Nel condominio di Shakespeare

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Nel condominio di Shakespeare
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA
Dottorato di Ricerca in Anglistica
Cultura letteraria e problematiche testuali
XII Ciclo
Shakespeare e la terapia della famiglia
Tesi di dottorato in Anglistica
Relatore
Prof. William N. Dodd
___________________________________
Presidente del Corso di Dottorato
Prof. Carla Dente
___________________________________
Presentata da
Marco Malaspina
___________________________________
Shakespeare – Terapia della famiglia – Letteratura inglese – Psicologia – Semiotica
2
Ringraziamenti
Non ho idea del tipo di reazioni che questa tesi potrà suscitare in chi la legge. So, però, che scriverla è stata un’esperienza assai piacevole. Questo grazie a
persone che, nel corso degli anni, hanno contribuito in modo determinante a far
nascere e a tenere viva in me la passione per la ricerca. Penso ai docenti e alle
colleghe del corso di dottorato, per il modo in cui mi hanno accolto, incoraggiato e arricchito durante tre anni indimenticabili trascorsi fra Firenze e Pisa. Ma
penso anche ai colleghi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, insieme ai quali
ho imparato—seppure in un ambito assai distante da quello umanistico—ad affrontare le frequenti delusioni dell’attività sperimentale e ad assaporare le rare
quanto autentiche gratificazioni alle quali la curiosità scientifica conduce.
Vorrei poi esprimere una particolare riconoscenza e affetto nei confronti di
tre persone che, ognuna a modo suo, hanno avuto un ruolo assolutamente fondamentale nella mia formazione: Guido Armellini, Giovanna Franci e Guido
Fink. Loro forse non lo sanno, ma la passione che mi hanno trasmesso per la letteratura, per l’insegnamento e per la critica è una fra le risorse più preziose che
mi porto appresso. A proposito di cose preziose: un ringraziamento assolutamente particolare va a Giò, la mia terapeuta della famiglia preferita, nonché
compagna di tutta una vita. Senza la sua consulenza professionale, la sua sterminata biblioteca, e il suo incoraggiamento, non sarei mai giunto alla fine. E a
Francesco, il quale si è trovato costretto a condividere il suo papà con un gruppo di noiosissimi personaggi che, tra l’altro, non erano nemmeno cartoni animati! Infine, William Dodd: se non fosse stato per la sua eccezionale disponibilità
all’ascolto e al dialogo, per l’attenzione che ha costantemente dedicato al mio
lavoro, il progetto di questa tesi si sarebbe arenato ancor prima di prendere forma. Se nelle pagine che seguiranno ci si imbatterà, di tanto in tanto, nel rigore
che lo studio di Shakespeare richiede, ciò è grazie all’esempio che William
Dodd ha saputo offrirmi.
Quanto a imprecisioni, ipotesi azzardate e forzature, invece, posso garantire
che sono interamente farina del mio sacco. Per le esagerazioni, che non mancano, un po’ di merito va però anche a Harold Bloom: non sarà certo il più fine fi-
lologo shakespeareano, ma è lui che sentivo divertirsi e commuoversi insieme a
me nelle ore in cui il piacere di leggere Shakespeare prevaleva sull’ansia della
scrittura. Ed è grazie al suo sconfinato, umanissimo egocentrismo se ho trovato
la spudoratezza per andare avanti anche quando i paragrafi scartati hanno iniziato a superare quelli recuperabili, e la consapevolezza dei miei limiti era l’unica
cosa che vedevo crescere rigogliosa.
2
SOMMARIO
INTRODUZIONE - NEL CONDOMINIO DI SHAKESPEARE...................... 3
CAP. 1 - FAMIGLIE NEL TEMPO ................................................................... 13
LA FAMIGLIA INGLESE FRA I SECOLI XVI E XVII E UNA FAMIGLIA DI OGGI .......... 17
UN’INDAGINE DIACRONICA SU LARGA SCA LA: I RAPPORTI FRA SIBLINGS.............. 58
IN CONCLUSIONE? ................................................................................................ 61
CAP. 2 - RELAZIONI FAMILIARI IN SHAKESPEARE .............................. 65
RELAZIONI FAMILIARI IN SHAKESPEARE: UN’INDAGINE STATISTICA .................... 75
CAP. 3 - DALLA CLINICA ALLA CRITICA: STORIA E MODELLI
DELLA TERAPIA FAMILIARE .................................................................. 99
TERMOSTATI E DOPPI LEGAMI: L’EPOCA DELLE MACY CONFERENCES................. 100
DALLA TEORIA AL TRATTAMENTO TERAPEUTICO ............................................... 105
TERAPIA DELLA FAMIGLIA, LETTERATURA E CRITICA LETTERARIA .................... 121
CAP. 4 - TERAPEUTI SHAKESPEARIANI .................................................. 123
L'AUTOANALISI: CAMBIARE "OVERHEARING ONESELF"...................................... 125
L'ANALISI FREUDIANA CLASSICA: CAMBIARE RICORDANDO IL PASSATO ............. 126
IL COMPORTAMENTISMO: CAMBIARE SIMULANDO.............................................. 137
TERAPIE STRATEGICHE BREVI: CAMBIARE CON I PARADOSSI .............................. 143
CAP. 5 - LA DISGREGAZIONE DI UNA COPPIA ...................................... 171
CAP. 6 - SCENE DI TRIANGOLAZIONE ..................................................... 221
CONCLUSIONI - FAMIGLIE IN SHAKESPEARE, FAMIGLIE NEL
TEATRO ........................................................................................................ 257
E LA TERAPIA DELLA FAMIGLIA?........................................................................ 265
APP. A - ABBREVIAZIONI DEI TITOLI DELLE OPERE ........................ 269
APP. B - STATISTICHE SUI SINGOLI PERSONAGGI ............................. 271
APP. C - TABELLE E STATISTICHE SULLE RELAZIONI DIADICHE 275
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Introduzione
Nel condominio di Shakespeare
Per le scale
Sì, tutto potrebbe iniziare così, qui, in questo modo, una maniera un po’ pesante e lenta, nel luogo neutro che appartiene a
tutti e a nessuno, dove la gente s’incontra quasi senza vedersi, in
cui la vita dell’edificio si ripercuote, lontana e regolare. Di quello che succede dietro le pesanti porte degli appartamenti, spesso
se non sempre si avvertono solo quegli echi esplosi, quei brani,
quei brandelli, quegli schizzi, quegli abbozzi, quegl’incidenti o
accidenti che si svolgono in quelle che chiamiamo le parti comuni, i piccoli rumori felpati che la passatoia di lana rossa attutisce, gli embrioni di vita comunitaria che sempre si fermano sul
pianerottolo.
GEORGES PEREC1
Così comincia La vie mode d’emploi, il monumentale romanzo di Georges
Perec: per le scale. Un incipit che Shakespeare avrebbe probabilmente gradito.
Con il “Sì” d’esordio, Perec introduce il lettore in una conversazione in
progress, in media verba: una soluzione, questa, che spesso ricorre nell’opera di
Shakespeare.2 Più in generale, molti fra i suoi drammi—da Romeo and Juliet a
Othello, da King Lear a The Winter’s Tale—cominciano, appunto, “per le scale”, su una sorta di pianerottolo, e cioè come ai margini di quelli che poi si riveleranno i veri “luoghi”, in senso lato, della rappresentazione. Nel giro di poche
battute, però, “le pesanti porte” degli appartamenti shakespeareani si spalancano. E, diversamente da quanto avviene nel libro di Perec, non sono solo “echi
1
G. PEREC, La vita istruzioni per l’uso, p. 11.
2
Sugli incipit in media verba, vedi R SPINALBELLI, “Problemi dell’inizio in medias res nel
canone shakespeariano” e K. ELAM, “L’incipit discorsivo”.
esplosi”, ciò che viene offerto agli spettatori, ma anche e soprattutto le dinamiche che portano all’esplosione.
Quali dinamiche? Nella quasi totalità dei casi, dinamiche familiari. Il condominio di Shakespeare, con i suoi appartamenti abitati da re e regine, da piccoli borghesucci di provincia, da antichi bretoni o romani e da giovani coppie di
innamorati, è quanto di più eterogeneo si possa immaginare, è vero. Al tempo,
stesso, però, la struttura sociale attorno alla quale i suoi drammi ruotano è pressoché sempre la stessa: la famiglia. In altre parole, oltre ad essere potenti sovrani, giovani innamorati o pragmatici borghesi di provincia, i personaggi shakespeariani sono anche padri e figlie, mogli e mariti. Ancora: per quanto straordinarie possano apparire le situazioni in cui si muovono e le azioni che compiono,
non mancano mai di offrire una rappresentazione dei rapporti interpersonali assai plausibile.
Quello che proporrò in questa tesi è un modo di guardare ai drammi di Shakespeare nel loro complesso. Porre un accento così marcato sulla famiglia, me
ne rendo conto, è un’operazione tutt’altro che indiscutibile. Come ipotesi di lavoro, si presta a numerosi obiezioni, da quelle che riguardano la prospettiva storica (il concetto di famiglia, in epoca elisabettiana e Stuart, non era identico a
quello che intendiamo oggi) a quelle di natura ontologica (la “struttura sociale
famiglia”, nei drammi, è anzitutto un costrutto linguistico e culturale). Tenterò
di rispondere a queste e ad altre simili obiezioni nei capitoli che seguiranno.
Vorrei invece qui soffermarmi su un altro motivo di perplessità: scegliere i
rapporti familiari come chiave di lettura privilegiata—giusto o sbagliato che
sia—è un approccio critico significativo? Il dubbio è più che legittimo: se in
quasi tutti drammi di Shakespeare ci sono famiglie, è anche fuori discussione
che in tutti ci siano protagonisti antropomorfi, per esempio, o lettere ‘i’. Caratteristiche, queste, che per quanto indubbiamente presenti offrono un contributo
assai scarso alla significazione. La struttura familiare, con tutta la sua rete di relazioni, non fa anch’essa parte di queste inevitabili quanto insignificanti ricorrenze? O, al contrario, presenta un potenziale drammatico—una sorta di valore
aggiunto, potremmo dire—che altre strutture sociali non offrirebbero? Detto altrimenti: la struttura famiglia introduce una differenza?
4
Sono, queste, domande alle quali non ha molto senso rispondere semplicemente con un sì o con un no. Vale però la pena osservare cosa accade quando si
tenta di rispondere. Potremmo cominciare con una domanda solo in apparenza
simile. Per esempio: il fatto che Othello sia un “moro” introduce una differenza
significativa nell’omonimo dramma? E il fatto che Lady Macbeth sia non solo
una moglie ma anche una regina? La maggior parte degli interpreti contemporanei ritiene che certamente sia così. Altri, invece, pensano che il colore della pelle di Othello sia solo una connotazione in più—magari molto importante, certo
molto efficace, ma non tale da far sì che una rappresentazione con un attore
bianco porti a una lettura sostanzialmente diversa dell’opera. Io tendo a pensarla
come i primi, ma non è questo che ora mi interessa: ciò che voglio sottolineare è
che abbiamo a che fare con ipotesi per le quali è possibile immaginare un metodo di falsificazione—un esperimento di laboratorio: faccio indossare i panni di
Othello a un attore bianco e osservo che succede. O addirittura, se voglio tentare un esperimento più radicale (“prove filologicamente pericolose in corso”, reciterebbe l’immaginario cartello appeso alla porta del laboratorio) sostituisco le
istanze di “moro” con qualche altra connotazione, adatto qualche battuta di Iago
e compagni di conseguenza, e di nuovo osservo quello che accade. Esperimento
esteticamente raccapricciante, forse, ma realizzabile con poca difficoltà.
Se, invece, la domanda fosse: il fatto che Othello e Desdemona siano marito
e moglie introduce una differenza significativa? Come tenterò di mostrare nel
secondo capitolo, alterando questo tipo di proprietà la tragedia di Othello diventerebbe tutt’altra cosa. In altre parole, la rete delle relazioni familiari, in molti se
non in tutti i drammi del canone shakespeareano, non appartiene alla categoria
dei pur importantissimi “eccipienti”, ma fa piuttosto parte di quei “principi attivi”—per restare nella metafora farmacologica—o, meglio, di quei principi universali che ci permettono, a quattro secoli di distanza dai primi avventori del
Globe e alle latitudini e longitudini più lontane dalla Londra di inizio Seicento,
di continuare a frequentare e, a volte, di riconoscere qualcosa di noi stessi nelle
opere di Shakespeare.
In effetti, le domande latenti e sfuggevoli che mi hanno indotto a cominciare
questa tesi penso siano state domande come: in chi può suscitare ancora emo5
zioni un dramma come Macbeth? E sono affiorate varie risposte: critici, amanti
del teatro, persone che si identificano nei personaggi e nelle situazioni rappresentate. Quali persone? Re scampati per miracolo ad una congiura? Uomini di
potere desiderosi di affermare la nobiltà della propria dinastia? Persecutori di
streghe? Dittatori crudeli? Pacifisti? Donne sterili? Vedovi di mogli sonnambule e suicide? Figli di genitori ambiziosi? Per riempire secoli di platee in tutti gli
angoli del pianeta, nessuna delle tipologie elencate sarebbe mai sufficiente. La
tentazione è quella di cavarsela in fretta dicendo che si tratta di una grande opera d'arte. Oppure, ammettere che quella formulata prima è una domanda che ne
cela un’altra, una domanda in un certo senso oltraggiosa e sconveniente da esplicitare, ma che prima o poi penso vada affrontata da chiunque decida di dedicare una porzione non irrilevante del proprio tempo e della propria vita in compagnia di Shakespeare: perché un dramma come Macbeth suscita emozione in
me?3 Non è il plot, mi sento di affermare, con quell’assurda storia di streghe e di
cespugli che si muovono. Né la poeticità del linguaggio, non da sola, almeno,
considerando che nei momenti più elevati parla di dilemmi che, come il decidere se uccidere o meno il proprio sovrano o un proprio amico, sono per fortuna
lontani anni luce dalla mia esperienza. Eppure, il linguaggio c'entra. Quando
Lady Macbeth pronuncia il suo “Let's go to sleep”, che me ne accorga o meno,
sono già completamente trascinato nel dramma. Non mi è ancora capitato di ritrovarmi le mani sporche del sangue di un re, ma le mie giornate nere le ho avute, le ho, e continuerò ad averle anch'io. “Ora, va a riposarti, che domani comincia la scuola.” “Dai, spegni quel computer, non pensarci più e vieni a letto, che
sei distrutto.” Magari ciò a cui non devo più pensare è solo che sono in ritardo
di tre mesi con le rate per l’automobile e l’unica persona che vorrei togliere di
mezzo è l’amministratore del condomino. Ciò nonostante, quel “Let's go to
sleep” di Lady Macbeth agisce da catalizzatore, e invece di farmi addormentare
sulla poltroncina del teatro, mi ritrovo in un castello scozzese in preda ai rimorsi
3
In questo senso, mi pare che Harold Bloom non abbia tutti i torti quando, in un’intervista,
afferma: “The only critical wisdom I know is that there is no method except yourself. Everything else is an imposture. There is only yourself” (in I. SALUSINSZKY, Criticism in Society, p. 67).
6
e al terrore. Com’è possibile? La ragione non può essere nemmeno nel solo potere evocativo delle parole, visto che mia moglie, oltre a non parlarmi in blank
verse, non mi ha mai detto “Let's go to sleep” ma, al massimo, “andiamo a dormire”. Non la trama, non il linguaggio o le parole da sole, non le situazioni,
nemmeno i singoli personaggi. Perché una tragedia come Macbeth, con tutte le
sue eccentricità, può sembrare così plausibile, naturale, addirittura familiare?
L’ipotesi sulla quale questa tesi si concentra è che ciò derivi, almeno in parte,
dalla particolare qualità mimetica con la quale il teatro di Shakespeare rappresenta le relazioni interpersonali, e in particolare le relazioni familiari.
Ovviamente, non è tutto qui: lungi da me l’intenzione di suggerire che questa
ipotesi, nata probabilmente tanto dallo studio delle opere quanto da una mia
predilezione tutta personale per i testi ricchi di dialoghi e di vicende familiari,
sia la chiave di accesso al “segreto di Shakespeare”... È un’ipotesi, però, che mi
ha permesso di approfondire e applicare un metodo di approccio relativamente
nuovo in ambito letterario, e potenzialmente produttivo, a mio giudizio, soprattutto per i testi teatrali: quello della teoria dei sistemi familiari. Volendo concentrarmi sulle relazioni, infatti, più che sui singoli personaggi, mi occorreva
una prospettiva che tenesse conto della dimensione psicologica interpersonale
(più che di quella intrapsichica del modello freudiano classico) derivandola direttamente dalle realizzazioni dialogico-conversazionali,4 intese però non tanto
in senso “sintattico” (dunque, non solo un’analisi del turn-taking), ma anche
pragmatico e semantico: ossia, la conversazione teatrale vista come momento
strategico di costruzione sociale di quelle emozioni e di quelle alleanze—o conflittualità—che fanno della “struttura-famiglia” qualcosa di più del palinsesto
per un plot o di un semplice aggregato di individui (o attanti che dir si voglia).
La teoria dei sistemi familiari qui adottata, teoria che sta alla base di quella tipologia di interventi—sempre più diffusi—che vanno sotto il nome di “terapia
della famiglia”, considerando la famiglia come un’unita, un’unità nella quale le
4
Per una presentazione comparativa dei differenti approcci metodologici che vanno in tal
senso—e più precisamente quelli di taglio sociologico, quelli orientati alla comunicazione
e quelli specificamente “conversazionalisti”—e del loro potenziale contributo all’analisi
dei testi drammatici, vedi W.N. DODD, “Conversation, dialogue and exposition”.
7
relazioni sono più importanti degli individui, e focalizzandosi in primo luogo su
fenomeni inerenti la comunicazione, offre precisamente questo tipo di prospettiva. Non solo: evitando per principio la formulazione di ipotesi intrapsichiche e
invitando invece a lavorare sulle interazioni (verbali e non verbali), è una teoria
che in un certo senso costringe a non allontanarsi mai troppo dalla superficie
del testo. Da questo punto di vista, mi è subito apparsa una teoria quanto mai
salutare per un lettore “a rischio” come posso essere io, cioè un lettore con una
spiccata quanto perniciosa tendenza agli eccessi dell’open reading.
Ed ora, qualche parola sulla struttura di questa tesi. Nel primo capitolo, affronto il problema della distanza storica fra le famiglie dell’Inghilterra rinascimentale e le famiglie odierne, ossia fra le famiglie che possono aver offerto materiale per i drammi di Shakespeare e quelle attorno alle quali, verso la metà degli anni ’50 del secolo scorso, si è sviluppata la teoria della famiglia. Poiché in
entrambi i casi abbiamo a che fare con famiglie particolari, e non con la famiglia intesa come concetto statistico, non si tratta tanto di un capitolo sulla storia
della famiglia, quanto di una breve indagine su quella che potremmo chiamare,
parafrasando Stephen Greenblatt, la storia delle possibilità della famiglia.5
Nel secondo capitolo, basandomi sulla raccolta di dati numerici riportati in
appendice (raccolta che costituisce forse il principale risultato del lavoro di ricerca, in senso stretto, di questa tesi), mi rivolgo invece al problema della differenza fra famiglie del mondo reale e famiglie del mondo della finzione, con lo
scopo di individuare entro quali limiti un modello pensato per famiglie formate
da persone in carne ed ossa possa essere applicato a famiglie letterarie. È un
problema di natura essenzialmente semiotica, ma non solo: come cercherò di illustrare, trattando di relazioni più che di individui, è un problema che non sempre coincide con quello del rapporto fra dramatis personae e persone.
Il terzo capitolo è una brevissima storia della terapia della famiglia. Poiché si
tratta di un orientamento teorico e terapeutico non a tutti noto, ho ritenuto utile
inserirlo qui per illustrare i presupposti principali delle analisi presentate nei
capitoli successivi.
5
Cfr. S. GREENBLATT, “Che cos’è la storia della letteratura?”, p. 174.
8
La lettura vera e propria dei drammi ha inizio nel quarto capitolo: è uno strano capitolo, che ha per oggetto principale il cambiamento. Passando in rassegna
alcune scene di The Tempest e di As You Like It, tento di mostrare come alcune
strategie di induzione del cambiamento tipiche di orientamenti terapeutici come
la psicoanalisi e il comportamentismo siano già adottate da quelli che ho chiamato “prototerapeuti” shakespeareani. Una lettura più dettagliata è poi dedicata
a The Taming of the Shrew, qui considerato come un vero e proprio dramma sul
cambiamento familiare, e in particolare al confronto fra le paradossali strategie
di Petruchio e quelle di uno fra i più irriverenti esponenti della terapia familiare
strategica odierna, Milton H. Erickson. Tre modalità di induzione del cambiamento—quella di The Tempest, quella di As You Like It e quella di The Taming
of the Shrew—che, come vedremo, seguono tattiche e conducono a esiti assai
differenti.
