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8 - Evasione
Fuori dalle finestre della torre, nuvole plumbee si ammassavano sulla
piana verso nord, ed il vento che le spingeva sibilava gelido attraverso le
ampie bifore. Lo stesso vento sibilava tra il sartiame delle navi ammassate nel porto di Marenburg, la mattina successiva all’incontro con lo Skaven e il pallido Elfo Oscuro.
I dodici giorni successivi erano stati, per Ulf, qualcosa di molto simile
ad un incubo.
Ulf aveva passato quella notte nella camera dell’Elfo, assieme al cadavere del suo primo ufficiale. Inutile dire che non aveva dormito granché. Una mano burbera l’aveva scosso violentemente, richiamandolo da
un dormiveglia agitato, costringendolo ad alzarsi. Si era trovato di fronte
l’Elfo e tre suoi compagni, tutti armati di balestre e pronti a far fuoco
con dei quadrelli dalle punte barbute e dall’aspetto sgradevolmente mortale. Senza tanti complimenti, Ulf era stato trascinato fuori dalla locanda
e condotto attraverso i vicoli del porto, fino ai moli. Se non altro, non aveva dovuto pagare per il pasto e l’alloggio. Senza toccarlo, sfruttando il
potere di persuasione fornito dalle balestre incoccate, i tre soldati lo avevano spinto sulla stretta passerella, imbarcandolo sulla “Nemesi”.
Prima dell’alba, la lunga, affusolata nave spinta da una apparentemente infinita serie di remi aveva lasciato il porto di Marienburg, fendendo la bruma dell’inverno diretta a nord.
Si trattava di una galea da crociera, adatta al trasporto di persone,
dotata di una bassa murata centrale e due castelli più alti a prua e a poppa. Nel primo trovavano posto gli alloggi del capitano e degli ufficiali,
mentre nel secondo, molto più grande, dormivano i timonieri, i soldati di
scorta e il sacerdote. Qui trovava anche posto il tempio dedicato alle mostruose divinità degli Elfi Oscuri, dove venivano officiati i sacrifici rituali e
la gabbia che ne conteneva le vittime.
I rematori erano tutti schiavi privi di occhi e lingua. Vivevano incatenati uno all’altro per le caviglie e la loro unica funzione era manovrare i
lunghi remi dipinti di nero per quattro ore ogni otto, al ritmo incessantemente scandito da un enorme tamburo. Ogni ora, un corno lanciava il suo
lugubre richiamo per segnalare ad un ordine di rematori che era ora di
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cambiare turno. Ordinatamente, i rematori sollevavano i remi e si alzavano dai loro seggiolini. Come un sol uomo, trascinando sull’impiantito le
catene che univano le loro caviglie, si dirigevano verso poppa e scomparivano nel sottoponte, mentre la squadra di rimpiazzo emergeva dal lato di
prora, andando ad occupare i seggiolini lasciati liberi. Durante
l’operazione, che non durava che pochi minuti, l’ordine di remi simmetrico dal lato opposto smetteva di remare per non sbilanciare la spinta, per
riprendere non appena la muta aveva preso il suo posto e afferrato i remi.
Gli schiavi che non remavano rimanevano nel sottoponte: ricevevano una
razione di cibo e potevano dormire, distendendosi sulle assi delle murate
stesse. C’erano due ordini di venti remi per lato. Ad ogni momento gli ottanta rematori erano in grado di spingere la snella nave ad una velocità
straordinaria. Non era nemmeno necessario l’uso di una vela: grazie alla
sua forma e alla potenza dei rematori la nave procedeva spesso più veloce del teso vento del nord.
I rematori erano tutti schiavi, la maggior parte umani di Norsca o del
Kislev dalla corporatura enorme e dai muscoli possenti. Nonostante avessero l’aspetto di creature indistruttibili, i turni di vogata massacranti cui
erano sottoposti e le temperature glaciali a cui dovevano sottostare coperti unicamente da pochi stracci bisunti erano a volte in grado di fiaccarne la resistenza. Quando uno schiavo crollava, al remo o sul ponte, lui
ed il suo omologo sull’altro lato (per non sbilanciare la vogata) venivano
sganciati dalla catena, sacrificati agli dei e poi gettati in pasto ai pesci.
Ulf condivideva il sottoponte con i rematori, senza disporre né di una
coperta, né di altro riparo se non quello offerto dalle murate. Dal momento che nessuno, su una nave come quella, poteva stare senza fare
nulla, gli era stato dato un secchio ed il compito di sgottare l’acqua che
le ondate riversavano occasionalmente oltre le murate. Grazie a Sigmar,
nonostante l’altezza relativamente limitata sul pelo dell’acqua della sezione centrale, l’acqua che vi filtrava all’interno era sorprendentemente
poca, e tutto sommato il suo compito non era troppo gravoso. Inoltre, la
protezione particolare del capitano lo risparmiava dalle frequenti frustate
cui erano sottoposti, spesso senza apparenti motivi, tutti gli altri schiavi a
bordo della nave.
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Il capitano era il medesimo Elfo Oscuro che si era seduto al suo tavolo
la sera prima. Il suo nome era Egon Bloodthorne. «Sei anche tu uno schiavo, ora» gli aveva detto non appena aveva messo piede sul ponte. «Un
mio schiavo. Questo ti rende un uomo fortunato». Poi gli aveva indicato il
secchio e la botola del sottoponte. In quel momento, Ulf Werner non si
sentiva poi così fortunato, ma presto avrebbe imparato quanto lo fosse
veramente.
Oltre ai rematori e alle vittime, i livelli più bassi della schiavitù a
bordo, c’erano diversi altri schiavi, con i compiti più vari. Si andava dagli
sguatteri di cucina ai mozzi di ponte, alle vedette; alcuni di essi erano
poco più che bambini, e non c’era distinzione di compiti e fatica tra maschi e femmine. Tutte le operazioni di maggiore responsabilità erano svolte da Elfi Oscuri, e ciascuno di essi aveva almeno uno o due schiavi sotto
di sé, da comandare a bacchetta e punire frequentemente per ogni piccola mancanza. In ogni momento c’era sempre almeno uno schiavo legato
alla tavola della corda, e almeno un altro era impegnato ad infliggergli le
prescritte scudisciate. Gli Oscuri raramente si macchiavano le mani con il
sangue degli schiavi, a meno che non stessero infliggendo punizioni esemplari, nel qual caso vi si dedicavano con macabro gusto, praticando mutilazioni e torture con visibile soddisfazione.
Alcuni tra gli Oscuri erano più crudeli di altri, e i loro schiavi subivano
punizioni con frequenza variabile, così dopo appena un paio di giorni Ulf
aveva capito appieno il significato delle parole di Egon. Il fatto di essere
suo schiavo impediva agli altri Elfi di avere potere su di lui, e quindi di
comandarlo e punirlo. Dal canto suo, il Capitano si faceva vedere raramente sul ponte e non veniva mai a cercarlo, così, al di là del disagio della sua sistemazione, la sua vita procedeva più o meno tranquilla.
