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RASSEGNA STAMPA martedì 30 giugno 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI CULTURA E SPETTACOLO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Repubblica.it del 26/06/15 Bambini di strada in pista nei circhi sociali con Circomondo Il festival internazionale del circo sociale per accendere i riflettori sui diritti dell'infanzia. La tre giorni vedrà protagonisti circhi sociali in arrivo da Roma, Napoli, Brasile, Palestina, Afghanistan, Spagna e Kenia. Oggi nel mondo vivono in strada da 150 a 500 milioni di ragazzini. Nel 2020 potranno essere 800 milioni ROMA - Ragazzi e bambini di strada in arrivo dalle zone e dai quartieri più degradati di Rio de Janeiro, Beirut, Kabul, Valencia, Nairobi, Roma e Napoli scendono in pista a San Gimignano con Circomondo, Festival internazionale di circo sociale per accendere i riflettori sui diritti e la tutela dei minori nel mondo. L'appuntamento è in programma da venerdì 26 a domenica 28 giugno e vedrà protagonisti venti bambini e ragazzi tra gli 11 e i 20 anni strappati da situazioni di forte disagio e inseriti in progetti di recupero sociale attraverso l'arte circense. I bambini di strada nel mondo. Si stima che le bambine e bambini tra i 3 e 14 anni che vivono per strada siano tra i 150 e i 500 milioni, pari al 7 per cento della popolazione mondiale e al 27 per cento dei bambini sotto i 15 anni di età (dati Rapporto Unicef, 2012). 150 milioni di bambine e 73 milioni di bambini sotto i 18 anni, inoltre, sono sottoposti a rapporti sessuali forzati o ad altre forme di violenza. (I bambini che vivono in strada spesso non sono neppure registrati all'anagrafe. La maggior parte delle indagini volte a quantificarne il numero globale sono quindi approssimative, rese ancor più complesse dall'inesistenza di un consenso internazionale circa la definizione di 'bambino di strada'. Nel 2020 arriveranno ad essere circa 800 milioni). Giocolieri, acrobati, clown, equilibristi. Nei tre giorni della manifestazione, i piccoli artisti animeranno le vie e le piazze della città trasformandosi in giocolieri, acrobati, clown, equilibristi e trapezisti e in ambasciatori dei progetti di circo sociale da cui provengono. Non mancheranno, inoltre, occasioni di riflessione e coinvolgimento sul tema dell'esclusione e della marginalizzazione sociale dei minori nel mondo attraverso seminari di approfondimento, mostre, laboratori per bambini e proiezioni di film-documentari. Nelle giornate di sabato 27 e domenica 28 giugno, il Festival vedrà il suo momento più importante con lo spettacolo circense inedito "Bing Bang Circus - Un viaggio nel mondo", curato dal regista Emmanuel Lavallè, dove saranno protagonisti assoluti i piccoli ospiti, per la prima volta insieme nella performance, e i loro accompagnatori. Nella giornata di sabato 27 giugno, inoltre, Circomondo sarà inserito nel programma di Nottilucente, manifestazione promossa dal Comune e che animerà San Gimignano dalle ore 17 fino a tarda notte, trasformando la città in un palco a cielo aperto. Cos'è il circo sociale. Il circo sociale si rifà a una metodologia pedagogica di integrazione sociale, avviata negli Stati Uniti negli anni Venti per recuperare i bambini vittime della Grande Depressione, facendo leva sulla loro creatività attraverso l'arte circense. Da allora, il circo sociale si è diffuso in tutto il mondo come metodo educativo per lavorare con i bambini e i ragazzi emarginati o in condizioni di rischio e svilupparne l'autonomia, l'autodisciplina, il senso di dignità e la responsabilità personale. 2 Circomondo e Carretera Central: i protagonisti. Circomondo nasce dall'esperienza maturata negli anni dall'associazione Carretera Central - braccio della cooperazione internazionale dell'Arci di Siena - nel circo sociale in Brasile, a Cuba e in altri Paesi del Sud del mondo. Su queste basi, l'associazione sta portando avanti un progetto di circo sociale ad Haiti, a Port-au-Prince. La prima edizione di Circomondo si è svolta a Siena nel gennaio 2012 con bambini e ragazzi in arrivo dalle favelas di Rio de Janeiro, dalle periferie di Buenos Aires, dai sobborghi di Ramallah (Palestina) e dai quartieri più difficili dell'hinterland napoletano (Barra e Scampia). Nella sua seconda edizione in programma a San Gimignano, Circomondo vedrà protagonisti i circhi sociali Crescer e Viver, da Rio de Janeiro (Brasile); Al Jana, da Beirut (Libano/Palestina); Mobile Mini Circus for Children, da Kabul (Afghanistan), A. p. e. c C. V, da Valencia (Spagna); NAFSI Africa, da Nairobi (Kenya); Piccolo Circo di Roma e Tappeto di Iqbal di Napoli. Il premio: "Bambini che cambiano il mondo". Circomondo dedicherà al tema dei diritti dell'infanzia anche il Premio artistico "Bambini in pista che cambiano il mondo", rivolto agli alunni delle scuole primarie e secondarie di tutta Italia e alle associazioni giovanili. Il Premio prevede la presentazione di elaborati artistici realizzati con tecnica a piacere e dedicati al tema dei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza e alla metodologia pedagogica del circo sociale, che valorizza l'arte e la cultura come strumento di integrazione verso bambini e adolescenti a rischio di esclusione sociale. Gli elaborati potranno essere presentati entro il 18 giugno e il primo premio prevede attrezzature didattiche per un valore di 750 euro. Per conoscere il bando e le modalità di partecipazione consultare il sito di Circomondo. Promotori e sostenitori. Circomondo 2015 è organizzato dall'associazione di volontariato e cooperazione internazionale Carretera Central in collaborazione con il Comitato dell'Arci di Siena, con il contributo della Chiesa Valdese e in partnership con l'Arci nazionale e regionale Toscana e il Consorzio Nazionale NOVA. La manifestazione conta anche sul patrocinio di Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, Comune di San Gimignano e Regione Toscana, oltre ad altri enti nazionali e internazionali e partner locali. Informazioni e social network. Per saperne di più su Circomondo, è possibile consultare il sito e visitare le sezioni di approfondimento sul Festival. Circomondo è anche sui social network Facebook, Twitter e Instagram. Su You Tube, inoltre, è possibile vedere i video dell'edizione 2012. http://www.repubblica.it/solidarieta/volontariato/2015/06/26/news/arci-117780761/ Da DazebaoNews e Articolo21 del 27/06/15 Terrorismo. Solo una politica di pace e cooperazione può fermare l’Isis ROMA – “Tunisia, Kuwait e Francia sono al centro di terribili e feroci attentati. Se nel caso francese la matrice dell”attentato è per ora più incerta, non vi sono dubbi che i 25 assassinati dal kamikaze in Kuwait e la strage di Sousse in Tunisia facciano parte dell”offensiva sanguinosa che l’Isis ha deciso di scatenare proprio in occasione del Ramadan. Ancora una volta si colpisce la Tunisia. Non a caso”. E’ l’Arci a sottolineare che “è qui che la primavera araba ha dato i frutti più duraturi”. “E’ qui che il fondamentalismo religioso non ha sfondato. E’ qui che le istituzioni e la società civile si ergono a barriera dei nuovi spazi democratici. Tutto questo -si legge in una nota- si oppone di fatto alle mire espansionistiche del califfato. Quindi deve essere abbattuto. E’ una logica crudele che non conosce remore. La Tunisia viene colpita in uno dei punti chiave della sua economia: il turismo. Purtroppo il Consiglio europeo é più impegnato in una vera e propria guerra 3 contro i migranti piuttosto che a trovare un nuovo piano per fermare l’Is ed aiutare la democrazia nella regione mediterranea”. “Ma difendere la democrazia in Tunisia dev”essere una priorità assoluta, nello stesso interesse dell’Europa, perché è dalla frustrazione sociale e dalla mancanza di lavoro che traggono alimento le culture violente e reazionarie”. “Per questo -prosegue l”Arci- l”Europa dovrebbe sollevare dal debito quel paese, debito accumulato durante la dittatura di Ben Alì, il pagamento dei cui interessi privano la Tunisia di qualsiasi possibilità di investimenti pubblici per l”occupazione. Vanno fermati gli accordi di libero scambio completo e approfondito (ALECA), che aprono all”invasione delle multinazionali e distruggono la fragile economia locale”. “Questo serve -viene rilevato- per fermare anche il terrorismo, di sicuro non un nuovo intervento militare, dal momento che sono stati i precedenti ad alimentarlo. Insieme a una lucida politica di pace, di cooperazione e di solidarietà. E” ciò che manca e per cui ci battiamo”. http://www.articolo21.org/2015/06/terrorismo-solo-una-politica-di-pace-e-cooperazionepuo-fermare-lisis/ Da Si24.it del 27/06/15 Sale l'allerta Isis, sventato attentato terroristico a Londra In Tunisia chiuse 80 moschee, turisti in fuga di Redazione. Categoria-: Esteri Il giorno dopo la strage di Sousse e l’attentato di Lione, l’Europa torna a temere la minaccia jihadista dell’Isis. Secondo quanto riportato da “The Sun”, l’unità antiterrorismo di Scotland Yard avrebbe sventato un attentato terroristico a Londra. Il piano di un gruppo di jihadisti legati all’Isis, prevedeva di far esplodere un ordigno durante la parata con cui si celebra il giorno delle forze armate nella capitale britannica. Una vera e propria escalation di terrore alla quale tutti i principali governi dell’area del Mediterraneo provano a reagire. “Ormai la domanda non è più se ci sarà un attentato, ma quando”, ha detto il premier francese, Manuel Valls. “È difficile per una società vivere per anni sotto minaccia, ma la Francia deve imparare a convivere con la minaccia costante di attentati terroristici”, ha quindi aggiunto. Il governo tunisino guidato da Habib Essid, ad esempio, ha deciso la chiusura di 80 moschee non controllate dallo Stato, per incitamento alla violenza. Un provvedimento tampone al quale ne seguiranno altri ben più drastici. Ed è proprio il massacro tunisino a preoccupare maggiormente, in primis per la sua portata simbolica: “Ancora una volta si colpisce la Tunisia. Non a caso – ha sottolineato l’Arci – È qui infatti che la primavera araba ha dato i frutti più duraturi”. Intanto migliaia di turisti lasciano il Paese. È di almeno 15 morti il bilancio dei turisti britannici rimasti uccisi nell’attacco terroristico a Sousse. Lo ha confermato il Foreign Office, scrive la Bbc, mentre il sottosegretario agli Esteri Tobias Elwood ha avvertito che il bilancio potrebbe ancora salire. Si tratta, ha detto, “del più grave attentato contro cittadini britannici” da quelli del 7 luglio 2005 a Londra. “È qui che il fondamentalismo religioso non ha sfondato. È qui che le istituzioni e la società civile si ergono a barriera dei nuovi spazi democratici – prosegue la nota – Tutto questo si oppone di fatto alle mire espansionistiche del califfato. Quindi deve essere abbattuto. È una logica crudele che non conosce remore”. 4 Un attentato mirato: “La Tunisia viene colpita in uno dei punti chiave della sua economia: il turismo. Purtroppo il Consiglio europeo é più impegnato in una vera e propria guerra contro i migranti – accusa l’Arci – piuttosto che a trovare un nuovo piano per fermare l’Is ed aiutare la democrazia nella regione mediterranea”. “Ma difendere la democrazia in Tunisia dev’essere una priorità assoluta, nello stesso interesse dell’Europa, perché è dalla frustrazione sociale e dalla mancanza di lavoro che traggono alimento le culture violente e reazionarie“. La soluzione? “L’Europa dovrebbe sollevare dal debito quel paese, debito accumulato durante la dittatura di Ben Alì, il pagamento dei cui interessi privano la Tunisia di qualsiasi possibilità di investimenti pubblici per l’occupazione“. “Vanno fermati gli accordi di libero scambio completo e approfondito (ALECA), che aprono all’invasione delle multinazionali e distruggono la fragile economia locale”. In sostanza: “Questo serve per fermare anche il terrorismo, di sicuro non un nuovo intervento militare, dal momento che sono stati i precedenti ad alimentarlo. Insieme a una lucida politica di pace, di cooperazione e di solidarietà – conclude l’Arci – È ciò che manca e per cui ci battiamo”. http://www.si24.it/2015/06/27/isis-attentato-londra-in-tunisia-chiudono-80-moschee/96837/ Da Redattore Sociale del 30/06/15 Arci al fianco della Grecia, "per un’Europa fondata sui valori, non sulla finanza e la tecnocrazia" L’associazione descrive la situazione in atto e lancia una petizione. “Raccogliamo l’invito di tante organizzazioni sociali europee per l’organizzazione di una settimana straordinaria di mobilitazione, invitiamo i nostri soci e tutti i cittadini a sottoscrivere la nostra petizione” ROMA - La crisi greca vista dall’Arci, L’associazione, in una nota, così descrive la situazione in atto: “Si contrappongono, come non mai, due visioni di Europa. Una ostinatamente perseverante in politiche di austerity che hanno aumentato disuguaglianze e compresso i diritti. Un'altra invece che guarda al primato della politica e della pratica della democrazia e della solidarietà”. L’associazione si schiera al fianco del popolo greco, partendo dal presupposto che “da troppo tempo il progetto dell'Europa unita resta schiacciato su uno schema in cui la politica soggiace alle ragioni della tecnocrazia e della finanza. Di fronte alla resistenza del governo greco, questo schema ha generato un cortocircuito che non solo rischia di abbattersi sui cittadini ellenici ma mette in pericolo le basi che fondano il progetto dell'Europa unita. Per questo pensiamo che in queste ore drammatiche stiamo assistendo ad una crisi che travalica il conflitto tra Grecia e vertici Ue. Quanto al referendum a cui sarà chiamata la Grecia, l’Arci afferma: “La possibilità che avrà domenica prossima il popolo greco di esprimersi sulla proposta dell'ex trojka rappresenta un sussulto di dignità, sovranità, democrazia, in questo buio passaggio della storia dell'Unione europea. Potrà rappresentare un'altra visione dell'Europa unita, quella secondo cui al centro ci sono i popoli e la democrazia. Raccogliamo l’invito di tante organizzazioni sociali europee per l’organizzazione di una settimana straordinaria di mobilitazione, invitiamo i nostri soci e tutti i cittadini a sottoscrivere la nostra petizione” 5 La petizione dell’Arci. Una petizione dal titolo “No all’austerità, sì alla democrazia!”, in cui si ribadisce che “l'Europa è a un bivio. Non stanno solo cercando di distruggere la Grecia, stanno cercando di distruggere tutti e tutte noi. È il momento di alzare la nostra voce contro i ricatti delle oligarchie europee. Domenica prossima – si legge nella petizione - il popolo greco potrà decidere di rifiutare il ricatto dell'austerità votando per la dignità, con la speranza di un'altra Europa. Il momento storico impone a ciascuno in Europa di schierarsi. Diciamo NO all'austerità, ad ulteriori tagli alle pensioni, ad altri aumenti delle imposte indirette. Diciamo NO alla povertà e ai privilegi. Diciamo NO ai ricatti e alla demolizione dei diritti sociali. Diciamo NO alla paura e alla distruzione della democrazia. Diciamo insieme SÌ alla dignità, alla sovranità, alla democrazia e alla solidarietà con il popolo greco”. “Ma questa non è una questione tra la Grecia e l'Europa – conclude ancora l’appello -. Riguarda due visioni contrapposte di Europa: la nostra Europa solidale e democratica, costruita dal basso e senza confini. E la loro versione che nega la giustizia sociale, la democrazia, la protezione dei più deboli, la tassazione dei ricchi. Basta! È troppo! Un'Altra Europa è possibile ed è davvero necessaria. Costruiamo un forte OXI, un chiaro NO europeo e partecipiamo al nostro referendum, on line e fisicamente nelle piazze di tutta Europa. In questo momento storico, facciamo appello al popolo europeo, ai sindacati, alle forze politiche, alle organizzazioni e movimenti sociali a esprimere il loro NO visibile alla austerità venerdì 3 luglio in tutta Europa. Troviamo il nostro modo per dire NO in tutte le lingue d'Europa! Troviamo il nostro modo per dire OXI!”. “Domenica sarà un giorno decisivo per l'Europa. Per noi, popolo europeo. Per i nostri sogni, per le nostre speranze. Ma non dobbiamo dimenticare che non sarà l'ultimo nella strada della lotta comune per un'altra Europa, fatta dalle persone e al loro servizio. Continueremo a difendere la democrazia”. Da Redattore Sociale del 26/06/15 Razzismo, Erri De Luca e Wu Ming tra gli ospiti del Meeting di Cecina Dal 1 al 5 luglio il tradizionale appuntamento promosso da Arci e Regione Toscana. L’assessore Saccardi: “Evento che contribuisce a far crescere la coscienza civile sulla lotta alle discriminazioni” FIRENZE - Lo scrittore Erri De Luca, il comico Giorgio Montanini e il collettivo Wu Ming, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. Sono alcuni degli ospiti della XXI edizione del Meeting internazionale antirazzista promosso da Arci, con il sostegno di Regione Toscana, Provincia di Livorno, Comuni di Livorno, Cecina, Rosignano e Bibbona, Cesvot. Il Meeting, che si svolge a Cecina Mare nel parco I Pini (località Cecinella) dal primo al 5 luglio prossimi, prende quest'anno il titolo di "Mare Aperto" ed è stato presentato questa mattina in Regione. "Il meeting antirazzista è un appuntamento importante – afferma la ex-vicepresidente Stefania Saccardi che nella nuova giunta avrà le deleghe a sanità, sociale e sport - a cui la Regione tiene particolarmente perché ha contributo a mobilitare e a far crescere la coscienza civile sul grande tema dei diritti umani e della lotta alle discriminazioni, concentrandosi di anno in anno sugli argomenti emergenti, come quest'anno il tema dell'immigrazione. 'Mare aperto', come luogo di pace e di confronto di culture e religioni, ci sembra dare un'indicazione suggestiva verso quella che è la nostra idea di accoglienza, messa in atto anche tenendo come timone l'art.10 della nostra Costituzione. Un'accoglienza che intendiamo coniugare con l'integrazione sociale e con l'autonomia: 6 percorso, accreditato come modello toscano, che ha dimostrato di funzionare con piccoli numeri sparsi sul territorio e non accentrati in grandi strutture o tendopoli. Grazie ad Arci per avere posto questo tema delicato, rivendicando l'esistenza di valori che vogliamo continuare a difendere". "Il meeting resta ancora oggi – spiega Gianluca Mengozzi, presidente di Arci Toscana uno dei principali appuntamenti italiani di confronto sui temi del contrasto alle discriminazioni e alla xenofobia. Siamo contenti che questa storica manifestazione si continui a tenere in Toscana, terra che in questi anni ha saputo costruire, attraverso il modello di accoglienza diffusa, una visione alternativa alla strumentalizzazione della paura. Siamo fiduciosi che le resistenze all'accoglienza poste finora da 150 comuni siano superate. E dal meeting non rinunceremo a lanciare nuovamente l'offerta di collaborazione della società civile toscana ai sindaci". "L'Europa – commenta Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci - sta scrivendo un'altra brutta pagina della sua storia, che sconfessa le sue radici. Se all'Italia spetta mettere a sistema il proprio sistema dell'accoglienza superando l'approccio emergenziale e contrastando la controffensiva leghista andata in scena anche ieri nel corso dell'incontro del comitato delle regioni, i paesi membri dell'Ue non possono opporre solo rifiuto a principi di solidarietà e criteri di condivisione. Il fenomeno dei flussi migratori è ormai un dato strutturale del nostro mondo. O lo affrontiamo senza superficialità oppure saremo dominati da dannosi conflitti. Da qui, credo, che ripartirà la nostra riflessione al meeting". Anche quest'anno al Meeting parteciperanno personalità politiche, amministratori, studiosi del fenomeno dell'immigrazione, rappresentanti di reti e alleanze contro il razzismo. E si consolida la collaborazione con il progetto Atlante delle Guerre e dei Conflitti nel mondo. Particolare spazio, come di consueto, avranno gli appuntamenti di formazione. Non soltanto l'università sul diritto d'asilo, che ogni anno richiama addetti ai lavori e operatori. Quest'anno il Meeting sarà l'occasione per lanciare la prima edizione della Summer School dell'Antirazzismo, promossa da Arci in collaborazione con Anci e Unar: nel corso del suo svolgimento in quattro sessioni, punterà a riprendere il filo dell'analisi e degli strumenti a disposizione del movimento antirazzista alla luce del contesto in cui si trovano Italia ed Europa. Numerosi, infine saranno, gli appuntamenti laboratoriali per i più piccoli. Mentre ogni giornata si chiuderà con gli spettacoli in programma sul palco centrale della Cecinella. Da Adn Kronos del 26/06/15 Il Meeting Antirazzista di Cecina nel nome del "Mare Aperto" FIRENZE - Lo scrittore Erri De Luca, il comico Giorgio Montanini e il collettivo Wu Ming, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. Sono alcuni degli ospiti della XXI edizione del Meeting Internazionale Antirazzista promosso da Arci, con il sostegno di Regione Toscana, Provincia di Livorno, Comuni di Livorno, Cecina, Rosignano e Bibbona, Cesvot. Il Meeting, che si svolge a Cecina Mare nel parco I Pini (località Cecinella) dal primo al 5 luglio prossimi, prende quest'anno il titolo di "Mare Aperto". Mare Aperto perché il Mediterraneo torni ad essere il mare che per millenni ha unito culture e popoli, invece che un'immensa tomba di persone innocenti. Mare Aperto perché la società italiana si perde nelle tensioni e nelle paure alimentate da pulsioni discriminatorie e non riesce ancora a trovare la via di un governo del fenomeno delle migrazioni. Mare Aperto perché in questo modo gli organizzatori della manifestazione concepiscono un modello di accoglienza e gestione dei flussi migratori che sia davvero efficace, umano e civile. "Il meeting 7 antirazzista è un appuntamento importante – afferma la ex-vicepresidente Stefania Saccardi che nella nuova giunta avrà le deleghe a sanità, sociale e sport - a cui la Regione tiene particolarmente perché ha contributo a mobilitare e a far crescere la coscienza civile sul grande tema dei diritti umani e della lotta alle discriminazioni, concentrandosi di anno in anno sugli argomenti emergenti, come quest'anno il tema dell'immigrazione. 'Mare aperto', come luogo di pace e di confronto di culture e religioni, ci sembra dare un'indicazione suggestiva verso quella che è la nostra idea di accoglienza, messa in atto anche tenendo come timone l'art.10 della nostra Costituzione. Un'accoglienza che intendiamo coniugare con l'integrazione sociale e con l'autonomia: percorso, accreditato come modello toscano, che ha dimostrato di funzionare con piccoli numeri sparsi sul territorio e non accentrati in grandi strutture o tendopoli. Grazie ad Arci per avere posto questo tema delicato, rivendicando l'esistenza di valori che vogliamo continuare a difendere". "Il meeting resta ancora oggi – spiega Gianluca Mengozzi, presidente di Arci Toscana - uno dei principali appuntamenti italiani di confronto sui temi del contrasto alle discriminazioni e alla xenofobia. Siamo contenti che questa storica manifestazione si continui a tenere in Toscana, terra che in questi anni ha saputo costruire, attraverso il modello di accoglienza diffusa, una visione alternativa alla strumentalizzazione della paura. Siamo fiduciosi che le resistenze all'accoglienza poste finora da 150 comuni siano superate. E dal meeting non rinunceremo a lanciare nuovamente l'offerta di collaborazione della società civile toscana ai sindaci". "L'Europa – commenta Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci - sta scrivendo un'altra brutta pagina della sua storia, che sconfessa le sue radici. Se all'Italia spetta mettere a sistema il proprio sistema dell'accoglienza superando l'approccio emergenziale e contrastando la controffensiva leghista andata in scena anche ieri nel corso dell'incontro del comitato delle regioni, i paesi membri dell'Ue non possono opporre solo rifiuto a principi di solidarietà e criteri di condivisione. Il fenomeno dei flussi migratori è ormai un dato strutturale del nostro mondo. O lo affrontiamo senza superficialità oppure saremo dominati da dannosi conflitti. Da qui, credo, che ripartirà la nostra riflessione al meeting". Anche quest'anno al Meeting parteciperanno personalità politiche, amministratori, studiosi del fenomeno dell'immigrazione, rappresentanti di reti e alleanze contro il razzismo. E si consolida la collaborazione con il progetto Atlante delle Guerre e dei Conflitti nel mondo. Particolare spazio, come di consueto, avranno gli appuntamenti di formazione. Non soltanto l'università sul diritto d'asilo, che ogni anno richiama addetti ai lavori e operatori. Quest'anno il Meeting sarà l'occasione per lanciare la prima edizione della Summer School dell'Antirazzismo, promossa da Arci in collaborazione con Anci e Unar: nel corso del suo svolgimento in quattro sessioni, punterà a riprendere il filo dell'analisi e degli strumenti a disposizione del movimento antirazzista alla luce del contesto in cui si trovano Italia ed Europa. Numerosi, infine saranno, gli appuntamenti laboratoriali per i più piccoli. Mentre ogni giornata si chiuderà con gli spettacoli in programma sul palco centrale della Cecinella. http://www.adnkronos.com/fatti/pa-informa/politica/2015/06/26/meeting-antirazzistacecina-nel-nome-del-mare-aperto_yXPfP6qT4U2jueKaajqPuJ.html del 27/06/15 MIGRANTI Roma e Bruxelles, una gara a chi fa peggio Filippo Miraglia 8 Italia ed Europa sembrano impegnate in una gara a chi fa peggio sulla questione dei migranti. Il governo italiano si ispira al principio per cui i richiedenti asilo si accolgono mentre i cosiddetti migranti economici andrebbero espulsi e rimpatriati. Ciò avverrebbe attraverso una sorta di «accoglienza differenziata» fra Nord e Sud del nostro paese. Infatti sparirebbero tutti i centri di primo soccorso e di accoglienza. Al loro posto vi sarebbero degli hotspot, 5 o 6, che si apriranno nelle regioni mediterranee, quindi in Sicilia, in Calabria, in Puglia e forse anche in Campania. Dove più frequenti sono stati gli sbarchi e le tragedie che hanno portato alla morte migliaia di persone. Dopo 48 ore di permanenza, quando le misure di prima accoglienza verranno praticate solo se possibili, i migranti verranno spostati negli hub, ovvero grandi centri di smistamento, suddivisi in «chiusi» e «aperti». Qui avverrà la suddivisione tra chi ha diritto all’accoglienza e chi no. Questi ultimi, gli «irregolari» finiranno