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“Lacrime di gioia” (narrativa)
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CONTENUTI SPECIALI
DI QUESTO E-BOOK:
Lo “Spizz”
Trent’anni
Florio Panaiotti
Narrativa
Trovi le prime 73 pagine in fondo
all’e-book
“Trent’anni” è la storia di Andrea, un ragazzo alle prese con le difficoltà comuni
alla sua generazione: il lavoro precario,
una storia d’amore fallita, il rapporto con i
genitori, le cattive amicizie.
Un solo week-end, un lavoro quasi impossibile da portare a termine entro il
lunedì successivo.
Questa scadenza, legata a una
serie di coincidenze, incontri, anniversari, e il compimento dei fatidici trent’anni, trasformeranno
quel week-end in un’occasione
per tirare le fila della propria vita.
ALFREDO TOCCHI
TRA
UN ANNO
SARÒ FELICE
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com
www.ilclubdeilettori.com
TRA UN ANNO SARÒ FELICE
Copyright © 2011
Zerounoundici Edizioni
Copyright © 2011
Alfredo Tocchi
ISBN: 978-88-6578-090-9
In copertina:
Immagine proposta dall’Autore
Introduzione
È la storia di un matrimonio che non
resiste alla malattia e alla depressione.
È storia di un principe che s’innamora
di una puttana.
È la storia della scomparsa della poesia dal mondo.
È la storia dell’impossibilità di credere in qualsiasi cosa.
È la storia dell’ineluttabile sconfitta
dell’onestà e del buon gusto.
È la storia dell’amore tra un padre e
sua figlia.
È la storia di una crisi di mezza età.
È una storia d’amore e di sesso.
È la storia di un naufrago alla deriva.
L’ho composta con ciò che mi resta
dopo il naufragio: ricordi, sms, mail,
lettere, frammenti di dialoghi, oggetti,
citazioni di libri e di film, canzoni.
Ma è soprattutto una storia sul destino: il mio.
PARTE
PRIMA
1.1
E subito riprende il viaggio / come
dopo un naufragio / un superstite lupo
di mare (Giuseppe Ungaretti, “Allegria di Naufragi”).
Sottofondo musicale: “The Carpet
Crawlers”, Genesis
Finirò male, perché sono un maudit.
Ma in fondo, cosa significa? Qualcuno forse finisce bene?
Sono sdraiato sopra un materasso
dell’IKEA in questa casa che non è la
mia: è una casa vuota, in vendita, prestata da un cliente. Me ne sono andato
di casa e ho lasciato tutto a mia moglie - sono previdente, avevo poco già
prima - eccetto i miei vestiti, la mia
scrivania, 4 sedie superleggera di Gio
Ponti, due ceramiche di Lucio Fontana e una tela bruciata di Luigi Sonzini. Mi restano anche un divano, una
poltrona comoda per leggere, un ar-
madio e una libreria che erano in un
deposito e ho creduto che per sopravvivere non mi servisse altro.
Se penso a mia figlia, mi viene il magone, ma non piango, non riesco a
piangere. Cerco di leggere “Memorie
di un Antisemita” di Gregor Von Rezzori, ma non ce la faccio a concentrarmi. Spengo la luce all’una, sapendo che sarà l’ennesima notte insonne.
Ho provato tre diversi sonniferi, ma
l’unico effetto è stato trovarmi la bocca impastata e cinquanta pulsazioni. Il
cuore mi fa male, credo di sentire
l’Amplatzer PFO Occluder che mi ci
hanno impiantato. In meno di due anni ho perso tutto: salute, lavoro, soldi,
famiglia, voglia di vivere. La mia vita
è crollata come un castello di sabbia
travolto da un’onda. Devo reagire,
non so come ma devo reagire. La prima cosa è guarire, domani ho appuntamento all’Humanitas con il cardiologo.
Il rumore del traffico di Viale Piceno
è insopportabile. Milano è sempre
rumorosa e queste case degli anni sessanta non hanno i doppi vetri. Mi ri-
metto a leggere ma dopo due pagine
spengo la luce. Penso a quanto fosse
bello addormentarmi abbracciato a
mia moglie e di certo, in questo momento, non è un pensiero allegro. Il
materasso dell’IKEA è comodo, ma
non ho né lenzuolo né coperta. Ho
freddo: mi metto la camicia. Nudo per
terra ma con una camicia di Turnbull
& Asser. Sorrido, mi sono rimasti soltanto i vestiti. 12 invernali, 6 giacche
di tweed, 6 estivi, 4 blazer, 72 camicie, 24 paia di scarpe, 6 cappotti, 3
impermeabili, un piumino di Eddie
Bauer comprato a Toronto nel 1986…
Ecco, pensare a un elenco, devo pensare a un elenco. Come se fosse un
mantra, come se contassi le pecore.