Negli ultimi due capitoli, infine, dedicati rispettivamente a Macbeth e alle
scene di triangolazione fra membri della triade primaria (madre, padre e figlio o
figlia), avvalendomi di concetti-cardine della terapia della famiglia—come
quello di polarità semantiche e quello di triangolazione—propongo
un’applicazione della teoria dei sistemi familiari all’analisi della comunicazione
e della conversazione all’interno dei drammi, osservando le famiglie come da
dietro le quinte, cioè dal punto di vista non tanto di un terapeuta della famiglia
(sarebbe impossibile, essendo preclusa l’interazione con i protagonisti delle opere) quanto di un co-terapeuta, o meglio di un allievo. Un aspetto non marginale, per i miei scopi, della terapia della famiglia è infatti la sua intrinseca teatralità, evidente in particolare nel setting degli incontri, setting che in questi ultimi capitoli tento di ricreare. Vale la pena lasciarlo descrivere direttamente da
un terapeuta di lunga esperienza, Paolo Bertrando:
Dietro le quinte c’è quella che si definisce sala di osservazione. Se possibile è
ancora più spoglia della sala di terapia (del resto, è esente da obblighi di rappresentanza): qualche sedia, un videoregistratore, un monitor e altoparlanti collegati
all’impianto di trasmissione, la telecamera sopra un treppiede, puntata verso l’altra
sala. Qui, due sono gli aspetti che colpiscono: la luminosità dell’altro lato dello
specchio, che da questa parte offre una splendida, emozionante prospettiva della
scena terapeutica (e che, a richiesta, può essere completamente coperto da una
tenda); e l’oscurità della sala, con le finestre ermeticamente chiuse. Lo specchio,
9
infatti, è unidirezionale solo se c’è differenza di luce. In caso contrario, è perfettamente bidirezionale. Se entrambe le sale fossero illuminate, si perderebbe
l’intimità della sala di terapia.
Dietro le quinte sta l’équipe di osservazione. Che non è composta di spettatori
distaccati: l’équipe partecipa al dialogo. I colleghi non restano nemmeno sempre
seduti, quando seguono i colloqui. C’è chi si alza, passeggia nervosamente, si fa
venire in mente una domanda e quasi prega che il terapeuta la faccia di sua iniziativa [...]. La partecipazione dei colleghi, com’è ovvio, varia a seconda di quanto
avviene sulla scena. Se il pathos è alto e l’intensità è forte, l’équipe osserverà senza neanche pensare a intervenire. Se la seduta si trascina, crescerà l’urgenza di entrare in qualche modo nel dialogo e rimetterlo in movimento. Più d’una volta succede che lo humour dei clienti sia tale che i colleghi dell’équipe ridano di cuore,
insieme ai clienti, dietro la protezione del loro specchio.6
Una prospettiva, dunque, che pone l’interazione familiare e gli osservatori
entro uno spazio squisitamente teatrale, nel senso indicato da Jurij Lotman.7 Ed
è lo stesso Lotman a sottolineare un ulteriore aspetto, a prima vista non scontato, comune ai due setting, e cioè il rapporto dialogico fra spettatori e azione
scenica: “È sufficiente avere presente questa serie: azione scenica/spettatore,
libro/lettore e schermo/spettatore per rendersi conto che soltanto nel primo caso
la distinzione fra lo spazio dello spettatore e quello del testo rivela la natura dialogica del loro rapporto”.8
6
P. BERTRANDO, Nodi familiari, pp. 34-35.
7
Vedi J. LOTMAN, “Semiotica della scena”, p. 8: “Lo spazio teatrale è diviso in due parti—
il palcoscenico e la sala dove siedono gli spettatori—fra le quali si creano rapporti che
formano alcune delle opposizioni fondamentali della semiotica teatrale [...] Il confine fra
ciò che si deve vedere e quello che deve invece restare invisibile è avvertito chiaramente
dallo spettatore anche se non sempre si tratta di un limite così evidente come negli spettacoli teatrali, a cui siamo abituati.”
8
Ibid., p. 9. Circa la dialogicità dello spazio teatrale e la maggiore o minore interazione fra
attori e spettatori, occorre poi tenere presente che, nel teatro popolare dell’Inghilterra medievale così comein una certa misuranel teatro elisabettiano, la “linea di confine” fra
spettacolo e pubblico era assai più esile e flessibile di quanto non sia nel teatro moderno,
rendendo perciò l’esperienza del teatro ancora più affine a quella della seduta di terapia
familiare descritta da Bertrando, con i colleghi dietro allo specchio che “si alzano, passeggiano nervosamente” e, a volte, intervengono. A questo proposito, vedi per esempio
l’opposizione proposta da R. Weimann fra locus (inizialmente, lo “scaffold” dei mysteries,
dunque una zona ben delimitata sia spazialmente sia ontologicamente, in quanto luogo di
finzione) e platea (l’area circostante, spesso condivisa fra attori e spettatori): “Unlike
these loca, which could assume an illusionary character, the platea provided an entirely
non representational and unlocalized setting; it was the broad and general acting area in
which the communal festivities were conducted. Here the audience couldas in the per-
10
Un rapporto, quello fra noi spettatori e le famiglie che Shakespeare porta in
scena nei suoi drammi, che il punto di vista—in una certa misura straniante—
adottato nelle pagine che seguiranno mi auguro contribuisca ad approfondire e
vivificare.
formance of The Castle of Perseveranceshare the setting with both the actors and the
“stytelerys” who acted as stewards or supervisors” (R. WEIMANN, Shakespeare and the
Popular Tradition in the Theater, p. 79).
11
Capitolo primo
Famiglie nel tempo
AARON
My mistress is my mistress, this myself,
The figure and the picture of my youth.
This before all the world do I prefer;
This maugre all the world will I keep safe,
Or some of you shall smoke for it in Rome.
W. SHAKESPEARE, Titus Andronicus, IV.ii.106-110
Definire cosa significa ‘famiglia’ è un compito tutt’altro che semplice. E
tutt’altro che innocuo. Come avviene per la parola ‘letteratura’—croce e delizia
di tutte le introduzioni dei manuali di storia e teoria letteraria—tentare di assegnare confini precisi al concetto di ‘famiglia’ conduce, nei migliori dei casi, a
null’altro che a illustrarne la complessità. Invece di aggiungere un ennesimo
contributo in questo senso, quindi, preferisco limitarmi a riassumere, con pochi
esempi, alcuni fra i problemi che la definizione di ‘famiglia’ comporta, per poi
passare in rassegna alcune peculiarità della famiglia inglese del periodo Tudor e
Stuart.
Anzitutto, c’è un problema etico: ‘famiglia’, come ‘letteratura’, non è un
termine ideologicamente neutro. Così come negare a un qualsivoglia testo scritto lo status di ‘letteratura’ implica un giudizio negativo sulle qualità del testo da
parte del recensore, rifiutare la definizione di ‘famiglia’ a una particolare relazione fra due o più persone è un atto che finisce per fornire più informazioni
sulla posizione ideologica di chi definisce che non sulla relazione stessa. Basti
pensare alle continue battaglie fra la Chiesa cattolica e alcuni movimenti laici
sullo status giuridico delle cosiddette “coppie di fatto”, o delle coppie omosessuali. Questo perché ‘famiglia’, come ‘letteratura’, è—ancora—un termine carico di connotazioni perlopiù positive, indicando un gruppo che tende a reggersi
su ideali socialmente approvati, quali la protezione dei più deboli, la cura e
l’educazione dei più piccoli, il mutuo sostentamento, la convivenza, lo scambio
affettivo e, non ultimo, la procreazione. Questi ideali, è ovvio, sono solo una
faccia della medaglia: come tutti ben sappiamo, e come le statistiche e la cronaca continuamente ci confermano, la famiglia è anche uno fra i principali luoghi
di violenza, maltrattamenti e abusi di ogni genere, nonché fonte primaria di patologie e conflitti. In ogni caso, almeno fino ai nostri giorni, la società ha preferito mettere in risalto l’aspetto ideale della famiglia, incoraggiandone la formazione e il mantenimento e condannandone le manifestazioni ritenute di volta in
volta devianti.
Il problema della definizione, però, non è solo di natura ideologica. Anche
volendo adottare parametri oggettivi, si finisce per essere costretti a scelte arbitrarie—magari “adatte” a un particolare progetto, ma pur sempre esposte a obiezioni e contraddizioni. Quanto è estesa una famiglia, per esempio? Lawrence
Stone, in Famiglia, sesso e matrimonio, decide di riferirsi alla famiglia come “a
quei membri della stessa parentela che vivono insieme sotto uno stesso tetto”.1
Per uno studio di taglio storico e sociologico come il suo, basato soprattutto su
dati statistici e orientato a fornire un quadro generale, è certo una definizione
ragionevole e condivisibile. Dovendo invece lavorare su famiglie particolari,
come nel nostro caso, le limitazioni della regola di Stone sono immediatamente
evidenti. È sufficiente pensare a Pericles e Marina: non hanno mai trascorso un
solo minuto sotto lo stesso tetto, ma la loro relazione padre-figlia è una fra le
più emotivamente intense di tutto Shakespeare, e sarebbe arduo negare che fanno parte della stessa famiglia. Attenersi dunque a una definizione “legale” di
famiglia? Anche in questo caso, si porrebbe un problema di estensione: fino a
quale livello di parentela spingersi? Non solo: quanto tempo occorre affinché
una coppia, anche legalmente unita in matrimonio, diventi famiglia? È sufficiente l’intervento, pur giuridicamente incontestabile,2 di Friar Laurence, affinché l’unione fra Romeo e Juliet dia luogo a una famiglia?
1
L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento, p. 25.
2
A dire il vero, sarebbe stata considerata un’unione valida persino senza l’intervento di
Frair Laurence, come nota Barbara Diefendorf: “Romeo and Juliet did not need Friar
Laurence to join their hands in wedlock; their own vows, followed by consummation of
14
Nel capitolo successivo, esporrò e motiverò le risposte, a queste e altre simili
domande, che ho ritenuto opportuno selezionare per il mio progetto. Per il momento vorrei invece concentrarmi su quello che, per questa tesi, è forse il problema principale: ha senso—e, se sì, con quali accorgimenti—adottare un impianto teorico che è andato sviluppandosi a partire dagli anni ’50, e costruito
soprattutto sul modello della famiglia americana di quel periodo, per studiare
dinamiche fittizie basate, presumibilmente, su famiglie inglesi a cavallo fra XVI
e XVII secolo? O, in altre parole: in cosa è diversa la famiglia del periodo elisabettiano da quella attuale?
Per affrontare questa delicata questione, propongo di partire da
un’affermazione di Salvador Minuchin, un terapeuta della famiglia di origini
argentine il quale, avendo lavorato a lungo sia con famiglie americane di ogni
ceto sia con famiglie dei kibbutzim israeliani, è particolarmente sensibile alle
differenze originate dal contesto sociale e culturale:
Il cambiamento va sempre dalla società alla famiglia, mai dall’unità più piccola a quella più grande. La famiglia cambierà, ma anche rimarrà, perché è la migliore unità umana per le società in rapido cambiamento. Più flessibilità e adattamento
la società chiederà ai suoi membri, più significativa diventerà la famiglia quale
matrice di sviluppo psico-sociale.
Nello stesso modo in cui la famiglia, in senso lato, cambia e si adegua a situazioni storiche, così anche la singola famiglia costantemente si adatta. La famiglia è
un sistema aperto in trasformazione, cioè riceve e trasmette, a sua volta, stimoli
dal mondo esterno, adattandosi alle diverse richieste degli stadi evolutivi che affronta.3
È un’affermazione che serve anzitutto a metterci in guardia: il fatto che “il
cambiamento va sempre dalla società alla famiglia” può essere vero ora, ma forse lo era un po’ meno durante il regno di Henry VIII, le cui turbolente vicende
familiari, pur originate da motivazioni dinastiche e assecondate da ragioni politiche, quali lo scontento della Chiesa inglese, diedero un contributo non indiffe-
the union, were all that was required. This was true even in Shakespeare’s England, for,
unlike many place on the continent, which passed laws requiring parental consent to marriage in the sixteenth century, England did not adopt such legislation until 1753.” (B. DIEFENDORF, “Family Culture, Renaissance Culture”, p. 670).
3
S. MINUCHIN, Famiglie e terapia della famiglia, p. 55.
15
rente alla storia dell’Inghilterra. In ogni caso, rimane un’affermazione largamente condivisa anche dagli storici della famiglia. Quando, per esempio, Stone
cerca di giustificare il passaggio dalla famiglia a lignaggio aperto tardomedievale a quella moderna, caratterizzata da una crescente importanza del nesso nucleare e dei legami affettivi coniugali, lo fa attribuendolo a tre fattori macrosociali:
il declino della parentela nell’organizzazione della società terriera, l’affermarsi
dei poteri dello stato su quelli delle famiglie estese e la diffusione del protestantesimo.4
Ciò che è importante sottolineare, comunque, è che sia per un terapeuta come Minuchin sia per uno storico come Stone, la famiglia si “adatta”: non si
comporta, cioè, semplicemente come uno specchio della società nella quale si
trova immersa, bensì come un organismo. Questo complica enormemente le cose: dovendo adattarsi da una parte alle esigenze della società che la circonda e
dall’altra a quelle dei membri che la compongono, la famiglia è un organismo
oltremodo complesso. È quindi difficile, se non impossibile, ridurre le soluzioni
via via adottate a pochi semplici schemi.
Non solo: un organismo, diversamente da uno specchio, ha un suo comportamento individuale. Similmente, ogni famiglia ha un suo modo di comportarsi,
un modo che non riflette necessariamente né la propria epoca, né quello delle
altre famiglie e nemmeno, infine, quello degli individui che ne fanno parte.
Come intuisce brillantemente Tolstoj alcuni decenni prima della nascita della
psicoanalisi, e con quasi un secolo d’anticipo sui terapeuti della famiglia, “ogni
famiglia infelice è infelice a suo modo”. E, come avremo occasione di vedere, ci
sono buone ragioni per ritenere che anche ogni famiglia felice—contrariamente
da quanto afferma Tolstoj—abbia un proprio modo di essere tale: modo che non
coincide necessariamente né con quello delle altre famiglie né con quello che
porterebbe a essere felici i suoi singoli componenti .
Volendo mettere a confronto la famiglia elisabettiana e la famiglia odierna ci
si trova quindi ad affrontare un duplice ostacolo: quale famiglia elisabettiana? e
quale famiglia odierna? La distanza storica, per quanto riguarda la famiglia eli4
Vedi L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, cap. 4.
16
sabettiana, può paradossalmente essere d’aiuto: non avendone una conoscenza
diretta, siamo vincolati ai pochi dati ottenibili dagli sporadici documenti rimasti, circoscrivendo così la varietà delle sue manifestazioni a un insieme relativamente limitato. Il problema maggiore mi pare piuttosto il secondo: con quale
idea di famiglia attuale stabilire il confronto, per tentare di capire se le teorie
della terapia familiare possono essere applicate anche alle famiglie
dell’Inghilterra rinascimentale?
Per evitare l’equivoco della famiglia contemporanea “normale”, ho ritenuto
opportuno scegliere una famiglia esplicitamente “singolare”. Infatti, ciò che la
parola ‘famiglia’ evoca in ognuno di noi è necessariamente un compromesso fra
statistiche ed esperienza personale. Stabilire quali tratti sono rimasti inalterati e
quali, negli ultimi quattro secoli, si sono modificati è quindi, almeno in parte,
una decisione comunque arbitraria. Proporre il confronto con una particolare
famiglia non risolve certo il problema. Ma può aiutarci a non dimenticare che
esso esiste.
La famiglia inglese fra i secoli XVI e XVII e una famiglia di oggi
La famiglia contemporanea che ho scelto, i Wagner, è formata da Emily, suo
marito Mark, e il figlioletto Tommy, di tre anni. Come la definisce Minuchin,
che ha intervistato i due coniugi, è una famiglia “normale”:
ciò vuol dire che la coppia ha molti problemi che riguardano le relazioni reciproche, la crescita e l’educazione dei figli, i rapporti con i suoceri e il modo di far
fronte al mondo esterno. Come tutte le famiglie normali, si dibattono costantemente in questi problemi, negoziando compromessi che rendono possibile una vita
in comune.5
Nelle pagine che seguono, riporterò alcuni brani di una lunga intervista alla
coppia—intervista che ha il vantaggio di essere non terapeutica, bensì orientata
a studiare una famiglia in formazione—mettendo di volta in volta a confronto la
situazione dei Wagner con quella che possiamo ipotizzare per una famiglia del
periodo Tudor e Stuart. Spero, in tal modo, di raggiungere tre obiettivi: illustra-
5
S. MINUCHIN, Famiglie e terapia della famiglia, pp. 24-25.
17
re alcuni tratti della famiglia inglese rinascimentale, introdurre il linguaggio
della terapia familiare e, infine, fornire le basi per un confronto in due direzioni,
quella diacronica fra i Wagner e famiglie di quattro secoli fa e quella sincronica
fra i Wagner e i miei idiosincratici stereotipi sulla famiglia contemporanea.
Chi decide la domenica?
MINUCHIN: La prima cosa che vorrei sapere è: perché siete qui? Cosa vi ha fatto
decidere a venire? Come è stato?
SIGNOR W.: Il sabato è, diciamo così, il nostro giorno libero, perlomeno per quanto mi riguarda. Qualunque cosa voglia fare mia moglie, si fa. Mi sta bene continuare così. La domenica, perciò, è più o meno il mio giorno di libertà.
MINUCHIN: Interessante, significa che avete deciso di dividere il fine settimana in
modo che un giorno lei ha la facoltà di decidere cosa fare e l’altro sua moglie.
SIGNOR W.: Non esattamente, è una specie di...
MINUCHIN: È semplicemente successo. Ma come è avvenuto? Dal punto di vista
storico è interessante; come siete giunti a distribuirvi questo compito di decidere? Ve lo ricordate?
SIGNOR W.: Posso azzardare una congettura. Prima lavoravo dal lunedì al sabato
in un ospedale. Il sabato era una specie di giorno inconcludente. Per quanto mi
riguardava, pensavo che la domenica fosse il mio giorno libero. E così, appena
il sabato si è reso disponibile, lei se ne è appropriata, per così dire. Non le avrei permesso di prendersi la domenica, perché quello era il mio giorno.
MINUCHIN: Così avete portato avanti quella specie di regola implicita, senza aver
detto chiaro e tondo che vi sareste comportati così.
SIGNORA W.: La regola è che la domenica lui va a pesca o a fare qualche altra cosa, e io me ne resto per i fatti miei. È sempre stato così. Sì, è andata così per
circa un anno.
MINUCHIN: Va a pesca la domenica. Sabato è il giorno in cui fate qualcosa insieme, e lei decide.
SIGNOR W.: Non è proprio così, così rigido e ferreo. Direi che il sabato mia moglie
ha più probabilità di decidere cosa faremo.
SIGNORA W.: Di solito io ho programmato qualcosa che voglio fare, e in genere lo
facciamo.
Queste sono le primissime battute dell’intervista ai Wagner. Ignorando completamente la domanda di Minuchin, il signor Wagner spiega che il sabato è il
giorno della moglie, mentre a lui spetta la domenica. Nell’Inghilterra di fine
Cinquecento, una simile organizzazione dei fine settimana sarebbe stata semplicemente inconcepibile. E non tanto per la più o meno democratica distribuzione
delle decisioni fra donna e uomo, quanto per la gestione della domenica. La
domenica, fra i secoli XVI e XVII, non è né del marito né tantomeno della moglie: è il “Lord’s Day”, il giorno del Signore. Ciò non significa che il signor
18
Wagner non sarebbe potuto andare a pescare: benché ritenute indecorose, le attività ludiche erano tollerate anche nei giorni festivi—al contrario di quelle lavorative, per le quali si poteva persino incappare in una denuncia.6 Però non avrebbe mai definito la domenica “il mio giorno”.
La presenza ossessionante della religione in tutti gli aspetti della vita quotidiana è, probabilmente, una tra le differenze di maggior rilievo fra una famiglia
d’allora e una contemporanea. È una presenza che si fa sentire in ogni occasione, da quelle più pubbliche (il controllo della morale era esercitato in gran parte
dai tribunali ecclesiastici) a quelle più intime e private, come testimoniano i diari dell’epoca giunti fino a noi. Nelle famiglie puritane, poi, si arrivava al parossismo. Ecco un assaggio di un pomeriggio di Lady Margaret Hoby, per
l’esattezza il pomeriggio del 30 dicembre 1599, una domenica: “[...] we went to
the afternoon sermon and from thence came home and read of Greenham [un
predicatore puritano], and heard Meg Rhodes read. Then I walked and conferred
with Mr. Hoby, took order for supper, and then went to private examination and
prayer [...]”.7 In altre famiglie è probabile che ci si lasciasse un po’ più andare,
come si può inferire dalle numerose proteste contro le ale-houses aperte nei
giorni festivi,8 ma possiamo ragionevolmente ipotizzare che il nostro signor
Wagner, se proprio avesse voluto un giorno tutto per sé, si sarebbe preso il sabato. E, con molta probabilità, la moglie non avrebbe avuto alcunché da ridire.
La seconda, enorme, differenza riguarda infatti la condizione femminile:
quella dell’Inghilterra rinascimentale era una società a organizzazione patriarcale. Avremo occasione di approfondire questo aspetto fra qualche paragrafo, ma
già fin d’ora possiamo anticipare che la posizione maggiormente condivisa era
quella espressa dal moralista William Gouge, il quale, scrivendo del marito/padre “he is as a king in his own house”,9 rendeva esplicita l’equazione fra
6
Vedi M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, 1570-1640, cap. 3 (“Religion and the people”).
7
R. HOULBROOKE, English family life, 1576-1716, pp. 58-59.
8
M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, pp. 99-101.
9
W. GOUGE, Of domesticall duties, 1622, p. 258 (citato in M. INGRAM, Church courts, sex
and marriage in England, p. 143).
19
autorità patriarcale e autorità regale. Certo, c’era già chi cominciava a intravedere nella stessa Bibbia indicazioni per una maggiore equità nella distribuzione
del potere fra i due sessi, ma leggi e consuetudini erano entrambe tese a rafforzare l’autorità dell’uomo sulla donna. Per quanto numerose potessero essere le
eccezioni, dunque, quel processo che Minuchin identifica nel matrimonio dei
Wagner—il giungere a distribuirsi il compito di decidere—nel periodo elisabettiano era in gran parte sottratto alla coppia da consuetudini religiose e sociali.
