L`Italia in pellicola

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L`Italia in pellicola
L’Italia in pellicola
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Anche quest’anno i ragazzi di
Arca CinemaGiovani consegneranno il premio al Miglior
Film Italiano presente alla
67esima Mostra del Cinema
di Venezia.
Le pellicole italiane a Venezia
sembrano
affacciarsi
al
mondo attraverso tre grandi
finestre: la memoria, il Sud
e il lavoro. Sono queste le
lenti attraverso le quali sono
rappresentate
cinematograficamente le storie in
concorso.
Per primo abbiamo scoperto
Ascanio Celestini che, alla
sua prima regia, ci ha trascinato con la sua “Pecora nera”
all’interno di un manicomio di
provincia, prima della legge
Basaglia, nei favolosi anni
Sessanta. La vita del piccolo
Nicola è un incubo che ci
impone di ricordare quello che
è stato, l’immobilizzazione
coatta a letto dei pazienti
considerati pericolosi, le
scariche di elettroshock per
“riaccendere” una luce nel
loro cervello, ma anche le trasformazioni avvenute, perché
l’istituzione manicomiale è
stata l’unica che siamo riusciti
a cambiare radicalmente
attraverso la legge Basaglia,
restituendo così al disagiato
psichico i suoi diritti.
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VI|07set2010
La Villa degli autori al Lido di Venezia è stata culla della performance dal vivo dello
statunitense Fredo Viola. Un costruttore d’immagini attraverso una sensibile polifonia
audiovisiva. L’espressione di Viola (ospite dell’edizione 2009 di Cinema Corto in Bra)
è un insieme difficilmente scindibile di musica, arti visive, cinema e performance. I suoi
cortometraggi sono molto di più di un semplice videoclip delle canzoni, è un “cinema
intimo”, scisso in pezzi di immagini, frammenti di vita di 15 secondi catturati attraverso
una digitale: filmati realizzati a casa o per strada con semplicità e sciolti da mezzi e
tecniche tradizionali. La musica si fonde con le immagini in un lavoro audiovisivo
funzionale a suscitare suggestioni che uniscono magia antica a soluzioni moderne,
romanticismo e silenzio in una tensione verso lo spirituale che rimanda ad atmosfere
oniriche. Sono frames che diventano riflesso di una realtà frammentaria e frammentata
da spicchi di fotografie che compongono un variegato mosaico emozionale. La sua voce
sottile e delicata accarezza le immagini e le vezzeggia. L’impressione è quella di vedere
attraverso un caleidoscopio immagini e colori che si fondono e si compenetrano creando
altro da sè con un gusto estetico e cromatico sopraffine.
Il Sud Italia è magistralmente
rappresentato in “Malavoglia”
di Pasquale Scimeca dove
c’è una Sicilia che, allora
come oggi, ribolle di precarietà, povertà e Provvidenza,
sempre in bilico tra fallimento
e riscatto. La Sicilia di Roberta
Torre ne “I baci mai dati” è
invece inchiodata ad un sentimento religioso fortemente
condizionato dalla superstizione popolare, che presta
il fianco ai moderni diktat
della società foriera di nuovi
bisogni.
Il tema del lavoro entra di
prepotenza nel primo lungometraggio di finzione del
giovane e talentuoso Massimo
Coppola: in “Hai paura del
buio” c’è forte il disagio delle
due giovani operaie licenziate
dalla fabbrica che vivono
questa tragedia in una prospettiva personale, incapaci di
ricollocare questa esperienza
all’interno di una coscienza di
classe.
Sempre di lavoro si parla in
“La passione” di Carlo Mazzacurati. Ma qui il protagonista
è un regista di mezza età e
senza idee per una scenegcontinua a pagina 2 >>>
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SET
Approfondimenti
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2
continua da pagina 1 >>>
giatura originale. Pressato dal
suo manager e da un’attricetta
giovane e insipida troverà
rifugio e riscoprirà il piacere
di relazioni umane autentiche
e la bellezza del suo lavoro
in un paesino della provincia
toscana dove viene ingaggiato, attraverso un ricatto, per
dirigere la Passione di Cristo
durante la Via Crucis cittadina
del Venerdì Santo.
Anche molti registi stranieri
ci parlano d’Italia in questa
edizione del Festival. Un
vero pugno allo stomaco
sono i “dieci minuti milanesi”
di “Somewhere” di Sofia
Coppola, con una Giorgia
Surina giornalista isterica e la
doppietta Ventura-Marini personificazione del cattivo gusto
e del ridicolo. Anche Ozon ci
lancia una frecciatina quando
la giunonica Deneuve decide,
davanti ad una folla adorante,
di passare dalla dirigenza
della sua fabbrica a quella
della nazione francese...
Turturro invece ci insegna ad
amare Napoli mostrandoci
come, sotto la crosta maleodorante dei rifiuti e della
corruzione, batta ancora un
cuore musicale e meticcio.
Che vuole dirci dunque il
cinema italiano di oggi?
Magari di rileggere con attenzione le pagine passate per
capire meglio quelle che si
stanno scrivendo oggi, e poi
di studiarci bene le regole
della grammatica per iniziare
a scriverle noi queste pagine!
Chissà perché mi viene in
mente Brecht che grida:
“Affamato afferra il libro, è
un’arma!”. La Mostra d’Arte
Cinematografica di Venezia
ci sta lanciando qualche buon
film che faremmo molto bene
ad afferrare al volo!
Silvia De Marchi
Divo o non divo?
Più ci sfuggono, più noi li amiamo
Uno è fratello d’arte, l’altro un
ex modello. Belli entrambi,
ma diversissimi. Tutti e due a
Venezia. Uno filma la vita del
cognato famoso, l’altro ha due
film in concorso: protagonista
di un thriller di Skolimowski e
attore e regista per l’ultimo
desiderio di una malata
terminale. Casey Affleck e
Vincent Gallo sono i belli e
dannati di questa Sessantasettesima. Tutti li cercano,
in pochi li trovano. Gallo non
rilascia interviste. Affleck
arriva solo alla conferenza
stampa, lasciando chissà
dove il protagonista del suo
“I’m Still Here”. Due nomi che
riempirebbero le copertine di
tutto il mondo, due volti che
rifiutano quelle copertine e si
ricordano per i loro atteggiamenti ribelli.
Lo scorso anno al Lido il bel
Vincent mostrava le spalle ai
fotografi, quest’anno pare sia
ancora più prezioso. Intanto il
regista di “Essential Killing” lo
dipinge come un attore che
si immerge completamente
nel ruolo da interpretare,
restando in solitudine anche
durante le pause delle
riprese. Poi arriva “Promises
Written in Water” e compare
come lo avevamo lasciato in
“The Brown Bunny”: narcisista e vanitoso, con la camera
che segue il suo volto e i suoi
movimenti. I dialoghi hanno
solo un interlocutore visivo,
sempre lui, e completamente
in bianco e nero.
Il piccolo di casa Affleck,
invece, si inventa una sorta
di reality sulla vita di Joaquin
Phoenix. Resta dietro la
camera, e deve piacergli
tanto dopo le esperienze
passate. Prima di Venezia
hanno parlato
di lui le riviste di gossip,
quelle che col sorriso maligno
hanno sottolineato la notizia
della denuncia per molestie
sessuali ad una produttrice.
