Carol BirCh Memorie di un cacciatore di draghi

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Carol BirCh Memorie di un cacciatore di draghi
Carol BirCh
Memorie di un cacciatore
di draghi
Traduzione di Paolo Falcone
Proprietà letteraria riservata
© 2011 Carol Birch
Published by arrangement with Canongate Books Ltd,
14 High Street, Edinburgh EH1 1TE
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-07211-3
Titolo originale dell’opera:
JAMRACH’S MENAGERIE
Prima edizione: febbraio 2014
Realizzazione editoriale: Librofficina, Roma
Memorie di un cacciatore
di draghi
A Budgie
Prima parte
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Sono nato due volte. La prima in una casupola di legno che si
sporgeva sulle acque scure del Tamigi, la seconda otto anni dopo,
sulla Highway, quando la tigre mi prese tra le fauci e ogni cosa
iniziò davvero.
Dite Bermondsey, e la gente storcerà il naso. Ma quella fu la
casa prima di tutte le altre case. Il fume sciabordava sotto di noi
mentre dormivamo. La porta dava su una passerella di legno, sotto
la quale le acque scure del canale si sollevavano e formavano una
strana bolla, grigia e sinistra. Guardando giù, tra le assi, potevate
vedere cose che si muovevano nella brodaglia sottostante. E sulla superfcie fermentava una melma verde e luccicante che, spinta
dalla corrente, si appiccicava ai pali fatiscenti.
Ricordo le stradine tortuose con le curve strette, la merda dei cavalli solcata dai carri, lo sterco delle pecore che, di ritorno dalle paludi, transitavano ogni giorno davanti casa, il bestiame che muggiva
le sue pene insopportabili nel cortile della conceria, i mattoni scuri
dell’edifcio e la pioggia nera. I mattoni, rossi e ruvidi, erano ricoperti di fuliggine e a toccarli lasciavano una patina nera e lucida sulla
punta delle dita. Un tanfo saliva da sotto il ponte di legno, vi entrava
in gola quando al mattino lo attraversavate per andare al lavoro.
Ma l’aria sopra il fume era gonfa di suoni e pioggia. E a volte,
di notte, le voci dei marinai echeggiavano sopra le acque luccicanti
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– voci selvagge e oscure quanto gli elementi stessi –, cadenze d’ogni
dove, lingue incomprensibili che frusciavano e sbraitavano, melodie che salivano e scendevano come tante piccole rampe di scale,
dandomi l’impressione di trovarmi in mondi lontani, in luoghi sconosciuti e assolati.
Visto dalla riva il fume era spettacolare, ma un vero schifo quando i piedi nudi calpestavano i piccoli vermi rossi che vivevano nella
melma vischiosa. Ricordo come si contorcevano tra le dita.
Ma guardate noi.
Strisciavamo nelle nuove cloache come larve, bambini magri e
grigi, bambine magre e grigie, dello stesso colore del fango in cui
ci muovevamo, sguazzando nei bui cunicoli circolari che puzzavano da morire. Le pareti erano ricoperte di merda nera e secca. Ci
tappavamo il naso e la bocca con un fazzoletto per raccogliere le
monete incrostate, nella speranza di riempirci le tasche, mentre gli
occhi bruciavano e lacrimavano. a volte avevamo conati di vomito.
Venivano e basta, come uno starnuto o un rutto. E quando, sbattendo le palpebre, riemergevamo sulla riva, una visione incantevole
ci si parava davanti agli occhi: una meraviglia enorme, un maestoso
clipper a tre alberi con un carico di tè dalle Indie avanzava verso il
porto di Londra, dove un centinaio di navi all’ancora, simili a purosangue che venivano strigliati, rinvigoriti, preparati, rassicurati e
calmati, attendeva la grande prova del mare.
Ma le tasche non erano mai piene. Ricordo la morsa allo stomaco, la nausea per la fame. Quella cosa che il mio corpo faceva di
notte, quando ero a letto.