Forse così potrei addormentarmi. Vado avanti con l’elenco, penso a tutto,
ma proprio tutto quello ho salvato dal
mio naufragio, riempiendo in fretta le
valige, come un ladro in casa propria.
Non serve, di nuovo un pensiero negativo. Penso ai miei orologi, la mia
passione, il mio hobby, portati in banca, in cassaforte. Ho un’idea migliore,
metto il mio Patek Philippe Ref. 3998
in oro giallo sul cuscino accanto
all’orecchio. Sto impazzendo, ecco sto
impazzendo. Devo dormire, quasi
quasi prendo una dose doppia di sonnifero. No, poi mi fa male e devo andare dal cardiologo. Me ne starò qui,
senza muovermi, cercando di spegnere il cervello, di non pensare a niente.
Se ci riuscissi, sarebbe un po’ come
avere una seconda ischemia cerebrale,
una delle cause della mia rovina. Sono
onesto, una delle cause, non l’unica e
forse neppure la più importante.
L’ischemia, il coma, il risveglio in
terapia intensiva senza più sapere parlare… Strano, è un pensiero dolcissimo: gli infermieri che mi gridano di
non addormentarmi, che mi tengono
la mano, che piangono insieme a me
quando mi si raddrizzano gli occhi,
storti dopo l’ischemia.
Dormo, sì. Dormo.
La mattina mi alzo e vado in studio.
L’ultima mail inviata ieri è quella per
mia moglie:
“Mi verrebbe voglia di scriverti soltanto crepa, dopo che oltre a rimetterti
su Facebook con una nuova fotografia
ci hai anche scritto ancora prima che
fosse vero che ci siamo separati. Ma
del resto da te non mi aspettavo più
niente di buono. Come ti ho già scritto, prima o poi ti accorgerai di quello
che hai fatto, te ne pentirai e io sarò
già a cento scopate (vere, non sulle
chat) di distanza”. Nessuna risposta.
Poi, dopo pranzo, ecco un messaggio:
“Ti auguro di fartene mille di scopate
per recuperare tutti i diciotto anni di
odio che hai avuto per me. Perché mi
hai solo odiato e basta, io non mi sono
mai sentita amata veramente da te.
Hai solo e sempre detto che ero una
cretina, offendendo me e la mia famiglia, sempre e solo questo. Io sono
sola con un padre morto e una bambina meravigliosa cui far sentire solo
amore, tu mi hai lasciato nel momento
più brutto della vita, così hai sfogato
bene il tuo grande odio. Pensa che mi
voglio scopare chiunque, pensa quello
che cazzo vuoi, ma io sono sola e tu te
ne sei andato. Facebook è solo uno
sfogo cretino per dire quattro cazzate
ed evadere da questa tortura”.
Leggo il messaggio e mando l’avviso
di lettura. Ho offeso lei e la sua famiglia? È vero l’esatto contrario, è lei
che ha sempre disprezzato la mia!
Dopo un attimo squilla il telefono. È
lei, che mi aggredisce rinfacciandomi
quello che le avrei fatto passare in
diciassette anni di matrimonio. Ricorda quando dieci anni fa le avevo dato
uno schiaffo - e la cosa non si era mai
più ripetuta, perché mi ero giustamente sentito un verme - ricorda quando
una volta avevo buttato a terra il piatto appena portato in tavola, come un
pazzo - era da mesi che le dicevo che
non volevo più mangiare in quei piatti, orrendo regalo di sua madre, quando avevamo altri tre servizi di piatti.
Le attacco il telefono in faccia e subito le scrivo accecato dalla rabbia:
“Tu mi chiami per rinfacciarmi quello
che ti ho fatto dieci anni fa, ma non
hai neppure il sospetto che se dieci
anni fa ho perso la pazienza la colpa
forse era tua. Tu sei così. Te l'ho già
detto e scritto. Il tuo egoismo, la tua
totale assenza di umanità, il tuo menefreghismo verso i bisogni di tuo mari-
to sono cose che mi lasciano inorridito. Mai un accenno di autocritica, mai
un barlume d’intelligenza, che ti consentirebbe di accorgerti quando la misura è colma e anche una persona paziente come me non ce la fa più a
sopportarti. Spero che mia figlia cresca diversa da te e diversissima dalla
tua famiglia. Sei un mostro e nonostante questo io per diciotto anni ti ho
vissuto accanto e ti ho amato. Ora me
ne vergogno. Vorrei veramente che tu
morissi, perché il mondo sarebbe per
gli umani un posto migliore senza di
te, e senza quelli come tuo padre che
prepotentemente fanno assessori i loro
amici e nipoti, evadono il fisco, portano i soldi in Liechtenstein dai loro
amati banchieri, trattano a calci in
culo tutti coloro che non gli sono utili
e strisciano con i potenti. Questa è la
mia ultima mail. Addio. NON MI
TELEFONARE MAI PIU', NON MI
SCRIVERE MAI PIU'. Voglio soltanto lasciarti dietro le mie spalle prima
possibile, come una merda che si vuole togliere da sotto le scarpe”.