Che caratteracci! Se un
tempo le intrattabili erano le
dive che si sfidavano a suon
di bellezza, ora sono i nomi
maschili a lottare contro la
loro stessa fama. Divi indecisi
sul volerlo essere o meno,
perennemente in bilico sul
personaggio costruito e la
loro natura ribelle. E noi non
sappiamo se crederci, non
sappiamo chi prevalga tra il
dottor Jekyll e il signor Hyde
che c’è in loro. In compenso
cerchiamo uomini misteriosi
come loro, per poi lamentarci
alla prima bugia. Meglio solo
sul maxischermo?
Micaela De Bernardo
07
SET
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La dura vita del cineasta
Ancora riflessioni sullo stato critico del cinema italiano
Le luci si riaccendono fioche,
gli applausi coprono le ultime
note sui titoli di coda del film,
qualcuno si alza in piedi e altri
s’infilano veloci all’uscita.Ti alzi
in piedi per ricevere i complimenti della platea. Una veloce
intervista in cui sfoggiare una
risposta brillante per coprire
con una risata l’imbarazzante
domanda uscita da qualcuno
che, forse, ha dormito durante
il film o forse dorme ancora. Di
nuovo qualche applauso e poi,
poi è finito.
Per chi entra in sala senza
passare dal red carpet a
vedere il proprio film faticosamente lavorato per mesi se non
anni, questo è il momento più
alto, poi si riparte. La boccata
d’aria per chi fa cinema in
questo periodo, senza l’appoggio delle grandi case di
produzione, dura il tempo di
una proiezione, non di più.
La fatica per la propria opera
continua, perché la Mostra di
Venezia, che dovrebbe essere
solo una tappa del percorso
del proprio film, troppo spesso
è solo un punto di arrivo. Se
non c’è interesse già prima
del festival, i distributori non
comprano e, a volte, anche
quando vorrebbero.
Tra i corridoi, i bar e le riviste
del Lido si fa un gran parlare
di film, tra stroncature e appelli
al capolavoro, ma poi senti
anche qualcuno che di cinema
ci vive e, oltre alle immagini,
commenta quello che c’è
dietro: la vita da cineasta.
Quando si parla di cinema
italiano, poi, il discorso s’ina-
sprisce, si alimenta e a volte,
fortunatamente, sfocia in
qualcosa di propositivo. La
proiezione alla villa degli Autori
del cortometraggio Esordire in
Europa di Matteo Berdini ha
dato il via a una discussione
sulle modalità di fare cinema
in Italia, a partire da un analisi
del sistema di produzione
vigente negli altri stati europei,
con particolare attenzione alle
opere prime. Perché la crisi
economica c’è ed è vero, ma
il problema della produzioni
italiane è a monte e non si può
sempre ridurre tutto ad una
questione economica, forse
sarebbe meglio parlare di
gestione culturale.
Guardiamo a Paesi vicini
culturalmente, come Francia
o Germania, dove il CNC
(Centre National du Cinéma)
reperisce automaticamente
fondi che investe in nuove produzioni, di cui una settantina
sono esordi, e nel sostegno
delle distribuzioni indipendenti
sui vari media, o il DFF (The
German Film Fund), modello
di successo vicino a quello
francese, che si appoggia
a finanziamenti diretti dal
governo e una gestione capillare inquadrata in un’ottica
federale. Sistemi di gestione
che se non vincono, almeno
riescono ad arginare lo strapotere hollywoodiano e a tenere
in moto la cultura cinematografica nazionale.
In Spagna il Ministero della
Cultura, che presto si trasformerà in Agenzia, ha varato
una legge generale nel 2007
per regolamentare il sostegno
che ogni anno aiuta più di
duecento film tra produzioni,
distributori ed esercenti. In
Italia l’unica “legge cinema”
organica, se si eccettuano gli
interventi urgenti effettuati nel
1994, risale al 1965 e ancora
non è stato tentato di legiferare
considerando tutti gli aspetti in
maniera coordinata.
La Romania ha invece aperto
le porte ai giovani autori con
l’istituzione del Centro Nazionale per il Cinema, realizzato
su calco di quello francese,
grazie all’applicazione di
nuove leggi varate ad hoc
qualche anno fa. Ovviamente
le risorse a disposizione sono
diverse, ma modalità di reperimento fonti e sostegno alla
produzione fanno in modo che
ogni anno vedano la luce una
ventina di film capaci, anche,
di raggiungere il mercato
estero.
Ma torniamo entro i confini. Le
ultime azioni tese a favorire
la cultura cinematografica
nazionale
hanno
aiutato
sostanzialmente la fiction, la
pubblicità e i grandi distributori, gli unici settori che hanno
visto una crescita negli anni.
L’introduzione del cosidetto
reference system, che avrebbe
dovuto guidare le commissioni nella scelta delle opere
da sostenere, ha prodotto
una griglia che si limita ad
escludere nuovi autori e produttori dal mercato, che non
potendo presentare cast e
produzioni di lungo curriculum
di successi alle spalle, viene
in pratica escluso dai criteri
di reference. Il product placement, che ha legalizzato la
possibilità di utilizzare marchi
all’interno del film, ha creato
veri e propri sponsor della pellicola, portando finanziamenti
è vero, ma è anche andato a
interferire pesantemente nelle
scelte artistiche sia nella fase
di scrittura che in quella realizzativa. E poi una domanda,
quale brand investirebbe in
pubblicità su un film che, nella
migliore delle ipotesi, sarebbe
proiettato in una decina di
sale?
Paola Randi, regista in Mostra
con Into Paradiso, ha lanciato
un grido disperato contro la
condizione italiana attuale:
non si può avere una famiglia
e fare cinema. E qui viene
fuori la vera questione degli
emergenti, che anche quando
incontrano produttori illuminati che li sostengono, hanno
bisogno di un “mecenate”,
molto spesso in forma di
secondi lavori, o della famiglia
che li aiutino durante la fase
di realizzazione dell’opera. Gli
autori sono sempre più vicini
a diventare produttori di se
stessi. Il regista va dal produttore per finanziare il progetto, il
produttore chiede a sua volta al
regista che, davanti alla scelta
di realizzare o no il proprio
film, non può che accettare di
investire tutto quello che ha.
Il regista dunque, diventato
autore con la nouvelle vague,
diventa filmmaker e non è solo
un problema di linguistica e traduzione. Sempre più spesso il
regista deve proporsi come
una figura capace di gestire,
non solo creativamente, tutte
le fasi della realizzazione
dell’opera. Ma consoliamoci, a
volte è un bene.
Andrea Socrate Falconi
07
SET
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Il Cinepanettone? Un affresco
Christian De Sica e Jerry Calà arrivati al Lido per la proiezione di Vacanze di Natale.
“La situazione comica (19371988)” è la retrospettiva
della 67 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica,
dedicata al cinema comico
italiano troppo spesso rimasto
nell’ombra. Curata da Marco
Giusti, Domenico Monetti e
Luca Pallanch, prevede la proiezione di una trentina di opere
dagli anni ‘30 ai pieni anni
‘80. Di tutti i generi italiani, il
comico è sempre stato il grande
polmone economico e popolare
del nostro cinema, dai tempi di
Totò giù fino ai cinepanettoni.
Alcuni dei più popolari comici
italiani: Diego Abatantuono,
Lino Banfi, Lando Buzzanca,
Christian De Sica, Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Gigi
Proietti, Carlo Verdone, Paolo
Villaggio sono stati invitati
alla Mostra per ricordare film
e i colleghi del passato, ai quali
possono essere accostati sia per
quanto riguarda le discendenze
che per le affinità.
