultaneamente su più fronti e a centinaia di chilometri di distanza, una
capacità che fino a un anno fa non aveva. In rapida successione le sue forze hanno
sconfitto l’esercito iracheno e quello siriano, e nessuno dei due, dato altrettanto
significativo, è stato in grado di mettere in piedi una controffensiva degna di questo nome.
Teoricamente questi successi non avrebbero dovuto essere possibili con i raid aerei della
coalizione a guida statunitense. I bombardamenti sono cominciati lo scorso agosto in Iraq
e sono stati estesi alla Siria in ottobre, e le autorità americane recentemente hanno
dichiarato che le quattromila missioni aeree condotte dalla coalizione avevano portato
all’uccisione di diecimila combattenti dell’Is. Sicuramente la campagna aerea ha inflitto
perdite pesanti all’organizzazione islamista, ma ha compensato il numero di miliziani uccisi
incoraggiando il reclutamento all’interno dell’autoproclamato califfato.
La cosa che rende particolarmente rilevante la caduta di Ramadi e di Palmira è che non
sono state conquistate con attacchi a sorpresa, come successe quando qualche migliaio
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di combattenti di Daesh (l’acronimo arabo dell’Is) si impadronirono di Mosul, la seconda
città dell’Iraq, nel 2014.
A Mosul c’era una guarnigione che contava circa ventimila uomini, ma in realtà nessuno
sa quale fosse il numero esatto, perché le forze armate irachene erano piene di soldati
«virtuali», che non esistevano fisicamente e servivano solo a consentire a ufficiali e
funzionari governativi di intascarsi i loro stipendi: il Governo di Bagdad successivamente
ha ammesso l’esistenza di cinquantamila di questi finti soldati. Come se non bastasse,
c’erano molti soldati che esistevano ma versavano almeno metà del loro salario agli
ufficiali a condizione di essere esentati dalle mansioni militari.
Ma la battaglia di Ramadi avrebbe dovuto andare diversamente. L’assalto dell’Is, a metà
maggio, è stato il prevedibile coronamento di una serie continua di attacchi negli otto mesi
precedenti, a partire dall’ottobre 2014. Quello che non era prevedibile era la ritirata, in
pratica una rotta, delle forze governative, e più a lungo termine la stessa vecchia, fatale
disparità tra dimensioni nominali delle forze armate irachene e forza militare effettiva.
Un aspetto cruciale del panorama politico e militare dell’Iraq è che l’esercito iracheno non
si è mai ripreso dalle sconfitte subite nel 2014. Per fronteggiare gli attacchi dell’Is su più
fronti ha meno di cinque brigate (dieci-dodicimila soldati) in grado di combattere, mentre «il
resto dell’esercito è buono solo per i posti di blocco», per citare le parole di un alto
funzionario delle forze di sicurezza irachene.
Nella battaglia di Ramadi non è bastata nemmeno la presenza di truppe esperte. La
ragione della sconfitta delle forze governative è stata spiegata in parte del colonnello
Hamid Shandoukh, che comandava le forze di polizia nel settore meridionale di Ramadi
durante la battaglia finale: «In tre giorni di combattimenti, 76 dei nostri uomini sono stati
uccisi e 180 feriti». I comandanti dell’Is hanno usato un cocktail letale di tattiche
sperimentate, spedendo volontari stranieri esaltati alla guida di veicoli imbottiti di esplosivi,
che si facevano saltare in aria demolendo le fortificazioni delle forze governative. Questi
attentati suicidi di massa, con esplosioni capaci di distruggere un isolato, erano seguiti da
assalti di truppe di fanteria ben addestrate, con tanto di cecchini e artiglieria.
Il colonnello Shandoukh, lui stesso arabo sunnita, dice che la radice del problema è che le
forze di sicurezza irachene e le milizie tribali filogovernative non hanno ricevuto rinforzi o
equipaggiamenti adeguati. Dice che il problema di fondo sono le divisioni settarie e
nascono dal fatto «che il governo teme che mobilitare gli abitanti della provincia dell’Anbar,
che sono sunniti, possa rappresentare un pericolo per il Governo in futuro».
Non sono molto convinto, come sostiene il colonnello Shandoukh, che la ragione della
vittoria dell’Is sia che loro avevano armi più sofisticate e i suoi uomini non le avevano
perché il Governo di Bagdad, dominato dagli sciiti, non gliele aveva fornite. La mancanza
di armamenti pesanti è una scusa che è stata usata ripetutamente dai leader iracheni e
curdi per giustificare i rovesci subiti da forze inferiori per numero.
A Mosul l’anno scorso, e di nuovo a Ramadi quasi un anno dopo, abbiamo assistito allo
stesso tracollo del morale fra i comandanti delle truppe governative, che ha messo in moto
una ritirata disordinata e non necessaria. Come ha detto il generale Martin Dempsey, il
capo di stato maggiore delle forze armate Usa, le forze di sicurezza non sono state
«spinte fuori» da Ramadi, «sono fuggite via da Ramadi».
Secondo il colonnello Shandoukh, la causa principale della disfatta sta nella sfiducia fra
sunniti e sciiti. Secondo lui gli abitanti di Anbar, un’enorme provincia che copre un quarto
dell’Iraq, sono «visti dal Governo come terroristi; anche gli ufficiali sunniti e i loro
distaccamenti non possono contare su un pieno sostegno». Altri danno la colpa alla
corruzione e alla natura disfunzionale dello Stato iracheno, in un Paese dove la gente è
fedele innanzitutto alla propria confessione religiosa o alla propria comunità etnica e il
nazionalismo conta ben poco. Una ragione più accurata di questa disintegrazione militare
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sta forse nel fatto che l’esercito iracheno (e vale anche per i Peshmerga curdi) è diventato
eccessivamente dipendente dai raid aerei. La rabbia malcelata del generale Dempsey per
la débâcle di Ramadi nasce forse dalla consapevolezza che quel disastro va oltre la
perdita di una singola città e finisce per screditare l’intera strategia portava avanti dagli
americani nei confronti dello Stato islamico. L’obbiettivo era usare la potenza Usa in
combinazione con le forze locali sul terreno per indebolire e in prospettiva eliminare lo
Stato islamico. Washington si era convinta che questa politica stesse funzionando fino al
17 maggio, quando tutto è andato in pezzi. Prova ne è una conferenza stampa, assai poco
tempestiva ed eccessivamente ottimistica, tenuta il 15 maggio dal generale di brigata
Thomas Weidley, capo di stato maggiore dell’operazione combinata interforze Inherent
Resolve, come viene chiamata la campagna di attacchi aerei guidata dagli Usa per
sconfiggere lo Stato islamico. «Siamo fermamente convinti che l’Is sia sulla difensiva in
ogni parte dell’Iraq e della Siria».
Il generale Weidley ha rivelato che la coalizione aveva lanciato 165 raid aerei su Ramadi
nel mese precedente, e 420 nell’area di Falluja e Ramadi dall’inizio della campagna, e
sembrava del tutto fiducioso che queste incursioni avessero arrestato la sequela di vittorie
dell’Isis.Ma lo stesso giorno in cui il generale ostentava tanto ottimismo, l’Is stava
espugnando le ultime roccaforti del Governo iracheno a Ramadi. In altre parole, quello che
il Pentagono pensava stesse succedendo sul campo di battaglia in Iraq e in Siria era
completamente sbagliato. I raid aerei nell’area di Ramadi, e altri 330 sulla raffineria e sulla
città di Baiji e dintorni, non hanno impedito all’Is di concentrare le sue forze e lanciare
un’offensiva vittoriosa. I generali statunitensi non sono stati i soli a eccedere in ottimismo.
La conquista di Tikrit, la città natale di Saddam Hussein, da parte dell’esercito iracheno e
delle milizie sciite aveva indotto tanti, in tutto il mondo, a dare per scontato, esagerando,
che Daesh fosse in ritirata. Ma poi la perdita di Ramadi ha dimostrato che la linea seguita
per sconfiggere l’Is in Iraq è stata un fallimento, e nessuna strategia alternativa è stata
ancora proposta. Se la stessa cosa non è successa in Siria è solamente perché lì
l’Occidente non ha mai avuto nemmeno una linea da seguir: vorrebbe indebolire il
presidente Bashar al-Assad, ma ha il terrore che se dovesse uscire di scena il regime
crollerebbe con lui, lasciando un vuoto che verrebbe colmato dallo Stato islamico e dal
Fronte al-Nusra, la filiale siriana di al Qaeda , che guida una coalizione di gruppi ribelli
arabi sunniti fondamen-talisti, sostenuta da Turchia, Arabia Saudita e Qatar. I moderati
sostenuti dall’Occidente giocano un ruolo marginale all’interno dell’opposizione armata
siriana. Nonostante tutto ciò, la linea occidentale è di continuare a far finta che esista
ancora un’alternativa “moderata” ad Assad, in realtà sempre più debole. Assad, lo Stato
islamico e il Fronte al-Nusra hanno tutti e tre beneficiato della militarizzazione totale della
politica siriana, dove nessun compromesso è possibile fra gli schieramenti in lizza.
Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, lo Stato islamico «ha conquistato più
della metà della Siria e ora è presente in 10 province su 14». E la maggioranza dei
giacimenti di petrolio e gas naturale del Paese sono nelle mani di Daesh.
Questi dati forniscono un’immagine esagerata del controllo dell’Is sulla Siria, considerando
che il suo controllo si esercita principalmente nelle regioni orientali, scarsamente popolate.
Inoltre subisce la pressione delle ben organizzate milizie curdo-siriane, che gli hanno inflitto la sconfitta più grossa respingendolo da Kobane nonostante quattro mesi e mezzo di
assedio. Il 16 giugno l’Is ha perso l’importante valico di frontiera con la Turchia di Tal
Abyad. Poi è stata cacciata anche dalla città di Ayn Isa e da una vicina base militare, una
cinquantina di chilometri appena a nord di Raqqa, la città siriana eletta dallo Stato islamico
a sua capitale. Ancora una volta, questi rovesci hanno indotto a dichiarazioni
eccessivamente ottimistiche su un indebolimento dell’Is: in realtà in Siria lo Stato islamico
ha sul lungo periodo, più opportunità che in Iraq, perché circa il 60 per cento della
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popolazione è arabo sunnita, mentre in Iraq solo il 20 per cento. In Siria Daesh non è
ancora egemone fra l’opposizione sunnita ma potrebbe arrivare a esserlo. E con
l’escalation della guerra settaria, la combinazione di fanatismo ideologico sunnita e abilità
militare potrebbe diventare difficile da sconfiggere.
Del 30/06/2015, pag. 33
Reportage. A un’ora di macchina da Sousse e i suoi resort di lusso, la
Tunisia cambia completamente volto
Viaggio negli incubatori della jihad
A Kairouan, la città sacra delle moschee e roccaforte dei salafiti
La moderna Sousse, i suoi resort di lusso, i ristoranti, le luci che non si spengono mai, qui
a Kairouan sembrano appartenere a un mondo lontano. Eppure sono sufficienti 50 minuti
di auto attraverso una strada che taglia una piana arida e assolata, orlata da lunghe
macchie di fichi d’india, per arrivare nella città più sacra della Tunisia, antica capitale del
governatorato dell’Ifr?qiya, durante il periodo califfale islamico.
È Ramadan, la medina è quasi deserta, la temperatura tocca i 40°. Nel silenzio il minareto
della grande moschea di Kairouan, la più antica del Nord Africa, si eleva sui tetti delle case
piatte. È in questa città, considerata una roccaforte salafita, che ci riceve Tayib Ghozzzy,
l’imam della storica moschea. In principio l’anziano imam preferisce ricordare i tempi
antichi, quando da questa città, «partì la conquista del Sud Africa, dell’Algeria per arrivare
fino in Spagna. I salafiti non esistono solo a Kairouan – sottolinea - . La gente è convinta
che questa città sia una roccaforte salafita per il suo ruolo e importanza storica nella storia
dell’Islam. Ma è un centro di cultura e di formazione Il salafismo esiste in tutto il modo. In
Tunisia ogni città ha i suoi salafiti».
Anche in Tunisia questa versione particolarmente rigida dell’Islam non è una novità, un
fenomeno recente. Esisteva già tempo, ma viveva una sorta di perenne clandestinità. L’ex
presidente Ben Ali lo aveva stroncato con il pugno di ferro, adottando misure durissime
anche nei confronti di movimenti islamici moderati, come Ennahda, costola dei Fratelli
musulmani dichiarata illegale. Nei 22 anni di regime migliaia di sostenitori furono arrestati
e detenuti a lungo nelle carceri senza processo. Dopo la rivoluzione, Ennahda è uscita allo
scoperto, trionfando nelle elezioni politiche del 2011.
Ma anche l’Islam radicale ha trovato un habitat congeniale nelle periferie delle città, dove
la disoccupazione, soprattutto tra i giovani, ha toccato livelli intollerabili. Dove la
frustrazione li ha spinti ad abbracciare le promesse dell’Islam radicale. Sono così venuti
allo scoperto gruppi radicali, come Ansar al-Sharia, organizzazione salafita -jihadista di
matrice qaedista, che ha approfittato del vuoto di potere post-rivoluzione per la sua
organizzata opera di proselitismo. Durata poco, in verità. Perché dopo nel 2013, dopo le
violente manifestazioni all’università di Tunisi e l’assassinio dei leader di due partiti di
sinistra, il movimento è stato dichiarato organizzazione terroristica. La repressione che ne
è seguita è stata particolarmente dura. «Ricordo – continua l’imam – che dopo la
rivoluzione le autorità hanno perduto il controllo del territorio, c’è stato un vuoto di potere. I
jihadisti sono entrati nelle moschee hanno cambiato i lucchetti, sostituendo gli imam
designati dal Governo, trasformando i nostri luoghi di preghiera in centri dove sottoporre al
lavaggio del cervello giovani e bambini. Pensate in Tunisia più di 500 moschee erano
sfuggite al controllo dello Stato. Ma ora sono pochissime».