nei vecchi Cie, pronti per l’espulsione. Gli altri verranno «accolti» negli hub aperti e nello Sprar, il sistema di «protezione» dei richiedenti asilo e dei rifugiati affidato all’Anci. Le strutture aperte saranno situate al Nord, quelle chiuse e che fungono rampe di lancio per l’espulsione al Sud. Ovvero i «buoni» nel Nord del paese, i «cattivi» nel Meridione. Difficile immaginare un sistema più perverso, in cui si fonde la vecchia questione meridionale nostrana con il nuovo razzismo nei confronti dei migranti. In questo sistema ogni diritto viene travolto. Ai migranti viene tolta la possibilità di dichiarare quali sono i motivi della loro richiesta di protezione che invece viene affidata ad una commissione. Facile prevedere una catena di ricorsi nei confronti di decisioni negative. Il diritto a cercare lavoro viene calpestato, mentre formalmente sarebbe uno dei pilastri dei trattati europei. Come si vede Renzi ha poco da alzare la voce in sede Ue, dove peraltro non fanno meglio. Le conclusioni del Consiglio europeo sono davvero umilianti e vergognose. Si è litigato, con i paesi dell’Est nel ruolo dei più intransigenti, su 40mila rifugiati già presenti in Europa da ridistribuire in due anni tra i diversi paesi europei. Cifre tutt’altro che inquietanti, soprattutto se si tiene conto che secondo l’Unhcr più di 100mila persone sono giunte in Europa dall’inizio dell’anno considerando solo quelle che hanno battuto la via mediterranea. Contemporaneamente la Ue mantiene la missione di pattugliamento e di respingimento dei barconi, salvo l’obbligo del salvataggio in mare che anche le navi militari devono operare. Inoltre le procedure di espulsione vengono rinforzate tramite accordi con paesi retti da dittature o nei quali è ancora in corso un conflitto sanguinoso. Il Consiglio europeo dimostra ancora una volta di essere del tutto prigioniero della logica dell’Europa come fortezza. Mentre il governo italiano cerca di venire a patti con le sempre più forti pulsioni xenofobe e razziste che attraversano il nostro paese, su cui le destre soffiano a pieni polmoni e che purtroppo si diffondono rapidamente anche a livello popolare. Non è un mistero per nessuno che gran parte della campagna elettorale per le regionali si sia giocata proprio sulla questione dell’accoglienza dei migranti. D’altra parte bisogna aver chiaro che questa dell’immigrazione è una questione che rappresenta una delle discriminati più evidenti tra la destra e la sinistra in ogni paese e in Europa. *Vicepresidente Arci Da Redattore Sociale del 27/06/15 Migranti. Alfano: "Rimpatriare il più alto numero di persone possibile" 9 Così il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, in un videomessaggio inviato al Festival del lavoro di Palermo. "Garantire accoglienza a chi scappa dalla guerra, ma rimpatriare chi non ha diritto di stare in Italia". Intanto cresce lo scontento delle associazioni ROMA - "L'accoglienza dobbiamo garantirla a chi scappa dalla guerra, ma dobbiamo anche rimpatriare chi arriva illegalmente. L'opinione pubblica è stanca. Accogliamo i profughi e facciamo tornare a casa chi non ha diritto di stare in Italia. Rimpatrieremo il più alto numero di persone che possiamo rimpatriare". Parola del ministro dell'Interno Angelino Alfano intervenuto oggi al Festival del Lavoro in corso a Palermo in un videomessaggio. L'inquilino del Viminale torna a parlare di immigrazione dopo il vertice del Consiglio europeo a Bruxelles conclusosi con un "compromesso" sulla questione della redistribuzione dei richiedenti asilo. Per Alfano, il risultato di ieri è da considerare un "primo passo avanti". "Non abbiamo ottenuto tutto quello che avremmo voluto - ha spiegato Alfano -, ma abbiamo ottenuto più di quanto si sia mai ottenuto in Europa in materia di immigrati". Il muro di Dublino. Il ministro dell'Interno, poi ha criticato ancora una volta il regolamento di Dublino, definendolo "una sorta di muro" che per Alfano si è rivelato "penalizzante per l'Italia". Per Alfano, però, qualche segnale arriva proprio dall'accordo di ieri che, secondo il ministro, "ha messo in crisi il regolamento di Dublino e crea 24 mila brecce nel muro di Berlino". Sul regolamento e sempre da Palermo è intervenuto anche il ministro della giustizia Andrea Orlando. "Il segnale che è venuto sulla messa in discussione di Dublino è un primo ma importante segnale - ha spiegato il ministro - che l'Europa non scarica più sui paesi del Mediterraneo questo tema". Non esiste la bacchetta magica. Da Palermo è intervenuto sul tema Khalid Chaouki, deputato del Partito democratico. "Sull''emergenza immigrazione nessuno ha la bacchetta magica - ha detto -, tantomeno la Lega Nord che, al di là degli slogan, quando ha governato non ha cambiato nulla di fronte ai flussi di migranti dal Nord Africa". Per Chaouki, "su questioni serie come il dramma dei profughi - ha proseguito - invito Salvini ad abbandonare la sterile propaganda e a sostenere il governo e sostenere l''Italia in questa difficile trattativa con gli altri Paesi europei che sta portando a risultati positivi ma ancora insufficienti". Cresce lo scontento delle associazioni. Se la politica sottolinea soprattutto il successo di un accordo, dal mondo delle associazioni guarda con diffidenza alle decisioni prese nelle sedi europee. Amaro il commento di Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes. "Ancora una volta ha vinto la chiusura e ha perso l’accoglienza; ancora una volta ha vinto la tutela delle merci e della proprietà intellettuale, ma ha perso la tutela della vita delle persone; ancora una volta la sicurezza è legata alla crescita di armamenti e meno a un impegno europeo in percorsi di conoscenza, incontro, tutela. Ancora una volta ha perso l’Europa, la casa comune”. Di risultati "tutt’altro che soddisfacenti" parla invece il Centro Astalli, secondo cui nelle sedi europee "si continua a ragionare su numeri ridicoli che di fatto non tengono minimamente conto del fenomeno nelle sue reali dimensioni". Numeri che preoccupano anche la Cisl. Per Liliana Ocmin, responsabile del Dipartimento Politiche migratorie della Cisl, “l'accordo raggiunto sul fenomeno dei migranti è incompleto: non sono riusciti a far passare la condivisione di responsabilità da parte dei 28 paesi dell'Ue, non è passata l'obbligatorietà della distribuzione né tantomeno la volontarietà". L'Arci, invece, denuncia "l’incapacità dimostrata finora di pianificare gli interventi e di costruire un sistema efficace e rispettoso della dignità delle persone”. Per Save the Children, l'impegno preso dall'Ue è solo "un primo passo": "positivo", spiega, ma "largamente insufficiente". Dei numeri si lamenta anche la Comunità di Sant’Egidio, secondo cui il vertice europeo ha rivelato un’Europa 10 condizionata da "egoismi e paure ingiustificate”. Per l’associazione, “il risultato è un compromesso al ribasso per la redistribuzione di un numero limitatissimo di richiedenti asilo". Per l'Unhcr, "si dovrà fare molto di più, tra cui affrontare le cause alla radice del fenomeno". Da Medici senza frontiere arriva l'appello per un "ripensamento radicale delle politiche migratorie, perché i bisogni delle persone coinvolte siano al centro degli sforzi per affrontare questa crisi".(ga) Da Redattore Sociale del 26/06/15 Consiglio d’Europa sui migranti, “la montagna ha partorito il topolino” Le reazioni delle associazioni. Centro Astalli: “Risultati tutt’altro che soddisfacenti”. Arci: “Il Governo ipotizza un’accoglienza differenziata”. Cisl: “L’accordo raggiunto è incompleto”. Msf: “Serve un ripensamento radicale delle politiche migratorie”. Sant'Egidio: "Ue condizionata da egoismi e paure" ROMA - Alla luce di quanto approvato ieri in Consiglio d’Europa in merito all’Agenda sull’immigrazione, le associazioni italiane continuano a mostrarsi molto critiche. Ecco alcune reazioni. Il Centro Astalli perplesso: “Risultati tutt’altro che soddisfacenti”. In particolare, afferma l’associazione, “si devono evidenziare nuovamente delle criticità su alcuni punti specifici. Si continua a ragionare su numeri ridicoli che di fatto non tengono minimamente conto del fenomeno nelle sue reali dimensioni. Basti pensare che solo il Libano, la cui superficie è pari alla metà della Regione Lombardia, ospita attualmente più di 1 milione di rifugiati”. Per il Centro Astalli, con le decisioni prese, “l’Europa realizzerà un progetto di reinsediamento facoltativo da parte degli Stati membri di soli 20 mila rifugiati in due anni. Ricordiamo ancora una volta che per i soli siriani l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati aveva chiesto un reinsediamento di 130 mila persone. Rimane anche confermata la misura del ricollocamento che riguarderà appena 40 mila persone in due anni di cui 24 mila dall’Italia e 16 mila dalla Grecia. Solo lo scorso anno l’Italia ha assistito allo sbarco di 170 mila persone”. Ulteriore elemento di forte preoccupazione rimane il fatto che “il Regolamento Dublino che stabilisce di chiedere asilo nel primo Paese di ingresso in Europa non solo non è stato superato, ma anzi tutto lascia intendere che verrà applicato con ancor maggiore rigidità, come già si coglie da alcuni segnali alle frontiere interne dell’Europa”. “Se così fosse – conclude l’associazione -, considerando che nel 2014 più di 100 mila persone sbarcate sulle nostre coste hanno scelto di non chiedere asilo in Italia, non è difficile prevedere, sulla base dei dati del primo semestre 2015, che l’Italia si troverebbe a dover far fronte a un numero di domande più che raddoppiato rispetto alla situazione attuale”. Arci: “Ora il governo si inventa l’accoglienza ‘differenziata’”. Per l’Arci, il Governo, per far fronte al caos dell’accoglienza in Italia, di cui è il principale responsabile, avanza proposte che questa confusione aumenteranno, inventandosi nuove strutture ‘chiuse’ o ‘aperte’ di accoglienza e tentando una suddivisione del tutto arbitraria tra persone meritevoli di accoglienza e no, e tra regioni del nord e del sud. Un po’ di fumo per nascondere l’incapacità dimostrata finora di pianificare gli interventi e di costruire un sistema efficace e rispettoso della dignità delle persone”. 11 Continua l’Arci, “ci sono migliaia di persone arrivate in Italia per chiedere protezione e che sono invece costrette a vivere nel degrado, senza alcuna certezza del diritto (…). Intanto le stazioni delle maggiori città sono diventate dei dormitori per i cosiddetti transitanti. Il regolamento Dublino, inapplicabile, che viene usato dai governi europei per dimostrare l’inadempienza dell’Italia, che non solo non identifica chi arriva ma addirittura li invita esplicitamente a raggiungere altri paesi. Insomma un vero caos, che in un Paese normale avrebbe portato alle dimissioni del Ministro dell’Interno. E invece è lo stesso presidente del consiglio a correre in aiuto di Alfano ipotizzando, anche per inseguire il razzismo istituzionale dei governatori di Regione leghisti, l’accoglienza differenziata, che ricorda le vecchie gabbie salariali: al nord i ‘buoni’ (i rifugiati), al sud i ‘cattivi’ (migranti economici o irregolari), da rispedire al mittente”. Per l’Arci, infine, “decidere poi di moltiplicare i campi per stranieri, grandi luoghi di segregazione, anche quando vengono definiti ‘aperti’, come la storia di questi centri insegna, da Mineo, a Crotone a Lampedusa, non fa che alimentare razzismo nella comunità ospitante, sprechi e corruzione”. Cisl: “La montagna ha partorito il topolino”. Per Liliana Ocmin, responsabile del Dipartimento Politiche migratorie della Cisl, “l'accordo raggiunto sul fenomeno dei migranti è incompleto: non sono riusciti a far passare la condivisione di responsabilità da parte dei 28 paesi dell'Ue, non è passata l'obbligatorietà della distribuzione né tantomeno la volontarietà". "Unico punto positivo – per la Cisl - è il contrasto alla tratta, in attesa comunque della risoluzione Onu. L'intesa, poi, riguarda solo i 40 mila eritrei e siriani, nulla è stato detto o fatto rispetto agli odierni flussi. L'italia e la Grecia sono state lasciate ancora una volta da sole, vince ancora l'egoismo nazionalista. Quindi occasione mancata per una Ue politica e sociale unita nella sfida a favore della accoglienza dei richiedenti asilo”. Per la Cisl è necessario rivedere gli accordi con i paesi terzi, paesi di transito per prevenire l'odioso traffico degli esseri umani e garantire l'accoglimento delle domande dei profughi con percorsi legali, onorando, così, gli accordi internazionali. “Fondamentale, non smetteremo mai di dirlo, è superare Dublino III per dare respiro ai Paesi più esposti e per permettere una ripartizione equa nei 28 Paesi dell'Unione dei rifugiati che continuano ad arrivare in Italia e dunque in Europa". Msf: “Politiche di contenimento, muri e misure deterrenti non sono la risposta a questa crisi umanitaria globale”. Per Loris De Filippi, presidente di Medici senza frontiere, “non faranno che continuare a spingere persone disperate in viaggi lunghi e pericolosi nelle mani dei trafficanti. Finché non verranno offerte alternative legali e sicure alle traversate sui barconi e ai pericolosi viaggi verso la Libia, la sofferenza estrema di migliaia di persone non si fermerà.” “I decisori politici – afferma il responsabile di Msf - non hanno capito che la maggior parte di queste persone non ha altra scelta che venire in Europa per fuggire a conflitti, crisi o al caos della Libia. Con o senza un sistema obbligatorio di rilocazione, la portata e le condizioni dell’accoglienza per chi arriva in Italia, come in Grecia, devono essere urgentemente migliorate perché queste persone siano trattate con umanità.” Msf chiede allora “un ripensamento radicale delle politiche migratorie, perché i bisogni delle persone coinvolte siano al centro degli sforzi per affrontare questa crisi. Gli impatti delle decisioni politiche devono essere misurati per garantire che non contribuiscano al pesante bilancio di sofferenza umana che questa crisi da troppo tempo comporta”. Alle persone in fuga Medici senza frontiere ha dedicato la campagna #Milionidipassi, con un appello all’opinione pubblica e ai governi perché sia ridata umanità al tema delle migrazioni forzate e venga garantito il diritto di tutti ad avere salva la vita. 12 www.milionidipassi.it. In questi giorni rilancia l’appello attraverso l’hashtag #VergognatiEuropa. Comunità di Sant’Egidio: “Il vertice europeo ha rivelato un’Europa condizionata da egoismi e paure ingiustificate”. Per l’associazione, “il risultato è un compromesso al ribasso per la redistribuzione di un numero limitatissimo di richiedenti asilo: 40 mila persone, tra le migliaia già arrivate sulle coste italiane e greche rappresentano una cifra estremamente ridotta per l’Unione, anche perché sono da dividere tra 28 nazioni”. “L’Europa è nata su ideali ben diversi – continua -, che parlano di difesa dei diritti e di accoglienza. Non si possono rimettere in discussione questi princìpi sanciti da tutti i trattati che sono alla base dell’Unione. Sono trattati da rispettare. Invece altri testi, come gli accordi di Dublino, che obbligano il migrante a chiedere asilo solo nei Paesi di arrivo, possono e devono essere modificati”. E di fronte ad un compromesso che, in sostanza, si basa sulla volontarietà e lascia gli Stati liberi di stabilire le loro quote di accoglienza, la Comunità di Sant’Egidio lancia un appello a tutti i Paesi dell’Unione: “puntare sull’integrazione è molto più redditizio che alimentare paure per motivi di politica interna e di pura propaganda”. Unhcr: "Si dovrà fare molto di più". L'Unhcr prende nota della decisione di ieri sera del Consiglio europeo di trasferire 40 mila persone bisognose di protezione internazionale e di reinsediare 20 mila rifugiati. La decisione è un importante passo nel percorso di risposta a questa crisi, ma è chiaro che si dovrà fare molto di più, tra cui affrontare le cause alla radice del fenomeno. In mezzo alla più grande crisi globale di migrazioni forzate dei tempi moderni, è essenziale che gli Stati lavorino insieme per elaborare delle risposte e che l'Europa mostri leadership e capacità di visione per affrontare la sfida del proteggere migliaia di rifugiati che oggi sono in fuga dalle guerre. Per quanto riguarda l’accordo sul trasferimento di 40 mila persone in evidente bisogno di protezione internazionale, la partecipazione di tutti gli Stati membri sarà la chiave per la riuscita. Queste misure dovranno essere ampliate per soddisfare le esigenze attuali e per rispondere al fatto che una parte sempre maggiore di arrivi via mare sta avendo luogo in Grecia. Questa iniziativa può contribuire ad alleviare parte della pressione sull’Italia e sulla Grecia, ma deve essere accompagnata anche da un migliore funzionamento del sistema di Dublino. Per quanto riguarda la proposta di reinsediare 20 mila rifugiati in tutta l’Ue, l'Unhcr esorta gli Stati membri ad assumere impegni concreti per raggiungere questo obiettivo, al di là delle quote di reinsediamento esistenti. Chiediamo inoltre agli Stati membri di offrire altre vie legali per le persone bisognose di protezione internazionale - tra cui una più efficace, puntuale e coerente applicazione delle procedure di ricongiungimento familiare, come proposto nell'Agenda europea sulla migrazione della Commissione. Fornire canali alternativi realistici e significativi per le persone che cercano protezione sarà anche un modo per sostenere gli sforzi internazionali volti a combattere il traffico di esseri umani. Oxfam: "Un'Europa piccola piccola". Destano forti perplessità le conclusioni emerse dal Consiglio Europeo dei capi di Stato che a Bruxelles sembra più aver rinviato che affrontato i punti nodali intorno all’emergenza immigrazione verso l’Italia e l’Europa. A denunciarlo è Oxfam, a partire da due punti cruciali all’ordine del giorno del dibattito europeo: il rimpatrio dei migranti ritenuti illegali e la ridistribuzione di 40 mila migranti accolti in Italia e Grecia. “Dal summit è emersa ancora una volta un visione generale “securitaria” nella gestione dell’emergenza immigrazione, più che rivolta ad un concreto miglioramento del sistema di accoglienza a livello europeo. – afferma il direttore dei programmi in Italia di Oxfam, Alessandro Bechini – Seppur rappresenti un primo timido passo in avanti, appare del tutto insufficiente la redistribuzione in due anni, di soli 40.000 migranti da Italia e Grecia con una procedura per consenso tra gli Stati, e il reinsediamento di 20.000 rifugiati ospitati in Paesi terzi. Più che una breccia sul muro del Regolamento di Dublino, si tratta di una 13 fessura attraverso cui si intravede un’Europa piccola piccola”. Secondo Oxfam infatti la sostanziale mancanza di vie di accesso legali all’Europa per i migranti, non può che avere come risultato quello di attivare canali illegali che mettono in pericolo la vita dei migranti. Colpisce al contrario come le conclusioni del vertice non facciano nessun cenno alla possibilità di incentivare forme di migrazione legale. Migrantes: "Ha vinto la chiusura, non l'accoglienza". L'amaro commento di Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, al termine del Consiglio europeo.“Ancora una volta ha vinto la chiusura e ha perso l’accoglienza; ancora una volta ha vinto la tutela delle merci e della proprietà intellettuale, ma ha perso la tutela della vita delle persone; ancora una volta la sicurezza è legata alla crescita di armamenti e meno a un impegno europeo in percorsi di conoscenza, incontro, tutela. Ancora una volta ha perso l’Europa, la casa comune”. Secondo Perego, il superamento di Dublino "non può avvenire con un’azione ‘eccezionale’, quale è quella decisa in questi giorni al Consiglio europeo, ma sarà reale quando si condividerà in maniera ordinaria e strutturale in ogni città e Paese europeo, a partire anche dall’Italia, l’accoglienza di persone che hanno diritto a una forma di protezione internazionale. E’ necessario, a questo proposito, rafforzare alle frontiere europee l’attenzione anche a riconoscere nuovi volti e storie di profughi che fuggono da disastri ambientali, violenze, tratta, per evitare respingimenti e rimpatri che non tutelano la vita e la dignità delle persone”. Save the Children: "Impegno Ue insufficiente". Questa in sintesi la posizione di Save the Children riguardo la decisione del Consiglio Europeo. Per l’Organizzazione, si tratta di "numeri ben al di sotto di quanto necessario per fare fronte al fenomeno e c’è ancora tanta strada per raggiungere livelli accettabili - spiega una nota -. Secondo le stime di Save the Children, dal 1 gennaio al 25 giugno 2015 sono arrivati via mare solo in Italia circa 66.280 migranti, di cui almeno 6.300 minori, tra loro 4.000 circa sono non accompagnati. Per Valerio Neri, direttore generale di Save the children, "l’accordo sul ricollocamento, in particolare, è solo una procedura “temporanea ed eccezionale” e, come tale, non è un approccio sistematico e strategico per affrontare queste emergenze nel lungo periodo e può mettere a rischio le persone più vulnerabili, come migliaia di bambini in fuga da guerre, violenza e povertà". del 26/06/15 «Correa estrattivista, i movimenti lo contestano» Geraldina Colotti «I movimenti in Ecuador hanno fatto cadere tre presidenti, Correa potrebbe essere il quarto». Non usa mezzi termini, Pablos Davalos, ex viceministro dell’economia in Ecuador. Se fosse ora nel suo paese, starebbe in piazza, con i manifestanti che, dal 15 giugno, sfilano gridando «Fuori Correa». Invece ha un incarico di ricerca universitaria a Grenoble e si propone di raggiungere le proteste appena terminata la missione. Lo abbiamo incontrato a Firenze, ospite di un dibattito sull’America latina organizzato dall’Arci. In italiano, i suoi libri sono pubblicati da una piccola casa editrice dalle risonanze zapatiste “Caminar domandando”, e compaiono a fianco dei testi di Esteva e di Zibechi. Un filone di pensiero che antepone «la resistenza dal basso al potere» e che, nelle affermazioni di Davalos, considera obiettivo prioritario e irrinunciabile «la lotta contro l’estrattivismo». 14 Gli abbiamo chiesto di motivare la sua pervicace opposizione al governo di Rafael Correa, sotto attacco dopo la proposta di legge per aumentare le tasse sull’eredità e sul plusvalore. Progetti che, per il governo, riguarderebbero solo quel 2% della popolazione che possiede «oltre il 90% delle risorse» e non colpirebbero né le classi medie, né la piccola proprietà famigliare. A guidare le proteste sono soprattutto i sindaci di opposizione, nella capitale Quito e a Guayaquil, e i cartelli che chiedono la cacciata di Correa non lasciano dubbi sugli interessi che le muovono. Dicono, «Impoverire i ricchi non fa ricchi i poveri», «Libertà di impresa» e «Non vogliamo essere come il Venezuela». E i militanti di Alianza Pais hanno denunciato la presenza delle destre venezuelane nelle manifestazioni, venute ad arringare la cittadinanza con improvvisi comizi nella metropolitana. In piazza, però, sfilano anche alcune organizzazioni indigene e sindacali, e la tensione sale in vista dell’imminente visita del papa Bergoglio. Nonostante abbia un’ampia maggioranza parlamentare, Correa ha ritirato momentaneamente il progetto chiamando il paese a discutere. Una decisione approvata, secondo recenti inchieste, dal 70% della popolazione, che comunque rifiuta le proteste al 60,2%. Ma, per Davlos, Correa cerca solo di mantere il potere, e il suo discorso va «decostruito». Davalos tiene ai suoi trascorsi di attivista nei movimenti indigeni. Ricorda che, nel 2005, come viceministro ha dovuto «affrontare uno scenario simile a quello della Grecia in cui il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale avevano impoverito la popolazione, portato il paese in recessione e si dovette cacciarli e sospendere il pagamento del debito per riprendere in mano la nostra sovranità». Riprende anche i contenuti racchiusi nella costituzione ecuadoriana, nata in seguito a un ampio processo di consultazione popolare, «dall’idea di stato plurinazionale, ai diritti della natura». Tuttavia, sostiene che il governo Correa, «pur non essendo neoliberista come i precedenti, sta consegnando gran parte dei territori indigeni all’estrattivismo, soprattutto cinese, reprime l’opposizione e imbavaglia il dissenso creando organizzazioni sociali amiche». Un progetto alternativo? «Aumentare i salari degli operai, eliminare le leggi che limitano il diritto di sciopero, applicare una vera riforma agraria e una tributaria che facciano pagare le tasse ai ricchi. Invece, col pretesto che occorre aumentare la produttività, Correa ha lasciato campo libero all’agrobusiness e ha fatto arricchire i più ricchi, un’oligarchia che si concentra in piccoli gruppi imprenditoriali a struttura famigliare e controlla in modo monopolistico l’economia». Ma come si può pensare che un progetto simile possa coincidere con gli interessi della destra? Davalos risponde che «la confluenza di due proteste andrebbe comunque a vantaggio dei movimenti popolari, i quali non consentirebbero il ritorno a qualcosa di peggio». In Ecuador «non valgono gli stessi criteri utilizzati in Europa. Le comunità indigene non vogliono uno sviluppo per possedere più merci a scapito del buen vivir. E anche la nozione di classe media va inquadrata diversamente. Quella di oggi è composta da giovani ecologisti che hanno studiato e che vanno in bicicletta». Sono loro «e non gli operai o le popolazioni indigene ad aver appoggiato di più il progetto per preservare il parco Yasuni dall’estrattivismo». Correa «non è un socialista, ma solo uno che sta facendo il lavoro al posto del capitalismo. Perché certi progetti passano meglio con un governo che appare di sinistra piuttosto che con uno di destra». 