Ieri dopo la proiezione del film
Vacanze di Natale, di Carlo e
Enrico Vanzina, abbiamo avuto
l’occasione di fare qualche
domanda a Christian De Sica e
Jerry Calà presenti in sala.
Christian cosa si prova a
venire qui alla Mostra del
Cinema con il primo film della
saga di Vacanze di Natale?
Era ora, a Venezia finalmente
sdogana il cinepanettone. Ci
voleva. Anche perché spesso
riesce a spiegare, molto meglio
di tanti film, il nostro Paese.
Perché con l’ironia, con la
comicità, anche scurrile, puoi far
arrivare dei messaggi forti più
che salendo sulla cattedra a dare
delle lezioni. Io l’ultima volta
sono venuto qui alla Mostra
nel 1959 con mio padre per Il
generale Della Rovere. Oggi
torno con Vacanze di Natale
di 27 anni fa. Voleva dire che
dovevo tornare prima di andare
sul set del 27° cinepanettone.
Sei stato accolto da super star
al Lido insieme ad Aurelio
De Laurentiis calcando il red
carpet del pomeriggio domenicale, tra gli applausi e le grida
dei fan. Stesso entusiasmo
che si è riversato in sala per
la proiezione. Come mai piace
così tanto il cinepanettone?
Piace perché è un bellissimo
affresco della borghesia italiana
degli anni ‘80 e credo che non
molti sono riusciti a raccontare
l’Italia come l’abbiamo fatto
noi. Con questi film si è rac-
contata l’evoluzione dell’Italia,
dall’edonismo craxiano anni
‘80 alla tangentopoli degli anni
‘90, a chissà che cosa nel terzo
millennio. Noi lo stiamo ancora
cercando fotografando i vizi e i
vezzi degli italiani.
Jerry, secondo il tuo punto di
vista, quanto è cambiata la
comicità nel cinema?
Nel cinema italiano si verificano
degli strani pentimenti, per cui i
comici sembra si vergognino di
fare ridere e cercano di fare il
film impegnato per piacere alla
critica, invece poi si accorgono
che il pubblico li va a vedere
perché si vuole divertire. In
Italia la commedia è sempre
stata un po’ classificata come
un genere demenziale, specialmente dai festival e dalla
critica.
Il fatto che questa retrospettiva
rivaluti delle commedie che non
sono state trattate bene dalla
critica ma che poi ssono diventate con il tempo dei cult è una
cosa molto importante che apre
le porte allo sdoganamento di
questo genere. Sembra che un
film per essere di qualità debba
essere noioso.
Quindi quali sono i cambiamenti che si dovrebbero
apportare per non cadere
nella demenzialità?
Si dovrebbe investire di più
sulla commedia, non limitando
il campo soltando a quei comici
che piacciono al pubblico. Bisognerebbe investire sulla scrittura
di eventi esilaranti, divertenti,
in questo modo gli attori comici
diventano la ciliegina sulla
torta. I film vanno fatti avendo
prima una sceneggiatura e poi
gli attori, non il contrario.
Durante la proiezione di
Vacanze di Natale la gente in
sala era compiaciuta e divertita durante la proiezione.
Dopo tanti anni quali sono
state invece le tue impressioni rivedendolo sul grande
schermo?
Io ho fatto solo il primo della
serie dei cinepanettoni, questo
è un film perfetto. Satira di
costume straordinaria, feeling
perfetto tra personaggio e storia.
Interpretavo un playboiuncolo,
suonatore provinciale, insomma
niente era forzato perché noi ci
divertivamo sul set.
Ti è mai venuta la voglia di
metterti in gioco e presentare
un tuo film ad un Festival
come quello di Venezia?
Sono già stato ad un festival
tanti anni fa con il film di Marco
Ferreri “Diario di un vizio”,
vincendo il premio della critica
italiana a Berlino. Parteciperei
volentieri ad una manifestazione del genere, ma il problema
è arrivarci per uno che ha fatto
della comicità le basi della sua
carriera. Una volta ho detto ad
un produttore che stavo lavorando su un progetto con una
tematica molto importante e
dura e la sua risposta è stata
“perché non lo firmi con un
altro nome?”, questo dovrebbe
farti capire come funziona il
nostro cinema.
Mary Calvi
07
SET
A
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Regista per caso
Inatteso esordio dietro la macchina da presa di Michela Cescon
In apertura del film “20 Sigarette” viene proiettato “Come
un soffio”, cortometraggio di
Michela Cescon (attrice, tra gli
altri, di Primo Amore), prodotto
da Giovanni Veronesi con
Valeria Golino e Alessio Boni.
“Come un soffio” parla di
abbandono, di fantasmi, del
vuoto lasciato dalla perdita di
una persona cara e della sua
accettazione. Incontriamo la
regista Michela Cescon per
capire come nasca questo
progetto e come abbia vissuto
il passaggio dietro la macchina
da presa.
Michela, sei stata diretta
dai maggiori registi italiani:
Ozpeteck,Garrone,Giordana,
Bellocchio, per citarne solo
alcuni. Come mai questa
svolta? La regia è un sogno
o una scommessa?
Michela Cescon: È una scommessa, non è venuta da me.
Tre anni fa ero a Verona, ad
un festival chiamato “Schermi
d’amore” come giurata e il
presidente della giuria era
Giovanni Veronesi che non
conoscevo. Dopo tre giorni
insieme, parlando di cinema
e confrontandoci su quello
che vedevamo, lui mi ha detto:
“Cescon scrivi che ti produco
un corto”. Io lì per lì l’ho presa
così, come una cosa detta
tanto per dire, lui ha insistito
e allora ho capito che era una
cosa seria. C’ho messo tanto,
tre anni, perché nel frattempo
ho fatto altre cose.
Regista per caso quindi…
M.C.: Esatto, ed è una cosa
molto bella e molto rara, soprattutto da dire ai giovani. Sembra
sempre che nessuno ti dia una
possibilità e invece nella vita
ogni tanto le occasioni possono
arrivare.
Non nascendo da te deve
essere stato strano il passaggio, come hai vissuto
questo cambiamento?
M.C.: Si, all’inizio è stato
davvero strano, ma col senno
di poi mi dico che Giovanni ha
visto cose di me prima di me
stessa.
Come
nasce
questo
progetto?
M.C.: Appena tornata a Roma
ho capito che volevo chiamare
a lavorare con me le persone
che in questi anni mi avevano
impressionato con il loro lavoro,
proponendogli di partecipare
ad un corto, che significa costo
zero, quindi lavoro per passione.
Per prima ho chiamato Linda
Ferri, scrittrice e sceneggiatrice
tra gli altri de “La Stanza del
Figlio” e “Anche libero va bene”.
Lei era occupatissima, ma
aveva questo testo teatrale che
ha voluto regalarmi: l’idea mi è
piaciuta da subito, chiaramente
ho dovuto riadattare un’opera
della durata di un’ora e mezza
in sette minuti. Poi ho chiamato
Valeria Golino, che non conoscevo. Ma avevo deciso da
subito di voler lavorare con lei. E
intendevo non esserci io, scelta
anomala dato che spesso gli
attori dirigono per crearsi un
ruolo che non gli viene dato da
altri, invece questo non mi interessava. Dopo Valeria è venuto
Alessio Boni, che invece è
mio amico, ma non potevano
che stare insieme, data la loro
somiglianza.