Mi vergogno della cattiveria di questo
messaggio. Mi vergogno e ne soffro:
non pensavo che un giorno sarei stato
capace di scrivere una cosa simile. Mi
vergogno anche del contenuto del
primo messaggio: tradimento – gelosia – vendetta – allontanamento definitivo, ma è vero che, mentre io convalescente dopo l’operazione al cuore
me ne stavo sdraiato sul divano, mia
moglie chattava con i suoi vecchi amici palermitani. La tristezza di questa situazione è stata un’altra delle
cause della mia rovina: io però stavo
male mentre mia moglie no, perché la
dipendenza da internet è un vizio, non
una malattia. Ma non ne faccio una
questione terminologica. Poi mi sarà
venuta la depressione, sarà forse così.
Di sicuro non mi ha dato una mano il
cardiologo - eppure è il cardiologo dei
VIP! - che a ogni nuovo appuntamento, per non dire la semplice verità e
cioè che dopo l’intervento ero cardiopatico, preferiva dire a me - mia moglie presente - che ero soltanto depresso. I medici di oggi sono spesso
così, perfezione tecnica senza alcuna
intelligenza emotiva. Mia moglie mi
accusava di essere depresso e chattava
e usciva da sola con le amiche. Poi
passava settimane via da casa con i
fotografi per i suoi servizi. Io credo
che si sia immaginata una vita diversa
accanto a un fotografo. Magari non
hanno scopato, questo non lo so, non
posso dirlo. Però ha sognato un uomo
diverso al posto di quello, malato o
depresso, che si ritrovava in casa.
L’illusione di un amore, di essere in
due, finalmente in due, può sconvolgere le nostre vite ben più di una scopata. Del resto, io ero lì, sul divano, a
leggere per ore e ore, in silenzio, malato (depresso?), emotivamente distrutto. Poi ha preso le parti di suo
padre quando ingiustamente mi ha
dato del mascalzone. E io me ne sono
andato, per sempre.
Rileggo la mail a mia moglie e mi
viene in mente che se voglio andare a
cento scopate di distanza devo darmi
da fare. Bisogna cominciare con le
cose facili, per non deprimersi. La
riconquista è sempre più facile della
nuova conquista, quindi bisogna
chiamare una ex. Se è vero che la
donna sceglie i partner annusandoli,
di certo una ex mi avrà già a suo tempo annusato con soddisfazione e non
mi respingerà, a meno che con l’età,
la malattia o una dieta sbagliata io
abbia cambiato del tutto odore. Vorrei
incominciare con una riconquista famigliare. Prendo una vecchia fotografia di quando avevo circa sei anni che
tengo nel cassetto della scrivania. Ci
siamo io e le mie due cugine di terzo
grado negli anni sessanta. Piove e
siamo in tre sotto un solo ombrello
che tengo io, al centro, anche se non
sono il più grande. Indosso un cappotto blu, pantaloni di velluto beige e
stivali di gomma. Carola, due anni più
grande, è alla mia destra e Camilla, un
anno più piccola, alla mia sinistra.
Siamo davanti alla darsena nella villa
al lago dei miei bisnonni. Carola è
stata sempre il mio amore, il mio sogno proibito. Poi, l’anno del mio esame di maturità, si è innamorata di un
mio compagno di scuola, hanno fatto
l’amore, è rimasta incinta e si sono
sposati. Ora, ventinove anni più tardi,
ha due figlie grandi. Il marito l’ha lasciata circa diciotto anni fa per una
poco più che ventenne e da allora non
si è più fatto vedere, salvo alla separazione. Siamo usciti il San Valentino
dello stesso anno – non ero ancora
sposato - e ci siamo baciati, toccati,
amati teneramente ma senza scopare.
Poi ci siamo rivisti tante volte, mai
più da soli e non ne abbiamo mai più
parlato. Carola, sei tu la mia prescelta,
ti ho sempre voluto bene. La chiamo.
È una telefonata brevissima, mi dice
che è al lago. Mi metto a lavorare, a
scrivere un parere, partirò nel pomeriggio e in un’ora sarò da lei.
L’ultimo tratto di strada è stretto e
costeggia il lago. È una calda giornata
di fine agosto e mi ricorda le estati di
quando
ero
bambino.