Il viaggio durò forse una settimana, forse dieci giorni: Ulf perse quasi
subito il conto. Sistemato com’era insieme ai rematori, ne condivideva gli
orari, mangiando e dormendo quando anche essi lo facevano, e
nell’intervallo tra un turno e l’altro svuotava secchi di acqua di mare giù
dalle murate. Spesso si addormentava sul posto, crollando a terra di
schianto: in questo modo si era procurato diversi lividi su tutto il corpo, e
forse anche una frattura. La vita attiva e il sostanzioso cibo dei rematori,
però, avevano avuto effetti benefici sul suo corpo, e sentiva, giorno dopo
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giorno si stare assumendo una forma fisica mai posseduta prima, dopo anni e anni di studio seduto alla scrivania, nella sua stanza nella torre di
Thom Grünegras.
A volte, la sua vita precedente gli sembrava talmente lontana da fargli dubitare che fosse mai esistita. Già dopo pochi giorni si era convinto
che l’intera sua vita non fosse fatta d’altro che di un secchio, dell’acqua
del mare e dell’odore del suo corpo. Non c’era acqua per lavarsi, a bordo,
se non per gli ufficiali, e tutti quanti puzzavano in modo indescrivibile di
sudore e escrementi. Il tessuto degli abiti, esposto costantemente al salmastro e alla fatica, presto iniziò a corrodersi e disfarsi, producendo irritazioni e vere e proprie vesciche dove sfregava più insistentemente contro la pelle. Dopo pochi giorni, quindi, Ulf aveva scelto di disfarsi di ogni
indumento e aveva finito per svolgere i suoi compiti nudo e sporco come
gli altri schiavi, come loro sorprendentemente insensibile al freddo e alla
fatica.
Una mattina, dalla bruma e dall’orizzonte era emersa una scura linea
costiera. Egon era venuto da lui e gli aveva intimato di seguirlo. «Dovrai
essere marchiato. Se non lo sarai, quando scenderai a terra chiunque potrà reclamare la tua proprietà od ucciderti a vista. Se lo sarai, sarai mio
schiavo finché non deciderò di liberarti».
Ulf, rassegnato ai limiti dell’atarassia, lo seguì senza protestare.
Niente di ciò che poteva succedergli, credeva, sarebbe potuto essere
peggio di ciò che stava vivendo. Si sbagliava, ma non di molto.
Egon lo aveva condotto nel tempio. Si trattava di una stanza piuttosto
piccola, occupata per la maggior parte da un altare in legno sovrastato da
una grande statua raffigurante i quattro mostruosi dei del Caos. Ai lati
dell’altare, due alti incensieri spargevano un fumo maleodorante, e un
odore ancor più nauseante avvolgeva l’altare stesso, ricoperto da una
spessa crosta di resti umani in svariati gradi di putrefazione.
Il sacerdote li aveva accolti in piedi accanto ad un braciere dal quale
spuntava l’asta di un marchio da bestiame, tuffato ad arroventarsi in
mezzo a un cumulo di carbone acceso. Il calore emanato dal braciere lo
colpì come una mazzata, dopo il gelo dei giorni e delle notti del nord. Ulf
si sentiva svenire, ma si impose di resistere. Non era diventato più coraggioso, in quei giorni, ma pareva aver sviluppato una sorta di immunità al
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terrore, dopo averne visto in quantità mostruose sparso tutto attorno a
lui.
Egon si era fermato accanto al braciere e, con modi bruschi, aveva
costretto Ulf ad avvicinarsi; poi aveva sferrato un calcio dietro alle sue
ginocchia per farlo inginocchiare, afferrando contemporaneamente i suoi
capelli per rovesciarne la testa all’indietro, esponendo il petto.
Il sacerdote aveva estratto il marchio dal braciere e, con un movimento rapidissimo, prima che Ulf potesse reagire, glielo aveva premuto
con forza sui muscoli del torace. In quel momento, quasi senza gridare,
Ulf era svenuto.
Quando si era svegliato, era disteso sul ponte davanti alla porta del
tempio. Attorno a lui cadeva un leggero nevischio, mentre la nave filava
sempre più vicina alla costa. La ferita gli era stata ricoperta con un unguento dall’odore orribile, ma che in qualche modo era in grado di lenire
il dolore che avrebbe dovuto procurargli. In effetti, non sentiva alcun dolore, a patto di non sforzare più di tanto i muscoli del torace.
Dietro alle sue spalle, dalla porta chiusa del tempio gli giungevano
delle urla strozzate: la vittima sacrificale era già distesa sull’altare, e il
sacrificio propiziatorio per un buon attracco era già in corso.
Con una specie di sorriso ebete stampato sul volto, Ulf si era chinato
a raccogliere il suo secchio ed era tornato a sgottare acqua, mentre il
vento del nord scavava la sua pelle nuda con cristalli di ghiaccio duri come diamanti.
Solo quando il respiro ebbe ripreso un ritmo normale, Ulf si decise ad
alzarsi per lasciare la stanza della torre e tornare al suo alloggio nei sotterranei.
Aveva una pessima sensazione, e negli ultimi mesi aveva imparato a
dar retta alle sue sensazioni, fin dal giorno in cui si era trovato invischiato
in quell’affare. Il modo con cui Elanna aveva trattato Egon la diceva lunga
sulle sue intenzioni, e non prometteva proprio niente di buono. Egon
l’aveva più o meno protetto, finora, trattandolo molto meglio di quanto il
suo stato di schiavo avrebbe permesso, e una eventuale caduta del suo
padrone si sarebbe ripercossa negativamente anche sulla sua posizione.
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Ora, vedeva concretamente uno spiraglio aprirsi davanti a lui, la seppur remota immagine di una via d’uscita, di un modo per lasciare quel
paese di pazzi e tornare a vivere in un luogo civile, ma era probabilmente
l’ultima occasione.
Senza Egon, la proprietà della sua persona sarebbe andata allo stadio,
forse a quello psicopatico di Titus il Portinaio, e sarebbe stata la fine.
Quell’uomo incarnava l’essenza stessa della cattiveria, ed i suoi schiavi
raramente campavano a lungo. Inoltre, ai più giovani riservava spesso attenzioni morbose, e anche se Ulf non poteva definirsi giovane, in confronto a Titus non era molto più di un bambino.
Si alzò lentamente, cercando di non fare rumore. Normalmente, aveva la possibilità di muoversi più o meno liberamente all’interno dello stadio, ma sentiva di dover attirare il meno possibile l’attenzione su di sé.
La lunga veste scura con cappuccio che Egon gli aveva fornito lo riparava
dagli spifferi e aiutava a nascondersi, ma era larga ed ingombrante, ed
impacciava i movimenti, per cui se la sfilò, piegandola ordinatamente.
Sotto, indossava dei comuni stracci da schiavo, luridi brandelli di stoffa a
malapena utili per preservare la pudicizia, ma che, rendendolo simile alle
migliaia di altri schiavi che popolavano la città, lo avrebbero nascosto
forse meglio di un mantello d’invisibilità. Non dare nell’occhio e obbedire, questo era il segreto per sopravvivere.
Per migliorare il suo aspetto si tracciò chiazze scure sulla pelle con la
cenere ormai spenta del camino, sperando che somigliassero a lividi ad un
esame superficiale, e resistette alla tentazione di sbattere la faccia contro il muro per procurarsene uno vero.