Quello dell’impossibilità di
accettare la morte per chi
rimane e, più in generale,
quello dell’abbandono è un
tema molto antico e molto
trattato. Hai detto che il testo
non nasce da te, ma lo ritieni
un tema a te affine?
M.C.: Si, il progetto poi è
diventato molto personale,
all’inizio c’è una dedica a due
mie amiche che non ci sono
più. Credo che, trattato con
leggerezza e con un tocco di
commedia, questo sia l’unico
tema veramente interessante.
JJ Uno sguardo al backstage
Dopo qualche ultimo ritocco, la nostra sceneggiatura è
finalmente pronta! Alcune scene sono state modificate
e perfezionate, il superfluo è stato tolto e i dettagli limati
fino a far quadrare perfettamente gli eventi.
La nostra attrice protagonista e i tecnici ci hanno finalmente raggiunto, direttamente da Roma; i ragazzi si
sono divisi le mansioni e questa mattina la troupe ha
effettuato un sopralluogo su quello che sarà il nostro
set, per poi avventurarsi alla ricerca di tutto l’occorrente
necessario ad allestire le scenografie.
Ma non è finita qui: gli attori sono tuttora impegnati
nella prova dei costumi di scena e tutti sono coinvolti
nella ricerca di quei tocchi di stile che non siamo ancora
riusciti a recuperare, come un papillon che nessuno,
ahimé, sembra aver portato con sé in valigia... saremo
un po’ carenti in eleganza? Può darsi... ma potete star
sicuri che, in compenso, nella realizzazione del nostro
piccolo grande film ce la metteremo tutta!
Serena Bozzi
Questa malinconia e nostalgia
per qualcuno che non c’è più, o
forse c’è e comunque ti piacerebbe ritrovare penso che sia
un tema universale.
Tu personalmente come ti
comporti con i fantasmi?
Ci convivi o li lasci andare
per poter ricostruire e
ricominciare?
M.C.: Un po’ ci convivo, ma
quando comincio a sentire la
loro presenza gli dico:“So che ci
sei, ma lasciami stare”, cerco di
non vederli troppo. Ovviamente
i fantasmi ci sono sempre e mi
piace che mi accompagnino,
ma non voglio vederli troppo.
La prossima volta ti vedremo
dietro o davanti la macchina
da presa?
M.C.: Continuo a stare davanti,
ma questa esperienza da
regista mi è piaciuta molto.
Ora partecipo ad un film di
Cristina Comencini che stiamo
girando sul monte Rosa, tratto
da un suo libro che si chiama
“L’ultima notte”.
Quanto alla regia a settembre
ho un nuovo appuntamento
con Linda Ferri, ci rincontriamo
e vediamo cosa succede…
Flavio Nuccitelli
07
SET
Approfondimenti
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Vallanzasca si prende il Lido
Il film più contestato raccontato in conferenza stampa dal regista e dagli interpreti
Rifiutato da Rai e Medusa,
il “Vallanzasca” di Michele
Placido è stato prodotto dalla
Fox.
Renato Vallanzasca Costantini, autore negli anni settanta
e seguenti di numerose rapine,
sequestri, omicidi ed evasioni,
attualmente sta scontando
una condanna complessiva a
quattro ergastoli e 260 anni di
reclusione. L’intento di Placido
non è quello di entrare nel
merito della questione ma
soltanto un nuovo e rischioso
modo di mettersi in gioco con
un personaggio spinoso. L’approccio è asettico, in bilico
tra la normalità e la devianza,
pregno di dolorosi spunti emozionali. E’ la discesa agli Inferi.
In conferenza stampa erano
presenti il regista Michele
Placido e gli interpreti
Kim Rossi Stuart e Moritz
Bleibtreu.
Oggi è stata pubblicata una
lettera sul “Corriere della
sera” da parte dei parenti
delle vittime di Vallanzasca
in cui si sottolineava che, in
fondo, questo film è stato
un voler glorificare un personaggio già esaltato. In
fase di scrittura si è posto
il problema delle probabili
accuse di spettacolarizzazione di un criminale?
Michele Placido: Non ho
letto l’articolo sul Corriere ma,
ad ogni modo, in questi ultimi
mesi se ne sono dette tante.
Credo che dal dopoguerra ad
oggi ce ne siano stati di criminali, stragi mafiose, terrorismo
nero e rosso. Vallanzasca è
stato un criminale, ma uno dei
pochi che ha ammesso tutto di
sua sponte. Credo che ci siano
delle persone in Parlamento
che abbiano fatto peggio. È
libertà di pensiero e di espressione. Ho avuto delle remore
prima di iniziare a girare. Da
piccolo ho frequentato un
collegio di preti, sono stato
poliziotto; poi mi sono detto
che ero in grado di raccontare artisticamente una parte
oscura. Abbiamo lavorato con
l’onestà che ci distingue e con
la dovuta distanza dal personaggio. Quel che è singolare è
che Vallanzasca è stato troppo
bello, negli anni ‘70 è stato un
mito, in parte anche per la
stampa; possedeva simpatia
e leggerezza che spiazzava
ed affascinava. E’ stato una
mente criminale diversa dagli
altri.
La sua interpretazione è
assolutamente
credibile,
anche il suo milanese.
Come si è preparato?
Kim Rossi Stuart: Ieri
Michele mi ha citato una frase
di Brecht che non conoscevo:
“Mi sono seduto nel posto di
chi ha torto perché gli altri posti
erano occupati”. L’ho trovata
molto calzante e filosofica.
Vallanzasca non è un furbo,
vizio molto italiano, che crea
problemi. Capisco i parenti
delle vittime, di chi ha sofferto,
però il cinema e la letteratura
devono occuparsi anche di
queste storie. Per quel che
riguarda il milanese, ho vissuto
molto tempo a Milano anche
se non è stato così semplice.
Massimo Sabet, molto in
gamba, nonché esperto di
teatro milanese, mi ha aiutato
tanto in questo senso.
Come sei arrivato a questo
personaggio e a questo
film? Hai dato prova
di grande abilità nella
padronanza della lingua
italiana...
Moritz Bleibtreu: In realtà
la mia voce è stata doppiata.
Ad ogni modo vivo qui in Italia
da quando avevo 19 anni e
questo film per me ha significato tantissimo. Uno dei
momenti più importanti della
vita di un attore.
Michele Placido: E’ stato
davvero bravo nella reci-
tazione. Durante la fase di
montaggio ho lasciato due
sue frasi in originale, perché
la sua voce e quella del doppiatore sono praticamente
uguali.
Ci sono grandi italiani,
statisti, sportivi, che hanno
fatto
importanti
cose
buone. Nel 2010 era proprio
necessario fare un film su
Vallanzasca?
Michele Placido: In realtà ho
fatto anche un film su Padre
Pio. Hai mai visto “Un eroe
borghese”? Ho fatto anche
un film su un monarca ucciso
dalla mafia. Vallanzasca era
necessario per raccontare il
male ed il bene che c’è in voi
ed in me.
Hai collaborato alla sceneggiatura del film. Hai davvero
incontrato Vallanzasca?
Kim Rossi Stuart: L’ho
incontrato più volte ed è stato
essenziale. E l’atmosfera era
incredibile, quasi surreale.
Lei parla di etica criminale.
Può ampliare il concetto?