Arrivo
all’imboccatura della via di casa: a
sinistra vi sono i cancelli delle ville
dei milanesi. Tutti i giardini arrivano
fino alla spiaggia. Gli ultimi sei cancelli sono della mia famiglia. Suono il
campanello e subito Carola mi apre e
m’invita a entrare. Mi abbraccia. Noto
il seno rifatto. Poi mi dice: «Vieni, ti
faccio vedere la mia nipotina.»
«Nipotina? Come, sei nonna?»
«Sì, sono nonna, non lo sapevi?»
Non so mai niente, in famiglia nessuno mi dice mai niente. «Com’è possibile? Nonna a cinquant’anni?»
«Sì, amore, come sai ho iniziato presto.»
Sorride ed è ancora bella. Le dico in
fretta che mi sono separato. Mi risponde: «Non ci credo… Però hai resistito tanto con tua moglie.»
«Sì, diciotto anni.»
Le chiedo se vuole uscire con me a
cena. Mi risponde: «Questa sera non
posso, mia figlia e il suo compagno
escono e devo curare la piccola.»
L’idea di stare lì con lei e la bimba
non mi sfiora nemmeno: non sono
pronto per fare il nonno. La prego di
uscire almeno domani e mi fissa di
nuovo ridendo: «Sei un pazzo. Mi
dispiace per il tuo matrimonio. Tua
figlia dov’è?»
Abbasso lo sguardo e rispondo che
Celeste è a Panarea con sua madre.
«Va bene, passa a prendermi alle otto.
Prenoto io, ti faccio una sorpresa.»
In diciassette anni di matrimonio sarò
andato a dormire al lago, nella villa
che oggi è penosamente divisa in cinque tra mia madre e i suoi fratelli, non
più di dieci volte. La villa è stata costruita nei primi anni del novecento
dalla famiglia di mio padre e quindi
venduta negli anni settanta a quella di
mia madre: le famiglie erano già imparentate e questo mi ha ispirato il
motto: “La pigrizia nella ricerca del
partner genera mostri”. Ci ho portato
mia moglie la nostra prima estate insieme: era la fine di agosto e arrivavamo da Montecarlo. Al lago pioveva
e faceva freddo. La sera tardi mia moglie mi domandò di accendere il riscaldamento. Ma il giardiniere era già
a letto e io non ero capace di farlo.
Passammo la notte sotto due coperte
di lana, in agosto, e mia moglie da
allora iniziò a odiare il lago. Poi ci
tornammo ospiti di mia madre e allora
iniziarono le liti tra lei e mia moglie.
Diciassette anni di litigi e di dispetti e
io mai una volta ho preso le parti di
mia madre.
Ora sono al lago e ho ancora un mazzo di chiavi in macchina. Provo ad
aprire il cancello e non ci riesco: la
serratura è stata cambiata. Scavalcare
è troppo pericoloso, non lo sapevo
fare neppure da ragazzo. Devo passare
dalla spiaggia e scavalcare il cancello
a fianco della darsena, proprio quello
della fotografia. Sono le sette di sera e
il cielo è coperto. In spiaggia non c’è
nessuno. Scavalco facilmente e mi
ricordo di una notte di trent’anni prima quando, ubriaco, avevo scavalcato
il cancello completamente nudo, dopo
avere gettato i vestiti al di là del parapetto e mi ero ritrovato faccia a faccia
con la guardia notturna che mi puntava la pistola. Avevo appena fatto
l’amore con una ragazza tedesca che
poi avevo accompagnato - nudo - tenendola per mano fino al sentiero per
il paese. Guardo il giardino - circa
seimila mq. - verso la villa. Tutto è
cambiato: al posto dei pini ci sono
piante ornamentali. Troppi fiori, troppe sdraio intorno alla piscina: sembra,
o forse è diventato, un giardino condominiale. Penso ai nonni: se fossero
vivi, avrebbero sofferto come me per
questo scempio. La mia famiglia discende da principi longobardi arrivati
in Italia, prima dell’anno Mille, vicino
a Siena, dove un castello diroccato
reca ancora il nostro nome. Partiti in
cerca di fortuna insieme agli Acciajuoli - poi principi di Atene - governarono le isole Ioniche fino al XV° secolo circa. Furono cacciati dopo essersi alleati con i musulmani stringendo un impium foedus (così venivano
chiamati gli accordi tra cristiani e musulmani) e da allora vagarono come
naufraghi. Il patrimonio è stato perso
dal bisnonno - compagno di gioco di
Re Faruk - morto suicida: io penso di
avere toccato il fondo, lo spero per i
miei avi e per mia figlia. Il nostro
motto, sopra lo stemma con tre onde
azzurre in campo argento - tre per
Corfù, Cefalonia, e Zacinto - era si
qua fata sinant, si compia il destino.
