L`UNIVERSO ACCANTO Ah, quel tempo della giovinezza di Leda

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L`UNIVERSO ACCANTO Ah, quel tempo della giovinezza di Leda
L’UNIVERSO ACCANTO
Ah, quel tempo della giovinezza di Leda Swan in cui la vita si stendeva davanti ai suoi scintillanti
occhi bruni come un enorme campo di papaveri inesplorato e il vastissimo e insondabile insieme
delle infinite possibilità stava ben stretto tra le sue piccole dita bianche! Che speranze, che sogni,
che tragiche esplosioni di eventi e sussulti popolavano allora la sua esistenza!
Non è tuttavia questa la pur gloriosa storia che narrerò in queste pagine, nonostante tale scelta
sorprenda oltre ogni dire la signora Swan, l’opinione pubblica e non da ultimo lo scrivente stesso –
vale a dire, me medesimo, Edmund Alaine, scrittautore pluripremiato come mio padre prima di me
e suo padre prima di lui.
Sono stupito non meno del resto del mondo per il modo in cui mi rapportai alla signora Swan nel
corso della nostra collaborazione, dal primo giorno che entrai nella sua labirintica casa sul tetto del
mondo fino al giovedì sera in cui una sequenza di note antiche e chiare a lungo tempo dimenticate
mi condusse alla fine di quella storia.
La prima volta che la vidi era immersa nella poltrona di mussola al centro della suo salotto bianco,
in tinta con la pesante chioma che le troneggiava sul capo. Se ne stava avvolta in una nivea
vestaglia con gli occhi socchiusi; la pelle cascante del viso che riposava sulle sue guance.
La camera era inondata di luce e la musica che sentii entrando era sfuggente, furba e vivace.
“Non va, non va” borbottò lei a labbra socchiuse “Si merita più tragicità, la mia storia!”
Io fui colpito in quel preciso istante dalla perfezione monocromatica di quel luogo di cui non
scorgevo le pareti, perse com’erano in un chiarore diffuso. Morbidi divani chiacchierini stavano
posati in ogni angolo, il profumo dei fiori sui tavolini da caffè invitava ad un festoso e sibillino
abbandono e io, unica macchia di colore nella candida atmosfera, sentivo una musica ironica e
imprevedibile al posto della lieve eppur solenne marcia che avrei dovuto percepire al cospetto di
quella figura decrepita.
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“Ai miei tempi, le colonne sonore della vita uno doveva immaginarsele. Poteva scegliersele come
voleva” continuò la vecchia. La sua voce proveniva da un punto profondo e immutabile al centro di
tutto quel bianco.
Fu in quell’istante che, obbedendo ad un impulso che non saprei tuttora spiegarmi, decisi che non
avrei scritto la storia che mi aveva condotto in quel luogo.
Va detto che scrivere storie non mi ha mai procurato un particolare piacere: quello dello scrittautore
è un mestiere come un altro; ci si registra al Ministero per la Pubblica Immaginazione, si
combinano quattro o cinque elementi interessanti insieme e si costruisce lo spunto di un romanzetto
che darà sollievo alle casalinghe tra una faccenda e l’altra e consolerà i romantici più ingenui della
prosaicità di un’epoca in cui tutto è possibile.
Non avrei preferito avere quest’impiego piuttosto che un altro, ma era la scelta più ovvia e facile:
mio padre era uno scrittautore e ciò gli era fruttato donne, fama e denaro; suo padre prima di lui era
stato uno scrittautore e aveva avuto una sorte non meno florida. A che pro imbarcarsi in un’impresa
difficile e diversa?
L’unica volta che la mia decisione vacillò avevo diciassette anni e avevo appena letto uno dei libri
dei tempi di prima, i tempi di Leda Swan, quelli in cui la gente non ascoltava la colonna sonora
della propria vita, non poteva scegliere il destino prediletto tra i molti possibili ed era priva di mille
altre piccole comodità che rendono la vita di oggi tanto preferibile. Il libro in questione era Dalla
parte di Swann di Marcel Proust – in seguito ho pensato che fosse proprio l’assonanza tra il titolo
del libro e il nome di Leda Swan a risvegliare in me le sensazioni di allora in quel momento
cruciale.
