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Disponibile anche: - Libro: 13,50 euro - e-book su CD JukeBook in libreria: 8,99 euro (PDF) Il CD contiene in omaggio l’audiolibro “Lacrime di gioia” (narrativa) I CD JukeBook possono anche essere noleggiati in libreria per 90 centesimi http://www.jukebook.it CONTENUTI SPECIALI DI QUESTO E-BOOK: Lo “Spizz” Trent’anni Florio Panaiotti Narrativa Trovi le prime 73 pagine in fondo all’e-book “Trent’anni” è la storia di Andrea, un ragazzo alle prese con le difficoltà comuni alla sua generazione: il lavoro precario, una storia d’amore fallita, il rapporto con i genitori, le cattive amicizie. Un solo week-end, un lavoro quasi impossibile da portare a termine entro il lunedì successivo. Questa scadenza, legata a una serie di coincidenze, incontri, anniversari, e il compimento dei fatidici trent’anni, trasformeranno quel week-end in un’occasione per tirare le fila della propria vita. ALFREDO TOCCHI TRA UN ANNO SARÒ FELICE www.0111edizioni.com www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com TRA UN ANNO SARÒ FELICE Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2011 Alfredo Tocchi ISBN: 978-88-6578-090-9 In copertina: Immagine proposta dall’Autore Introduzione È la storia di un matrimonio che non resiste alla malattia e alla depressione. È storia di un principe che s’innamora di una puttana. È la storia della scomparsa della poesia dal mondo. È la storia dell’impossibilità di credere in qualsiasi cosa. È la storia dell’ineluttabile sconfitta dell’onestà e del buon gusto. È la storia dell’amore tra un padre e sua figlia. È la storia di una crisi di mezza età. È una storia d’amore e di sesso. È la storia di un naufrago alla deriva. L’ho composta con ciò che mi resta dopo il naufragio: ricordi, sms, mail, lettere, frammenti di dialoghi, oggetti, citazioni di libri e di film, canzoni. Ma è soprattutto una storia sul destino: il mio. PARTE PRIMA 1.1 E subito riprende il viaggio / come dopo un naufragio / un superstite lupo di mare (Giuseppe Ungaretti, “Allegria di Naufragi”). Sottofondo musicale: “The Carpet Crawlers”, Genesis Finirò male, perché sono un maudit. Ma in fondo, cosa significa? Qualcuno forse finisce bene? Sono sdraiato sopra un materasso dell’IKEA in questa casa che non è la mia: è una casa vuota, in vendita, prestata da un cliente. Me ne sono andato di casa e ho lasciato tutto a mia moglie - sono previdente, avevo poco già prima - eccetto i miei vestiti, la mia scrivania, 4 sedie superleggera di Gio Ponti, due ceramiche di Lucio Fontana e una tela bruciata di Luigi Sonzini. Mi restano anche un divano, una poltrona comoda per leggere, un ar- madio e una libreria che erano in un deposito e ho creduto che per sopravvivere non mi servisse altro. Se penso a mia figlia, mi viene il magone, ma non piango, non riesco a piangere. Cerco di leggere “Memorie di un Antisemita” di Gregor Von Rezzori, ma non ce la faccio a concentrarmi. Spengo la luce all’una, sapendo che sarà l’ennesima notte insonne. Ho provato tre diversi sonniferi, ma l’unico effetto è stato trovarmi la bocca impastata e cinquanta pulsazioni. Il cuore mi fa male, credo di sentire l’Amplatzer PFO Occluder che mi ci hanno impiantato. In meno di due anni ho perso tutto: salute, lavoro, soldi, famiglia, voglia di vivere. La mia vita è crollata come un castello di sabbia travolto da un’onda. Devo reagire, non so come ma devo reagire. La prima cosa è guarire, domani ho appuntamento all’Humanitas con il cardiologo. Il rumore del traffico di Viale Piceno è insopportabile. Milano è sempre rumorosa e queste case degli anni sessanta non hanno i doppi vetri. Mi ri- metto a leggere ma dopo due pagine spengo la luce. Penso a quanto fosse bello addormentarmi abbracciato a mia moglie e di certo, in questo momento, non è un pensiero allegro. Il materasso dell’IKEA è comodo, ma non ho né lenzuolo né coperta. Ho freddo: mi metto la camicia. Nudo per terra ma con una camicia di Turnbull & Asser. Sorrido, mi sono rimasti soltanto i vestiti. 