Michele Placido: Vallanzasca è un criminale, lo dice e lo
confessa. L’etica è non tradire
certi aspetti poco comprensibili per la morale di noi persone
perbene. Alcuni crimini della
banda, Vallanzasca dichiara di
averli compiuti personalmente,
anche se poi effettivamente
non è stato così. Non ha mai
sparato a persone inermi. Le
persone uccise sono state
24/28; crimini compiuti in una
stagione di 6 mesi di follia in
cui è precipitato in un baratro.
Credo che dovremmo fare
appello alla legge della pietas,
a volte l’Italia è un paese daltonico da molti punti di vista.
Vallanzasca non va perdonato ma vorrei che la società
facesse venir fuori il suo lato
“cristiano”. L’ultimo delitto
compiuto me lo ha confessato pochi giorni prima delle
riprese, aspetto che nel film
compaia. Uccidere un pentito
era un dovere. E’ sbagliato ma
anche questo significa avere
un’etica criminale. Non lo ha
nascosto, lo ha dichiarato. E’
la sua etica, è il suo viaggio.
Non vogliamo assolutamente
assolverlo ma raccontare la
“via crucis” del male.
Parlando di Vallanzasca dal
punto di vista filologico, è
stato a Roma ed ha avuto
contatti con la banda della
Magliana, perché non lo ha
menzionato?
Michele Placido: Lui non ha
voluto contatti con la destra
politica né contatti con la mafia.
Non voleva avere a che fare
con un’organizzazione come
la mafia che tende all’arricchimento, che compie delitti di
ogni genere, che usa bombe.
Non ho inserito quest’aspetto
perché si entrava nell’ambito
politico e ci sarebbero stati
problemi di programmazione.
Lei stesso ha dichiarato di
essere stato un poliziotto.
Qual è stata l’immagine che
ha voluto dare dei poliziotti?
Perché sembrano un po’
naif, degli sprovveduti...
Michele Placido: Lo erano.
Non erano poliziotti come
li intendiamo noi, poi fortunatamente c’è stata il
cambiamento. Basti pensare
alla fuga di Vallanzasca. La sua
fuga fu rocambolesca: svitò
l’oblò e saltò giù sul ponte,
come se gli stessi poliziotti
lo avessero invitato alla fuga.
Tant’è vero che furono messi
sotto accusa e sospettati
di corruzione. Erano gli anni
della lotta al terrorismo rosso
o nero che fosse, la polizia era
completamente
spiazzata,
pur essendo repressiva non
era preparata
per tenere a bada e catturare
un criminale del calibro di
Vallanzasca.
Paola Tarasco
07
SET
A
pprofondimenti
2010
l’ecoARCA - daily gratuito scritto, stampato e distribuito presso la 67 mostra internazionale d’arte cinematografica di venezia
7
La memoria dei “gulag” cinesi
Wang Bing ci parla de “Il Fossato”, film a sorpresa in concorso alla Mostra
Esordio nella fiction del documentarista cinese Wang Bing,
“The Ditch – Il Fossato” è il film
a sorpresa in concorso alla
Mostra. Coprodotto da Francia
e Belgio e girato in clandestinità, è ambientato alla fine
degli anni ‘50 in un gulag
cinese dove i dissidenti contro
il regime comunista venivano
deportati e costretti ai lavori
forzati in condizioni disumane.
Un film coraggioso e radicale,
la cui lavorazione ha richiesto
molti anni, dal 2004 al marzo
2010.
Quali sono state le difficoltà
che ha dovuto affrontare
per realizzare questo film?
Wang Bing: Mi son dovuto
documentare sul periodo
storico. Dovevo comprendere
gli anni ‘50 e ‘60 per poter
essere veritiero e restituire
un’immagine della realtà
storica il più possibile fedele.
E’ stato molto difficile anche
trovare i finanziamenti, ma la
vera sfida è stata girare nel
deserto dei Gobi, una zona
tutt’altro che ospitale.
Come ha lavorato con gli
attori?
W. B.: Ho utilizzato attori di
provenienze diverse, sia professionisti che non, ed ho
guidato tutto il cast verso un
tipo di recitazione naturale e
non costruita. Il mio obiettivo
era quello di fondere documentario e finzione al fine di
ottenere un effetto di verità:
credo che ormai non ci sia
tanta differenza tra questi due
generi.
E’ difficile oggi fare un film
di protesta in Cina senza
l’aiuto di capitali europei?
W. B.: Non credo sia un film di
denuncia, piuttosto è un film
critico e costruttivo. L’abbiamo
fatto per non dimenticare la
memoria del nostro passato.
Non siamo contro niente e
nessuno, vogliamo solo che il
film restituisca dignità, ugua-
glianza e rispetto alle persone.
Non sarà un film di protesta
ma è sicuramente un’opera
politica su un tema ancora
considerato tabù.
W. B.: La politica è sempre
qualcosa di cui si deve parlare,
ma come un modo per scam-
biare opinioni e non come
atteggiamento di scontro. Ho
rappresentato le sofferenze
del popolo cinese per riflettere sul senso della storia, sul
modo con cui l’esperienza del
passato può e deve influire
sul futuro e sul destino della
società. Il film è politico nel
senso che vuole aprire una
discussione libera. Ma è anche
pieno di amore e speranza, la
speranza di porre le basi per
rapporti amichevoli e rispettosi
fra gli uomini, sia in Cina che
altrove.
Ferdinando Schiavone
L’universo delle Film commission
Il problema dei finanziamenti affrontanto in un incontro
Nel primo pomeriggio dell’altro
ieri si è tenuto, alla “Villa degli
autori”, il secondo incontro
organizzato dall’associazione
dei “100 autori” per discutere sul rapporto tra cinema
ed economia. Se il primo di
questi, partendo dall’inchiesta
Esordire in Europa, rifletteva
sulla difficoltà degli autori
per realizzare la loro opera
prima, il secondo affronta l’argomento, di stretta attualità,
delle film commission. La questione è complicata perché
coinvolge svariati enti politici
e forze economiche, ma il
problema del reperimento dei
finanziamenti necessari per la
realizzazione di un prodotto
audiovisivo è fondamentale, perché nel cinema ogni
progetto, ogni idea, senza
un’adeguata base economica, resta tale. Il cinema è un
bambino (direbbe Celestini),
ha bisogno di tante attenzioni:
ha bisogno di attrezzature
costose, ha bisogno di poter
fare spostamenti, ha bisogno
di costumi e scenografie. Con
queste premesse diventa
importantissimo per gli autori
poter avere un punto di riferimento certo e affidabile a
cui rivolgersi. Le film commission regionali di cui si discute
sempre più spesso e che
prendono sempre più forza
hanno, senza dubbio, vari
vantaggi. Il primo è che un produttore privato difficilmente
concede un finanziamento
per un progetto che non gli
garantisca un ritorno economico sicuro, e ciò, di solito,
va a scapito dei giovani
autori e di quelle opere con
meno mercato, che hanno
comunque un gran valore
artistico. Una film commission
regionale invece, soprattutto
dopo i recenti tagli statali
su tutto ciò che è cultura in
questa nazione, potrebbe
garantire quella spinta verso la
ricerca nel campo dell’audio-
visivo. Il rischio, come notato
dal presidente della film commission del Piemonte, è che
le richieste delle regioni non
tendano a incentivare l’arte e
l’occupazione, ma soltanto la
pubblicizzazione del proprio
territorio. Un altro vantaggio
è quello di assecondare la
tendenza di decentramento
degli ultimi tempi, ad esempio
con l’attività di Diritti a Bologna
e della scuola di documetari
di Torino, che sono strettamente legati al territorio. Il
discorso ovviamente è molto
più ampio, ma è importante
che se ne parli per capire in
che direzione si muovono gli
autori per la salvaguardia del
proprio lavoro e della propria
arte.