Arrivo alla casa e qui, per fortuna, la
serratura non è stata cambiata. Salgo
le scale - a mia madre è toccato il ter-
zo piano, quello dove un tempo dormivano gli ospiti - e apro la porta.
Nulla è più com’era. Della prima ristrutturazione - ancora tollerabile degli anni settanta rimane ben poco.
Mi prende una grande tristezza. Avrei
preferito che mia madre vendesse la
sua parte di casa, per ricordarla per
sempre com’era una volta, quand’ero
bambino, ancora fedele al progetto
degli anni venti dell’architetto Mario
Borgato: un cubo di mattoni con tre
ampi terrazzi, uno per piano, gli enormi saloni e i mobili art deco, la
sala da biliardo con gli specchi, le pipe del nonno allineate sul camino di
marmo accanto al curapipe e agli scovolini colorati, il grande umidificatore
con dentro i sigari per gli ospiti e i
lunghi fiammiferi per accenderli. Il
nonno, leggendaria figura di gentiluomo. Bello, colto e intelligente,
scarpe su misura di D’Agata o Ronchi, abiti di Enrico Livio Colombo,
camicie di Siniscalchi, cravatte di
Truzzi, Patek Philippe da tasca Ref.
600 in oro rosa, Mercedes 280SE 3,5
guidata dall’autista. Ricordo persino il
suo profumo, che metteva sempre sul
fazzoletto bianco con l’orlo fatto a
mano, prima di uscire da casa: Equipage di Hermès. Innamorato di Cap
Ferrat come me - io ho avuto casa a
Beaulieu, un po’ meno cara e nel garage ho lasciato a mia moglie, insieme
alla casa, 50 mq. non molto, la mia
vecchia BMW 320 Cabrio. (Un appello alle mogli: almeno i giocattoli andrebbero restituiti).
Nonno, nessun patrimonio poteva resisterti, soprattutto con cinque figli,
due cameriere fisse, una cuoca, un
autista e un giardiniere. Hai fatto un
ottimo matrimonio e hai vissuto da
gran signore, testimone di nozze del
più famoso figlio del più famoso petroliere italiano, tra feste memorabili e
giocate al casino di Montecarlo e di
Sanremo. Ma tutto questo non esiste
più, è scomparso insieme a te. Mi è
rimasto il Patek Philippe Ref. 600 in
oro rosa, mia unica eredità - non per
niente il motto della Patek Philippe è:
“Le cose che si amano non si posseggono mai completamente. Semplicemente, si custodiscono e si tramanda-
no” - ma ora è in banca perché non ho
una cassaforte, e neppure una casa,
dove riporlo.
Ieri sera ho visto la Traviata al Conservatorio - il palco alla Scala è andato - non sum dignus - così come
l’enorme appartamento nella villa MI
SOL di Sanremo, venduto per mantenere la nonna - e mi sono ricordato di
quando la ascoltavo da bambino insieme a te, che fino all’ultimo giorno
della tua vita hai studiato musica, chitarra classica. Eppure al tuo funerale
non ho pianto. Hai avuto un infarto il secondo, risolutivo - dopo una cena
e una bevuta un po’ troppo abbondanti: i tuoi amici presenti raccontano che
sei morto sorridendo. Ero il primo
della lunghissima fila di persone che
accompagnava la tua bara verso la
tomba nel cimitero Monumentale,
davanti a mio fratello, ai cugini e agli
stendardi - sì, eri sindaco in carica alla
tua morte, nonché presidente di un
ospedale e di non so quante altre cose
e dietro la tua bara sventolavano stendardi come si conviene a un tuo pari.
Tenevo in mano una rosa, che ho get-
tato nella fossa sopra la tua bara. Sono
stato bravo, nonno, ero soltanto un
ragazzino e sono stato all’altezza, non
ho pianto, come non hai pianto tu
quando tuo padre si è sparato e ti ha
lasciato solo - dopo due mesi è morta
anche tua madre di crepacuore - e povero. E da allora non ho pianto mai,
salvo all’uscita dal Policlinico. Ora
vorrei tanto piangere, nonno, piangere
e addormentarmi.
Entro in quella che una volta era la
mia stanza e ci trovo i giochi delle
mie nipoti. No, non posso dormire
qui. Vado nella camera di mio fratello
e controllo se il letto è fatto. Non lo è
ma chi se ne importa, da giorni dormo
sopra un materasso. Decido di dormire qui. Ma prima, ora che so dove
dormire, riattraverso il giardino, scavalco di nuovo il cancello, percorro la
spiaggia e dal sentiero che avevo percorso nudo trent’anni prima torno alla
macchina per andare a mangiare, da
solo, nella pizzeria di Luino dove andavo da ragazzino. I proprietari sono
sempre gli stessi. Allora mi sembravano già vecchi ma, ora che li rivedo,
capisco che erano giovani, molto più
giovani di quanto sia io oggi. Strette
di mano, saluti e sorrisi, poi mangio
una pizza in fretta e me ne torno a
casa.