Ricordo lo stupore davanti ad un mondo in cui per rivivere i propri ricordi era necessario mangiare
dei dolcetti e non bastava cavarsi di tasca l’iRec e selezionare sul menu l’istante prescelto.
Ricordo la meraviglia di fronte al calmo e burrascoso tessuto delle parole, che avevano il compito di
costruire ciò che le immagini non potevano rappresentare e vi riuscivano così bene da darmi
l’impressione di una magia.
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Ricordo l’incomprensione davanti ai rimorsi, ai dolori, alla sofferenza – parole mere e schive di cui
non capivo il senso profondo.
A cosa serve diventare uno scrittautore, mi chiedevo, se non potrò comunque mai scrivere niente di
simile? A cosa serve vivere una vita liscia e levigata, se non potrò mai provare emozioni così
travolgenti?
Mio padre mi salvò dalla crisi esistenziale una sera di agosto: ero in lacrime sulla veranda; le dita
serrate sul dorso del libro che avevo appena finito di rileggere, e singhiozzavo piano perché nessuno
in casa mi sentisse. Non funzionò. Qualche volta mi sono chiesto come sarebbe stata la mia vita se
fossi riuscito a soffocare i singulti – un gesto così insignificante che neanche il mio iRec può
illuminarmi a riguardo.
“Non c’è alcun bisogno di piangere” mi rivelò invece mio padre, con l’asciutta calma di chi sa di
dire una necessaria ovvietà. E poi mi introdusse al mondo della logica pragmatica e stringente; mi
spiegò che è necessario accantonare i rimpianti, le emozioni e le grandi idee per cui si muore se si
vuole allontanare anche la sofferenza; e che perché questo accada è meglio evitare i grandi romanzi
del mondo di ieri: spalancano il cuore, disse, e per il bene del progresso è bene che il cuore stia ben
chiuso.
Capii. Capii che ad un certo punto della nostra epoca era stato compiuto un passo da cui era
impossibile tornare indietro; e che il modo migliore per vivere la mia vita al meglio era adeguarmi
alle circostanze: non sarei mai divenuto uno scrittore vero come Proust, ma uno scrittautore sì.
Tuttavia gli echi di quell’oscillazione tra il mondo dei folli e quello dei savi non mi abbandonarono
più, tant’è che quando la fama mi permise di scegliere tra tutti quelli possibili il tema della mia
opera successiva la mia decisione cadde proprio su Leda Swan, la pluricentenaria, la donna che era
vissuta nel mondo di prima e sembrava non riuscisse a passare in quello di dopo; il relitto umano
che portava la storia della sua vita gelosamente nascosta tra le rughe e aveva improvvisamente
deciso di rivelarla a chi avesse voluto scriverla.
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Volevo che mi raccontasse il momento del passaggio, quello in cui il potere aveva preso il
sopravvento sul volere. Volevo l’essenza dei suoi ricordi di gioventù, volevo ascoltare quel
racconto perduto e irrecuperabile che nessun iRec avrebbe potuto mostrarmi – ma quando entrai in
quel luogo, tutto d’improvviso, un’altra domanda affiorò alla mia mente.
“Signora Swan, che ne sarà di tutti noi?”
Le sopracciglia bianche di Leda Swan si avvicinarono, e lei raddrizzò con uno scricchiolio la
vecchia schiena.
“Quel che vogliamo che ne sia, signore. Che domande.”
“Ho l’impressione, signora Swan, che se lei volesse potrebbe darci indicazioni molto più precise di
così”
Non sapevo da dove le parole sgorgassero, eppure le lasciavo fare, seduto con la disinvoltura che
avevo imparato in diversi show televisivi su un divanetto bianco.
“Ma insomma, che vuole” il catorcio bianco s’accigliò “Ho acconsentito a parlare con lei perché
credevo che mi avrebbe permesso di ricordare. Cosa vuole che me ne importi del futuro? Quello
ormai è perduto per sempre.”
Quella teoria bislacca mi fece accelerare il battito cardiaco – così, di botto. Un’emozione che non
provavo da almeno venti, trent’anni. Da quella volta che avevo dimenticato l’iRec a casa e, senza
poter controllare le conseguenze di quel gesto, avevo chiesto a Milla Vanity di uscire con me e lei,
al di là di ogni ragionevole previsione, aveva acconsentito.