12 invernali, 6 giacche di tweed, 6 estivi, 4 blazer, 72 camicie, 24 paia di scarpe, 6 cappotti, 3 impermeabili, un piumino di Eddie Bauer comprato a Toronto nel 1986… Ecco, pensare a un elenco, devo pensare a un elenco. Come se fosse un mantra, come se contassi le pecore. Forse così potrei addormentarmi. Vado avanti con l’elenco, penso a tutto, ma proprio tutto quello ho salvato dal mio naufragio, riempiendo in fretta le valige, come un ladro in casa propria. Non serve, di nuovo un pensiero negativo. Penso ai miei orologi, la mia passione, il mio hobby, portati in banca, in cassaforte. Ho un’idea migliore, metto il mio Patek Philippe Ref. 3998 in oro giallo sul cuscino accanto all’orecchio. Sto impazzendo, ecco sto impazzendo. Devo dormire, quasi quasi prendo una dose doppia di sonnifero. No, poi mi fa male e devo andare dal cardiologo. Me ne starò qui, senza muovermi, cercando di spegnere il cervello, di non pensare a niente. Se ci riuscissi, sarebbe un po’ come avere una seconda ischemia cerebrale, una delle cause della mia rovina. Sono onesto, una delle cause, non l’unica e forse neppure la più importante. L’ischemia, il coma, il risveglio in terapia intensiva senza più sapere parlare… Strano, è un pensiero dolcissimo: gli infermieri che mi gridano di non addormentarmi, che mi tengono la mano, che piangono insieme a me quando mi si raddrizzano gli occhi, storti dopo l’ischemia. Dormo, sì. Dormo. La mattina mi alzo e vado in studio. L’ultima mail inviata ieri è quella per mia moglie: “Mi verrebbe voglia di scriverti soltanto crepa, dopo che oltre a rimetterti su Facebook con una nuova fotografia ci hai anche scritto ancora prima che fosse vero che ci siamo separati. Ma del resto da te non mi aspettavo più niente di buono. Come ti ho già scritto, prima o poi ti accorgerai di quello che hai fatto, te ne pentirai e io sarò già a cento scopate (vere, non sulle chat) di distanza”. Nessuna risposta. Poi, dopo pranzo, ecco un messaggio: “Ti auguro di fartene mille di scopate per recuperare tutti i diciotto anni di odio che hai avuto per me. Perché mi hai solo odiato e basta, io non mi sono mai sentita amata veramente da te. Hai solo e sempre detto che ero una cretina, offendendo me e la mia famiglia, sempre e solo questo. Io sono sola con un padre morto e una bambina meravigliosa cui far sentire solo amore, tu mi hai lasciato nel momento più brutto della vita, così hai sfogato bene il tuo grande odio. Pensa che mi voglio scopare chiunque, pensa quello che cazzo vuoi, ma io sono sola e tu te ne sei andato. Facebook è solo uno sfogo cretino per dire quattro cazzate ed evadere da questa tortura”. Leggo il messaggio e mando l’avviso di lettura. Ho offeso lei e la sua famiglia? È vero l’esatto contrario, è lei che ha sempre disprezzato la mia! Dopo un attimo squilla il telefono. È lei, che mi aggredisce rinfacciandomi quello che le avrei fatto passare in diciassette anni di matrimonio. Ricorda quando dieci anni fa le avevo dato uno schiaffo - e la cosa non si era mai più ripetuta, perché mi ero giustamente sentito un verme - ricorda quando una volta avevo buttato a terra il piatto appena portato in tavola, come un pazzo - era da mesi che le dicevo che non volevo più mangiare in quei piatti, orrendo regalo di sua madre, quando avevamo altri tre servizi di piatti. Le attacco il telefono in faccia e subito le scrivo accecato dalla rabbia: “Tu mi chiami per rinfacciarmi quello che ti ho fatto dieci anni fa, ma non hai neppure il sospetto che se dieci anni fa ho perso la pazienza la colpa forse era tua. Tu sei così. Te l'ho già detto e scritto. Il tuo egoismo, la tua totale assenza di umanità, il tuo menefreghismo verso i bisogni di tuo mari- to sono cose che mi lasciano inorridito. Mai un accenno di autocritica, mai un barlume d’intelligenza, che ti consentirebbe di accorgerti quando la misura è colma e anche una persona paziente come me non ce la fa più a sopportarti. Spero che mia figlia cresca diversa da te e diversissima dalla tua famiglia. Sei un mostro e nonostante questo io per diciotto anni ti ho vissuto accanto e ti ho amato. Ora me ne vergogno. Vorrei veramente che tu morissi, perché il mondo sarebbe per gli umani un posto migliore