15 Da il Messaggero.it del 27/06/15 Migranti, il Prefetto: «La Tuscia al momento può ospitarne 220» «Finora abbiamo registrato una generale tranquillità nell'accoglienza dei migranti, tranne sporadici casi che andrebbero chiamati di intolleranza ma che voglio definire di vivace dissenso, avvenuti a Canino e San Lorenzo Nuovo». Rita Piermatti, appena insediata in Prefettura al posto di Antonella Scolamieri, affronta il tema dell'emergenza immigrazione, intervenendo al convegno organizzato ieri l'altro dal deputato viterbese del Partito democratico, Alessandro Mazzoli; con ospite Enzo Amendola, capogruppo Pd alla commissione Esteri. Dal dibattito sono emerse le luci (tante) e le ombre (poche) dell'accoglienza nel Viterbese: dal caso scuola di Tessennano, dove vengono ospitati minori non accompagnati, al j'accuse dell'Arci verso «strutture di prima accoglienza tirate su alle ben'e meglio». Il nuovo prefetto ha spiegato che - al momento - la provincia ospita 196 richiedenti asilo nelle strutture di accoglienza che hanno vinto il bando. Strutture che si trovano in sei comuni: Orte, Viterbo, Graffignano, Canino, San Lorenzo e Celleno. «La formula scelta dal mio predecessore, ovvero quella di strutture piccole, ha consentito di spalmare gli stranieri in piccoli gruppi per meglio gestirli. A oggi - ha continuato Piermatti - abbiamo un totale di 220 posti per la prima accoglienza, di cui solo 196 occupati. I nuovi arrivi verranno assegnati dal tavolo di coordinamento presso la prefettura di Roma». A Tessennano, invece, un caso unico (solo Bologna fa altrettanto). «Abbiamo partecipato a un bando europeo - ha spiegato il sindaco Ermanno Nicolai - per l'accoglienza di minori: nell'arco del 2015 ce ne assegneranno 50. Sono sia maschi che femmine. Arrivano da noi con i pidocchi, hanno anche la scabbia. Molte ragazzine erano piene di fratture: le abbiamo fatte operare in accordo con la Asl. Noi li curiamo e diamo loro una prima alfabetizzazione. Siamo fieri del nostro impegno». Alcuni nei nel sistema sono invece stati segnalati da Alessandra Capo dell'Arci, associazione che si occupa di 40 rifugiati in prima accoglienza (il bando prefettizio) e 160 in seconda. E accusa: «Le prime strutture spesso sono improvvisate e calate sui territori senza che l'ente locale sia coinvolto. Non offrono la necessaria assistenza, soprattutto legale, che invece - ha concluso - è fondamentale per i richiedenti asilo». http://www.ilmessaggero.it/viterbo/migranti_prefetto_tuscia_ospiti_220/notizie/1433785.sht ml Da Repubblica.it (Parma) del 26/06/15 Festival teatrale di Resistenza Al Museo Cervi. La quattordicesima edizione dal 7 al 25 luglio. Il programma completo Giunge alla sua quattordicesima edizione il Festival Teatrale di Resistenza, rassegna di teatro civile contemporaneo che anche quest’anno porterà in scena, dal 7 al 25 luglio, al Museo Cervi di Gattatico (Reggio Emilia), sette compagnie di rilievo nazionale individuate sulla base del Bando di Concorso uscito a marzo. 16 Il Festival è ideato e promosso dall’Istituto Alcide Cervi e da Cooperativa Boorea, con il patrocinio dell’Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, con il patrocinio del Comune di Reggio Emilia e Comune di Parma, della Provincia di Reggio Emilia e di Parma, dei Comuni di Gattatico, Campegine, Sant’Ilario d’Enza, Castelnovo di Sotto, Fontanellato, Poviglio, in collaborazione con Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Festival ErmoColle, Festival Teatro Civile della Val d’Enza, Quinta Parete, Teatro del Cerchio, Teatro MaMiMO, Arci Parma, Strada dei Vini e dei Sapori Colline di Scandiano e Canossa, Associazione Culturale Dai CampiRossi. 14 edizioni hanno fatto del festival un punto di riferimento a livello nazionale per il teatro che vuole misurarsi con le questioni che attraversano la contemporaneità, che interessano la vita individuale e collettiva delle donne e degli uomini, dei giovani, e che guardano alle contraddizioni del nostro tempo. Progetto e non solo rassegna, il festival anche quest’anno vuole essere spazio di conoscenza e di rinnovo della memoria, di rappresentazione della complessità del presente, ma anche di confronto e di intervento, di partecipazione in un momento di indebolimento del senso di appartenenza e del collettivo. Gli spettacoli selezionati porteranno in scena le resistenze di oggi e uno spaccato della società contemporanea come esito di percorsi di ricerca e di inchiesta, come stimolo alla riflessione e alla presa di coscienza. Un ruolo importante lo ha la Storia, con l’attenzione ai conflitti che hanno attraversato il ‘900 e a quanto ancora segnano il nostro tempo. La collocazione del Festival, negli spazi esterni della casa contadina abitata dalla famiglia Cervi, oggi moderno Museo di Storia contemporanea, contribuisce a sua volta a determinarne i temi ricorrenti. Elemento unificante degli spettacoli è lo stimolo che intendono portare, sensibilizzando alla riflessione ma anche all'azione come presa di posizione. http://parma.repubblica.it/cronaca/2015/06/26/news/festival_teatrale_di_resistenza117739790/ 17 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 30/06/15, pag. 5 VENERDÌ 3 LUGLIO MOBILITAZIONE NAZIONALE a fianco del popolo greco e per cambiare l’Europa. Uno sforzo straordinario di partecipazione per riempire l'Italia venerdì 3 luglio sera di manifestazioni unitarie visibili e partecipate in tante città. E un invito per oggi 30 giugno a organizzare riunioni unitarie per far partire da subito la mobilitazione locale; e a costruire per mercoledì 1 luglio, dove possibile, azioni di denuncia contro la condotta delle istituzioni e dei governi europei rispetto alla Grecia. Sono queste le indicazioni che arrivano dalla riunione unitaria di organizzazioni, reti e movimenti che si è svolta ieri. «Cambia la Grecia Cambia l’Europa» è un appello affinché ciascuno faccia tutto quello che è possibile, da subito in tutta Italia. «Serve la contro-informazione contro le bugie dei media di regime e del nostro governo, schierato come sempre dalla parte dell'austerità». Data, orario e caratteristiche di tutte le iniziative di questi giorni e delle manifestazioni di venerdì devono essere comunicate a: [email protected] del 30/06/15, pag. 1/15 Una svolta culturale che fa epoca di Piero Bevilacqua Si afferra con maggiore pienezza la portata eversiva dell'enciclica Laudato si' di Papa Francesco – rispetto a tutta la tradizione millenaria della chiesa- se si tiene conto della storia del pensiero ambientalista.Nel 1967, uno storico americano, Lynn White jr, pubblicò su Science un saggio che fece scandalo . Nel suo Le radici storiche della nostra crisi ecologica, White sosteneva, con notevole precocità, che le condizioni di progressiva alterazione degli equilibri ambientali risiedevano nel dominio esercitato in Occidente dalla cultura religiosa giudaico cristiana. Già nella Bibbia, nel libro della Genesi egli ritrovava le prime origini di quella cultura «E Dio disse: “Facciamo l'uomo a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Era dunque la Chiesa, al centro dell'accusa. L'ampia discussione che ne seguì ridimensionò in parte le argomentazioni di White.Qualcuno ricordò che della storia del cattolicesimo faceva parte anche San Francesco. Giusta osservazione, specie in questo caso. Ma San Francesco fu una stella solitaria. Altri ricordarono che in Giappone, plasmato da una ben diversa storia religiosa, già a fine 800 lo sviluppo industriale aveva generato gravi alterazioni ambientali. Vero. Ma ormai il capitalismo poteva vincere anche le resistenze religiose più radicate. In realtà nessuno poté sminuire il carattere per così dire fondativo della cultura cattolica nel plasmare il rapporto dominante uomo-natura nelle società dell'Occidente. Del resto lo stesso Francesco – all'interno di un ragionamento “laico”- ammette che «il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura» .Mentre Max Weber, che oltre a essere un grande sociologo era prima di tutto uno storico delle religioni, ha ricordato, nei sui studi sul capitalismo, come le religioni orientali, col loro animismo, tendessero a rendere sacri non solo le altre creature, ma anche , i territori, le acque le montagne... 18 Ora è vero che nel frattempo la Chiesa ha mutato la sua visione della natura.In questa enciclica Francesco ricorda i primi contributi “ambientalisti” di Paolo VI, quelli di Giovanni Paolo II, di Bendetto XVI. Ma la sua posizione è oggi dirompente: «Siamo cresciuti scrive, a proposito della Terra - pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla.» Ma non solo non siamo più padroni incontrastati, siamo fatti della stessa materia che stiamo distruggendo: «Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora». Qui papa Francesco fa proprio il più avanzato pensiero scientifico ambientalista. Si pensi alle affermazioni sorprendenti a proposito della biodiversità:««Probabilmente ci turba venire a conoscenza dell’estinzione di un mammifero o di un volatile, per la loro maggiore visibilità. Ma per il buon funzionamento degli ecosistemi sono necessari anche i funghi, le alghe, i vermi, i piccoli insetti, i rettili e l’innumerevole varietà di microorganismi.» Anche se non appare citato Edgar Morin, con i sui studi pubblicati nei volumi della Méthode, o la vasta letteratura ecologista radicale, l'impronta a ma pare onnipresente. Non meno coerente con tale impostazione appare la critica alla cultura dominante: «La tecnologia che, legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi, di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri.». Ma un altro aspetto della radicalità eversiva di questa enciclica risiede a mio avviso nel fatto che papa Francesco evidenzia costantemente la connessione tra la violenza alla natura e dominio di classe: lo sfruttamento esercitato dalle potenze economiche del nostro tempo contro i poveri della terra. Egli coglie «l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta» e mette in luce come il saccheggio delle risorse colpisce l'economia delle popolazioni, mentre l'inquinamento danneggia in primo luogo i più deboli. E non rimane nel vago.E' il caso di una risorsa come l'acqua. « Un problema particolarmente serio è l’acqua disponibile per i poveri, che provoca molte morti ogni giorno. » Problema che non è frutto della fatalità: «Mentre la qualità dell’acqua disponibile peggiora costantemente, in alcuni luoghi avanza la tendenza a privatizzare questa risorsa scarsa, trasformata in merce soggetta alle leggi del mercato. In realtà, l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani.» Infine un altro elemento sembra dare a questa enciclica un profilo politico di assoluta novità. E' la denuncia, se non di un nemico, certamente di un avversario.Sappiamo che in passato la Chiesa non ha mancato di esprimere denunce serrate alla società capitalistica e alle sue ingiustizie. Nella sua dottrina sociale, negli ultimi decenni, è venuta accentuando la radicalità di queste critiche. Ma alla fine una sintesi ecumenica finiva col rendere indistinguibili i responsabili.Gli agenti, i reali vessatori, assumevano un profilo evanescente. Il papa, naturalmente non può scendere in casi particolari, ma denuncia apertamente – come ha ricordato E.Scandurra( Il manifesto, 23/6) - che «Molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi ». E il problema del debito dei paesi è lumeggiato come meglio non si poteva:«Il debito estero dei Paesi poveri si è trasformato in uno strumento di controllo, ma non accade la stessa cosa con il debito ecologico. In diversi modi, i popoli in via di sviluppo, dove si trovano le riserve più importanti della biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo dei Paesi più ricchi a prezzo del loro presente e del loro futuro. La terra dei poveri del Sud è ricca e poco inquinata, ma l’accesso alla proprietà dei beni e delle risorse per soddisfare le proprie necessità vitali è loro vietato da un sistema di rapporti commerciali e di proprietà strutturalmente perverso.» 19 E poiché il papa ha parole per tutti, non manca di ricordare le responsabilità dei governi e del ceto politico del nostro tempo:«La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente.» Dunque, la Chiesa, la più antica istituzione di potere della storia umana,per due millenni strumento di controllo e conservazione sociale, rovescia il suo passato e lancia la sua sfida aperta ai poteri del mondo laico. Lo fa, naturalmente col suo linguaggio, che può essere quello di tutti, credenti e non credenti:«Abbiamo bisogno di nuova solidarietà universale.». Credo che la sinistra debba cogliere questa svolta culturale che fa epoca. Essa può ritrovare il suo universalismo perduto, quell'”internazionalismo proletario” , naufragato con l'involuzione autoritaria dell'URSS, che era stato la stella polare di diverse generazioni. In 'Italia ha un grande precedente storico cui ispirarsi. Quando, ai primi anni '60, emerse la figura di Papa Giovanni e si aprì il Concilio Vaticano II, il Partito comunista avviò un ampio dialogo con il mondo cattolico, sui temi della pace nel mondo e dell'emancipazione sociale. Ne seguirono conseguenze politiche di grande portata, con tante nuove forze che entrarono nella lotta politica progressista. La salvezza della casa comune della Terra oggi è il nuovo terreno di dialogo. Ma occorre un mutato paradigma e nuovi dirigenti politici all'altezza della sfida, che non possono certo essere i giovani “rottamatori”di oggi, in realtà rappresentanti del fronte avversario, tardi epigoni di una cultura senza avvenire. 20 ESTERI del 30/06/15, pag. 2 Grecia, un grande no ai tecnocrati Grecia. La proposta di referendum preoccupa la popolazione greca, stretta tra la volontà di resistere all’«ipocrisia» dei creditori e il rischio di un’uscita dall’eurozona Pavlos Nerantzis ATENE L’intero paese sta vivendo con sentimenti opposti il bras de fer tra il suo governo e i creditori internazionali, ma nel pomeriggio di ieri piazza Syntagma ad Atene è tornata a riempirsi e per le migliaia di persone scese per strada a incoraggiare il proprio governo, non c’erano dubbi: bisogna dire «no» alle proposte dei creditori e al loro tentativo di mettere in un angolo la Grecia, costringendola ad uscire dall’eurozona. Anche i media mainstream hanno dovuto riportare le foto e i video che arrivavano da una piazza stracolma e indirizzata al «no», il giorno dopo le file e il presunto panico di un popolo che al massimo, riflette e ragiona su quanto potrebbe accadere in un caso o nell’altro. Le migliaia di persone scese in strada, inoltre, hanno manifestato la propria solidarietà ad un governo costretto a richiedere il pareredella popolazione, su una decisione di cruciale importanza per il futuro della Grecia. Le voci moderate che invitano alla calma, per il momento non vengono ascoltate, mentre si registra una tensione anche nel dibattito parlamentare, nei talk show televisivi, nei discorsi per strada. E tutti, tranne chi fa il gioco dei «falchi», concordano sul constatare l’ipocrisia di Lagarde, Schaeuble, Dijsselbloem. «Ci vogliono umiliare», «fanno finta di volerci aiutare», dicono. Tsipras ha annunciato il referendum, mettendo alla prova la proposta dei creditori, perché, a sentire la popolazione, «i potenti potrebbero isolarci, obbligando il governo a uscire dall’eurozona». C’è, allora, chi consapevole della partita in corso insiste e invita alla resistenza (il campo del «no») e chi, vittima di una propaganda intimidatoria o per pessimismo, si schiera contro la proposta di Tsipras, allineandosi con Nd, Pasok e Potami (il campo del «si»). Infatti, in questo stato di guerra non dichiarata — con le banche chiuse e un’economia in ginocchio che rappresenta appena il 2% del Pil europeo –la parola «guerra» è sempre presente nei discorsi quotidiani– e il «nemico» usa tutti i mezzi e i metodi per abbattere l’avversario, ovvero Tsipras. Dai media, che non fanno altro che terrorizzare i greci, criticando la scelta di governo per il referendum, fino ai dirigenti della Commissione Ue che si presentano come colombe di pace, mentre è più che evidente ormai che gran parte di loro vorrebbero che un governo delle sinistre in Grecia fosse solo una parentesi nella storia del paese e dell’Europa. «Amiamo la pace, ma quando ci dichiarano guerra, siamo capaci di combattere e vincere» ha sottolineato Alexis Tsipras nel suo discorso in tv, rivolgendosi alla nazione. «Non chiederemo il permesso a Wolfgang Schaeuble o a Jeroem Dijsselbloem per fare il referendum, i tentativi di cancellare il processo democratico sono un insulto e una vergogna per le tradizioni democratiche in Europa» ha aggiunto. Sabato dopo mezzanotte con 178 voti a favore (di Syriza, «Greci indipendenti», partner di governo e dei nazisti di Alba dorata) e 120 contrari (Nea Dimokratia, Pasok, Potami e Kke), tra insulti e tafferugli, il parlamento ha approvato la proposta dell’esecutivo per la consultazione popolare. Il premier greco è stato categorico, rispondendo a chi cerca di 21 trasformare il referendum in un ricatto per la permanenza della Grecia nell’eurozona, ma anche alla decisione dell’Eurogruppo di escludere il ministro delle finanze greco dalla riunione di venerdì scorso. «Nessuno — ha detto Tsipras– ci può buttare fuori dall’Europa. Noi non combattiamo contro il Vecchio continente, ma contro pratiche in cui l’Europa dovrebbe vergognarsi. E stiamo facendo quello che Pasok e Nea Dimokratia non hanno fatto: resistere». Il «no» di Tsipras alle proposte dei creditori viene condiviso da migliaia di greci. Il problema — però — che pongono alcuni, pur condividendo la problematica del governo, è «la mancata chiarezza della consultazione» e il timing, dato che oggi insieme alla scadenza del programma dei creditori non saranno più valide neanche le loro proposte per le quali è stato annunciato il referendum. «Qual è il senso pratico del voto del 5 luglio» si chiedono tanti. «Dobbiamo dire no ai tecnocrati e sì alla sovranità nazionale, un grande «no» aumenterà il nostro potere negoziale con i creditori» ha detto Tsipras. Ma la gente comune insiste: «nel caso di un risultato positivo per il governo aumenterebbe la sua forza contrattuale, se i creditori non vogliono piú negoziare, la Grecia dove andrà a finire?”. «Il governo avrebbe dovuto fare il referendum alcune settimane prima e non adesso che scade il programma dei creditori» ha affermato il costituzionanlista, Kostas Chrysogonos, eurodeputato di Syriza. Secondo Chrysogonos, «i tagli dei creditori nel caso di un default saranno enormi», mentre «la rottura delle trattative avrà come conseguenza l’ingabbiamento del paese in un nuovo memorandum con termini ancora peggiori». All’interno di Syriza ci sono voci che invitano alla moderazione, mentre altri si schierano a favore di una rottura dei rapporti con i partner europei, sostenendo che si può sopravvivere anche con la dracma. «Meglio avere un po’ di soldi in tasca (dracme) che niente, come sarebbe sucsesso se fossero passate le nuove misure restrittive» ha detto il ministro della Previdenza sociale, Dimitris Stratoulis ad un pensionato che aspettava in coda a un bancomat. Di fatto la decisione di Tsipras era una scelta quasi obbligatoria, ma di alto rischio. Da ieri a domenica prossima il tempo dal punto di vista politico è troppo grande: molte cose potrebbero cambiare, le trattative — a sentire Yanis Varoufakis e il suo omologo francese — rimangono aperte, ma la chiusura delle banche per sei giorni consecutivi crea un clima di tensione e di paura tra la gente. Secondo il consiglio per la stabilità finanziaria, la decisione presa era obbligatoria perché soltanto venerdì scorso i risparmiatori avevano prelevato più di un miliardo di euro. Oltre ai controlli sul trasferimento dei capitali e ai 60 euro che potrà prelevare chiunque ha un conto corrente in una banca ellenica, il governo ha preso anche altre misure per salvaguardare i pensionati (dovranno essere pagati oggi da alcuni filiali) e il flusso turistico (chi possiede un conto corente all’ estero può prelevare il massimo previsto dalla sua banca). Intanto stasera alle 18.00 ora locale di Washington scade il dovere di Atene di versare 1,6 miliardi di euro al Fmi. Varoufakis ha detto che la Bce potrebbe pagare il Fmi con gli interessi incassati dal collocamento dei bond greci nel 2014. «Perché non possono spostare quei soldi da una tasca all’ altra» si è chiesto il ministro delle finanze greco. Del 30/06/2015, pag. 6 Le storie. Viaggio nel Paese del controllo dei capitali, dove i soldi sono contati e c’è il boom delle carte di credito 22 Auto in garage,bus gratis e spese col contagocce ma Atene supera indenne il primo giorno senza cash DAL NOSTRO INVIATO ETTORE LIVINI ATENE. «Barbounias, Sardeles, Arpazon!». «Triglie, Sardine, dentici!». Può sgolarsi fin che vuole Yannis, grembiule che sa di mare e due guanti coperti di squame fino al gomito, ma oggi – ad occhio – marca male. La Grecia ha i contanti contati. Qui al mercato antico del pesce di Atene quasi nessuno – mica è antico per niente – prende la carta di credito. «E il risultato lo vede da sé – dice sconsolato spostando gli sgombri sul loro letto di ghiaccio - . A quest’ora di solito c’è la ressa. Invece niente. Ho venduto il 50% in meno di lunedì scorso. Vanno tutti al supermercato, dove accettano quel maledetto denaro di plastica. E stasera metà del mio bancone finirà in pasto ai gatti qui fuori». Benvenuti nel paese del controllo dei capitali. Dove i bancomat distribuiscono soldi con il contagocce, al ritmo di 60 euro al giorno a testa. E dove 11 milioni di persone, dalla sera alla mattina, hanno rivoltato la loro vita come un calzino, imparando a campare tirando fuori di tasca meno banconote possibili. «Non volevamo più austerity e invece l’austerity eccola qua!» scherza Evangelis Mitropoulos, tassista di 42 anni fermo al parcheggio di Omonia. Ieri sera ha riunito moglie e due figlie attorno al tavolo – racconta – ha calcolato quanto denaro liquido c’era in casa e poi ha dato disposizioni tassative: «Il motorino della mia primogenita da oggi resta nel box. Bar e ristorante sono out fino al 5 luglio perché ormai tutti vogliono essere pagati in contanti. Si esce con pochi soldi in tasca per evitare furti. E la spesa si fa solo al mini-market sotto casa, dove per fortuna prendono la Visa». I Mitropoulos non sono stati i soli a fare i conti della serva. Risultato: «Guardi Odos Stadiou qui davanti. Nota niente di strano? E’ vuota, come in una domenica d’agosto! - ride Evangelis - . L’auto nel box l’ha lasciata mezza Atene. Per risparmiare benzina». I veri politici sono quelli che capiscono al volo di cosa ha bisogno il popolo. E Alexis Tsipras- in queste ore in cui tutti si ingegnano a tirare la cinghia – ha dimostrato di aver fiuto: ieri sera – tra una telefonata ad Angela Merkel e una con Jean Claude Juncker – ha convocato il ministro dei Trasporti dandogli un ordine irrevocabile: «Da ora e fino al 6 luglio, tutti i mezzi di Atene saranno gratuiti ». Liberi tutti. Si può salire su autobus, tram e metropolitana senza biglietto. «Non che cambi molto visto che già prima lo pagava si e no il 10% dei passeggeri – confida Helena alla stazione di Syntagma - . Ma almeno non c’è l’ansia da controllori». La situazione è grave ma non seria, direbbe Ennio Flaiano. A 12 ore dalla serrata bancaria, Atene vive una giornata tranquilla e sembra aver già imparato ad arrangiarsi. Non fosse per il dramma degli esodati del bancomat, quelle decine di migliaia di pensionati che con Pin e sportelli automatici non hanno mai voluto aver niente a che fare. Maria Metaxas - 72 anni tutta grinta, ferma dalle nove di mattina davanti alla Alpha Bank ai Propilei - è una di loro. «Me l’aveva detto mia figlia che avrei dovuto imparare a usarla quella benedetta targhetta », confessa. Non l’ha fatto («non l’ho nemmeno ritirata…») ed è pentita: «In casa mi sono rimasti pochi euro. Se non riaprono la banca, mi tocca andare a casa di mio genero ». Immaginiamo la felicità (del genero). In suo soccorso però è in arrivo l’aiutino di un San Tsipras in campagna elettorale: il governo ha obbligato i big del credito ad aprire giovedì pomeriggio 840 filiali solo per servire i pensionati allergici agli Atm. Anche se i prelievi – la legge è uguale per tutti – saranno contingentati a 240 euro. La vita sotto la spada di Damocle dei controlli dei capitali non è naturalmente tutta rose e fiori. A ricordare a tutti che non siamo su un reality sponsorizzato dai teorici della decrescita felice ma in una tragedia sociale nel cuore d’Europa è stata ieri l’associazione 23 delle aziende farmaceutiche europee. «In questa situazione e in caso di Grexit la fornitura agli ospedali ellenici è a rischio », hanno scritto alla Ue. Atene ha arretrati per un miliardo. E loro, per continuare a garantire le forniture, vogliono certezze (leggi fideiussioni) da Bruxelles. Speriamo non servano. Per ora a soffrire, fatte le debite proporzioni, sono i turisti stranieri che sabato e domenica hanno vissuto ore da incubo, passate a rimbalzare da una banca all’altra a caccia (spesso infruttuosa) di un bancomat funzionante per riempire il portafoglio. «Ho perso una giornata intera di vacanza. – racconta James Kepner, in viaggio con un gruppo della tedesca Tui - . Per fortuna oggi l’agenzia ci ha mandato una mail dicendoci che per gli stranieri non valgono i tetti ai bancomat. E dieci minuti fa sono riuscito a prelevare 250 euro». Tra gli sguardi d’invidia dei greci, ammette. Meglio che non si sieda sugli allori e li metta al sicuro rapidamente nel “safe” dell’albergo. In questa città a corto di contanti, le comitive dei viaggi organizzati – confidano ridendo i taxisti di Syntagma – sono «piccole banche a cielo aperto». E diversi hotel hanno deciso di pagare di tasca loro vigilantes privati che sorvegliano i bancomat più vicini per evitare spiacevoli incidenti ai loro ospiti. Chi ha poche armi per difendersi sono i negozianti. «Come va? Male. Ogni giorno devo sborsare almeno 800 euro tra farina, latte, uova, uvette, cioccolata e crema – racconta Elena, alla cassa della panetteria all’angolo tra Mavromichali e Akadimias - . E senza liquidità qui rischia di fermarsi tutto ». Le grandi imprese, più lungimiranti, si sono messe al sicuro per tempo, trasferendo la liquidità all’estero e tenendo ad Atene solo il necessario per pagare gli stipendi: «La crisi era nell’aria e noi avevamo dato indicazioni precise - confermano alla Confindustria ellenica e speriamo che si possa prelevare il necessario per le buste paga». La prima giornata senza contanti, insomma, è andata in porto in Grecia senza scossoni. Ci si arrangia, si fa di necessità virtù. Si compra pollo invece di carne, pesce azzurro invece di ricciola. Si rimandano gli acquisti non necessari. Sperando che passi la nottata. Tutti sanno bene che se il black out bancario dovesse continuare a lungo la musica sarebbe diversa. Il governo Tsipras ha iniziato a prepararsi. Ha messo la polizia in stato d’allerta, ha bloccato le ferie delle forze dell’ordine. Domenica si vota. E Atene, incrociando le dita, spera che da lunedì tutta la città possa tranquillamente tirare le macchine fuori dai box. Del 30/06/2015, pag. 9 Jean-Paul Fitoussi “La Germania potrebbe ricordarsi che dopo la seconda guerra mondiale le fu condonato un immane debito” “Rischiamo il disastro la Merkel poteva evitarlo se voleva salvare la Ue” EUGENIO OCCORSIO ROMA. «Io mi chiedo come sia stato possibile che dei governi moderni, responsabili, pieni di ottimi cervelli, non siano riusciti ad evitare che si andasse a finire in una situazione così drammatica». Jean-Paul Fitoussi, decano degli economisti della gauche più illuminata, non riesce a darsi pace. «L’Europa ha accettato, pur di non ricorrere a un supplemento di solidarietà, di prendere un rischio gigantesco, quello di una deflagrazione finanziaria mondiale di portata inimmaginabile. Ma ha anche accettato qualcosa di ancora più orribile», dice il guru di quel crogiuolo di pensiero progressista che è l’università parigina SciencesPo. 