Valerio Montemurro
07
SET
Approfondimenti
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8
Mario Martone racconta il Risorgimento
Il regista napoletano oggi in concorso con l’epopea di “Noi Credevamo”
Nel corso della propria prolifica vita artistica divisa
tra cinema e teatro (è oggi
direttore del Teatro Stabile
di Torino e la fusione della
sua Falso Movimento con il
Teatro Studio di Caserta di
Toni Servillo e il Teatro dei
Mutamenti di Antonio Neiwiller portò nel 1987 alla nascita
di Teatri Uniti), Mario Martone
si è più volte dedicato ad
adattamenti di origine letteraria: da “L’Amore Molesto”
(1998), tratto dalle pagine di
Elena Ferrante a “L’Odore del
Sangue” (2004), dal romanzo
di Goffredo Parise: due film
molto diversi, legati però da
una scrittura sprofondata
nella psiche dei personaggi,
interessata all’indagine dei
ricordi rimossi, dei legami tra
desideri e vita reale.
Si tratta di un tipo di indagine
psicologica che in “Noi Credevamo” di Anna Banti – alla
base dell’ultimo film del
regista campano presentato oggi in concorso alla
67esima Mostra, 204 minuti
di epopea storica – prende
la forma di un’impietosa
autoanalisi nella quale il
protagonista Domenico, attivista e rivoluzionario negli
anni delle lotte risorgimentali
(che la scrittrice ricalca sulla
figura del proprio nonno),
si macera giudicando con
durezza la linea della propria
esistenza, alla ricerca di
errori, macchie, colpe. “La
lotta si è conclusa in un fallimento: voglio dire che mi
ritrovo al punto di partenza,
cioè di non sapere se ho
camminato per vie diritte o
storte” scrive il Domenico del
romanzo che nel film avrà il
volto di Luigi Lo Cascio “e il
male non è tutto qui, perché
l’età e la stanchezza non mi
hanno guarito dalla smania
di andare in fondo, di rovesciarmi come un guanto e
scoprire in me il seme di ciò
che chiamiamo destino e che
dipende invece dallo scatto
delle nostre decisioni”. Inevitabile operare un confronto
tra i fallimenti privati del personaggio e quelli collettivi di
una nazione di cui la Banti
ieri e Martone oggi, intendono indagare la nascita.
Fiorentina di origini calabresi,
la Banti è stata scrittrice,
traduttrice e curatrice di
“Paragone”, rivista culturale co-fondata col marito
Roberto Longhi. Oggi è semidimenticata, tanto che molto
delle sue opere, compreso
“Noi Credevamo” (1967),
non vengono più pubblicate
da decenni.
Martone ha lavorato alla
sceneggiatura con Giancarlo
De Cataldo, già autore di
“Romanzo Criminale”, ispirandosi solo in parte alla
prosa elegante e pensosa di
Anna Banti: “Abbiamo individuato tre figure minori tra
i cospiratori italiani dell’Ottocento (Domenico Lopresti,
Giuseppe Andrea Pieri e
Antonio Sciambra) e abbiamo
attribuito le loro vicende a tre
personaggi di nostra immaginazione”. I protagonisti
del film diventano così tre.
A Domenico si aggiungono
Angelo e Salvatore, giovani
rivoluzionari di origine meridionale. Il film attinge in più
punti anche alla lunga e per
tanti versi oscura cronologia
del Risorgimento italiano
(Martone parla di “fatti, comportamenti e parole attinti
rigorosamente alla documentazione storiografica”).
Ecco quindi Toni Servillo nei
panni di Giuseppe Mazzini,
Francesca Inaudi e Anna
Bonaiuto in quelli di Cristina
di Belgiojoso (personalità di
spicco della cultura risorgimentale italiana, attiva nella
difesa della Repubblica
Romana nel 1849 dirigendo
il servizio delle ambulanze
militari, è stata scrittrice e
giornalista); Andrea Renzi,
altro nome importante della
compagnia di Teatri Uniti, è
Sigismondo da Castromediano – salentino, è stato
patriota e successivamente
membro del primo Parlamento italiano – presente
anche nelle pagine della
Banti (Domenico lo descrive
come un «cuore candido»,
come il «paragone della
dirittura morale»); Luca Zingaretti è Francesco Crispi,
mentre Renato Carpentieri e
Luca Barbareschi incarnano
rispettivamente Carlo Poerio
e Antonio Gallenga.
Giancarlo De Cataldo è
anche autore di un’intervista impossibile a Giuseppe
Mazzini, interpretato però
da Remo Girone, pubblicata qualche settimana fa
sul Venerdì di Repubblica e
messa in scena pochi giorni
fa nell’ambito della quarantesima edizione di Settembre
al Borgo a Caserta Vecchia.
Valentina Alfonsi
07
SET
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ecensioni
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9
Vallanzasca - Gli angeli del male
Sinossi
di Michele Placido - Italia, 125’ con Kim Rosssi Stuart, filippo Timi, Moritz Bleibtreu, Valeria Solarinio
Nella Milano degli anni Settanta regna l’incontrastato
Francis Turatello quando la batteria di Renato Vallanzasca emerge prepotentemente. La vicenda ripercorre
ascesa e caduta del gruppo di outsiders della Comasina.
Si alternano, così, nel racconto cinematografico, la sua
vita, i crimini, gli arresti, le sue celebri fughe, fino alla sua
inevitabile e definitiva cattura.
Commento
Michele Placido dirige con buon mestiere un’altra pagina
nera della nostra storia italiana. Inevitabili le assonanze
con Romanzo Criminale, anche se qui si parla delle gesta
di un singolo personaggio più che di una storia corale e
complessa che coinvolgeva politica, servizi deviati, mafia
e quant’altro si potesse pensare.
Kim Rossi Stuart, autore ancora una volta di un’ottima
prova, incarna perfettamenmte il ruolo di angelo del male.
In modo sobrio ed asciutto racconta la ribellione di un
uomo senza scivolare nel cliché del loser. C’è una frase
che racchiude il senso dell’intrepretazione, quando il bel
Renè dice: “Io non sono cattivo ma il lato oscuro in me è
fortemente pronunciato”.
Si sottolina, in questo modo, una interpretazione della
vita del bandito non legata ad elementi sociali ma asso-
lutamente personali. Si tratta di una scelta. Quella scelta
che Placido racconta consapevole della inevitabile coda
polemica che il film ha già innestato.
Ottimo il cast, i costumi, le ambientazioni.
Frabio Cacatini
La passione
Sinossi
di Carlo Mazzacurati - Italia, 106’ con Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Corrado Guzzanti, Cristiana Capotondi
Gianni Dubois è un regista italiano in crisi che non riesce a
scrivere un soggetto originale e che viene ingaggiato “sotto
ricatto” da un paesino toscano per dirigere la rappresentazione della Passione di Cristo il giorno del venerdì Santo.
Così si ritrova a trascorrere una settimana nella Toscana
più profonda nel tentativo di mettere in piedi una sorta di via
Crucis dove spicca un pessimo quanto vanitoso attore locale
nella parte di Cristo.