senza di te, e senza quelli come tuo padre che prepotentemente fanno assessori i loro amici e nipoti, evadono il fisco, portano i soldi in Liechtenstein dai loro amati banchieri, trattano a calci in culo tutti coloro che non gli sono utili e strisciano con i potenti. Questa è la mia ultima mail. Addio. NON MI TELEFONARE MAI PIU', NON MI SCRIVERE MAI PIU'. Voglio soltanto lasciarti dietro le mie spalle prima possibile, come una merda che si vuole togliere da sotto le scarpe”. Mi vergogno della cattiveria di questo messaggio. Mi vergogno e ne soffro: non pensavo che un giorno sarei stato capace di scrivere una cosa simile. Mi vergogno anche del contenuto del primo messaggio: tradimento – gelosia – vendetta – allontanamento definitivo, ma è vero che, mentre io convalescente dopo l’operazione al cuore me ne stavo sdraiato sul divano, mia moglie chattava con i suoi vecchi amici palermitani. La tristezza di questa situazione è stata un’altra delle cause della mia rovina: io però stavo male mentre mia moglie no, perché la dipendenza da internet è un vizio, non una malattia. Ma non ne faccio una questione terminologica. Poi mi sarà venuta la depressione, sarà forse così. Di sicuro non mi ha dato una mano il cardiologo - eppure è il cardiologo dei VIP! - che a ogni nuovo appuntamento, per non dire la semplice verità e cioè che dopo l’intervento ero cardiopatico, preferiva dire a me - mia moglie presente - che ero soltanto depresso. I medici di oggi sono spesso così, perfezione tecnica senza alcuna intelligenza emotiva. Mia moglie mi accusava di essere depresso e chattava e usciva da sola con le amiche. Poi passava settimane via da casa con i fotografi per i suoi servizi. Io credo che si sia immaginata una vita diversa accanto a un fotografo. Magari non hanno scopato, questo non lo so, non posso dirlo. Però ha sognato un uomo diverso al posto di quello, malato o depresso, che si ritrovava in casa. L’illusione di un amore, di essere in due, finalmente in due, può sconvolgere le nostre vite ben più di una scopata. Del resto, io ero lì, sul divano, a leggere per ore e ore, in silenzio, malato (depresso?), emotivamente distrutto. Poi ha preso le parti di suo padre quando ingiustamente mi ha dato del mascalzone. E io me ne sono andato, per sempre. Rileggo la mail a mia moglie e mi viene in mente che se voglio andare a cento scopate di distanza devo darmi da fare. Bisogna cominciare con le cose facili, per non deprimersi. La riconquista è sempre più facile della nuova conquista, quindi bisogna chiamare una ex. Se è vero che la donna sceglie i partner annusandoli, di certo una ex mi avrà già a suo tempo annusato con soddisfazione e non mi respingerà, a meno che con l’età, la malattia o una dieta sbagliata io abbia cambiato del tutto odore. Vorrei incominciare con una riconquista famigliare. Prendo una vecchia fotografia di quando avevo circa sei anni che tengo nel cassetto della scrivania. Ci siamo io e le mie due cugine di terzo grado negli anni sessanta. Piove e siamo in tre sotto un solo ombrello che tengo io, al centro, anche se non sono il più grande. Indosso un cappotto blu, pantaloni di velluto beige e stivali di gomma. Carola, due anni più grande, è alla mia destra e Camilla, un anno più piccola, alla mia sinistra. Siamo davanti alla darsena nella villa al lago dei miei bisnonni. Carola è stata sempre il mio amore, il mio sogno proibito. Poi, l’anno del mio esame di maturità, si è innamorata di un mio compagno di scuola, hanno fatto l’amore, è rimasta incinta e si sono sposati. Ora, ventinove anni più tardi, ha due figlie grandi. Il marito l’ha lasciata circa diciotto anni fa per una poco più che ventenne e da allora non si è più fatto vedere, salvo alla separazione. Siamo usciti il San Valentino dello stesso anno – non ero ancora sposato - e ci siamo baciati, toccati, amati teneramente ma senza scopare. Poi ci siamo rivisti tante volte, mai più da soli e non ne abbiamo mai più parlato. Carola, sei tu la mia prescelta, ti ho sempre voluto bene. La chiamo. È una telefonata brevissima, mi dice che è al lago. Mi metto a lavorare, a scrivere un