Le domande da porsi, a questo punto, sono: a) quanto è rappresentativa della
“famiglia contemporanea” la modalità dei Wagner di decidere dei week-end? b)
ai fini di una lettura basata sui modelli teorici della terapia familiare, quali conseguenze comportano le due differenze evidenziate fra la modalità dei Wagner e
quella di un’ipotetica famiglia elisabettiana media?
Riguardo al primo punto, si potrebbe tentare una risposta facendo appello a
un’indagine statistica. Un campione rappresentativo potrebbe dirci se la famiglia “media” ritiene o meno la domenica un giorno sacro. Oppure, se le decisioni sulla gestione del tempo libero tendono ad essere affidate alla donna o
all’uomo. Supponendo che le decisioni vengano prese dal “capofamiglia”, per
esempio, se ne potrebbe dedurre che, negli Stati Uniti, decida l’uomo nel 72%
dei casi, mentre in Italia la percentuale salirebbe all’83%.10 Nelle pagine che seguono, farò talvolta ricorso a dati di questo tipo. I dati statistici, però, a differenza di un’intervista, ci aiutano ben poco a capire come vengono prese le decisioni. Un aneddoto di Milton H. Erickson, fondatore della terapia familiare strategica, illustra chiaramente il problema:
Una volta iniziai a chiedere ad alcune persone anziane che erano cresciute a
Vienna alla fine del secolo scorso come erano le loro famiglie. Mi interessava conoscere il clima familiare dei tempi di Freud, nel periodo in cui egli considerava il
padre come una figura tanto potente e castrante. Una signora di Vienna mi raccontò che quando lei era giovane suo padre era un uomo molto potente nella sua famiglia e poi disse: “Non potevamo neanche sederci sulla sua sedia”. Incuriosito, le
chiesi come faceva a impedire ai figli di sedersi sulla sua sedia e la donna rispose:
“Oh, non era papà a farlo. Lo faceva la mamma. Ci diceva che se ci fossimo seduti
10
Dati ricavati dalla Tabella 088 dell’U.S. Bureau of the Census International Database,
“Heads of Households, by Age, Sex, and Urban/Rural Residence”, e relativi al 1980 per
gli Stati Uniti e al 1971 per l’Italia.
20
sulla sedia di nostro padre ci sarebbero venuti i foruncoli sul sedere”. Sembrerebbe che al padre fosse concesso soltanto di rappresentare il potere nella famiglia.11
In un’indagine a domande strutturate, soprattutto se su vasta scala, probabilmente ci si sarebbe fermati alla prima dichiarazione della signora di Vienna,
confermando la figura del padre nell’epoca vittoriana come autoritaria e dominante. Una visione, questa, senz’altro convincente per quanto riguarda il macrosistema sociale, ma non necessariamente fedele alla realtà dei microsistemi familiari. “Partire dal presupposto che nella lotta per il potere è sempre la donna
che perde va benissimo, se guardiamo al sistema sociale più largo,” obiettano
Maria Grazia Cancrini e Lieta Harrison ad alcune loro colleghe femministe, “ma
se guardiamo al sistema di coppia questo non può essere dato per scontato.”12 In
altre parole, come già accennato, la famiglia non si limita a riflettere la società,
ma vi si adatta. Poiché su tale adattamento agiscono anche le esigenze dei suoi
membri, le soluzioni che ogni famiglia trova sono originali e spesso imprevedibili, come testimonia il bizzarro compromesso dei Wagner. Questo è il motivo
per cui, considerando l’argomento che tratterò, ho ritenuto opportuno condurre
il confronto sulla base di un’intervista, piuttosto che su dati statistici. In
quest’ottica, la modalità di prendere le decisioni dei Wagner può dirsi rappresentativa solo nel senso che offre una rappresentazione dell’innumerevole varietà di soluzioni che ogni famiglia finisce per adottare.
Una simile varietà di manifestazioni sull’asse sincronico ha ripercussioni
immediate anche sulla nostra seconda domanda, quella circa l’entità del cambiamento sull’asse diacronico. Come sostengono gli storici più scettici nei confronti della netta divisione in tre epoche postulata da Stone, infatti, “the variety
in the quality of relationships existing at any one time, the product of differences in individual temperaments as well as social and economic circumstances,
has, save perhaps in the very long term, outweighed the significance of
change.”13
11
J. HALEY, Terapie non comuni, p.207.
12
M.G. CANCRINI E L. HARRISON, “La terapia di coppia”, p. 348.
13
R. HOULBROOKE, English family life, p. 10.
21
Personalmente, ritengo sia pressoché impossibile stabilire se, in generale, la
varietà nell’organizzazione della vita familiare sia più marcata sull’asse sincronico o su quello diacronico. Volendo però capire se tali variazioni siano tali da
precludere o meno la possibilità di applicazione delle teorie sui sistemi familiari, è importante considerare che, per limitarci alla modalità di prendere decisioni, la soglia di applicabilità non sta fra “famiglie in cui decide la donna” e “famiglie in cui decide l’uomo”. In entrambi i casi, ovviamente, si tratta di famiglie. La soglia coinvolge un tipo logico superiore,14 e cioè la distinzione fra sistemi nei quali il potere che ha un individuo di decidere per tutti è potenzialmente negoziabile e fonte di conflitti, e sistemi in cui non lo è. Si potrebbe obiettare che tutti i sistemi umani, dalla semplice coppia di amici agli stati nazionali, godono di questa proprietà. E che quindi, limitatamente a tale proprietà,
l’applicabilità delle teorie sistemiche alla famiglia è una tautologia. In effetti
temo sia proprio così, e non c’è da stupirsene: l’impianto teorico della terapia
familiare sistemica, come vedremo nel terzo capitolo, deriva direttamente dalla
cibernetica (quindi dall’analisi di sistemi non necessariamente umani) e dagli
studi di Gregory Bateson sulle interazioni più disparate—dalla comunicazione
fra cetacei15 al sistema di valori degli abitanti di Bali.16 Dunque, una teoria con
un campo di applicabilità decisamente esteso.
Un breve paragone con il modello freudiano classico, per quanto semplificato, può aiutare a chiarire l’intrinseca elasticità—o povertà, se si preferisce—dei
modelli sistemici. La differenza sessuale è un fattore imprescindibile nelle teorie di Freud: basti pensare a concetti come l’invidia del pene e l’angoscia di castrazione, o alla diversa esperienza che l’attraversamento della fase edipica
comporta per una bambina e per un bambino. In particolare, la bambina, a differenza del bambino, si troverebbe a dover affrontare un cambiamento nel proprio
14
Per la teoria dei tipi logici, vedi A.N. WHITEHEAD E B. RUSSELL, Principia Mathematica,
vol. 1.
15
G. BATESON, “Problemi relativi alla comunicazione dei cetacei e di altri mammiferi”, in
Verso un’ecologia della mente, pp. 401-420.
16
G. BATESON, “Bali: il sistema di valori di uno stato stazionario”, in Verso un’ecologia
della mente, pp. 136-159.
22
investimento oggettuale: dalla madre (o dalla balia), oggetto primario comune a
entrambi i sessi durante l’allattamento, al padre, che l’invidia del pene promuove a oggetto amoroso principale della fase edipica femminile.17 Cambiamento,
questo, con notevoli conseguenze per la donna adulta: “La formazione del suo
Super-io non può non risentire di queste condizioni, il Super-io non può raggiungere quella forza e quell’indipendenza che tanta importanza hanno per la
civiltà umana, e... i femministi [sic] non ameranno certo sentir dire quali sono
gli effetti di questa debolezza sul carattere femminile medio.”18 Obiezioni dei
“femministi” a parte, questo di Freud è indubbiamente un modello particolareggiato ed estremamente esplicativo. Proprio questa sua ricchezza, però, lo rende
quanto mai vincolato a contesti storico-sociali piuttosto determinati: come nota
Stone, “risulta ormai abbastanza chiaro che quattro tra i traumi principali (orale,
anale, genitale ed edipico) che Freud cercava, e trovava, nei suoi pazienti, dunque riteneva universali, dipendono da esperienze peculiari alla società dei ceti
medi europei nel tardo periodo vittoriano da cui provenivano gli stessi pazienti.
[...] I bambini degli inizi dell’età moderna subivano una serie diversa, e forse
ancor più sconcertante, di esperienze traumatiche.”19
Ora, perlomeno nella terapia familiare classica, la differenza sessuale gioca
un ruolo assai più limitato. Per i terapeuti della scuola di Palo Alto, per esempio, nella famiglia i ruoli di moglie e marito passano in secondo piano rispetto
alla distinzione fra comunicazione simmetrica e complementare, distinzione entro la quale gli attori non sono una donna e un uomo, bensì due “posizioni”,
quella di one-up e quella di one-down. La povertà semantica di simili definizioni può lasciare sconcertati, ma esse hanno il vantaggio di essere applicabili a
qualsiasi relazione comunicativa che implichi la negoziazione del potere. In altre parole, se era improbabile che una moglie, nell’Inghilterra rinascimentale,
potesse imporre al marito la propria decisione su come trascorrere il sabato, era
invece inevitabile che, all’interno di una relazione di coppia, ci fosse chi tende-
17
Vedi S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, pp. 518-519.
18
Ibid., p. 528.
19
L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, pp. 177-178.
23
va a occupare la posizione privilegiata di one-up, e che si adottasse uno stile
comunicativo simmetrico o complementare. Resta da vedere quanto tali etichette, con la loro elasticità descrittiva, possano servire a sviluppare un modello che
sia anche esplicativo. Ma questo è argomento dei successivi capitoli.
Rimane il problema, non indifferente, del ruolo della religione. È questo un
aspetto intimamente connesso alla vita familiare perché, soprattutto nei diari
delle famiglie puritane, la presenza di riferimenti a Dio è talmente pervasiva da
configurarlo quasi come un membro della famiglia. Occorre dire che Dio è citato pressoché esclusivamente in formule di ringraziamento, ma ci sono anche occasioni in cui si tenta di “coinvolgerlo” in modo più diretto nelle diatribe fra parenti. Lady Anne Clifford, per esempio, alla quale il marito sta cercando di sottrarre il controllo sulle terre da lei ereditate, annota così gli eventi del 14 febbraio 1617: “[My] Uncle Cumberland and my Coz. Clifford came to Dorset
House where my Lord and they signed and sealed the writings and made a final
conclusion of my business and did what they could to cut me off from my right,
but I referred my cause to God.”20 Da un punto di vista sistemico, il problema
della presenza di Dio nella vita familiare è quasi imbarazzante, poiché si tratta
di un “personaggio” assolutamente sui generis: non lascia possibilità di negoziare la posizione di potere, tutti i membri della famiglia possono ritenerlo loro
alleato, non parla mai ma sembra ascoltare tutti. Senza un dio al quale affidare
la propria causa, per esempio, Lady Anne si sarebbe forse rivolta con maggiore
decisione a qualche conoscente fidato, magari un parente, innescando una serie
di perturbazioni negli equilibri interni alla sua famiglia che, lasciando tutto nelle mani di Dio, vengono invece, perlomeno in parte, evitate.
Almeno uno fra i pochi assiomi della teoria familiare, la triangolazione (cioè
il coinvolgimento di un terzo membro, di solito un figlio, in situazioni di conflitto), sembrerebbe quindi dipendere dal contesto storico. Probabilmente è proprio così, e quello della triangolazione è soltanto uno dei fenomeni ai quali occorre prestare estrema attenzione. In questo senso, si potrebbe anche aggiungere
che, per lo scopo del nostro lavoro, la censura sui riferimenti religiosi durante le
20
R. HOULBROOKE, English family life, pp. 61-62.
24
rappresentazioni teatrali, in quanto potenzialmente offensivi nei riguardi della
divinità, rappresenta paradossalmente un vantaggio: la “famiglia drammatica” è,
almeno per questo tratto, meno distante dalla “famiglia odierna” di quanto non
lo sia la “famiglia storica”. Ma anche su questo punto avremo occasione di ritornare.
Infine, due curiosità. Così come i coniugi Wagner, anche i coniugi
dell’Inghilterra rinascimentale non trascuravano l’importanza di passare un po’
del proprio tempo libero insieme: a giudicare dai diari, uno fra i passatempi più
comuni, almeno per chi abitava in campagna, pare fosse dedicarsi a lunghe passeggiate—“walking into the fields”.21 Per quanto riguarda, invece, la causa di
Lady Anne, l’intervento di Dio, seppur con un certo ritardo, fu infine decisivo:
nel 1643 suo cugino morì senza eredi maschi, e le terre poterono quindi
ritornare in suo possesso.
Contesti terapeutici, metacomunicazione e cambiamento
L’intervista ai Wagner si sposta poi su un piano metacontestuale:
MINUCHIN: Come è successo che siete qui? Perché siete voluti venire?
SIGNOR W.: Venire qui? Ho visto un annuncio sul giornale e ho risposto. Mia madre ha visto l’annuncio sul giornale.
“Annuncio sul giornale” a parte, il semplice recarsi a un colloquio pseudoterapeutico è già di per sé un atto assolutamente inconcepibile nel contesto elisabettiano. A prima vista, questa ovvia differenza potrebbe apparire irrilevante,
come sembrano garantire le numerose letture freudiane di vicende inventate e
ambientate numerosi secoli prima della psicoanalisi. Tenendo però conto delle
peculiarità della terapia familiare, che dà alla relazione famiglia-terapeuta
un’importanza—anche teorica—decisamente superiore a quella che rivestono il
trasfert e il controtransfert nella terapia analitica, si tratta di una differenza che
non posso permettermi di trascurare, e che anzi rischia di minare in modo considerevole la validità dell’approccio scelto.
21
Vedi, per esempio, il diario di Adam Eyre, “yeoman” (in R. HOULBROOKE, English family
life, pp. 65-69).
25
Il problema non sta tanto nell’indagare se anche gli elisabettiani erano soliti
ricorrere all’aiuto di una terza persona per ciò che riguardava vicende personali
e familiari: basterebbe il solo esempio di Simon Forman—“mago e medico di
professione” al quale si rivolgevano moltissime persone, soprattutto donne, “per
farsi consigliare sul futuro di un marito o di un amante”22—per poter ipotizzare
che simili opportunità di “consulenza professionale” non mancassero. Per valutare le possibilità di applicazione del modello della terapia familiare, però, ciò
che più conta è piuttosto tentare di capire se, all’interno della famiglia elisabettiana, c’era o meno la consuetudine a metacomunicare, cioè a parlare delle modalità e della qualità delle relazioni interpersonali, e se tali metacomunicazioni
erano viste come potenziali opportunità di cambiamento.
Uno tra i princìpi fondamentali della terapia familiare, infatti, è che il cambiamento non si innesca lavorando sui “contenuti”—sui fatti contingenti, cioè, o
sui ricordi, o più in generale su ciò che accade o è accaduto—bensì spostando
l’attenzione su un livello logico superiore: la “relazione”. Un esempio, per
quanto banale e stereotipato, può illustrare ciò che intendo: se una moglie si lamenta perché il marito passa poco tempo in casa, e al tempo stesso il marito
cerca di passare il minor tempo possibile in casa perché non sopporta le lamentele della moglie, secondo i terapeuti della famiglia la situazione non si sbloccherà cercando di scoprire “chi ha ragione” (dunque, lavorando sul contenuto),
ma piuttosto aiutando i due coniugi a vedere come il loro modello di comunicazione tenda a ripetere sempre le stesse sequenze (lavorando, perciò, sulla relazione). Se la terapia ha successo, moglie e marito rinunceranno a voler stabilire
“chi ha ragione” e concentreranno i propri sforzi a stabilire nuove “regole”.
È, questo, un modo di affrontare i problemi che poteva avere luogo nel contesto Tudor e Stuart? A giudicare dalle testimonianze dirette, si direbbe che
questo spazio esisteva. La sequenza di brani che segue è tratta dal diario di Adam Eyre—uno yeoman di mezz’età, sposato da sette anni (forse la famosa “crisi del settimo anno” colpiva già all’epoca…), senza figli, perennemente in difficoltà finanziarie ma al tempo stesso incapace di rifiutarsi di pagare una birra a22
L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, pp. 619-20.
26
gli amici della alehouse—e lascia intravedere un’interessante evoluzione nella
relazione con la moglie Susannah:
[June 8, 1647] This morn my wife began, after her old manner, to brawl and
revile me for wishing her only to wear such apparel as was decent and comely, and
accused me for treading on her sore foot, with curses and oaths; which to my
knowledge I touched not .[..]
[July 30, 1647] This day I stayed at home all day, by reason my wife was not
willing to let me go to bowls to Bolsterstone [...]
[October 2, 1647] This day my wife was very angry, and I stayed at home all
day [...]
[January 1, 1648] This morn I used some words of persuasion to my wife to
forbear to tell me of what is past, and promised her to become a good husband to
her for the time to come, and she promised me likewise she would do what I
wished her in anything, save in setting her hand to papers; and I promised her
never to wish her thereunto. Now I pray God that both she and I may leave off all
our old and foolish contentions, and join together in his service without all fraud,
malice or hypocrisy [...].23
Nella domestica pacatezza dello stile di Adam, c’è qualcosa di straordinariamente vivido e toccante. L’incidente del piede ferito, le piccole rinunce quotidiane, le liti e i rancori: le trame della vita familiare non sono fatte di grandi
eventi, si sviluppano perlopiù su scene come queste, e la descrizione che ne offre Adam suona talmente attuale che, se non fosse per le date e per il linguaggio, potrebbe benissimo riferirsi a una qualsiasi famiglia di oggi. Lo stesso rapporto tra i sessi appare assai meno squilibrato di quanto siamo abituati a pensare, ed esemplifica bene ciò che abbiamo osservato a proposito dell’aneddoto di
Milton H. Erickson.
Vorrei, però, soffermarmi su alcune caratteristiche e sottolineare alcuni aspetti degni di nota. Anzitutto, Adam Eyre non è né un nobile né un gent, bensì
un uomo comune, uno yeoman. Ancora, dal tono con cui descrive la sua situazione familiare, possiamo intuire che, per quanto difficile e ansiogena, non la ritenesse così fuori dal comune. Ma ciò che più ci interessa, qui, è l’evoluzione
relazionale che indirettamente la sequenza sopra riportata illustra. Le pagine del
23
R. HOULBROOKE, English family life, pp. 67-6.
27
1647 mostrano una coppia che ragiona sui contenuti: Adam è troppo conservatore, o è Susannah che non sa darsi un contegno? Il piede è stato pestato oppure
no? È giusto che Adam debba rinunciare ad andare a Bolsterstone? Ha ragione
Susannah ad essere in collera? Il primo giorno del 1648, però, evidenzia una situazione qualitativamente diversa: Adam e Susannah hanno parlato fra loro non
di ciò che dicono o fanno, ma di come comunicano—delle “our foolish contentions”—e, smettendo di interrogarsi su chi ha ragione, sembrano aver preso atto
che quello di coppia è un gioco che si gioca in due—“she and I”. L’unico modo
per introdurre un vero cambiamento è quello di ritoccarne insieme le regole,
cioè di metacomunicare, ed è in questa direzione che si orientano i loro propositi. Anche senza l’intervento di un terapeuta.
Vicini e parenti
Per tornare ora ai nostri Wagner, sentendo menzionare la madre del Signor
W., Minuchin non si lascia sfuggire l’occasione per estendere l’indagine alla
cosiddetta “famiglia estesa”:
MINUCHIN: Sua madre? Mi dica qualcosa della sua famiglia. Vive vicino a voi?
SIGNORA W.: Vivono nella stessa comunità.
Quello di ‘famiglia estesa’, e più in generale di ‘comunità’, è un concetto
fondamentale per la comprensione dell’evoluzione storica della struttura familiare. Secondo Stone, infatti, i due più importanti momenti di discontinuità nella
storia della famiglia hanno entrambi a che fare con il grado di isolamento del
nucleo familiare rispetto alla famiglia estesa e alla comunità: sia nel passaggio
da ‘famiglia a lignaggio aperto’ a ‘famiglia nucleare patriarcale ristretta’, sia in
quello successivo a ‘famiglia nucleare domestica chiusa’, la tendenza è quella di
un progressivo “arroccamento della famiglia nucleare sia come difesa dalle interferenze, e gli appoggi, della parentela, sia come ulteriore forma di allontanamento dalla vita comunitaria”.24
24
L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 247.
28
Una tendenza, questa, tuttora facilmente osservabile anche da un punto di vista statistico, come sembra confermare il crescente numero di coppie senza figli
e di single. Almeno in apparenza, questo è un ulteriore limite all’applicabilità
delle teorie della terapia familiare al teatro shakespeareano, perché sembra sancire che le dinamiche inter-familiari di quattro secoli fa erano oggettivamente
assai diverse.
Vorrei perciò, a questo punto, soffermarmi un istante su una considerazione
metodologica. Per valutare l’applicabilità di un approccio a due “oggetti di studio” diversi, l’ideale sarebbe poter disporre di un elenco chiaro e non ambiguo
delle proprietà dei due oggetti in questione, confrontare tali proprietà, e stabilire
infine se esiste un margine di sovrapposizione tale da poterli considerare “sufficientemente simili”. Purtroppo, per “l’oggetto famiglia” la realizzabilità di un
simile elenco è un’utopia, e il fatto che una delle poche proprietà chiare—le definizione dei confini rispetto a famiglia estesa e vicinato—lasci intravedere una
notevole differenza non depone certo a favore della “somiglianza”.
Ma siamo proprio sicuri che la famiglia di oggi sia un’entità così impermeabile all’influenza esterna? E impermeabile a quali forme di influenza esterna?
Curiosamente, una tra le pochissime “regole familiari generali” che chi si occupa professionalmente di famiglie riesce a individuare sembra affermare proprio
il contrario di quanto assume Stone:
Prendiamo ad esempio una delle regole familiari più comuni: quella che può
essere espressa dalla frase “che cosa dirà la gente?”