“Il passato le sembra dunque più accessibile del futuro?” chiesi allibito.
“Il mio passato è ciò che mi resta ancora da vivere” sentenziò lei.
L’odore dei bianchi fiori d’arancio impregnò più forte l’aria e le nostre pelli. La musica aleggiava
scherzosa, vivace, incurante del mio turbamento e della solennità della signora.
“Non mi interessa” insistetti “Voglio sapere di quel che ancora non ha fatto. Tutto il resto non è
importante”
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“Quel che ancora non ho fatto?” voce tonante, bianco scurito, Leda Swan si alzò dalla sua poltrona:
una bianca sagoma eretta la cui pelle si allisciava a vista d’occhio, affondava nelle guance a dare
loro una rosea profondità e tirava su un paio di zigomi affilati. La crocchia bianca dei vecchi capelli
stanchi si srotolò sulle sue spalle e si ammantò di bruno in un’onda lucente – ed ecco che di fronte a
me si ergeva non più una vecchina sconfitta, ma una giovane altera.
Chiusi gli occhi. Quando li riaprii, eravamo in una stazione ferroviaria – una di quelle di una volta,
in cui i treni arrivavano solo ad orari prestabiliti, con le panchine piene di graffiti su cui riposavano
i barboni e le sale d’aspetto di solito gremite e chiassose: in questo caso, invece, davanti a quei
binari vuoti e arrostiti da un sole cocente c’eravamo solo io e lei.
“Ecco cosa ancora non ho fatto” sussurrò la giovane Leda Swan, con un’innocente voce argentina.
“Si sieda là e sia educato. Si trova nella mia testa, dopo tutto” mi ingiunse.
Io presi posto sulla panchina che lei mi aveva indicato e respirai con forza un’aria silente e trepida
d’attesa, in cui tutto era possibile e niente lo era ormai più.
Lei, in piedi, mi dava le spalle, una lieve brezza gonfiava la bianca camicia da notte che le copriva
ancora il corpo fiero e le smuoveva i lunghi capelli bruni.
Mi sporsi per guardare il punto che stava fissando lei: non eravamo soli.
Sulla panchina accanto a quella su cui mi ero seduto due ragazzi evitavano di guardarsi negli occhi.
Lui si tormentava la barba scura con le lunghe dita, e con l’altra mano picchiettava il dorso di una
grande valigia blu. Scrutava un punto imprecisato nella nostra direzione, ma non dava segni di
vedere altro che il cielo azzurro alle nostre spalle.
Lei stringeva forte le dita dalle nocche bianche sull’orlo di una gonna a quadri: stava china sulle
ginocchia, e una coltre di capelli scuri le nascondeva il viso.
Il quadro restò immutato per poco. Una voce aveva annunciato un treno in arrivo – l’ineluttabile,
prevedibile destino della coppia sulla panchina strinse anche il mio cuore. Che disagio, dover
sacrificare i propri desideri per un treno che sta arrivando. Che onta per l’umana intelligenza.
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La fine dell’annuncio fu accompagnata da un fischio – la sagoma scura del treno si stagliava
all’orizzonte. Svelto trionfo della tecnica antica, cavalcava sulle rotaie schiacciando raziocinio e
libero arbitrio sotto la sua massa roboante. Le spalle della ragazza ebbero un sussulto e lei alzò di
scatto la testa.
Il suo piccolo volto rigato di lacrime era identico a quello della giovane Leda Swan, come avevo
intuito.
Il ragazzo la sbirciò con la coda dell’occhio, le labbra piegate all’ingiù. Allungò una mano dalla sua
barba alla gonna di lei, tentando di allentare la tensione di quelle piccole dita sul tessuto. Lei
schiuse le labbra mentre le porte del treno si aprivano.
“Leda, devo andare” sussurrò piano il ragazzo. Nessuno scendeva dal treno, nessuno saliva: le porte
aperte sembravano aspettare soltanto lui.
Si protese verso la ragazza, il suo naso sfiorò la guancia di lei. “Non mi saluti?”
Leda Swan sobbalzò a quel contatto e si spostò all’estremo della panchina. Solo quando fu ben
lontana da lui si voltò a guardarlo.