parere, partirò nel pomeriggio e in un’ora sarò da lei. L’ultimo tratto di strada è stretto e costeggia il lago. È una calda giornata di fine agosto e mi ricorda le estati di quando ero bambino. Arrivo all’imboccatura della via di casa: a sinistra vi sono i cancelli delle ville dei milanesi. Tutti i giardini arrivano fino alla spiaggia. Gli ultimi sei cancelli sono della mia famiglia. Suono il campanello e subito Carola mi apre e m’invita a entrare. Mi abbraccia. Noto il seno rifatto. Poi mi dice: «Vieni, ti faccio vedere la mia nipotina.» «Nipotina? Come, sei nonna?» «Sì, sono nonna, non lo sapevi?» Non so mai niente, in famiglia nessuno mi dice mai niente. «Com’è possibile? Nonna a cinquant’anni?» «Sì, amore, come sai ho iniziato presto.» Sorride ed è ancora bella. Le dico in fretta che mi sono separato. Mi risponde: «Non ci credo… Però hai resistito tanto con tua moglie.» «Sì, diciotto anni.» Le chiedo se vuole uscire con me a cena. Mi risponde: «Questa sera non posso, mia figlia e il suo compagno escono e devo curare la piccola.» L’idea di stare lì con lei e la bimba non mi sfiora nemmeno: non sono pronto per fare il nonno. La prego di uscire almeno domani e mi fissa di nuovo ridendo: «Sei un pazzo. Mi dispiace per il tuo matrimonio. Tua figlia dov’è?» Abbasso lo sguardo e rispondo che Celeste è a Panarea con sua madre. «Va bene, passa a prendermi alle otto. Prenoto io, ti faccio una sorpresa.» In diciassette anni di matrimonio sarò andato a dormire al lago, nella villa che oggi è penosamente divisa in cinque tra mia madre e i suoi fratelli, non più di dieci volte. La villa è stata costruita nei primi anni del novecento dalla famiglia di mio padre e quindi venduta negli anni settanta a quella di mia madre: le famiglie erano già imparentate e questo mi ha ispirato il motto: “La pigrizia nella ricerca del partner genera mostri”. Ci ho portato mia moglie la nostra prima estate insieme: era la fine di agosto e arrivavamo da Montecarlo. Al lago pioveva e faceva freddo. La sera tardi mia moglie mi domandò di accendere il riscaldamento. Ma il giardiniere era già a letto e io non ero capace di farlo. Passammo la notte sotto due coperte di lana, in agosto, e mia moglie da allora iniziò a odiare il lago. Poi ci tornammo ospiti di mia madre e allora iniziarono le liti tra lei e mia moglie. Diciassette anni di litigi e di dispetti e io mai una volta ho preso le parti di mia madre. Ora sono al lago e ho ancora un mazzo di chiavi in macchina. Provo ad aprire il cancello e non ci riesco: la serratura è stata cambiata. Scavalcare è troppo pericoloso, non lo sapevo fare neppure da ragazzo. Devo passare dalla spiaggia e scavalcare il cancello a fianco della darsena, proprio quello della fotografia. Sono le sette di sera e il cielo è coperto. In spiaggia non c’è nessuno. Scavalco facilmente e mi ricordo di una notte di trent’anni prima quando, ubriaco, avevo scavalcato il cancello completamente nudo, dopo avere gettato i vestiti al di là del parapetto e mi ero ritrovato faccia a faccia con la guardia notturna che mi puntava la pistola. Avevo appena fatto l’amore con una ragazza tedesca che poi avevo accompagnato - nudo - tenendola per mano fino al sentiero per il paese. Guardo il giardino - circa seimila mq. - verso la villa. Tutto è cambiato: al posto dei pini ci sono piante ornamentali. Troppi fiori, troppe sdraio intorno alla piscina: sembra, o forse è diventato, un giardino condominiale. Penso ai nonni: se fossero vivi, avrebbero sofferto come me per questo scempio. La mia famiglia discende da principi longobardi arrivati in Italia, prima dell’anno Mille, vicino a Siena, dove un castello diroccato reca ancora il nostro nome. Partiti in cerca di fortuna insieme agli Acciajuoli - poi principi di Atene - governarono le isole Ioniche fino al XV° secolo circa. Furono cacciati dopo essersi alleati con i musulmani stringendo un impium foedus (così venivano chiamati gli accordi tra cristiani e musulmani) e da allora vagarono come naufraghi. Il patrimonio è stato perso dal bisnonno - compagno di gioco di Re Faruk - morto suicida: io penso di avere toccato il