Poche regole nella famiglia sono seguite più fedelmente di questa, anche se
coloro disposti ad ammetterlo non saranno in molti. [...] Cosa dirà la gente... Cosa
dirà la gente se non cambiamo l’auto; se il ragazzo non ha il motorino; se non facciamo la settimana bianca; se mi lavo i capelli da sola; se la ragazzina non è promossa; se Gigi non va all’università; se non teniamo il passo con la famiglia Rossi...
Eppure... provate a svelare questa regola così evidente, così rispettata: otterrete
un coro di proteste. Figuriamoci! Chi se ne frega dei vicini... della famiglia Rossi... della salumiera... dei colleghi... dell’insegnante... di quella vipera di Maria...25
Ovviamente, non si tratta qui di un’influenza istituzionale: nessuno, al giorno d’oggi, perde il diritto di voto se la propria consorte non va regolarmente dal
25
G. BERT e S. QUADRINO, L’arte di comunicare, pp.8-9.
29
parrucchiere, e Gigi correrà
ben pochi rischi di essere
diseredato se anche mancherà il traguardo della laurea. Ma è proprio nei più
banali rapporti quotidiani
con il mondo circostante
che la famiglia acquista
un’identità propria, che si
distingue. E, per questo tipo
di rapporti, le differenze rispetto
alla
famiglia
elisabettiana sembrano essere assai più lievi di quanto lascia intuire Stone.
“Then as now, the idea of the ‘family’ could extend to kinsfolk and affines outside the household circle”,26 scrive Ingram (corsivo mio), e anche Houlbrooke
mostra alquanto scetticismo circa la differenza di permeabilità tra famiglie
dell’epoca di Shakespeare e famiglie odierne: “whether family households were
considerably larger and more complex before the industrial revolution, may
now be regarded as resolved: most of them were not. But whether they were
more ‘porous’, more subject to the influence of kin and neighbours, remains a
controversial point.”27
Esistevano i nonni? I tempi della morte e altri fattori demografici
Parlando di famiglia estesa, è ora inevitabile affrontare l’argomento anche da
un punto di vista più strettamente demografico. Nel Cinquecento e Seicento si
viveva assai meno a lungo di oggi, e questo aveva evidenti ripercussioni sulla
vita familiare. Quando Stone ci informa, per esempio, che “la speranza di vita al
momento della nascita, nell’Inghilterra degli anni 1640, era di soli trentadue an-
26
M. Ingram, cit., p. 127.
27
R. Houlbrooke, cit., pp. 9-10.
30
ni”,28 viene naturale domandarsi, prima di indagare il rapporto fra nonni e nipoti, se mai esistessero, i nonni. In realtà, considerando che i trentadue anni di speranza di vita si riferiscono al momento della nascita e che la mortalità infantile
era elevatissima, per chi superava il quinto anno di età le attese di vita non erano così catastrofiche. Come si può dedurre dal grafico di figura 1.1 (tratto da
Stone, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 784), relativo alla durata media della
vita degli eredi della squirarchy e dei ceti superiori maggiori di ventun anni dal
1500 al 1800, quella dei nonni, per quanto rara, non era certo una categoria inesistente. Ma che tipo di relazione mantenevano con figli adulti e i nipoti? E, più
in generale, com’erano i rapporti intergenerazionali nell’Inghilterra dell’età moderna?
Prima di tentare di rispondere, conviene anche in questo caso rivolgersi per
un istante alla situazione odierna, in modo da poter poi condurre il confronto su
basi più concrete. Ecco dunque i Wagner a proposito dei propri genitori:
SIGNOR W.: Domani andiamo dai miei.
MINUCHIN: I suoi genitori vivono vicino?
SIGNOR W.: Meno di un miglio.
MINUCHIN: E i suoi?
SIGNORA W.: Direi a circa tre o quattro miglia.
MINUCHIN: Quanto sono importanti suo padre e sua madre?
SIGNOR W.: Direi che...
SIGNORA W.: Non molto, veramente.
SIGNOR W.: No, non quanto i genitori di mia moglie.
SIGNORA W.: Tutti e due i suoi genitori lavorano e di regola non li vediamo molto.
La domenica è l’unico giorno in cui possono sbrigare le loro cose. Non li vediamo spesso come i miei, ma neanche i miei li vediamo tanto spesso. Lui perlomeno: io li vedo di più, durante la settimana.
MINUCHIN: Ciò significa che la famiglia di Emily entra nella vostra vita più di
quella di Mark. Era così anche prima della nascita di Tommy?
SIGNOR W.: Direi di sì.
SIGNORA W.: Vivevamo con i miei prima dell’arrivo di Tommy, cioè da quando ci
siamo sposati.
MINUCHIN: Quando vi siete sposati siete andati a vivere con i suoi genitori?
SIGNORA W.: Lui studiava ancora all’università, stava finendo il semestre; così
siamo stati là. Abbiamo vissuto insieme a loro da aprile ad agosto: è stato orribile.
28
L. Stone, cit., p. 68. Per un confronto, basti pensare che, nel 1983, in Gran Bretagna, la
speranza di vita alla nascita era di 72 anni per gli uomini e di 78 per le donne.
31
Anzitutto, i Wagner hanno entrambi tutti e due i genitori vivi e vegeti: se avere un nonno ancora in vita non era così infrequente pure in epoca elisabettiana, averne quattro come capita a Tommy era praticamente impossibile. Al tempo stesso, però, le dinamiche che legavano genitori e figli adulti non erano così
diverse da quelle che i Wagner descrivono.
Per esempio, capitava che alcune giovani coppie—soprattutto se pressate da
problemi finanziari—si adattassero a vivere con la famiglia di origine di uno dei
due, come riporta Ingram parlando delle caratteristiche essenziali della famiglia
Tudor e Stuart: “The great majority of family households were nuclear in form.
Analysis of contemporary listings reveal that only about 10 per cent of
households included resident kinsfolk other than the conjugal couple and their
unmarried children. An even smaller proportion actually housed three
generations of the same family.”29 In ogni caso, non si trattava di un fenomeno
comune, perlomeno in Inghilterra e nel nord Europa, come precisa Barbara
Diefendorf: “The question of extended versus nuclear families, though debated,
has less importance for Renaissance scholars working on areas north of the
Alps. It seems generally agreed that, with the exception of Italy, extended families—in the sense of families living under one roof and sharing economic resources—were primarily a rural phenomenon, if they existed at all, by the fifteenth century”.30
Se non proprio “orribile” come il periodo di cinque mesi trascorso da Mark
ed Emily a casa dei genitori di lei, i dati di Ingram e Diefendorf lasciano intravedere che la convivenza con la famiglia d’origine non doveva essere ritenuta
una soluzione particolarmente allettante nemmeno per le giovani coppie elisabettiane. Considerando, infatti, che uno tra i motivi che contribuivano maggiormente a ritardare l’età delle nozze (le donne si sposavano, in media, fra i 23
e i 27 anni; gli uomini verso i 30 anni) era la difficoltà di procurarsi un alloggio,
è ragionevole supporre che anche all’epoca si preferisse evitare la convivenza
con suoceri e genitori.
29
M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 126.
30
B. DIEFENDORF, “Family Culture, Renaissance Culture”, p. 666.
32
Al di fuori della convivenza, comunque, i figli adulti pare tendessero a mantenere buoni rapporti con le famiglie di origine. In particolare, mentre mancano
quasi totalmente di riferimenti a relazioni affettive significative fra nonni e nipoti, i diari abbondano di testimonianze su reciproci scambi di visite e corrispondenza fra figli adulti e genitori anziani, come questa di Leonard Wheatcroft
(artigiano, commerciante e insegnante):
[...] Not finding myself well, I sent to my sons at London, desiring to see them
before I died. So according to my desire and their mother’s they came down to
us.31
O questa di Lady Anne Clifford:
Upon the 13th being Monday, my Lady’s footman Thomas Petty brought me
letters out of Westmorland by which I perceived how very sick and full of grievous pains my dear mother was, so as she was not able to write herself to me and
most of her people about her feared she would hardly recover this sickness [...]32
Nel complesso, le fonti dirette sembrano indicare che gli anziani non fossero
percepiti tanto come ‘nonni’ quanto come ‘genitori dei genitori’ (decisamente,
una figura assai diversa da quella dei “nonni italiani” di oggi),33 e che la relazione fra figli adulti e genitori anziani fosse sì emozionalmente intensa ma, almeno geograficamente, una relazione a distanza.
Il matrimonio: tempi e modi
MINUCHIN: La sua famiglia non era contenta?
31
R. HOULBROOKE, English family life, p. 190.
32
Ibid., p. 202.
33
Cfr. lo spassoso romanzo-autobiografia-saggio di TIM PARKS, An Italian Education, e in
particolare il capitolo “Nonni”. A questo proposito, è interessante osservare che, benché in
questo capitolo si sottolinei la prospettiva diacronica, le differenze sincroniche fra varie
culture sono spesso altrettanto tangibili. A proposito dei nonni, per esempio, possiamo notare come la distanza fra la percezione elisabettiana e quella dell’Inghilterra di oggi fosse
per molti aspetti minore rispetto a quella fra Inghilterra e Italia contemporanee, come traspare dal divertito stupore del protagonista del romanzo di Parks, un inglese che vive da
anni a Verona: “Indeed, the problem for the modern Italian couple is not finding somebody to babysit, but avoiding giving offence to whichever of the grandparents is asked to
babysit least.” (p. 135).
33
SIGNORA W.: Sì, ma pensavano che... abbiamo cominciato a stare insieme da
quando avevamo sedici anni. Io avevo sedici anni e lui diciassette, e così non
abbiamo detto niente fin quando non ci siamo fidanzati.
MINUCHIN: Quanti anni avevate quando vi siete sposati?
SIGNORA W.: Diciannove.
Sposarsi a diciannove anni, al giorno d’oggi, è considerata un’eccezione: secondo i genitori di Emily, la figlia avrebbe fatto meglio ad attendere qualche
anno. Nel XVI e XVII secolo, almeno da un punto di vista legale, la situazione
era completamente diversa. Che ci si potesse sposare molto presto lo sappiamo
bene, ma forse non sempre ne riusciamo a cogliere tutte le implicazioni. Un
breve stralcio di diario può, in questo caso, essere utile a darci un’idea
dell’abisso che separa le due epoche. L’autore—Samuel Jeake, mercante di Rye,
astrologo e puritano—ha ventinove anni. La sua giovane sposa, Mrs. Elizabeth
Hartshorn, ne ha da poco compiuti tredici. Dopo aver descritto l’impegno profuso dalla suocera nel rimuovere potenziali ostacoli—ovviamente, di natura esclusivamente finanziaria—alle nozze, e aver garantito che non si tratta di
un’infatuazione passeggera (“for [Elizabeth], I had an affection from her infancy”), ecco il resoconto di Samuel circa i primi tre giorni di nozze:
<March 1 Tuesday> [1681] About 9h 35’ a.m. I was married to Mrs Elizabeth
Hartshorn at Rye by Mr Bruce, in the presence of Mr Thomas Miller, Mr Nathaniel Hartshorn and the sexton, we going though in the day time, yet so much incognito that there was no concourse or notice taken either of our going or coming.
The day was cloudy, but calm. The sun shone out just at tying the nuptial knot,
and also just at his setting. Devirg[ination] 3 Thursday night.34
Deflorazione: giovedì 3 marzo. Un atto che, al giorno d’oggi, lo porterebbe
senza alcun dubbio a una condanna pesantissima per abuso sessuale su minore,
è ritenuto da Samuel talmente normale che, per descriverlo, fa ricorso a
un’abbreviazione: devirg. È evidente che siamo di fronte a una differenza di
contesto tale da poter invalidare l’intero impianto di questa tesi: come analizzare i rapporti di coppia con parametri attuali, quando le mogli di allora potevano
benissimo essere poco più che bambine—più adatte, eventualmente, a indagini
34
R. HOULBROOKE, English family life, p. 38.
34
basate su nozioni di psicologia dell’età evolutiva che non sui metodi della terapia familiare?
Il problema esiste, ed è chiaro che non si potrà pretendere di descrivere la relazione fra il giovane Romeo e la quattordicenne Juliet—per quanto più o meno
regolarmente sposati—come se si trattasse di un rapporto adulto. Ma occorre
anche tener presente che la realtà—la realtà statistica, questa volta—era assai
diversa da quanto la legislazione dell’epoca e le autobiografie come questa di
Samuel lasciano supporre:
In theory it was possible for people to marry very young. The minimum legal
age for contracting a binding union were twelve for women and fourteen for men.
Moreover, it was legally permissible for couples to be betrothed at the age of
seven, with the right to dissent from and repudiate the engagement when they
reached the age for full marriage. Child ‘marriages’ of this sort may have been
quite common in parts of north-west England at least as late as the reign of Elizabeth, but were probably rare in most other parts of late sixteenth- and early seventeenth-century England […]. Even the minimum ages for full marriage were, in
practice, of little social relevance: it was tacitly accepted throughout society that
matrimony should be reserved for those of the age of discretion, and most people
married much later than the legal threshold. In England as a whole the mean age
of first marriage for both men and women was in the mid- to late twenties, with
males generally marrying somewhat later than females. […] But there was a
marked difference between the experience of females from yeoman and gentry
families and those from poorer households: the former typically married in their
late teens or early twenties, while the latter often did not get married till the late
twenties or the thirties. Wealthy menfolk also tended to marry earlier than their
poorer neighbours.35
Sui dati riportati da Ingram, basati perlopiù su licenze matrimoniali e registri
parrocchiali, concordano praticamente tutti gli storici contemporanei, Stone
compreso (anche se quest’ultimo tende a dare maggior risalto ai dati relativi ai
ceti più elevati, e di conseguenza a ritoccare verso il basso l’età media al primo
matrimonio). E concordano pure nel far risalire il relativo ritardo dei tempi delle
nozze—paragonabili a quelli odierni—a cause principalmente economiche, come vedremo tra qualche paragrafo.
È però interessante notare come, tra i motivi non dipendenti da fattori economici, ci siano anche considerazioni di ordine scolastico, molto simili a quelle
35
M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, pp. 128-129.
35
che tutt’ora contribuiscono a posticipare il matrimonio: come il nostro signor
Wagner, anche gli eredi degli squires, attorno ai vent’anni, si trovavano a frequentare l’università. Dopodiché, spesso li attendeva un certo numero di anni
agli Inns of Court e, in molti casi, il Grand Tour. 36 Insomma, una sequenza non
troppo diversa, perlomeno come durata, da quella che si trova ad affrontare un
ventenne dei nostri giorni per conseguire una qualsiasi specializzazione postuniversitaria.
Oltre a quello dell’età delle nozze, un altro luogo comune del quale la storiografia sta sempre più ridimensionando la portata è quello che riguarda
l’influenza dei genitori sulla scelta del partner.37 Stando ai drammi dell’epoca (e
non solo), si ha l’impressione che le più laceranti tragedie familiari avessero origine nel conflitto fra padre e figlia circa il futuro sposo. In effetti, soprattutto
tra le classi benestanti, l’opinione dei genitori era assai più determinante di
quanto non sia ora. Anche se, per legge, la decisione ultima spettava ai due contraenti, era comunque preferibile il consenso dei genitori, in particolare quando
c’era in gioco un’eredità cospicua. In ogni caso, era estremamente raro che si
rendesse necessario giungere a un conflitto di proporzioni tragiche (di solito,
genitori e parenti contrariati si limitavano a esercitare un “financial leverage”,
come osserva David Nicholas).38 A tal proposito, mi pare condivisibile la generalizzazione di Stone, il quale afferma che “nel secolo XVI la violenza era meno
necessaria poiché il dovere dell’obbedienza filiale era stato meglio interiorizza-
36
Vedi L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 53. A proposito di altre motivazioni,
Stone ne riporta una assai emblematica della concezione rinascimentale della fisiologia:
“era diffusa l’idea che lo sperma fosse un fluido vitale che controllava la crescita; una sua
eccessiva emissione prima della piena maturità avrebbe quindi arrestato lo sviluppo fisico
e intellettuale.”
37
B. DIEFENDORF, “Family Culture, Renaissance Culture”, p. 669: “Stone has been criticized
for assuming that patterns observed among elites extended far down the social scale. His
critics have found little evidence that English children were pressured into marriages they
did not want. On the contrary, the evidence suggests that common people generally chose
their own marriage partners, although they did feel an obligation to obtain parent approval.”
38
In B. DIEFENDORF, “Family Culture, Renaissance Culture”, p. 670.
36
to”.39 In altre parole, è sì vero che in fatto di matrimonio i giovani elisabettiani,
pur non essendovi costretti, tendevano ad accettare eventuali indicazioni dei
genitori, ma ciò non era che una conseguenza, fra tante, di una più generale situazione di relativa sottomissione dei figli—situazione, questa, che tratteremo
più avanti.
Non c’era, comunque, solo l’opinione dei genitori: la scelta, già verso la fine
del Cinquecento, era anche dettata da quell’amore romantico che Stone tende
forse a sottostimare.40 Prendo questa posizione un po’ a malincuore, perché, nella sua analisi sull’evoluzione del ruolo giocato dall’amore nella scelta del partner, Stone propone un’interpretazione che, per chi si occupa prevalentemente
di letteratura, è estremamente avvincente:
Il calcolo pragmatico degli interessi della famiglia era nel secolo XVI il criterio dominante, e su di esso si fondava, nella vita pratica, la concezione del matrimonio. L’élite era però soggetta anche alla propaganda di poeti e drammaturghi,
che sostenevano un ideale del tutto antitetico di amore romantico, quale si esprime, ad esempio, nei Sonetti e nel teatro di Shakespeare.41
Così come Bloom attribuisce la grandezza di Shakespeare alla “invenzione
dell’umano”, qui Stone ipotizza che Shakespeare e i suoi colleghi abbiano avuto
un ruolo fondamentale nella diffusione, se non addirittura nell’invenzione, del
matrimonio per amore. Ma i diari, come abbiamo avuto occasione di vedere, riportano situazioni assai più equilibrate sulle ragioni della vita di coppia. È dunque ragionevole ritenere che motivazioni sentimentali e motivazioni più pragmatiche non si escludessero a vicenda, bensì tendessero entrambe a condizionare la scelta del partner. In questo senso, il rapporto fra teatro e società non era
né puramente mimetico né, come sostiene provocatoriamente Bloom, di in-
39
L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 201. Lo stesso concetto è ripreso da B. Diedendorf in termini di “emotional leverage parents could exert”.
40
Cfr. M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 138: “Stone’s analysis
of the processes involved in matchmaking is in some points congruent with reality; but
overall he exaggerates the strength of parental influence, underestimates the role of romantic love and gives inadequate attention to the middling groups who played such an important part in parish society.”
41
L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 198.
37
fluenza diretta dell’uno sull’altra, ma piuttosto qualcosa di simile a uno fra i
tanti rapporti di negoziazione analizzati da Stephen Greenblatt.42 Un rapporto
nel quale c’era spazio sia per la comicità mimetica del “catalogo delle qualità”
della promessa sposa di Lance (“she can milk..., she brews good ale..., she can
sew..., she can knit..., she can wash and scour..., she can spin...”),43 sia per
l’invenzione di un’immortale femme fatale—“not of an age, but for all time”—
come Cleopatra, le cui qualità (“Age cannot wither her, / Her infinite variety.
Other women cloy / The appetites they feed, but she makes hungry / Where
most she satisfies”) sembrano aver influenzato non poco i criteri di ricerca della
compagna ideale per numerose generazioni.
Con ciò non voglio affermare che la situazione fosse più o meno identica a
quella attuale. Almeno quantitativamente, il concetto di “buon matrimonio” aveva
comunque
un’importanza
notevole
e
socialmente
riconosciuta.
Un’importanza maggiore, per esempio, di quanta ne potesse avere la bellezza o
il fascino sensuale del partner, almeno per quanto possiamo inferire da dati puramente statistici come quello secondo il quale “in Europa, nei secoli XVII e
XVIII, nel 20 per cento circa di tutti i matrimoni le mogli erano di cinque o più
anni maggiori del marito, di contro al 6-8 per cento che è normale nelle condizioni di oggi”.44
Questa compresenza di motivazioni pragmatiche e motivazioni sentimentali
mi pare sintetizzata in modo equilibrato da Ingram, il quale, basandosi sulle indicazioni di moralisti dell’epoca come William Gouge (Of domesticall duties,
1622) o John Dod e Robert Cleaver (A godly forme of houshold government,
1630), giunge alle seguenti conclusioni:
Commentators recognised that there should be ‘good liking’, even love, between prospective spouses, but they warned against the fascination of mere outward beauty and urged attention to interior qualities. Beyond that the essential
yardstick was equality or at least comparability between the couple, especially in
42
S. GREENBLATT, Shakespearean Negotiations, 1988.
43
TGV, III.i.294-307.
44
L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 210.
38
respect of religious commitment, virtue, age, birth and breeding, and wealth and
estate.45
Era dunque essenzialmente entro l’ambito della “equality”, cioè in un contesto di endogamia sociale ed economica, che ulteriori motivazioni potevano eventualmente essere prese in considerazione. I fattori economici, in particolare,
avevano se possibile un’importanza ancora maggiore di quanto ne abbiano ora,
e questo perché, nella società dei Tudor e dei primi Stuart, il confine fra economia ed etica tendeva ad essere molto labile, se non pressoché inesistente. Un
breve esempio, legato al discorso del matrimonio e del problema degli alloggi
che abbiamo trattato poco innanzi, può ben illustrare fino a che punto l’ambito
economico e quello morale si venissero a sovrapporre. Ecco cosa scriveva, nel
1628, il ministro ecclesiastico di Nether Compton (Dorset) a proposito di una
tal Anne Russed: “she hath no house nor home of her own and very like to bring
charge on the parish, and therefore will hardly be suffered to marry in our parish”.46 Simili considerazioni lasciano ragionevolmente supporre che le difficoltà
che si prospettavano alle giovani coppie in procinto di sposarsi non fossero in
fondo così diverse da quelle che sussistono tuttora.