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Kairouan è anche la città da cui proveniva il giovane terrorista che venerdì scorso ha
ucciso 32 persone, tra cui molti turisti sulla spiaggia di Kantaoi. «Un lupo solitario che
nessuno conosceva in moschea»”, ribatte l’Imam. In soli quattro anni la Tunisia,
considerata uno dei Paesi più laici del mondo islamico, è divenuta un serbatoio di aspiranti
jhidadisti, il Paese con più persone partite a combattere in Siria e in Iraq nelle file dell’Isis,
quasi tremila tunisini.
Tornati a Sousse si scopre che la città più turistica del Paese, con le sue luci e i suoi
ristoranti, ha anche un altro volto. Ci sono anche quartieri dove i salafiti hanno fatto opera
di proselitismo, raccogliendo molti adepti. Anche nella moschea di Hidaya, dove negli
ultimi anni le incursioni delle forze di polizia, gli arresti, le perquisizioni alla ricerca di armi
sono state frequenti. È in questo grande quartiere che incontriamo una delle persone più
introdotte e influenti della comunità salafita locale. Lo chiamano Aghid. La barba islamica,
la pelle bianca, questo 42enne rispettato dai salafiti della città non nasconde la ideologia
estrema. «Dopo la caduta di Ben Ali – spiega - i salafiti sono potuti uscire allo scoperto.
Ed hanno raccolto molti adepti. Oggi però la comunità salafita tunisina è più frammentata e
meno organizzata. Conseguenza diretta del giro di vite delle forze governative». Poi
continua: «Vi assicuro che sono partiti per la Siria e l’Iraq ben più 3mila tunisini. Io
ritengono siano stati non meno di 6mila, compresi quelli, e sono in numero crescente, che
si sono uniti alla guerriglia dello Stato islamico in Libia. Dalla fine del 2014 il flusso verso la
Siria, dove l’80% dei jihadisti tunisini finisce nelle file dell’Isis, si sta riducendo per i
maggiori controlli alle frontiere». Aghid non nasconde la sua ammirazione per lo Stato
islamico. «Hizb al-Tahrir (il partito politico salafita tunisino) condivide il nostro obiettivo:
instaurare un Califfato islamico dove viene applicata la Sharia nella sua versione più pura.
Prima in Tunisia, e poi in tutto il mondo musulmano. Entrando in politica, però Hizb alTahrir ha scelto un percorso diverso. Ma un altra parte della comunità salafita prevede una
lotta armata. Inclusi gli attentati».
del 30/06/15, pag. 8
Nucleare Iran, stallo a Vienna
Trattativa sull'intesa finale . Tehran e Washington sono alle prese con
gli equilibri interni. Fine delle sanzioni entro fine anno in cambio del via
alla distruzione di centrifughe
Giuseppe Acconcia
Lo storico accordo sul nucleare iraniano è dietro l’angolo e irraggiungibile allo stesso
tempo. Anche la scadenza di oggi — stabilita nei colloqui del 2 aprile a Losanna dove è
stata raggiunta un’intesa preliminare su riduzione delle centrifughe, trasformazione delle
centrali nucleari in centri di ricerca in cambio della cancellazione delle sanzioni —
potrebbe slittare di qualche giorno.
«Per uscire dallo stallo, la firma formale dell’accordo potrebbe essere successiva alla
revisione e approvazione del Congresso Usa», spiega Trita Parsi, direttore del Consiglio
nazionale irano-americano, think tank favorevole all’intesa. «A quel punto ci vorranno
trenta giorni per l’approvazione definitiva, se l’intesa venisse raggiunta entro il 10 luglio e
sessanta se si andasse oltre», continua Parsi. Ma anche il parlamento iraniano (Majlis)
potrebbe insistere sul suo diritto a visionare il testo finale.
Insomma, si va avanti a oltranza. Ma prima che Tehran e Washington firmino un accordo
che aprirebbe la strada a nuovi negoziati che promuoverebbero la Repubblica islamica a
35
player centrale (lo è già dopo la guerra in Iraq del 2003) per la soluzione dei principali
conflitti che dilaniano il Medio oriente (Siria, Iraq, Afghanistan), prima che l’Iran inizi a
distruggere le sue centrifughe fino a portarle da 10 mila ad un massimo di 6 mila (in dieci
anni), punto chiave dell’intesa preliminare, potrebbero passare altri sei mesi. Questo
porterebbe alla cancellazione delle sanzioni internazionali contro Tehran non prima della
fine dell’anno.
L’accordo che emerge dai colloqui di Vienna prevede anche che per 15 anni Tehran
arricchirà l’uranio solo fino al 3,75% (a fini energetici, medici e di ricerca). Lo scopo è
impedire all’Iran di produrre un’arma atomica in meno di un anno (breakout). Le centrali di
Fordo e Arak saranno trasformate da siti per l’arricchimento in centri di ricerca.
Contestualmente, Usa e Ue dovranno cancellare quasi tutte le sanzioni economiche
contro Tehran. Anche il Consiglio di sicurezza Onu dovrà approvare l’accordo, revocare
tutte le sanzioni e mantenere alcune restrizioni per un periodo concordato.
Ormai da due anni, con la svolta moderata di Hassan Rohani in Iran e la bozza di intesa
del novembre 2013, quando i tempi stringono e i P5+1 (paesi del Consiglio di sicurezza
Onu e Germania) sembrano vicini ad un accordo, è sempre tempo di ulteriori riflessioni,
ripensamenti e fibrillazioni.
E così il capo negoziatore iraniano, Javad Zarif è volato a Tehran per consultazioni con la
guida suprema Ali Khamenei. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov avrà un colloquio
bilaterale con il segretario di Stato, John Kerry (mentre non si fermano gli scambi epistolari
tra Obama e Khamenei).
Le principali resistenze sono tra i Repubblicani a stelle e strisce (che si sono accodati alle
dichiarazioni escatologiche contro Tehran del governo israeliano) e tra i leader sauditi.
L’ayatollah Khamenei che ha l’ultima parola sull’intesa ha identificato sette «linee rosse»
invalicabili per la fine della crisi che dura da oltre dieci anni. La guida suprema si è
espressa contro scadenze di lungo periodo, per la continuazione del programma di ricerca
e sviluppo, la rimozione immediata delle sanzioni bancarie e tempi precisi e stabiliti per la
conclusione dell’intesa. Si è detto poi contrario a qualsiasi ispezione non convenzionale o
interrogatorio a militari e scienziati.
L’intesa con l’ex «nemico» Usa spacca la società iraniana. La Campagna internazionale
per i diritti umani ha condotto uno studio sulle opinioni degli iraniani in merito ai negoziati.
Se la maggioranza si è espressa a favore dell’intesa, sono stati aggiunti timore,
scetticismo, dubbi e incertezza sull’impatto che avrebbe in politica interna. Secondo un
sondaggio condotto dall’Università di Tehran, la maggioranza degli intervistati non ha
dubbi che il programma nucleare iraniano è solo a scopo pacifico. Che l’intesa avrà effetti
in politica interna rafforzando o indebolendo la leadership moderata al potere a seconda
dei temi, lo dimostrano alcune sentenze delle ultime settimane della magistratura iraniana.
Da una parte l’uomo forte, il tecnocrate Hashemi Rafsanjani ha incassato la condanna a
dieci anni del figlio Mehdi con accuse di corruzione. Dall’altra, gli ultra-conservatori,
contrari all’intesa, hanno subito l’arresto di Hamid Baghaei, ex vice presidente di
Ahmadinejad, con accuse di frode.
del 30/06/15, pag. 8
L’esercito di Erdogan pronto ad entrare in
Siria
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Turchia. Dopo aver tuonato contro la potenziale nascita di uno Stato
kurdo al confine, il presidente avrebbe ordinato la creazione di una zona
cuscinetto dentro il territorio siriano. Non per combattere l'Isis, ma per
cancellare il confederalismo democratico di Rojava
Chiara Cruciati
Il novello sultano Erdogan è pronto a tutto e non lo nasconde. Pronto a inviare in Siria
18mila soldati, pronto a creare la zona cuscinetto tanto agognata lo scorso autunno e
negatagli dall’alleato Usa, pronto a combattere perché nessuna entità statale kurda nasca
al confine con la Turchia.
Uno Stato kurdo sul pianettolo di casa è l’incubo dell’Akp, il partito del presidente. Per
questo, ieri durante il gabinetto di sicurezza, avrebbe autorizzato la modifica delle regole di
ingaggio dell’esercito turco. Quelle truppe (a cui durante l’assedio di Kobane il mondo
chiese di intervenire per sostenere la battaglia kurda contro lo Stato Islamico) non saranno
inviate per frenare l’avanzata del califfo, ma quella dell’autonomia kurda, del
confederalismo democratico teorizzato da Ocalan, del modello di società immaginato dal
Pkk e oggi realtà a Rojava.
«Non permetteremo mai la creazione di uno Stato [kurdo] nel nord della Siria e nel nostro
sud», ha tuonato Erdogan nel fine settimana. Così, ieri, secondo quanto riportato dai
giornali turchi, il gabinetto ha discusso della creazione di una zona cuscinetto tra Siria e
Turchia che impedisca al modello Kobane di contagiare il Kurdistan turco e magari eviti
anche l’arrivo di altri rifugiati. Che verrebbero presi e trasferiti di forza dentro il territorio
siriano, liberando Ankara dal peso di due milioni di profughi.
Secondo i media turchi, all’esercito è stato ordinato di preparare 18mila soldati da inviare,
forse già venerdì, al confine. Con un compito chiaro: confiscare e occupare un corridoio di
territorio lungo 110 km e largo 33 all’interno del territorio siriano, e che comprenda lo
strategico valico di confine di Jarablus (in mano all’Isis). In questo modo Erdogan
coronerebbe un sogno finora frenato dalla strenua resistenza kurda: separare i cantoni di
Kobane (a est verso l’Iraq) e Afrin (a ovest) e cancellare quasi tre anni di progetto
democratico kurdo.
Non mancherebbero gli ostacoli: una simile misura, priva dell’approvazione del
parlamento, violerebbe la costituzione turca, soprattutto perché presa in completa
autonomia, senza una risoluzione Onu. Ma soprattutto provocherebbe un terremoto
nell’instabile spettro politico turco: alle elezioni del 7 giugno l’Akp è uscito vincitore a metà,
non avendo ottenuto la maggioranza assoluta.
Fermo al 40,8%, l’Akp è alla caccia di una coalizione che lo sostenga ma le difficoltà sono
consistenti: due dei principali partiti di opposizione non intendono sostenere un nuovo
governo guidato dal delfino del presidente, Davutoglu. Non lo vogliono i kemalisti (con il
loro 25%) e non lo vuole l’Hdp, la sinistra pro-kurda, sorpresa dell’ultima tornata elettorale
(13%). A tenere i piedi in due staffe sono i nazionalisti dell’Mhp (18%), che non intendono
entrare in un governo con i kurdi dell’Hdp. Ma allo stesso tempo, pretendono da Erdogan
di fare un passo indietro e rientrare nei limiti del suo mandato presidenziale, un vestito che
al sultano sta troppo stretto.
Senza dimenticare la reazione kurda in Turchia: «Un attacco a Rojava sarà considerato un
attacco a tutto il popolo kurdo – ha commentato il comandante del Pkk, Murat Karayilan –
Un simile intervento trascinerà la Turchia in una guerra civile».
Ad apparire ormai chiaro è il ruolo destabilizzatore che Ankara gioca da anni in Medio
Oriente: Erdogan punta al ruolo di leader regionale, obiettivo che ha cercato di
raggiungere distruggendo l’ex amico Assad. Per farlo ha garantito libertà di movimento e
armi al califfo, non ha sostenuto la resistenza kurdo-siriana, ha premuto per mesi sulla
coalizione guidata dagli Usa perché autorizzasse una zona cuscinetto al confine con la
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Siria e una no-fly zone in chiave anti-Damasco. Ha fallito e ora ritenta, mentre Kobane si
libera per la seconda volta dalla minaccia jihadista e l’esercito del presidente Assad
avanza dentro la città di Hasakah, comunità kurdo-araba tra Iraq, Turchia e Siria: ieri le
truppe governative hanno ripreso la più ampia zona residenziale della città.
Un quadro terrificante per Erdogan: con la liberazione di Tal Abyad, i kurdi si sono portati a
soli 50 km da Raqqa, la “capitale” del califfato, e creato un collegamento diretto con
Kobane. Il territorio oggi controllato dalle Ypg è lungo 180 km, da Ras al-Ain a Jarablus, la
cui eventuale presa permetterebbe di lanciare la controffensiva verso i cantoni ovest di
Azez e Afrin, al di là dell’Eufrate. E a quel punto i 180 km diverrebbero 300, la frontiera
con la Turchia quasi per intero.
del 30/06/15, pag. 8
Ucciso Barakat, procuratore generale del
Cairo
Egitto. Attentato dinamitardo ad Heliopolis: almeno altri tre morti e una
decina di feriti. Il presidente al-Sisi nel mirino degli islamisti rafforza la
sicurezza in vista dell’anniversario del golpe del 3 luglio
Giuseppe Acconcia
Hisham Barakat, il temibile procuratore generale del Cairo, è morto ieri in un gravissimo
attentato dinamitardo ad Heliopolis, lungo le mura che costeggiano l’Accademia militare.
Secondo testimoni, le scene della più efficace azione contro le autorità golpiste erano
devastanti: una voragine enorme si è aperta dove è avvenuta l’esplosione, sette
autovetture sono andate completamente carbonizzate, altre 31 sono andate in fiamme, la
deflagrazione ha danneggiato nove edifici. Sono almeno tre i civili morti nell’attentato e
nove i giudici e autisti rimasti feriti.
Barakat è stato trasportato immediatamente nell’ospedale al-Nozha di Heliopolis dove
però è morto per le ferite riportate durante un intervento di urgenza.
Il presidente Abdel Fattah al-Sisi, reduce da una visita in Germania dove ha incassato il
disco verde anche di Angela Merkel nonostante le critiche mosse dal governo tedesco per
le violazioni dei diritti umani e l’eccessivo ricorso alla pena di morte, si è immediatamente
incontrato con il ministro dell’Interno, Magdy Abdel-Ghaffar, per stabilire misure di
sicurezza straordinarie in vista del secondo anniversario dal colpo di stato il prossimo 3
luglio.