1.2
Il pelo asciuga le lacrime (perché ti
sei depilata?).
Sottofondo musicale: “Ci sei sempre
stata”, Ligabue
Dopo un’ennesima notte insonne e
una mattina trascorsa in parte a scrutare i cambiamenti in casa e in giardino
e in parte a leggere “Memorie di un
borghese” di Sàndor Màrai, vado a
mangiare un toast nel vecchio bar del
paese, gestito da una ragazzona sui
venticinque anni che non conosco.
Entro e un grassone calvo seduto al
tavolo con altri due che bevono prosecco mi saluta: «Buon giorno avvocato.»
Rispondo
distrattamente:
«Buon giorno.» In paese mi conoscono tutti, anche se non ci vado da anni.
La mia famiglia ha dato tre sindaci,
tra i quali mio nonno, rimasti in carica
in totale per oltre trentacinque anni.
«Non mi riconosce? Sono il geometra
Rossi.» Certo, ora lo riconosco. È un
mio coetaneo con cui qualche volta
sono andato a pescare. Gli porgo la
mano: «Scusami, Amatore, sono senza occhiali, come stai?» Si guarda
intorno con aria compiaciuta e mi dice: «Sono il sindaco. Questo è il mio
vice e lui è un assessore. Siediti con
noi e, prima di tutto, condoglianze per
la scomparsa di tuo suocero.» Strette
di mano, mi siedo - anche se ne farei
volentieri a meno - e ordino il mio
toast e un chinotto. Mi domanda se ho
visto la ronda sulla spiaggia. «No,
sono appena arrivato». Mi racconta
che vuole vietare con un’ordinanza
comunale l’acceso alla spiaggia dopo
le nove di sera, perché col buio i ragazzini ci vanno a scopare. Mi viene
in mente di colpo che trent’anni prima
sua sorella mi aveva fatto un pompino
in macchina, sulla mia MG B. Non
l’avevo scopata perché avrà avuto sì e
no sedici anni. Aspetta da parte mia
cenni di assenso che non arrivano. Va
avanti a parlare, dice che vuole mettere un limite di venti km. orari e dossi
di rallentamento in paese, così la gente in macchina passa piano (puntualizza: «Primo risultato») e si accorge
di quanto sia bello («Secondo risultato»). Io penso: “Buona idea, se lo faranno tutti i paesi da qui all’autostrada
per arrivare in macchina a Milano ci
metteremo sei ore, come ai tempi delle carrozze”. Mi racconta che ha regalato al comune il progetto per una fontana con il sole delle Alpi da mettere
nei giardini pubblici - pagati di tasca
sua da mio nonno, altri tempi… Arriva il mio toast e io mangio in silenzio.
Poi mi chiede perché né io né mio
fratello abbiamo fatto politica: «Tuo
suocero nel PdL era uno importante e
poi siete tanto amici di Gabriele Albertini...» Rispondo, mentendo almeno riguardo a me: «Si vede che abbiamo preso dal papà, non dal nonno.
Poi abbiamo già abbastanza problemi
con il nostro lavoro.» Non l’avessi
mai detto. Mi parla del suo spirito di
servizio, del suo senso della collettività. Mi dice che anche lui è oberato di
lavoro: «Hai visto le villette a schiera
gialle all’ingresso del paese? Le sto
costruendo io, è un mio investimento.» Certo, le ho viste. Giallo acido,
un colore che non si usa neppure nella
Svizzera interna. Una cosa pazzesca,
da far star male un daltonico. “Un mio
investimento”. Bravo. Peppe Merda
non soltanto è sindaco, ma è anche più
ricco del Gattopardo. Inizio a essere
visibilmente scocciato. Ho finito il
mio toast e bevo nervosamente il chinotto. Lui se ne accorge e mi domanda: «Ci vieni domenica prossima alla
sagra della polenta? Ti faccio stare al
mio tavolo.» Sono un provocatore, lo
ammetto, ma questo è troppo. Mi fa
stare al suo tavolo. Gli dico serissimo:
«No, vedi sono contro le salamelle e
le salsicce. Dovresti vietarle con
un’ordinanza comunale.» Mi fissa e
non sa se ridere o mandarmi a quel
paese. Io continuo imperterrito: «Vietate alla gente di scopare in spiaggia e non darebbero fastidio a nessuno
salvo al limite a me che abito sopra la
spiaggia e pago una salatissima tassa
di concessione - poi lasciate che la
gente mangi le salamelle e le salsicce
che fanno male alla salute. Si alza il
colesterolo, vengono gli infarti e alla
fine paga il servizio sanitario nazionale, cioè tutti noi. Poi lo sappiamo benissimo che alla sagra del paese la
gente va per ubriacarsi e poi guida
fino a casa: altro che dossi di rallentamento.» Mi fissano in cagnesco. Io
domando: «Tua sorella come sta?»