24 A cosa si riferisce, professore? «Ha ragione per una volta la Merkel. Se salta la Grecia, e con essa sicuramente verrebbe giù l’intera architettura dell’euro, se finisce insomma l’idea di una moneta comune che avrebbe dovuto unirci anziché dividerci, salta l’intera idea dell’Europa. Solo che la cancelliera aveva in mano la possibilità di evitare tutto questo. Non lo ha fatto. Mi dannerò l’anima cercando di capire perché». Forse perché non è facile negoziare con Tsipras e Varoufakis. Si raccontano aneddoti imbarazzanti sull’atteggiamento al tavolo negoziale. «Macché. Se avesse voluto il governo tedesco avrebbe chiuso l’accordo. Certo, si trattava di fare ulteriori concessioni alla Grecia, che non ha fatto molto per meritarle. Ma bisognava avere l’intelligenza di astrarsi dal mero contenuto finanziario: bisognava salvaguardare l’integrità dell’Europa, visto che in un’Europa così fatta, ci piaccia o no, ci troviamo a vivere. Bisognava salvare l’idea di un continente che fino a pochi decenni fa era sconvolto da guerre vere, con milioni di morti, e oggi si trova a vivere in pace con una comune ambizione al progresso. Poi, la Merkel poteva, se non altro per riguardo agli altri, pensare: le vicende della storia portano la Germania ad essere la potenza dominante, però la memoria non inganna. Dopo la seconda guerra mondiale a Berlino fu condonato quasi per intero un immane indebitamento, perché non si ripetesse quello che era successo dopo la fine della prima, di guerra, quando invece i debiti non erano stati perdonati e si è dato il via a Weimar e tutto quello che è seguito. Ma dobbiamo proprio ricorrere a questi ricordi odiosi per spingere la Germania ad essere realista, flessibile, magnanima?» Non c’era solo la Merkel a quel tavolo. Dagli altri governi europei perché non è venuta una parola in favore del buon senso? «Semplicemente perché Hollande e Renzi si sono dimostrati non voglio dire delle mezze figure, ma solo dei generici dispensatori di buoni sentimenti. L’iniziativa politica è rimasta ai tedeschi, che sono di natura rigidi e inflessibili. Però in questo caso è inutile scomodare le categorie della differenza antropologica fra un berlinese e un ateniese: serviva uno sforzo di realpolitik. Anche perché c’è una teoria economica di base, che viene insegnata alle scuole medie, che dice che quando hai un forte credito non ha senso accanirsi sul debitore per spillargli per intero quanto dovuto, perché così si finisce con l’ottenere niente. Bisogna per forza negoziare per recuperare almeno metà, o due terzi o un terzo che sia». Il problema è nelle cifre in gioco, che sono enormi: il salvataggio dell’Argentina costò 100 miliardi, qui ne sono già stati dispensati 350 e non bastano, fin dove si vuole arrivare? «Guardi, innanzitutto la Germania e gli altri membri della troika, Bce e Fmi, devono mettersi la mano sulla coscienza. Hanno fin dall’inizio imposto una ricetta, quella dell’austerity, che non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Avete corso lo stesso pericolo in Italia, vi siete salvati perché avete una struttura industriale di prim’ordine a differenza della Grecia. Io ho scritto l’anno scorso un libro, “La teoria del lampione”, per dimostrare che non bisogna guardare solo al cono di luce del lampione, dove evidentemente si vede solo che bisogna risparmiare, ma ampliare la visione al contesto. E si sarebbe visto che nella condizione attuale imporre alla Grecia una terapia lacrime e sangue avrebbe portato al punto in cui siamo ora. E alla vittoria dei movimenti antieuropei alle elezioni. Bel risultato». Del 30/06/2015, pag. 5 Per la Merkel una leadership in crisi 25 “Se fallisce l’euro fallisce l’Europa” La Cancelliera: spero che Atene non esca, serve un compromesso Tonia Mastrobuoni Torna sempre utile, la storiella di Angela Merkel che durante le lezioni di nuoto saltava dal trampolino dopo la campanella, alla fine della lezione. Troppo tardi. Lo ha fatto più volte, durante l’interminabile crisi greca. Ma lo scorso fine settimana è stato fatale. Ieri ha riunito il partito, ha ricompattato la coalizione di governo dietro la linea del “falco” Wolfgang Schaeuble, ma la sua disfatta storica è sotto gli occhi di tutti. Sarà la “leader riluttante” di un’Europa titubante che ha permesso che la Grecia finisse sull’orlo del lastrico, rischiando di disgregare l’euro. Almeno, la festa per i 70 anni della Cdu non è stata allegrissima, ieri mattina. All’ingresso del Konrad-Adenauer-Haus, il commissario europeo Oettinger ha dato il tono già la mattina presto, alla riunione del partito: «Vorremmo mantenere la Grecia nell’euro, ma non so se ci riusciremo». A chi dare la colpa Nel confronto con i cristianodemocratici, come è emerso più tardi, il tentativo di Merkel e Schaeuble è stato quello di sostenere che è tutta colpa del governo Tsipras - versione espressa anche in una lettera inviata dal ministro delle Finanze al partito. Con la decisione di indire un referendum, ha detto Merkel, la Grecia ha interrotto le trattative. Il suo tentativo, in conferenza stampa, di sostenere che «oggi l’Europa può reagire in maniera più robusta rispetto a cinque anni fa» rasentava tuttavia il patetico, con le Borse in picchiata da Tokyo a Washington. La Cancelliera ha sottolineato che «l’Europa può esistere solo se è capace di fare compromessi», e «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa». Merkel ha aggiunto che l’Europa deve sempre trovare un equilibrio «tra solidarietà e responsabilità», soprattutto che «bisogna sempre trovare un compromesso» perché «nessuno può ottenere il 100%». La Cancelliera si è detta «disponibile» a riprendere il dialogo con Atene, dopo il referendum. Secondo la Cancelliera la Grecia ha il diritto di indire un referendum e la Germania ne accetterà il risultato. La leadership del partito Molto più duro della leader del Cdu, il vicecancelliere socialdemocratico Sigmar Gabriel. Accanto a Merkel in conferenza stampa - la Cancelliera ha anche incontrato i capi di tutti i partiti per informarli sul fine settimana brussellese più drammatico della storia dell’euro - il ministro dell’Economia ha detto che per la Grecia devono valere le stesse regole che per gli altri paesi europei. Gabriel ha accusato Tsipras di atteggiamento «ideologico» e ha detto che il referendum sarà una scelta del popolo greco sulla «permanenza nell’euro». Dopo le tensioni delle ultime settimane nel partito, emerse quando erano circolate voci sulle possibili dimissioni di Schaeuble, Merkel ha deciso dalla scorsa settimana di restituire lo scettro della trattativa al suo ministro più importante. Qualche sondaggio l’aveva anche data in discesa di qualche punto, rispetto ai suoi soliti, stellari indici di popolarità, a causa della disponibilità a trattare mostrata in queste ultime settimane. Ora che il negoziato sulla Grecia è naufragato, si è ripresa il partito. Ma la corona di regina d’Europa è piuttosto ammaccata. Del 30/06/2015, pag. 5 Juncker agli elettori greci “Al referendum votate sì ” 26 Rotta la neutralità della Commissione. E Schulz (Spd) farà campagna ad Atene Marco Zatterin L’emergenza riscrive il galateo politico dell’Europa. Il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, ha rotto ieri uno storico tabù e ha invitato gli elettori greci a votare “sì” al referendum del 5 luglio. Non s’era mai vista un’invasione di campo nelle questioni nazionali così netta. Il lussemburghese ha voluto giocare il tutto per tutto. «Un “no” sarebbe interpretato come una presa di distanza, un rifiuto dell’Unione e dell’euro», ha detto, dando la linea al dibattito che ha animato il fronte a dodici stelle sino a notte. Da un lato, si invita Atene a evitare il peggio. Dall’altro, si continua a tendere la mano per scongiurare il tracollo e la crisi. «Se fallisce l’euro - afferma con tono grave la cancelliera Merkel - fallisce l’Ue». Oggi è l’ultimo «G-Day» che rientra nelle regole già scritte, il «Giorno più lungo della Grecia» che, salvo miracoli, comporterà due eventi da «peggior scenario». Alle ore 18 di Washington, il Fondo monetario si aspetta che Atene gli invii un bonifico da 1,6 miliardi, cosa che difficilmente accadrà. A mezzanotte scade anche il secondo programma di salvataggio coi 7,2 miliardi che avrebbero permesso a Tsipras di pagare i debiti per qualche settimana: la rottura di venerdì sera ne ha impedito l’utilizzo. Ora c’è che dice, come la stessa Merkel, che «l’Ue non può abbandonare solidarietà e responsabilità» ed è pronta «a negoziare ancora, se Tsipras vorrà». Restano poche ore, l’impresa è ardua. L’alternativa è una soluzione-ponte che arrivi sino al lunedì del dopo referendum senza far fallire i greci, sperando poi che una affermazione del «sì» consenta di rimettere - e non sarà semplice - le cose lentamente a posto. Sarebbe essenziale che il Fmi non assumesse decisioni troppo rapide, cosa che più voci da Washington lasciano pensare possibile. La Bce farebbe il resto. Tsipras ha scritto ai leader europei sollecitando la proroga di un mese del piano di assistenza, così da non creare troppe turbolenze con l’approssimarsi del referendum. Non risulta che gli abbiano risposto. Ma il fatto che gli sherpa dei tre creditori siano riuniti in permanenza significa che il paziente è vivo. Il resto è pressing politico. Juncker ha illustrato il suo appello per il «sì» con l’esigenza di parlare ai cittadini greci perché «non voglio che Platone finisca in serie B», e «perché non ci si deve uccidere per paura della morte». «Mai chiesto tagli agli stipendi e alle pensioni», ha assicurato mentre ribadiva che il referendum è sull’Europa, non solo sul piano dell’ex Troika. Anche lui ha parlato di «porta aperta», come il presidente Hollande che ha avuto un colloquio con Obama. Gli Usa spingono per un accomodamento, alla stregua della Cina, il cui premier Li Kequiang ha detto a Bruxelles di essere «pronto a giocare un ruolo costruttivo», perché la Grecia nell’euro è «nell’interesse di tutti». Lo è al punto che il numero uno dell’Europarlamento, Martin Schulz, ha deciso «di andare a fare campagna per il “sì” in Grecia». E’ una mossa politica inedita per il tedesco come per il lussemburghese. Coraggiosa quanto rischiosa. Ma qualcuno, a questo punto, doveva uscire a viso aperto per difendere l’Europa e la sua integrità. Del 30/06/2015, pag. 34 Li: «Tenete la Grecia nell’euro» L’appello del premier cinese ai partner Ue - «Vorremmo partecipare all’Efsi» 27 Non poteva svolgersi in una giornata peggiore per l’immagine dell’Europa il 17mo vertice bilaterale tra la Cina e l’Unione europea che si è svolto ieri qui a Bruxelles. Mentre la Grecia sta tenendo la zona euro drammaticamente in bilico, il premier Li Keqiang ha incontrato ieri il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Insieme, hanno discusso della crisi debitoria greca, di cooperazione economica e di diritti umani. «Siamo pronti a lavorare con l’Europa per aumentare la cooperazione sul fronte degli investimenti: vorremmo partecipare al Fondo europeo per gli investimenti strategici», ha detto Li. «La Cina - ha aggiunto - è disposta a lavorare con il programma di investimenti dell’Ue per l’Europa e fare un passo avanti per lo sviluppo delle infrastrutture». Ancora una volta, tuttavia, il governo cinese non ha precisato quanto denaro sia pronto a versare nell’EFSI che nascerà con un capitale iniziale di 21 miliardi di euro. Li ha colto l’occasione del vertice per assicurare l’establishment europeo che avrebbe continuato a detenere debito europeo, nonostante la drammatica crisi che sta colpendo la Grecia e potenzialmente la zona euro. Il gigante asiatico rimarrà «un detentore responsabile e di lungo termine del debito pubblico della zona euro», ha detto il primo ministro cinese durante una conferenza stampa, un esercizio che i dirigenti cinesi prefriscono tendenzialmente evitare in Europa. Riferendosi alla crisi greca, Li ha spiegato: «Non è solo un problema europeo, ma riguarda anche le reazioni cino-europee ed è un problema mondiale». Proprio a proposito della Grecia, un paese nel quale la Cina ha investito negli ultimi anni nonostante la crisi debitoria, Pechino ha confermato ieri che il paese «ha interesse» perché la Grecia rimanga nella zona euro. «Chiediamo ai creditori internazionali - ha precisato Li - di fare progressi e di raggiungere un accordo con Atene». A una specifica domanda se la Cina fosse pronta a offrire prestiti alla Grecia, Li non ha risposto direttamente. Si è limitato a spiegare che l’obiettivo della Repubblica popolare è di avere una Europa “unita”, “prospera”, e un euro “forte”. Sempre a proposito della situazione in Grecia, ieri Mosca ha esortato Bruxelles a evitare «uno scenario nefasto» e spiegato di “capire bene” il premier Alexis Tsipras che nell’indire un referendum sulle ultime proposte di accordo con i cfreditori ha creato nuove tensioni tra Atene e Bruxelles. Proprio in questa fase, Pechino sta premendo per poter ottenere lo status di economia di mercato, ma l’establishment comunitario vuole aspettare prima di concedere questa possibilità. «Sappiamo che la Cina è molto interessata ad ottenere questo status – aveva spiegato prima del vertice un funzionario comunitario –. Una scelta dovrà essere presa nel dicembre 2016 (quando scadrà un protocollo dell’Organizzazione mondiale del Commercio del 2001, ndr). Stiamo ancora analizzando la questione». La Cina è il secondo partner commerciale dell’Unione dopo gli Stati Uniti. Nel 2014, ha rappresentato il 14% del’interscambio europeo con paesi terzi. Sul fronte più politico, Tusk ha incoraggiato durante la conferenza stampa di ieri sera la dirigenza cinese a riprendere con i rappresentanti del Daila Lama «un dialogo che abbia senso». Il presidente del Consiglio europeo ha anche espresso «preoccupazione» per la situazione delle minoranze cinesi nel Tibet. del 30/06/15, pag. 3 Troika Appesi alla Bce di Draghi Anna Maria Merlo PARIGI 28 Mancano poche ore alla scadenza ultima, il rimborso di 1,6 miliardi all’Fmi che salvo un colpo di scena improbabile non sarà onorato. Non sarà il default immediato ma l’inizio di una procedura che, se nulla cambia, avrà inevitabilmente questa destinazione finale. Ma gli europei hanno passato la giornata a insultarsi e a scaricarsi reciprocamente le responsabilità dello stallo. Ha cominciato Jean-Claude Juncker, che si è detto “tradito” dal governo greco, che ha “spezzato lo slancio del compromesso in modo unilaterale” organizzando il referendum di domenica. Il presidente della Commissione ha chiuso l’apertura ventilata in mattinata dal commissario Pierre Moscovici, per il quale siamo “a pochi centimetri dall’intesa” e la “porta dei negoziati è aperta”. Nessuno a Bruxelles ha ascoltato la raccomandazione di riprendere il negoziato venuta dal segretario al tesoro Usa, Jack Lew (Obama ne ha parlato al telefono con Hollande). Juncker ha invitato i greci a votare “si’”, perché un “no” sarebbe un “no all’Europa”, e “per paura della morte non ci si deve suicidare”. La situazione è surrealista, perché il referendum sarà sul testo di un accordo che nei fatti non esiste più. A Bruxelles e nelle capitali dell’Eurozona il risultato della consultazione popolare di domenica sarà letto come una scelta pro o contro l’appartenenza della Grecia all’Euro (e alla Ue). Tsipras ha cercato contatti ieri. Ha telefonato a Juncker e a Martin Schultz (Parlamento), per chiedere di nuovo un’estensione del cosiddetto programma di “aiuti” almeno fino al referendum. “No way” per Bruxelles, che spera di avere presto altri interlocutori ad Atene. L’Europarlamento chiede un vertice straordinario e anche Schultz ha invitato i greci a votare “si”: prese di posizione che rischiano di favorire il “no”. Angela Merkel, che ha riunito i leader dei partiti, ha affermato che “la Germania è disposta” a riaprire il dialogo, sempre che “la parte greca ne senta il bisogno”. Ma per il momento Merkel aspetta il risultato del referendum e rifiuta un vertice straordinario. François Hollande, che ha presieduto in mattinata un consiglio ristretto all’Eliseo, ha condannato l’idea del referendum, proprio quando “eravamo molto vicini a un accordo”, anche se si rassegna alla consultazione popolare: “è democrazia, è un diritto del popolo greco di dire cosa vuole per il futuro”. Accuse di “menzogne” tra Tsipras e Juncker: per il presidente della Commissione il governo greco “mente” al suo popolo, mentre per il premier greco “il primo indice di buona fede in un negoziato è la sincerità”. Ma una volta detto che tutti vogliono tornare a negoziare e che nessuno vuole che la Grecia esca dall’euro, la preoccupazione è di evitare il peggio in caso di Grexit. Le Borse tremano, i mercati sono in agguato, Merkel drammatizza: “la fine dell’euro sarebbe la fine della Ue”. Ci sono paesi a rischio sul fronte del debito pubblico. Tutti hanno cercato di rassicurare. Da Bruxelles insistono sul fatto che dal 2011 sono stati messi in atto dei parafulmini: il Mes (salva-stati), un abbozzo di Unione bancaria (dall’aprile del 2014, senza grandi passi avanti al momento, pero’), e anche la manovra di quantitative easing della Bce, che potrebbe comprare debito per evitare un effetto contagio a valanga, dalla Spagna al Portogallo, all’Italia, persino alla Francia nello scenario più nero. “Ci sono inquietudini che possono esistere sui mercati, ma voglio essere chiaro su questo punto – ha precisato Hollande – da vari mesi sono state prese misure molto importanti per consolidare la zona euro”. E la Francia “non è più nella stessa situazione di 4 anni fa”, ha “un’economia robusta”, vuole rassicurare Hollande. La Bce è l’ultimo filo che lega la Grecia alla Ue. Francoforte non ha chiuso il rubinetto dell’Ela (liquidità di emergenza), l’ultimo rimasto, ma ha rifiutato un aumento dell’erogazione di 6 miliardi, richiesto ieri da Atene. In caso di “no” al referendum anche questa linea sarà chiusa e addirittura il Mes, stando a un articolo del Memorandum firmato da Atene nel 2012, potrebbe chiedere il rimborso dei prestiti, 150 miliardi. Come dire che il nodo scorsoio è sempre più stretto sul collo della Grecia, se non accetta i termini del negoziato proposti dai creditori. 29 del 30/06/15, pag. 3 Land della ex Ddr in bancarotta. E tre milioni di nuovi poveri Germania. Statistiche illuminanti sul «lato B» dell’unificazione. Effetto Hartz IV per 499 mila anziani. E si allunga la coda degli indigenti Sebastiano Canetta BERLINO È il vero default che preoccupa Berlino. Un fallimento politico, economico e sociale ormai conclamato. Un buco nero più profondo di quello di Atene. La Grecia? Resta saldamente dentro i confini. E parla — perfettamente — tedesco… A 25 anni dalla «riunificazione» la Grosse Koalition fa i conti con la bancarotta (non solo) dei Land dell’ex Ddr. Il risultato è un esercito di indigenti che si ingrossa a vista d’occhio. Tre milioni di cittadini sotto la soglia di povertà; 400 mila abitazioni in cui non si accende nemmeno più il riscaldamento; altre 500 mila persone fanno i salti mortali per mettere insieme pranzo e cena; altrettanti pensionati a cui non basta più l’assegno mensile. Assistiti, soccorsi, finanziati. Tutti a carico dei ricchi «terroni» della Germania del Sud che pagano — a pie’ di lista — la social card con cui campa il 7,6% dei tedeschi. È il «modello Nord Est» del Paese che guida l’Europa: anche l’ennesimo doppio-standard della Bundesrepublik che vale soltanto per chi ha il passaporto federale. Nessun segreto di Stato, anzi. Basta aver voglia di sfogliare, come sempre, i dati ufficiali. Quelli diffusi dal portale Statista di Amburgo parlano da soli. Analizzano la distribuzione geografica dell’Hartz IV (il pacchetto di aiuti sociali varato 11 anni fa dall’ex cancelliere Spd Gerhard Schröder) e disegnano la mappa dei nuovi e vecchi poveri della Germania. Ad aprile 2015 la situazione era la seguente: il 16,5% delle indennità (399 euro al mese a persona) viene assorbito da Berlino, il 14,6% dalla città-stato di Brema, l’11,9% dalla Sassonia Anhalt, l’11,7% dal Mecleburgo-Pomerania Anteriore e il 10,5% da Amburgo. Seguono Brandeburgo (9,6%), Nordreihn-Westfalia (9,4%) Sassonia (9,3) Saar e Turingia (8%) insieme allo Schleswig-Holsten (7,9%). Appena sotto la media si classificano Bassa Sassonia (7,5%) Assia (7,1%) e Renania-Palatinato (5,7%). Di fatto i Land dell’ex Ddr si «mangiano» il 9,9% degli aiuti, mentre i «cugini» dell’ex Germania Ovest si fermano a quota 6,5%. A pagare, da oltre un decennio, sono gli svevi del Baden-Württemberg (4,2%) e i bavaresi che usufruiscono solo del 3,5% delle risorse Hartz IV. Un Paese a due velocità, proprio come l’Europa. E un muro sociale più insuperabile della vecchia cortina di ferro, che divide ancora gli ossi dai wessi. Ma non basta, perché a livello Hartz IV stanno precipitando anche i pensionati. Secondo Destatis (l’istituto statistico federale) a fine 2013 la quota di Over 65 sulla soglia della povertà aveva raggiunto 499.295 tedeschi (+7,4 rispetto al 2012). Le più colpite sono le donne e chi vive nelle città-stato come Berlino o nelle aree portuali di Brema e Amburgo, particolarmente investite dalla recessione. A questo si aggiungono 600 mila persone che non hanno i soldi per comprare un mezzo di trasporto, e metà del campione analizzato che non può permettersi neppure una settimana di vacanza durante l’anno. L’ultimo scalino è occupato dalla casta di miserabili e nullatenenti «intoccabili» perfino dalla statistica. Sopravvivono grazie agli aiuti della Caritas o di Mission, l’equivalente della 30 chiesa evangelica: fanno la coda dalle 8 del mattino ai centri nelle stazioni ferroviarie (a Berlino allo Zoo e Ostbahnof) per due brioche e una tazza di tè; raccolgono i vuoti delle bottiglie di birra (valgono 8 cent l’una); aprono la porta o fanno i custodi delle biciclette di chi entra nelle filiali bancarie. Un vero e proprio dramma come e peggio di quello greco, di pubblico dominio almeno da gennaio. «Il numero di lavoratori con reddito appena al di sotto o leggermente al di sopra dell’Hartz IV è allarmante» aveva detto sei mesi fa Ulrike Maschner, 76 anni, presidente dell’associazione VdK Deutschland, in un’intervista al Saarbrücker Zeitung. Fa il paio con la spia accesa sulla rete N24 da Ulrich Schneider, direttore generale del Deutsche Paritätische Wohlfahrtsverband: «Abbiamo bisogno in primo luogo di aumentare il salario minimo (da gennaio è 8,5 euro all’ora ndr) e dobbiamo accompagnare questa politica con assegni familiari più elevati per le famiglie a basso reddito e aumenti dei sussidi per l’alloggio». È il lato B dell’inflessibile Germania di Angela Merkel. E — parafrasando il motto dell’ex borgomastro della capitale Klaus Wovereit — l’altra faccia della medaglia di «Berlino (sempre più) povera e (sempre meno) sexy». Del 30/06/2015, pag. 14 L’inchiesta. Nonostante i bombardamenti aerei della coalizione guidata dagli Usa, lo Stato islamico è più forte oggi di quanto non fosse quando è stato proclamato. Fra le cause della disfatta, le valutazioni sbagliate di Stati Uniti e Unione europea, ma anche la debolezza degli alleati iracheni e siriani Un anno di califfato così gli errori dell’Occidente hanno aiutato l’Is PATRICK COCKBURN Lo ”Stato islamico” oggi è più forte di quanto non fosse quando è stato proclamato, il 29 giugno dell’anno scorso, poco dopo la conquista di gran parte dell’Iraq settentrionale e occidentale. La sua capacità di continuare a incamerare vittorie è stata confermata il 17 maggio scorso in Iraq, quando le truppe dell’Is si sono impadronite di Ramadi, capoluogo della provincia dell’Anbar, e di nuovo quattro giorni dopo in Siria con la presa di Palmira, una delle città più famose dell’antichità e importante snodo dei trasporti in tempi moderni. Queste due vittorie sono la dimostrazione di quanto si sia rafforzato l’Is, che ora è in grado di attaccare simultaneamente su più fronti e a centinaia di chilometri di distanza, una capacità che fino a un anno fa non aveva. In rapida successione le sue forze hanno sconfitto l’esercito iracheno e quello siriano, e nessuno dei due, dato altrettanto significativo, è stato in grado di mettere in piedi una controffensiva degna di questo nome. Teoricamente questi successi non avrebbero dovuto essere possibili con i raid aerei della coalizione a guida statunitense. I bombardamenti sono cominciati lo scorso agosto in Iraq e sono stati estesi alla Siria in ottobre, e le autorità americane recentemente hanno dichiarato che le quattromila missioni aeree condotte dalla coalizione avevano portato all’uccisione di diecimila combattenti dell’Is. Sicuramente la campagna aerea ha inflitto perdite pesanti all’organizzazione islamista, ma ha compensato il numero di miliziani uccisi incoraggiando il reclutamento all’interno dell’autoproclamato califfato. La cosa che rende particolarmente rilevante la caduta di Ramadi e di Palmira è che non sono state conquistate con attacchi a sorpresa, come successe quando qualche migliaio 31 di combattenti di Daesh (l’acronimo arabo dell’Is) si impadronirono di Mosul, la seconda città dell’Iraq, nel 2014. A Mosul c’era una guarnigione che contava circa ventimila uomini, ma in realtà nessuno sa quale fosse il numero esatto, perché le forze armate irachene erano piene di soldati «virtuali», che non esistevano fisicamente e servivano solo a consentire a ufficiali e funzionari governativi di intascarsi i loro stipendi: il Governo di Bagdad successivamente ha ammesso l’esistenza di cinquantamila di questi finti soldati. Come se non bastasse, c’erano molti soldati