Infine, stringendosi al petto la veste piegata si avviò, claudicando per
i corridoi. Doveva muoversi svelto, anche per dare l’impressione di essere
molto indaffarato, ma non troppo, per non attirare su di sé un’attenzione
eccessiva. Fortunatamente, la sera era già inoltrata, e c’era poca gente
per i corridoi.
Incrociò due cadetti, che si dirigevano forse alla palestra con indosso
solo un perizoma di stoffa, i muscoli lucidi cosparsi di olio di canfora. Girò
loro al largo, prostrandosi profondamente ma senza fermarsi e senza mai
rivolgere loro le spalle. Li guardò allontanarsi scambiandosi frasi licenzio-
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se e accenni di lotta, ma si decise a muoversi solo quando ebbero svoltato
un angolo, scomparendo alla vista.
Il sotterraneo dello stadio era un labirinto di corridoi e stanze, per lo
più deserte, popolate da ratti, ragni ed insetti striscianti cui era meglio
fare in fretta l’abitudine. Ulf abbandonò il corridoio principale per infilarsi in un passaggio stretto e buio, ma più sicuro, e in breve fu davanti alla
soglia del suo alloggio.
Come ogni alloggio da schiavi, la sua stanza non era che un cubicolo
privo di porta e di finestre, occupato da due tavolacci appesi alla parete
da catene e da un orinale in un angolo. In pratica, non era niente di più di
una cella senza sbarre. Non c’era bisogno di sbarre: uno schiavo non poteva muoversi liberamente nelle vie della città senza essere in compagnia
del proprio padrone, o di uno speciale salvacondotto. In mancanza di ciò,
poteva essere ucciso da chiunque. Una legge del genere era sufficiente
per smorzare qualsiasi velleità di fuga. All’interno dell’edificio in cui prestavano servizio, gli schiavi potevano muoversi liberamente, ma non potevano mettere piede fuori di esso. Alle volte, la fuga era l’unica risorsa
dei disperati, un modo per mettere fine rapidamente alle sofferenze della
prigionia. Le probabilità di farcela erano praticamente nulle, ma Ulf in
quel momento era troppo vicino alla disperazione per preferire la vita attuale ai rischi della fuga.
Ulf divideva il cubicolo con un’altra schiava, una giovane norsmanna,
poco più che una bambina ma già schiava da molti anni, chiamata Gitta.
Gli aveva raccontato di essere stata rapita piccolissima dal suo villaggio
sulle coste settentrionali di Norsca, e di non ricordare quasi nulla della
sua vita precedente; non sapeva nemmeno se il nome che portava fosse
effettivamente suo, o se le fosse stato dato dai suoi padroni, o da qualche
altro schiavo. Lavorava in infermeria, ma questo non le aveva risparmiato
dolori e sofferenze: sulla schiena spiccavano chiare le tracce di numerose
frustate, e le braccia e le gambe erano cosparse delle cicatrici dei tagli
che i medici le praticavano per farle poi fare pratica con le suture: quale
miglior modo per imparare a cucire le ferite che lavorare sulla propria
stessa pelle?
La ragazza dormiva, approfittando di un breve momento di calma, ma
si svegliò immediatamente quando Ulf entrò nella stanza: gli schiavi im-
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paravano presto ad essere sempre disponibili per i loro padroni. «Sei tu?»
domandò stropicciandosi gli occhi.
Ulf avrebbe preferito non si fosse svegliata. Col tempo, si era affezionato a quella ragazzina semplice e triste, e non avrebbe voluto coinvolgerla in quell’impresa. Doveva però recuperare quelle poche cose che aveva conservato e nascosto, quegli oggetti che erano serviti a mantenere
la sua mente a contatto con la realtà, a ricordargli l’esistenza di una vita
vera, viva fuori da quel buco di schiavi: la sua pipa, la borsa del tabacco
ormai vuota, il suo medaglione. Tutto il resto era stato gettato via quando ancora si trovava sulla nave, la prima volta che si era reso conto che,
forse, non sarebbe mai più tornato indietro.
«Si, sono io. Dormi pure». Ulf rispose in un sussurro.
«Non importa, ormai sono sveglia». Gitta si levò a sedere, sistemandosi l’abito lacero sui piccoli seni con naturalezza. Ulf distolse meccanicamente lo sguardo, pur sapendo che per la ragazza ciò non aveva nessuna importanza. Gli Elfi Oscuri non possedevano alcun senso del pudore, e
spesso gli abiti degli schiavi non disponevano di sufficiente stoffa per poter nascondere efficacemente le nudità, quindi tra di loro non si ponevano nessun problema in tal senso.
Fin da quando si trovava sulla nave, Ulf si era domandato come potessero gli schiavi sopportare le rigide temperature del clima nordico pur
senza essere adeguatamente vestiti. Dopo un paio di giorni, però, si era
reso conto di essere in grado lui stesso di non avvertire il freddo, nemmeno la notte, e di essere in grado di reggere senza grossi problemi il proprio lavoro. Gitta le aveva poi rivelato che i pasti degli schiavi erano mescolati con una potente droga ricavata dall’olio di un pesce, che accelerava il metabolismo e riduceva la sensibilità al freddo, alla fatica e al dolore. «L’ho imparato lavorando in cucina» aveva detto. «Non so di che pesce si tratti, ma credo sia molto comune, qui nel nord». Ulf si stupì, ma
poi si rese conto che, nell’economia della società degli Oscuri gli schiavi
erano importanti come, se non più dei cittadini, e dovevano essere mantenuti in efficienza con ogni mezzo possibile.
Ulf infilò le dita tra le piastrelle del pavimento, cercando di sollevare
quella che proteggeva il suo nascondiglio senza fare rumore.
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«Che fai?». Gitta le si era avvicinata, silenziosa sui piedi scalzi. Parlava in un sussurro, e la sua voce era dolce e morbida. Non poteva avere più
di sedici anni, ed aveva un viso grazioso, a dispetto dei capelli chiari tagliati cortissimi che non contribuivano ad ingentilirne l’aspetto.
Ulf si voltò verso di lei. Nel guardare nei suoi occhi grigi come il cielo
d’inverno, Ulf sentì una stretta al cuore. Sentì il desiderio di prenderle le
mani, di baciarla teneramente, di rivelarle il suo piani di fuga e di chiederle di venire con lui. Resistette ad ogni tentazione e, con gli occhi che
bruciavano per le lacrime, distolse lo sguardo e riprese a armeggiare con
la piastrella.
Lei gli sfiorò una spalla e lui sussultò. La piastrella quasi sollevata gli
sfuggì dalle dita e cadde con un tonfo leggero, che però echeggiò nel silenzio come uno scoppio d’archibugio.
Lui si voltò ancora, e non riuscì più a trattenersi. Le lacrime solcavano le sue guance, lavando le tracce di cenere e producendo bianche striature. «Devo andarmene, Gitta» mormorò. Le labbra tremavano, e quasi
non riusciva ad articolare le parole. «È stasera o mai più».
Lei lo guardò incuriosita, cingendole le spalle con un braccio sottile.
«Sei impazzito?» il tono era solo leggermente sorpreso.