Poche ore prima dell’attentato il gruppo jihadista del Sinai Beit al-Meqdisi — che in varie
occasioni ha riferito della sua affiliazione con lo Stato islamico (Is) — aveva pubblicato un
video in cui mostrava l’uccisione di cinque giudici all’indomani della condanna a morte
contro l’ex presidente Mohamed Morsi, confermata a metà giugno dal gran muftì di alAzhar.
Secondo gli inquirenti, egiziani si tratta di una vera rivendicazione in relazione anche
all’ondata di attentati jihadisti che nelle ultime ore hanno avuto luogo in Tunisia e nella
moschea sciita del Kuwait.
I giudici sono diventati i primi obiettivi di gruppi jihadisti. Barakat, 65 anni, aveva ricevuto
numerose minacce prima dell’attentato di ieri; il giudice nel processo Morsi, Khaled
Mahgoub è scampato ad un attentato; stessa sorte è toccata a Fathi Bayoumi, impegnato
nelle indagini per le accuse di corruzione contro Mubarak.
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La magistratura egiziana, e Barakat in primis, ha deciso il pugno duro contro i Fratelli
musulmani dopo il massacro di Rabaa dell’agosto 2013. Sono oltre mille le condanne a
morte (alcune di queste già eseguite anche senza attendere la decisione della
Cassazione), inclusi tutti i leader della Fratellanza, la guida suprema Mohamed Badie, e
del partito Libertà e giustizia, Mohamed el-Beltagi.
Che la giustizia sia il nervo scoperto dell’Egitto di al-Sisi lo dimostra l’ascesa in fretta e
furia ai vertici del ministero della Giustizia del discusso giudice, Ahmed al-Zind, che risale
allo scorso maggio. Gli islamisti accusano i magistrati di essere politicizzati, di usare due
pesi e due misure e, infine, di non avviare processi contro i responsabili del massacro di
Rabaa.
Nelle scorse settimane, circolavano voci anche di un tentativo di omicidio di al-Sisi.
L’attacco avrebbe colpito alcune vetture presidenziali senza coinvolgere in alcun modo il
presidente egiziano.
L’Egitto attraversa una deriva autoritaria. Da ambienti della Fratellanza, si riferisce di 617
casi di desaparecidos dopo gli arresti di massa effettuati negli ultimi mesi.
Ma non soltanto gli islamisti sono nell’occhio del ciclone: undici ultrà sono stati condannati
a morte per la strage di Port Said. Negli scontri di piazza tra polizia e tifosi morirono 74
persone.
Eppure ci sono stati anche segnali incoraggianti come il riavvio del processo contro
Mubarak, con le accuse di aver ordinato di sparare contro i manifestanti nel 2011,
direttamente di fronte alla corte di Cassazione. Insieme ai 15 anni di detenzione decisi
contro l’ufficiale di polizia che ha ucciso l’attivista comunista Shaimaa el-Sabbagh alla
vigilia del quarto anniversario delle manifestazioni di piazza Tahrir, il 24 gennaio di
quest’anno.
E poi il movimento palestinese che governa Gaza, Hamas, è stato cancellato dalla lista dei
gruppi terroristici sebbene le ruspe abbiano distrutto centinaia di abitazioni per allargare la
zona cuscinetto con la Striscia nella città frontaliera di Rafah.
Del 30/06/2015, pag. 9
Così aerei e truppe speciali Usa controllano il
Maghreb dall’Italia
Washington ha stretto un’intesa con il governo per usare oltre a
Sigonella anche la base di Pantelleria per i voli di ricognizione in
funzione anti-terrorismo
Rino Giacalone
Paolo Mastrolilli
Gli Stati Uniti conducono voli di intelligence sull’Africa settentrionale, attraverso un aereo
spia che decolla dalla base di Pantelleria. Lo ha confermato il sottosegretario alla Difesa
Domenico Rossi, rispondendo all’interrogazione presentata dal senatore del Movimento 5
Stelle Vincenzo Maurizio Santangelo. Si tratta di una delle varie operazioni che gli Usa
gestiscono nella regione, finalizzate a tutelare l’interesse comune di contrastare il
terrorismo, e diventate ancora più urgenti a causa del conflitto in corso in Libia, l’instabilità
in Tunisia, le minacce dell’estremismo islamico in Algeria, e il traffico degli esseri umani.
L’autorizzazione
Santangelo aveva presentato un’interrogazione, la numero 3-01822, in cui chiedeva al
ministro della Difesa se era vero che la base di Pantelleria veniva usata per voli spia
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sperimentali; quale autorizzazione era stata richiesta e concessa; che garanzie poteva
dare alla popolazione sulla prosecuzione dei voli civili; e se non era meglio usare la base
di Sigonella per queste attività. Rossi ha risposto che l’Office of Defense Cooperation
dell’ambasciata americana a Roma aveva chiesto allo Stato Maggiore della Difesa
l’autorizzazione a schierare temporaneamente un aereo civile King Air BE-350, gestito da
un contractor privato per conto del comando Africom, che guida appunto le operazioni nel
continente. Lo scopo era «consentire l’esecuzione di missioni di riconoscimento e
sorveglianza nel Nordafrica», e Pantelleria era stata scelta perché più vicina di Sigonella
alle regioni interessate. Dopo le valutazioni di fattibilità, l’autorizzazione era stata concessa
fino al 31 maggio scorso, ma gli americani hanno chiesto di rinnovarla fino alla fine
dell’anno.
Alleanza strategica
L’Aeronautica militare italiana fornisce supporto tecnico-logistico, e il traffico locale non è
penalizzato, perché si tratta di una missione al giorno che non ha priorità sui voli civili.
Una fonte dell’ambasciata di Via Veneto ha confermato che «in consultazione e con
l’autorizzazione del governo italiano, stiamo cooperando per condurre voli di ricognizione».
Dunque si tratta di operazioni note, legali e condivise.
Le missioni americane
Gli Stati Uniti hanno sempre avuto una presenza militare nel Mediterraneo, che però negli
ultimi tempi è diventata ancora più cruciale, per difendere loro e noi dal terrorismo, cercare
di riportare la stabilità in Nordafrica, e contribuire così anche ad affrontare l’emergenza
delle migrazioni. Oltre a Pantelleria, voli di intelligence decollano da Sigonella, dove hanno
sede anche altri apparati militari. Tanto su queste basi, quanto sulle navi che incrociano
nel Mediterraneo, si appoggiano le forze speciali di pronto intervento, come quelle che ad
esempio condussero il raid del 5 ottobre 2013 a Tripoli per catturare il terrorista al Libi.
Una volta preso dagli uomini della Delta Force, con l’aiuto di agenti Cia ed Fbi, era stato
trasferito a bordo della Uss San Antonio per gli interrogatori. Ora questo genere di
presenza è ancora più necessaria, al punto che il Pentagono ha chiesto ai paesi Nato di
ospitare a partire da settembre contingenti di Marines a bordo delle loro navi, come
l’italiana Cavour. Sono forze che servono a monitorare gli sviluppi sul terreno in Libia e nei
paesi vicini, condurre interventi di soccorso, fare prevenzione anti terrorismo, anche alla
luce della penetrazione nel paese del Califfato, che ha minacciato apertamente l’Europa.
L’attacco appena avvenuto in Tunisia ha dimostrato come questi pericoli riguardano ormai
tutti, e si salda anche ai timori che le migrazioni vengano usate per far arrivare in Italia dei
terroristi. La coalizione anti Isis è guidata dall’ex generale John Allen, che è stato a Roma
in varie occasioni per coordinare le operazioni comuni. A marzo ha tenuto un vertice con i
membri del Quint, cioè Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia, in cui ha
sollecitato proprio gli altri alleati a fare di più per i paesi come l’Italia, che hanno la
minaccia terroristica «davanti alla porta di casa».
del 30/06/15, pag. 9
Israele abborda la “Marianne” in acque
internazionali
Gaza. Con un blitz, ampiamente previsto, i commando israeliani hanno
bloccato l'imbarcazione principale del nuovo convoglio della Freedom
Flotilla, diretto a Gaza. Arrestati i 18 passeggeri e membri
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dell'equipaggio, portati contro la loro volontà al porto di Ashdod. Per il
premier israeliano Netanyahu è stato tutto «legale» e gli attivisti
interzionali sono degli «ipocriti».
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Gli organizzatori della Freedom Flotilla III non usano mezze parole. Parlano di atto di
pirateria, di sequestro di 18 persone, avvenuto a 190 km dalla costa di Gaza, quindi in
acque internazionali. Denunciano la mancanza di notizie sui 18 passeggeri e membri
dell’equipaggio della “Marianne”, circondata ieri prima dell’alba dalla Marina militare
israeliana, abbordata da un commando e costretta a dirigersi al porto di Ashdod. La
Freedom Flotilla Italia in particolare ricorda di aver chiesto, con largo anticipo, attenzione e
protezione per i passeggeri del nuovo convoglio per Gaza — una cinquantina in tutto, tra i
quali l’ex presidente tunisino Moncef Marzouki — al capo dello stato Mattarella, al premier
Renzi e al ministro degli esteri Gentiloni in visita ufficiale ieri nei Territori occupati
palestinesi e in oggi in Israele. «Pretendiamo dalle nostre istituzioni e in primo luogo
dall’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza
Federica Mogherini, che chiedano conto al governo israeliano di ciò che sta accadendo
ora, di come si possa permettere di attaccare militarmente barche in regola coi documenti
della navigazione, in acque internazionali, impunemente…si chieda il rilascio immediato
delle persone sequestrate e del peschereccio “Marianne”, si pretenda, come vuole il diritto
internazionale e come richiede l’Onu, la fine del blocco di Gaza da parte di Israele e
l’apertura al mondo del porto di Gaza», si legge nel comunicato diffuso dopo l’arrembaggio
alla “Marianne”. Per Israele tutto si è svolto nel rispetto della legalità internazionale, come
ha detto il premier Netanyahu complimentandosi con la Marina e i commando per il
«successo» dell’operazione in mare. Il blocco di Gaza, secondo Tel Aviv, è legale perchè
finalizzato ad impedire il traffico di armi.
Ma bordo della “Marianne” non c’erano dei “terroristi” (come li hanno descritto alcuni
media israeliani) ma 18 persone pacifiche, alcune delle quali avanti con gli anni, giornalisti,
un ex presidente protagonista della primavera di Tunisi e anche tre cittadini israeliani: il
deputato arabo Basel Ghattas, il musicista Dror Feiler e un reporter della tv Channel 2.
Volevano solo consegnare pannelli solari a un ospedale e aiuti umanitari. Più di tutto
intendevano chiedere al mondo di impegnarsi per mettere fine al blocco di Gaza che dal
2006 colpisce 1,8 milioni di civili palestinesi. E se è vero che l’azione di forza contro la
“Marianne” ha l’appoggio della maggioranza degli israeliani, allo stesso tempo anche in
questa occasione non poche voci si sono levate nello Stato ebraico a sostegno della
Freedom Flotilla. Una su tutte quella di un attivista e storico pacifista, Uri Avnery. «Al di là
della questione specifica di questa flottiglia, è ormai tempo di aprire il porto di Gaza e
liberare l’economia della Striscia da uno strangolamento che conduce i suoi residenti alla
disoccupazione e a una terribile povertà…E’ risaputo che soggetti internazionali hanno la
volontà di trattare un accordo per la supervisione internazionale sul porto di Gaza e che la
leadership (del movimento islamico) Hamas desidera raggiungere tale accordo», ha scritto
qualche giorno fa Avnery.
L’altra notte tutto è cominciato intorno alle 2 e 06. A quell’ora le altre tre navi del convoglio
– “Rachel”, “Vittorio” e “Juliano” (con a bordo l’italiano Claudio Tamagnini) –, in mare in
appoggio alla nave “ammiraglia”, stavano già rientrando ai porti di partenza. Dalla
“Marianne” hanno contattato la Coalizione della Freedom Flotilla informandola che
l’imbarcazione era stata circondata da tre navi della Marina israeliana a circa 190 km dalla
costa di Gaza, in acque internazionali. Poi, probabilmente per le interferenze generate
dalle unità da guerra israeliane, è cessato ogni contatto radio con il peschereccio partito
alcune settimane fa dal nord Europa. Quindi, alle 5 e 11, le forze armate israeliane ha
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annunciato di aver «visitato e perquisito» la “Marianne”. Secondo la versione di Israele
tutto si sarebbe svolto senza alcun incidente. E le agenzie di stampa internazionali, a
cominciare da quella italiana più importante, hanno subito sposato questa versione
rassicurante. La Coalizione della Freedom Flotilla al contrario dubita che sia svolto tutto
«senza eventi di rilievo» e ricorda che nel 2012, alcune delle persone a bordo di un’altra
imbarcazione diretta a Gaza, la “Estelle”, furono bloccate con i taser e maltrattate. Senza
dimenticare che nel 2010, dieci passeggeri della turca “Mavi Marmara” furono uccisi
durante un’azione simile di commando israeliani. Solidarietà a passeggeri e membri della
“Marianne” è stata espressa dal sindaco Palermo Leoluca Orlando e in diverse città
europee sono stati organizzati sit-in di protesta.
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INTERNI
Del 30/06/2015, pag. 18
“Senato elettivo” Renzi cerca l’ultima
mediazione
Obiettivo la terza lettura entro l’8 agosto Trattativa con i dissidenti dem,
strappo in agguato
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA. Per rispettare i tempi della riforma costituzionale voluti da Renzi (voto in Senato
per la terza lettura entro l’8 agosto) il governo deve trovare un accordo con i dissidenti del
Pd questa settimana. Tocca ad Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari
costituzionali, studiare un testo di mediazione e la mediazione può essere una sola: dare
una forma elettiva al nuovo Senato. «Per compensare gli effetti dell’Italicum », ripete
Roberto Speranza interpretando la voce dell’intera sinistra Pd. Al compromesso lavorano
la Finocchiaro, il ministro Maria Elena Boschi, il coordinatore di Ncd Gaetano Quagliariello.
Sarebbe proprio una vecchia proposta di quest’ultimo a essere stare individuata come
l’arma “giuridica” in grado di sbloccare la situazione.