Commento
Tra le righe emerge una sfumatura un po’ amara che è quella
della religione, del rapporto tra la gente e la sacralità. Il film
è arricchito dalle straordinarie interpretazioni di un cast dal
grande valore artistico in cui spicca un esilarante Silvio Orlando
e poi Stefania Sandrelli e Corrado Guzzanti che aggiungono
pepe e ironia alla storia. Bravo anche Giuseppe Battiston nella
parte di un Cristo con qualche chilo di troppo. Ma in fondo,
come si evince da una battuta del film, “anche Cristo adesso
sarebbe stato grasso”.
Il rischio di approcciarsi a una storia del genere, all’eterna conflittualità tra uomo e fede, era quello di scadere nella banalità.
Ma Mazzacurati l’ha saputo evitare, regalando più di una risata
agli spettatori e riuscendo a delineare la realtà quotidiana, con
tutti i suoi problemi, con semplicità, senza retorica. Da non
trascurare, infine, un altro aspetto: che il film, cioè, riesce sì
a far ridere ma senza cadere sulla volgarità. E il pubblico ha
dimostrato di apprezzare con un lungo e scrosciante applauso
alla fine della proiezione.
Scenografia caratteristica, molto curata e mai eccessiva che
ci aiuta a entrare nel contesto e nel profondo del film. La pellicola non delude insomma le aspettative del pubblico.
Alice Coiro e Ilaria Caterini
07
SET
Recensioni
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10
Promises Written in Water
Sinossi
di Vincent Gallo - USA, 75’ - con Vincent Gallo, Delfine Bafort, Sage Stallone, Lisa Love
Una bella ragazza sciupauomini viene colpita da una
malattia incurabile e affida la sua ultima volontà ad un
fotografo. Nessun dolore e le sue ceneri in acqua: potrà
accontentarla solo il protagonista, interpretato dallo stesso
regista Vincent Gallo, che cercherà lavoro in un’impresa
di pompe funebri per potersene occupare di persona.
Commento
Vincent Gallo ritorna dietro la camera da presa e se la
fissa sul volto. Protagonista assoluto dei suoi lavori,
anche nella pellicola in bianco e nero sbarcata al Lido si
compiace tanto di quello sguardo su di sé che solo lui sa
regalarsi. Stavolta veste i panni di un personaggio a metà
strada tra la simpatia e l’autoproclamazione, al suo fianco
una coprotagonista che è motivo della storia. Nel mezzo
c’è un rapporto umano - fatto di scambio di battute ripetute
fino all’esasperazione - che avrà fine solo con la morte di
lei. Non è amore, né amicizia. Un’attrazione (fisica?) che
li avvicina e li stringe in promesse, caratteri che li allontanano. Timido e insicuro lui, sfrontata e di poche parole lei.
Meno sorprendente delle precedenti pellicole da lui dirette
e interpretate, meno geniale di “Buffalo 66” e lontano dallo
scandalo di quel poco conosciuto “The Brown Bunny”,
“Promises Written in Water” non sconterà le solite critiche.
Un’opera vittima della sfrontatezza del regista – vanitoso
sul lavoro come pochi altri - che è al tempo stesso sceneggiatore, produttore e autore delle musiche. Riuscendo
sempre bene, direbbero gli affezionati che riconoscono il
marchio di fabbrica. Il risultato momentaneo vede poco
contenta la stampa e tanto curioso il pubblico. Ora tocca
alla Giuria.
Micaela De Bernardo
I’m Still Here
Sinossi
di Casey Affleck - USA, 108’ con Joaquin Phoenix
A partire dall’autunno del 2008 l’attore Joaquin Phoenix viene
“pedinato” con la macchina da presa dal cognato Casey
Affleck che ne segue la discesa verso l’abisso dopo la sua
dichiarazione di voler chiudere con la carriera cinematografica. Phoenix, le cui fattezze appaiono quasi irriconoscibili a
causa di un gran barbone e di una capigliatura leonina, ci
viene mostrato nel suo processo di reinvenzione di se stesso
e nel suo progressivo avvicinarsi al mondo dell’ hip hop. Il suo
tentativo di lavorare ad un disco con P. Diddy diviene sempre
di più un’utopia e il suo atteggiamento scontroso e burbero
nei confronti di colleghi e giornalisti lo rendono oggetto di
pubblico scherno e di pettegolezzi.
Commento
Un bambino si tuffa in acqua circondato da un verde fogliame
sotto lo sguardo del padre. Così inizia l’opera di Casey Affleck
che fino all’ultimo lascia lo spettatore nel dubbio: si tratta di
verità o di finzione, di film o di documentario? Vedere una
grande promessa del cinema contemporaneo due volte candidato agli Oscar “spogliarsi” metaforicamente e letteralmente
davanti alla macchina da presa lascia talmente sbigottito lo
spettatore che quest’ultimo non riesce o non vuole credere
che quell’individuo con il panzone sia il Commodo de “Il gla-
diatore”. Credere o non credere, questo è il problema. Ma,
proseguendo con le citazioni, l’essenziale è invisibile agli
occhi. Affleck ci mostra che Phoenix “è ancora qui” ma dove
sia il qui è compito dello spettatore scoprirlo. Forse è semplicemente lì dove l’abbiamo lasciato all’inizio del film. Lui,
che per un periodo si è fatto chiamare Leaf (foglia), ritorna a
immergersi nel fiume (River, come il fratello morto di overdose
nel 1993 a soli 23 anni), vagando alla ricerca di una nuova
identità o di un nuovo senso.
Roberta Carbone
07
SET
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11
Un po’ di corti...
Uno sguardo ad alcuni dei film brevi che popolano il Lido
En quittant la salle Perla
aujourd’hui
je
n’avais
qu’une question qui me
passait par la tête pourquoi
j’ai pas pu garder mes
yeux ouvertes pendant la
projection?
et la seule reponse qui me
senblait logique était le
contenu des courts ...
A part le premier film “720
Degrees” de Ishtiaque
Zico, que j’ai personnellement apprécié et
pendant lequel le realisateur a evoque en cinq
minutes et grace a deux
tours de camera de « 360
degrees » les problèmes
majeurs de l’humanité
ainsi que sa vision pessimiste du monde , il
m’etait vraiment difficile
de comprendre les intensions des realisateurs
des autres films: “indefatigeable”,” how to pick
berries”, “o mondo e belo”
et “cold clay,emptiness”,
voir impossible pour le
dernier court “voodushevlenie” qui devait, selon
le synopsis ,brosser le
theme du desepoir humain
a travers une observation
angoissante de la nature,
C’est alors la faute à qui?
D’une
audience
peu
cultivée
incapable
de
déchiffrer les codes choisit
par les realisateurs, de
voir au dela de l’ordinaire
et de passer au niveau 1
de conprehension tout en
considerant le niveau 0
primaire de base? ou celle
des realisateurs incapables de s’exprimer et de
bien transmettre leurs
idées et intentions ...
je tiens donc a dire que
pour cette categorie de
films dites “d’horizon ”on
ne peut pas parler d’une
audience ordinaire mais
plutôt d’un groupe d’élites
qui se spécialise au monde
de cinema et du coup
qui maitrise le langage
cinématographique
c’est a vous alors chers
lecteurs de faire la conclusion ...
Selma Ben Mimoun
Lasciando la sala Perla
oggi mi sono posta una
domanda:
perché
non
riuscivo a tenere gli occhi
aperti durante la proiezione?
E l’unica risposta che mi è
sembrata logica è stata: il
contenuto dei corti ...a parte il
primo, “720 Degrees” di Ishtiaque Zico, che ho apprezzato
e in cui il regista ha evocato,
in cinque minuti, grazie alla
camera a 360 gradi a due torri,
i grandi problemi dell’umanità
e la sua visione pessimistica
del mondo.