che esistevano ma versavano almeno metà del loro salario agli ufficiali a condizione di essere esentati dalle mansioni militari. Ma la battaglia di Ramadi avrebbe dovuto andare diversamente. L’assalto dell’Is, a metà maggio, è stato il prevedibile coronamento di una serie continua di attacchi negli otto mesi precedenti, a partire dall’ottobre 2014. Quello che non era prevedibile era la ritirata, in pratica una rotta, delle forze governative, e più a lungo termine la stessa vecchia, fatale disparità tra dimensioni nominali delle forze armate irachene e forza militare effettiva. Un aspetto cruciale del panorama politico e militare dell’Iraq è che l’esercito iracheno non si è mai ripreso dalle sconfitte subite nel 2014. Per fronteggiare gli attacchi dell’Is su più fronti ha meno di cinque brigate (dieci-dodicimila soldati) in grado di combattere, mentre «il resto dell’esercito è buono solo per i posti di blocco», per citare le parole di un alto funzionario delle forze di sicurezza irachene. Nella battaglia di Ramadi non è bastata nemmeno la presenza di truppe esperte. La ragione della sconfitta delle forze governative è stata spiegata in parte del colonnello Hamid Shandoukh, che comandava le forze di polizia nel settore meridionale di Ramadi durante la battaglia finale: «In tre giorni di combattimenti, 76 dei nostri uomini sono stati uccisi e 180 feriti». I comandanti dell’Is hanno usato un cocktail letale di tattiche sperimentate, spedendo volontari stranieri esaltati alla guida di veicoli imbottiti di esplosivi, che si facevano saltare in aria demolendo le fortificazioni delle forze governative. Questi attentati suicidi di massa, con esplosioni capaci di distruggere un isolato, erano seguiti da assalti di truppe di fanteria ben addestrate, con tanto di cecchini e artiglieria. Il colonnello Shandoukh, lui stesso arabo sunnita, dice che la radice del problema è che le forze di sicurezza irachene e le milizie tribali filogovernative non hanno ricevuto rinforzi o equipaggiamenti adeguati. Dice che il problema di fondo sono le divisioni settarie e nascono dal fatto «che il governo teme che mobilitare gli abitanti della provincia dell’Anbar, che sono sunniti, possa rappresentare un pericolo per il Governo in futuro». Non sono molto convinto, come sostiene il colonnello Shandoukh, che la ragione della vittoria dell’Is sia che loro avevano armi più sofisticate e i suoi uomini non le avevano perché il Governo di Bagdad, dominato dagli sciiti, non gliele aveva fornite. La mancanza di armamenti pesanti è una scusa che è stata usata ripetutamente dai leader iracheni e curdi per giustificare i rovesci subiti da forze inferiori per numero. A Mosul l’anno scorso, e di nuovo a Ramadi quasi un anno dopo, abbiamo assistito allo stesso tracollo del morale fra i comandanti delle truppe governative, che ha messo in moto una ritirata disordinata e non necessaria. Come ha detto il generale Martin Dempsey, il capo di stato maggiore delle forze armate Usa, le forze di sicurezza non sono state «spinte fuori» da Ramadi, «sono fuggite via da Ramadi». Secondo il colonnello Shandoukh, la causa principale della disfatta sta nella sfiducia fra sunniti e sciiti. Secondo lui gli abitanti di Anbar, un’enorme provincia che copre un quarto dell’Iraq, sono «visti dal Governo come terroristi; anche gli ufficiali sunniti e i loro distaccamenti non possono contare su un pieno sostegno». Altri danno la colpa alla corruzione e alla natura disfunzionale dello Stato iracheno, in un Paese dove la gente è fedele innanzitutto alla propria confessione religiosa o alla propria comunità etnica e il nazionalismo conta ben poco. Una ragione più accurata di questa disintegrazione militare 32 sta forse nel fatto che l’esercito iracheno (e vale anche per i Peshmerga curdi) è diventato eccessivamente dipendente dai raid aerei. La rabbia malcelata del generale Dempsey per la débâcle di Ramadi nasce forse dalla consapevolezza che quel disastro va oltre la perdita di una singola città e finisce per screditare l’intera strategia portava avanti dagli americani nei confronti dello Stato islamico. L’obbiettivo era usare la potenza Usa in combinazione con le forze locali sul terreno per indebolire e in prospettiva eliminare lo Stato islamico. Washington si era convinta che questa politica stesse funzionando fino al 17 maggio, quando tutto è andato in pezzi. Prova ne è una conferenza stampa, assai poco tempestiva ed eccessivamente ottimistica, tenuta il 15 maggio dal generale di brigata Thomas Weidley, capo di stato maggiore dell’operazione combinata interforze Inherent Resolve, come viene chiamata la campagna di attacchi aerei guidata dagli Usa per sconfiggere lo Stato islamico. «Siamo fermamente convinti che l’Is sia sulla difensiva in ogni parte dell’Iraq e della Siria». Il generale Weidley ha rivelato che la coalizione aveva lanciato 165 raid aerei su Ramadi nel mese precedente, e 420 nell’area di Falluja e Ramadi dall’inizio della campagna, e sembrava del tutto fiducioso che queste incursioni avessero arrestato la sequela di vittorie dell’Isis.Ma lo stesso giorno in cui il generale ostentava tanto ottimismo, l’Is stava espugnando le ultime roccaforti del Governo iracheno a Ramadi. In altre parole, quello che il Pentagono pensava stesse succedendo sul campo di battaglia in Iraq e in Siria era completamente sbagliato. I raid aerei nell’area di Ramadi, e altri 330 sulla raffineria e sulla città di Baiji e dintorni, non hanno impedito all’Is di concentrare le sue forze e lanciare un’offensiva vittoriosa. I generali statunitensi non sono stati i soli a eccedere in ottimismo. La conquista di Tikrit, la città natale di Saddam Hussein, da parte dell’esercito iracheno e delle milizie sciite aveva indotto tanti, in tutto il mondo, a dare per scontato, esagerando, che Daesh fosse in ritirata. Ma poi la perdita di Ramadi ha dimostrato che la linea seguita per sconfiggere l’Is in Iraq è stata un fallimento, e nessuna strategia alternativa è stata ancora proposta. Se la stessa cosa non è successa in Siria è solamente perché lì l’Occidente non ha mai avuto nemmeno una linea da seguir: vorrebbe indebolire il presidente Bashar al-Assad, ma ha il terrore che se dovesse uscire di scena il regime crollerebbe con lui, lasciando un vuoto che verrebbe colmato dallo Stato islamico e dal Fronte al-Nusra, la filiale siriana di al Qaeda , che guida una coalizione di gruppi ribelli arabi sunniti fondamen-talisti, sostenuta da Turchia, Arabia Saudita e Qatar. I moderati sostenuti dall’Occidente giocano un ruolo marginale all’interno dell’opposizione armata siriana. Nonostante tutto ciò, la linea occidentale è di continuare a far finta che esista ancora un’alternativa “moderata” ad Assad, in realtà sempre più debole. Assad, lo Stato islamico e il Fronte al-Nusra hanno tutti e tre beneficiato della militarizzazione totale della politica siriana, dove nessun compromesso è possibile fra gli schieramenti in lizza. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, lo Stato islamico «ha conquistato più della metà della Siria e ora è presente in 10 province su 14». E la maggioranza dei giacimenti di petrolio e gas naturale del Paese sono nelle mani di Daesh. Questi dati forniscono un’immagine esagerata del controllo dell’Is sulla Siria, considerando che il suo controllo si esercita principalmente nelle regioni orientali, scarsamente popolate. Inoltre subisce la pressione delle ben organizzate milizie curdo-siriane, che gli hanno inflitto la sconfitta più grossa respingendolo da Kobane nonostante quattro mesi e mezzo di assedio. Il 16 giugno l’Is ha perso l’importante valico di frontiera con la Turchia di Tal Abyad. Poi è stata cacciata anche dalla città di Ayn Isa e da una vicina base militare, una cinquantina di chilometri appena a nord di Raqqa, la città siriana eletta dallo Stato islamico a sua capitale. Ancora una volta, questi rovesci hanno indotto a dichiarazioni eccessivamente ottimistiche su un indebolimento dell’Is: in realtà in Siria lo Stato islamico ha sul lungo periodo, più opportunità che in Iraq, perché circa il 60 per cento della 33 popolazione è arabo sunnita, mentre in Iraq solo il 20 per cento. In Siria Daesh non è ancora egemone fra l’opposizione sunnita ma potrebbe arrivare a esserlo. E con l’escalation della guerra settaria, la combinazione di fanatismo ideologico sunnita e abilità militare potrebbe diventare difficile da sconfiggere. Del 30/06/2015, pag. 33 Reportage. A un’ora di macchina da Sousse e i suoi resort di lusso, la Tunisia cambia completamente volto Viaggio negli incubatori della jihad A Kairouan, la città sacra delle moschee e roccaforte dei salafiti La moderna Sousse, i suoi resort di lusso, i ristoranti, le luci che non si spengono mai, qui a Kairouan sembrano appartenere a un mondo lontano. Eppure sono sufficienti 50 minuti di auto attraverso una strada che taglia una piana arida e assolata, orlata da lunghe macchie di fichi d’india, per arrivare nella città più sacra della Tunisia, antica capitale del governatorato dell’Ifr?qiya, durante il periodo califfale islamico. È Ramadan, la medina è quasi deserta, la temperatura tocca i 40°. Nel silenzio il minareto della grande moschea di Kairouan, la più antica del Nord Africa, si eleva sui tetti delle case piatte. È in questa città, considerata una roccaforte salafita, che ci riceve Tayib Ghozzzy, l’imam della storica moschea. In principio l’anziano imam preferisce ricordare i tempi antichi, quando da questa città, «partì la conquista del Sud Africa, dell’Algeria per arrivare fino in Spagna. I salafiti non esistono solo a Kairouan – sottolinea - . La gente è convinta che questa città sia una roccaforte salafita per il suo ruolo e importanza storica nella storia dell’Islam. Ma è un centro di cultura e di formazione Il salafismo esiste in tutto il modo. In Tunisia ogni città ha i suoi salafiti». Anche in Tunisia questa versione particolarmente rigida dell’Islam non è una novità, un fenomeno recente. Esisteva già tempo, ma viveva una sorta di perenne clandestinità. L’ex presidente Ben Ali lo aveva stroncato con il pugno di ferro, adottando misure durissime anche nei confronti di movimenti islamici moderati, come Ennahda, costola dei Fratelli musulmani dichiarata illegale. Nei 22 anni di regime migliaia di sostenitori furono arrestati e detenuti a lungo nelle carceri senza processo. Dopo la rivoluzione, Ennahda è uscita allo scoperto, trionfando nelle elezioni politiche del 2011. Ma anche l’Islam radicale ha trovato un habitat congeniale nelle periferie delle città, dove la disoccupazione, soprattutto tra i giovani, ha toccato livelli intollerabili. Dove la frustrazione li ha spinti ad abbracciare le promesse dell’Islam radicale. Sono così venuti allo scoperto gruppi radicali, come Ansar al-Sharia, organizzazione salafita -jihadista di matrice qaedista, che ha approfittato del vuoto di potere post-rivoluzione per la sua organizzata opera di proselitismo. Durata poco, in verità. Perché dopo nel 2013, dopo le violente manifestazioni all’università di Tunisi e l’assassinio dei leader di due partiti di sinistra, il movimento è stato dichiarato organizzazione terroristica. La repressione che ne è seguita è stata particolarmente dura. «Ricordo – continua l’imam – che dopo la rivoluzione le autorità hanno perduto il controllo del territorio, c’è stato un vuoto di potere. I jihadisti sono entrati nelle moschee hanno cambiato i lucchetti, sostituendo gli imam designati dal Governo, trasformando i nostri luoghi di preghiera in centri dove sottoporre al lavaggio del cervello giovani e bambini. Pensate in Tunisia più di 500 moschee erano sfuggite al controllo dello Stato. Ma ora sono pochissime». 34 Kairouan è anche la città da cui proveniva il giovane terrorista che venerdì scorso ha ucciso 32 persone, tra cui molti turisti sulla spiaggia di Kantaoi. «Un lupo solitario che nessuno conosceva in moschea»”, ribatte l’Imam. In soli quattro anni la Tunisia, considerata uno dei Paesi più laici del mondo islamico, è divenuta un serbatoio di aspiranti jhidadisti, il Paese con più persone partite a combattere in Siria e in Iraq nelle file dell’Isis, quasi tremila tunisini. Tornati a Sousse si scopre che la città più turistica del Paese, con le sue luci e i suoi ristoranti, ha anche un altro volto. Ci sono anche quartieri dove i salafiti hanno fatto opera di proselitismo, raccogliendo molti adepti. Anche nella moschea di Hidaya, dove negli ultimi anni le incursioni delle forze di polizia, gli arresti, le perquisizioni alla ricerca di armi sono state frequenti. È in questo grande quartiere che incontriamo una delle persone più introdotte e influenti della comunità salafita locale. Lo chiamano Aghid. La barba islamica, la pelle bianca, questo 42enne rispettato dai salafiti della città non nasconde la ideologia estrema. «Dopo la caduta di Ben Ali – spiega - i salafiti sono potuti uscire allo scoperto. Ed hanno raccolto molti adepti. Oggi però la comunità salafita tunisina è più frammentata e meno organizzata. Conseguenza diretta del giro di vite delle forze governative». Poi continua: «Vi assicuro che sono partiti per la Siria e l’Iraq ben più 3mila tunisini. Io ritengono siano stati non meno di 6mila, compresi quelli, e sono in numero crescente, che si sono uniti alla guerriglia dello Stato islamico in Libia. Dalla fine del 2014 il flusso verso la Siria, dove l’80% dei jihadisti tunisini finisce nelle file dell’Isis, si sta riducendo per i maggiori controlli alle frontiere». Aghid non nasconde la sua ammirazione per lo Stato islamico. «Hizb al-Tahrir (il partito politico salafita tunisino) condivide il nostro obiettivo: instaurare un Califfato islamico dove viene applicata la Sharia nella sua versione più pura. Prima in Tunisia, e poi in tutto il mondo musulmano. Entrando in politica, però Hizb alTahrir ha scelto un percorso diverso. Ma un altra parte della comunità salafita prevede una lotta armata. Inclusi gli attentati». del 30/06/15, pag. 8 Nucleare Iran, stallo a Vienna Trattativa sull'intesa finale . Tehran e Washington sono alle prese con gli equilibri interni. Fine delle sanzioni entro fine anno in cambio del via alla distruzione di centrifughe Giuseppe Acconcia Lo storico accordo sul nucleare iraniano è dietro l’angolo e irraggiungibile allo stesso tempo. Anche la scadenza di oggi — stabilita nei colloqui del 2 aprile a Losanna dove è stata raggiunta un’intesa preliminare su riduzione delle centrifughe, trasformazione delle centrali nucleari in centri di ricerca in cambio della cancellazione delle sanzioni — potrebbe slittare di qualche giorno. «Per uscire dallo stallo, la firma formale dell’accordo potrebbe essere successiva alla revisione e approvazione del Congresso Usa», spiega Trita Parsi, direttore del Consiglio nazionale irano-americano, think tank favorevole all’intesa. «A quel punto ci vorranno trenta giorni per l’approvazione definitiva, se l’intesa venisse raggiunta entro il 10 luglio e sessanta se si andasse oltre», continua Parsi. Ma anche il parlamento iraniano (Majlis) potrebbe insistere sul suo diritto a visionare il testo finale. Insomma, si va avanti a oltranza. Ma prima che Tehran e Washington firmino un accordo che aprirebbe la strada a nuovi negoziati che promuoverebbero la Repubblica islamica a 35 player centrale (lo è già dopo la guerra in Iraq del 2003) per la soluzione dei principali conflitti che dilaniano il Medio oriente (Siria, Iraq, Afghanistan), prima che l’Iran inizi a distruggere le sue centrifughe fino a portarle da 10 mila ad un massimo di 6 mila (in dieci anni), punto chiave dell’intesa preliminare, potrebbero passare altri sei mesi. Questo porterebbe alla cancellazione delle sanzioni internazionali contro Tehran non prima della fine dell’anno. L’accordo che emerge dai colloqui di Vienna prevede anche che per 15 anni Tehran arricchirà l’uranio solo fino al 3,75% (a fini energetici, medici e di ricerca). Lo scopo è impedire all’Iran di produrre un’arma atomica in meno di un anno (breakout). Le centrali di Fordo e Arak saranno trasformate da siti per l’arricchimento in centri di ricerca. Contestualmente, Usa e Ue dovranno cancellare quasi tutte le sanzioni economiche contro Tehran. Anche il Consiglio di sicurezza Onu dovrà approvare l’accordo, revocare tutte le sanzioni e mantenere alcune restrizioni per un periodo concordato. Ormai da due anni, con la svolta moderata di Hassan Rohani in Iran e la bozza di intesa del novembre 2013, quando i tempi stringono e i P5+1 (paesi del Consiglio di sicurezza Onu e Germania) sembrano vicini ad un accordo, è sempre tempo di ulteriori riflessioni, ripensamenti e fibrillazioni. E così il capo negoziatore iraniano, Javad Zarif è volato a Tehran per consultazioni con la guida suprema Ali Khamenei. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov avrà un colloquio bilaterale con il segretario di Stato, John Kerry (mentre non si fermano gli scambi epistolari tra Obama e Khamenei). Le principali resistenze sono tra i Repubblicani a stelle e strisce (che si sono accodati alle dichiarazioni escatologiche contro Tehran del governo israeliano) e tra i leader sauditi. L’ayatollah Khamenei che ha l’ultima parola sull’intesa ha identificato sette «linee rosse» invalicabili per la fine della crisi che dura da oltre dieci anni. La guida suprema si è espressa contro scadenze di lungo periodo, per la continuazione del programma di ricerca e sviluppo, la rimozione immediata delle sanzioni bancarie e tempi precisi e stabiliti per la conclusione dell’intesa. Si è detto poi contrario a qualsiasi ispezione non convenzionale o interrogatorio a militari e scienziati. L’intesa con l’ex «nemico» Usa spacca la società iraniana. La Campagna internazionale per i diritti umani ha condotto uno studio sulle opinioni degli iraniani in merito ai negoziati. Se la maggioranza si è espressa a favore dell’intesa, sono stati aggiunti timore, scetticismo, dubbi e incertezza sull’impatto che avrebbe in politica interna. Secondo un sondaggio condotto dall’Università di Tehran, la maggioranza degli intervistati non ha dubbi che il programma nucleare iraniano è solo a scopo pacifico. Che l’intesa avrà effetti in politica interna rafforzando o indebolendo la leadership moderata al potere a seconda dei temi, lo dimostrano alcune sentenze delle ultime settimane della magistratura iraniana. Da una parte l’uomo forte, il tecnocrate Hashemi Rafsanjani ha incassato la condanna a dieci anni del figlio Mehdi con accuse di corruzione. Dall’altra, gli ultra-conservatori, contrari all’intesa, hanno subito l’arresto di Hamid Baghaei, ex vice presidente di Ahmadinejad, con accuse di frode. del 30/06/15, pag. 8 L’esercito di Erdogan pronto ad entrare in Siria 36 Turchia. Dopo aver tuonato contro la potenziale nascita di uno Stato kurdo al confine, il presidente avrebbe ordinato la creazione di una zona cuscinetto dentro il territorio siriano. Non per combattere l'Isis, ma per cancellare il confederalismo democratico di Rojava Chiara Cruciati Il novello sultano Erdogan è pronto a tutto e non lo nasconde. Pronto a inviare in Siria 18mila soldati, pronto a creare la zona cuscinetto tanto agognata lo scorso autunno e negatagli dall’alleato Usa, pronto a combattere perché nessuna entità statale kurda nasca al confine con la Turchia. Uno Stato kurdo sul pianettolo di casa è l’incubo dell’Akp, il partito del presidente. Per questo, ieri durante il gabinetto di sicurezza, avrebbe autorizzato la modifica delle regole di ingaggio dell’esercito turco. Quelle truppe (a cui durante l’assedio di Kobane il mondo chiese di intervenire per sostenere la battaglia kurda contro lo Stato Islamico) non saranno inviate per frenare l’avanzata del califfo, ma quella dell’autonomia kurda, del confederalismo democratico teorizzato da Ocalan, del modello di società immaginato dal Pkk e oggi realtà a Rojava. «Non permetteremo mai la creazione di uno Stato [kurdo] nel nord della Siria e nel nostro sud», ha tuonato Erdogan nel fine settimana. Così, ieri, secondo quanto riportato dai giornali turchi, il gabinetto ha discusso della creazione di una zona cuscinetto tra Siria e Turchia che impedisca al modello Kobane di contagiare il Kurdistan turco e magari eviti anche l’arrivo di altri rifugiati. Che verrebbero presi e trasferiti di forza dentro il territorio siriano, liberando Ankara dal peso di due milioni di profughi. Secondo i media turchi, all’esercito è stato ordinato di preparare 18mila soldati da inviare, forse già venerdì, al confine. Con un compito chiaro: confiscare e occupare un corridoio di territorio lungo 110 km e largo 33 all’interno del territorio siriano, e che comprenda lo strategico valico di confine di Jarablus (in mano all’Isis). In questo modo Erdogan coronerebbe un sogno finora frenato dalla strenua resistenza kurda: separare i cantoni di Kobane (a est verso l’Iraq) e Afrin (a ovest) e cancellare quasi tre anni di progetto democratico kurdo. Non mancherebbero gli ostacoli: una simile misura, priva dell’approvazione del parlamento, violerebbe la costituzione turca, soprattutto perché presa in completa autonomia, senza una risoluzione Onu. Ma soprattutto provocherebbe un terremoto nell’instabile spettro politico turco: alle elezioni del 7 giugno l’Akp è uscito vincitore a metà, non avendo ottenuto la maggioranza assoluta. Fermo al 40,8%, l’Akp è alla caccia di una coalizione che lo sostenga ma le difficoltà sono consistenti: due dei principali partiti di opposizione non intendono sostenere un nuovo governo guidato dal delfino del presidente, Davutoglu. Non lo vogliono i kemalisti (con il loro 25%) e non lo vuole l’Hdp, la sinistra pro-kurda, sorpresa dell’ultima tornata elettorale (13%). A tenere i piedi in due staffe sono i nazionalisti dell’Mhp (18%), che non intendono entrare in un governo con i kurdi dell’Hdp. Ma allo stesso tempo, pretendono da Erdogan di fare un passo indietro e rientrare nei limiti del suo mandato presidenziale, un vestito che al sultano sta troppo stretto. Senza dimenticare la reazione kurda in Turchia: «Un attacco a Rojava sarà considerato un attacco a tutto il popolo kurdo – ha commentato il comandante del Pkk, Murat Karayilan – Un simile intervento trascinerà la Turchia in una guerra civile». Ad apparire ormai chiaro è il ruolo destabilizzatore che Ankara gioca da anni in Medio Oriente: Erdogan punta al ruolo di leader regionale, obiettivo che ha cercato di raggiungere distruggendo l’ex amico Assad. Per farlo ha garantito libertà di movimento e armi al califfo, non ha sostenuto la resistenza kurdo-siriana, ha premuto per mesi sulla coalizione guidata dagli Usa perché autorizzasse una zona cuscinetto al confine con la 37 Siria e una no-fly zone in chiave anti-Damasco. Ha fallito e ora ritenta, mentre Kobane si libera per la seconda volta dalla minaccia jihadista e l’esercito del presidente Assad avanza dentro la città di Hasakah, comunità kurdo-araba tra Iraq, Turchia e Siria: ieri le truppe governative hanno ripreso la più ampia zona residenziale della città. Un quadro terrificante per Erdogan: con la liberazione di Tal Abyad, i kurdi si sono portati a soli 50 km da Raqqa, la “capitale” del califfato, e creato un collegamento diretto con Kobane. Il territorio oggi controllato dalle Ypg è lungo 180 km, da Ras al-Ain a Jarablus, la cui eventuale presa permetterebbe di lanciare la controffensiva verso i cantoni ovest di Azez e Afrin, al di là dell’Eufrate. E a quel punto i 180 km diverrebbero 300, la frontiera con la Turchia quasi per intero. del 30/06/15, pag. 8 Ucciso Barakat, procuratore generale del Cairo Egitto. Attentato dinamitardo ad Heliopolis: almeno altri tre morti e una decina di feriti. Il presidente al-Sisi nel mirino degli islamisti rafforza la sicurezza in vista dell’anniversario del golpe del 3 luglio Giuseppe Acconcia Hisham Barakat, il temibile procuratore generale del Cairo, è morto ieri in un gravissimo attentato dinamitardo ad Heliopolis, lungo le mura che costeggiano l’Accademia militare. Secondo testimoni, le scene della più efficace azione contro le autorità golpiste erano devastanti: una voragine enorme si è aperta dove è avvenuta l’esplosione, sette autovetture sono andate completamente carbonizzate, altre 31 sono andate in fiamme, la deflagrazione ha danneggiato nove edifici. Sono almeno tre i civili morti nell’attentato e nove i giudici e autisti rimasti feriti. Barakat è stato trasportato immediatamente nell’ospedale al-Nozha di Heliopolis dove però è morto per le ferite riportate durante un intervento di urgenza. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi, reduce da una visita in Germania dove ha incassato il disco verde anche di Angela Merkel nonostante le critiche mosse dal governo tedesco per le violazioni dei diritti umani e l’eccessivo ricorso alla pena di morte, si è immediatamente incontrato con il ministro dell’Interno, Magdy Abdel-Ghaffar, per stabilire misure di sicurezza straordinarie in vista del secondo anniversario dal colpo di stato il prossimo 3 luglio. Poche ore prima dell’attentato il gruppo jihadista del Sinai Beit al-Meqdisi — che in varie occasioni ha riferito della sua affiliazione con lo Stato islamico (Is) — aveva pubblicato un video in cui mostrava l’uccisione di cinque giudici all’indomani della condanna a morte contro l’ex presidente Mohamed Morsi, confermata a metà giugno dal gran muftì di alAzhar. Secondo gli inquirenti, egiziani si tratta di una vera rivendicazione in relazione anche all’ondata di attentati jihadisti che nelle ultime ore hanno avuto luogo in Tunisia e nella moschea sciita del Kuwait. I giudici sono diventati i primi obiettivi di gruppi jihadisti. Barakat, 65 anni, aveva ricevuto numerose minacce prima dell’attentato di ieri; il giudice nel processo Morsi, Khaled Mahgoub è scampato ad un attentato; stessa sorte è toccata a Fathi Bayoumi, impegnato nelle indagini per le accuse di corruzione contro Mubarak. 