Per chi riusciva a convolare a nozze, infine, anche la sequenza di passaggi rituali e burocratici da rispettare era abbastanza simile a quella odierna. Infatti,
benché in termini strettamente legali gli spousals di retaggio medievale—cioè i
riti basati esclusivamente sull’informale dichiarazione tra una donna e un uomo—fossero sufficienti per diventare moglie e marito, nella realtà il matrimonio
era di solito una cerimonia assai più formale e solenne, coinvolgeva le autorità
ecclesiastiche ed era occasione di lunghi festeggiamenti.47 A questo proposito, è
interessante osservare che proprio nel periodo fra la fine del Cinquecento e
l’inizio del Seicento la Chiesa inglese, preoccupata il numero ancora elevato di
matrimoni clandestini (e, soprattutto, per i crescenti casi di bigamia) e pressata
45
M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 136.
46
In M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 131.
47
Vedi R. HOULBROOKE, English family life, p. 17: “Weddings among the gentry and prosperous yeomanry were commonly occasions for feasting and celebration which might continue for several days”.
39
dalle richieste del Parlamento per una normativa più severa, impose ai propri
ministri regolamenti assai rigidi sulla concessione delle licenze matrimoniali e
sulla conduzione del rito—i “canons” del 1597 e del 1604. Contemporaneamente, con il bigamy act del 1604, il reato di bigamia, prima processato dai tribunali
ecclesiastici, diventò competenza della assai più severa giurisdizione secolare,
che ne stabilì in modo dettagliato i limiti: se l’altro coniuge era ancora in vita, ci
si poteva risposare solo in seguito a una sua assenza di almeno sette anni, oppure se al momento del matrimonio non era stato rispettato il vincolo della maggiore età o, infine, se la coppia veniva dichiarata ufficialmente divorziata da una
corte ecclesiastica.
‘A little hell’: crisi e incomunicabilità nella vita di coppia
Da quanto si è appena detto circa le eccezioni al reato di bigamia, sembra di
intuire che, se il matrimonio rinascimentale era un rito di passaggio avente numerose affinità con quello odierno, la separazione doveva essere una faccenda
assai più complicata di quanto non sia ora. Prima di affrontare l’argomento,
dunque, volgiamo di nuovo lo sguardo ai Wagner, e in particolare a un loro periodo di crisi coniugale:
MINUCHIN: Come sono stati i primi anni? Il primo anno di matrimonio, cosa è accaduto?
SIGNORA W.: Uno schifo.
MINUCHIN: Mark le permette di dire ciò che sente, vero? Così lei ha potuto dire
che è stato uno schifo. E come è stato per lei, Mark?
SIGNOR W.: In un certo senso, una delusione, perché... né più né meno di come me
l’aspettavo, comunque.
MINUCHIN: Un bel disastro.
[…]
SIGNORA W.: Lui era studente. E così... se le cose andavano male poteva rifugiarsi
nei libri. E ce la metteva proprio tutta. Quando le cose non andavano bene io
stavo là, lo mettevo in croce e ne facevo una tragedia. La situazione divenne
insopportabile, sproporzionata. Penso che se non avessi avuto Tommy, probabilmente, dopo un mese di quella trappola, lo avrei lasciato.
Emily racconta che, dopo un solo mese nella nuova casa, la situazione fra lei
e Mark era già talmente deteriorata da farle prendere in considerazione l’ipotesi
di separarsi. Se non lo ha fatto, è stato principalmente per il figlioletto Tommy.
40
Le ragioni della crisi, com’è del tutto normale, sono piuttosto confuse, e Minuchin cerca di comprenderle un po’ meglio:
MINUCHIN: Voglio sapere in che modo faceva schifo.
SIGNOR W.: La comunicazione, questo era il problema centrale.
SIGNORA W.: Non comunicavamo.
[…]
SIGNORA W.: Non comunicavamo per niente. È stato così per due anni. Dopo la
botta e risposta: “Ti odio” — “Ti odio”, le comunicazioni tra noi finivano.
Dopo un po’ siamo arrivati a detestarci.
SIGNOR W.: O lo abbiamo creduto.
SIGNORA W.: Sa che c’era? Lui poteva fuggire, io non avevo alcun modo per
squagliarmela. E rimanevo seduta lì.
MINUCHIN: Naturalmente. Lui non aveva cambiato di molto il suo modo di vivere.
Studiava prima e studiava dopo. Per lei invece come è cambiata la vita?
SIGNORA W.: Niente di particolare. Dovevo solo aspettare di avere un figlio, farlo
e aver cura di lui.
L’atmosfera familiare descritta dai Wagner—che sia o meno quella respirabile, in un periodo di crisi, in una “famiglia odierna media”—è senz’altro un
valido campione di ciò che i terapeuti della famiglia si trovano quotidianamente
ad affrontare: la comunicazione tende a ridursi a scambi simmetrici, la casa diventa una “trappola”, e i figli vengono immediatamente coinvolti—persino prima di nascere. Chiedersi quali possano essere le analogie e le differenze rispetto
alle crisi di una famiglia dell’Inghilterra Tudor e Stuart è dunque inevitabile,
per quanto non sia affatto semplice trovare una risposta certa.
Cominciamo dall’aspetto meno controverso: era ammesso, e se sì in quali
casi, lasciare il proprio coniuge? Premesso che il divorzio così come lo intendiamo ora non era ammesso, erano però contemplati alcuni casi per i quali si
poteva chiedere l’annullamento del matrimonio: minore età, frigidità o impotenza permanente, bigamia, incesto. Si poteva, inoltre, chiedere una separazione
giudiziaria—“from bed and board”—a patto di riuscire a dimostrare che l’altro
coniuge (moglie o marito) si era reso colpevole di adulterio o estrema crudeltà.48
L’incidenza degli annullamenti era relativamente elevata soprattutto nei ceti più
48
M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, pp. 145-146. L. STONE,
Famiglia, sesso e matrimonio, pp. 41-45.
41
alti (tra il 1570 e il 1659, circa il 10 per cento dei matrimoni aristocratici vennero annullati). Per ragioni prettamente economiche, inoltre, era abbastanza elevata (attorno all’8 per cento) anche la percentuale di abbandoni del tetto coniugale, quasi sempre da parte del marito, fra famiglie poverissime.49 Per tutte le altre
fasce sociali, invece, nella quasi totalità dei casi il matrimonio terminava con la
morte di uno dei due coniugi (evento, del resto, tutt’altro che raro, considerando
quanto era breve la durata media della vita).
Tornando alla nostra Emily, dunque, è chiaro che le sarebbe stato impossibile ottenere la separazione da Mark solo in base al fatto che la loro convivenza
“faceva schifo”. Ciò, però, non significa che la convivenza sotto il tetto coniugale non potesse rivelarsi “uno schifo” anche per le coppie elisabettiane:
More direct evidence from diaries, autobiographies, letters, wills and other
sources likewise supports the idea that family relationships in the middle and
lower ranks of society were more affectionate and less authoritarian than Stone
implies.
It is important, however, not to go to the other extreme and idealise family life
in this period. Court records and other sources reveal, in Wiltshire as in other areas, some brutal cases of child neglect and ferocious wife-beating; and no doubt
tyrannical husbands were to some extent sustained by the stereotype of male
dominance. For these and other reasons, marriages could in some cases become ‘a
little hell’.50
L’esperienza della vita familiare come “un piccolo inferno”, soprattutto per
le donne, non era dunque sconosciuta. Le ragioni riportate da Ingram (“ferocious wife-beating”, “tyrannical husbands”), però, benché purtroppo ancora attualissime, sono assai diverse dalla soffocante palude di incomunicabilità e solitudine descritta da Emily. Ancora una volta, non è dalle registrazioni degli archivi penali che possiamo sperare di ricostruire gli aspetti più quotidiani e meno
eclatanti di eventuali esperienze di malessere nelle coppie rinascimentali, bensì
dai diari personali. Nelle pagine del maggio del 1617 del diario di Lady Anne
Clifford, che già abbiamo avuto occasione di conoscere all’inizio di questo
capitolo, si trova la seguente sequenza di annotazioni:
49
Per questi dati, vedi M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 148.
50
Ibid., p 144.
42
The 3d my Lord went from Buckhurst to London, and rid it in four hours, he
riding very hard, a hunting all the while he was at Buckhurst, and had his health
exceeding well.
The 8th I spent this day in working, the time being very tedious unto me as
having neither comfort nor company, only the child.
[12] … I wrote not to my Lord because he wrote not to me since he went away
…51
Appena qualche frammento di emozioni, perlopiù implicite, ma al tempo
stesso materiale prezioso e raro, sul quale vale la pena soffermarsi. Il marito di
Lady Anne è un uomo attivo, benestante, “his health exceeding well”, e non gli
mancano le opportunità per viaggiare. Proprio come accade al signor Wagner,
“lui può fuggire”, mentre Lady Anne, come Emily, “non ha alcun modo di
squagliarsela”. Emily “doveva solo aspettare di avere un figlio”; Lady Anne già
ce l’ha, un figlio, ma non ha nient’altro: “only the child … neither comfort nor
company”. Di conseguenza subentra la noia, certo (“the time being very tedious
unto me”), ma anche, ed è questo che più ci interessa, una modalità simmetrica
di comunicare il proprio risentimento: in questo senso, il botta e risposta “ti odio – ti odio” dei Wagner corrisponde al “I wrote not to my Lord because he
wrote not to me” tra Lady Anne e suo marito.52 Ed è esattamente sull’esistenza
di questo tipo di corrispondenze, sulla possibilità di modalità comunicative come il “non scrivere al marito perché lui non ha scritto a me”, che si fondano i
presupposti per il tipo di letture shakespeareane che verranno proposte in questa
tesi.
51
R. HOULBROOKE, English family life, p. 64.
52
A proposito di questo confronto, può essere utile sottolineare che il primo “assioma” degli
studiosi del comportamento e della comunicazione umana asserisce l’impossibilità di non
comunicare, e comprende anche il “silenzio” come forma di comunicazione. Ecco come lo
illustrano P. WATZLAWICK, J.H. BEAVIN e D.D. JACKSON in Pragmatics of Human Communication: “Activity or inactivity, words or silence all have message value: they influence others and these others, in turn, cannot not respond to these communications and are
thus themselves communicating. It should be clearly understood that the mere absence of
talking or of taking notice of each other is no exception to what has just been asserted.” (p.
49).
43
Come si educa un figlio?
Essendoci imbattuti nel piccolo Tommy Wagner e nel figlio di Lady Anne,
cogliamo ora l’occasione per considerare un altro aspetto della vita familiare
Tudor e Stuart: il rapporto tra figli e genitori. Per introdurre il confronto, ci affidiamo ancora una volta ai ricordi dei Wagner, e in particolare di Emily:
SIGNORA W.: Ricordo un episodio. Non so perché, ma mio padre era furibondo
per qualche motivo. Ero una ragazzina senza peli sulla lingua e non ci pensavo
due volte a dirgli di togliersi dai piedi. Dovevo avere circa quindici anni. Non
so nemmeno perché lui era così arrabbiato con me, ma so che non mi parlava
perché era furioso per qualcosa che avevo fatto. Mia madre mi lasciò uscire,
perché non era d’accordo col suo modo di pensare e lui non parlò più con lei
per tutto il giorno. Era nero. Intendo dire, questo era il genere di situazione.
Basta un episodio...
MINUCHIN: Così sua madre combatteva contro suo padre servendosi di lei.
SIGNORA W.: Probabilmente sì. Non ricordo che mio padre mi abbia mai picchiato
fino a quindici anni. Poi lo ha fatto. Penso che mi abbia picchiato una sola volta, forse due. E io l’ho ricambiato: non gli rivolsi la parola. Lui disse a suo fratello che ero molto arrogante e non gli portavo rispetto.
“Penso che mi abbia picchiato una sola volta, forse due”, come dice Emily di
suo padre, sono parole che difficilmente una quindicenne elisabettiana avrebbe
avuto motivo di pronunciare, così come “e non gli portavo rispetto”. Se la vita
di coppia poteva trasformarsi in “a little hell”, per i pochi bambini che sopravvivevano—la mortalità infantile entro i primi cinque anni di vita sfiorava il 60
per cento—la vita domestica doveva essere un inferno di proporzioni assai più
vaste, almeno ai nostri occhi. La repressione cominciava, in modo quasi letterale, fin da quando si era ancora in fasce: per curiose ragioni mediche,53 infatti, tali fasce erano infatti talmente strette da immobilizzare completamente i bambini.
In seguito, se possibile, la situazione tendeva a peggiorare. Senza addentrarci
nell’impressionante quantità di pratiche al limite del sadismo cui i bambini venivano sottoposti, sia in casa che a scuola, ci può essere sufficiente sapere che,
per il periodo che va dal 1540 al 1660, “una gran massa di documenti, soprattut-
53
Vedi L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 178: “Le ragioni mediche della fasciatura erano che «per la loro tenerezza, le membra di un bambino possono presto curvarsi e
flettersi e assumere forme diverse»”.
44
to di parte puritana, testimonia una fiera determinazione a piegare la volontà del
bambino per imporgli una totale soggezione all’autorità degli anziani e dei superiori, soprattutto dei genitori”.54
In ambito educativo, era la disciplina il valore fondamentale da perseguire a
tutti i costi, e il metodo seguito, lungi dal prevedere rinforzi positivi (premi, incoraggiamenti), si basava pressoché esclusivamente sulle punizioni corporali.
Era normale inginocchiarsi davanti ai genitori, e scontato dare loro del lei.55 Un
altro aspetto da tenere in considerazione è che i protagonisti della violenza non
erano solo i padri, ma anche le madri: “[è] anzi evidente che i figli spesso avevano altrettanto o più da temere dalle madri che dai padri, probabilmente perché
le frustrazioni e le angosce psicologiche delle prime venivano sfogate sui figli
indifesi”,56 scrive Stone.
Anche in questo caso, però, è prudente non dare valore assoluto alle conclusioni di Stone, e cercare piuttosto di assegnare il giusto rilievo ai documenti che
lasciano intuire possibilità in contraddizione con le sue generalizzazioni. Per
quanto riguarda l’ipotizzata violenza delle “madri frustrate” sui figli, per esempio, occorre tenere presente che molti commentatori dell’epoca erano invece
preoccupati proprio del contrario, e cioè degli effetti deleteri che l’indulgenza
delle madri poteva avere sull’educazione della prole. In un interessante saggio
sull’assenza di figure materne di rilievo in Shakespeare,57 Mary Beth Rose riporta alcuni passaggi del capitolo “Of children and the charge and care about
them”, tratto da un volume del 1529 dell’umanista Juan Luis Vives, Instruction
of a Christen Woman, la cui traduzione ebbe una notevole influenza sul pubblico inglese. In uno di questi brani, Vives ricorda—in quello che Rose definisce
54
Ibid., p. 179.
55
A questo proposito, è interessante notare come anche nel teatro di Shakespeare i figli si rivolgano ai genitori con la formula ‘you’, mentre i genitori tendano ad usare il ‘thou’. Per
un confronto su basi statistiche, vedi le tabelle C.5.1-4 in appendice).
56
L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 187.
57
M.B. ROSE, “Where Are the Mothers in Shakespeare? Options for Gender Representation
in the English Renaissance”, pp. 291-314.
45
“an extraordinary moment of pre-Freudian self-revelation”—la sua relazione
con la madre, e scrive:
I coulde nat perceyue that euer she longed me. Therfore was ther no body, that
I more fled, or was more lothe to come nyghe, than my mother, whan I was a
childe.58
Come commenta Rose, ciò che la società percepiva e condannava come potenziale pericolo non era la violenza delle madri—o, più in generale, dei genitori—sui figli, bensì la loro “overindulgence of love”. Tutto sembra comunque far
pensare che, vuoi perché frustrati e angosciati, vuoi per l’esigenza di crescere
una prole addestrata ad affrontare la dura vita elisabettiana, i genitori mantenessero nei confronti dei figli rapporti improntati sulla violenza fisica e sulla freddezza psicologica.
Eppure i diari, pur confermando le violenze, lasciano intravedere anche notevoli spazi di attenzione, nonché squarci di indubbia tenerezza. John Dee, matematico e astrologo morto nel 1608, tra il 1582 e il 1596 si preoccupò di annotare le vicissitudini degli otto figlioletti avuti da Jane, la sua seconda moglie.
Nonostante lo stile distaccato, sono pagine toccanti, pagine dense di sangue e
fratture, ma non sempre nel senso che ci potremmo attendere:
[1582, July] 3. At a quarter past twelve, Arthur Dee fell from the top of the
Watergate Stairs down to the foot from the top, and cut his forehead on the right
eyebrow.
[1588, January] 1. On New Year’s Day, about nine of the clock after noon,
Michael, going childishly with a sharp stick of eight inches long and a little wax
candle light on the top of it, did fall upon the plain boards in Mary’s chamber, and
the sharp point of the stick entered through the lid of his left eye towards the corner next to the nose, and so pierced through, insomuch that great abundance of
blood came out under the lid, in the very corner of the said eye; the hole on the
outside is not bigger than a pin’s head; it was anointed with St John’s oil. The boy
slept well: God speed the rest of the cure… The next day after it appeared that the
first touch of the stick’s point was at the very middle of the apple of his eye, and
so (by God’s mercy and favour) glanced to the place where it entered with the
weight of his head and the force of his fall. Thus I may make some show of it. [A
58
Ibid., p. 301.
46
sketch illustrates the accident at this point]. To the praise of God for his mercies
and protection.59
Il diario prosegue riportando meticolosamente numerosi incidenti di questo
genere capitati ai vivaci figlioli, incidenti in base ai quali pare di capire che, una
volte tolte le fasce, i bambini avessero ampie occasioni per rifarsi
dell’immobilità cui erano stati costretti nei primissimi anni di vita. La famiglia
Dee, tra l’altro, non doveva certo essere particolarmente permissiva, almeno a
giudicare da quest’altro brano del diario—protagoniste la moglie Jane e la figlia
di otto anni Katharine—perfettamente in linea con le categoriche conclusioni di
Stone:
[1589, May 21] Katharine by a blow on th’ear given by her mother did bleed at
the nose very much, which did stay for an hour and more; afterward she did walk
to the town with Nurse and [after] her coming home an hour, she bled again, very
sore, by gushes and [pulses?], very fresh good blood, whereupon I perceived it to
be the blood of the artery…60
Le osservazioni di John Dee sono espresse con un linguaggio talmente clinico, per essere fatte da un padre, da sembrarci quasi ciniche. Secondo Stone, un
certo grado di cinismo da parte dei genitori era l’inevitabile conseguenza
dell’alta mortalità infantile e di quella “costante presenza della morte” che è, a
suo giudizio, “la caratteristica più sorprendente che distingueva la famiglia degli inizi dell’età moderna da quella di oggi”,61 nonché dei fattori specifici della
cultura del tempo, che spiegherebbero “la freddezza psicologica e la severità fisica”.62 Ma la convivenza forzata con la morte non è necessariamente causa di
distacco emotivo. Ecco le reazioni di Nehemiah Wallington, un tornitore londinese al quale sono già morti tre dei cinque figli (un quarto morirà l’anno successivo alla stesura del brano che segue), alla scomparsa e al ritorno della figlioletta Sarah, la quale era uscita nel pomeriggio per giocare con un’amichetta e, per
una serie di disguidi, non era rientrata che a notte fonda:
59
R. HOULBROOKE, English family life., p. 137.
60
Ibid., p. 138.
61
L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 67.
62
Ibid., p. 194.
47
[August 13, 1631] Now I had been to look for her, but could not find her, and
when I came home I was told all this as is aforesaid. Then I began to think of
God’s great mercy unto me and unto my wife, for it might have been that we
should have seen it no more, or if we had it might have been a great while after;
and then what strange distractful thoughts should we have had, and how could we
eat or have slept that night with thinking ‘What is become of our poor child?’,
thinking ‘It may be it is drowned at the water side, or some other mischief hath befallen it’; and how should we have gone to church the next day, being the Sabbath,
being full of grief and such distractful thoughts as we should have had?63
Sono brani come questi a farci sospettare che l’atmosfera di repressione e
violenza nei confronti dei bambini non fosse che una faccia della medaglia, e
che, come scrive Houlbrooke, “the bond between parents and children, in an age
sometimes portrayed as one of distance and deference, was often close”.64 E
questo pare essere l’atteggiamento prevalente anche nei confronti dei rari “bambini shakespeareani”, dallo spiazzante affetto paterno mostrato da un villain del
calibro di Aaron—il quale, nella battuta citata in apertura di questo capitolo,
giunge a dire del suo pargoletto “This before all the world do I prefer”—allo
scambio di battute fra Lady Macduff e il figliolo in Macbeth—“an early instance of the emerging concept of the affective nuclear family”, come lo definisce
Catherine Belsey.65
Prima di congedarci dal periodo dell’infanzia, infine, mi sembra giusto lasciare l’ultimo spazio al punto di vista di una “diretta interessata”. Si tratta di
una testimonianza pressoché unica nel suo genere, e cioè le ultimissime parole
di Elizabeth—la prima figlia di Nehemiah, gravemente malata—pronunciate
poche ore prima di morire all’età di tre anni, e amorevolmente trascritte dallo
stesso Nehemiah: “Father, I go abroad tomorrow and buy you a plum pie.”66
So che non andrebbe scritto in una tesi di dottorato, ma quando mi capita di
rileggere gli ultimi versi di Lear, non riesco a non correre col pensiero al plumcake della piccola Elizabeth.