fondo, lo spero per i miei avi e per mia figlia. Il nostro motto, sopra lo stemma con tre onde azzurre in campo argento - tre per Corfù, Cefalonia, e Zacinto - era si qua fata sinant, si compia il destino. Arrivo alla casa e qui, per fortuna, la serratura non è stata cambiata. Salgo le scale - a mia madre è toccato il ter- zo piano, quello dove un tempo dormivano gli ospiti - e apro la porta. Nulla è più com’era. Della prima ristrutturazione - ancora tollerabile degli anni settanta rimane ben poco. Mi prende una grande tristezza. Avrei preferito che mia madre vendesse la sua parte di casa, per ricordarla per sempre com’era una volta, quand’ero bambino, ancora fedele al progetto degli anni venti dell’architetto Mario Borgato: un cubo di mattoni con tre ampi terrazzi, uno per piano, gli enormi saloni e i mobili art deco, la sala da biliardo con gli specchi, le pipe del nonno allineate sul camino di marmo accanto al curapipe e agli scovolini colorati, il grande umidificatore con dentro i sigari per gli ospiti e i lunghi fiammiferi per accenderli. Il nonno, leggendaria figura di gentiluomo. Bello, colto e intelligente, scarpe su misura di D’Agata o Ronchi, abiti di Enrico Livio Colombo, camicie di Siniscalchi, cravatte di Truzzi, Patek Philippe da tasca Ref. 600 in oro rosa, Mercedes 280SE 3,5 guidata dall’autista. Ricordo persino il suo profumo, che metteva sempre sul fazzoletto bianco con l’orlo fatto a mano, prima di uscire da casa: Equipage di Hermès. Innamorato di Cap Ferrat come me - io ho avuto casa a Beaulieu, un po’ meno cara e nel garage ho lasciato a mia moglie, insieme alla casa, 50 mq. non molto, la mia vecchia BMW 320 Cabrio. (Un appello alle mogli: almeno i giocattoli andrebbero restituiti). Nonno, nessun patrimonio poteva resisterti, soprattutto con cinque figli, due cameriere fisse, una cuoca, un autista e un giardiniere. Hai fatto un ottimo matrimonio e hai vissuto da gran signore, testimone di nozze del più famoso figlio del più famoso petroliere italiano, tra feste memorabili e giocate al casino di Montecarlo e di Sanremo. Ma tutto questo non esiste più, è scomparso insieme a te. Mi è rimasto il Patek Philippe Ref. 600 in oro rosa, mia unica eredità - non per niente il motto della Patek Philippe è: “Le cose che si amano non si posseggono mai completamente. Semplicemente, si custodiscono e si tramanda- no” - ma ora è in banca perché non ho una cassaforte, e neppure una casa, dove riporlo. Ieri sera ho visto la Traviata al Conservatorio - il palco alla Scala è andato - non sum dignus - così come l’enorme appartamento nella villa MI SOL di Sanremo, venduto per mantenere la nonna - e mi sono ricordato di quando la ascoltavo da bambino insieme a te, che fino all’ultimo giorno della tua vita hai studiato musica, chitarra classica. Eppure al tuo funerale non ho pianto. Hai avuto un infarto il secondo, risolutivo - dopo una cena e una bevuta un po’ troppo abbondanti: i tuoi amici presenti raccontano che sei morto sorridendo. Ero il primo della lunghissima fila di persone che accompagnava la tua bara verso la tomba nel cimitero Monumentale, davanti a mio fratello, ai cugini e agli stendardi - sì, eri sindaco in carica alla tua morte, nonché presidente di un ospedale e di non so quante altre cose e dietro la tua bara sventolavano stendardi come si conviene a un tuo pari. Tenevo in mano una rosa, che ho get- tato nella fossa sopra la tua bara. Sono stato bravo, nonno, ero soltanto un ragazzino e sono stato all’altezza, non ho pianto, come non hai pianto tu quando tuo padre si è sparato e ti ha lasciato solo - dopo due mesi è morta anche tua madre di crepacuore - e povero. E da allora non ho pianto mai, salvo all’uscita dal Policlinico. Ora vorrei tanto piangere, nonno, piangere e addormentarmi. Entro in quella che una volta era la mia stanza e ci trovo i giochi delle mie nipoti. No, non posso dormire qui. Vado nella camera di mio fratello e controllo se il letto è fatto. Non lo è ma chi se ne importa, da giorni dormo sopra un materasso. Decido di dormire qui. Ma prima, ora che so dove dormire, riattraverso il giardino, scavalco di nuovo