“Come posso salutarti?” sbottò, voce rotta, spalle tremanti. Poi srotolò un braccio pallido verso le
porte aperte del treno. “Sbrigati, o riparte.”
Il ragazzo obbedì. In una sequenza di gesti semplici e strazianti si alzò, caricò la sua valigia sul
treno e sparì, inghiottito al suo interno, senza un ultimo sguardo alla ragazza sulla panchina.
Mi singhiozzava il cuore. Oh, non sarei sopravvissuto un’ora in un mondo dove disastri
sentimentali del genere fossero all’ordine del giorno!
La bianca Leda Swan di fronte a me fluttuò fino alle porte del treno e, prima che si chiudessero, si
infilò a sua volta nel mostro di metallo ruggente.
La Leda Swan sulla panchina guardò le porte serrarsi con gli occhi sgranati. Sembrava che, al di là
di ogni altra emozione, non riuscisse a capacitarsi di quel che era appena successo.
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Ripensai a quel bizzarro viaggio mentale a più riprese, quella sera, mentre fluttuavo per le vie
illuminate della Metropoli, e ancora, molte volte, mentre rivivevo il momento sul mio iRec.
Capivo quel che Leda Swan voleva che raccontassi: la tragicità di quel momento, la sua
ineluttabilità. Voleva che fornissi una colonna sonora alle parti della sua vita che ne erano prive;
anzi, voleva che il mondo intero, tramite la mia prosa, conoscesse il terrore di una vita senza iRec,
compiangesse le sue vicende e ammirasse la sua forza statuaria.
Mi sarei prestato a questo? Sarebbe stato il gesto più logico da compiere; d’altra parte, era più o
meno ciò che mi aspettavo da lei. Eppure c’era una voce – era forse quella di Marcel Proust? O del
ragazzo che era salito in treno? O la mia, seppellita da trent’anni in fondo al cuore e riemersa nel
tepore di quella stanza bianca? – una voce che mi diceva che era tutt’altra la storia giusta da
raccontare.
Che tipo di storia fosse, però, questo non lo sapevo ancora.
Posi il problema al mio iRec, il quale trovò subito lo sbocco del percorso di vita in cui io
assecondavo le velleità di Leda Swan e scrivevo la sua storia sotto forma di sentimentale
melodramma fatto e finito: il successo, una casa più grande, nuovi entusiasmanti progetti e scelte da
prendere. Quando provai a digitare l’altra opzione, invece, quella che non sapevo esprimere bene
neanche a parola, l’infallibile strumento elettronico che regola le nostre vite mi sorprese.
Sul display campeggiava a grandi caratteri blu una scritta mai letta in precedenza: RISULTATO
SCONOSCIUTO.
La mattina dopo, mentre facevo colazione, mi sintonizzai sulle news. Lo scienziologo Alastor
Shandy aveva rilasciato la sua prima intervista ufficiale dopo decenni. Un catorcio d’uomo
ultracentenario, portava avanti con convinzione una ricerca sugli universi paralleli.
“Ci sono solo due aspetti dell’universo che ancora sfuggono alla scienza” gracchiava nel microfono
lo scienziologo “La possibilità di tornare indietro nel tempo e l’esistenza di altri mondi. Trovo che
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sia saggio lasciare il tempo che è stato così com’è, dunque finché avrò un alito di vita mi dedicherò
anima e corpo agli universi paralleli. E, chissà, potrei essere ad un buon punto.”
Era davvero saggio lasciare il tempo passato a se stesso? Più tardi, quella mattina, posi questa
domanda a Leda Swan, che ero tornato a trovare. Le dissi che lo aveva detto uno scienziologo in
un’intervista.
“Non possiedo un iRec proprio per non dover ascoltare simili scemenze”, mi rispose. “D’altra parte,
a che dovrebbe servirmi? Tutto ciò che doveva essere della mia vita non è stato. Ora attendo solo di
poter morire.”
“Ma non ci riesce” constatai. La longevità di Leda Swan era proverbiale. “Non crede che sia perché
c’è ancora qualcosa da compiere, per lei, in questo luogo?”
“No, signor Alaine. È solo perché la medicina ha fatto troppi progressi.”