«No, Gitta. Egon ha fallito, e Elanna lo ha destituito. Tornerà
all’arena, e io verrò affidato allo stadio. Egon era l’unico che avrebbe potuto farmi tornare indietro, ed ora non ha più alcun potere».
«E allora?»
«Scappo, Gitta. Non ho altre possibilità. Prima che Titus lo sappia,
prima che chiunque se ne accorga».
«Non hai possibilità, Ulf, lo sai. Fuori di qui sei morto».
«Sono ancora un mago, Gitta. Forse potrei uscire senza far scattare
gli allarmi, e raggiungere il porto prima dell’alba».
«Le guardie ti prenderanno, Ulf. Hai il marchio di Egon, lo conoscono
tutti».
Le obiezioni di Gitta non ebbero altro risultato che rinforzare la sua
determinazione. «Questa sera, Gitta, o mai più. Lo capisci?»
Fu lei, questa volta, a distogliere lo sguardo. Le mani sulle spalle di
Ulf tremavano leggermente. Mentre la piastrella scivolava fuori dalla sua
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sede, Ulf sentì la ragazza tirare su col naso, poi la stretta sulle sue spalle
acquistò forza costringendolo a voltarsi.
Gli occhi di Gitta erano pieni di lacrime, la voce rauca. «Portami con
te, Ulf. Portami via di qui».
Freddamente, solo per un attimo Ulf valutò le implicazioni della presenza di Gitta: sarebbe stato più difficile nascondersi, per due persone, e
a nascondere la loro fuga dallo stadio, e infine si sarebbero mossi più lentamente. In una parola, sarebbero probabilmente morti entrambi. Lui ricambiò lo sguardo sperando di sembrare più sicuro di quanto non fosse.
«Ce ne andremo insieme» promise, «Oppure moriremo insieme».
Lei, spinta da un impulso quasi incontrollabile, lo abbracciò, aggrappandosi a lui come un’ancora di salvezza nella tempesta. Era cresciuta
schiava, aveva lottato ogni giorno contro la paura, il dolore, la vergogna
solo per restare viva, convinta di non avere nessuna possibilità. Aveva finito per convincersi che quella era la migliore vita possibile, e che la sua
vita sarebbe finita, presto o tardi, come quella di tutti gli schiavi, quando
la stanchezza o la distrazione le avrebbero fatto commettere un errore
grave, o quando la sua gioventù non sarebbe più stata sufficiente per garantirsi il favore di Titus. Ulf non sapeva nulla di ciò che accadeva nella
stanza, su quelle assi lisciate da secoli e secoli di sonno di schiavi, quando
lui non era presente, quando Titus veniva a trovarla e le imponeva le sue
punizioni. Le cicatrici che le lasciava non erano meno profonde o meno
dolorose delle altre, ma non erano visibili, e Ulf non ne sapeva nulla. Si
domandò se sarebbe stata in grado di mantenere il segreto ancora a lungo.
Ulf infilò le sue poche cose nella borsa del tabacco, passandosi poi il
lungo laccio attorno al collo. «Dobbiamo procurarci dei vestiti» disse.
«Non possiamo uscire così. Dovremo sembrare dei cittadini. Poi, credo
stia nevicando, il cielo era di piombo, oggi pomeriggio. Avremo bisogno di
scarpe».
Gitta non vedeva quasi mai il cielo. Sentiva di doversi affidare totalmente all’iniziativa di Ulf, sapendo che nulla avrebbe potuto cambiare la
sentenza finale, se fossero stati scoperti. «Dove pensi di procurarteli?»
domandò.
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«Nello spogliatoio dei cadetti. Ho visto due di loro andare in palestra,
poco fa. Avremo tempo per rubare loro gli abiti, prima che tornino».
Gitta si muoveva a stento. La paura artigliava le sue gambe, scuotendo i muscoli con un tremito incontrollabile. Dovette aggrapparsi a lui per
alzarsi in piedi. Pregò che Titus non avesse intenzione di venirla a cercare
nelle prossime ore, che stesse dormendo o si stesse sollazzando con qualcuna delle schiave più giovani. Sentì la mano di Ulf stringersi attorno alla
sua, calda e rassicurante. Gitta non aveva mai visto Ulf così determinato.
Poi lui, inaspettatamente, le sfiorò le labbra con un bacio. «Andrà tutto
bene, vedrai» le disse carezzandole la guancia. «Tra poco saremo fuori di
qui».
Lei annuì e accennò un sorriso, poi lo seguì avviandosi verso il corridoio.
Lo spogliatoio dei cadetti non era lontano, e i corridoi erano silenziosi
e bui. I passi dei due fuggitivi non erano che leggeri schiocchi e fruscii di
piedi scalzi sulle mattonelle di pietra, ma sembravano risuonare come
tuoni d’estate nel silenzio echeggiante dei corridoi deserti.
Il tramonto era ormai passato da tempo, e gli atleti erano quasi tutti
radunati nei loro alloggi, a scambiarsi vanterie e sfide.
I locali dedicati agli atleti erano chiusi da porte, ma quasi nessuna di
esse era dotata di serrature. Lo spogliatoio dei cadetti non faceva eccezione. La porta si aprì senza sforzo, cigolando un poco sui cardini. Ulf e
Gitta restarono immobili per parecchi battiti di cuore, le orecchie protese
alla ricerca di qualche suono che indicasse l’arrivo di qualcuno. Tutto era
silenzioso. Ulf varcò la soglia, seguito da Gitta che gli stringeva spasmodicamente la mano. La grande stanza era deserta. Sulle panche e sui ganci
allineati lungo le pareti erano appesi diversi capi d’abbigliamento appartenenti ai cadetti. Senza pensarci troppo, Ulf arraffò qualche camicia,
delle brache, un paio di mantelli, due paia di scarpe, e si affrettò ad uscire, quasi trascinando Gitta verso un corridoio buio non troppo distante.
Il sotterraneo dello stadio era un vero labirinto di corridoi, la maggior
parte in disuso, e questo rappresentava per loro una vera fortuna. Si addentrarono per parecchi metri nell’oscurità, fino a sbucare in una piccola
stanza. Sembrava un magazzino di coperte in disuso. Nella poca luce che
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filtrava da una feritoia in alto nel muro, notarono diversi mucchi di tessuti coperti di polvere, tra i quali sfrecciavano squittendo numerosi topi, alla ricerca di qualcosa da mangiare.
«Ecco, qui è perfetto» disse Ulf gettando la refurtiva in terra. «Cambiati, avanti» la incitò poi, iniziando a liberarsi dei laceri stracci che indossava.
Gitta però non si stava muovendo, restando immobile, in piedi, davanti a lui.
Ulf la guardò un po’ incuriosito. Che avesse cambiato idea? O magari,
alla fine la paura stava prendendo in lei il sopravvento sulla volontà, impedendole di proseguire.
Gitta se ne stava immobile, in piedi, accanto al mucchietto di abiti
sparsi sul pavimento, con un’espressione enigmatica negli occhi. Non era
paura. Il suo cuore batteva tanto forte che le sembrava potesse essere
sentito anche al di fuori di lei. In quel momento si era resa conto che anche per lei quella poteva essere l’ultima occasione. L’ultima occasione
per dare e ricevere ciò che le era sempre stato rubato. Ulf mosse un passo verso di lei, e il suo cuore ebbe un nuovo balzo nel petto.