il cancello, percorro la spiaggia e dal sentiero che avevo percorso nudo trent’anni prima torno alla macchina per andare a mangiare, da solo, nella pizzeria di Luino dove andavo da ragazzino. I proprietari sono sempre gli stessi. Allora mi sembravano già vecchi ma, ora che li rivedo, capisco che erano giovani, molto più giovani di quanto sia io oggi. Strette di mano, saluti e sorrisi, poi mangio una pizza in fretta e me ne torno a casa. 1.2 Il pelo asciuga le lacrime (perché ti sei depilata?). Sottofondo musicale: “Ci sei sempre stata”, Ligabue Dopo un’ennesima notte insonne e una mattina trascorsa in parte a scrutare i cambiamenti in casa e in giardino e in parte a leggere “Memorie di un borghese” di Sàndor Màrai, vado a mangiare un toast nel vecchio bar del paese, gestito da una ragazzona sui venticinque anni che non conosco. Entro e un grassone calvo seduto al tavolo con altri due che bevono prosecco mi saluta: «Buon giorno avvocato.» Rispondo distrattamente: «Buon giorno.» In paese mi conoscono tutti, anche se non ci vado da anni. La mia famiglia ha dato tre sindaci, tra i quali mio nonno, rimasti in carica in totale per oltre trentacinque anni. «Non mi riconosce? Sono il geometra Rossi.» Certo, ora lo riconosco. È un mio coetaneo con cui qualche volta sono andato a pescare. Gli porgo la mano: «Scusami, Amatore, sono senza occhiali, come stai?» Si guarda intorno con aria compiaciuta e mi dice: «Sono il sindaco. Questo è il mio vice e lui è un assessore. Siediti con noi e, prima di tutto, condoglianze per la scomparsa di tuo suocero.» Strette di mano, mi siedo - anche se ne farei volentieri a meno - e ordino il mio toast e un chinotto. Mi domanda se ho visto la ronda sulla spiaggia. «No, sono appena arrivato». Mi racconta che vuole vietare con un’ordinanza comunale l’acceso alla spiaggia dopo le nove di sera, perché col buio i ragazzini ci vanno a scopare. Mi viene in mente di colpo che trent’anni prima sua sorella mi aveva fatto un pompino in macchina, sulla mia MG B. Non l’avevo scopata perché avrà avuto sì e no sedici anni. Aspetta da parte mia cenni di assenso che non arrivano. Va avanti a parlare, dice che vuole mettere un limite di venti km. orari e dossi di rallentamento in paese, così la gente in macchina passa piano (puntualizza: «Primo risultato») e si accorge di quanto sia bello («Secondo risultato»). Io penso: “Buona idea, se lo faranno tutti i paesi da qui all’autostrada per arrivare in macchina a Milano ci metteremo sei ore, come ai tempi delle carrozze”. Mi racconta che ha regalato al comune il progetto per una fontana con il sole delle Alpi da mettere nei giardini pubblici - pagati di tasca sua da mio nonno, altri tempi… Arriva il mio toast e io mangio in silenzio. Poi mi chiede perché né io né mio fratello abbiamo fatto politica: «Tuo suocero nel PdL era uno importante e poi siete tanto amici di Gabriele Albertini...» Rispondo, mentendo almeno riguardo a me: «Si vede che abbiamo preso dal papà, non dal nonno. Poi abbiamo già abbastanza problemi con il nostro lavoro.» Non l’avessi mai detto. Mi parla del suo spirito di servizio, del suo senso della collettività. Mi dice che anche lui è oberato di lavoro: «Hai visto le villette a schiera gialle all’ingresso del paese? Le sto costruendo io, è un mio investimento.» Certo, le ho viste. Giallo acido, un colore che non si usa neppure nella Svizzera interna. Una cosa pazzesca, da far star male un daltonico. “Un mio investimento”. Bravo. Peppe Merda non soltanto è sindaco, ma è anche più ricco del Gattopardo. Inizio a essere visibilmente scocciato. Ho finito il mio toast e bevo nervosamente il chinotto. Lui se ne accorge e mi domanda: «Ci vieni domenica prossima alla sagra della polenta? Ti faccio stare al mio tavolo.» Sono un provocatore, lo ammetto, ma questo è troppo. Mi fa stare al suo tavolo. Gli dico serissimo: «No, vedi sono contro le salamelle e le salsicce. Dovresti vietarle con un’ordinanza comunale.» Mi fissa e non sa se ridere o mandarmi a quel paese. Io continuo imperterrito: «Vietate alla gente di scopare in spiaggia e non darebbero fastidio a nessuno salvo al