«Bene, il bar è suo e quella» la ragazzona «è sua figlia.» Pago, anche il
loro prosecco, noblesse oblige, e me
ne torno a casa. In un attimo sono spariti dal mondo il buon gusto e le libertà individuali. Case giallo acido e
niente più scopate sulla spiaggia. E a
casa mia non è meglio, anzi, quelle
sdraio e quelle piantine ornamentali…. Mi chiudo in camera a leggere: è
l’unico rifugio sicuro. I miei mille
anni di storia famigliare, le mie due
lauree, le mie quattro lingue, i miei
modi cortesi e cosmopoliti non servono a nulla se non a fare di me un diverso. Gli uomini detestano i diversi.
Cercano i loro simili. I diversi non
possono più emergere, occorre avere
pregi e difetti popolari. Homo homini
lupus ma non di lupi, di charognard si
tratta. Finalmente arrivano le otto. Ho
scoperto che il nuovo cancello è elettrico e ho trovato un telecomando.
Sono contento di non dover più scavalcare il parapetto e passare dalla
spiaggia ma con il vecchio cancello se
n’è andato un altro ricordo della mia
infanzia, quando insieme a mio fratello scendevamo dalla macchina di mio
padre o da quella del nonno guidata
dall’autista per aprire il grande cancello verde, che all’epoca non era ancora schermato e lasciava vedere ai
passanti il giardino fino al lago. Mi
viene in mente una giornata di agosto
di tanti anni prima - avrò avuto non
più di dieci anni - quando eravamo
tutti seduti a tavola in fondo al giardino, con la griglia accesa, e una famiglia tedesca era entrata convinta che
fosse un ristorante. Arrivo davanti al
cancello della villa di Carola e lei è
già in giardino che mi aspetta. Mi
spiega la strada e in un attimo siamo
arrivati. Il ristorante è nuovo, non l’ho
mai visto prima. È proprio sulla
spiaggia, sopra una grande pedana di
legno. Abituato agli orrendi ristoranti
con le sedie leggere di plastica bianca
e i menu in italiano e in tedesco che
deturpano la sponda lombarda del lago Maggiore, rimango stupito di trovare un posto di buon gusto. Riconosco il proprietario: è un mio coetaneo
nato e cresciuto a Luino e da adolescente o poco più vedevo nell’unica
discoteca, dove andavamo a ubriacarci e a conoscere le ragazze tedesche o
a volte olandesi che poi portavamo a
casa mia e, davanti alla piscina illuminata, si lasciavano baciare e, qualche volta, prendere sulle sdraio, sul
prato o sul vecchio Riva Florida nella
darsena. Ho conservato per anni le
cartoline che mi spedivano da Stoccarda, Monaco, Rotterdam e persino
Oslo dandomi appuntamento per
l’estate successiva. Una sola volta ne
ho rivista una: di solito dopo di me
uscivano con mio fratello, i miei cugini o mio zio, sì, con mio zio di
vent’anni più vecchio! Io le abbordavo e le portavo a casa, gli altri le portavano a letto. Il nonno aveva già previsto tutto: «Tu le porti qui e gli altri
ne approfittano, perché tu hai preso da
me, sei un romantico.» In realtà, io
godevo di una specie di ius primae
noctis.
Il ristorante è pieno di tedeschi, coppie in vacanza, gruppi di amici. Sulla
spiaggia vi è un’enorme catasta di
legna, per fare un falò alle undici. Una
volta il lago non era così, penso che è
migliorato e lo dico a Carola. Lei mi
risponde seria che è vero, per i tedeschi è migliorato, ma per noi no.
Le dico: «Forse hai ragione, noi eravamo più felici allora.» «Non so se è
una questione di felicità. Noi eravamo
a casa, nelle nostre ville, sicuri di essere destinati a una vita bellissima.
Poi non è stato sempre così, anzi direi
mai. Ma credo che sia così per tutti
quelli della nostra condizione sociale.
Io però ho le mie figlie e mia nipote.
Quest’autunno andrò ad abitare in
Danimarca - il compagno di mia figlia
è danese - ho comprato una casetta
vicino alla loro e andrò a fare la nonna.»