38 La magistratura egiziana, e Barakat in primis, ha deciso il pugno duro contro i Fratelli musulmani dopo il massacro di Rabaa dell’agosto 2013. Sono oltre mille le condanne a morte (alcune di queste già eseguite anche senza attendere la decisione della Cassazione), inclusi tutti i leader della Fratellanza, la guida suprema Mohamed Badie, e del partito Libertà e giustizia, Mohamed el-Beltagi. Che la giustizia sia il nervo scoperto dell’Egitto di al-Sisi lo dimostra l’ascesa in fretta e furia ai vertici del ministero della Giustizia del discusso giudice, Ahmed al-Zind, che risale allo scorso maggio. Gli islamisti accusano i magistrati di essere politicizzati, di usare due pesi e due misure e, infine, di non avviare processi contro i responsabili del massacro di Rabaa. Nelle scorse settimane, circolavano voci anche di un tentativo di omicidio di al-Sisi. L’attacco avrebbe colpito alcune vetture presidenziali senza coinvolgere in alcun modo il presidente egiziano. L’Egitto attraversa una deriva autoritaria. Da ambienti della Fratellanza, si riferisce di 617 casi di desaparecidos dopo gli arresti di massa effettuati negli ultimi mesi. Ma non soltanto gli islamisti sono nell’occhio del ciclone: undici ultrà sono stati condannati a morte per la strage di Port Said. Negli scontri di piazza tra polizia e tifosi morirono 74 persone. Eppure ci sono stati anche segnali incoraggianti come il riavvio del processo contro Mubarak, con le accuse di aver ordinato di sparare contro i manifestanti nel 2011, direttamente di fronte alla corte di Cassazione. Insieme ai 15 anni di detenzione decisi contro l’ufficiale di polizia che ha ucciso l’attivista comunista Shaimaa el-Sabbagh alla vigilia del quarto anniversario delle manifestazioni di piazza Tahrir, il 24 gennaio di quest’anno. E poi il movimento palestinese che governa Gaza, Hamas, è stato cancellato dalla lista dei gruppi terroristici sebbene le ruspe abbiano distrutto centinaia di abitazioni per allargare la zona cuscinetto con la Striscia nella città frontaliera di Rafah. Del 30/06/2015, pag. 9 Così aerei e truppe speciali Usa controllano il Maghreb dall’Italia Washington ha stretto un’intesa con il governo per usare oltre a Sigonella anche la base di Pantelleria per i voli di ricognizione in funzione anti-terrorismo Rino Giacalone Paolo Mastrolilli Gli Stati Uniti conducono voli di intelligence sull’Africa settentrionale, attraverso un aereo spia che decolla dalla base di Pantelleria. Lo ha confermato il sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi, rispondendo all’interrogazione presentata dal senatore del Movimento 5 Stelle Vincenzo Maurizio Santangelo. Si tratta di una delle varie operazioni che gli Usa gestiscono nella regione, finalizzate a tutelare l’interesse comune di contrastare il terrorismo, e diventate ancora più urgenti a causa del conflitto in corso in Libia, l’instabilità in Tunisia, le minacce dell’estremismo islamico in Algeria, e il traffico degli esseri umani. L’autorizzazione Santangelo aveva presentato un’interrogazione, la numero 3-01822, in cui chiedeva al ministro della Difesa se era vero che la base di Pantelleria veniva usata per voli spia 39 sperimentali; quale autorizzazione era stata richiesta e concessa; che garanzie poteva dare alla popolazione sulla prosecuzione dei voli civili; e se non era meglio usare la base di Sigonella per queste attività. Rossi ha risposto che l’Office of Defense Cooperation dell’ambasciata americana a Roma aveva chiesto allo Stato Maggiore della Difesa l’autorizzazione a schierare temporaneamente un aereo civile King Air BE-350, gestito da un contractor privato per conto del comando Africom, che guida appunto le operazioni nel continente. Lo scopo era «consentire l’esecuzione di missioni di riconoscimento e sorveglianza nel Nordafrica», e Pantelleria era stata scelta perché più vicina di Sigonella alle regioni interessate. Dopo le valutazioni di fattibilità, l’autorizzazione era stata concessa fino al 31 maggio scorso, ma gli americani hanno chiesto di rinnovarla fino alla fine dell’anno. Alleanza strategica L’Aeronautica militare italiana fornisce supporto tecnico-logistico, e il traffico locale non è penalizzato, perché si tratta di una missione al giorno che non ha priorità sui voli civili. Una fonte dell’ambasciata di Via Veneto ha confermato che «in consultazione e con l’autorizzazione del governo italiano, stiamo cooperando per condurre voli di ricognizione». Dunque si tratta di operazioni note, legali e condivise. Le missioni americane Gli Stati Uniti hanno sempre avuto una presenza militare nel Mediterraneo, che però negli ultimi tempi è diventata ancora più cruciale, per difendere loro e noi dal terrorismo, cercare di riportare la stabilità in Nordafrica, e contribuire così anche ad affrontare l’emergenza delle migrazioni. Oltre a Pantelleria, voli di intelligence decollano da Sigonella, dove hanno sede anche altri apparati militari. Tanto su queste basi, quanto sulle navi che incrociano nel Mediterraneo, si appoggiano le forze speciali di pronto intervento, come quelle che ad esempio condussero il raid del 5 ottobre 2013 a Tripoli per catturare il terrorista al Libi. Una volta preso dagli uomini della Delta Force, con l’aiuto di agenti Cia ed Fbi, era stato trasferito a bordo della Uss San Antonio per gli interrogatori. Ora questo genere di presenza è ancora più necessaria, al punto che il Pentagono ha chiesto ai paesi Nato di ospitare a partire da settembre contingenti di Marines a bordo delle loro navi, come l’italiana Cavour. Sono forze che servono a monitorare gli sviluppi sul terreno in Libia e nei paesi vicini, condurre interventi di soccorso, fare prevenzione anti terrorismo, anche alla luce della penetrazione nel paese del Califfato, che ha minacciato apertamente l’Europa. L’attacco appena avvenuto in Tunisia ha dimostrato come questi pericoli riguardano ormai tutti, e si salda anche ai timori che le migrazioni vengano usate per far arrivare in Italia dei terroristi. La coalizione anti Isis è guidata dall’ex generale John Allen, che è stato a Roma in varie occasioni per coordinare le operazioni comuni. A marzo ha tenuto un vertice con i membri del Quint, cioè Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia, in cui ha sollecitato proprio gli altri alleati a fare di più per i paesi come l’Italia, che hanno la minaccia terroristica «davanti alla porta di casa». del 30/06/15, pag. 9 Israele abborda la “Marianne” in acque internazionali Gaza. Con un blitz, ampiamente previsto, i commando israeliani hanno bloccato l'imbarcazione principale del nuovo convoglio della Freedom Flotilla, diretto a Gaza. Arrestati i 18 passeggeri e membri 40 dell'equipaggio, portati contro la loro volontà al porto di Ashdod. Per il premier israeliano Netanyahu è stato tutto «legale» e gli attivisti interzionali sono degli «ipocriti». Michele Giorgio GERUSALEMME Gli organizzatori della Freedom Flotilla III non usano mezze parole. Parlano di atto di pirateria, di sequestro di 18 persone, avvenuto a 190 km dalla costa di Gaza, quindi in acque internazionali. Denunciano la mancanza di notizie sui 18 passeggeri e membri dell’equipaggio della “Marianne”, circondata ieri prima dell’alba dalla Marina militare israeliana, abbordata da un commando e costretta a dirigersi al porto di Ashdod. La Freedom Flotilla Italia in particolare ricorda di aver chiesto, con largo anticipo, attenzione e protezione per i passeggeri del nuovo convoglio per Gaza — una cinquantina in tutto, tra i quali l’ex presidente tunisino Moncef Marzouki — al capo dello stato Mattarella, al premier Renzi e al ministro degli esteri Gentiloni in visita ufficiale ieri nei Territori occupati palestinesi e in oggi in Israele. «Pretendiamo dalle nostre istituzioni e in primo luogo dall’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, che chiedano conto al governo israeliano di ciò che sta accadendo ora, di come si possa permettere di attaccare militarmente barche in regola coi documenti della navigazione, in acque internazionali, impunemente…si chieda il rilascio immediato delle persone sequestrate e del peschereccio “Marianne”, si pretenda, come vuole il diritto internazionale e come richiede l’Onu, la fine del blocco di Gaza da parte di Israele e l’apertura al mondo del porto di Gaza», si legge nel comunicato diffuso dopo l’arrembaggio alla “Marianne”. Per Israele tutto si è svolto nel rispetto della legalità internazionale, come ha detto il premier Netanyahu complimentandosi con la Marina e i commando per il «successo» dell’operazione in mare. Il blocco di Gaza, secondo Tel Aviv, è legale perchè finalizzato ad impedire il traffico di armi. Ma bordo della “Marianne” non c’erano dei “terroristi” (come li hanno descritto alcuni media israeliani) ma 18 persone pacifiche, alcune delle quali avanti con gli anni, giornalisti, un ex presidente protagonista della primavera di Tunisi e anche tre cittadini israeliani: il deputato arabo Basel Ghattas, il musicista Dror Feiler e un reporter della tv Channel 2. Volevano solo consegnare pannelli solari a un ospedale e aiuti umanitari. Più di tutto intendevano chiedere al mondo di impegnarsi per mettere fine al blocco di Gaza che dal 2006 colpisce 1,8 milioni di civili palestinesi. E se è vero che l’azione di forza contro la “Marianne” ha l’appoggio della maggioranza degli israeliani, allo stesso tempo anche in questa occasione non poche voci si sono levate nello Stato ebraico a sostegno della Freedom Flotilla. Una su tutte quella di un attivista e storico pacifista, Uri Avnery. «Al di là della questione specifica di questa flottiglia, è ormai tempo di aprire il porto di Gaza e liberare l’economia della Striscia da uno strangolamento che conduce i suoi residenti alla disoccupazione e a una terribile povertà…E’ risaputo che soggetti internazionali hanno la volontà di trattare un accordo per la supervisione internazionale sul porto di Gaza e che la leadership (del movimento islamico) Hamas desidera raggiungere tale accordo», ha scritto qualche giorno fa Avnery. L’altra notte tutto è cominciato intorno alle 2 e 06. A quell’ora le altre tre navi del convoglio – “Rachel”, “Vittorio” e “Juliano” (con a bordo l’italiano Claudio Tamagnini) –, in mare in appoggio alla nave “ammiraglia”, stavano già rientrando ai porti di partenza. Dalla “Marianne” hanno contattato la Coalizione della Freedom Flotilla informandola che l’imbarcazione era stata circondata da tre navi della Marina israeliana a circa 190 km dalla costa di Gaza, in acque internazionali. Poi, probabilmente per le interferenze generate dalle unità da guerra israeliane, è cessato ogni contatto radio con il peschereccio partito alcune settimane fa dal nord Europa. Quindi, alle 5 e 11, le forze armate israeliane ha 41 annunciato di aver «visitato e perquisito» la “Marianne”. Secondo la versione di Israele tutto si sarebbe svolto senza alcun incidente. E le agenzie di stampa internazionali, a cominciare da quella italiana più importante, hanno subito sposato questa versione rassicurante. La Coalizione della Freedom Flotilla al contrario dubita che sia svolto tutto «senza eventi di rilievo» e ricorda che nel 2012, alcune delle persone a bordo di un’altra imbarcazione diretta a Gaza, la “Estelle”, furono bloccate con i taser e maltrattate. Senza dimenticare che nel 2010, dieci passeggeri della turca “Mavi Marmara” furono uccisi durante un’azione simile di commando israeliani. Solidarietà a passeggeri e membri della “Marianne” è stata espressa dal sindaco Palermo Leoluca Orlando e in diverse città europee sono stati organizzati sit-in di protesta. 42 INTERNI Del 30/06/2015, pag. 18 “Senato elettivo” Renzi cerca l’ultima mediazione Obiettivo la terza lettura entro l’8 agosto Trattativa con i dissidenti dem, strappo in agguato GOFFREDO DE MARCHIS ROMA. Per rispettare i tempi della riforma costituzionale voluti da Renzi (voto in Senato per la terza lettura entro l’8 agosto) il governo deve trovare un accordo con i dissidenti del Pd questa settimana. Tocca ad Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali, studiare un testo di mediazione e la mediazione può essere una sola: dare una forma elettiva al nuovo Senato. «Per compensare gli effetti dell’Italicum », ripete Roberto Speranza interpretando la voce dell’intera sinistra Pd. Al compromesso lavorano la Finocchiaro, il ministro Maria Elena Boschi, il coordinatore di Ncd Gaetano Quagliariello. Sarebbe proprio una vecchia proposta di quest’ultimo a essere stare individuata come l’arma “giuridica” in grado di sbloccare la situazione. Si tenta dunque la stessa strada della riforma della scuola. Alcune modifiche mirate per ridurre la dissidenza dem da 30 a 3-4 voti contrari. Ma la partita appare stavolta assai più difficile. Non a caso un renziano doc che segue la materia si dice poco sicuro dell’esito positivo della trattativa: «Devono incastrarsi troppi tasselli. Non escludo, ad oggi, che si arrivi allo strappo per votare poi lo stesso identico testo della Camera». Ecco perché questa è la settimana dell’ultima chance per trovare una soluzione alla riforma che eviti uno scontro profondo in aula. Bisogna riuscire a tenere insieme tre passaggi. L’accordo tecnico, non facile visto che l’articolo 2 della legge Boschi prevede la elettività indiretta dei nuovi senatori e non può essere cambiato altrimenti il provvedimento torna al punto di partenza, con un anno perso. L’intesa politica dentro al Partito democratico, che deve garantire la tenuta sia a Palazzo Madama tra poche settimane sia una rapida approvazione a Montecitorio quando il testo tornerà lì. L’obiettivo del premier, molto ambizioso e molto complicato allo stesso tempo, è celebrare il referendum sulla riforma lo stesso giorno delle amministrative di Torino, Napoli, Milano e Roma (forse) nel giugno 2016 in modo da trainare i candidati Pd. I senatori potrebbe essere eletti indirettamente dentro un listino di consiglieri regionali. Questo listino, che sarebbe votato dagli elettori, produrrebbe un numero di eletti superiore alla soglia di 100 senatori. Sarebbero poi i consigli regionali a scegliere chi mandare a Roma. Per questa modifica servirebbe una legge ordinaria, alla quale la riforma costituzionale rimanderebbe. Soluzione difficile da realizzare anche tecnicamente, ma la Finocchiaro ci sta lavorando. «Fra qualche giorno avremo i risultati», dice la presidente della commissione senza sbilanciarsi. Quagliariello prevede poi altri bilanciamenti e contrappesi, chiesti non solo dal Nuovo centrodestra ma anche dalla minoranza dem. «Una legge sull’articolo 49 della Carta che dia finalmente una regolamentazione chiara ai partiti, una legge quadro per le authority che le renda direttamente collegate al Parlamento e dunque più lontane dal controllo della presidenza del consiglio. E una commissione paritetica maggioranza-opposizione presieduta dalle minoranze che valuti le leggi di bilancio». Sono idee che dovrebbero tenere unita la maggioranza di governo mentre per 43 Forza Italia, ovvero per farla tornare al tavolo, il capogruppo Paolo Romani insiste: «Ci vuole anche un impegno per ritoccare l’Italicum». Renzi ha più volte aperto e chiuso il capitolo legge costituzionale. Ha immaginato delle modifiche sull’elettività, ma a Palazzo Chigi ci si può ammorbidire solo in caso di un accordo complessivo che velocizzi l’iter e garantisca il risultato finale. «Altrimenti i voti li troviamo lo stesso», ripetono dallo staff del premier. Gli uffici del ministro Boschi lavorano alla possibile mediazione e verificano le compatibilità con lo spirito del testo che punta innanzitutto alla fine del bicameralismo. Riaprire il dossier significa rimettere tutto in discussione? Al momento di approvare l’Italicum con il voto di fiducia, è stato questo il motivo che ha spinto Matteo Renzi a forzare vincendo il match. Sulla legge costituzionale però la fiducia non è mai stata messa, quindi è un’arma in meno a disposizione dell’esecutivo. Del 30/06/2015, pag. 15 I rottamatori del Porcellum contro l’Italicum: premio di maggioranza incostituzionale I ricorrenti citano anche l’«abusività» degli eletti: premier sostenuto da un Parlamento «illegittimo» ROMA Gli avvocati che rottamarono il Porcellum ci riprovano. Sul banco degli imputati questa volta c’è l’Italicum, che il quartetto di legali ritiene «quasi peggio» della legge ideata da Roberto Calderoli e dichiarata incostituzionale nel 2014 dalla Consulta. Convinti che l’era renziana stia precipitando il Paese in un «periodo di oscurantismo costituzionale», Emilio Zecca, Claudio Stefano Tani, Aldo Bozzi e Ilaria Tani hanno depositato al Tribunale civile di Milano un atto di citazione, con il quale invitano a costituirsi in giudizio il premier Renzi e il ministro Alfano. Il presupposto del documento, lungo 38 pagine, è la convinzione che il mancato rispetto della sentenza che abolisce la legge del 2005 abbia provocato la «permanente anomalia costituzionale» del sistema politico, al centro del quale c’è un Parlamento «formato con norme illegittime». I legali chiedono in via istruttoria al Tribunale di acquisire l’elenco dei parlamentari eletti nel 2013 con il Porcellum e quello dei candidati che sarebbero stati proclamati eletti senza quei premi di maggioranza, oltre agli elenchi dei parlamentari cessati dalla carica. E questo «perché la Corte costituzionale possa verificare la legittimità della prassi seguita». La presunta «abusività» degli eletti è il chiodo fisso del quartetto, che imputa al ceto politico l’aver fatto «scordare» agli italiani l’incostituzionalità dei premi di maggioranza, così da evitare una «figuraccia colossale». Un vulnus che, in punta di diritto, si potrebbe sanare solo sostituendo i parlamentari con altri, ricalcolando i voti e depurandoli dal premio. Operazione complessa, che rischierebbe di modificare la composizione politica delle Camere e quindi la maggioranza di governo. Il domino coinvolgerebbe anche quei parlamentari che hanno lasciato il seggio italiano per volare in Europa, dopo la sentenza della Corte sul Porcellum. Il nodo è dunque la «grave alterazione della rappresentanza democratica» determinata da un premio ritenuto causa di tutti i mali: «È grave che il governo Renzi con l’Italicum abbia espresso la volontà di reiterare le norme già dichiarate incostituzionali». Il premier governerebbe insomma «con una maggioranza artificiosa e illegale» che non gli impedisce «di dar vita a una nuova legge che assicura la perpetuazione del potere al di fuori di ogni scrupolo di rispetto per la Carta costituzionale». Dopo aver scritto (senza ottenere risposta) a Boldrini e Grasso e poi a Napolitano e Mattarella, gli avvocati tentano la via delle carte bollate con l’intento, spiega Zecca, di «risvegliare il dibattito» sull’Italicum: «Dopo che la Corte lo aveva 44 “desuinizzato”, il Porcellum era una legge perfetta, ma non era quella che Renzi voleva». L’Italicum sarebbe inoltre gravato da cinque «vizi di costituzionalità», che vanno dai capilista «indicati dai partiti» al fatto che la Camera potrebbe risultare composta da più di 630 deputati, forse 640. Se l’atto di citazione sarà accolto, il Tribunale potrà inviarlo alla Corte costituzionale. Prima udienza, tra novembre e dicembre. Monica Guerzoni Del 30/06/2015, pag. 12 Il premier e il piano per il nuovo Pd: lo riorganizzerò, serve gente capace Il leader: basta con le divisioni. E spiega ai suoi: alla sinistra radical chic non piaccio ROMA La sua attenzione, ora, è rivolta tutta alla Grecia, con qualche sguardo ironico anche a chi, in Italia, dentro e fuori il Pd, lo attacca pur di riuscire a tramutare «in bega domestica» una situazione «internazionale drammatica», ma prossimamente, Matteo Renzi ha intenzione di mettere mano al partito. Intanto, una prima tappa è rappresentata dalla «ripartenza» del quotidiano l’Unità , che da oggi sarà nuovamente nelle edicole, diretta da un fedelissimo del premier, Erasmo D’Angelis. È un piccolo passo iniziale, ma il traguardo finale, come spiega lo stesso presidente del Consiglio, è quello di «organizzare meglio il Pd», di mettere ai suoi vertici «gente capace», perché «le amministrative non sono lontane» e «non possiamo fallire l’obiettivo». «Ora — è l’ammonimento del segretario-premier — bisogna andare avanti anche con più decisione». Renzi lo ha spiegato chiaramente ai suoi collaboratori: «Contro di noi non c’è un vento unitario nazionale, ma non possiamo nasconderci che il risultato delle regionali e delle ultime amministrative è stato politicamente negativo e questo non dovrà più ripetersi». Per questa ragione in vista delle elezioni del 2016 in capoluoghi di regione importanti come Milano, Torino, Napoli, Bologna e Genova e, forse, anche Roma, Renzi ha deciso di «riorganizzare il Pd», perché finora, ha spiegato ai fedelissimi, «è inutile negarselo, era organizzato male. E non è questione di partito solido o liquido, quelle sono stupidaggini». Il presidente del Consiglio non ha ancora chiarito nemmeno ai suoi che cosa intenda veramente fare, quali sono le innovazioni che ha in mente e ha rinviato al prossimo autunno le decisioni finali. Ma in un autunno non troppo lontano «perché i tempi sono quelli che sono». Bisogna vedere se la minoranza interna vorrà dare una mano. O se, piuttosto, preferirà giocare d’ostruzionismo. Secondo Renzi, «il governo è una macchina in grado di correre» e il Partito democratico deve fare altrettanto. E in questo senso la minoranza deve capire che «i nostri non ne possono più delle divisioni interne», «sono stufi delle liti». Infatti, lo stesso premier, che pure non è un tipo morbido è andato alla mediazione sulla riforma costituzionale. Ciò nonostante Renzi sa bene che la partita con i suoi oppositori interni non è facile. Ha letto i discorsi di Roberto Speranza, ha visto che l’ex capogruppo, piuttosto che scegliere una via autonoma ha preferito farsi incoronare leader della minoranza da Pier Luigi Bersani. E, soprattutto, il premier sa che «loro hanno deciso che io non sono di sinistra». Lo ripete spesso nei conversari con i collaboratori e gli amici più fidati. Come ripete spesso di «non essere mai piaciuto alla sinistra radical chic ». 45 E su questo punto è difficile dagli torto perché certamente in quegli ambienti né nei prima, né tanto meno adesso il premier ha mai «sfondato». Quello che di Renzi convince meno la minoranza e quelli che lui definisce i radical chic, è il suo tentativo di allargare la platea degli elettori, senza limitarsi a corteggiare solo chi ha sempre votato per il centrosinistra. Ma su questo punto il premier non ha dubbi: «Se non vinco al centro resteremo sempre all’opposizione». Ed è proprio ispirandosi a questo suo profondo convincimento che intende costruire il nuovo partito e la nuova classe dirigente. Per il momento almeno Renzi non sembra nutrire il timore che questo suo percorso politico possa avvantaggiare chi, a sinistra, sta cercando di costruire un nuovo soggetto politico. «Fuori dal Pd non c’è nessuna prospettiva di vero cambiamento»: è questo un altro radicato convincimento del segretario premier. Del 30/06/2015, pag. 6 Crocetta, guerra col Pd: “Faraone sembra Lima” l governatore ai ferri corti con l’esecutivo. Che minaccia di non sbloccargli i fondi di Giuseppe Lo Bianco Crocetta? Se fosse “un interlocutore credibile” si potrebbe ragionare dei fondi che il governo nazionale deve sbloccare in favore della Sicilia, dice Davide Faraone, luogotenente di Matteo Renzi sull’isola. Ma a Roma, Crocetta non piace più e allora, osserva il governatore siciliano, “Faraone usa lo stesso linguaggio dei Lima e dei Ciancimino… Non è un linguaggio da governo democratico: cioè la Sicilia dovrebbe pagare che c’è un presidente non allineato? Ci sarebbe da andare in Procura, se il suo fosse il messaggio ufficiale del governo…”. Lo scontro durissimo tra il renziano Faraone e il presidente della Regione non è destinato a restare scolpito sulle pagine Facebook dei due contendenti: un altro renziano, Fabrizio Ferrandelli, deputato all’Ars, sta pensando di presentare una mozione di sfiducia contro il governatore “per consentire all’Aula di chiudere l’esercizio finanziario per poi dare ai siciliani, già ad ottobre, la possibilità di scegliere un nuovo presidente del Pd”. Così, nel giorno in cui gli arrestano il medico di fiducia, Matteo Tutino, primario di Villa Sofia incappato in una storia di chirurgia estetica spacciata per indispensabile (e, quindi, rimborsabile dal servizio sanitario), il caso Crocetta rischia di diventare un nuovo caso Marino. Come a Roma, anche in Sicilia i renziani insistono per liquidare leader interni diventati scomodi e ingombranti: e entrambi (Marino come Crocetta) rimandano al mittente le accuse senza troppi convenevoli. Faraone? “È un astro nascente del firmamento, luce nuova che illumina la Sicilia – replica ironico Crocetta su Facebook con un post titolato ‘Il volo di Icaro’ – Se Faraone non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Io non mi sono fatto mai tante risate in vita mia come da quando Faraone è diventato politico nazionale”. Lo schiaffo al sottosegretario renziano arriva nel momento in cui il governo Crocetta scricchiola sotto il peso delle dimissioni di due assessori, Ettore Leotta (sostituito da Giovanni Pistorio, fedelissimo di Cuffaro e Lombardo) e Nino Caleca e delle indagini che hanno colpito altri due componenti di giunta, Maurizio Croce e Giovanni Pizzo: il primo indagato nell’inchiesta sulle centrali a carbone di Vado Ligure; il secondo per bancarotta per il fallimento di una clinica di Messina. 