Si tenta dunque la stessa strada della riforma della scuola. Alcune modifiche mirate per
ridurre la dissidenza dem da 30 a 3-4 voti contrari. Ma la partita appare stavolta assai più
difficile. Non a caso un renziano doc che segue la materia si dice poco sicuro dell’esito
positivo della trattativa: «Devono incastrarsi troppi tasselli. Non escludo, ad oggi, che si
arrivi allo strappo per votare poi lo stesso identico testo della Camera».
Ecco perché questa è la settimana dell’ultima chance per trovare una soluzione alla
riforma che eviti uno scontro profondo in aula. Bisogna riuscire a tenere insieme tre
passaggi. L’accordo tecnico, non facile visto che l’articolo 2 della legge Boschi prevede la
elettività indiretta dei nuovi senatori e non può essere cambiato altrimenti il provvedimento
torna al punto di partenza, con un anno perso. L’intesa politica dentro al Partito
democratico, che deve garantire la tenuta sia a Palazzo Madama tra poche settimane sia
una rapida approvazione a Montecitorio quando il testo tornerà lì. L’obiettivo del premier,
molto ambizioso e molto complicato allo stesso tempo, è celebrare il referendum sulla
riforma lo stesso giorno delle amministrative di Torino, Napoli, Milano e Roma (forse) nel
giugno 2016 in modo da trainare i candidati Pd.
I senatori potrebbe essere eletti indirettamente dentro un listino di consiglieri regionali.
Questo listino, che sarebbe votato dagli elettori, produrrebbe un numero di eletti superiore
alla soglia di 100 senatori. Sarebbero poi i consigli regionali a scegliere chi mandare a
Roma. Per questa modifica servirebbe una legge ordinaria, alla quale la riforma
costituzionale rimanderebbe. Soluzione difficile da realizzare anche tecnicamente, ma la
Finocchiaro ci sta lavorando. «Fra qualche giorno avremo i risultati», dice la presidente
della commissione senza sbilanciarsi. Quagliariello prevede poi altri bilanciamenti e
contrappesi, chiesti non solo dal Nuovo centrodestra ma anche dalla minoranza dem.
«Una legge sull’articolo 49 della Carta che dia finalmente una regolamentazione chiara ai
partiti, una legge quadro per le authority che le renda direttamente collegate al Parlamento
e dunque più lontane dal controllo della presidenza del consiglio. E una commissione
paritetica maggioranza-opposizione presieduta dalle minoranze che valuti le leggi di
bilancio». Sono idee che dovrebbero tenere unita la maggioranza di governo mentre per
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Forza Italia, ovvero per farla tornare al tavolo, il capogruppo Paolo Romani insiste: «Ci
vuole anche un impegno per ritoccare l’Italicum». Renzi ha più volte aperto e chiuso il
capitolo legge costituzionale. Ha immaginato delle modifiche sull’elettività, ma a Palazzo
Chigi ci si può ammorbidire solo in caso di un accordo complessivo che velocizzi l’iter e
garantisca il risultato finale. «Altrimenti i voti li troviamo lo stesso», ripetono dallo staff del
premier. Gli uffici del ministro Boschi lavorano alla possibile mediazione e verificano le
compatibilità con lo spirito del testo che punta innanzitutto alla fine del bicameralismo.
Riaprire il dossier significa rimettere tutto in discussione? Al momento di approvare
l’Italicum con il voto di fiducia, è stato questo il motivo che ha spinto Matteo Renzi a
forzare vincendo il match. Sulla legge costituzionale però la fiducia non è mai stata messa,
quindi è un’arma in meno a disposizione dell’esecutivo.
Del 30/06/2015, pag. 15
I rottamatori del Porcellum contro l’Italicum:
premio di maggioranza incostituzionale
I ricorrenti citano anche l’«abusività» degli eletti: premier sostenuto da
un Parlamento «illegittimo»
ROMA Gli avvocati che rottamarono il Porcellum ci riprovano. Sul banco degli imputati
questa volta c’è l’Italicum, che il quartetto di legali ritiene «quasi peggio» della legge ideata
da Roberto Calderoli e dichiarata incostituzionale nel 2014 dalla Consulta. Convinti che
l’era renziana stia precipitando il Paese in un «periodo di oscurantismo costituzionale»,
Emilio Zecca, Claudio Stefano Tani, Aldo Bozzi e Ilaria Tani hanno depositato al Tribunale
civile di Milano un atto di citazione, con il quale invitano a costituirsi in giudizio il premier
Renzi e il ministro Alfano. Il presupposto del documento, lungo 38 pagine, è la convinzione
che il mancato rispetto della sentenza che abolisce la legge del 2005 abbia provocato la
«permanente anomalia costituzionale» del sistema politico, al centro del quale c’è un
Parlamento «formato con norme illegittime». I legali chiedono in via istruttoria al Tribunale
di acquisire l’elenco dei parlamentari eletti nel 2013 con il Porcellum e quello dei candidati
che sarebbero stati proclamati eletti senza quei premi di maggioranza, oltre agli elenchi
dei parlamentari cessati dalla carica. E questo «perché la Corte costituzionale possa
verificare la legittimità della prassi seguita». La presunta «abusività» degli eletti è il chiodo
fisso del quartetto, che imputa al ceto politico l’aver fatto «scordare» agli italiani
l’incostituzionalità dei premi di maggioranza, così da evitare una «figuraccia colossale».
Un vulnus che, in punta di diritto, si potrebbe sanare solo sostituendo i parlamentari con
altri, ricalcolando i voti e depurandoli dal premio. Operazione complessa, che rischierebbe
di modificare la composizione politica delle Camere e quindi la maggioranza di governo. Il
domino coinvolgerebbe anche quei parlamentari che hanno lasciato il seggio italiano per
volare in Europa, dopo la sentenza della Corte sul Porcellum. Il nodo è dunque la «grave
alterazione della rappresentanza democratica» determinata da un premio ritenuto causa di
tutti i mali: «È grave che il governo Renzi con l’Italicum abbia espresso la volontà di
reiterare le norme già dichiarate incostituzionali». Il premier governerebbe insomma «con
una maggioranza artificiosa e illegale» che non gli impedisce «di dar vita a una nuova
legge che assicura la perpetuazione del potere al di fuori di ogni scrupolo di rispetto per la
Carta costituzionale». Dopo aver scritto (senza ottenere risposta) a Boldrini e Grasso e
poi a Napolitano e Mattarella, gli avvocati tentano la via delle carte bollate con l’intento,
spiega Zecca, di «risvegliare il dibattito» sull’Italicum: «Dopo che la Corte lo aveva
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“desuinizzato”, il Porcellum era una legge perfetta, ma non era quella che Renzi voleva».
L’Italicum sarebbe inoltre gravato da cinque «vizi di costituzionalità», che vanno dai
capilista «indicati dai partiti» al fatto che la Camera potrebbe risultare composta da più di
630 deputati, forse 640. Se l’atto di citazione sarà accolto, il Tribunale potrà inviarlo alla
Corte costituzionale. Prima udienza, tra novembre e dicembre.
Monica Guerzoni
Del 30/06/2015, pag. 12
Il premier e il piano per il nuovo Pd: lo
riorganizzerò, serve gente capace
Il leader: basta con le divisioni. E spiega ai suoi: alla sinistra radical
chic non piaccio
ROMA La sua attenzione, ora, è rivolta tutta alla Grecia, con qualche sguardo ironico
anche a chi, in Italia, dentro e fuori il Pd, lo attacca pur di riuscire a tramutare «in bega
domestica» una situazione «internazionale drammatica», ma prossimamente, Matteo
Renzi ha intenzione di mettere mano al partito. Intanto, una prima tappa è rappresentata
dalla «ripartenza» del quotidiano l’Unità , che da oggi sarà nuovamente nelle edicole,
diretta da un fedelissimo del premier, Erasmo D’Angelis. È un piccolo passo iniziale, ma il
traguardo finale, come spiega lo stesso presidente del Consiglio, è quello di «organizzare
meglio il Pd», di mettere ai suoi vertici «gente capace», perché «le amministrative non
sono lontane» e «non possiamo fallire l’obiettivo».
«Ora — è l’ammonimento del segretario-premier — bisogna andare avanti anche con più
decisione». Renzi lo ha spiegato chiaramente ai suoi collaboratori: «Contro di noi non c’è
un vento unitario nazionale, ma non possiamo nasconderci che il risultato delle regionali e
delle ultime amministrative è stato politicamente negativo e questo non dovrà più
ripetersi». Per questa ragione in vista delle elezioni del 2016 in capoluoghi di regione
importanti come Milano, Torino, Napoli, Bologna e Genova e, forse, anche Roma, Renzi
ha deciso di «riorganizzare il Pd», perché finora, ha spiegato ai fedelissimi, «è inutile
negarselo, era organizzato male. E non è questione di partito solido o liquido, quelle sono
stupidaggini». Il presidente del Consiglio non ha ancora chiarito nemmeno ai suoi che
cosa intenda veramente fare, quali sono le innovazioni che ha in mente e ha rinviato al
prossimo autunno le decisioni finali.
Ma in un autunno non troppo lontano «perché i tempi sono quelli che sono».
Bisogna vedere se la minoranza interna vorrà dare una mano. O se, piuttosto, preferirà
giocare d’ostruzionismo. Secondo Renzi, «il governo è una macchina in grado di correre»
e il Partito democratico deve fare altrettanto. E in questo senso la minoranza deve capire
che «i nostri non ne possono più delle divisioni interne», «sono stufi delle liti».
Infatti, lo stesso premier, che pure non è un tipo morbido è andato alla mediazione sulla
riforma costituzionale. Ciò nonostante Renzi sa bene che la partita con i suoi oppositori
interni non è facile. Ha letto i discorsi di Roberto Speranza, ha visto che l’ex capogruppo,
piuttosto che scegliere una via autonoma ha preferito farsi incoronare leader della
minoranza da Pier Luigi Bersani. E, soprattutto, il premier sa che «loro hanno deciso che
io non sono di sinistra». Lo ripete spesso nei conversari con i collaboratori e gli amici più
fidati. Come ripete spesso di «non essere mai piaciuto alla sinistra radical chic ».
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E su questo punto è difficile dagli torto perché certamente in quegli ambienti né nei prima,
né tanto meno adesso il premier ha mai «sfondato». Quello che di Renzi convince meno la
minoranza e quelli che lui definisce i radical chic, è il suo tentativo di allargare la platea
degli elettori, senza limitarsi a corteggiare solo chi ha sempre votato per il centrosinistra.
Ma su questo punto il premier non ha dubbi: «Se non vinco al centro resteremo sempre
all’opposizione». Ed è proprio ispirandosi a questo suo profondo convincimento che
intende costruire il nuovo partito e la nuova classe dirigente.
Per il momento almeno Renzi non sembra nutrire il timore che questo suo percorso
politico possa avvantaggiare chi, a sinistra, sta cercando di costruire un nuovo soggetto
politico. «Fuori dal Pd non c’è nessuna prospettiva di vero cambiamento»: è questo un
altro radicato convincimento del segretario premier.
Del 30/06/2015, pag. 6
Crocetta, guerra col Pd: “Faraone sembra
Lima”
l governatore ai ferri corti con l’esecutivo. Che minaccia di non
sbloccargli i fondi
di Giuseppe Lo Bianco
Crocetta? Se fosse “un interlocutore credibile” si potrebbe ragionare dei fondi che il
governo nazionale deve sbloccare in favore della Sicilia, dice Davide Faraone,
luogotenente di Matteo Renzi sull’isola. Ma a Roma, Crocetta non piace più e allora,
osserva il governatore siciliano, “Faraone usa lo stesso linguaggio dei Lima e dei
Ciancimino… Non è un linguaggio da governo democratico: cioè la Sicilia dovrebbe
pagare che c’è un presidente non allineato? Ci sarebbe da andare in Procura, se il suo
fosse il messaggio ufficiale del governo…”. Lo scontro durissimo tra il renziano Faraone e
il presidente della Regione non è destinato a restare scolpito sulle pagine Facebook dei
due contendenti: un altro renziano, Fabrizio Ferrandelli, deputato all’Ars, sta pensando di
presentare una mozione di sfiducia contro il governatore “per consentire all’Aula di
chiudere l’esercizio finanziario per poi dare ai siciliani, già ad ottobre, la possibilità di
scegliere un nuovo presidente del Pd”.
Così, nel giorno in cui gli arrestano il medico di fiducia, Matteo Tutino, primario di Villa
Sofia incappato in una storia di chirurgia estetica spacciata per indispensabile (e, quindi,
rimborsabile dal servizio sanitario), il caso Crocetta rischia di diventare un nuovo caso
Marino. Come a Roma, anche in Sicilia i renziani insistono per liquidare leader interni
diventati scomodi e ingombranti: e entrambi (Marino come Crocetta) rimandano al mittente
le accuse senza troppi convenevoli. Faraone? “È un astro nascente del firmamento, luce
nuova che illumina la Sicilia – replica ironico Crocetta su Facebook con un post titolato ‘Il
volo di Icaro’ – Se Faraone non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Io non mi sono fatto mai
tante risate in vita mia come da quando Faraone è diventato politico nazionale”.
Lo schiaffo al sottosegretario renziano arriva nel momento in cui il governo Crocetta
scricchiola sotto il peso delle dimissioni di due assessori, Ettore Leotta (sostituito da
Giovanni Pistorio, fedelissimo di Cuffaro e Lombardo) e Nino Caleca e delle indagini che
hanno colpito altri due componenti di giunta, Maurizio Croce e Giovanni Pizzo: il primo
indagato nell’inchiesta sulle centrali a carbone di Vado Ligure; il secondo per bancarotta
per il fallimento di una clinica di Messina.
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“Sono veramente esterrefatto – insiste il governatore – dei toni anti istituzionali che il
sottosegretario Faraone continua a usare nei confronti della Regione Siciliana. Leggero
come una piuma, puro come un angelo, continua a dire che Roma nel 2016 aiuterà la
Sicilia, non comprendendo neppure di cosa parla e soprattutto a nome di chi parla”. Per
concludere con una frecciata al veleno: “Mi farà rispondere a comando da qualcuno, come
per esempio quel famoso sindaco eroe senza macchia né paura, rottamatore di primo
piano di Siracusa – scrive Crocetta – credo che si chiami Garozzo sponsorizzato da Foti
(Gino, ex sottosegretario Dc nella Prima Repubblica, oggi capocorrente Pd senza tessera,
ndr). Un nome a me sconosciuto fino a quando non ho letto le intercettazioni Expo”. La
resa dei conti è rinviata alla direzione regionale del Pd convocata dal segretario Fausto
Raciti per sabato prossimo.