Rinunciai ad approfondire l’argomento, per quel giorno. D’altra parte, avevo ancora davanti agli
occhi la figura snella della giovane Leda Swan che spariva su un treno verso l’infinito, e chiarire
quell’episodio mi interessava molto di più.
“Com’è riuscita a portarmi dentro la sua mente, ieri?” le chiesi.
“Si stupisce ancora che qualcosa sia possibile al giorno d’oggi, signor Alaine?”
Mi accigliai. “Mi chiami pure Edmund, signora Swan. Mi permetto di farle notare che, per quanto
scienza e medicina abbiano compiuto notevoli balzi in avanti negli ultimi anni, non mi era ancora
mai capitato di esplorare la mente di un’altra persona.”
Leda Swan restò in silenzio, con le palpebre socchiuse sugli occhi bruni. Temetti che si fosse
addormentata.
“Diciamo pure che ho una portentosa forza di volontà” disse poi “Di rado qualcosa che desidero
non si avvera.”
La mia voce nascosta fu più svelta del mio raziocinio nel rispondere.
“Eppure, lei non è riuscita ad impedire che quel ragazzo partisse.”
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La vecchia arricciò le labbra – una impercettibile smorfia di dolore. Provai compassione – di nuovo
il sussulto al cuore del giorno prima.
“Non sapevo ancora di cosa ero capace, allora. Lui era bravo in tutto e, quanto a me, l’unica cosa
che sapevo fare era desiderare con tutte le mie forze eventi improbabili. Non avevo capito quanto
questa abilità fosse utile.”
Assimilai lentamente le sue parole e le sue paure. Poi capii una cosa, e gliela dissi.
“Lei desidera essere viva, vero signora Swan? È per questo che non riesce a morire. Non ha nulla a
che fare con i progressi della medicina.”
Abbassò le palpebre e, per quel giorno, non udii più la sua voce profonda.
Andai a trovare ogni giorno la signora Swan. Il grande pubblico aspettava fremente la mia opera sui
dolori perduti dell’epoca senza iRec e io non ne avevo scritto neanche un paragrafo.
Sentivo che dovevo attendere qualcosa, un evento vicino che avrebbe chiarito tutto: c’era quella
frase sul display del mio iRec, quell’irresistibile RISULTATO SCONOSCIUTO, che mi spingeva
all’avventura. Vediamo un po’ come finirà, mi dicevo.
Capitò qualche altra volta che Leda Swan mi portasse nella sua testa. Vidi così il suo primo incontro
con il ragazzo del treno: lui l’aveva trovata sotto la pioggia in un parco giochi in una sera di
novembre, e lei gli aveva annunciato tragicamente di aver appena perso l’amore della sua vita.
Mi permisi di ridere davanti a quel quadretto e Leda Swan ne fu mortalmente offesa.
“Non la farò più entrare nella mia testa. Non si permetta!” mi apostrofò stizzita quando fummo di
nuovo nella stanza bianca.
“Ma via, non esageri” la blandii soffocando gli ultimi risolini “Ma chi era quella volta l’amore della
sua vita?” m’informai. Non riuscivo a concepire la sua teatralità; così come non capivo come ci si
potesse affezionare a tante persone diverse senza un iRec che indichi a colpo sicuro qual è la più
adatta.
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“Un tipo.” rispose riluttante, con un’improvvisa aria da ragazzina civettuola. “Quando si hanno
tredici anni e nessun iRec si tende a fare degli errori di valutazione, sa”
“Non posso immaginarlo” mi giustificai. “E non capisco come… mi perdoni, ma non capisco
quanto forte lei sia riuscita a sentire le cose, quanto la abbiano toccata. Non mi entra in testa, non lo
concepisco.”
Stavolta le grinze di Leda Swan si distesero in un sorriso.
“La capisco bene, mi creda. Un iRec potrà pure indicarle chi è la persona che la farà soffrire di
meno, quella che le darà più stabilità e con cui vivrà una vita più serena, ma non può dirle chi la
renderà felice, non può dirle chi amare. Ragion per cui questo sentimento è sempre più raro,
presumo.”
“Me lo mostri” bisbigliai ammaliato.