46 “Sono veramente esterrefatto – insiste il governatore – dei toni anti istituzionali che il sottosegretario Faraone continua a usare nei confronti della Regione Siciliana. Leggero come una piuma, puro come un angelo, continua a dire che Roma nel 2016 aiuterà la Sicilia, non comprendendo neppure di cosa parla e soprattutto a nome di chi parla”. Per concludere con una frecciata al veleno: “Mi farà rispondere a comando da qualcuno, come per esempio quel famoso sindaco eroe senza macchia né paura, rottamatore di primo piano di Siracusa – scrive Crocetta – credo che si chiami Garozzo sponsorizzato da Foti (Gino, ex sottosegretario Dc nella Prima Repubblica, oggi capocorrente Pd senza tessera, ndr). Un nome a me sconosciuto fino a quando non ho letto le intercettazioni Expo”. La resa dei conti è rinviata alla direzione regionale del Pd convocata dal segretario Fausto Raciti per sabato prossimo. Del 30/06/2015, pag. 19 De Luca ricorre: “Sono già al lavoro” Il governatore si rivolge ai giudici contro la legge Severino: “Incostituzionale, ho fiducia nell’esito dell’istanza” Niente Consiglio, opposizioni in piazza. M5S: “Il Pd ci ha rifilato un pacco e impedisce il ritorno alle urne” DARIO DEL PORTO OTTAVIO LUCARELLI NAPOLI. La sede del consiglio regionale chiusa. Le opposizioni in piazza, in testa il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. Più in là, i disoccupati organizzati. E gli avvocati di Vincenzo De Luca, a pochi metri di distanza, in tribunale a depositare il ricorso. Centro direzionale di Napoli, dieci minuti dopo mezzogiorno. Il paradosso della Regione Campania, con un presidente eletto, proclamato, ma non insediato perché sospeso dal premier Matteo Renzi in base alla legge Severino, è tutto concentrato nello spazio di duecento passi. La prima seduta del Consiglio, convocata per ieri mattina, è saltata. Il Palazzo della Regione è blindato e i 5 stelle occupano la piazza chiedendo di andare al voto e distribuendo un “pacco” con la foto del presidente sospeso: «Il Pd impedisce il ritorno alle urne». I legali di De Luca chiedono invece l’annullamento della sospensione. Secondo la difesa, la norma viola la Costituzione in tre punti. Nel ricorso si citano due precedenti: quello del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, e del consigliere regionale della Puglia, Fabiano Amati. In entrambi i casi, la questione di legittimità costituzionale è stata ritenuta non manifestamente infondata e gli atti sono stati trasmessi alla Corte costituzionale con la contestuale concessione della sospensiva della sanzione. La Corte d’Appello di Bari, in particolare, ha sottoposto al vaglio della Consulta tre aspetti della legge Severino: la disposizione che prevede la sospensione degli eletti alla Regione a seguito di condanna non definitiva; quella che contempla la sospensione anche in caso di condanne per reati consumati prima dell’entrata in vigore della legge; e la parte in cui viene introdotta una disparità di trattamento tra i parlamentari ( europei e nazionali) che diventano incandidabili, in caso di condanna per abuso d’ufficio, solo se superiore ai due anni, e gli eletti alla Regione, dove il limite di pena non esiste. E De Luca è stato sospeso sulla base di una condanna in primo grado a un anno per abuso d’ufficio. Solo a fine giornata, Vincenzo De Luca rompe il silenzio e, su Facebook, assicura: «Sono sereno e fiducioso. Siamo pienamente impegnati sulle emergenze ambientali e occupazionali. Nei 47 prossimi giorni dovremo far fronte a scadenze legate ai fondi europei, ai tetti di spesa sanitaria e al trasporto pubblico locale, per i quali bisognerà evitare ogni interruzione ». Quindi aggiunge: «Il nostro lavoro continua guardando come sempre agli interessi delle nostre comunità e assumendoci le nostre responsabilità verso i cittadini campani». «Auspichiamo una soluzione in tempi brevi nell’interesse della Regione e della continuità degli organi di governo democraticamente eletti», afferma l’avvocato Lorenzo Lentini, che asssite di De Luca con il professor Giuseppe Abbamonte, decano degli amministra-tivisti, e l’avvocato Antonio Brancaccio. Sulla richiesta di sospensiva, il tribunale di Napoli deciderà quasi certamente entro il 12 luglio, ultimo giorno utile, a norma di statuto, per la convocazione della prima seduta del nuovo consiglio regionale. Senza sospensiva, il rischio di commissariamento e nuove elezioni è altissimo. Il futuro della Campania, mai come adesso, è davvero nelle mani del giudice. 48 LEGALITA’DEMOCRATICA Da l’Unità del 30/06/15, pag. 2 Dal centro alla periferia La meglio gioventù Danilo Chirico E la storia che si ripete, sempre uguale nei decenni. In Sicilia e in Calabria, a Milano e a Reggio Emilia, in ogni angolo d'Italia: parlare di mafia è un tabù. La conseguenza è un mix di silenzi e complicità inconfessabili che hanno permesso alle mafie di rompere gli argini e conquistare potere, denaro, consenso sociale. Si sentiva diversa Roma, s'è scoperta anche lei vulnerabile e indifesa. Non ha visto i clan, e dai clan s'è vista sfilare importanti pezzi di sé. Eppure la mafia sulle sponde del Tevere è questione antica. Boss e batterie hanno cominciato a conquistare strade e piazze almeno dagli Anni Sessanta. Un quadro criminale in evoluzione fatto di Banda della Magliana e Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta, il cosiddetto clan degli zingari e le mafie straniere a cui corrispondevano soltanto striminziti verbali di polizia, buone intuizioni di qualche investigatore e affascinanti storie raccontate nei bar di periferia dove chi sono i veri capi non sfugge a nessuno. Va avanti così fino al 1991, quando la commissione parlamentare antimafia di Gerardo Chiaromonte firma una relazione che mette nero su bianco quello che tutti sanno e nessuno vede: a Roma ci sono le mafie. Nomi e luoghi - tanti ricorrono ancora oggi - che dovrebbero mettere politica e istituzioni di fronte alle proprie responsabilità. Non accade, complici anche Tangentopoli e le stragi. L'Italia del 1992 fa i conti con il crollo del sistema politico e la barbarie dei Corleonesi di Totò Riina. Non c'è spazio per nient'altro. Dentro questa disattenzione ci sono l'impressionante crescita della 'ndrangheta, il radicamento dei clan al nord, l'apertura delle cosche a nuovi e vantaggiosi mercati. Un'inerzia colpevole, che dura fino ai giorni nostri e ha anche un altro effetto: trasformare Roma in una Capitale delle mafie. «Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, su i giornali. Ma parlatene», sosteneva Paolo Borsellino. Inascoltato, almeno a Roma. Neppure a giugno 2014 la prima condanna per 416 bis, il reato di associazione mafiosa, nel processo Nuova Alba cambia le cose: «A Ostia c'era la mafia», è il massimo che si può concedere. Lo shock, la paura, i silenzi I fatti però sono ostinati e il 2 dicembre 2014 presentano il conto. La procura di Giuseppe Pignatone mette a segno il primo troncone dell'inchiesta Mondo di mezzo: a Roma ci sono molte mafie, una di queste, «originaria e originale», è arrivata fin dentro il Campidoglio. Lo shock provoca paura nella politica, silenzio imbaraz zante di imprenditori e professionisti, la balbuzie di sindacati, associazioni e movimenti. Il quadro politico, economico e sociale che emerge è impressionante. È l'apparir del vero per i romani la scoperta destabilizzante che i mafiosi sono marziani. Entrano in crisi tutte le certezze sulla tenuta democratica della città. Dentro questo clima, i cittadini smarriti e increduli rischiano la paralisi ma si fanno forza e tornano in campo con una nuova consapevolezza: la necessità di fare antimafia sociale. Non ci sono più soltanto i presidi e le consolidate attività di Libera, il lavoro territoriale e le campagne creative dell'Associazione daSud, le iniziative contro il gioco d'azzardo di Slot Mob: su questo nuovo terreno c'è la meglio gioventù capitolina, chi quotidianamente lavora con l'ambizione di rendere Roma una città migliore. C'è un mondo grande che pratica l'antimafia sociale forse senza saperlo, certamente senza dirlo, che con orgoglio nuovo e la passione di sempre riannoda i fili del suo impegno. Sono tanti, 49 tantissimi. Al centro e in periferia. Nella difficilissima Tor Bella Monaca, per esempio. Dove una rete di volontari fornisce servizi e assistenza a chi ne ha bisogno: la ludoteca animata dalle mamme, centro antiviolenza, la biblioteca autogestita Cubo libro, il centro sociale,l'ambulatorio di Medicina solidale insieme provano a essere presenti dove le istituzioni non ci sono quasi più. O a Corcolle, un quartiere senza servizi, diventato famoso per le aggressioni ai migranti, dove le associazioni hanno avviato un faticoso percorso per costruire una risposta culturale all'odio razziale dilagante. Due librerie, Yeti e Alegre, sono invece il centro propulsore delle battaglie che i cittadini hanno intrapreso contro lo spaccio sfacciato al Pigneto, uno dei quartieri del divertimento. Innovazione sociale, cultura e volontariato sono le tre caratteristiche principali dei progetti a Torpignattara, nella periferia est della città. Il network culturale Torpignalab, le attività sociali e la scuola popolare promossa dal Comitato di quartiere, il lavoro con le donne migranti di Asinitas e l'esperienza della Piccola Orchestra di Tor.Pignattara in cui suonano i figli dei cittadini migranti, il mercato contadino al parco Sangalli e il cinema itinerante di Karawan, la manifestazione Alice nel paese della Marranella in una delle vie più controverse del quartiere sono le realtà che hanno scommesso sul futuro del quartiere romano che ha il maggior numero di comunità straniere, seri problemi di integrazione e una forte presenza della criminalità organizzata. Diritti umani L'idea della sostenibilità sta invece dietro il progetto di rigenerazione urbana e culturale della community di associazioni, esperti, istituzioni di ricerca che ha dato vita all'esperienza dj Corviale domani, in uno dei quadranti socialmente e urbanisticamente più difficili della città. 1 La collaborazione tra diversi è il tentativo messo in campo anche dalla rete delle associazioni di promozione sociale del Municipio 14 (a Roma Nord). A Tor Sapienza sono gli orti lo strumento scelto per costruire socialità. A lavorarci l'associazione ambientalista Terra, che ha avviato un progetto di integrazione per bambini rom animato anche dall'associazione Popica. Dei diritti umani di rom e sinti si occupa invece in diversi posti della città l'Associazione 21 luglio, tra le più attive tra l'altro nel denunciare i fatti di Mafia Capitale. Progetti che diventano veri e propri presìdi antimafia per bambini sono quelli del centro giovanile B-Side al Tuscolano, diMatemù che all'Esquilino lavora con gli adolescenti migranti di seconda generazione e di Scup, luogo occupato con diverse attività dedicate ai più piccoli. E luoghi culturali e di incontro fondamentali nella vita dei quartieri sono l'Officina Via Libera al Quadraro e l'ex Lavanderia a Monte Mario o la Collina della Pace che anima l'estrema periferia di contrada Finocchio restituendo vita a un ·bene confiscato a Enrico Nicol etti, il cassiere della banda della Magliana. Trasparenza amministrativa Un nuovo significato acquistano la battaglie per la trasparenza amministrativa di Carte in regola e il lavoro per le terre pubbliche ai giovani agricoltori della Cooperativa Coraggio. Anche le realtà universitarie colgono la sfida dell'antimafia: a Roma Tre c'è il laboratorio di formazione sui clan voluto da Ricomincio dagli studenti. Organizzano attività antimafia anche Lini, alla Sapienza, Altroateneo a Tor Vergata e l'associazione Freak alla Luiss. Si sono messi in gioco compagnie teatrali e organizzazioni sportive, dalla Uisp alle palestre popolari. Tanti protagonisti che sentono la necessità di organizzarsi per una presa di parola collettiva. Come «Spiazziamoli - 50 piazze per la democrazia e contro le mafie», la più importante e partecipata risposta a Mafia capitale. Centoventi associazioni, migliaia di persone a lavoro in tutta Roma lanciano una grande discussione sui clan e il futuro della città. Nella Roma delle mafie e della corruzione, dei veleni e dei commissariamenti c'è insomma un tentativo di aprire una nuova stagione antimafia. Non c'è da stupirsi se le reazioni non sempre sono forti e decise. È ancora la storia a insegnarcelo: ci sono voluti 50 decenni di discussioni e battaglie, omicidi e stragi perché Calabria e Sicilia ammettessero la presenza delle mafie, perché crescesse un forte movimento antimafia popolare. Che non significa che quanto è già accaduto a Roma non sia sufficiente a creare una reazione. Vuol dire piuttosto che la percezione dei fatti è ancora lontana dalla realtà. Che l'incapacità di lettura del fenomeno mafioso, la difficoltà a riconoscerlo e la paura sono ancora ostacoli significativi, che l'azione della magistratura, da sola, non è sufficiente a creare consapevolezza diffusa. Servono rotture culturali e sociali che Roma non ha ancora praticato. Il cammino però è iniziato, la strada tracciata. Dove lo Stato arretra avanzano i clan A indicarla è anche Papa Francesco, durante una recente visita a Tor Bella Monaca: «Le persone di questa periferia sono messe a dura prova dalla disoccupazione e costrette a fare brutte cose. La mafia usa i poveri per fare il lavoro sporco». Dove lo Stato arretra, avanzano i clan. Le inchieste confermano quanto sosteniamo da tempo: c'è un welfare parallelo a Roma, e lo pagano i clan. Su questo terreno, quello della costruzione del consenso, dei diritti, delle opportunità e del welfare si gioca la partita decisiva. Giuseppe Valarioti, politico, insegnante e intellettuale ucciso 35 anni fa dalla 'ndrangheta a Rosarno, diceva: «Se non lo facciamo noi, chi deve farlo ». Parlava ai giovani calabresi, a quelli che si sporcavano le mani. A loro indicava una sfida urgente da lanciare a tutti. Le sue parole sembrano scritte per la Roma di oggi. Che impaurita aspetta il responso sullo scioglimento del consiglio comunale. Che non ha più tempo, che deve immergersi nella realtà. Per cambiarla, o la realtà tornerà presto a presentare il suo conto. Del 30/06/2015, pag. 14 La verità di Pansa sulla talpa, Ciancimino e De Gennaro Il capo della polizia ridimensiona il ruolo del confidente Vaselli ma la difesa del figlio di don Vito esulta: “Massimo non mentiva” di Sandra Rizza Per Massimo Ciancimino era una “talpa” che, per conto di Gianni De Gennaro, svelava a suo padre in diretta le indagini di Falcone. Per il capo della polizia Alessandro Pansa, invece, era un confidente del Nucleo centrale anticrimine che odiava don Vito, ma lo temeva così profondamente “da non aver mai parlato dei suoi rapporti con Cosa Nostra’’. Chi era in realtà Romolo Vaselli, l’imprenditore indicato come il più fidato prestanome dell’ex sindaco mafioso? Ieri Pansa, sentito a Caltanissetta davanti al giudice Marco Sabella nel processo per calunnia a Ciancimino junior, ha confermato quanto aveva dichiarato nel verbale del 10 gennaio 2011: “All’inizio del 1985 quando ero funzionario del Nucleo centrale anticrimine diretto da De Gennaro, affiancai il giudice Falcone in una rogatoria a Montreal su Vito Ciancimino”, in relazione a “transazioni finanziarie’’. Il capo della polizia ha precisato che a Roma, successivamente, fu incaricato da De Gennaro di affiancarlo “nella gestione dei rapporti confidenziali che dovevano essere attivati con il conte Vaselli su input dell’ufficio istruzione di Palermo, credo nella persona di Falcone’’. Il rapporto confidenziale con Vaselli in realtà non durò che alcuni mesi e si sviluppò, ha detto Pansa, “in tre o quattro occasioni”. Poi i rapporti cessarono perché Vaselli “aveva lamentato vicende riguardanti la gestione degli appalti, senza fornire elementi utili’’, forse 51 proprio “per il timore nei confronti del Ciancimino’’. Ma cosa raccontava Vaselli ai superpoliziotti? “Vaselli – ha ricostruito il capo della polizia – aveva riferito di una vera e propria lobby che gestiva gli appalti di cui Ciancimino era punto di riferimento, ma non era sua intenzione esporsi formalmente contro don Vito, pur volendo affrancarsi da questa pressione attraverso il ruolo di confidente di polizia”. Non un intermediario tra De Gennaro e l’ex sindaco mafioso, come ha detto Ciancimino jr, dunque: Vaselli era per Pansa un informatore attivo solo per un breve periodo, incapace di fornire input realmente utili, che comunque mantenne rapporti con don Vito. E anche se la sua deposizione ha di fatto ridimensionato il ruolo del prestanome, l’avvocato Roberto D’Agostino, difensore di Ciancimino jr, esulta: “Il primo punto dell’accusa di calunnia – spiega il legale – è costruito proprio sulle rivelazioni del mio cliente secondo cui De Gennaro avrebbe svelato segreti investigativi al conte Vaselli per aiutare Vito Ciancimino a eludere le indagini. Per noi da oggi risulta provato che Vaselli avesse un rapporto di confidenza con De Gennaro e che l’oggetto del rapporto fosse proprio l’attività di don Vito: Massimo, insomma, non ha detto una bugia’’. Quella consegnata da Ciancimino jr agli inquirenti è in realtà la fotografia di un Vaselli che, al contrario, informava don Vito in tempo reale delle attività investigative: nell’84, secondo il suo racconto, il vecchio Ciancimino avrebbe saputo quasi in diretta che il pentito Tommaso Buscetta stava facendo il suo nome: “Venne il conte Vaselli ad avvertirci – aveva detto Massimo – ma mio padre lo sapeva già, grazie al signor Franco”. Così sarebbero partite le contromisure dell’ex sindaco mafioso per salvare una parte del suo patrimonio: appena 8 giorni prima del sequestro dei suoi beni (firmato l’8 ottobre 1984), in effetti, le quote della società Etna Costruzioni erano state trasferite a Vaselli. “Mio padre simulò la vendita a Vaselli – raccontò Ciancimino jr – così 2 miliardi e 400 milioni delle vecchie lire furono messi al sicuro in Svizzera”. Il 3 novembre dell’84 don Vito fu arrestato. Pansa ieri ha ribadito di non aver mai conosciuto Massimo Ciancimino: “Mi sono occupato ancora – ha precisato – tra il ’92 e il ’93 di indagini riguardanti il patrimonio di suo padre, che poi si fermarono perché questi aveva iniziato a collaborare con il Ros”. Il processo per la calunnia nei confronti dello 007 Lorenzo Narracci e di Gianni De Gennaro (ex capo della Dia, della polizia e del Dis e oggi di Finmeccanica), l’asso dell’antimafia che il figlio di don Vito indicò come “il signor Franco”, prosegue lunedì con la deposizione di Luciana Ciancimino. 52 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 30/06/15, pag. 6 NAUFRAGIO DEL 18 APRILE Saranno recuperati i corpi dei migranti Su indicazione della presidenza del consiglio dei ministri sono iniziate nello Canale di Sicilia le operazioni di recupero dei corpi dal peschereccio inabissatosi il 18 aprile scorso con circa 700 persone a bordo. A comunicarlo è stata ieri una nota della Marina militare. Le operazioni di recupero dei corpi adagiati sul fondo, a circa 370 metri, nelle vicinanze del peschereccio sono affidate alla Marina militare che opererà con il cacciamine Gaeta, un'unità navale da ricerca costiera, nave Leonardo, e nave Gorgona come unità di supporto oltre ad un team del Gruppo operativo subacquei (Gos) di Comsubin. Il recupero sarà effettuato con l'utilizzo dei veicoli a comando remoto in dotazione al Gruppo operativo subacquei in grado di intervenire a quote profonde. Intanto sono 1.300 i migranti soccorsi ieri nel Canale di Sicilia, a largo delle coste della Libia, nel corso di sei operazioni coordinate dal Centro Nazionale Soccorso della Guardia Costiera. Sempre ieri sono state inoltre portate a termine altre due operazioni di soccorso che hanno riguardato altri 200 migranti. Alle attività hanno partecipato nave Dattilo, della Guardia Costiera, una nave militare irlandese, nave Thenix della onlus Maos, e, inoltre, due unità italiane e una svedese inquadrate nel dispositivo Triton. In tutto sono 4.200 i migranti trattai in salvo negli ultimi due giorni grazie a operazioni di soccorso coordinate dalla Guardia costiera nella sala operativa di Roma. Del 30/06/2015, pag. 16 Il piano Maroni “Chiudere le moschee come in Tunisia” L’ira delle associazioni islamiche “Già interdetti quattordici centri” ZITA DAZZI MILANO . Sono passati quattro giorni dalla strage a Sousse ma gli echi ancora arrivano in Lombardia, dove il governatore Roberto Maroni coglie l’occasione per chiedere una stretta sul diritto di culto degli islamici: «Se la Tunisia chiude le moschee, dopo l’attentato a Sousse, vuol dire che quella è la strada da seguire, dato che la Tunisia non può essere considerata un Paese contro l’Islam», dice, aggiungendo che la sua speranza è che «il ministero dell’Interno e il governo non si facciano prendere da ideologismi, mettano in primo piano la sicurezza dei cittadini e, se necessario, chiudano, anche, le moschee». Dichiarazioni che rinforzano quelle dell’assessore all’Urbanistica Viviana Beccalossi (Fdi) che da due giorni attacca il governo Renzi, reo di aver impugnato davanti alla Corte Costituzionale la normativa regionale sui nuovi luoghi di culto, entrata in vigore a gennaio, fra mille polemiche: «Renzi rinunci a cancellare la nostra legge. Noi non ci fermiamo: chi non rispetta le regole, in Lombardia non costruisce moschee — tuona — Le Regioni possono individuare strumenti che garantiscano maggior sicurezza e controllo. La nostra legge va in quella direzione e alla luce di quanto sta avvenendo, si rivela non solo 53 opportuna ma anche necessaria. C’è il rischio di commistione tra culto religioso e attività parallele ». In effetti, la nuova legge sui luoghi di culto in Lombardia (dove risiedono oltre 400mila musulmani) prevede vari vincoli fra cui la distanza di sicurezza dalle chiese, la consonanza al paesaggio lombardo, parcheggi smisurati e videosorveglianza. E alla legge chiamata “antimoschee” si appellano i sindaci per cercare di chiudere i locali dove gli islamici si trovano a pregare senza autorizzazioni. «Da gennaio a oggi abbiamo contato 14 ordinanze e provvedimenti contro nostri centri culturali, dove anche si prega, in assenza di vere e proprie moschee», denuncia Davide Piccardo, portavoce del Caim, il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e lombardia. Le ordinanze di chiusura — contro le quali il Caim ha presentato ricorsi al Tar — vengono sia da amministrazioni di destra (Melegnano, Renate e Macherio), sia da giunte di sinistra (Bergamo, Cinisello Balsamo, Cesano Maderno). All’elenco dei Comuni che chiudono i centri islamici si aggiunge anche Milano, con i suoi 100mila fedeli musulmani, nessuna moschea autorizzata e ben quattro ordinanze di chiusura. «Abbiamo chiesto un incontro urgente al prefetto — spiega Piccardo del Caim — perché ci è negato il diritto di culto riconosciuto dalla Costituzione. Siamo costretti a pregare negli scantinati, perché ci vietano di costruire luoghi di preghiera. E per di più, ora ci danno anche la caccia». Del 30/06/2015, pag. 16 Mao Mao, i fantasmi neri della stazione di Crotone Centinaia di migranti “arenati” sui binari dormono nei vagoni. Ma per la città è un business e nessuno vuole che se ne vadano di Lucio Musolino Da queste parti li chiamano i “mao mao”. Si muovono come fantasmi neri. Non si può non vederli. Sono ovunque. Sul ciglio della statale 106. In cambio di una monetina sbracciano per indicarti il parcheggio nei pressi dell’ospedale di Crotone. E la sera li ritrovi all’inferno, quello della stazione ferroviaria diventata un ghetto per disperati. Non solo clandestini, ci sono pure quelli a cui è stato riconosciuto l’asilo politico con un regolare permesso di soggiorno rilasciato dal Cara di Sant’Anna, uno dei più grandi centri di accoglienza d’Italia che si trova a Isola Capo Rizzuto, a pochi chilometri da Crotone. Scesi dal barcone, ufficialmente la loro permanenza al “campo” dovrebbe essere di qualche settimana, giusto il tempo di accertare se considerarli “rifugiati politici”. In realtà al Cara trascorrono molti mesi. Qualcuno anche un anno. Concluse le pratiche per i documenti, però, iniziano i problemi. Se alcuni partono per il nord Europa, troppi non sanno dove andare. Con un permesso di soggiorno di soli 6 mesi, decidono di fermarsi in quel limbo tra Isola Capo Rizzuto e Crotone dove per prassi, visto che la legge consentirebbe di recarsi in qualsiasi questura d’Italia, devono ritornare per il rinnovo dei documenti. Quasi in 200 vivono alla stazione. Passa un treno al giorno. I pendolari si contano sulle dita di una mano e, intanto, la banchina è divenuta un dormitorio con i materassi sui binari o sul marciapiede che costeggia il magazzino della stazione. Di giorno Trenitalia paga la vigilanza armata per i rimorchiatori parcheggiati su un binario morto. Di notte, però, quella è la zona degli africani. Dall’altra parte, ci sono i pachistani. Sono stipati all’interno dei vagoni merce in disuso, in quello spazio tra le rotaie e il gradino 54 utilizzato dagli operai delle ferrovie per agganciare il mezzo alla locomotiva che dovrebbe rimorchiarlo. “Sono arrivato con il barcone a Lampedusa, poi mi hanno portato a Crotone”. Un ragazzo senegalese non pensava che l’Italia fosse così: “Dopo il permesso di soggiorno di 6 mesi, mi hanno detto: ‘Al campo hai finito, vai via’. Dormo alla stazione. Non ho parenti in Europa. Dove vado?”