Del 30/06/2015, pag. 19
De Luca ricorre: “Sono già al lavoro”
Il governatore si rivolge ai giudici contro la legge Severino:
“Incostituzionale, ho fiducia nell’esito dell’istanza” Niente Consiglio,
opposizioni in piazza. M5S: “Il Pd ci ha rifilato un pacco e impedisce il
ritorno alle urne”
DARIO DEL PORTO
OTTAVIO LUCARELLI
NAPOLI. La sede del consiglio regionale chiusa. Le opposizioni in piazza, in testa il
vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. Più in là, i disoccupati organizzati. E gli
avvocati di Vincenzo De Luca, a pochi metri di distanza, in tribunale a depositare il ricorso.
Centro direzionale di Napoli, dieci minuti dopo mezzogiorno. Il paradosso della Regione
Campania, con un presidente eletto, proclamato, ma non insediato perché sospeso dal
premier Matteo Renzi in base alla legge Severino, è tutto concentrato nello spazio di
duecento passi. La prima seduta del Consiglio, convocata per ieri mattina, è saltata. Il
Palazzo della Regione è blindato e i 5 stelle occupano la piazza chiedendo di andare al
voto e distribuendo un “pacco” con la foto del presidente sospeso: «Il Pd impedisce il
ritorno alle urne». I legali di De Luca chiedono invece l’annullamento della sospensione.
Secondo la difesa, la norma viola la Costituzione in tre punti. Nel ricorso si citano due
precedenti: quello del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, e del consigliere regionale
della Puglia, Fabiano Amati. In entrambi i casi, la questione di legittimità costituzionale è
stata ritenuta non manifestamente infondata e gli atti sono stati trasmessi alla Corte
costituzionale con la contestuale concessione della sospensiva della sanzione. La Corte
d’Appello di Bari, in particolare, ha sottoposto al vaglio della Consulta tre aspetti della
legge Severino: la disposizione che prevede la sospensione degli eletti alla Regione a
seguito di condanna non definitiva; quella che contempla la sospensione anche in caso di
condanne per reati consumati prima dell’entrata in vigore della legge; e la parte in cui
viene introdotta una disparità di trattamento tra i parlamentari ( europei e nazionali) che
diventano incandidabili, in caso di condanna per abuso d’ufficio, solo se superiore ai due
anni, e gli eletti alla Regione, dove il limite di pena non esiste. E De Luca è stato sospeso
sulla base di una condanna in primo grado a un anno per abuso d’ufficio. Solo a fine
giornata, Vincenzo De Luca rompe il silenzio e, su Facebook, assicura: «Sono sereno e
fiducioso. Siamo pienamente impegnati sulle emergenze ambientali e occupazionali. Nei
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prossimi giorni dovremo far fronte a scadenze legate ai fondi europei, ai tetti di spesa
sanitaria e al trasporto pubblico locale, per i quali bisognerà evitare ogni interruzione ».
Quindi aggiunge: «Il nostro lavoro continua guardando come sempre agli interessi delle
nostre comunità e assumendoci le nostre responsabilità verso i cittadini campani».
«Auspichiamo una soluzione in tempi brevi nell’interesse della Regione e della continuità
degli organi di governo democraticamente eletti», afferma l’avvocato Lorenzo Lentini, che
asssite di De Luca con il professor Giuseppe Abbamonte, decano degli amministra-tivisti,
e l’avvocato Antonio Brancaccio. Sulla richiesta di sospensiva, il tribunale di Napoli
deciderà quasi certamente entro il 12 luglio, ultimo giorno utile, a norma di statuto, per la
convocazione della prima seduta del nuovo consiglio regionale. Senza sospensiva, il
rischio di commissariamento e nuove elezioni è altissimo. Il futuro della Campania, mai
come adesso, è davvero nelle mani del giudice.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Da l’Unità del 30/06/15, pag. 2
Dal centro alla periferia
La meglio gioventù
Danilo Chirico
E la storia che si ripete, sempre uguale nei decenni. In Sicilia e in Calabria, a Milano e a
Reggio Emilia, in ogni angolo d'Italia: parlare di mafia è un tabù. La conseguenza è un mix
di silenzi e complicità inconfessabili che hanno permesso alle mafie di rompere gli argini e
conquistare potere, denaro, consenso sociale. Si sentiva diversa Roma, s'è scoperta
anche lei vulnerabile e indifesa. Non ha visto i clan, e dai clan s'è vista sfilare importanti
pezzi di sé. Eppure la mafia sulle sponde del Tevere è questione antica. Boss e batterie
hanno cominciato a conquistare strade e piazze almeno dagli Anni Sessanta. Un quadro
criminale in evoluzione fatto di Banda della Magliana e Cosa nostra, camorra e
'ndrangheta, il cosiddetto clan degli zingari e le mafie straniere a cui corrispondevano
soltanto striminziti verbali di polizia, buone intuizioni di qualche investigatore e affascinanti
storie raccontate nei bar di periferia dove chi sono i veri capi non sfugge a nessuno. Va
avanti così fino al 1991, quando la commissione parlamentare antimafia di Gerardo
Chiaromonte firma una relazione che mette nero su bianco quello che tutti sanno e
nessuno vede: a Roma ci sono le mafie. Nomi e luoghi - tanti ricorrono ancora oggi - che
dovrebbero mettere politica e istituzioni di fronte alle proprie responsabilità. Non accade,
complici anche Tangentopoli e le stragi. L'Italia del 1992 fa i conti con il crollo del sistema
politico e la barbarie dei Corleonesi di Totò Riina. Non c'è spazio per nient'altro. Dentro
questa disattenzione ci sono l'impressionante crescita della 'ndrangheta, il radicamento dei
clan al nord, l'apertura delle cosche a nuovi e vantaggiosi mercati. Un'inerzia colpevole,
che dura fino ai giorni nostri e ha anche un altro effetto: trasformare Roma in una Capitale
delle mafie. «Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, su i giornali. Ma
parlatene», sosteneva Paolo Borsellino. Inascoltato, almeno a Roma. Neppure a giugno
2014 la prima condanna per 416 bis, il reato di associazione mafiosa, nel processo Nuova
Alba cambia le cose: «A Ostia c'era la mafia», è il massimo che si può concedere.
Lo shock, la paura, i silenzi
I fatti però sono ostinati e il 2 dicembre 2014 presentano il conto. La procura di Giuseppe
Pignatone mette a segno il primo troncone dell'inchiesta Mondo di mezzo: a Roma ci sono
molte mafie, una di queste, «originaria e originale», è arrivata fin dentro il Campidoglio. Lo
shock provoca paura nella politica, silenzio imbaraz zante di imprenditori e professionisti,
la balbuzie di sindacati, associazioni e movimenti. Il quadro politico, economico e sociale
che emerge è impressionante. È l'apparir del vero per i romani la scoperta destabilizzante
che i mafiosi sono marziani. Entrano in crisi tutte le certezze sulla tenuta democratica della
città. Dentro questo clima, i cittadini smarriti e increduli rischiano la paralisi ma si fanno
forza e tornano in campo con una nuova consapevolezza: la necessità di fare antimafia
sociale. Non ci sono più soltanto i presidi e le consolidate attività di Libera, il lavoro
territoriale e le campagne creative dell'Associazione daSud, le iniziative contro il gioco
d'azzardo di Slot Mob: su questo nuovo terreno c'è la meglio gioventù capitolina, chi
quotidianamente lavora con l'ambizione di rendere Roma una città migliore. C'è un mondo
grande che pratica l'antimafia sociale forse senza saperlo, certamente senza dirlo, che
con orgoglio nuovo e la passione di sempre riannoda i fili del suo impegno. Sono tanti,
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tantissimi. Al centro e in periferia. Nella difficilissima Tor Bella Monaca, per esempio. Dove
una rete di volontari fornisce servizi e assistenza a chi ne ha bisogno: la ludoteca animata
dalle mamme, centro antiviolenza, la biblioteca autogestita Cubo libro, il centro
sociale,l'ambulatorio di Medicina solidale insieme provano a essere presenti dove le
istituzioni non ci sono quasi più. O a Corcolle, un quartiere senza servizi, diventato famoso
per le aggressioni ai migranti, dove le associazioni hanno avviato un faticoso percorso per
costruire una risposta culturale all'odio razziale dilagante. Due librerie, Yeti e Alegre, sono
invece il centro propulsore delle battaglie che i cittadini hanno intrapreso contro lo spaccio
sfacciato al Pigneto, uno dei quartieri del divertimento. Innovazione sociale, cultura e
volontariato sono le tre caratteristiche principali dei progetti a Torpignattara, nella periferia
est della città. Il network culturale Torpignalab, le attività sociali e la scuola popolare
promossa dal Comitato di quartiere, il lavoro con le donne migranti di Asinitas e
l'esperienza della Piccola Orchestra di Tor.Pignattara in cui suonano i figli dei cittadini
migranti, il mercato contadino al parco Sangalli e il cinema itinerante di Karawan, la
manifestazione Alice nel paese della Marranella in una delle vie più controverse del
quartiere sono le realtà che hanno scommesso sul futuro del quartiere romano che ha il
maggior numero di comunità straniere, seri problemi di integrazione e una forte presenza
della criminalità organizzata.
Diritti umani
L'idea della sostenibilità sta invece dietro il progetto di rigenerazione urbana e culturale
della community di associazioni, esperti, istituzioni di ricerca che ha dato vita
all'esperienza dj Corviale domani, in uno dei quadranti socialmente e urbanisticamente più
difficili della città. 1 La collaborazione tra diversi è il tentativo messo in campo anche dalla
rete delle associazioni di promozione sociale del Municipio 14 (a Roma Nord). A Tor
Sapienza sono gli orti lo strumento scelto per costruire socialità. A lavorarci l'associazione
ambientalista Terra, che ha avviato un progetto di integrazione per bambini rom animato
anche dall'associazione Popica. Dei diritti umani di rom e sinti si occupa invece in diversi
posti della città l'Associazione 21 luglio, tra le più attive tra l'altro nel denunciare i fatti di
Mafia Capitale.
Progetti che diventano veri e propri presìdi antimafia per bambini sono quelli del centro
giovanile B-Side al Tuscolano, diMatemù che all'Esquilino lavora con gli adolescenti
migranti di seconda generazione e di Scup, luogo occupato con diverse attività dedicate ai
più piccoli. E luoghi culturali e di incontro fondamentali nella vita dei quartieri sono
l'Officina Via Libera al Quadraro e l'ex Lavanderia a Monte Mario o la Collina della Pace
che anima l'estrema periferia di contrada Finocchio restituendo vita a un ·bene confiscato
a Enrico Nicol etti, il cassiere della banda della Magliana.
Trasparenza amministrativa
Un nuovo significato acquistano la battaglie per la trasparenza amministrativa di Carte in
regola e il lavoro per le terre pubbliche ai giovani agricoltori della Cooperativa Coraggio.
Anche le realtà universitarie colgono la sfida dell'antimafia: a Roma Tre c'è il laboratorio di
formazione sui clan voluto da Ricomincio dagli studenti. Organizzano attività antimafia
anche Lini, alla Sapienza, Altroateneo a Tor Vergata e l'associazione Freak alla Luiss. Si
sono messi in gioco compagnie teatrali e organizzazioni sportive, dalla Uisp alle palestre
popolari. Tanti protagonisti che sentono la necessità di organizzarsi per una presa di
parola collettiva. Come «Spiazziamoli - 50 piazze per la democrazia e contro le mafie», la
più importante e partecipata risposta a Mafia capitale. Centoventi associazioni, migliaia di
persone a lavoro in tutta Roma lanciano una grande discussione sui clan e il futuro della
città. Nella Roma delle mafie e della corruzione, dei veleni e dei commissariamenti c'è
insomma un tentativo di aprire una nuova stagione antimafia. Non c'è da stupirsi se le
reazioni non sempre sono forti e decise. È ancora la storia a insegnarcelo: ci sono voluti
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decenni di discussioni e battaglie, omicidi e stragi perché Calabria e Sicilia ammettessero
la presenza delle mafie, perché crescesse un forte movimento antimafia popolare. Che
non significa che quanto è già accaduto a Roma non sia sufficiente a creare una reazione.
Vuol dire piuttosto che la percezione dei fatti è ancora lontana dalla realtà. Che l'incapacità
di lettura del fenomeno mafioso, la difficoltà a riconoscerlo e la paura sono ancora ostacoli
significativi, che l'azione della magistratura, da sola, non è sufficiente a creare
consapevolezza diffusa. Servono rotture culturali e sociali che Roma non ha ancora
praticato. Il cammino però è iniziato, la strada tracciata.
Dove lo Stato arretra avanzano i clan
A indicarla è anche Papa Francesco, durante una recente visita a Tor Bella Monaca: «Le
persone di questa periferia sono messe a dura prova dalla disoccupazione e costrette a
fare brutte cose. La mafia usa i poveri per fare il lavoro sporco». Dove lo Stato arretra,
avanzano i clan. Le inchieste confermano quanto sosteniamo da tempo: c'è un welfare
parallelo a Roma, e lo pagano i clan. Su questo terreno, quello della costruzione del
consenso, dei diritti, delle opportunità e del welfare si gioca la partita decisiva. Giuseppe
Valarioti, politico, insegnante e intellettuale ucciso 35 anni fa dalla 'ndrangheta a Rosarno,
diceva: «Se non lo facciamo noi, chi deve farlo ». Parlava ai giovani calabresi, a quelli che
si sporcavano le mani. A loro indicava una sfida urgente da lanciare a tutti. Le sue parole
sembrano scritte per la Roma di oggi. Che impaurita aspetta il responso sullo scioglimento
del consiglio comunale. Che non ha più tempo, che deve immergersi nella realtà. Per
cambiarla, o la realtà tornerà presto a presentare il suo conto.