Lo fece nei giorni seguenti. Assistetti al suo destino che si amalgamava a quello del ragazzo dai
capelli scuri come avrei assistito ad un vecchio film, e con la stessa passione che mi aveva guidato
nel seguire gli amori tra Charles Swann e Odette de Crecy.
Li vidi parlare a notte fonda sotto una coperta, fitto fitto, di cose che conoscevano solo loro due. Li
vidi scambiarsi occhiate complici da un capo all’altra di stanze gremite di gente, li vidi soffocare
risate tra le pagine di un libro.
La ragazza aveva un modo preciso e aggraziato di raggiungere l’essenza delle cose, ed era ben
chiaro che sarebbe stata la creatura più adorabile del mondo finché questo avesse assecondato i suoi
desideri.
Il ragazzo era più impacciato, ma allo stesso tempo aveva il genio che a lei mancava. Tentava di
smussare gli spigoli di lei e sembrava impegnato in una costante preghiera al mondo: per favore, fa’
come dice lei.
Il mondo li accontentò a lungo – poi, giunse l’inevitabile momento in cui il genio del ragazzo lo
chiamò in un posto dove lei non poteva raggiungerlo.
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Alla fine della storia, rivissi la scena sulla panchina con tutt’un altro spirito. Avevo le guance rigate
di lacrime non meno di Leda Swan davanti al treno che partiva.
“E lei, signora Swan” la apostrofai tra i singhiozzi, una volta tornati nella stanza bianca “E lei lo ha
lasciato partire senza neanche un bacio? Ed è finita così?”
“Sì, Edmund” replicò lei con freddezza “La sfido a suggerirmi che altro avrei potuto fare.”
Dopo quella volta rimuginai sull’idea di non tornare a far visita alla signora Swan. Ripensavo con al
gelo di quell’ultimo istante; cercavo di dirmi che era stato solo simulato per nascondere l’emozione.
Mi sentivo tradito: quella donna aveva risvegliato qualcosa di morbido e delicato al centro del mio
essere per poi all’improvviso mandarlo in frantumi con un gesto troppo brusco.
Entro il mattino dopo, però, tale proposito era accantonato: ormai il mondo si aspettava qualcosa da
me, e dovevo fornirglielo. Pensai a lungo alle parole che le avrei detto; alle dure accuse che le avrei
rivolto.
Quando le fui di fronte, però, non ebbi il coraggio di procedere. Mi sembrava ancor più fragile del
solito, un mucchietto di ossa che lottava per non essere sommerso dall’uniformità del bianco.
“Che le è successo dopo quel giorno?” le chiesi, con un tono di voce da cui non riuscii ad escludere
la dolcezza.
“Non lo so” mormorò lei “Il tempo ha iniziato a passare troppo in fretta. Io desideravo rivederlo, e
lo rividi. In televisione. Molte volte. Poi desiderai non rivederlo mai più, e quindi smisi di guardare
la televisione. Non volevo neanche, però, morire senza averlo rivisto, e dunque non sono ancora
morta. In compenso, ho visto passare i secoli. Ho assistito al giorno di gloria in cui il primo iRec
veniva brevettato e le variabili smettevano di essere possibilità per diventare fatti. La tua vita è
quella che vuoi tu, era questo il motto, giusto? Beh, la mia non lo era, né poteva ormai diventarlo.
Per questo non ne volli uno. Tuttora, sa, nutro sentimenti ambivalenti verso quello strumento.
Vorrei averne avuto uno al momento giusto o che non fossero affatto stati inventati. Allo stesso
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tempo, io ho provato qualcosa che nessuno di voi potrà mai provare e mi sono persa tra un secolo e
l’altro banali sensazioni che voialtri provate tutti: la gioia di avere un figlio, per esempio.”
“Non ha mai pensato di chiamarlo? Di cercarlo?” le chiesi.
“Cercarlo! Edmund, Edmund, perché non capisce la tragicità della mia situazione? Io aborro la
semplicità! Aborro le soluzioni a portata di mano, aborro la vostra vita lineare e rosea, i vostri
sorrisi finti e le vostre giornate tutte uguali! Aborro la vostra felicità che bisogna perseguire costi
quel che costi! Io voglio tutto, e subito, e voglio che sia come l’ho immaginato la prima volta o non
averlo affatto. Voglio vedere fin dove mi può spingere il solo desiderio, quali miracoli può
compiere la sola forza di volontà, mentre io sto seduta qui a marcire. Volere è l’unica cosa che so
far bene, Edmund, non mi privi di questa prerogativa.”