Improvvisamente, erano vicinissimi.
Lui la sovrastava di un paio di palmi, e il mento forte di lui era proprio all’altezza dei suoi occhi. Gitta vide le labbra di lui muoversi, pronunciare qualche parola, ma il suono non giunse alle sue orecchie. Alzò
gli occhi ad incrociare i suoi e gli chiuse le labbra con la punta delle dita.
Ulf, un po’ interdetto, fissò lo sguardo nei suoi occhi, scoprendo una
miriade di scintille dorate brillare nell’oscurità. Ci fu un fruscio leggero, e
lei fu nuda davanti a lui. «Che fai, Gitta?»
«Ero una schiava di Titus, ero sua. Per dieci anni, quell’uomo ha violato il mio corpo in ogni modo possibile. Per dieci anni ha sfogato su di me
le sue perversioni, costringendomi a accoppiarmi con lui, con i suoi amici,
a volte persino con i suoi cani». Ecco, era fatta. Gitta in quel momento
sentì come un insostenibile peso lasciare le sue spalle, come se tutti gli
anni di sofferenze che aveva patito si fossero improvvisamente dissolti.
«Ora intendo scoprire che cosa significhi dare il proprio corpo per amore».
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Ulf percepì chiaramente il dolore abbandonare il corpo di Gitta dietro
a quella confessione, lasciando il suo corpo per sempre, restituendole la
purezza di una verginità mai conosciuta. Si lasciò liberare degli ultimi indumenti e condurre al più vicino mucchio di coperte.
Gitta non seppe mai se le sensazioni che invasero il suo corpo martoriato in quel momento fossero reali o solo frutto della sua immaginazione,
ma negli anni successivi avrebbe confidato a Ulf che in quel momento le
era sembrato effettivamente di concedere il suo corpo per la prima volta.
Ulf, dal canto suo, serbò per sempre l’immagine del corpo di lei, magro e livido ma pieno di vita, e lo splendore che ne emanava come se nel
suo corpo brillasse la luce degli dei, in grado di trasformare la squallida
stanza ingombra di immondizia in una reggia sontuosa, ed un mucchio di
coperte pulciose in un letto di rose.
Non c’era tempo da perdere, e lo sapevano bene. La dolcezza di quei
pochi minuti di magia si sciolse rapidamente, al calore dell’urgenza. Con
una nuova determinazione negli occhi Ulf e Gitta si separarono con un
lungo bacio, e indossarono gli abiti rubati ai cadetti.
Li attendeva ora la parte più difficile: raggiungere e superare
un’uscita. Le porte che conducevano fuori, anche quelle dedicate agli
schiavi, erano equipaggiate con un dispositivo magico che scatenava un
allarme nel caso in cui venissero oltrepassate senza autorizzazione. Immediatamente, la più vicina pattuglia di Guardie Cittadine accorreva in
zona e, il più delle volte, acciuffava il fuggitivo e lo giustiziava sul posto
impalandolo con una lancia. In qualche modo, Ulf pensava di essere in
grado di annullare questo allarme, ma non aveva la più pallida idea di
come farlo, e nemmeno se fosse stato effettivamente in grado di farlo.
Tese una mano a Gitta e la guardò. La ragazza, magra e piccolina,
non aveva per nulla l’aspetto di un Elfo, ed era sicuro che anch’egli faceva la stessa impressione. I vestiti penzolavano loro addosso da tutte le
parti, e gli stivali erano larghi e scomodi. Con la neve che quasi certamente stava cadendo fuori, Ulf sperava tanto di non doverseli levare per
correre più velocemente.
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Solo la neve ed il buio li avrebbero salvati. Lei, con un’espressione risoluta negli occhi, afferrò la mano tesa e la strinse con calore. Qualunque
cosa fosse successa, l’avrebbero affrontata insieme.
Il silenzio attorno a loro era quasi assoluto. Leggeri schiocchi e squittii prodotti dai topi, l’incessante sgocciolio della condensa sui soffitti a
volta, il gorgoglio dell’acqua nelle condutture annegate nelle pareti, erano gli unici suoni che i due fossero in grado di udire. Muovendosi piano,
scrutando ogni angolo, la coppia si avventurò per i corridoi silenziosi dello
Stadio. Ad ogni bivio si fermavano, rimpiattandosi contro le pareti in attesa di un rumore, guardandosi negli occhi per decidere quale direzione
scegliere.
Molti bivi e molti corridoi più tardi, raggiunsero quello che sembrava
essere il corridoio perimetrale est, il più vicino al porto.
«Ci siamo» disse Ulf. «Questo è l’ultimo tratto. In fondo a questo corridoio c’è un’uscita da schiavi».
Gitta si sporse dall’angolo. «È lunghissimo…» sospirò.
Il corridoio si stendeva per tutta la lunghezza del campo, circa centocinquanta passi, privo di aperture su entrambe le pareti. L’unico varco si
trovava a pochi passi dall’estremità opposta, appena prima che il corridoio svoltasse a sinistra per condurre al portone principale.
Lungo la parete, disseminate a intervalli regolari, alcune lampade
creavano isole di pallida luce biancastra. Ulf avrebbe voluto spegnerle
tutte, per usufruire del buio, ma non sapeva se questo avrebbe attivato
qualche allarme. Gli Elfi erano gente paranoica.
«Sei pronta?» domandò Ulf.
«Ora o mai più» rispose lei guardandolo risolutamente negli occhi. Ulf
fece per avviarsi, ma lei lo trattenne. Gli prese il volto tra le mani e le
depose sulle labbra un lungo dolce bacio. «Nel caso in cui sia l’ultimo»
spiegò.
«Andrà tutto bene, vedrai» la rassicurò lui. Andrà tutto bene, ripeté
poi nella sua mente, per rassicurare se stesso.
Mano nella mano, si avventurarono nel corridoio, cercando di fare il
minor rumore possibile.
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L’enorme portone si chiuse alle spalle di Egon con un tonfo spettrale.
Nessun suono sarebbe stato più simile alla caduta del coperchio di un sarcofago, ed il buio che lasciò era altrettanto totale. Quel luogo sarebbe
stato la sua tomba, Egon lo sapeva. Pregò solo che Dharma ce l’avesse
fatta.
«Guarda, guarda chi c’è …». La voce rauca di Titus emerse dal buio
profondo della stanza come un viscido ragno, poi una lampada si accese
con uno sfrigolio, e ne comparve anche la figura. Alto e curvo, magrissimo, quasi scheletrico ma dotato di una forza straordinaria, e di
un’altrettanto straordinaria crudeltà, il vecchio guardiano dello Stadio si
avvicinò al nuovo arrivato con un sogghigno di sincero piacere. «Il signorino è tornato… Egon il Magnifico, è di nuovo tra noi…» La lampada stretta
nella mano gettava ombre dondolanti sulle pareti di pietra mentre il vecchio compiva un giro attorno alla rigida figura di Egon. «Sapevo che non
saresti riuscito a restare lontano dallo stadio troppo a lungo, damerino»
sibilò con malevolenza. Il suo fiato, caldo nell’orecchio, sapeva di pesce e
di aglio. Egon distolse leggermente il volto, ma il vecchio gli strinse il
mento tra le mani ossute e lo costrinse a voltarsi. «Mi hanno detto che hai
ucciso Elanna…» i loro volti erano distanti appena un pollice, e l’alito
nauseante del vecchio, fluendo sibilante tra i pochi denti marci rimasti,
gli fece lacrimare gli occhi. «Sai che cosa significa questo? Lo sai, damerino? Significa che ora sei… mio!» Col volto distorto da una smorfia di bieca
soddisfazione, Titus sfregò la lunga unghia del pollice in uno dei due profondi tagli che Egon aveva sugli zigomi, traendone nuovo sangue.