Del 30/06/2015, pag. 14
La verità di Pansa sulla talpa, Ciancimino e
De Gennaro
Il capo della polizia ridimensiona il ruolo del confidente Vaselli ma la
difesa del figlio di don Vito esulta: “Massimo non mentiva”
di Sandra Rizza
Per Massimo Ciancimino era una “talpa” che, per conto di Gianni De Gennaro, svelava a
suo padre in diretta le indagini di Falcone. Per il capo della polizia Alessandro Pansa,
invece, era un confidente del Nucleo centrale anticrimine che odiava don Vito, ma lo
temeva così profondamente “da non aver mai parlato dei suoi rapporti con Cosa Nostra’’.
Chi era in realtà Romolo Vaselli, l’imprenditore indicato come il più fidato prestanome
dell’ex sindaco mafioso? Ieri Pansa, sentito a Caltanissetta davanti al giudice Marco
Sabella nel processo per calunnia a Ciancimino junior, ha confermato quanto aveva
dichiarato nel verbale del 10 gennaio 2011: “All’inizio del 1985 quando ero funzionario del
Nucleo centrale anticrimine diretto da De Gennaro, affiancai il giudice Falcone in una
rogatoria a Montreal su Vito Ciancimino”, in relazione a “transazioni finanziarie’’. Il capo
della polizia ha precisato che a Roma, successivamente, fu incaricato da De Gennaro di
affiancarlo “nella gestione dei rapporti confidenziali che dovevano essere attivati con il
conte Vaselli su input dell’ufficio istruzione di Palermo, credo nella persona di Falcone’’.
Il rapporto confidenziale con Vaselli in realtà non durò che alcuni mesi e si sviluppò, ha
detto Pansa, “in tre o quattro occasioni”. Poi i rapporti cessarono perché Vaselli “aveva
lamentato vicende riguardanti la gestione degli appalti, senza fornire elementi utili’’, forse
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proprio “per il timore nei confronti del Ciancimino’’. Ma cosa raccontava Vaselli ai
superpoliziotti? “Vaselli – ha ricostruito il capo della polizia – aveva riferito di una vera e
propria lobby che gestiva gli appalti di cui Ciancimino era punto di riferimento, ma non era
sua intenzione esporsi formalmente contro don Vito, pur volendo affrancarsi da questa
pressione attraverso il ruolo di confidente di polizia”.
Non un intermediario tra De Gennaro e l’ex sindaco mafioso, come ha detto Ciancimino jr,
dunque: Vaselli era per Pansa un informatore attivo solo per un breve periodo, incapace di
fornire input realmente utili, che comunque mantenne rapporti con don Vito. E anche se la
sua deposizione ha di fatto ridimensionato il ruolo del prestanome, l’avvocato Roberto
D’Agostino, difensore di Ciancimino jr, esulta: “Il primo punto dell’accusa di calunnia –
spiega il legale – è costruito proprio sulle rivelazioni del mio cliente secondo cui De
Gennaro avrebbe svelato segreti investigativi al conte Vaselli per aiutare Vito Ciancimino a
eludere le indagini. Per noi da oggi risulta provato che Vaselli avesse un rapporto di
confidenza con De Gennaro e che l’oggetto del rapporto fosse proprio l’attività di don Vito:
Massimo, insomma, non ha detto una bugia’’.
Quella consegnata da Ciancimino jr agli inquirenti è in realtà la fotografia di un Vaselli che,
al contrario, informava don Vito in tempo reale delle attività investigative: nell’84, secondo
il suo racconto, il vecchio Ciancimino avrebbe saputo quasi in diretta che il pentito
Tommaso Buscetta stava facendo il suo nome: “Venne il conte Vaselli ad avvertirci –
aveva detto Massimo – ma mio padre lo sapeva già, grazie al signor Franco”. Così
sarebbero partite le contromisure dell’ex sindaco mafioso per salvare una parte del suo
patrimonio: appena 8 giorni prima del sequestro dei suoi beni (firmato l’8 ottobre 1984), in
effetti, le quote della società Etna Costruzioni erano state trasferite a Vaselli. “Mio padre
simulò la vendita a Vaselli – raccontò Ciancimino jr – così 2 miliardi e 400 milioni delle
vecchie lire furono messi al sicuro in Svizzera”. Il 3 novembre dell’84 don Vito fu arrestato.
Pansa ieri ha ribadito di non aver mai conosciuto Massimo Ciancimino: “Mi sono occupato
ancora – ha precisato – tra il ’92 e il ’93 di indagini riguardanti il patrimonio di suo padre,
che poi si fermarono perché questi aveva iniziato a collaborare con il Ros”. Il processo per
la calunnia nei confronti dello 007 Lorenzo Narracci e di Gianni De Gennaro (ex capo della
Dia, della polizia e del Dis e oggi di Finmeccanica), l’asso dell’antimafia che il figlio di don
Vito indicò come “il signor Franco”, prosegue lunedì con la deposizione di Luciana
Ciancimino.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 30/06/15, pag. 6
NAUFRAGIO DEL 18 APRILE
Saranno recuperati i corpi dei migranti
Su indicazione della presidenza del consiglio dei ministri sono iniziate nello Canale di
Sicilia le operazioni di recupero dei corpi dal peschereccio inabissatosi il 18 aprile scorso
con circa 700 persone a bordo. A comunicarlo è stata ieri una nota della Marina militare.
Le operazioni di recupero dei corpi adagiati sul fondo, a circa 370 metri, nelle vicinanze del
peschereccio sono affidate alla Marina militare che opererà con il cacciamine Gaeta,
un'unità navale da ricerca costiera, nave Leonardo, e nave Gorgona come unità di
supporto oltre ad un team del Gruppo operativo subacquei (Gos) di Comsubin. Il recupero
sarà effettuato con l'utilizzo dei veicoli a comando remoto in dotazione al Gruppo operativo
subacquei in grado di intervenire a quote profonde. Intanto sono 1.300 i migranti soccorsi
ieri nel Canale di Sicilia, a largo delle coste della Libia, nel corso di sei operazioni
coordinate dal Centro Nazionale Soccorso della Guardia Costiera. Sempre ieri sono state
inoltre portate a termine altre due operazioni di soccorso che hanno riguardato altri 200
migranti. Alle attività hanno partecipato nave Dattilo, della Guardia Costiera, una nave
militare irlandese, nave Thenix della onlus Maos, e, inoltre, due unità italiane e una
svedese inquadrate nel dispositivo Triton. In tutto sono 4.200 i migranti trattai in salvo negli
ultimi due giorni grazie a operazioni di soccorso coordinate dalla Guardia costiera nella
sala operativa di Roma.
Del 30/06/2015, pag. 16
Il piano Maroni “Chiudere le moschee come
in Tunisia”
L’ira delle associazioni islamiche “Già interdetti quattordici centri”
ZITA DAZZI
MILANO . Sono passati quattro giorni dalla strage a Sousse ma gli echi ancora arrivano in
Lombardia, dove il governatore Roberto Maroni coglie l’occasione per chiedere una stretta
sul diritto di culto degli islamici: «Se la Tunisia chiude le moschee, dopo l’attentato a
Sousse, vuol dire che quella è la strada da seguire, dato che la Tunisia non può essere
considerata un Paese contro l’Islam», dice, aggiungendo che la sua speranza è che «il
ministero dell’Interno e il governo non si facciano prendere da ideologismi, mettano in
primo piano la sicurezza dei cittadini e, se necessario, chiudano, anche, le moschee».
Dichiarazioni che rinforzano quelle dell’assessore all’Urbanistica Viviana Beccalossi (Fdi)
che da due giorni attacca il governo Renzi, reo di aver impugnato davanti alla Corte
Costituzionale la normativa regionale sui nuovi luoghi di culto, entrata in vigore a gennaio,
fra mille polemiche: «Renzi rinunci a cancellare la nostra legge. Noi non ci fermiamo: chi
non rispetta le regole, in Lombardia non costruisce moschee — tuona — Le Regioni
possono individuare strumenti che garantiscano maggior sicurezza e controllo. La nostra
legge va in quella direzione e alla luce di quanto sta avvenendo, si rivela non solo
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opportuna ma anche necessaria. C’è il rischio di commistione tra culto religioso e attività
parallele ». In effetti, la nuova legge sui luoghi di culto in Lombardia (dove risiedono oltre
400mila musulmani) prevede vari vincoli fra cui la distanza di sicurezza dalle chiese, la
consonanza al paesaggio lombardo, parcheggi smisurati e videosorveglianza. E alla legge
chiamata “antimoschee” si appellano i sindaci per cercare di chiudere i locali dove gli
islamici si trovano a pregare senza autorizzazioni. «Da gennaio a oggi abbiamo contato 14
ordinanze e provvedimenti contro nostri centri culturali, dove anche si prega, in assenza di
vere e proprie moschee», denuncia Davide Piccardo, portavoce del Caim, il
coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e lombardia. Le ordinanze di
chiusura — contro le quali il Caim ha presentato ricorsi al Tar — vengono sia da
amministrazioni di destra (Melegnano, Renate e Macherio), sia da giunte di sinistra
(Bergamo, Cinisello Balsamo, Cesano Maderno). All’elenco dei Comuni che chiudono i
centri islamici si aggiunge anche Milano, con i suoi 100mila fedeli musulmani, nessuna
moschea autorizzata e ben quattro ordinanze di chiusura. «Abbiamo chiesto un incontro
urgente al prefetto — spiega Piccardo del Caim — perché ci è negato il diritto di culto
riconosciuto dalla Costituzione. Siamo costretti a pregare negli scantinati, perché ci
vietano di costruire luoghi di preghiera. E per di più, ora ci danno anche la caccia».
Del 30/06/2015, pag. 16
Mao Mao, i fantasmi neri della stazione di
Crotone
Centinaia di migranti “arenati” sui binari dormono nei vagoni. Ma per la
città è un business e nessuno vuole che se ne vadano
di Lucio Musolino
Da queste parti li chiamano i “mao mao”. Si muovono come fantasmi neri. Non si può non
vederli. Sono ovunque. Sul ciglio della statale 106. In cambio di una monetina sbracciano
per indicarti il parcheggio nei pressi dell’ospedale di Crotone. E la sera li ritrovi all’inferno,
quello della stazione ferroviaria diventata un ghetto per disperati. Non solo clandestini, ci
sono pure quelli a cui è stato riconosciuto l’asilo politico con un regolare permesso di
soggiorno rilasciato dal Cara di Sant’Anna, uno dei più grandi centri di accoglienza d’Italia
che si trova a Isola Capo Rizzuto, a pochi chilometri da Crotone.
Scesi dal barcone, ufficialmente la loro permanenza al “campo” dovrebbe essere di
qualche settimana, giusto il tempo di accertare se considerarli “rifugiati politici”.
In realtà al Cara trascorrono molti mesi. Qualcuno anche un anno. Concluse le pratiche
per i documenti, però, iniziano i problemi. Se alcuni partono per il nord Europa, troppi non
sanno dove andare. Con un permesso di soggiorno di soli 6 mesi, decidono di fermarsi in
quel limbo tra Isola Capo Rizzuto e Crotone dove per prassi, visto che la legge
consentirebbe di recarsi in qualsiasi questura d’Italia, devono ritornare per il rinnovo dei
documenti. Quasi in 200 vivono alla stazione. Passa un treno al giorno. I pendolari si
contano sulle dita di una mano e, intanto, la banchina è divenuta un dormitorio con i
materassi sui binari o sul marciapiede che costeggia il magazzino della stazione. Di giorno
Trenitalia paga la vigilanza armata per i rimorchiatori parcheggiati su un binario morto.
Di notte, però, quella è la zona degli africani. Dall’altra parte, ci sono i pachistani. Sono
stipati all’interno dei vagoni merce in disuso, in quello spazio tra le rotaie e il gradino
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utilizzato dagli operai delle ferrovie per agganciare il mezzo alla locomotiva che dovrebbe
rimorchiarlo.
“Sono arrivato con il barcone a Lampedusa, poi mi hanno portato a Crotone”. Un ragazzo
senegalese non pensava che l’Italia fosse così: “Dopo il permesso di soggiorno di 6 mesi,
mi hanno detto: ‘Al campo hai finito, vai via’. Dormo alla stazione. Non ho parenti in
Europa. Dove vado?”. Il suo materasso è sulla banchina. La mattina si sveglia alle 6 e fa la
doccia sui binari con una pompa collegata a un rubinetto vicino alla biglietteria: “Veniamo
tutti qui. I bagni sono chiusi, non possiamo fare altrimenti”.
“Vieni a vedere come dormiamo – si sfoga un nigeriano – pensano che ci danno tanti
soldi solo perché siamo migranti. I 35 euro noi non li vediamo”. Dal marsupio tira fuori una
busta di plastica con i suoi documenti: “Mi hanno riconosciuto l’asilo politico. Ma di quale
protezione internazionale parlano se io dormo qui. Per gli italiani, possiamo morire”. Con
lui un pachistano. Non riesce a capire come è finito a Crotone. Ha attraversato mezzo
mondo per dormire tra i binari: “Chiediamo di essere trattati con rispetto”.
È periodo di ramadan e i musulmani iniziano a mangiare dopo il digiuno solo dopo le 22.
C’è un fuoco vicino ai rimorchiatori. È la pentola di un altro nigeriano che sta cucinando un
po’ di riso bollendo l’acqua presa dal rubinetto utilizzato dagli addetti alle pulizie per lavare
la banchina. Il suo pasto lo deve dividere con il vicino di materasso che, però, ha bevuto e
non gradisce i pachistani che già hanno mangiato grazie all’associazione On the road.
“La situazione dei migranti è molto seria. – racconta il volontario Oscar Bauckneht –
Diamo mediamente 220 pasti al giorno”. A Oscar non interessano le polemiche politiche:
“Salvini? Cerca voti. Si ha sempre paura del diverso, ma approfittarsene è da criminali. A
noi interessa fare volontariato e basta”. Il “camper della speranza” ogni giorno dà un pasto
caldo ai migranti abbandonati al loro destino, che non rientrano più nei vari progetti di
accoglienza.