Scattai in piedi. Anche lei si era alzata, e durante la sua fiera tirata si era trasformata ancora una
volta nella splendida ragazza dai lunghi capelli lucenti che seguivo nei suoi ricordi. Appena finì di
parlare, tuttavia, si rattrappì di nuovo.
Allungai un braccio e strinsi una piccola mano grinzosa nella mia, forte e sicura. Era la prima volta
che avevamo un contatto fisico: era fredda.
“La prego, signora Swan. Mi segua fuori di qui. Guardi il mondo di fuori: le luci, la gente che si
muove, ognuno con la sua bieca e triste storia al seguito. Lei non vuole morire qua dentro, signora
Swan. Lei desidera essere viva.”
“Lei è pazzo” replicò la vecchina, ma non si sottrasse alla mia presa.
“Sento che da questa sua scelta dipenderà tutto il suo destino, signora Swan” le dissi con premura
“Si fidi di me.”
“Sciocco ragazzo” si rabbuiò “Che destino posso aver ancora da vivere, con tutti i secoli che mi
pesano
addosso?
Tutto
ciò
che
doveva
accadere
non
è
accaduto.”
“Non ancora” insistetti “La sua vita sarà stata una sciocca e grottesca epopea priva di senso, se lei
non esce di casa in questo momento. La prego. Non faccia di nuovo la scelta sbagliata. Lei è un
cigno, una creatura fulgida e capace di volare. Non si lasci sbriciolare.”
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Leda Swan sussultò. Sentii il suo spirito di ragazza che si risollevava. Mi seguì nel mondo esterno
senza dire una parola.
Le scricchiolavano le ossa. La guidai, senza consultare il mio iRec e senza prendere mezzi, per le
vie illuminate della città. Sentimmo l’aria fresca sui nostri volti, la lieve essenza della vita che ci
camminava al fianco in mille forme diverse. Poi arrivammo nella Piazza Grande – in diretta
mondiale, lo scienziologo Alastor Shandy illustrava al mondo la sua nuova, sensazionale scoperta
sugli universi paralleli.
“Fermiamoci qui” sussurrò Leda Swan.
Ci fermammo, puntolini nella folla. Lo scienziologo parlava a voce forte e chiara nonostante
l’aspetto accartocciato.
“Ed è per questo, signori, che vi annuncio con emozione che tutto quello che facciamo è unico,
irripetibile e irrecuperabile – eppure, noi facciamo tutto. Ogni volta che una scelta si produce nella
nostra vita la possibilità che abbiamo escluso genera un altro mondo, e poi un altro, e un altro
ancora; e insomma, da qualche parte nell’universo noi abbiamo fatto tutto quel che avremmo voluto
fare. Tutto.”
Leda Swan tremava. Mi voltai a guardarla e notai che la sua schiena si stava raddrizzando e le
pieghe della sua pelle erano meno profonde.
“Alastor.”
Lo disse a voce bassa, scandendo bene ogni lettera. Impastò quel nome sulla sua lingua e Alastor
Shandy, il famoso scienziologo, si voltò di scatto verso il minuscolo punto della folla che eravamo
io e Leda Swan e, nel microfono, disse “Leda.”
Di colpo, anche le sue rughe svanirono e la sua barba divenne bruna e folta come quella del ragazzo
sulla panchina; le sue gambe più lunghe e la sua chioma più scura.
Un giovane aitante balzò giù dal palco tra i mormorii generali, mentre Leda Swan, splendente,
giovane e ammantata di bianco, sgomitava tra la folla fino a infrangersi tra le braccia di lui.
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Le telecamere furono subito puntate su loro due, e le loro immagini ingigantite si riflettevano sui
sette megaschermi sparsi ai quattro angoli della città.
“Leda, Leda, lo sapevo che ti avrei trovata, in un universo o nell’altro. Mi hai sentito, Leda?”