Egon gemette, ma non abbassò lo sguardo, nemmeno quando l’unghia
sporca si conficcò ancora più profondamente nella ferita. «Non vivrai abbastanza da goderti la soddisfazione» disse in un rantolo, la gola stretta
in una morsa di dolore e nausea. Sentiva le ginocchia piegarsi, ma si costrinse a restare eretto, a guardare negli occhi il vecchio guardiano sadico.
«È quel che vedremo, damerino. Per ora, sei una recluta, e verrai
trattato come tale. Dormirai con i bambini, ti allenerai con i bambini, e
lavorerai come i bambini. E ai bambini, lo sai, non è consentito indossare
una corazza, o portare armi. Spogliati» ordinò poi, allontanandosi di un
passo.
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I tagli sugli zigomi sanguinavano ancora, e il destro, dove Titus aveva
piantato la sua unghia sporca, bruciava come un tizzone. «La corazza è
mia, e così le armi. Non avrai niente di tutto ciò, Ti…»
Un manrovescio in pieno volto, veloce e potente come una scudisciata, lo interruppe. Titus estrasse un lungo coltello dalla lama elaborata, e
lo puntò alla gola di Egon. «Non hai capito, damerino. Qui ora tu non conti più nulla. Non sei più lo stallone di Elanna. Elanna è morta, e ora qui
comando io. E se io ti dico di consegnarmi le tue armi, tu lo fai, se vuoi
continuare a vivere come un uomo».
«Pensi che l’idea della morte mi spaventi, Titus? Non ho più nulla da
perdere, e la morte è un’alternativa auspicabile». Egon respirava ancora
a fatica, ma il dolore stava tornando sopportabile.
Titus scosse il capo, sghignazzando. «Uccidere: voi guerrieri non siete
capaci a fare altro. Non concepite il piacere sottile della tortura, la gioia
segreta del dolore, il fascino oscuro dell’umiliazione. Sei nelle mie mani,
e non puoi sfuggire. Se non mi consegni le tue armi, strapperò i tuoi attributi virili con le mie stesse mani, e te li farò mangiare crudi… ti ridurrò
ad una vita da schiavo eunuco tra le donne, ecco cosa farò. Sono passati i
tuoi giorni, Egon Corvo di Ferro. Ora torneranno i miei. Ed ora, deponi le
tue armi!»
Prima che Egon riuscisse a reagire, dal buio attorno a loro comparvero
due schiavi, che lo immobilizzarono prendendolo per le braccia. Lottò per
liberarsi, ma le ampie mani dei due grossi Norsmanni erano più dure
dell’acciaio. Titus lo colpì sulla fronte con ferocia con il pomolo del pugnale, aprendogli una nuova cicatrice, che prese a spillare nuovo sangue.
Un altro manrovescio lo colpì alla guancia sinistra, schizzando gocce scarlatte tutto intorno. Egon sentiva il suo corpo svuotarsi di energia con il
fluire del sangue dalle ferite, mentre la furia della battaglia da poco sostenuta lo abbandonava. Con gli occhi velati dal sangue che fluiva dal taglio sulla fronte, Egon fece cenno a Titus con la testa. Il vecchio aveva
vinto, per ora.
Titus accennò ai due schiavi, che lasciarono andare Egon.
Il guerriero fu sul punto di cadere, ma riuscì a restare in piedi, e iniziò a liberarsi della corazza, un pezzo alla volta. Ogni elemento cadeva a
terra con un clangore che riverberava metallico sulle antiche pareti di
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roccia. Infine, Egon fu nudo, circondato dagli elementi della corazza e dai
vestiti ammonticchiati ai suoi piedi.
Titus ordinò ad uno schiavo di raccogliere gli indumenti e di portarli
via, poi tornò ad avvicinarsi a Egon. «Spero tu abbia capito, ora, recluta»
sibilò facendo scivolare la lama del coltello sui muscoli appena un po’ appesantiti del guerriero. «Comportati bene, e avrai la squadra. Per ora, avrai l’acqua dei pozzi e delle fogne, assieme agli altri bambini».
Egon tornò con la mente ai suoi primi anni allo stadio, quando ancora
bambino condivideva con una decina di suoi coetanei l’iniziazione dei
guerrieri. I bambini destinati allo stadio erano quasi sempre figli di cittadini decaduti, o orfani rifiutati dall’esercito. Nessuno di loro era uno
schiavo, ma conducevano una vita talmente dura che spesso si trovavano
ad invidiare le condizioni di vita degli schiavi stessi. La loro giornata si divideva tra le lezioni di storia, geografia, matematica e letteratura ed il
servizio alla squadra. Le prime erano condotte da maestri inflessibili che
costringevano ad imparare le nozioni a memoria e punivano severamente
qualsiasi errore. Il secondo era principalmente costituito dal trasporto dei
secchi d’acqua calda dalle caldere sotterranee alle vasche da bagno degli
atleti, dalla pulizia dei locali con spazzole e saponi acidi, e dallo svuotamento delle sentine ipocauste dove confluivano tutti gli scarichi dello
stadio. La città non aveva un sistema efficiente di fognature, e le vasche
sotterranee dove confluivano gli scarichi fognari dello stadio dovevano essere ripulite ogni sera trasferendone il contenuto, o almeno la maggior
parte di esso, alla grande gargolla che fluiva poco distante, provenendo
dall’alto della collina. Il compito era destinato ai bambini per due motivi:
i condotti di accesso alle grandi vasche erano troppo piccoli per consentire il passaggio di un adulto, e la pratica contribuiva efficacemente al loro
sviluppo fisico. Quando il periodo di apprendistato era terminato, i bambini avevano sviluppato una grande capacità di sopportazione, una forza
prodigiosa e una resistenza straordinaria alla fatica e al dolore: tutte cose
che avrebbero contribuito a mantenerli vivi sul campo.
Egon si domandò come avrebbe potuto svolgere i compiti destinati ai
bambini, con un corpo sei volte più grande, ma decise anche che quello
era l’ultimo dei suoi problemi. Il freddo aggredì la sua pelle e gli strappò
un brivido, ma non diede segno di subirne gli effetti.
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«Andiamo» disse Titus sogghignando. «Ti porto al tuo alloggio». Pungolò Egon sulle natiche con la punta del coltello, spingendolo verso le
profondità dello stadio.
Ulf e Gitta non avevano compiuto che pochi, timorosi passi nel silenzio del corridoio quando un suono metallico echeggiò nel silenzio, provenendo da un punto non specificato davanti a loro. Si immobilizzarono come conigli sotto la luna, trattenendo il fiato. Si scambiarono un’occhiata
interrogativa, ma non osarono esprimere le loro perplessità ad alta voce.