63
R. HOULBROOKE, English family life, p. 145.
64
Ibid., p. 136.
65
C. BELSEY, “Literature, History, Politics”, p.407.
66
R. HOULBROOKE, English family life, p. 142.
48
Adolescenti ribelli
Se l’infanzia era considerata alla stregua di una patologia, una malattia da
curare in modo deciso e nel più breve tempo possibile, si potrebbe pensare che
nel Rinascimento venisse riservato ben poco spazio per i turbamenti tipici
dell’età adolescenziale—sempre che l’adolescenza esistesse, il che non è così
scontato. Le domande da porsi, rassegnandosi in partenza a ricorrere a
inevitabili stereotipi, sono dunque: quali tratti presenta l’adolescente di oggi? E
quali i loro coetanei del periodo di Shakespeare?
SIGNORA W.: Ma io... fumavo a tredici anni. Mio padre non mi ha dato il permesso di farlo fino a sedici anni, tuttavia potevo fumare davanti a mia madre.
Quando mio padre non c’era affumicavo la casa.
MINUCHIN: È un bel triangolo.
SIGNORA W.: Fingevo di sentirmi male per non andare a scuola; mia madre sapeva
che ero malata fino alle otto e un quarto, e mi permetteva di star fuori il resto
del giorno.
SIGNOR W.: Oh, si andava anche un po’ più in là...
MINUCHIN: Aspetti un momento. Emily sta descrivendo la sua famiglia e se ha bisogno d’aiuto deve chiederglielo.
SIGNORA W.: Vuole intromettersi.
SIGNOR W.: Per esempio, so che più tardi, quando ci siamo conosciuti, se papà avesse saputo che stavamo fuori fino alle due o alle tre di notte, capperi, sarebbe caduta la casa, ma lui non lo sapeva mai.
SIGNORA W.: Anche tuo padre e tua madre non lo sapevano mai.
SIGNOR W.: A loro non importava nulla. Questa è la differenza.
Triangolazioni a parte, sia dai ricordi di Emily sia da quelli del marito traspare il ritratto di un’adolescenza intesa anzitutto in termini di ribellione, di opposizione alle direttive mondo adulto. Un’opposizione, è bene notare, finalizzata
precisamente alla conquista di quelle forme di emancipazione che contribuiscono a sancire il passaggio dall’infanzia all’età adulta: fumare, per esempio, o intrattenere relazioni sentimentali e sessuali, o ancora rientrare a casa a notte fonda. Una fase della vita, dunque, che dal punto di vista relazionale si gioca anzitutto all’interno di una semantica della libertà, ed entro il classico doppio legame—più o meno latente—che impone di comportarsi in modo “responsabile”:
poiché il concetto di “comportamento responsabile”—in quanto appannaggio
della diade genitoriale, e più in generale del mondo adulto—presenta una sovrapposizione pressoché totale con il concetto di “ubbidienza”, se si accettasse
49
integralmente l’ingiunzione si cadrebbe nel paradosso di non avere mai occasione di affrontare le proprie responsabilità; se la si rifiutasse in toto,
d’altronde, si avrebbero notevoli difficoltà ad essere considerati come “adulti
maturi”, rischiando così l’emarginazione in quanto devianti. Ed è proprio nella
continua—e spesso faticosissima—negoziazione fra queste due alternative estreme che consiste il percorso relazionale dell’adolescenza come la intendiamo
oggi.
E all’epoca di Shakespeare? Come si comportavano gli adolescenti del periodo Tudor e Stuart? Era presente anche nell’immaginario di allora una correlazione diretta fra età anagrafica e comportamento ribelle, o “irresponsabile”, o
comunque un’idea dell’adolescenza come momento di forte discontinuità sia rispetto all’infanzia sia rispetto al mondo adulto? Se ci si dovesse basare sui
drammi di Shakespeare, si direbbe proprio di sì. A parte gli innumerevoli conflitti fra padri e figlie in occasione del matrimonio, o il tormentato percorso di
maturazione—linguistica quanto politica—di un personaggio come Hal in
Henry IV,67 anche le occasionali considerazioni di carattere più generale sembrano confermare oltre ogni possibilità di dubbio che tale correlazione fosse ben
presente al pubblico elisabettiano. Ecco come va rimuginando l’Old Shepherd
di The Winter’s Tale, in procinto di imbattersi in Perdita:
I would there were no age between ten and three-and-twenty, or that youth
would sleep out the rest; for there is nothing in the between but getting wenches
with child, wronging the ancientry, stealing, fighting—hark you now, would any
but these boiled-brains of nineteen and two-and-twenty hunt this weather?
[III.iii.58-64]
Dai dieci ai ventitré anni: un’età da cancellare. Un’affermazione, questa
dell’Old Shepherd, che né il padre di Emily né suo suocero, contrariati dagli incontri clandestini dei due figli, avrebbero avuto troppe difficoltà a sottoscrivere.
Ma la ribellione adolescenziale non era prerogativa del solo mondo della finzione. Una storia per molti aspetti simile a quella di Emily e di suo marito, costruita su incontri all’insaputa dei genitori e culminata in uno stolen marriage, è
67
Sul processo di formazione linguistica di Prince Hal, vedi S. GREENBLATT, “Invisible Bullets”, in S. GREENBLATT, Shakespearean Negotiations.
50
raccontata per esempio nel diario di John Evelyn, per un lungo periodo ambasciatore in Francia:
[July] 27 [, 1685] This night when we were all asleep went my daughter
Elizabeth away to meet a young fellow, nephew to Sir John Tippet […], whom
she married the next day, being Tuesday, without in the least acquainting either
her parents, or any soul in the house. I was the more afflicted and astonished at it
in regard we had never given this child the least cause to be thus disobidient, and
being now my eldest, might reasonably have expected a double blessing. But it afterward appeared that this intrigue had been transacted by letters long before, and
when she was with my Lady Burton in Leicestershire, and by private meeting near
my house. She of all our children had hitherto given us least cause of suspicion;
not only for that she was yet young, but seemed the most flattering, supple, and
observant; of a silent and particular humour, in no sort betraying the levity and the
inclination which is commonly apparent in children who fall into these snares,
having being bred up with the utmost circumspection, as to principles of severest
honour and piety. But so far, it seems, had her passion for this young fellow made
her forget her duty, and all that most indulgent parents expected from her, as not
to consider the consequence of her folly and disobidience ‘til it was too late. […]
[My wife and I] were most of all astonished at the suddenness of this action, and
the privateness of its management; the circumstances also considered and quality,
how it was possible she should be flattered so to her disadvantage; he being in no
condition sortable to hers, and the blessing we intended her. The thing has given
us much disquiet: I pray God direct us how to govern our resentments of her disobidience, and if it be his will, bring good out of all this ill.68
Il matrimonio fra Elizabeth e il nipote di Sir John Tippet finì poi in modo
tragico, ma non nel senso che ci si potrebbe attendere pensando a una vicenda
come quella di Romeo and Juliet: molto più banalmente, poche settimane dopo
le nozze, Elizabeth morì di vaiolo. Ciò che però più qui ci interessa è altro, e
cioè la reazione dei genitori alla “disobidience” della figlia: sulla rabbia prevale
nettamente lo stupore, il rendersi conto all’improvviso di quanto poco conoscessero veramente la figlia, l’inquietudine, la volontà di trovare una soluzione.
In particolare, mi pare estremamente attuale la richiesta di aiuto rivolta a Dio,
qui invocato per un tipo di intervento squisitamente “terapeutico”: “[to] direct
us how to govern our resentments of her disobidience”. In altre parole, almeno
nella famiglia di John Evelyn, pare che circolassero idee assai simili a quelle di
oggi circa la complessità di un fenomeno come la ribellione adolescenziale.
68
R. HOULBROOKE, English family life, pp. 38-39.
51
Questa testimonianza sembra dunque far supporre che l’adolescenza esistesse, e che fosse caratterizzata da un conflitto con il mondo adulto non tanto diverso da quello che la caratterizza ora. Stephen Greenblatt, riferendosi all’età di
Cordelia, scrive che “[it] was for Shakespeare’s England the age that demanded
the greatest attention, instruction, and discipline, the years between sexual maturity at about fifteen and social maturity at about twenty-six. This was, in the
words of a seventeenth-century clergyman quoted by Keith Thomas, «a slippery
age, full of passion, rashness, wilfulness,» upon which adults must impose restraints and exercise shaping power.”69 Ingram, per citare il parere di uno storico, parla esplicitamente del matrimonio come un evento “marking an end to the
irresponsibility of youth”.70 E lo stesso Houlbrooke, pur sempre riferendosi
all’adolescenza principalmente come a un periodo di corteggiamento, afferma
che “most people in the late teens and the early twenties probably enjoyed a
considerable degree of freedom in forming their own attachments to members of
the opposite sex.”71
La differenza principale rispetto a oggi, piuttosto, mi pare fosse
nell’asimmetria fra il grado di libertà concesso agli adolescenti maschi e quello,
assai più limitato, riservato alle adolescenti femmine, ma questo era un tratto tipico della società in generale più che della sola adolescenza. Ed è ciò di cui ci
occuperemo nella prossima sezione.
“Chi portava via la spazzatura?”
Affrontare l’argomento della condizione femminile nel Rinascimento inglese
richiederebbe una tesi di dottorato ad esso interamente dedicata. Qui mi limiterò
a pochissimi aspetti, a mio giudizio significativi, circa la posizione della donna
in famiglia.
69
S. GREENBLATT, “Lear’s Anxiety”, in S. GREENBLATT, Learning To Curse, Essays in Early Modern Culture, p. 83.
70
M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 128.
71
R. HOULBROOKE, English family life, p. 15.
52
In generale, possiamo affermare che le donne vivevano in una condizione di
pesante disparità rispetto agli uomini. L’istruzione, per esempio, a parte durante
l’illuminato periodo che va da più o meno dal 1530 al 1560—del quale la stessa
regina Elisabetta fu una fra le poche beneficiarie, e che comunque riguardò solo
un numero estremamente limitato di donne dell’aristocrazia—era monopolio
pressoché esclusivo degli uomini, e questo era vero per ogni fascia sociale.
“Nell’Inghilterra elisabettiana,” scrive Stone, “il divario d’istruzione tra i sessi
si verificava a tutti i livelli della società: dagli artigiani maschi che sapevano
tracciare la propria firma all’élite maschile che sapeva scrivere e leggere la Bibbia, e spesso anche Cicerone. La maggior parte delle mogli erano incapaci di
imitare i mariti in questa attività, fatto che rafforzava significativamente il loro
senso di inferiorità.”72
Sul “senso di inferiorità” di cui parla Stone è d’accordo anche Houlbrooke, il
quale, oltre a sottolineare come quasi tutti i diari femminili a noi pervenuti siano
opera di donne delle upper classes, aggiunge che “the distinctive aspect of women’s situation which left the clearest mark on a number of diaries […] was
their subordination to men—fathers or husbands. About half our female diarists
suffered frustrations and tensions as a result of the conflict between their duty
of obedience and their own wishes, or obligations which they thought to be
even more important.”73
Un altro dato sul quale gli storici concordano è che, in modo analogo a quanto si è già osservato circa l’età delle nozze, le donne appartenenti ai ceti sociali
più umili pare avessero un maggior margine di libertà e maggiori occasioni di
esprimere la propria autorevolezza rispetto alle donne di classi più elevate. Ciò
era probabilmente legato all’opportunità che le donne non appartenenti alla nobiltà avevano di lavorare (principalmente nell’agricoltura e nei servizi), opportunità che si presentava in particolare in occasione dell’assenza dei mariti. Ciò
però non significa che quella di lavoratrice fosse una condizione ambita: le donne erano pagate all’incirca la metà degli uomini, e finché il marito era in vita
72
L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 174.
73
R. HOULBROOKE, English family life, p. 13.
53
non era comunque concessa loro alcuna indipendenza economica. Lo stato giuridico delle mogli lavoratrici, dunque, più che a quello di “socie alla pari”, era
assimilabile a quello della servitù. Non a caso, è opinione pressoché unanime di
tutti gli storici che a stare meglio in assoluto fossero le vedove e le—peraltro
numerosissime—donne adulte non sposate: era infatti solo in assenza di un marito che una donna poteva diventare, a tutti gli effetti, padrona dei suoi possedimenti.
In ogni caso, la maggior parte dell’attività femminile si svolgeva fra le mura
domestiche, quindi sotto lo stretto controllo dei mariti, il cui diritto ad esercitare
la propria autorità sulle mogli era appoggiato e rafforzato tanto dalle posizioni
dei moralisti74 quanto dalle consuetudini delle comunità urbane e rurali,75 presso
le quali una donna che osasse opporsi apertamente al coniuge veniva sottoposta
al pubblico dileggio e a forme di umiliazione che potevano contemplare persino
il ricorso alla tortura. Sul piano strettamente legale, inoltre, la condizione femminile, già fortemente penalizzata nel corso del Cinquecento, subì un deciso
peggioramento nel secolo successivo, con il progressivo affermarsi da una parte
della common law sul diritto ecclesiastico (tradizionalmente più sensibile alle
richieste, se non di parità, perlomeno di attenuazione delle discriminazioni sessuali) e dall’altra della famiglia nucleare su quella estesa. Entrambe queste tendenze, infatti, andando in direzione di una maggiore parcellizzazione del potere,
contribuirono a relegare sempre di più le donne nelle posizioni subordinate di
figlie e di mogli. Persino il graduale abbandono del cattolicesimo a favore del
protestantesimo, decretando la fine del culto della Vergine e la scomparsa di
una figura come quella del prete (fra le cui attività rientrava anche quella di mediazione in casi di conflitto familiare, in seguito delegata direttamente al capo-
74
A questo proposito, anche senza voler prendere in considerazione posizioni di radicale antifemminismo come quelle sostenute da JOSEPH SWETNAM nel suo Arraignment of Lewd,
Idle, Froward, and Uncostant women del 1615, basti considerare che persino in un testo
illuminato come l’Utopia di THOMAS MORE—che pure prevedeva una società egualitaria
con pari diritto all’educazione per entrambi i sessi—la soggezione della donna all’uomo
era l’unico tratto autoritario esplicitamente ammesso.
75
Sull’antifemminismo della comunità dei vicini, vedi il quarto capitolo di questa tesi.
54
famiglia), finì per avere ripercussioni complessivamente negative sulla condizione femminile.
Entro questo tetro ritratto di una società saldamente maschilista e patriarcale,
però, non mancavano eccezioni e contraddizioni, in particolare se si considera
quanto avveniva nel resto d’Europa, dove le donne godevano in generale di una
libertà ancora più limitata. Il fatto, per esempio, che in Inghilterra le donne potessero lavorare tranquillamente nei pub e negli inn, o che nessuno (a parte i puritani, naturalmente) proibisse loro di frequentare le feste e i teatri, era per molti
viaggiatori stranieri occasione di stupore. Ancora, nonostante in materia di morale sessuale il double standard maschilista fosse ampiamente accettato e la reputazione sessuale fosse tenuta in grande conto, vi era una diffusa tolleranza per
quanto riguardava il comportamento nell’ambito delle relazioni prematrimoniali: erano per esempio consentiti gli abbracci e i baci in pubblico, e più in generale tutte le manifestazioni di affetto che non giungessero all’atto sessuale completo. Evenienza, quest’ultima, che a giudicare dalle statistiche (all’epoca di
Shakespeare, circa una donna su cinque giungeva al matrimonio già incinta76)
era comunque tutt’altro che rara, soprattutto considerando che, a causa delle
precarie condizioni igieniche e alimentari, si presume che la possibilità di un
singolo rapporto di portare effettivamente al concepimento fosse inferiore al già
ridotto due per cento che si riscontra nelle coppie dell’epoca moderna.
Per riassumere, potremmo quindi dire che la diffusa discriminazione sessuale
si
concretizzasse—sul
piano
sociale,
legale
ed
economico—perlopiù
nell’ambito strettamente familiare, e in particolare sui ruoli di moglie e figlia,
più che sulle donne in generale. Poiché quello della famiglia è il contesto del
quale si occupa questa tesi, è dunque quanto mai necessario confrontare tale situazione con quella attuale. In altre parole, come vive la sua condizione di donna, all’interno della famiglia, la Emily della nostra intervista?
Per quanto riguarda l’istruzione, è indubbio che le siano state concesse opportunità impensabili per una donna del periodo Tudor e Stuart: prima del ma-
76
Vedi M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 157.
55
trimonio con Mark, e soprattutto prima della nascita di Tommy, Emily frequentava l’università. Ma dopo?
MINUCHIN: […] Lui non aveva cambiato di molto il suo modo di vivere. Studiava
prima e studiava dopo. Per lei invece come è cambiata la vita?
SIGNORA W.: Niente di particolare. Dovevo solo aspettare di avere un figlio, farlo
e aver cura di lui.
MINUCHIN: Cosa faceva prima di sposarsi?
SIGNORA W.: Ero studentessa. Ho lavorato per un po’.
MINUCHIN: Sicché la vita di Mark non è stata sconvolta dal matrimonio come la
sua.
SIGNORA W.: Scusi, non ho capito ciò che ha detto.
MINUCHIN: Il suo modo di vivere è stato sconvolto dal matrimonio, quello di Mark
no.
SIGNORA W.: Esatto, penso di sì. Credo proprio di poterlo affermare.
MINUCHIN: Perciò lei voleva qualcosa di più da lui.
SIGNORA W.: Sì. Stava continuando a vivere nello stesso modo in cui viveva prima di sposarsi.
MINUCHIN: Mark non voleva riconoscere il fatto di essere sposato.
SIGNORA W.: Penso che ne tenesse conto, almeno fino a un certo punto. Tornando
a casa trovava l’appartamento pulito e i pasti... Dopo la nascita di Tommy c’è
stato un po’ più di caos [ride].
MINUCHIN: Non mettiamo ancora in mezzo Tommy. Vi siete trasferiti dopo quattro terribili mesi in cui lei era ancora figlia, mentre era già moglie. Siete andati
a Kansas City. Lì non era più figlia perché i suoi genitori non stavano più con
lei, non era neanche più studentessa, né lavorava, ma, in un modo o nell’altro,
non era neppure moglie.
SIGNORA W.: Sì, credo che sia così.
Dinamiche di coppia a parte, ciò che questo stralcio di dialogo pone in rilievo non sono solo le diverse conseguenze del matrimonio per i due coniugi, ma
soprattutto la rassegnazione con cui Emily sembra avere accettato di essere lei,
e non Mark, a dover interrompere gli studi. È stata, questa, una scelta dettata esclusivamente da motivi contingenti? O ha influito il fatto che Emily fosse donna e Mark uomo? Nell’intervista non viene specificato, ma ulteriori stralci possono aiutarci a formulare alcune ipotesi:
MINUCHIN: Chi portava via la spazzatura?
SIGNORA W.: Dicevo: “Mark portala via”. Facevamo baruffa.
MINUCHIN: E allora?
SIGNORA W.: “Lo farò quando mi capita”.
SIGNOR W.: “Sì, e io lo farò quando tocca a me” [ride].
SIGNORA W.: Nel frattempo, la spazzatura si ammucchiava e allora veniva fuori la
grossa litigata. L’immondizia straripava. Erano sempre piccolezze come questa, mai cose serie.
56
MINUCHIN: Ovviamente non si trattava solo dell’immondizia. Ne facevate una
questione di autorità.
SIGNORA W.: Proprio così.
SIGNOR W.: La questione era nei termini; sono disposto a fare ciò che mi chiedi,
finché non t’aspetti che lo faccia a modo tuo.
SIGNORA W.: O quando vuoi tu.
MINUCHIN: E come l’avete risolta?
SIGNOR W.: Erano cose da poco, quelle che Emily ha menzionato.
MINUCHIN: La vita è fatta di piccole cose.
SIGNOR W.: Quello era il mio modo di mostrare resistenza non è vero?
MINUCHIN: Credo che lui continuasse a dire: “Sono scapolo”. Capisce?
SIGNORA W.: Era come se lo fosse.
MINUCHIN: E lei, invece, gli ricordava che eravate sposati. “Porta via la spazzatura”. Questa è una funzione da persona sposata [ride]. Ma lui insisteva: “Io sono scapolo”.
SIGNORA W.: Non mi aiutava affatto. Non ha cambiato un pannolino fino a quando Tommy ha avuto sei mesi; e questo dall'inizio in poi. Gli dissi: “Mark, devi
imparare a cambiare i pannolini, che succederebbe se mi ammalassi o qualcosa
del genere? Dovresti cambiarli tu”. Non potevo uscire neanche una volta senza
portare con me il bambino, perché lo disturbava mentre studiava. E così scoppiò il conflitto.
Portare via la spazzatura, cambiare i pannolini: cose davvero da poco, ma
come rileva prontamente Minuchin la vita familiare, al tempo di Shakespeare
come al nostro, è fatta di esattamente di queste piccole cose. Ora, benché nel
contesto macrosociale del mondo occidentale le donne abbiano conquistato, nel
corso del Novecento, una posizione di sostanziale parità rispetto all’uomo, a
giudicare dalla distribuzione dei compiti fra i Wagner pare che, in ambito familiare, la strada da percorrere sia ancora lunga: quali che siano le cause contingenti, anche al giorno d’oggi, proprio come accadeva in epoca Tudor e Stuart,
dei bambini se ne occupano principalmente le donne. Con questo non intendo
certo sminuire l’entità dei risultati di quella che è stata senz’ombra di dubbio la
più importante rivoluzione culturale e sociale della storia: semplicemente, voglio evidenziare come il genere sessuale giochi tutt’ora un ruolo determinante,
per quanto sempre più latente, nella continua negoziazione del potere all’interno
della coppia.