Alastor Shandy ripeteva il nome di lei nei suoi capelli, borbottava parole dolci e non si scusava per
esser sparito dentro quel treno, perché da un’altra parte era già stato perdonato, perché tutto ciò che
doveva accadere era accaduto.
“Dici davvero, Alastor? È davvero successo tutto ciò che volevamo?”
Piccola, fragile, la fiera Leda Swan alzava i suoi occhi bruni sullo scienziologo ragazzo.
“Certo che dico davvero. Per tutto questo tempo ho cercato un modo per arrivare a te. Un modo per
farti capire che tutto quello che volevi era successo davvero. L’ho trovato, vedi? Te, il modo, e tutto
quanto”
Dopo un primo momento di scompiglio, la folla taceva. Qualcuno singhiozzava – io avevo imparato
a trattenere le lacrime; avevo qualche giorno d’esercizio dalla mia. Qualche giornalista digitava
furiosamente sul suo iRec.
Leda Swan e Alastor Shandy si stesero vicini sull’asfalto, fronte contro fronte.
Cominciarono a parlare, fitto fitto, a voce bassissima. Senza bisogno di allungare un microfono
verso di loro come qualche giornalista indiscreto fece, sapevo che si stavano raccontando tutto ciò
che era accaduto nelle centinaia di anni che li avevano separati: non le grandi cose ininfluenti; ma
quei momenti essenziali che avrebbero voluto condividere; la bellezza dei tramonti dal tetto del
mondo e la sensazione d’infinito delle sere d’estate davanti alle stelle.
Si dissero tutto quel che avevano fatto da soli e quel che, in mille altri universi paralleli, mille altri
Leda Swan e Alastor Shandy avevano fatto insieme: parlarono così a lungo che persino i giornalisti
li lasciarono soli sull’asfalto, al buio, mentre la notte li ammantava di scuro e li proteggeva dal resto
del mondo.
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Io rimasi. Non cercavo di ascoltare i bisbigli che provenivano dall’asfalto; me ne stavo
semplicemente nascosto nell’ombra, silente testimone di quella storia; perché sentivo di averne il
diritto e il dovere.
Alla fine, tacquero. La notte iniziava a schiarirsi; la luce del sole si stiracchiava pallida.
“Ora non ci resta che morire, Alastor” disse Leda Swan con una fievole voce tranquilla.
“Il momento è arrivato. Hai paura, Leda?”
“Non so cosa aspettarmi” bisbigliò lei.
“Questo è un mistero che ho mancato di svelare. Secondo me, però, la morte è piena di cose
tranquille e morbide. È un luogo dove possiamo stare solo io e te.”
“Non mi piacciono le cose tranquille” disse Leda Swan, ma senza convinzione. Il suo corpo si
abbandonava già alla quiete. “Però è il prezzo da pagare. Mi va bene.”
Alastor Shandy sorrise. “Non aver paura. E ricorda che tutto è accaduto.”
“Non ne ho” anche Leda Swan sorrise. Poi un ricordo sembrò attraversarla. “Una persona mi ha
ricordato che ti devo un bacio, prima di andar via” mormorò.
Lo baciò sulle labbra.
Poi chiusero gli occhi, e morirono.
Intanto, in un universo parallelo, io avevo scritto la storia romanzata della triste giovinezza di Leda
Swan e me la spassavo su una nave da crociera con una giovane australiana che avrei scoperto
essere l’amore della mia vita – o almeno, così affermava il mio iRec. In quello accanto, l’erba
cresceva alta da secoli sulle tombe dei signori Shandy, morti insieme dopo una vita della durata
giusta, e i loro nipoti vivevano una felice vita senza iRec, si raccontavano aneddoti a cena e si
fiondavano in disastrose ed esilaranti avventure di cui non potevano conoscere l’esito.
Nel mondo in cui ero io, se si saliva su un terrazzo abbastanza alto si riusciva ancora a vedere
l'ombra della luna che svaniva.
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Salii su quello dell’ormai vuota casa di Leda Swan e pensai alla storia che avrei pubblicato; pensai a
come fondere tragico e reale e pensai che, qualunque cosa avesse comportato, quella storia l’avrei
scritta come uno scrittore dei tempi andati.
Dopotutto, se lo meritava: era una storia vera.
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