Al primo suono ne seguirono altri, certi più forti, certi meno, ma non pareva esserci nessuno in arrivo. Tenendosi convulsamente per mano, proseguirono lentamente, un passo dopo l’altro.
Ulf, camminando, ripassava mentalmente le formule di ogni incantesimo capace di produrre un qualsiasi danno egli conoscesse, da quello che
faceva esplodere l’aria attorno al bersaglio a quello che ne faceva esplodere le emorroidi. Era sicuro che, prima o poi, uno di quelli gli sarebbe
stato utile.
Ci furono una decina di tonfi metallici, poi tornò il silenzio.
L’uscita non distava che una trentina di passi.
Trattenendo il fiato, Ulf iniziò a pensare al modo per disattivare
l’allarme.
Gitta si fermò improvvisamente, stringendogli convulsamente la mano. Tremava, e aveva gli occhi sbarrati.
«Che c’è?» domandò Ulf in un sussurro.
Lei gli fece cenno di tacere. «Ascolta» sibilò. «Passi».
Ulf tese l’orecchio, e in effetti dall’oscurità davanti a loro proveniva
chiaramente un rumore di passi in avvicinamento. I due si guardarono negli occhi. Gitta era terrorizzata: la loro fuga sembrava dover finire prima
del previsto. Non avevano idea di chi fossero i passi che udivano, ma
chiunque fosse stato ben difficilmente avrebbe ignorato la loro presenza e
le loro intenzioni.
«Che facciamo?» domandò la ragazza quasi piangendo. Ora che stava
assaporando il gusto della libertà, sapeva che non sarebbe stata in grado
di sopportare ulteriormente i tormenti della prigionia.
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Ulf soppesò le loro possibilità per qualche attimo, poi prese una decisione. «Levati gli stivali e corri» disse liberandosi egli stesso delle scomode calzature che avevano rubato.
La scala che conduceva all’esterno pareva allo stesso tempo vicinissima e irraggiungibile. Non sapevano quanto distanti fossero le persone in
arrivo, ma era quasi impossibile che non li vedessero, perché la rampa di
scale si apriva esattamente in corrispondenza del corridoio confluente.
«Sei pronta?»
Gitta annuì, trattenendo un singhiozzo.
«Allora tre, due, uno… via! »
Al segnale, entrambi scattarono lungo il corridoio, correndo alla massima velocità che gli abiti e le gambe consentivano loro. Senza guardarsi
intorno percorsero quei pochi, interminabili passi fino alla scala e svoltarono sdrucciolando su per la rampa buia, arrampicandosi sugli scalini a
due o tre per volta.
«Ehi, laggiù!! » La voce inconfondibile di Titus li raggiunse quando erano ormai a metà della lunga rampa di scale. Non gli badarono, e proseguirono la corsa.
Le due figure che sfrecciarono attraverso il loro campo visivo non potevano essere che schiavi, anche se parevano non indossare abiti da
schiavi. E se erano schiavi, dovevano essere schiavi che cercavano di
scappare, perché lui non aveva autorizzato nessuno ad uscire, per quella
notte. Questi semplici pensieri attraversarono la mente di Titus Gormenghost come un fulmine, e come un fulmine ne elaborò una risposta.
«Frigh, » ordinò allo schiavo che li accompagnava, «seguili e ammazzali».
Non ne era sicuro, ma le facce di quei due non gli sembravano sconosciute.
Lo schiavo lasciò la sua posizione alle spalle di Egon e corse anche lui
su per le scale, all’inseguimento.
Egon era invece sicuro di aver riconosciuto uno dei due fuggitivi come
il suo mago. Si sorprese soddisfatto: il ragazzo, dimostrando un’ insospettabile intelligenza, aveva capito che da Egon non poteva più ottenere
protezione, e si stava giocando il tutto per tutto. Restò immobile, pensando a come avrebbe potuto aiutarlo.
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Nel frattempo, Ulf e Gitta erano arrivati in punta alle scale, davanti
alla porta che dava verso l’esterno. Ulf allungò una mano alla maniglia,
ma Gitta lo fermò. «C’è una trappola, non toccarla! »
Ulf allora pronunciò qualche parola misteriosa e fece qualche gesto,
ma la serratura non diede segno di essersi aperta.
Lo schiavo, Frigh, ansimava su per le scale, e li aveva quasi raggiunti.
«Stai indetro! » gridò Ulf, preparandosi a scatenare qualcosa di più
potente. Gridò qualcosa, e una scarica elettrica scoccò dalle sue dita protese, colpendo la porta con un rumore assordante e illuminando la galleria come in pieno giorno. Si levò un fumo spesso, che in un attimo invase
la
galleria,
accecando
tutti.
Ulf
perdette
la
concentrazione
e
l’incantesimo sfumò nel nulla, mentre lui e Gitta venivano scossi da una
tosse convulsa. L’aria era irrespirabile, il buio quasi assoluto.
Anche Frigh perse per un attimo l’orientamento, ma nonostante la
tosse ed il bruciore agli occhi protese le braccia e afferrò qualcosa e lo
scagliò giù per le scale.
Gitta strillò forte, rotolando scompostamente giù per la ripida rampa,
mentre Frigh annaspava alla ricerca del mago. La ragazza cadde giù per le
scale come una bambola di stracci, arrestandosi alla base della rampa. Le
doleva tutto. Aveva battuto contro le pareti e i gradini con la testa, le
braccia, le gambe, il corpo, e forse aveva anche qualche osso rotto. Cercò
di rialzarsi, ma una scudisciata di dolore lungo la spina dorsale la costrinse a terra. Un attimo dopo Titus era su di lei, con il coltello levato sopra
alla spalla e una luce di follia omicida negli occhi. «Sei morta, schiava! »
ringhiava sbavando.
Frigh continuava a agitare le braccia a destra e a sinistra, nel tentativo di afferrare Ulf.
Il mago si era rimpiattato contro una parete, cercando di trattenere
la tosse e chiudendo gli occhi gonfi di lacrime. Sentiva gli ansimi e i convulsi colpi di tosse dello schiavo, e percepiva senza grosse difficoltà la sua
posizione nel fitto fumo che ancora li avvolgeva. Forse gli era venuto in
mente un modo per liberarsi di lui.
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Titus non vibrò il colpo mortale. Gli occhi terrorizzati di Gitta i suoi
gemiti disperati, lo strapparono alla furia omicida e gli restituirono la lucidità. Non era un vantaggio, per Gitta.
Ansimando, Titus piantò con violenza un ginocchio nel ventre della
ragazza, appoggiandosi poi con tutto il suo peso e facendola urlare, poi
le appoggiò il coltello alla gola. «Io conosco questa bambina » sibilò,
mentre gocce di saliva gli colavano dagli angoli della bocca. «È quella che
si diverte tanto con i miei cagnolini… quella a cui piace farsi morsicare le
cosce e farsi riempire i tagli di sale… e dove voleva andare, questa bella
bambina? Voleva scappare? Ma non le hanno insegnato che dallo stadio di
Titus non si scappa? Eh, no…»
Lo sproloquio di Titus si interruppe con un colpo sordo, un gemito e
l’improvviso alleggerirsi del peso su Gitta. La ragazza perse i sensi.