limite a me che abito sopra la spiaggia e pago una salatissima tassa di concessione - poi lasciate che la gente mangi le salamelle e le salsicce che fanno male alla salute. Si alza il colesterolo, vengono gli infarti e alla fine paga il servizio sanitario nazionale, cioè tutti noi. Poi lo sappiamo benissimo che alla sagra del paese la gente va per ubriacarsi e poi guida fino a casa: altro che dossi di rallentamento.» Mi fissano in cagnesco. Io domando: «Tua sorella come sta?» «Bene, il bar è suo e quella» la ragazzona «è sua figlia.» Pago, anche il loro prosecco, noblesse oblige, e me ne torno a casa. In un attimo sono spariti dal mondo il buon gusto e le libertà individuali. Case giallo acido e niente più scopate sulla spiaggia. E a casa mia non è meglio, anzi, quelle sdraio e quelle piantine ornamentali…. Mi chiudo in camera a leggere: è l’unico rifugio sicuro. I miei mille anni di storia famigliare, le mie due lauree, le mie quattro lingue, i miei modi cortesi e cosmopoliti non servono a nulla se non a fare di me un diverso. Gli uomini detestano i diversi. Cercano i loro simili. I diversi non possono più emergere, occorre avere pregi e difetti popolari. Homo homini lupus ma non di lupi, di charognard si tratta. Finalmente arrivano le otto. Ho scoperto che il nuovo cancello è elettrico e ho trovato un telecomando. Sono contento di non dover più scavalcare il parapetto e passare dalla spiaggia ma con il vecchio cancello se n’è andato un altro ricordo della mia infanzia, quando insieme a mio fratello scendevamo dalla macchina di mio padre o da quella del nonno guidata dall’autista per aprire il grande cancello verde, che all’epoca non era ancora schermato e lasciava vedere ai passanti il giardino fino al lago. Mi viene in mente una giornata di agosto di tanti anni prima - avrò avuto non più di dieci anni - quando eravamo tutti seduti a tavola in fondo al giardino, con la griglia accesa, e una famiglia tedesca era entrata convinta che fosse un ristorante. Arrivo davanti al cancello della villa di Carola e lei è già in giardino che mi aspetta. Mi spiega la strada e in un attimo siamo arrivati. Il ristorante è nuovo, non l’ho mai visto prima. È proprio sulla spiaggia, sopra una grande pedana di legno. Abituato agli orrendi ristoranti con le sedie leggere di plastica bianca e i menu in italiano e in tedesco che deturpano la sponda lombarda del lago Maggiore, rimango stupito di trovare un posto di buon gusto. Riconosco il proprietario: è un mio coetaneo nato e cresciuto a Luino e da adolescente o poco più vedevo nell’unica discoteca, dove andavamo a ubriacarci e a conoscere le ragazze tedesche o a volte olandesi che poi portavamo a casa mia e, davanti alla piscina illuminata, si lasciavano baciare e, qualche volta, prendere sulle sdraio, sul prato o sul vecchio Riva Florida nella darsena. Ho conservato per anni le cartoline che mi spedivano da Stoccarda, Monaco, Rotterdam e persino Oslo dandomi appuntamento per l’estate successiva. Una sola volta ne ho rivista una: di solito dopo di me uscivano con mio fratello, i miei cugini o mio zio, sì, con mio zio di vent’anni più vecchio! Io le abbordavo e le portavo a casa, gli altri le portavano a letto. Il nonno aveva già previsto tutto: «Tu le porti qui e gli altri ne approfittano, perché tu hai preso da me, sei un romantico.» In realtà, io godevo di una specie di ius primae noctis. Il ristorante è pieno di tedeschi, coppie in vacanza, gruppi di amici. Sulla spiaggia vi è un’enorme catasta di legna, per fare un falò alle undici. Una volta il lago non era così, penso che è migliorato e lo dico a Carola. Lei mi risponde seria che è vero, per i tedeschi è migliorato, ma per noi no. Le dico: «Forse hai ragione, noi eravamo più felici allora.» «Non so se è una questione di felicità. Noi eravamo a casa, nelle nostre ville, sicuri di essere destinati a una vita bellissima. Poi non è stato sempre così, anzi direi mai. Ma credo che sia così per tutti quelli della nostra condizione sociale. Io però ho le mie figlie e mia nipote. Quest’autunno andrò ad abitare in Danimarca - il compagno di mia figlia è danese - ho comprato una casetta vicino alla loro e andrò a fare la nonna.» «E la suocera.» ho aggiunto io, prendendole la mano, senza pensarci. Poi abbiamo cenato, bevuto una bottiglia di Morellino di Scansano e guardato il falò. Verso le undici e mezzo al bar sono arrivate tre ragazze russe, una più bella dell’altra, e io ho domandato al proprietario dove le avesse trovate: «A Lugano, è pieno di russe. Lavorano a Capo San Martino o al Corona. Io le pago per venire una sera la settimana e quelli della nostra età corrono qui come scemi per vederle, quando con 100 Euro potrebbero andarci a letto.» Gli rispondo: «Ottimo marketing, tu hai capito tutto.» Mi racconta che passa l’inverno in Brasile, che ha una barca con cui porta in gita i turisti. Non riuscirebbe più a passare l’inverno qui al lago. Poi io e Carola lo salutiamo e ce ne andiamo a casa mia, mano nella mano. Attraversiamo il giardino e ci mettiamo sopra due lettini, che ho appena unito, accanto alla piscina. L’abbraccio, mettendo la testa sul suo seno. Carola mi accarezza i capelli e mi domanda: «Davvero sei tanto triste?» «Sì, sono disperato. Mia moglie non mi ama più.» La bacio e nel buio vedo che mi fissa con un sorriso da Gioconda, senza dire una parola. Poi saliamo in casa. Vorrei portarla nel mio letto, ma è un letto singolo e non ci sono le lenzuola. Lei mi dice: «Stiamo fuori in terrazza, è una serata splendida.» E così la abbraccio da dietro, la stringo, la accarezzo e mi slaccio la cintura dei pantaloni. Lei si gira e mi aiuta. Poi come diciotto anni prima ci baciamo ancora, ci tocchiamo, ci stringiamo mezzi nudi e ci amiamo teneramente ma senza scopare. Carola, amore di una vita, primo sogno erotico di un ragazzino solitario e malinconico, ho pensato veramente che abbracciarti mi avrebbe fatto bene. È stata una serata magnifica, abbiamo riso, abbiamo scherzato delle nostre vite, ma poi tu hai pensato a tuo marito e dai tuoi occhi è stato chiaro che lui è stato il tuo unico amore. Io ho pensato a mia moglie, a mia figlia, alla mia malattia e avevo voglia di piangere più che di portarti a casa dei miei. Ci siamo andati comunque, certo, ma è stato un tuo atto di gene- rosità, null’altro. Carola, sei sempre bella e dolcissima e te ne sono grato. Però il seno al silicone e la depilazione totale non si addicono a una nonna. Carola, il pelo asciuga le lacrime. Perché ti sei depilata? 1.3 Politica versus fica Sottofondo musicale: “Don’t look back in anger”, Oasis In seconda liceo classico ero stato eletto rappresentante d’istituto al Leone XIII°, il collegio dei gesuiti della Milano bene. Prima di me, chi aveva ricoperto quella “prestigiosa” carica aveva avanzato proposte ardite quali fare un ritiro spirituale a Varese o una gita scolastica a Firenze. Io no. Il mio programma politico, il mio patto con i leoniani, era composto da un solo punto: scuola mista. I gesuiti ne erano sconvolti. Ragazze al Leone XIII°? Mai! In realtà, parlando con loro (sì, sono un mediatore nato, da sempre a favore del dialogo) capii che semplicemente si fottevano dalla paura di affrontare l’altro sesso. Alla prima riunione nell’aula magna - una cosa maledettamente seria, almeno fino a quella volta - dal centro del palco dei relatori ho tenuto un discorso conciso, elencando tutti i famosi ex alunni che avevano dimostrato evidenti problemi con l’altro sesso a causa di un’educazione che li portava a vedere nelle donne o il demonio o angeli immacolati. Insomma, le donne andavano conosciute e riconosciute per quello che erano veramente e tredici anni di scuola soltanto maschile non favorivano questa conoscenza. Applausi a scena aperta da parte dei miei elettori. Poi una domanda da parte del padre spirituale, un gesuita geniale, direi quasi diabolico: «E cosa proponi in concreto?» «Di aprire l’istituto alle ragazze.» «Non sarebbe utile iniziare gradatamente, con incontri bimestrali con delegazioni delle Marcelline di Piazza Tommaseo o delle Orsoline di Via Lanzone?» Maledizione, scacco matto. Da futuro avvocato ho subito riconosciuto il colpo vincente, il K.O.: una rivoluzione non si incomincia con incontri bi-