“Qui a Crotone, i migranti sono un business”. Vuole restare anonimo, ma un volontario di
una di queste associazioni è disposto a spiegare come si guadagna con i “mao mao”. “Se
non ci fossero – dice – a Crotone ci sarebbero migliaia di disoccupati in più. Lo Stato c’ha
un business enorme. Dice che i migranti sono un problema, ma in realtà piacciono a tutti
perchè portano soldi per chi gestisce i progetti Sprar, quelli prefettizzi e il Cara. Pensa solo
alle società di catering che si spartiscono 4-5mila pasti al giorno. O al servizio di
lavanderia per i migranti. Ci sono avvocati che, da soli, presentano 4mila ricorsi all’anno a
25 euro a migrante. Per non parlare degli immobili affittati a queste associazioni dalle
famiglie ‘bene’ della città che incassano anche 15 mila euro al mese. Dopo ‘Mafia capitale’
tutti stanno aprendo più gli occhi, ma fino a pochi mesi non si sapevano certe cose”.
Intanto, altri mille migranti sono sbarcati ieri a Reggio Calabria. Nuovi “mao mao” destinati
ad alimentare un business tutto italiano. Almeno fino a quando non saranno abbandonati
all’inferno della stazione di Crotone.
del 30/06/15, pag. 10
Richard Sennett
I nemici giurati del legame sociale
Intervista. «L’essere umano ha una caratteristica che spesso rimuove: è
un animale portato a muoversi e spostarsi per vivere insieme ai suoi
simili. Chi respinge i migranti dimentica questa propensione sociale
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della natura umana, rimuovendo così il fatto che discende lui stesso da
altri migranti». Parla il sociologo statunitense
Riccardo Mazzeo
Richard Sennett è stato recentemente ospite del Premio Hemingway, giunto alla
trentunesima edizione, per la sezione “Avventura del Pensiero” a Lignano Sabbiadoro, una
sorta di anticipazione di «Pordenonelegge». È un uomo molto gentile e riservato, questo
sociologo settantaduenne caratterizzato da una schiera di ammiratori che in tutto il mondo
attendono ogni volta con ansia che esca un suo nuovo libro. Forse perché centellina i suoi
volumi, visto che il terzo libro del suo progetto «Homo faber», una trilogia iniziata nel 2008
con L’uomo artigiano e proseguita nel 2012 con Insieme. Rituali, piaceri, politiche della
collaborazione (entrambi pubblicati da Feltrinelli), si concluderà forse nel 2016 con il libro
sulle città e ha avuto una sola interpunzione, un piccolo libro titolato Lo straniero
pubblicato sempre da Feltrinelli. O forse perché nei suoi libri, mai semplici, si ritrova l’arte
dell’artigiano che raccomanda e di cui è maestro: forma e rigore ravvivati da qualche
contrappunto di ironia che non sconfina però nella brutalità o nella risata beffarda.
Si percepisce dal suo stile un amore profondo per l’«umano». E traspare anche dalla sua
riluttanza a rilasciare interviste frettolose: parlare dei destini del mondo in due minuti è
irrispettoso non solo per chi è chiamato a farlo dall’alto del suo magistero ma anche per i
lettori.
Nei suoi libri si è molto dilungato sulle caratteristiche del «nuovo capitalismo»,
mettendone in evidenza il loro lato oscuro…
Il nuovo capitalismo ha smantellato le istituzioni e ha trasformato le carriere in meri lavori.
Le carriere di un tempo richiedevano un impegno continuativo sia nella costruzione di un
corredo di competenze individuali, affidabili, salde, sia nella tessitura di un insieme di
relazioni sia verticali sia orizzontali.
Negli anni Sessanta e Settanta la negoziazione fra dirigenti e manodopera poteva anche
essere ruvida ma alla fine si giungeva comunque a un accordo che consentisse di andare
avanti. I quadri intermedi erano a conoscenza delle decisioni dei dirigenti, e la
consapevolezza della rotta comune era tale da motivare tutti. Esisteva anche una
propensione al sostegno reciproco dei lavoratori che, in caso di necessità, vuoi per un
dramma familiare, vuoi per il semplice scivolone di un collega che magari si era ubriacato,
si aiutavano e si coprivano affinché il lavoro procedesse e non ci fossero conseguenze
serie per nessuno. La potente individualizzazione del divide et impera odierno, il crescente
potere dei manager che non sanno ormai più nulla del lavoro che viene svolto e che hanno
interrotto la comunicazione con i quadri che lo eseguono ma che sono stati espunti da
qualunque potere decisionale congiunto, la scomparsa o l’estremo indebolimento di
strutture, corporazioni e associazioni a difesa dei lavoratori, mettono oggi l’uno contro
l’altro, così come inducono spesso proprio le categorie di lavoratori più svantaggiate a
guardare con sospetto o con odio agli immigrati che potrebbero rubare il posto a chi ce
l’ha e non sa se e fino a quando potrà conservarlo.
Il suo metodo interdisciplinare di indagine sociologica, che attinge dalla letteratura,
dall’arte e dalla musica, dipende dal Suo passato di violoncellista?
Senz’altro. Ricordo che ero bravo e mi piaceva moltissimo suonare da solo ma che facevo
davvero fatica a suonare con gli altri. C’era sempre qualche motivo di disaccordo e talvolta
mi provocava una sofferenza vera e propria dover rinunciare alla mia visione di come
avrebbe dovuto essere eseguito un brano perché gli altri musicisti erano animati da
un’altra prospettiva. Era una lotta continua con me stesso e con gli altri. Ma poi, riuscendo
attraverso la reciproca influenza a trovare una serie di soluzioni che consentivano
un’esecuzione congiunta infinitamente più significativa del suonare da soli, la
soddisfazione che se ne traeva ripagava delle tensioni e delle frustrazioni che la
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negoziazione aveva comportato. Si tratta di un processo di apprendimento faticoso ma
essenziale: ci si educa o si viene educati alla capacità di cooperare che è un’arte: un’arte
che oggi non viene più insegnata, che per certo in un’epoca che tende a cancellare la
figura del «maestro» non ci verrà insegnata dalla rete. Le persone sono fatte per vivere
insieme ma tale competenza va coltivata. La competenza dialogica dipende dalle capacità
di ascolto, dalle esigenze che traspaiono sotto le parole.
Il marxismo che si manifesta in filigrana in tutta la sua opera si ispira più al
socialismo sociale del XIX secolo che ai «massimi sistemi», segnalando una sua
sfiducia nella «politica»: è così?
In effetti non credo nei partiti politici, auspicherei piuttosto un decentramento in cui le
singole voci potessero avere un terreno comune in cui manifestarsi. La mia è anzi una
posizione «antipolitica», le persone che parlano insieme con una sola voce non mi
piacciono, sono contrario all’uniformità e all’omogeneizzazione. Sono cresciuto in un
quartiere difficile dove le opportunità per un ragazzo nero e povero erano inesistenti al di
fuori dell’affiliazione a una gang. Questi giovani sapevano che un percorso scolastico
sarebbe stato tempo perso per loro perché ne erano esclusi a priori. Ecco perché
preferisco le pratiche di socializzazione ai massimi sistemi: portare via un ragazzo dalle
gang ha bisogno di diplomazia sociale e di sensibilità. Mentre la spontaneità induce a
urlare e a cercare con ogni mezzo di accreditare la propria visione, la diplomazia sociale è
una competenza che può sul serio modificare le cose. Per riuscirvi, però, non bastano
certo i social network, c’è bisogno di qualcosa che vada oltre i messaggi denotativi
espliciti, il fatto di scrivere sì o no, e che coinvolga la comunicazione non verbale. I blog
sono deprimenti, definiscono tutto tramite le parole, manca un sopracciglio che si solleva,
o la mano che si posa su un braccio. Le nuove tecnologie, per quanto utili, possono
essere una tragedia perché costituiscono esperienze smaterializzate mentre noi esseri
umani abbiamo la necessità di esperienze incarnate.
Cosa pensa delle barriere che si sollevano un po’ dovunque nei confronti dei
migranti?
Provo tristezza e rabbia perché sembra che tutti quei paesi che un tempo vedevano la loro
gente emigrare e che adesso dovrebbero accogliere persone a loro volta costrette a
emigrare si comportano come gli Stati che negli anni Trenta e Quaranta si rifiutavano di
aprire le porte agli ebrei perseguitati dal nazismo e dal fascismo. Hanno dimenticato che
siamo stati tutti migranti, e chiudono le porte come carapaci. In realtà la società odierna mi
sembra, a differenza di quanto pensa Zygmunt Bauman, solida e impenetrabile. Nei secoli
XVIII e XIX la popolazione dell’Europa era molto povera e molto fluida, adesso invece si
sta rifascistizzando. Come fa l’Irlanda, che ha avuto l’emigrazione del 60 per cento della
sua popolazione, a sbarrare le porte ai migranti? Sotto questo aspetto l’Italia è stata ed è
più generosa.
C’è una eco «lacaniana» nel secondo dei due saggi che compongono il suo ultimo
volumetto «Lo straniero». Lo apre con l’opera di Manet «Il bar delle Folies-Bergère»
che, attraverso lo straniamento e la dislocazione suscitati dal dipinto, sembrano
suggerire l’impressione: «Guardo in uno specchio e vedo qualcuno che non sono
io». Sembra quasi un’indicazione di percorso non solo per lo straniero che deve
rielaborare la propria identità, ma anche per ciascuno di noi che siamo tanto più
inconsistenti e pericolanti quanto più ci sentiamo piantati con i piedi per terra in
un’autoimmagine inscalfibile.
Ho conosciuto personalmente Lacan e, se lui non mi è piaciuto come persona, apprezzo
però il suo genio. In Insieme avevo parlato dei tre modi di effettuare una riparazione. Il
primo è quello di ripristinare l’oggetto così com’era. L’equivalente di questo tentativo per
un migrante è la nostalgia e il desiderio che tutto torni così com’era. Fallimentare. Il
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secondo modo è quello di riparare l’oggetto rendendolo migliore di quanto fosse nel suo
stato originario. Insufficiente, giacché la rapidità di cambiamento del mondo
contemporaneo rende inadeguata qualche semplice miglioria a qualcosa che è stato
travolto da un’onda impetuosa. Il terzo modo, quindi, quello di trasformare l’oggetto in
qualcosa di nuovo, è l’unico che possa attagliarsi al migrante che sa di esserlo e
all’autoctono che è tale solo provvisoriamente, finché non sopraggiunga la possente onda
d’urto del cambiamento che preme.
Ne L’uomo artigiano avevo spiegato che la capacità creativa del protagonista del libro non
è nostalgica, non è rivolta a un passato da far risorgere, ma è la capacità di far nascere
qualcosa di nuovo. Voi italiani, che secondo me con un certo masochismo vi
autosvalutate, siete maestri nel generare nuove armonie, nuovi scenari di bellezza
inaudita, ma la lezione riguarda tutti noi: come aveva scritto Kant nel 1784 in Idea di una
storia universale dal punto di vista cosmopolitico, gli esseri umani sono tanto più favoriti
nello sviluppo quanto più riescono a tesaurizzare gli stimoli che arrivano da chi è diverso:
dunque, dobbiamo inventare soluzioni creative di convivenza.
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INFORMAZIONE
Del 30/06/2015, pag. 13
Diffamazione sul web, la legge dell’impunità
Multe più salate per i cronisti, ma la giustizia non è altrettanto severa
con chi denigra via mail o sui social network
di Valeria Pacelli
Una legione di imbecilli”, così Umberto Eco ha definito il web, parlando anche di una serie
di bufale incontrollate. E se qualcuno fosse d’accordo, leggendo le sentenze degli ultimi
anni, dovrebbe dire “imbecilli e denigratori” per la miriade di offese sui vari siti.
Chi insulta spesso cela la propria identità dietro un nickname e questo tante volte basta
per evitare una condanna per diffamazione. Firmarsi con uno pseudonimo sembra
conferire una sorta di impunità. Anche se la denuncia c’è, identificare il soggetto è sempre
più difficile: le sedi legali di molti siti si trovano all’estero e le rogatorie dei pm per ottenere
informazioni restano spesso senza risposta. Così l’indagine risulta costosa e inutile, quindi
il caso è archiviato.
Ogni giorno le Procure italiane vengono inondate di denunce per diffamazione sul web. E
se da un lato è in via d’approvazione una riforma che punisce con pene pecuniarie più
salate (eliminando il carcere) editori e giornalisti della carta stampata; dall’altro rimane
l’apparente vuoto normativo sulla diffamazione via internet.
L’orientamento di numerose Procure, anche di quella romana che ha inserito questo
principio in tante richieste di archiviazione, si chiama “desensibilizzazione oggettiva”. Si
applica al web la stessa della politica in base alla quale non sussiste il delitto di
diffamazione perché l’utilizzo di termini pungenti (non però volgari e gratuitamente
offensivi) viene inteso nella dimensione pubblica del destinatario e del personaggio. Così
l’agorà telematica diventa come quella politica.
Ma vediamo, attraverso qualche caso, la giurisprudenza sulla diffamazione sul web. Uno
dei principi stabiliti dalla Cassazione esclude la punibilità dei direttori dei giornali on line e
dei gestori di blog o forum quando ospitano insulti nei commenti degli utenti. Possono
essere processati per i messaggi offensivi solo quando c’è un diretto concorso per
diffamazione, non più per omesso controllo come accade ai direttori dei giornali.
È successo ad esempio nel 2010 all’amministratore di un blog di Varese “Amici di Beppe
Grillo”: è stato assolto dal reato di diffamazione, dopo che una persona lo aveva
denunciato per un commento offensivo sul sito. Questo principio viene applicato non solo
ai blog, ma anche ai forum: l’ingente massa di commenti non è gestibile. La Cassazione si
è anche pronunciata sulle mail denigratorie inviate dagli internet point. Una sentenza del
2008 afferma che non vi è responsabilità penale dei gestori dei punti internet per non aver
impedito l’invio di quelle mail. Il gestore quindi non è perseguibile per omesso controllo.