È stato veramente difficile
comprendere le intenzioni dei
registi degli altri film: “Indefatigeable”, “How to pick berries”,
“O mondo e belo” e “Cold
Clay, Emptiness...”. Impossibile da vedere l’ultimo corto
“Voodushevlenie” che doveva,
secondo la sinossi, trattare
il tema della disperazione
umana attraverso l’osservazioneangosciantedellanatura.
Allora di chi è la colpa?
Di un pubblico poco colto,
incapace di decifrare i codici
scelti dai registi, di vedere
oltre l’ordinario e passare al
livello 1 di comprensione,
tenendo conto del livello di
base primario 0?
O dei registi incapaci di esprimersi e di trasmettere bene le
loro idee ed intenzioni...
Ci tengo quindi a dire che
questa categoria di film
chiamata “Orizzonti” non si
può presentare ad un pubblico
ordinario, ma piuttosto ad un
gruppo d’elite specializzato
nel cinema mondiale e con
la padronanza del linguaggio
cinematografico. A voi allora
cari lettori le conclusioni...
JJ Natural Born Killers
Il crudele destino ha zittito la sveglia per l’odiato ma
unico spettacolo delle 8emezza, concesso a noi
miseri accreditati verdi. La nostra giornata al Lido ha
dunque inizio con l’ormai tradizionale coda del Palabiennale, senza neanche la soddisfazione di aver visto
“Somewhere”.
I film della mostra ci appaiono per ora girati con
maestria, ma piuttosto poveri in sceneggiatura. Dopo
il sangue di “Machete” i vari accreditati, noi compresi,
finiscono per ronfare, distrutti dalle code chilometriche,
dai silenzi giapponesi e il solito autocompiacimento
autoriale francese.
Ciò nonostante entriamo convinti alla prima di “Silent
souls”, film dalla fotografia piacevole che, a differenza
di altri, ci sembra dotato di una lentezza “leggera” e
giustificata dalla solidità della trama.
Un scroscio interminabile di applausi invade inaspettatamente la Sala Grande e permette il nostro solito
imbarazzante confronto con il glitterato mondo VIP.
Elfman è seduto di fronte a noi e si imbarazza alla
nostra richiesta di foto ricordo (forse perché indossa
un cappello con visiera verde decisamente poco da
gala); Salvatores si volta invitandoci cordialmente a
sedere in prima fila onde evitare le nostre ginocchia
nella schiena: nel farlo ci scopre in preda a un attacco
di narcolessia post-feste.
L’unico membro della giuria a creare un vera e propria
rissa è Tarantino, siamo organizzatissimi per battere la
concorrenza pulp-fanatica prima dell’arrivo del bodyguard. Questa volta ce l’abbiamo fatta, siamo i primi
per l’agognato autografo. Al contrario del nostro primo
incontro abbiamo l’audacia di fare una battuta sull’eleganza del nostro foglio da autografare che lo ritrae in
una posa secsi.” Visto che stile, Mr Tarantino?”. Ci
asseconda, prende il pennarello e scoppia a ridere. “ Il
pennarello scarico vi ha rovinato lo stile”.
N.B. Dobbiamo ancora perfezionare la tecnica di
approccio a Mr Kill Bill.
JJ Programmazione accrediti cinema del 06/09/2010
Sala Grande
11.00
14.30
16.45
22.30
Achille di Giorgia Farina
Into paradiso di Paola Randi
Přežít svůj život (Surviving Life) di Jan Švankmajer
Promises Written In Water di Vincent Gallo
Balada triste de trompeta di Álex de la Iglesia
Sala Darsena
17.00
Oča (Dad) di Vlado Škafar
21.30
John’s Gone di Josh & Benny Safdie
19.00
Notre étrangère di Sarah Bouyain
Ritorna l’eterna lotta tra il bene ed il male, il
giusto e lo sbagliato, l’etico e l’aberrante, il
dolce ed il salato, le lasagne ed i cannelloni.
Torna l’attimo epico che illumina il momento
della ricerca. Perchè questa é in realtá la lotta,
nient’altro che la ricerca del nemico. La sua
ombra si delinea tra l’ignoto, il non detto, negli
spazi lasciati dall’epico alla banalitá.
Dunque partiamo per la questa.
Quale la nostra nemesi da sconfiggere
quest’anno dopo la retromarcia? La prima forse?
O il Folle? Retorica sembrerebbe l’ennesimo
elogio della follia e pertanto altrettanto retorico
la sua erezione a nemico per antonomasia.
Altri lidi dobbiamo guardare, forse perché questo
Lido non ci basta piú.
La precisione forse? L’ordine? La necessita’? La
stanchezza? L’obbligo?
Di sicuro se le stampanti funzionassero al primo
colpo sarebbe meglio.
Tsumetai nettaigyo di Sion Sono
Diego K. Pierini
Sala Perla
14.30
Ama i grattini
Paola Altomonte
Raavan di Mani Ratnam
17.15
Chi di (Red Earth) di Clara Law
00.30
I Crudeli diSergio Corbucci
Per questi stretti morire (cartografia di una passione) di Giuseppe Gaudino e Isabella Sandri
Bofrost
Stefano Cannillo
Non ha visto i’UFI
Sala Volpi
13.15
15.00
Massimiliano Monti
Chicco di caffè
Svinalängorna (Beyond) di Pernilla August
Mary Calvi
Woman I di Nuntanat Duangtisarn
‘Meri ‘Ca
Verano de Goliat di Nicolás Pereda
17.15
20.00
22.00
Cinque ore in contanti di Mario Zampi
La manina di Fatma (ep. di Cuori infranti) di Vittorio Caprioli
Elisabetta Ferrando
Dovere Morale, Civile, Culturale
L’onorata società diRiccardo Pazzaglia
In redazione:
The happy poet di Paul Gordon
Silvia De Marchi
Sala Pasinetti
13.00
I’m still here di Casey Affleck
15.30
720 Degrees di Ishtiaque Zico, Indefatigable di Semiconductor, Miten marjoja poimitaan
(How To Pick Berries) di Elina Talvensaari, O mundo è belo di Luiz Pretti, Cold Clay, Emptiness... di SJ. Ramir, Voodushvlenie (Inspiration) di Galina Myznikova/Sergey Provorov
17.30
Diane Wellington di Arnaud des Pallières
Xifang qu ci bu yuan (Reconstructing Faith) di Wen Hai (Huang Wenhai)
19.30
Painès de São Vicente de Fora, Visão Poètica diManoel De Oliveira
Micaela De Bernardo
Andrea Socrate Falconi
Micaela De Bernardo
Flavio Nuccitelli
Paola Tarasco
Valerio Montemurro
Ferdinando Schiavone
Valentina Alfonsi
Frabio Cacatini
Alice Coiro e Ilaria Caterini
Roberta Carbone
Nainsukh diAmit Dutta
Selma Ben Mimoun
PalaBiennale
08.30
11.00
13.15
15.15
Vallanzasca - gli angeli del male di Michele Placido
Film a sorpresa
Essential Killing di Jerzy Skolimowski
Raavanan di Mani Ratnam
18.00
Achille diGiorgia Farina
20.30
Noi credevamo di Mario Martone
Into paradiso diPaola Rondi
Balada triste de Trompeta di Álex de la Iglesia
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