Ulf strisciò contro la parete scendendo qualche gradino, poi si piantò
in mezzo alla galleria e preparò il colpo da maestro. Se quel che aveva
detto Gitta era vero, avrebbe preso due pesci con un’esca sola. Sentiva lo
schiavo ansimare e tossire a un paio di metri di distanza, davanti e sopra
di lui.
Sperando di non tossire proprio in quel momento fece appello a tutte
le sue forze residue e si preparò a spingere.
La Parola di Potere risuonò cristallina nel buio e nel fumo.
L’aria si addensò, si tese verso l’esterno e eruppe dal nulla come un
geyser.
Frigh venne investito da una massa d’aria semisolida e scagliato contro la porta alla velocità di un cavallo in corsa. La trappola scattò, liberando attraverso il suo corpo un fulmine che ne provocò l’esplosione del
cuore, uccidendolo all’istante prima ancora che il suo corpo si schiantasse
sulle assi, poi la porta stessa esplose verso l’esterno in un tripudio di
schegge e scintille. Il corpo dello schiavo colpì la parete di fronte, aprendovi numerose nuove crepe, poi si accasciò a terra.
Il vento freddo e la neve si riversarono all’interno della galleria, spazzando via il fumo.
Ulf inspirò profondamente, riempiendosi i polmoni con la gelida aria
notturna e scacciando tutto il fumo respirato in precedenza.
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Erano liberi.
Il tallone di Egon si abbatté sulla tempia di Titus con la forza di un
maglio da fabbro. Era privo dei suoi fidati stivali borchiati, ma, anche nudo, sapeva ancora come infliggere un colpo debilitante ad un avversario.
Il corpo magro di Titus, colto totalmente alla sprovvista, volò attraverso il
corridoio, ed il guardiano perse la presa sul coltello, che rimbalzò tintinnando sulle pietre del pavimento.
Titus era fatto di una pasta piuttosto robusta, e si riprese rapidamente. «Come osi, schiavo? » gridò all’indirizzo di Egon, che ora torreggiava
minacciosamente su di lui. Fece per alzarsi. «Morirai lentamente e…»
Un secondo, fulmineo calcio lo colpì alla mandibola. Lo schianto
dell’osso risuonò secco, subito seguito da un’esplosione violenta proveniente dall’alto della rampa di scale. Ulf stava combinando qualcosa, e
sembrava essere in grado di cavarsela. Egon doveva occuparsi di Titus, e
doveva farlo in fretta.
Il vecchio guardiano aveva incassato il colpo, ma non dava impressione di averne risentito. La mascella presentava una linea storta da una
parte, ma Titus sembrava non accorgersene. «È tutto qui quel che sai fare? » biascicò. Scattò verso il coltello, ma Egon fu più veloce di lui. Spiccò
un balzo, e mentre le dita del vecchio si chiudevano sull’impugnatura,
Egon atterrò a piedi giunti sul suo braccio, frantumandogli il gomito. Questa volta Titus gridò.
Ulf attese parecchi secondi prima di accennare a muoversi.
La neve turbinava intorno a lui, e iniziava ad accumularsi negli angoli.
Dall’altra parte della strada, a almeno otto passi di distanza, il corpo dello schiavo Frigh giaceva scomposto a terra, mentre la sua sagoma, disegnata col sangue schizzato fuori per l’urto violentissimo, spiccava macabra sulla parete chiara della casa di fronte, circondata da una ragnatela
di crepe. Sembrava un immenso, orribile ragno in attesa delle prede.
Si infilò gli stivali e si mosse verso l’esterno, poi si voltò per chiamare
Gitta, ma la ragazza era scomparsa.
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Egon sferrò un altro calcio in faccia a Titus, sfondandogli il setto nasale. Il sangue prese a fluire copioso, inondandogli la bocca e gli abiti scuri. Raccolse il coltello e si chinò su Titus mormorando «La differenza tra
un soldato e un torturatore è che il primo non si perde in chiacchiere».
Schiacciò con la sinistra la testa di Titus contro il pavimento, e con il coltello nella destra gli squarciò la gola.
Ulf scese di corsa le scale, inciampò nelle scarpe, rotolò per qualche
gradino, riuscì a rimettersi in piedi, cadde nuovamente, ma arrivò in fondo alle scale più o meno incolume.
Vide il corpo di Gitta steso a terra, immobile, e più lontano un altro
corpo sovrastato da un uomo nudo con un coltello stillante sangue in mano. L’odore ferrigno del sangue era ammorbante, e trattenne a stento un
conato di vomito.
Si gettò sulla ragazza, abbracciandola, ma il suo corpo pareva privo di
vita. «Sveglia, piccola. Siamo liberi. Gitta, avanti, apri gli occhi…» La ragazza non aveva reazioni. Ulf sentì gli occhi riempirsi di lacrime, mentre
mormorava il suo nome, sempre più piano.
«Ulf, devi andartene». La voce profonda colpì le sue orecchie, ma
impiegò del tempo a farsi strada fino al suo cervello.
Con la vista annebbiata, Ulf levò gli occhi sulla persona accanto a lui.
«Padrone…» mormorò, sinceramente sorpreso.
«Non sono più il tuo padrone, ora. E nemmeno Titus. Sei un uomo
dannatamente fortunato, sai? »
Ulf avrebbe compreso solo molto più tardi il significato di questa affermazione, ma al momento non vi badò. «È morta» rispose invece. Non
riusciva a trattenere le lacrime.
«Fammi vedere». Egon prelevò il corpo inanimato di Gitta dalle braccia di Ulf e lo depose sul pavimento, poi ne aprì la blusa e appoggiò
l’orecchio sul cuore. Dopo qualche secondo sospirò di sollievo e mormorò
«No, è viva».
Ulf non riuscì a trattenere il grido di giubilo, e proprio in quel momento Gitta aprì gli occhi.
«Non sfidare la fortuna, mago. Dovete andarvene. L’allarme della
porta è scattato, e presto la guardia sarà qui. Me ne occuperò io. Voi diri-
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getevi a nord, verso il castello, e girate ad est solo verso il quartiere dei
calderai. La guardia si spinge raramente laggiù. Ulf» chiamò poi, «scopri il
tuo petto. »
Il mago obbedì, senza capire.
«Farà un po’ male, ma meno di quando ti hanno marchiato». Con una
mossa rapida incise due profondi tagli trasversali sulla cicatrice del marchio a fuoco. «Guariranno presto, non preoccuparti. Se dovessero dolere,
applicagli sopra dell’unguento di pesce nero. Quando sarai al porto, mostra questi segni al capitano della Nemesi. È un amico fidato, e non ti dovrebbe tradire».
Ulf aggrottò le sopracciglia, ma era ancora troppo intimorito per esprimere i suoi dubbi.
«Non hai altra scelta, mago. Se resti ancora qui a lungo sei morto».
Ulf comprese, e annuì. Col petto invaso dal dolore aiutò Gitta a mettersi in piedi e la condusse su per le scale e fuori dallo stadio, libera dopo
dieci anni di prigionia e dolore. D’ora in avanti, nulla sarebbe potuto essere peggio di quel che era stato.
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