. Il suo materasso è sulla banchina. La mattina si sveglia alle 6 e fa la doccia sui binari con una pompa collegata a un rubinetto vicino alla biglietteria: “Veniamo tutti qui. I bagni sono chiusi, non possiamo fare altrimenti”. “Vieni a vedere come dormiamo – si sfoga un nigeriano – pensano che ci danno tanti soldi solo perché siamo migranti. I 35 euro noi non li vediamo”. Dal marsupio tira fuori una busta di plastica con i suoi documenti: “Mi hanno riconosciuto l’asilo politico. Ma di quale protezione internazionale parlano se io dormo qui. Per gli italiani, possiamo morire”. Con lui un pachistano. Non riesce a capire come è finito a Crotone. Ha attraversato mezzo mondo per dormire tra i binari: “Chiediamo di essere trattati con rispetto”. È periodo di ramadan e i musulmani iniziano a mangiare dopo il digiuno solo dopo le 22. C’è un fuoco vicino ai rimorchiatori. È la pentola di un altro nigeriano che sta cucinando un po’ di riso bollendo l’acqua presa dal rubinetto utilizzato dagli addetti alle pulizie per lavare la banchina. Il suo pasto lo deve dividere con il vicino di materasso che, però, ha bevuto e non gradisce i pachistani che già hanno mangiato grazie all’associazione On the road. “La situazione dei migranti è molto seria. – racconta il volontario Oscar Bauckneht – Diamo mediamente 220 pasti al giorno”. A Oscar non interessano le polemiche politiche: “Salvini? Cerca voti. Si ha sempre paura del diverso, ma approfittarsene è da criminali. A noi interessa fare volontariato e basta”. Il “camper della speranza” ogni giorno dà un pasto caldo ai migranti abbandonati al loro destino, che non rientrano più nei vari progetti di accoglienza. “Qui a Crotone, i migranti sono un business”. Vuole restare anonimo, ma un volontario di una di queste associazioni è disposto a spiegare come si guadagna con i “mao mao”. “Se non ci fossero – dice – a Crotone ci sarebbero migliaia di disoccupati in più. Lo Stato c’ha un business enorme. Dice che i migranti sono un problema, ma in realtà piacciono a tutti perchè portano soldi per chi gestisce i progetti Sprar, quelli prefettizzi e il Cara. Pensa solo alle società di catering che si spartiscono 4-5mila pasti al giorno. O al servizio di lavanderia per i migranti. Ci sono avvocati che, da soli, presentano 4mila ricorsi all’anno a 25 euro a migrante. Per non parlare degli immobili affittati a queste associazioni dalle famiglie ‘bene’ della città che incassano anche 15 mila euro al mese. Dopo ‘Mafia capitale’ tutti stanno aprendo più gli occhi, ma fino a pochi mesi non si sapevano certe cose”. Intanto, altri mille migranti sono sbarcati ieri a Reggio Calabria. Nuovi “mao mao” destinati ad alimentare un business tutto italiano. Almeno fino a quando non saranno abbandonati all’inferno della stazione di Crotone. del 30/06/15, pag. 10 Richard Sennett I nemici giurati del legame sociale Intervista. «L’essere umano ha una caratteristica che spesso rimuove: è un animale portato a muoversi e spostarsi per vivere insieme ai suoi simili. Chi respinge i migranti dimentica questa propensione sociale 55 della natura umana, rimuovendo così il fatto che discende lui stesso da altri migranti». Parla il sociologo statunitense Riccardo Mazzeo Richard Sennett è stato recentemente ospite del Premio Hemingway, giunto alla trentunesima edizione, per la sezione “Avventura del Pensiero” a Lignano Sabbiadoro, una sorta di anticipazione di «Pordenonelegge». È un uomo molto gentile e riservato, questo sociologo settantaduenne caratterizzato da una schiera di ammiratori che in tutto il mondo attendono ogni volta con ansia che esca un suo nuovo libro. Forse perché centellina i suoi volumi, visto che il terzo libro del suo progetto «Homo faber», una trilogia iniziata nel 2008 con L’uomo artigiano e proseguita nel 2012 con Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione (entrambi pubblicati da Feltrinelli), si concluderà forse nel 2016 con il libro sulle città e ha avuto una sola interpunzione, un piccolo libro titolato Lo straniero pubblicato sempre da Feltrinelli. O forse perché nei suoi libri, mai semplici, si ritrova l’arte dell’artigiano che raccomanda e di cui è maestro: forma e rigore ravvivati da qualche contrappunto di ironia che non sconfina però nella brutalità o nella risata beffarda. Si percepisce dal suo stile un amore profondo per l’«umano». E traspare anche dalla sua riluttanza a rilasciare interviste frettolose: parlare dei destini del mondo in due minuti è irrispettoso non solo per chi è chiamato a farlo dall’alto del suo magistero ma anche per i lettori. Nei suoi libri si è molto dilungato sulle caratteristiche del «nuovo capitalismo», mettendone in evidenza il loro lato oscuro… Il nuovo capitalismo ha smantellato le istituzioni e ha trasformato le carriere in meri lavori. Le carriere di un tempo richiedevano un impegno continuativo sia nella costruzione di un corredo di competenze individuali, affidabili, salde, sia nella tessitura di un insieme di relazioni sia verticali sia orizzontali. Negli anni Sessanta e Settanta la negoziazione fra dirigenti e manodopera poteva anche essere ruvida ma alla fine si giungeva comunque a un accordo che consentisse di andare avanti. I quadri intermedi erano a conoscenza delle decisioni dei dirigenti, e la consapevolezza della rotta comune era tale da motivare tutti. Esisteva anche una propensione al sostegno reciproco dei lavoratori che, in caso di necessità, vuoi per un dramma familiare, vuoi per il semplice scivolone di un collega che magari si era ubriacato, si aiutavano e si coprivano affinché il lavoro procedesse e non ci fossero conseguenze serie per nessuno. La potente individualizzazione del divide et impera odierno, il crescente potere dei manager che non sanno ormai più nulla del lavoro che viene svolto e che hanno interrotto la comunicazione con i quadri che lo eseguono ma che sono stati espunti da qualunque potere decisionale congiunto, la scomparsa o l’estremo indebolimento di strutture, corporazioni e associazioni a difesa dei lavoratori, mettono oggi l’uno contro l’altro, così come inducono spesso proprio le categorie di lavoratori più svantaggiate a guardare con sospetto o con odio agli immigrati che potrebbero rubare il posto a chi ce l’ha e non sa se e fino a quando potrà conservarlo. Il suo metodo interdisciplinare di indagine sociologica, che attinge dalla letteratura, dall’arte e dalla musica, dipende dal Suo passato di violoncellista? Senz’altro. Ricordo che ero bravo e mi piaceva moltissimo suonare da solo ma che facevo davvero fatica a suonare con gli altri. C’era sempre qualche motivo di disaccordo e talvolta mi provocava una sofferenza vera e propria dover rinunciare alla mia visione di come avrebbe dovuto essere eseguito un brano perché gli altri musicisti erano animati da un’altra prospettiva. Era una lotta continua con me stesso e con gli altri. Ma poi, riuscendo attraverso la reciproca influenza a trovare una serie di soluzioni che consentivano un’esecuzione congiunta infinitamente più significativa del suonare da soli, la soddisfazione che se ne traeva ripagava delle tensioni e delle frustrazioni che la 56 negoziazione aveva comportato. Si tratta di un processo di apprendimento faticoso ma essenziale: ci si educa o si viene educati alla capacità di cooperare che è un’arte: un’arte che oggi non viene più insegnata, che per certo in un’epoca che tende a cancellare la figura del «maestro» non ci verrà insegnata dalla rete. Le persone sono fatte per vivere insieme ma tale competenza va coltivata. La competenza dialogica dipende dalle capacità di ascolto, dalle esigenze che traspaiono sotto le parole. Il marxismo che si manifesta in filigrana in tutta la sua opera si ispira più al socialismo sociale del XIX secolo che ai «massimi sistemi», segnalando una sua sfiducia nella «politica»: è così? In effetti non credo nei partiti politici, auspicherei piuttosto un decentramento in cui le singole voci potessero avere un terreno comune in cui manifestarsi. La mia è anzi una posizione «antipolitica», le persone che parlano insieme con una sola voce non mi piacciono, sono contrario all’uniformità e all’omogeneizzazione. Sono cresciuto in un quartiere difficile dove le opportunità per un ragazzo nero e povero erano inesistenti al di fuori dell’affiliazione a una gang. Questi giovani sapevano che un percorso scolastico sarebbe stato tempo perso per loro perché ne erano esclusi a priori. Ecco perché preferisco le pratiche di socializzazione ai massimi sistemi: portare via un ragazzo dalle gang ha bisogno di diplomazia sociale e di sensibilità. Mentre la spontaneità induce a urlare e a cercare con ogni mezzo di accreditare la propria visione, la diplomazia sociale è una competenza che può sul serio modificare le cose. Per riuscirvi, però, non bastano certo i social network, c’è bisogno di qualcosa che vada oltre i messaggi denotativi espliciti, il fatto di scrivere sì o no, e che coinvolga la comunicazione non verbale. I blog sono deprimenti, definiscono tutto tramite le parole, manca un sopracciglio che si solleva, o la mano che si posa su un braccio. Le nuove tecnologie, per quanto utili, possono essere una tragedia perché costituiscono esperienze smaterializzate mentre noi esseri umani abbiamo la necessità di esperienze incarnate. Cosa pensa delle barriere che si sollevano un po’ dovunque nei confronti dei migranti? Provo tristezza e rabbia perché sembra che tutti quei paesi che un tempo vedevano la loro gente emigrare e che adesso dovrebbero accogliere persone a loro volta costrette a emigrare si comportano come gli Stati che negli anni Trenta e Quaranta si rifiutavano di aprire le porte agli ebrei perseguitati dal nazismo e dal fascismo. Hanno dimenticato che siamo stati tutti migranti, e chiudono le porte come carapaci. In realtà la società odierna mi sembra, a differenza di quanto pensa Zygmunt Bauman, solida e impenetrabile. Nei secoli XVIII e XIX la popolazione dell’Europa era molto povera e molto fluida, adesso invece si sta rifascistizzando. Come fa l’Irlanda, che ha avuto l’emigrazione del 60 per cento della sua popolazione, a sbarrare le porte ai migranti? Sotto questo aspetto l’Italia è stata ed è più generosa. C’è una eco «lacaniana» nel secondo dei due saggi che compongono il suo ultimo volumetto «Lo straniero». Lo apre con l’opera di Manet «Il bar delle Folies-Bergère» che, attraverso lo straniamento e la dislocazione suscitati dal dipinto, sembrano suggerire l’impressione: «Guardo in uno specchio e vedo qualcuno che non sono io». Sembra quasi un’indicazione di percorso non solo per lo straniero che deve rielaborare la propria identità, ma anche per ciascuno di noi che siamo tanto più inconsistenti e pericolanti quanto più ci sentiamo piantati con i piedi per terra in un’autoimmagine inscalfibile. Ho conosciuto personalmente Lacan e, se lui non mi è piaciuto come persona, apprezzo però il suo genio. In Insieme avevo parlato dei tre modi di effettuare una riparazione. Il primo è quello di ripristinare l’oggetto così com’era. L’equivalente di questo tentativo per un migrante è la nostalgia e il desiderio che tutto torni così com’era. Fallimentare. Il 57 secondo modo è quello di riparare l’oggetto rendendolo migliore di quanto fosse nel suo stato originario. Insufficiente, giacché la rapidità di cambiamento del mondo contemporaneo rende inadeguata qualche semplice miglioria a qualcosa che è stato travolto da un’onda impetuosa. Il terzo modo, quindi, quello di trasformare l’oggetto in qualcosa di nuovo, è l’unico che possa attagliarsi al migrante che sa di esserlo e all’autoctono che è tale solo provvisoriamente, finché non sopraggiunga la possente onda d’urto del cambiamento che preme. Ne L’uomo artigiano avevo spiegato che la capacità creativa del protagonista del libro non è nostalgica, non è rivolta a un passato da far risorgere, ma è la capacità di far nascere qualcosa di nuovo. Voi italiani, che secondo me con un certo masochismo vi autosvalutate, siete maestri nel generare nuove armonie, nuovi scenari di bellezza inaudita, ma la lezione riguarda tutti noi: come aveva scritto Kant nel 1784 in Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, gli esseri umani sono tanto più favoriti nello sviluppo quanto più riescono a tesaurizzare gli stimoli che arrivano da chi è diverso: dunque, dobbiamo inventare soluzioni creative di convivenza. 58 INFORMAZIONE Del 30/06/2015, pag. 13 Diffamazione sul web, la legge dell’impunità Multe più salate per i cronisti, ma la giustizia non è altrettanto severa con chi denigra via mail o sui social network di Valeria Pacelli Una legione di imbecilli”, così Umberto Eco ha definito il web, parlando anche di una serie di bufale incontrollate. E se qualcuno fosse d’accordo, leggendo le sentenze degli ultimi anni, dovrebbe dire “imbecilli e denigratori” per la miriade di offese sui vari siti. Chi insulta spesso cela la propria identità dietro un nickname e questo tante volte basta per evitare una condanna per diffamazione. Firmarsi con uno pseudonimo sembra conferire una sorta di impunità. Anche se la denuncia c’è, identificare il soggetto è sempre più difficile: le sedi legali di molti siti si trovano all’estero e le rogatorie dei pm per ottenere informazioni restano spesso senza risposta. Così l’indagine risulta costosa e inutile, quindi il caso è archiviato. Ogni giorno le Procure italiane vengono inondate di denunce per diffamazione sul web. E se da un lato è in via d’approvazione una riforma che punisce con pene pecuniarie più salate (eliminando il carcere) editori e giornalisti della carta stampata; dall’altro rimane l’apparente vuoto normativo sulla diffamazione via internet. L’orientamento di numerose Procure, anche di quella romana che ha inserito questo principio in tante richieste di archiviazione, si chiama “desensibilizzazione oggettiva”. Si applica al web la stessa della politica in base alla quale non sussiste il delitto di diffamazione perché l’utilizzo di termini pungenti (non però volgari e gratuitamente offensivi) viene inteso nella dimensione pubblica del destinatario e del personaggio. Così l’agorà telematica diventa come quella politica. Ma vediamo, attraverso qualche caso, la giurisprudenza sulla diffamazione sul web. Uno dei principi stabiliti dalla Cassazione esclude la punibilità dei direttori dei giornali on line e dei gestori di blog o forum quando ospitano insulti nei commenti degli utenti. Possono essere processati per i messaggi offensivi solo quando c’è un diretto concorso per diffamazione, non più per omesso controllo come accade ai direttori dei giornali. È successo ad esempio nel 2010 all’amministratore di un blog di Varese “Amici di Beppe Grillo”: è stato assolto dal reato di diffamazione, dopo che una persona lo aveva denunciato per un commento offensivo sul sito. Questo principio viene applicato non solo ai blog, ma anche ai forum: l’ingente massa di commenti non è gestibile. La Cassazione si è anche pronunciata sulle mail denigratorie inviate dagli internet point. Una sentenza del 2008 afferma che non vi è responsabilità penale dei gestori dei punti internet per non aver impedito l’invio di quelle mail. Il gestore quindi non è perseguibile per omesso controllo. È il caso che ha avuto come protagonista il padre di Striscia la Notizia, Antonio Ricci, dopo alcune mail diffamatorie ricevute sulla posta del Gabibbo. Era stato denunciato anche il gestore di un internet point di Perugia che non aveva registrato la persona che aveva usato il pc dal quale erano state mandate la mail. La Cassazione non però ha affermato che non si poteva condannare per omesso controllo, si trattava solo di violazione amministrativa. Altra questione interessante è quella dei nickname: oltre la difficoltà dell’identificazione, c’è un particolare orientamento per cui l’anonimato rende il messaggio diffamatorio meno autorevole. Personaggi pubblici o meno, tanti devono affrontare insulti 59 ingestibili. E se Paola Ferrari nel 2012 ha annunciato di voler denunciare la piattaforma Twitter per le troppe offese, dopo la conduzione di Stadio Europa, Enrico Mentana, davanti a tanti insulti, è uscito dal mondo dei cinguettii. E così di fronte al “denigratore” sul web si è tutti un po’ impotenti. 60 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI del 30/06/15, pag. 6 Scuola Un referendum contro Renzi-Pirro Roberto Ciccarelli Disobbedienza civile, referendum abrogativo e l’indicazione di un’alternativa. Di questo si discute nel movimento della scuola dopo l’approvazione del Ddl Renzi-Pd al Senato giovedì 25 giugno. I comitati che hanno promosso lo sciopero della fame a staffetta in Emilia Romagna oggi hanno convocato un’assemblea regionale nella chiesta evangelica metodista in via Venezian a Bologna (ore 18,30) per continuare la mobilitazione in vista dell’approvazione definitiva del 7 luglio alla Camera per «evidenziare un atto di arroganza inaccettabile» scrivono su Facebook. Alla loro lotta continuano ad unirsi docenti e genitori in tutto il paese. In un gazebo allestito in via Duomo a Corato, in provincia di Bari, domenica scorsa è iniziato uno sciopero della fame che durerà una settimana. Oltre alla chiamata diretta del preside-manager, considerato un vulnus alla libertà di insegnamento, i docenti protestano anche contro le otto deleghe in bianco lasciate al governo. Al presidente della Repubblica Mattarella i docenti chiedono di non firmare la legge. È prevedibile che il loro appello sarà ripreso da molte persone nell’imminenza dell’ultimo voto alla Camera. Due sono le idee per continuare la mobilitazione a settembre. La prima è raccogliere «almeno due milioni di firme necessarie» per indire un referendum abrogativo della contestatissima riforma «e ottenere il quorum», scrivono i comitati bolognesi. «Se non si raccolgono le firme necessarie, se si sbaglia il quesito, se non si raggiunge il quorum – scrive su Facebook Giovanni Cocchi, docente bolognese e autore di un cliccatissimo video di risposta allo spot di Renzi alla lavagna — ci si condanna, nel migliore dei casi, ad un’inutile “vittoria morale”; nei fatti alla concreta impossibilità di “tornarci sopra” per i prossimi due secoli». Il referendum «deve partire dagli insegnanti genitori e studenti — aggiunge Cocchi — Va detto con grande franchezza che “intestarsi” il referendum costituirebbe un grave errore se non addirittura un grave danno». Quando «si combatte una legge ingiusta, è doveroso – oltre che più convincente – saper indicare un’alternativa giusta» conclude Cocchi. I 34 comitati per la legge di iniziativa popolare «Per una buona scuola per la Repubblica» (Lip) si attiveranno per la raccolta firme per il referendum. Seconda ipotesi per la mobilitazione: uno «sciopero nazionale» per il primo giorno di scuola a settembre. È una richiesta più volte emersa nelle ultime manifestazioni dai docenti che hanno trascinato i sindacati in una lotta senza quartiere contro Renzi e il partito democratico dallo sciopero generale del 5 maggio a oggi. L’appello è alla «disobbedienza civile», è rivolto anche ai sindacati ed «è un imperativo morale che ogni insegnante eserciterà come sente». Non meno duri con il governo Renzi sono i toni usati dai massimi esponenti sindacali. «Vorrei che nessuno si facesse l’illusione che basti un altro voto di fiducia alla Camera per chiudere la partita — ha detto la segretaria generale Cgil Susanna Camusso ieri a Bologna– La verità è che si stanno determinando le condizioni per cui la scuola, da settembre, sia ingovernabile». Il governo «deve sapere che sta commettendo ingiustizie straordinarie e mette in discussione uno strumento fondamentale per l’unità del paese e per il suo futuro». 61 Carmelo Barbagallo, segretario generale Uil, riflette sulle 102.734 assunzioni dei docenti precari, divisi in tre fasi, come previsto dai commi 94–104 del maxiemendamento che oggi sarà discusso dalla VII commissione alla Camera: «Renzi userà le assunzioni come foglia di fico per coprire le vergogne di una riforma sgangherata di cui non c’era bisogno per dare stabilità ai precari che sono preoccupati di restarne succubi — ha detto Barbagallo — Questa riforma è inapplicabile e resterà inattuata. È rimandata a settembre e allora si faranno i conti». «Quella di Renzi è la vittoria di Pirro. I docenti non accetteranno mai di perdere la libertà di insegnamento, di essere assunti e licenziati da un preside-padrone, di essere premiati o puniti da un “gran Giurì” composto da colleghi, più uno studente e genitori che nulla sanno per valutarli, e che instaurerebbero un potere assoluto, alla Marchionne, in ogni istituto» rilancia Piero Bernocchi (Cobas). Di tutta risposta, è arrivata la conferma che la componente della minoranza Pd «Sinistra è cambiamento» voterà la fiducia al governo. «Credo che sia un bene che questa riforma proceda — ha detto Cesare Damiano che definisce «oggettivi» i cambiamenti del testo al Senato, anche se non soddisfano pienamente una minoranza che è stata annientata da Renzi con la fiducia. La protesta continua a piazza Montecitorio martedì 7 luglio. 62 CULTURA E SPETTACOLO del 30/06/15, pag. 12 La globalizzazione dello sfruttamento Intervista. Il regista italo-americano parla di «Mediterranea», il suo film visto a Cannes e oggi al Festival di Monaco. Il dramma dei migranti clandestini, dal deserto a Gioia Tauro Giovanna Branca È nato a New York , ma adesso vive in Calabria Jonas Carpignano, regista italoamericano – padre romano, madre afroamericana – classe 1984 che abbiamo visto alla Semaine de la Critique di Cannes con il suo Mediterranea, proiettato oggi al Festival di Monaco nella sezione International Independents. In Calabria ci è arrivato nel 2010, quando è scoppiata la rivolta dei migranti a Rosarno: «la prima volta – dice — che una comunità di migranti è scesa in piazza contro le ingiustizie che subiva». E il suo Mediterranea racconta proprio questo: l’epopea di Koudous, che dal Burkina Faso attraversa il deserto per poter salpare verso l’Italia e approda nella piana di Gioia Tauro, dove lavora raccogliendo arance per pochi spiccioli l’ora. L’umanità che lo circonda ha tutte le sfumature del grigio: il piccolo contrabbandiere Pio, per sopravvivere smercia e ricompra telefonini, lettori mp3 ed ogni genere di oggetto; la famiglia che lo fa lavorare illegalmente ma lo accoglie tra le mura domestiche; la gente del paese e la sua ostilità; i compagni di avventura vittima delle stesse frustrazioni e della stessa nostalgia di casa. Quello che doveva essere un breve lavoro sui «riots» è diventato un film, anche se la sua prima manifestazione è proprio un cortometraggio, A Chijana, passato a Venezia nel 2011 a Venezia dove si affrontava – spiega il regista — «ciò che si prova durante e soprattutto dopo una rivolta del genere, il momento in cui ci si chiede se ne sia valsa la pena, se si siano ottenute le cose per cui è iniziata». L’anno scorso, sempre a Cannes, Carpignano ha portato un altro corto – A Ciambra – il preludio di un lungometraggio che ha intenzione di dedicare al piccolo Pio, il bambino che rifornisce buona parte di Rosarno di beni assortiti di dubbia provenienza. Spunti, persone e momenti di vita vissuta a comporre quel lavoro originalissimo nel panorama italiano che è Mediterranea, a metà tra il documentario – i protagonisti sono proprio i diretti interessati e le loro esperienze – e il film di finzione la cui sceneggiatura si scrive giorno per giorno, con uno stile che Carpignano chiama guerrilla filmmaking. Cosa intende con questa definizione? L’idea era girare un film non convenzionale. Riguarda dei migranti «clandestini», che ovviamente sono difficili da assumere, ed è già un conflitto. Non volevo essere costretto ad andare a Roma per fare un casting e portare in Calabria le stesse quaranta facce che si vedono ogni volta che in un film italiano c’è una persona nera. Per cui abbiamo dovuto stabilire le nostre regole e percorrere un sentiero diverso, e di conseguenza privarci di molte delle cose che servono ad una produzione normale. Ci siamo inventati dei modi per aggirare gli ostacoli mano a mano che andavamo avanti, in modo spesso non molto professionale. Ma ciò che ci manca in esperienza e praticità lo recuperavamo attraverso il desiderio di fare le cose bene. Anche dal punto di vista produttivo il film è anticonvenzionale. Ho avuto la fortuna di partecipare al Sundance Lab: sono stati loro ad aprirmi il mondo della produzione indipendente. Se non fosse stato così sarei probabilmente andato al Ministero ed avrei seguito la trafila tradizionale. Ripensandoci però non avrebbe funzionato: i soldi dello Stato ti obbligano a rispettare molte regole, a rendere conto a 63 qualcuno. Cercare e mettere insieme i soldi da soli, seguendo il modello del cinema indipendente americano, ci ha dato invece la libertà di fare quello che volevamo e di lavorare con chi preferivamo: italiani, francesi, africani, americani… Come ti sei messo sulle tracce del percorso che porta dall’Africa in Italia, e poi proprio in Calabria? Ho fatto il percorso io stesso partendo dal Burkina Faso, passando per il Mali e cominciando a fare la traversata a piedi del deserto. A Timbuktu ho incontrato molte persone con cui ho continuato la strada, ma poi mi sono dovuto fermare al confine algerino perché le cose si sono fatte troppo pericolose. Per cui sono tornato in Italia e l’anno successivo sono andato in Libia, che è il posto in cui è più semplice raccogliere delle storie su questa esperienza, di cui mi sono servito per riempire le parti di tragitto che non avevo potuto fare in prima persona. Date le mie radici, ho sempre voluto fare un film sulle questioni razziali in Italia. Poi i «riots» di Rosarno mi hanno spinto ad andare lì, dove ho trovato un gruppo di persone disposte a confrontarsi, che non erano spaventate a parlare di ciò che stava succedendo. Il film è a metà tra documentario e finzione. Più di ogni cosa è una collaborazione: sentivamo di stare facendo un lavoro insieme. Anche scrivendo la sceneggiatura utilizzavamo delle cose che ci succedevano quotidianamente e che trovavamo emblematiche dell’esperienza in Calabria. Ad esempio, la scena in cui un ragazzo da una pacca sul sedere ad una delle donne nere, scatenando una rissa, ci è successa davvero due anni fa. E la persona che lo fa nel film è proprio quella di quel giorno: in seguito si è scusato ed ora siamo amici. Abbiamo cercato di fare in modo che la vita entrasse nel film, che rimodellavamo giorno dopo giorno. Del 30/06/2015, pag. 33 Mondadori-Rizzoli, un affare da 135 milioni Presentata ieri l’offerta di Segrate, nei prossimi giorni al vaglio del cda Rcs Mario Baudino L’offerta è scattata ieri, come previsto, e trattandosi di società quotate in borsa se n’è avuta conferma a mercati chiusi: la Mondadori ha fatto la sua proposta vincolante per acquistare la Rcs libri. A livello ufficiale non si fanno cifre, ma ufficiosamente si sa che dovrebbe aggirarsi intorno ai 135 milioni di euro, come già anticipato. Ora Rcs convocherà un cda straordinario, e tutto fa pensare che l’offerta verrà accettata. Il futuro colosso Mondadori-Rizzoli (40% del mercato italiano) a quel punto passerà al vaglio dell’Antitrust (anche qui non dovrebbero esserci grossi problemi) e si avvierà in tempi rapidi in dirittura d’arrivo. Niente sembra più poterlo veramente fermare, anche se potrebbero esserci proteste e petizioni nel mondo culturale italiano, dopo il manifesto firmato qualche tempo fa da Umberto Eco e centinaia di intellettuali contro quella che ai loro occhi appare una seria minaccia al pluralismo culturale. Da Segrate, per ora, bocche cucite, anche se filtrano indicazioni sul futuro del gigante: non sarebbe rigidamente accentrato, come del resto già non lo è la nuova Mondadori, che lascia alle diverse case editrici - basti pensare all’Einaudi - un ampio margine di autonomia, e non lo sarà neppure, almeno per un bel po’, dal punto di vista degli uffici. A Segrate, nella struttura bella ma sempre meno funzionale progettata da Oscar Niemeyer e realizzata negli Anni Settanta, non c’è più posto. La Rcs «mondadoriana» potrebbe 64 rimanere nel palazzo Rizzoli (non interessato dall’operazione editoriale), pagando un affitto, ancora per un bel po’ di tempo, o avere nuovi uffici a Milano. La mega acquisizione, per una curiosa coincidenza, ha intanto il suo momento chiave nei giorni decisivi di quello che potrebbe essere l’ultimo Strega della stagione dei grandi gruppi - e si assegna giovedì. Fino a quest’anno sono loro i protagonisti, ogni gruppo un libro. Dalle molte telefonate di sollecito ai giurati, per esempio, è emerso quest’anno che la Mondadori punta sull’einaudiano Nicola Lagioia (La ferocia) per la vittoria finale, sacrificando il candidato «di casa» Fabio Genovesi. Non che i premi siano il problema maggiore, ma sarà curioso vedere che cosa succederà l’anno prossimo, quando i «grandi gruppi», da tre che erano, saranno diventati due: uno grandissimo, e uno, Gems, decisamente meno. 65