Un ultimo esempio, nuovamente tratto dalla vicenda coniugale dei Wagner,
penso possa risultare significativo in rapporto a quanto si è scritto circa il double standard e il diverso grado di libertà concesso alle donna prima e dopo il
matrimonio:
57
SIGNORA W.: È vero, si aspettava alcune cose da me fin da quando abbiamo cominciato a uscire insieme. Per esempio, non dovevo fumare in pubblico, ossigenarmi i capelli...
MINUCHIN: Lei si tinge i capelli?
SIGNORA W.: Ora sì.
MINUCHIN: Ciò significa che vi siete messi d'accordo.
SIGNORA W.: Basti un esempio. Stavamo a Kansas City da circa un mese e abitavamo nei College Courts, dove tutte le ragazze avevano i capelli tinti. Glielo
feci notare e gli dissi che avrei fatto lo stesso, lui rispose: “Fallo e io mi rapo
come Yul Brynner”. Era quello il punto; io sfidavo i suoi desideri e lui era
pronto a combattermi. […] Ce n'era abbastanza per litigare per cinque mesi.
Ero andata contro i suoi desideri.
Emily, alla fine, è riuscita ad ossigenarsi i capelli, proprio come tutte le ragazze non sposate dei College Courts. Ma per farlo ha dovuto combattere. Dovendo valutare l’applicabilità del punto di vista della terapia della famiglia
all’epoca rinascimentale, ciò che dobbiamo domandarci non è tanto se una moglie del periodo Tudor o Stuart sarebbe riuscita ad averla vinta sul marito—
probabilmente, no, e comunque avrebbe attirato su di sé il biasimo dell’intera
comunità di appartenenza—quanto se fosse prevista (anche solo a livello potenziale) la possibilità, lo spazio relazionale, per avviare un conflitto sulla libertà
di gestione del proprio aspetto. Ripensando ad Adam Eyre e ai suoi battibecchi
quotidiani con la moglie Susannah “for wishing her only to wear such apparel
as was decent and comely”, penso di poter affermare che questo spazio, per
quanto ancora angusto, esistesse già allora.
Un’indagine diacronica su larga scala: i rapporti fra siblings
È dall’inizio di questo capitolo—e in modo temo piuttosto monotono—che
propongo confronti fra l’intervista ai Wagner e brani di diari del XVI e XVII
secolo. Il motivo, come ho già spiegato, è dovuto principalmente alla necessità
di stabilire confronti fra realizzazioni di dinamiche familiari concrete, più che
su tendenze desumibili da dati statistici. In quest’ultima sezione, nella quale mi
concentrerò sui rapporti fra fratelli e sorelle, mi limiterò invece a presentare il
metodo e i risultati di uno studio su vasta scala condotto da Frank J. Sulloway,
un sociologo americano, dal titolo Born to Rebel. Il motivo di questa scelta è
che il metodo di indagine adottato da Sulloway per indagare le dinamiche rela-
58
zionali che si stabiliscono fra fratelli (e sorelle) soddisfa in modo egregio numerosi vincoli: a) è condotto su un campione di decine di migliaia di biografie, relative a ben 6243 “fratelli” e 323 “sorelle”;77 b) il criterio adottato per la raccolta
dei dati è assai più affine a quello dell’intervista che a quello delle domande a
scelta multipla, e presta notevole attenzione alle particolari contingenze di ogni
famiglia presa in esame (basti pensare che il numero totale di “dati” codificati
per l’intera indagine supera il mezzo milione); c) dal punto di vista diacronico,
ed è questo l’aspetto che mi interessa qui maggiormente, il campione copre un
periodo che va dalla Riforma protestante ad oggi.
Come si può intuire già da queste poche cifre, si è trattato di uno studio vastissimo: ha richiesto numerosi anni di lavoro e coinvolto decine di collaboratori. Il risultato principale che Sulloway ha ottenuto, volendolo riassumere in poche parole, è la dimostrazione della correlazione fortissima esistente fra ordine
di nascita e una particolare propensione a ribellarsi all’autorità, a cercare nuove
soluzioni—in definitiva, al cambiamento. Per quanto riguarda l’innovazione in
campo scientifico, per esempio, Sulloway giunge a concludere che “[most] innovation in science, especially radical ones, have been initiated and championed
by laterborns. Firstborns tend to reject new ideas, especially when the innovation appears to upset long-accepted principles. During the early stages of radical
revolutions, laterborns are 5 to 15 times more likely than firstborns to adopt the
heterodox point of view. During technical revolutions, laterborns are 2 to 3 times more likely to lend their support. For their own part, firstborns are drawn to
reactionary innovations, a domain in which they are also the principal pioneers.
Firstborns typically welcome conservative doctrines as potential bulwarks
against radical change, supporting them 2 to 1 over laterborns.”78 In campo
politico e religioso, per fare un altro esempio, questa propensione si manifesta
con la tendenza, da parte dei primogeniti, ad aderire a movimenti conservatori,
mentre gli ultimi nati sembrano essere più inclini a sostenere idee di stampo
liberal.
77
Vedi F. SULLOWAY, Born to Rebel, p.xvi e p. 376.
78
Ibid., p. 53.
59
Come si spiega questa correlazione, che pare essere quantitativamente più
determinante di ogni altro fattore extrapsichico (dalla posizione sociale allo
stesso genere sessuale)? La motivazione offerta da Sulloway è di tipo “neodarwiniano”, e si basa sull’interessante concetto—tipicamente sistemico—di
“nicchia familiare”, che merita di essere riportato in modo esteso: “Families are
best seen as containing an array of diverse niches, each occupied by a different
individual and each presenting differing vantage points on life. From these differing perspectives, family members experience the same event differently.
Families do share interests and social values. But siblings differ even in their interests and values, and these differences are caused, in substantial part, by differences in niches within the family. […] The typical firstborn strategy is to
align his or her interests with those of the parents, adopting the parents’ perspective on family life. The family status of firstborns is primary, and they seek
to maintain this primacy by defending their niche against encroachments by
younger brothers and sisters. Laterborns offspring face a different developmental challenge. Their most pressing problem is to find a valued family niche that
avoids duplicating the one already staked out by the parent-identified firstborn.
Instead, they seek to excel in those domains where older siblings have not already established superiority. Laterborns typically cultivate openness to experience—a useful strategy for anyone who wishes to find a novel and successful
niche in life”.79
Ovviamente, le eccezioni sono ammesse (da figlio primogenito quale sono,
la prima volta che ho letto Born to Rebel ho tentato, senza troppo successo, di
aggrapparmi all’idea di essere una di queste…). Ciò che mi pare straordinario
dello studio di Sulloway, però, è che l’incidenza di tali eccezioni è quantificata
(vedi le percentuali riportate prima circa la propensione all’innovazione in campo scientifico). Ma anche senza fare appello al rigore del metodo scientifico,
penso sia sufficiente pensare a coppie shakespeareane significative come Oliver
e Orlando in As You Like It, o a triadi come quella Goneril-Regan-Cordelia in
King Lear, per subire la suggestione della teoria di Sulloway.
79
Ibid., pp. 352-353.
60
Nel corso di questa tesi, farò esplicitamente riferimento allo studio di Sulloway in un’unica occasione: nel quarto capitolo, a proposito della relazione fra
Katherine e Bianca in The Taming of the Shrew. Tuttavia, per quanto riguarda
l’impostazione generale di questa tesi, il fatto che un aspetto relazionalmente
così rilevante come il rapporto fra fratelli (e sorelle) non abbia subito variazioni
significative nel corso degli ultimi cinque secoli—“the influence of birth order
has held steady since the time of the Protestant Reformation, a period of nearly
five centuries”,80 sottolinea Sulloway—mi sembra possa essere considerato
un’ulteriore indicazione a favore della possibilità di applicare la teoria dei sistemi familiari anche a gruppi sociali storicamente assai distanti dal periodo nel
quale tale teoria si è sviluppata.
In conclusione?
Cercando di riepilogare quanto scritto fino ad ora circa il rapporto fra le relazioni intrafamiliari dell’Inghilterra al tempo di Shakespeare e quelle del mondo occidentale contemporaneo, direi che si potrebbero assumere come accettabili ipotesi di lavoro le seguenti affermazioni:
• Nonostante le condizioni sociali ed economiche dei singoli individui fossero assai diverse, la struttura ‘famiglia’ nella sua evoluzione diacronica,
sia da un punto di vista demografico (composizione, numero di figli, età
di formazione) sia da un punto di vista affettivo-relazionale (presenza di
conflitti sul problema dell’autorità, senso di appartenenza, necessità di
negoziazione con le esigenze dei singoli membri da una parte e con gruppi socialmente più estesi dall’altra) mostra un cospicuo numero di tratti
sovrapponibili.
• Le due differenze relazionali più rilevanti si riscontrano nel rapporto fra i
sessi e nell’atteggiamento verso l’infanzia. In entrambe queste sfere, però,
cominciava a delinearsi la possibilità di soluzioni alternative, di un cam80
Ibid., p. 53.
61
biamento. In altre parole, benché l’esito delle realizzazioni fosse decisamente diverso da quello attuale, lo spazio per negoziarle—come testimoniano non soli i diari ma anche l’interesse degli stessi moralisti sia per la
condizione femminile sia per l’educazione dei bambini—esisteva.
• Per quanto riguarda le relazioni extra-familiari, pare evidente che la permeabilità fra organizzazione familiare e organizzazione politica, nel senso di possibilità di intrusione di quest’ultima nella sfera privata, fosse assai più elevata di quanto non sia ora. Ciò vale anche nella direzione opposta: la società, in tutti i suoi aspetti, si mostrava estremamente consapevole
e
preoccupata
delle
ripercussioni
che
i
cambiamenti
nell’organizzazione familiare avrebbero potuto innescare al livello della
sfera pubblica. Si pensi, per esempio, alla relativa tolleranza nei confronti
dei comportamenti individuali rispetto alle numerose forme di controllo
sugli individui in quanto membri di una famiglia. Questo, contingenze
storiche a parte, è probabilmente collegato a quanto osserva Minuchin
sulle famiglie nelle società in rapida evoluzione: “più flessibilità e adattamento la società chiederà ai suoi membri, più significativa diventerà la
famiglia quale matrice di sviluppo psico-sociale”.81
Alla luce di queste considerazioni, è dunque applicabile la teoria dei sistemi
familiari alla famiglia del periodo Tudor e Stuart? Per rispondere, ovviamente,
occorre conoscere almeno a grandi linee i metodi e gli strumenti della teoria dei
sistemi familiari, quindi rimando i lettori di questa tesi alla lettura del terzo capitolo per poter valutare autonomamente tale applicabilità. La mia opinione,
comunque, è che un simile tentativo sia non solo possibile ma anche proficuo.
Proficuo per chi si interessa primariamente di storia culturale, in quanto, rivolgendosi soprattutto a interazioni reali fra individui particolari, offre un punto
di vista potenzialmente straniante. Proficuo per chi si occupa di psicologia sociale e di terapia della famiglia, poiché aiuterebbe a individuare con maggior
81
S. MINUCHIN, Famiglie e terapia della famiglia, p. 55.
62
precisione i vincoli che un concetto inevitabilmente arbitrario come quello di
‘famiglia’ comporta. Ma proficuo anche per chi, come nel nostro caso, si interessa di famiglie che esistono solo nella finzione e solo per qualche ora, poiché
è proprio su queste—in quanto destinate, dal loro nomadismo diacronico e sincronico, a continui confronti—che la tensione fra ‘famiglia’ come soggetto illusoriamente universale e ‘famiglia’ intesa nelle sue realizzazioni storiche e particolari ha occasione di esercitare tutta la propria forza.
Per concludere questo lungo ma necessario accostamento fra due entità così
diverse ma per molti aspetti anche così affini come la famiglia odierna e la famiglia in epoca Tudor e Stuart, vorrei proporre un’ultima—brevissima—scena
familiare. È tratta dal diario di John Dee (che abbiamo avuto occasione di conoscere nella sezione sui bambini), e si riferisce a uno dei figli dello stesso Dee e a
una sua giovane amichetta, colti mentre sono impegnati in un’attività molto comune anche fra i bambini di oggi. Un’attività che meglio di ogni altra riassume
e dà parvenza organica alla caotica eterogeneità di questa tesi:
[1582, January] 22/23 Arthur Dee and Mary Herbert, [illegible word] being
but three year old the eldest, did make as it were a show of childish marriage, of
calling each other husband and wife…82
Di ciò che si dissero Arthur e Mary durante la loro recita domestica non è
purtroppo rimasta traccia alcuna. L’argomento, però, occorre ammettere che
l’avevano scelto bene: altri “show” risalenti all’incirca allo stesso periodo e che,
pur fra mille altre vicende, portano in scena relazioni familiari hanno riscosso
un successo tale da giungere, più o meno intatti, fino ai nostri giorni. Ed è di
questi che mi occuperò nei successivi capitoli.
82
R. HOULBROOKE, English family life, p. 137.
63
Capitolo secondo
Relazioni familiari in Shakespeare
Nel capitolo precedente, ho tentato di stabilire un confronto fra alcuni tratti
della vita familiare in epoca Tudor e Stuart e di quella odierna. Dunque, un confronto sull’asse diacronico, finalizzato a identificare i principali limiti circa
l’applicabilità delle teorie della terapia familiare su famiglie del passato. La distanza fra le famiglie di cui intendo occuparmi e quelle di cui si occupa la terapia familiare, però, non è solo storica: trattandosi in un caso di gruppi sociali
formati da persone reali (quindi, un costrutto non solo culturale1 ma anche “biologico”) e nell’altro di una finzione artistica (quindi, un costrutto prevalentemente culturale), è una distanza che potremmo definire ontologica. E il collegamento fra i due costrutti, se collegamento c’è, deve ovviamente essere di natura mimetica.
Già, ma mimesi in che senso? Chi “imita” chi? E, soprattutto, mimesi di che
cosa? Le risposte, in questo caso, sono tutt’altro che scontate. Alcuni semplici
esempi possono aiutare a illustrare il problema. Secondo la Poetica di Aristotele, nel dramma—e in particolare nella tragedia—la mimesi consiste nella rappresentazione diretta delle azioni umane. Per Erich Auerbach, invece, il concetto di mimesi si traduce anzitutto su un piano linguistico, per cui il grado di realismo di una rappresentazione si può indagare concentrandosi su aspetti prevalentemente stilistici.2 La critica a orientamento psicologico, a sua volta, dà maggior risalto al realismo della sfera comportamentale ed emotiva dei singoli per-
1
Vedi U. ECO, Lector in fabula, p. 132: “Nel quadro di un approccio costruttivistico ai
mondi possibili, anche il cosiddetto mondo «reale» di riferimento deve essere inteso come
un costrutto culturale”.
2
Vedi E. AUERBACH, Mimesis, vol. 2, pp. 339-340.
sonaggi. Ancora, un presupposto implicito della critica psicoanalitica è che anche i personaggi delle finzioni letterarie dispongano di una sorta di “inconscio”—sia esso dell’autore, dell’epoca, o dei personaggi medesimi—e che tale
inconscio si manifesti attraverso le stesse modalità con le quali si manifesta
l’inconscio degli esseri umani in carne ed ossa: attraverso sogni, simboli, e lapsus più o meno freudiani. Per Harold Bloom, infine, il ragionamento andrebbe
capovolto: nel caso degli strong poets, dei quali Shakespeare sarebbe la massima espressione, siamo noi a “imitare” i personaggi letterari. Dal suo punto di
vista, non è Hamlet che soffre di un complesso edipico, ma piuttosto è Freud
che soffre di un “complesso shakespeareano”,3 ed è il concetto di complesso edipico ad essere influenzato da Hamlet, non viceversa.
Tornando ora all’argomento di questo capitolo, la domanda diventa: quale
tipo di relazione mimetica è necessaria affinché esista un margine per poter tentare di applicare le teorie della terapia della famiglia ai drammi di Shakespeare?
Prima di cercare di formulare una risposta, è opportuno considerare che il problema della mimesi fra arte e realtà non riguarda solo i critici letterari: così come questi ultimi “sfruttano” teorie nate per indagare i fenomeni della vita reale,
chi si occupa di sistemi reali spesso “sfrutta” le opere artistiche per illustrare le
proprie teorie, e capita che si trovi costretto a fornire una giustificazione di
fronte alle numerose obiezioni che questo tipo di approccio solleva, esattamente
come accade ai critici letterari. È dunque interessante sentire come Paul Watzlawick, un terapeuta della famiglia, abbia giustificato la sua scelta di includere
una dettagliatissima analisi del dramma Who’s Afraid of Virginia Woolf
all’interno di un volume sulla comunicazione umana:
The general problem of adequately illustrating the theory of interactional systems described in the previous chapter, as well as our choice of a fictitious system
rather than actual clinical data (such as in earlier chapters), deserves some special
comment. Having described a unit of recurring, ongoing processes with no single
important incident or variable but rather redundant patterns over time and over a
wide variety of situations, the first difficulty of providing examples becomes one
of sheer size. In order to demonstrate exactly what is meant by the various abstractions that define a system—rules, feedback, equifinality, and so forth—an enormous number of messages, their analysis, and their configurations must be avail3
Vedi H. BLOOM, “Freud: a Shakespearian Reading”, in The Western Canon, pp. 371-94.
66
able. Transcripts of hours of family interviews, for instance, would be prohibitively bulky and would be biased by both the therapist’s point of view and by the
therapeutic context. Unedited “natural history” data would carry the lack of limits
to unusable extreme. Selecting and summarizing is not a ready answer either, for
this would be biased in such a way as to deny the reader the right to observe this
very process of selection. The second major goal, in addition to manageable size,
is thus reasonable independence of the data, that is, independence of the authors
themselves, in the sense of being publicly accessible.
Edward Albee’s unusual and well-known play seems to satisfy both these criteria. The limits of the data presented in the play are fixed by artistic license,
though the play is possibly even more real than reality […]; and all the information is available to the reader.4
Watzlawick, in modo piuttosto sorprendente, afferma dunque che le sue teorie si possono illustrare meglio analizzando un’opera teatrale piuttosto che ricorrendo a quelli che chiama “natural history data”, e proprio grazie al maggiore realismo della prima—“possibly even more real than reality”. La spiegazione
proposta da Watzlawick è sostanzialmente la stessa per la quale uno storico come Hayden White ritiene opportuno ricorrere a strumenti retorici per lo studio
della storia:5
sia nel caso del terapeuta sia in quello dello storico,
l’indispensabile intervento sugli “unedited natural history data” finisce per introdurre comunque un elemento di artificiosità, alterazione tanto più pericolosa
quanto più impercettibile. Ciò che invece Watzlawick, avendo scelto un dramma come quello di Albee, dà per scontato è che le dinamiche sistemiche alle
quali è interessato—“rules, feedback, equifinality, and so forth”—siano comunque rinvenibili anche nell’opera di finzione: in altre parole, la mimesi.
Si ripresenta così la nostra domanda: mimesi di cosa? Né di azioni in senso
aristotelico, né linguistica, né di tratti strettamente individuali come il carattere
o l’inconscio, ma piuttosto mimesi di relazioni, e in particolare di relazioni familiari. Per essere più espliciti: il teatro così come lo definisce Peter Brook—“I
can take an empty space and call it a bare stage. A man walks across this empty
space whilst someone else is watching him, and this is all that is needed for an
act of theatre to be engaged.”6—non sarebbe sufficiente per i nostri scopi, in
4
P. WATZLAWICK et al., Pragmatics, pp. 149-50.
5
Vedi H. WHITE, “Le poetiche della storia”, in AA.VV., Il neostoricismo.
6
P. BROOK, The Empty Space, p. 11.
67
quanto l’unica relazione interpersonale consentita sarebbe quella fra l’uomo che
attraversa lo spazio vuoto e il suo pubblico, relazione questa, per quanto interessantissima, di natura ovviamente non mimetica. Il problema, a questo punto,
diventa quello di stabilire se le relazioni familiari presenti nel corpus shakespeareano siano o meno “adeguatamente mimetiche” rispetto alle relazioni familiari
della vita reale. Prima di proseguire, però, è opportuno affrontare due problemi
tutt’altro che marginali circa la natura ontologica delle relazioni.
Mimesi, “realtà” e mondi possibili: lo status delle relazioni familiari
La prima questione sulla quale vorrei spostare temporaneamente l’attenzione
è riassumibile in una domanda: il significato di “finzione” è sempre lo stesso,
sia che venga applicato a un personaggio sia che venga applicato a una relazione fra personaggi, oppure no? È, questo, un tipico caso di sovrapposizione tra
diverse categorie logiche, quindi occorre affrontarlo con particolare cautela, pena l’incorrere in pericolosi paradossi.
Per introdurlo meglio, invece della finzione teatrale, consideriamo per un istante una “finzione algebrica”: dovendo rappresentare un elementare problema
del tipo “distribuendo in parti uguali otto uova a quattro bambini, quante uova
toccano a ciascuno?”, si può ricorrere a un’espressione tipo x=nu/nb, dove nu
sta per il numero di uova, nb per il numero di bambini e il simbolo ‘/’ per
l’operazione di “distribuzione in parti uguali”. L’aspetto curioso di questa formulazione è che, mentre è evidente che le uova hanno una natura assai diversa
da quella del numero di uova (nel senso che ‘nu’ non ha né tuorlo né albume,
per esempio, e se anche potesse cadere dal cesto non si romperebbe), cosa dire
del rapporto fra il simbolo ‘/’ e la relazione di distribuzione in parti uguali? In
altre parole, un’astrazione come il concetto di relazione cambia il suo “valore di
realtà” al cambiare del valore di realtà degli elementi ai quali si applica, così
come avviene per il concetto di individuo? Non è detto.