«E la suocera.» ho aggiunto io, prendendole la mano, senza pensarci. Poi
abbiamo cenato, bevuto una bottiglia
di Morellino di Scansano e guardato il
falò. Verso le undici e mezzo al bar
sono arrivate tre ragazze russe, una
più bella dell’altra, e io ho domandato
al proprietario dove le avesse trovate:
«A Lugano, è pieno di russe. Lavorano a Capo San Martino o al Corona.
Io le pago per venire una sera la settimana e quelli della nostra età corrono qui come scemi per vederle, quando con 100 Euro potrebbero andarci a
letto.»
Gli rispondo: «Ottimo marketing, tu
hai capito tutto.»
Mi racconta che passa l’inverno in
Brasile, che ha una barca con cui porta in gita i turisti. Non riuscirebbe più
a passare l’inverno qui al lago. Poi io
e Carola lo salutiamo e ce ne andiamo
a casa mia, mano nella mano. Attraversiamo il giardino e ci mettiamo
sopra due lettini, che ho appena unito,
accanto alla piscina. L’abbraccio,
mettendo la testa sul suo seno. Carola
mi accarezza i capelli e mi domanda:
«Davvero sei tanto triste?»
«Sì, sono disperato. Mia moglie non
mi ama più.»
La bacio e nel buio vedo che mi fissa
con un sorriso da Gioconda, senza
dire una parola. Poi saliamo in casa.
Vorrei portarla nel mio letto, ma è un
letto singolo e non ci sono le lenzuola.
Lei mi dice: «Stiamo fuori in terrazza,
è una serata splendida.»
E così la abbraccio da dietro, la stringo, la accarezzo e mi slaccio la cintura
dei pantaloni. Lei si gira e mi aiuta.
Poi come diciotto anni prima ci baciamo ancora, ci tocchiamo, ci stringiamo mezzi nudi e ci amiamo teneramente ma senza scopare.
Carola, amore di una vita, primo sogno erotico di un ragazzino solitario e
malinconico, ho pensato veramente
che abbracciarti mi avrebbe fatto bene. È stata una serata magnifica, abbiamo riso, abbiamo scherzato delle
nostre vite, ma poi tu hai pensato a
tuo marito e dai tuoi occhi è stato
chiaro che lui è stato il tuo unico amore. Io ho pensato a mia moglie, a mia
figlia, alla mia malattia e avevo voglia
di piangere più che di portarti a casa
dei miei. Ci siamo andati comunque,
certo, ma è stato un tuo atto di gene-
rosità, null’altro. Carola, sei sempre
bella e dolcissima e te ne sono grato.
Però il seno al silicone e la depilazione totale non si addicono a una nonna.
Carola, il pelo asciuga le lacrime. Perché ti sei depilata?
1.3
Politica versus fica
Sottofondo musicale: “Don’t look
back in anger”, Oasis
In seconda liceo classico ero stato eletto rappresentante d’istituto al Leone
XIII°, il collegio dei gesuiti della Milano bene. Prima di me, chi aveva ricoperto quella “prestigiosa” carica
aveva avanzato proposte ardite quali
fare un ritiro spirituale a Varese o una
gita scolastica a Firenze. Io no. Il mio
programma politico, il mio patto con i
leoniani, era composto da un solo
punto: scuola mista. I gesuiti ne erano
sconvolti. Ragazze al Leone XIII°?
Mai! In realtà, parlando con loro (sì,
sono un mediatore nato, da sempre a
favore del dialogo) capii che semplicemente si fottevano dalla paura di
affrontare l’altro sesso. Alla prima
riunione nell’aula magna - una cosa
maledettamente seria, almeno fino a
quella volta - dal centro del palco dei
relatori ho tenuto un discorso conciso,
elencando tutti i famosi ex alunni che
avevano dimostrato evidenti problemi
con l’altro sesso a causa di
un’educazione che li portava a vedere
nelle donne o il demonio o angeli
immacolati. Insomma, le donne andavano conosciute e riconosciute per
quello che erano veramente e tredici
anni di scuola soltanto maschile non
favorivano questa conoscenza. Applausi a scena aperta da parte dei miei
elettori. Poi una domanda da parte del
padre spirituale, un gesuita geniale,
direi quasi diabolico: «E cosa proponi
in concreto?»
«Di aprire l’istituto alle ragazze.»
«Non sarebbe utile iniziare gradatamente, con incontri bimestrali con
delegazioni delle Marcelline di Piazza
Tommaseo o delle Orsoline di Via
Lanzone?»
Maledizione, scacco matto. Da futuro
avvocato ho subito riconosciuto il
colpo vincente, il K.O.: una rivoluzione non si incomincia con incontri bi-