È il caso che ha avuto come protagonista il padre di Striscia la Notizia, Antonio Ricci, dopo
alcune mail diffamatorie ricevute sulla posta del Gabibbo. Era stato denunciato anche il
gestore di un internet point di Perugia che non aveva registrato la persona che aveva
usato il pc dal quale erano state mandate la mail. La Cassazione non però ha affermato
che non si poteva condannare per omesso controllo, si trattava solo di violazione
amministrativa. Altra questione interessante è quella dei nickname: oltre la difficoltà
dell’identificazione, c’è un particolare orientamento per cui l’anonimato rende il messaggio
diffamatorio meno autorevole. Personaggi pubblici o meno, tanti devono affrontare insulti
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ingestibili. E se Paola Ferrari nel 2012 ha annunciato di voler denunciare la piattaforma
Twitter per le troppe offese, dopo la conduzione di Stadio Europa, Enrico Mentana, davanti
a tanti insulti, è uscito dal mondo dei cinguettii. E così di fronte al “denigratore” sul web si è
tutti un po’ impotenti.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 30/06/15, pag. 6
Scuola
Un referendum contro Renzi-Pirro
Roberto Ciccarelli
Disobbedienza civile, referendum abrogativo e l’indicazione di un’alternativa. Di questo si
discute nel movimento della scuola dopo l’approvazione del Ddl Renzi-Pd al Senato
giovedì 25 giugno. I comitati che hanno promosso lo sciopero della fame a staffetta in
Emilia Romagna oggi hanno convocato un’assemblea regionale nella chiesta evangelica
metodista in via Venezian a Bologna (ore 18,30) per continuare la mobilitazione in vista
dell’approvazione definitiva del 7 luglio alla Camera per «evidenziare un atto di arroganza
inaccettabile» scrivono su Facebook.
Alla loro lotta continuano ad unirsi docenti e genitori in tutto il paese. In un gazebo allestito
in via Duomo a Corato, in provincia di Bari, domenica scorsa è iniziato uno sciopero della
fame che durerà una settimana. Oltre alla chiamata diretta del preside-manager,
considerato un vulnus alla libertà di insegnamento, i docenti protestano anche contro le
otto deleghe in bianco lasciate al governo. Al presidente della Repubblica Mattarella i
docenti chiedono di non firmare la legge. È prevedibile che il loro appello sarà ripreso da
molte persone nell’imminenza dell’ultimo voto alla Camera. Due sono le idee per
continuare la mobilitazione a settembre.
La prima è raccogliere «almeno due milioni di firme necessarie» per indire un referendum
abrogativo della contestatissima riforma «e ottenere il quorum», scrivono i comitati
bolognesi. «Se non si raccolgono le firme necessarie, se si sbaglia il quesito, se non si
raggiunge il quorum – scrive su Facebook Giovanni Cocchi, docente bolognese e autore di
un cliccatissimo video di risposta allo spot di Renzi alla lavagna — ci si condanna, nel
migliore dei casi, ad un’inutile “vittoria morale”; nei fatti alla concreta impossibilità di
“tornarci sopra” per i prossimi due secoli». Il referendum «deve partire dagli insegnanti
genitori e studenti — aggiunge Cocchi — Va detto con grande franchezza che “intestarsi”
il referendum costituirebbe un grave errore se non addirittura un grave danno». Quando
«si combatte una legge ingiusta, è doveroso – oltre che più convincente – saper indicare
un’alternativa giusta» conclude Cocchi. I 34 comitati per la legge di iniziativa popolare
«Per una buona scuola per la Repubblica» (Lip) si attiveranno per la raccolta firme per il
referendum.
Seconda ipotesi per la mobilitazione: uno «sciopero nazionale» per il primo giorno di
scuola a settembre. È una richiesta più volte emersa nelle ultime manifestazioni dai
docenti che hanno trascinato i sindacati in una lotta senza quartiere contro Renzi e il
partito democratico dallo sciopero generale del 5 maggio a oggi. L’appello è alla
«disobbedienza civile», è rivolto anche ai sindacati ed «è un imperativo morale che ogni
insegnante eserciterà come sente».
Non meno duri con il governo Renzi sono i toni usati dai massimi esponenti sindacali.
«Vorrei che nessuno si facesse l’illusione che basti un altro voto di fiducia alla Camera per
chiudere la partita — ha detto la segretaria generale Cgil Susanna Camusso ieri a
Bologna– La verità è che si stanno determinando le condizioni per cui la scuola, da
settembre, sia ingovernabile». Il governo «deve sapere che sta commettendo ingiustizie
straordinarie e mette in discussione uno strumento fondamentale per l’unità del paese e
per il suo futuro».
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Carmelo Barbagallo, segretario generale Uil, riflette sulle 102.734 assunzioni dei docenti
precari, divisi in tre fasi, come previsto dai commi 94–104 del maxiemendamento che oggi
sarà discusso dalla VII commissione alla Camera: «Renzi userà le assunzioni come foglia
di fico per coprire le vergogne di una riforma sgangherata di cui non c’era bisogno per
dare stabilità ai precari che sono preoccupati di restarne succubi — ha detto Barbagallo —
Questa riforma è inapplicabile e resterà inattuata. È rimandata a settembre e allora si
faranno i conti».
«Quella di Renzi è la vittoria di Pirro. I docenti non accetteranno mai di perdere la libertà di
insegnamento, di essere assunti e licenziati da un preside-padrone, di essere premiati o
puniti da un “gran Giurì” composto da colleghi, più uno studente e genitori che nulla sanno
per valutarli, e che instaurerebbero un potere assoluto, alla Marchionne, in ogni istituto»
rilancia Piero Bernocchi (Cobas). Di tutta risposta, è arrivata la conferma che la
componente della minoranza Pd «Sinistra è cambiamento» voterà la fiducia al governo.
«Credo che sia un bene che questa riforma proceda — ha detto Cesare Damiano che
definisce «oggettivi» i cambiamenti del testo al Senato, anche se non soddisfano
pienamente una minoranza che è stata annientata da Renzi con la fiducia.
La protesta continua a piazza Montecitorio martedì 7 luglio.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 30/06/15, pag. 12
La globalizzazione dello sfruttamento
Intervista. Il regista italo-americano parla di «Mediterranea», il suo film
visto a Cannes e oggi al Festival di Monaco. Il dramma dei migranti
clandestini, dal deserto a Gioia Tauro
Giovanna Branca
È nato a New York , ma adesso vive in Calabria Jonas Carpignano, regista italoamericano
– padre romano, madre afroamericana – classe 1984 che abbiamo visto alla Semaine de
la Critique di Cannes con il suo Mediterranea, proiettato oggi al Festival di Monaco nella
sezione International Independents. In Calabria ci è arrivato nel 2010, quando è scoppiata
la rivolta dei migranti a Rosarno: «la prima volta – dice — che una comunità di migranti è
scesa in piazza contro le ingiustizie che subiva». E il suo Mediterranea racconta proprio
questo: l’epopea di Koudous, che dal Burkina Faso attraversa il deserto per poter salpare
verso l’Italia e approda nella piana di Gioia Tauro, dove lavora raccogliendo arance per
pochi spiccioli l’ora. L’umanità che lo circonda ha tutte le sfumature del grigio: il piccolo
contrabbandiere Pio, per sopravvivere smercia e ricompra telefonini, lettori mp3 ed ogni
genere di oggetto; la famiglia che lo fa lavorare illegalmente ma lo accoglie tra le mura
domestiche; la gente del paese e la sua ostilità; i compagni di avventura vittima delle
stesse frustrazioni e della stessa nostalgia di casa. Quello che doveva essere un breve
lavoro sui «riots» è diventato un film, anche se la sua prima manifestazione è proprio un
cortometraggio, A Chijana, passato a Venezia nel 2011 a Venezia dove si affrontava –
spiega il regista — «ciò che si prova durante e soprattutto dopo una rivolta del genere, il
momento in cui ci si chiede se ne sia valsa la pena, se si siano ottenute le cose per cui è
iniziata». L’anno scorso, sempre a Cannes, Carpignano ha portato un altro corto – A
Ciambra – il preludio di un lungometraggio che ha intenzione di dedicare al piccolo Pio, il
bambino che rifornisce buona parte di Rosarno di beni assortiti di dubbia provenienza.
Spunti, persone e momenti di vita vissuta a comporre quel lavoro originalissimo nel
panorama italiano che è Mediterranea, a metà tra il documentario – i protagonisti sono
proprio i diretti interessati e le loro esperienze – e il film di finzione la cui sceneggiatura si
scrive giorno per giorno, con uno stile che Carpignano chiama guerrilla filmmaking.
Cosa intende con questa definizione?
L’idea era girare un film non convenzionale. Riguarda dei migranti «clandestini», che
ovviamente sono difficili da assumere, ed è già un conflitto. Non volevo essere costretto
ad andare a Roma per fare un casting e portare in Calabria le stesse quaranta facce che
si vedono ogni volta che in un film italiano c’è una persona nera. Per cui abbiamo dovuto
stabilire le nostre regole e percorrere un sentiero diverso, e di conseguenza privarci di
molte delle cose che servono ad una produzione normale. Ci siamo inventati dei modi per
aggirare gli ostacoli mano a mano che andavamo avanti, in modo spesso non molto
professionale. Ma ciò che ci manca in esperienza e praticità lo recuperavamo attraverso il
desiderio di fare le cose bene.
Anche dal punto di vista produttivo il film è anticonvenzionale.
Ho avuto la fortuna di partecipare al Sundance Lab: sono stati loro ad aprirmi il mondo
della produzione indipendente. Se non fosse stato così sarei probabilmente andato al
Ministero ed avrei seguito la trafila tradizionale. Ripensandoci però non avrebbe
funzionato: i soldi dello Stato ti obbligano a rispettare molte regole, a rendere conto a
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qualcuno. Cercare e mettere insieme i soldi da soli, seguendo il modello del cinema
indipendente americano, ci ha dato invece la libertà di fare quello che volevamo e di
lavorare con chi preferivamo: italiani, francesi, africani, americani…
Come ti sei messo sulle tracce del percorso che porta dall’Africa in Italia, e poi
proprio in Calabria?
Ho fatto il percorso io stesso partendo dal Burkina Faso, passando per il Mali e
cominciando a fare la traversata a piedi del deserto. A Timbuktu ho incontrato molte
persone con cui ho continuato la strada, ma poi mi sono dovuto fermare al confine
algerino perché le cose si sono fatte troppo pericolose. Per cui sono tornato in Italia e
l’anno successivo sono andato in Libia, che è il posto in cui è più semplice raccogliere
delle storie su questa esperienza, di cui mi sono servito per riempire le parti di tragitto che
non avevo potuto fare in prima persona. Date le mie radici, ho sempre voluto fare un film
sulle questioni razziali in Italia. Poi i «riots» di Rosarno mi hanno spinto ad andare lì, dove
ho trovato un gruppo di persone disposte a confrontarsi, che non erano spaventate a
parlare di ciò che stava succedendo.
Il film è a metà tra documentario e finzione.
Più di ogni cosa è una collaborazione: sentivamo di stare facendo un lavoro insieme.
Anche scrivendo la sceneggiatura utilizzavamo delle cose che ci succedevano
quotidianamente e che trovavamo emblematiche dell’esperienza in Calabria. Ad esempio,
la scena in cui un ragazzo da una pacca sul sedere ad una delle donne nere, scatenando
una rissa, ci è successa davvero due anni fa. E la persona che lo fa nel film è proprio
quella di quel giorno: in seguito si è scusato ed ora siamo amici. Abbiamo cercato di fare
in modo che la vita entrasse nel film, che rimodellavamo giorno dopo giorno.
Del 30/06/2015, pag. 33
Mondadori-Rizzoli, un affare da 135 milioni
Presentata ieri l’offerta di Segrate, nei prossimi giorni al vaglio del cda
Rcs
Mario Baudino
L’offerta è scattata ieri, come previsto, e trattandosi di società quotate in borsa se n’è
avuta conferma a mercati chiusi: la Mondadori ha fatto la sua proposta vincolante per
acquistare la Rcs libri. A livello ufficiale non si fanno cifre, ma ufficiosamente si sa che
dovrebbe aggirarsi intorno ai 135 milioni di euro, come già anticipato.
Ora Rcs convocherà un cda straordinario, e tutto fa pensare che l’offerta verrà accettata. Il
futuro colosso Mondadori-Rizzoli (40% del mercato italiano) a quel punto passerà al vaglio
dell’Antitrust (anche qui non dovrebbero esserci grossi problemi) e si avvierà in tempi
rapidi in dirittura d’arrivo. Niente sembra più poterlo veramente fermare, anche se
potrebbero esserci proteste e petizioni nel mondo culturale italiano, dopo il manifesto
firmato qualche tempo fa da Umberto Eco e centinaia di intellettuali contro quella che ai
loro occhi appare una seria minaccia al pluralismo culturale.
Da Segrate, per ora, bocche cucite, anche se filtrano indicazioni sul futuro del gigante: non
sarebbe rigidamente accentrato, come del resto già non lo è la nuova Mondadori, che
lascia alle diverse case editrici - basti pensare all’Einaudi - un ampio margine di
autonomia, e non lo sarà neppure, almeno per un bel po’, dal punto di vista degli uffici. A
Segrate, nella struttura bella ma sempre meno funzionale progettata da Oscar Niemeyer e
realizzata negli Anni Settanta, non c’è più posto. La Rcs «mondadoriana» potrebbe
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rimanere nel palazzo Rizzoli (non interessato dall’operazione editoriale), pagando un
affitto, ancora per un bel po’ di tempo, o avere nuovi uffici a Milano.
La mega acquisizione, per una curiosa coincidenza, ha intanto il suo momento chiave nei
giorni decisivi di quello che potrebbe essere l’ultimo Strega della stagione dei grandi
gruppi - e si assegna giovedì. Fino a quest’anno sono loro i protagonisti, ogni gruppo un
libro. Dalle molte telefonate di sollecito ai giurati, per esempio, è emerso quest’anno che la
Mondadori punta sull’einaudiano Nicola Lagioia (La ferocia) per la vittoria finale,
sacrificando il candidato «di casa» Fabio Genovesi. Non che i premi siano il problema
maggiore, ma sarà curioso vedere che cosa succederà l’anno prossimo, quando i «grandi
gruppi», da tre che erano, saranno diventati due: uno grandissimo, e uno, Gems,
decisamente meno.
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