Tutto questo fu molti anni fa. a quell’epoca mia madre avrebbe
potuto essere scambiata per una bambina. Era piccola e robusta, e
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camminava a grandi passi, facendo dondolare le spalle e le braccia
muscolose. Era uno spasso, la mamma. Ci addormentavamo cantando su un letto a carriola – lei aveva una voce stridula e graziosa –
ma a volte veniva un uomo, e allora io dovevo andare nella casa
accanto e dormire in fondo a un vecchio lettone affollato con il
materasso di piume, mentre i piedini nudi di bambini molto piccoli
mi scalciavano la coperta ai lati della testa e le pulci mi mangiavano
vivo.
L’uomo che veniva a trovare mia madre non era mio padre. Mio
padre era un marinaio che era morto prima che nascessi, così diceva la mamma, ma non si dilungava mai sull’argomento. Quest’uomo era alto e magro come un chiodo, con gli occhi spiritati e i denti
storti, e quando stava seduto batteva continuamente il tempo con i
piedi. Immagino avesse un nome, ma non l’ho mai saputo, oppure
l’ho dimenticato. non importa. non ho mai avuto niente a che fare
con lui, né lui con me.
Un giorno venne mentre la mamma canticchiava davanti al suo
lavoro di cucito – un paio di pantaloni da marinaio con il cavallo
bucato –, la buttò a terra e cominciò a prenderla a calci e a darle
della sgualdrina. avevo paura, come mai ne avevo avuta prima di
allora. La mamma batté la testa contro la gamba del tavolo, poi
scattò in piedi e si mise a urlare che era un bastardo e un donnaiolo
e che non voleva più vederlo, e intanto agitava convulsamente le
braccia piccole e forti, i pugni chiusi pronti a colpire.
«Bugiarda!» ruggì l’uomo.
non immaginavo avesse una voce del genere. Sembrava quella
di un uomo grosso il doppio di lui.
«Sei una bugiarda!»
«Dai della bugiarda a me?» strillò la mamma, e gli si scagliò contro. Lo afferrò per le orecchie e iniziò a scuotergli la testa come se
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stesse sprimacciando un vecchio cuscino. Quando mollò la presa,
l’uomo vacillò. La mamma uscì in strada gridando con quanto fato
aveva in gola, e tutte le donne del vicinato accorsero con le gonne
tirate su, chi con un coltello, chi con un bastone, o una pentola,
o un candeliere. L’uomo si lanciò tra loro brandendo un pugnale
sopra la spalla, un coltello grosso e minaccioso, urlando che erano
tutte delle baldracche e mettendole in fuga mentre correva verso
il ponte.
«Tornerò, puttana!» sbraitò. «Tornerò e ti caverò gli occhi!»
Quella notte scappammo, o almeno credo. Forse non fu quella
notte ma qualche giorno dopo, o una settimana, in ogni caso l’ultimo ricordo che ho di Bermondsey è lo scintillio della luna sul fume
mentre a piedi nudi seguivo mia madre sul London Bridge, verso la
mia seconda nascita. avevo otto anni.
So che alla fne arrivammo dalle parti della Ratcliffe Highway,
dove incontrai la tigre. Tutto quello che avvenne dopo è una conseguenza di questo incontro. Credo nel destino. Il lancio dei dadi,
la pagliuzza più corta. È sempre stato così. Watney Street fu dove
andammo a stare. Vivevamo nella sofftta della signora Regan. Una
lunga rampa di scale saliva fno alla nostra porta. Una grata intorno all’area del seminterrato delimitava un luogo buio e profondo,
dove la notte gli uomini si riunivano per giocare a carte e bere roba
forte. Di sotto viveva la signora Regan, una donna alta e sciupata,
con il volto pallido e spaurito e una clientela sempre diversa di
marinai e bagarini; di sopra c’era il signor Reuben, un vecchio nero
con i capelli bianchi e un paio di folti baff giallastri. La nostra stanza era divisa in due da una tenda; dall’altra parte, due vecchie prostitute prussiane, Mari-Lou e Silky, russavano piano tutto il giorno.
Dal nostro lato una fnestra affacciava sulla strada. al mattino, il
profumo del lievito che veniva dal forno di fronte si insinuava nei