Abbandonando l’algebra e rivolgendo di nuovo lo sguardo all’analisi dei testi letterari, per affrontare la questione in tutta la sua complessità è opportuno
fare riferimento al modello di Umberto Eco sui mondi possibili come costrutti
68
culturali,7 e in particolare ai concetti di proprietà essenziali, identità, individui
supranumerari e proprietà S-necessarie. Stabilito che “costruire un mondo significa assegnare proprietà a un dato individuo”,8 che esistono proprietà più o
meno essenziali, e che “l’essenzialità di una proprietà è topico-sensibile”,9 Eco
si pone il problema fondamentale dell’accessibilità di tale mondo, e giunge alla
conclusione che l’accessibilità dipende dall’isomorfismo, fra i due mondi WREALE
e WNARRATO, di particolari relazioni—diadiche e simmetriche, nonché vincolate
semanticamente—che possiamo definire relazioni S-necessarie, o proprietà
strutturalmente necessarie. In particolare, le relazioni S-necessarie “sono essenziali all’identificazione degli individui supranumerari della fabula”,10 ossia tutti
quegli individui che, rispetto agli individui di un altro mondo possibile (tipicamente, il “mondo reale”), differiscono da essi nelle proprietà essenziali. Ed è
esattamente l’isomorfismo di cui parla Eco la ragione per cui una relazione fittizia è “meno finta”—o meglio, è finta in modo completamente diverso, come
approfondiremo più avanti—di un individuo o di un’azione o di un qualsiasi altro oggetto fittizio.11
7
U. ECO, Lector in fabula, cap. 8 (“Strutture di mondi”). Per un’applicazione di questi modelli al testo teatrale, vedi K. ELAM, Semiotica del teatro, e in particolare il cap. 4, “Logica
drammatica”.
8
U. ECO, Lector in fabula, p. 135.
9
Ibid., p. 141.
10
Ibid., p. 159. Per illustrare il concetto di “individuo supranumerario”, Eco propone due
controfattuali (dunque, due mondi possibili) che forse vale la pena riportare. Nel primo,
Eco immagina che sua suocera si chieda: “Cosa sarebbe accaduto se mio genero non avesse sposato mia figlia?”. L’individuo x qui immaginato dalla suocera di Eco, non condividendo con Eco una proprietà essenziale (aver sposato la figlia della parlante), è un esempio di individuo supranumerario. Nel secondo, la suocera di Eco si chiede invece: “Cosa
sarebbe accaduto se l’autore di questo libro [Lector in Fabula] non si fosse mai sposato?”.
Poiché la proprietà essenziale, in questo caso, è “essere l’autore di Lector in Fabula”,
l’individuo al quale il mondo possibile immaginato dalla suocera si riferisce non è supranumerario rispetto allo stesso Eco, il quale soddisfa la proprietà essenziale in entrambi i
mondi.
11
A questo proposito, è importante tenere presente la natura intrinsecamente relazionale delle proprietà. Sulla confusione fra individui e proprietà, Eco osserva correttamente: “Non
solo è impossibile stabilire un mondo alternativo completo ma è anche impossibile descrivere come completo il mondo «reale». […] A maggior ragione un mondo narrativo prende
a prestito i proprio individui e le loro proprietà dal mondo «reale» di riferimento. Ed ecco
69
Già, ma in che modo le relazioni S-necessarie riescono a permettere
l’identificazione degli individui del mondo della finzione? Eco lo chiarisce con
un esempio ispirato all’incipit di Un drame bien parisien di Alphonse Allais.
Poiché si tratta di un esempio secondo me non casuale—in particolare, di un esempio che per alcuni tratti mi pare essere sovradeterminato proprio dal concetto di “relazione familiare”—penso possa essere interessante riportarlo per esteso. Eco riassume l’inizio del racconto con queste parole: “In un periodo attorno
al 1890 c’era a Parigi un uomo chiamato Raoul. Esso era il marito di Marguerite”; dopodiché, illustra come “essere maschio” sia “solo” una proprietà essenziale di Raoul, mentre la proprietà S-necessaria—quella che permette di “individuare Raoul all’interno della fabula senza possibilità di errore”—è “essere il
marito di Marguerite”. In altre parole, si viene a stabilire una relazione simmetrica del tipo “x è il coniuge di y” tramite la quale Raoul e Marguerita si definiscono a vicenda, in modo circolare.
Ora, il tratto apparentemente più curioso di questa lucida e convincente tassonomia delle proprietà è che quasi tutti gli esempi di proprietà S-necessarie
proposti da Eco riguardano relazioni familiari: oltre a quella citata fra Raoul e
Marguerite, abbiamo la relazione moglie-marito fra Milady e Athos ne I tre moschettieri, quella padre-figlio nell’Edipo di Sofocle e perfino quella generosuocera fra l’autore e la suocera dello stesso Eco (vedi nota 10)! Ovviamente,
dovendo illustrare il concetto di proprietà S-necessaria, non esiste alcuna ragione formale per privilegiare le relazioni familiari rispetto alle altre: anche la relazione fra “l’uomo in giacca bianca” e il “Ricki’s bar” di Casablanca12 funziona
benissimo. Eppure, la preferenza accordata alle relazioni familiari è numericamente indiscutibile, e non è certo una prerogativa di Eco.
Giusto per citare un altro esempio significativo, lo stesso Greimas, proponendo la sua teoria per l’interpretazione del racconto mitico,13 finisce per sce-
perché possiamo continuare a parlare di individui e proprietà anche se solo le proprietà
dovrebbero apparire come primitivi.” (ibid., p. 131, corsivo mio).
12
Ibid., p. 158.
13
A.J. GREIMAS, “Elementi per una teoria dell’interpretazione del racconto mitico”.
70
gliere come mito di riferimento una storia di iniziazione—già analizzata da
Lévy-Strauss—che ha per protagonisti i membri di una famiglia bororo. Fatto
piuttosto sorprendente, pur trovandosi a far ricorso per tutta la durata del saggio
a definizioni relazionali familiari (“il padre”, “la madre”, “il figlio”, “la suocera”, “la nonna”, “il genero”, il fratellino”, ecc.), Greimas sembra non avvedersi
che tale tassonomia funziona in modo assai più efficace di quella attanziale (destinante, eroe, adiuvante, opponente, ecc.) da lui proposta.14
Pare dunque che le relazioni familiari—rispetto, per esempio, a quelle di potere, o di amicizia, o di possesso, ecc.—abbiano qualche caratteristica che le
porta ad essere molto adatte a esemplificare cosa si intende per proprietà Snecessaria. Ma che cosa?
Anzitutto, possiamo osservare come le relazioni familiari siano proprietà estremamente vincolanti (ovviamente, qui stiamo parlando del punto di vista denotativo, non di quello sociale), ma questo è un aspetto strutturale comune a tutte le relazioni S-necessarie. Ciò che le distingue mi pare piuttosto essere un tratto che è al tempo stesso pragmatico e semantico, e cioè la loro straordinaria economicità. 15 Se il testo, come scrive Eco, è “una macchina per produrre mondi
possibili”,16 potremmo dire che il riferimento a una relazione familiare è un dispositivo eccezionalmente efficace per indurre i lettori (o gli spettatori) a popolare quei mondi di significato.
La spiegazione di questa efficacia ha naturalmente a che vedere con fattori
psicologici e sociali: l’esperienza della relazione familiare—in particolare la relazione madre-figlio, ma non solo—è l’esperienza primaria di relazione fra il sé
e il mondo, ed è alla base della costruzione dell’identità di ciascuno di noi. Ter14
L’impressione di inadeguatezza delle “nuove” categorie narratologiche, rispetto per esempio a quelle proppiane per l’analisi della fiaba, è ovviamente dovuta alla loro—voluta—
povertà semantica. In teoria, il grado di astrazione e la relativa povertà delle categorie attanziali dovrebbero avere il vantaggio di renderle applicabili a un corpus assai più vasto di
quello analizzato da Propp. Ma quanto vasto? E a quale prezzo? Come cercherò di illustrare nei successivi capitoli di questa tesi, la loro applicabilità alla descrizione dei testi drammatici mi pare piuttosto limitata, nonché eccessivamente penalizzante.
15
Circa il rapporto fra vincolo, economia e mimesi, e in particolare sui vincoli intrinseci
all’interazione sociale, cfr. P. PUGLIATTI, “Dalle convenzioni alle regolarità”, pp. 13-28.
16
U. ECO, Lector in fabula, cit., p. 173.
71
ritorio di confine fra socialità e individualità, quella della struttura familiare è
un’esperienza al tempo stesso condivisibile e densa di contenuti individuali.
Ecco perché, quando scorriamo un elenco di dramatis personae17 come questo che segue:
James Tyrone
Mary Cavan Tyrone, his wife
James Tyrone, Jr., their elder son
Edmund Tyrone, their younger son
Cathleen, second girl18
pur senza avere la benché minima idea della vicenda che sta per avere inizio,
possiamo fare ipotesi—per quanto destinate a rivelarsi errate—che vanno ben
oltre la semplice distribuzione attanziale, ipotesi che coinvolgono anche il livello semantico (sarà un rapporto affettivamente intenso, quello fra James e Mary?
saranno gelosi l’uno dell’altro, James Jr. e Edmund? quale dei due sarà il preferito? i genitori avrebbero forse voluto anche una figlia? ecc.). Tutte ipotesi che
non potremmo formulare con altrettanta densità semantica se, al posto di “his
wife” o “their son” fossero indicate relazioni non primarie—come avviene nel
caso di “Cathleen, second girl”—o, rifacendoci a Greimas, relazioni puramente
narratologiche come “il suo adiuvante”. Tanto meno potremmo formularle se al
posto di proprietà S-necessarie fossero indicate proprietà essenziali, per quanto
particolareggiate.19
Riassumendo, l’inevitabile isomorfismo fra alcune proprietà del mondo “reale” e le relative proprietà S-necessarie del mondo della finzione implica una relazione mimetica qualitativamente privilegiata. D’altro canto, la particolare natura delle relazioni familiari le rende, tra le infinite possibili proprietà Snecessarie, quantitativamente favorite per convogliare in modo economicamen-
17
A proposito delle liste di dramatis personae, è qui rilevante osservare che di solito si presentano come un elenco di nomi associato alla loro proprietà S-necessaria, e che questa
proprietà è quasi sempre una relazione familiare.
18
EUGENE O’NEILL, Long Day’s Journey Into Night, 1955.
19
Un esempio significativo è il recente Ashes to Ashes (1996) di HAROLD PINTER, che si gioca interamente sull’ambiguità relazionale fra Devlin e Rebecca (sono amici? amanti? terapeuta e paziente?), definiti soltanto come “both in their forties”.
72
te efficace non solo informazioni strutturali ma anche ipotesi di informazioni
semantiche sul mondo della finzione. A questo proposito, può essere utile sottolineare che il “vantaggio economico” delle relazioni familiari diventa particolarmente importante in un genere come quello drammatico, nel quale la necessità di convogliare in breve tempo (rispetto, per esempio, al romanzo o all’epica)
contenuti emotivamente significativi è abbinata a una strutturale povertà di
mezzi (rispetto, per esempio, al cinema). Non stupisce, quindi, che un professionista del teatro come Shakespeare se ne sia avvalso così di frequente.
Una breve parentesi sugli atti linguistici e sulla mimesi delle relazioni
Inevitabilmente legata al problema della finzionalità delle relazioni familiari
è l’ormai annosa querelle circa la finzionalità degli atti linguistici. Com’è ben
noto, il caso nasce dalla radicale esclusione auspicata da John L. Austin di tutti
gli atti linguistici “proferiti in circostanze non ordinarie”:
[…] un enunciato performativo sarà, ad esempio, in un modo particolare vacuo o nullo se pronunciato da un attore sul palcoscenico, o se inserito in una poesia, o espresso in un soliloquio. […] In tali circostanze il linguaggio viene usato in
modi particolari—in maniera intelligibile—non seriamente, ma in modi parassitici del suo uso normale—modi che rientrano nella teoria degli eziolamenti del linguaggio. Noi escludiamo tutto ciò dal nostro esame. I nostri enunciati performativi, felici o meno, devono essere intesi come proferiti in circostanze ordinarie.20
Queste affermazioni hanno suscitato un’enorme quantità e varietà di reazioni, soprattutto fra chi si occupa di teatro, ed è comprensibile: è come se
l’inventore del cannocchiale in persona—e non la Chiesa—avesse proibito a
Galileo di usarlo per osservare il cielo! Non è qui mia intenzione ripercorrere
per l’ennesima volta i limiti, e le ragioni, del pregiudizio di Austin nei confronti
dei testi drammatici:21 come dimostra in modo convincente Alessandro Serpieri,
la teoria degli atti linguistici non solo è utile per analizzare i testi drammatici e
per caratterizzarli rispetto a quelli letterari in generale, ma è anche ormai impos20
J.L. AUSTIN, Come fare cose con le parole, pp. 21-22 (corsivi dell’autore).
21
Per una rassegna chiara e ragionata delle principali posizioni assunte a questo riguardo dagli studiosi del testo drammatico, vedi K. ELAM, “Atti e giochi linguistici nel dramma”,
pp. 63-73.
73
Figura 2.1 – Atti linguistici e mondi possibili
X1
Y1
W1
X’0
“X0” R “Y0”
W0
Y’0
P0 (PUBBLICO)
sibile rinunciarvi, poiché “il teatro è tutto performativo”.22 Mi limiterò quindi a
rendere esplicito, nel modo più semplice e banale, il tipo logico degli atti linguistici dei quali questa tesi inevitabilmente si occupa, sperando così di ridurre al
minimo il rischio di paradossi, sempre in agguato quando ci si trovi ad affrontare dal punto di vista linguistico un campo di indagine al confine fra mondo della
realtà e mondo della finzione drammatica.
Nella figura 2.1 ho tentato di illustrare, semplificandole quanto più ho potuto,23 le direzioni minimali di ogni atto linguistico drammatico. Ciò che mi interessa qui sottolineare è che, per evitare confusione, è fondamentale tenere sempre presente non solo la differenza fra linguaggio e metalinguaggio, ma anche
fra le diverse categorie logiche—il “livello dei mondi”—che il metalinguaggio
di volta in volta descrive. La prima cosa da notare è che “l’atto parassitico” cui
fa riferimento Austin è X’0Y’0, cioè “un atto fra attori” (e non X1Y1, che
22
A. SERPIERI, “Ipotesi teorica di segmentazione del testo teatrale”, p.105.
23
Per esempio, non ho tenuto conto di realizzazioni particolari come gli aside, o della bidirezionalità della comunicazione sull’asse esterno. Per un’analisi più dettagliata, vedi K.
ELAM, Semiotica del teatro, cap. 5.
74
rappresenta invece un “atto fra personaggi”), poiché è solo rispetto a W0 che noi
possiamo emettere un giudizio di “serietà”.24 L’anomalia dell’atto X’0Y’0 diventa esplicita considerando che il destinatario “autentico” non è Y’0, bensì P0,
come mette in evidenza la freccia tratteggiata lungo l’asse esterno. Questa anomalia, però, non è affatto presente nell’atto X1Y1, in quanto W1 è inconsapevole di W0. È dunque evidente che l’atto X1Y1 può essere analizzato come atto linguistico, e che i limiti di questa possibilità non dipendono da quanto è sincero, bensì da quanto è mimetico.
A questo proposito, ho anche cercato di evidenziare, in figura 2.1, quanto ho
scritto nella sezione precedente a proposito della mimesi di relazioni: la freccia
che porta da W0 a W1 rappresenta ciò che Eco chiama l’isomorfismo fra i due
mondi. Che cosa “trasporta” questa freccia? Ovviamente, non X1 o Y1, i quali,
essendo supranumerari, non esistono in W0 se non in quanto attori (X’0 o Y’0).
Ciò che viene trasportato—o meglio, trasposto—è anzitutto la relazione (in senso lato) fra loro, poiché è questa a definirli, e non viceversa. Ora, benché “X0” e
“Y0” possano non esistere (e di solito non esistono), la condizione necessaria affinché l’isomorfismo si realizzi è che in W0 esista R: è proprio dal grado di mimetismo di R che dipende la possibilità di analizzare l’atto X1Y1, e non solo
in quanto atto linguistico, ma anche in quanto comunicazione in genere. Ed è
precisamente di un particolare ambito di questa comunicazione interna a W1 e
mimetica di W0, la comunicazione intrafamiliare, che si occupa questa tesi.
Relazioni familiari in Shakespeare: un’indagine statistica
I drammi di Shakespeare traboccano di famiglie. Più precisamente, i personaggi dei 38 drammi intrattengono fra loro circa 500 relazioni familiari diadi-
24
La relatività delle affermazioni di Austin diventa palese se proviamo a immaginare un
dramma nel quale venga messa in scena la vita di un linguista, diciamo un certo Austin1, il
quale a un certo punto pronunci una battuta a proposito degli atti linguistici nelle opere
drammatiche (ovviamente, in un ipotetico W2…). In altre parole, il valore logico di concetti come “parassitismo” e “circostanze ordinarie” è sempre dipendente dal—e relativo al—
livello di mondo nel quale vengono pronunciati.
75
che:25 in media, più di una dozzina per ogni opera. L’unico dramma che non
mette in scena personaggi fra loro imparentati è The Life of Timon of Athens. In
tutti gli altri drammi, è presente almeno una relazione familiare. E, ciò che più
conta, il vincolo di parentela fra i personaggi ha quasi sempre una funzione fondamentale, al punto da condurre alcuni critici ad affermare che “Shakespeare’s
preoccupation with the family leads him to interweave the definition of theatrical space with the vicissitudes of family bonds.”26
Come valutare, con un minimo di oggettività, il grado di mimetismo di un
numero così ampio di famiglie? Ho ritenuto opportuno cominciare con una sorta
di “censimento”, un approccio di tipo statistico che, se da una parte ha
l’indubbio limite di offrire informazioni assai poco sofisticate, d’altra parte ha il
vantaggio di fornire una serie di dati numerici trasparenti—e, per quanto ne so,
in buona parte inediti. Nella parte restante di questo capitolo, presenterò la mia
lettura di questi dati. Essendo, comunque, tutti riportati in appendice, il mio
auspicio è che tali dati possano risultare utili anche, e soprattutto, a chi non
condividerà le mie interpretazioni.
Distribuzione per sessi delle dramatis personae
Se c’è un parametro che, tra l’epoca di Shakespeare e la nostra, non ha subito
rilevanti mutamenti, questo è la distribuzione fra sessi della popolazione.
L’incidenza delle morti premature per parto, a dire il vero, durante il Rinascimento era assai più rilevante di quanto non sia ora, ma era anche in parte bilanciata da una maggiore esposizione della popolazione maschile al rischio di morte accidentale (guerra, lavoro, viaggi). È quindi ragionevole supporre che la po-
25
Cfr. tabella C.1 in appendice. Per “relazione familiare diadica” intendo una relazione del
tipo xRy, in cui x e y siano due dramatis personae presenti all’interno di un dramma come
speakers (devono, cioè, pronunciare almeno una battuta nel corso del dramma) e R sia una
delle 36 relazioni diadiche elencate nella tabella C.1. Il numero totale delle relazioni riportate in tabella è 958. Poiché, però, ogni relazione di tipo xRy ne implica una reciproca di
tipo yRx (per esempio, “Ophelia è figlia di Polonius” implica che “Polonius è padre di
Ophelia”), il numero effettivo di relazioni familiari diadiche diventa la metà, cioè 489.
26
Murray M. Schwartz e Coppélia Kahn, “Introduction”, Representing Shakespeare, ***, p.
xv.
76
polazione fosse più o meno equamente
Figura 2.2 - Distribuzione per sesso
delle DD.PP. (vedi tabella B.3)
distribuita fra maschi e femmine.
Nei 38 drammi di Shakespeare, la
Males
87.66%
distribuzione delle DD.PP. per sesso è
invece
assolutamente
improbabile:
Females
12.34%
quasi nove personaggi su dieci sono
maschi (vedi figura 2.2, ottenuta dalla
tabella B.3).27 Da questo punto di vista, è perciò evidente che la “società shakespeareana” non è mimetica della società reale. Questo dato è ben noto, e ragioni
che lo giustifichino non mancano.28 Per prima cosa, ha a che vedere con il tema
Figura 2.3 - Distribuzione delle DD.PP. per sesso
e per genere (vedi tabella B.7)
delle opere: come si può infatti evincere dalla figura 2.3
(tratta dalla tabella B.7), il
Tragedies
Romances
disequilibrio fra donne e
Roman tragedies
uomini è notevolmente più
Histories
Dark comedies
marcato nei drammi tenden-
Comedies
0%
20%
40%
Females
60%
80%
100%
zialmente a carattere storicopolitico (in particolare, le hi-
Males
stories e le roman tragedies)
rispetto, per esempio, ai romances e alle commedie,29 dove l’influenza delle
strutture militari e di potere—rigidamente ancorate a un modello patriarcale e a
larghissima prevalenza maschile—è decisamente inferiore.
Una seconda ragione, indirettamente collegata alla prima, è dovuta invece alla necessità di ricorrere ad attori maschi anche per i ruoli femminili, necessità
che probabilmente tendeva a limitare la rappresentazione di personaggi femmi27
L’uso dei termini in inglese, in queste figure così come nelle tabelle in appendice, è dovuto al fatto che sono direttamente ottenute dall’output di un software (da me sviluppato)
con “classi” in inglese (questo per ridurre le “contaminazioni” culturali, quali per esempio
quella derivante dall’omonimia lessicale, in italiano, fra i concetti di nephew e grandson).
28
Vedi, per esempio, il saggio di M.B. ROSE, “Where are the Mothers in Shakespeare? Options for Gender Representation in the English Renaissance”.
29
Per la ripartizione dei drammi nei sei generi, ho adottato lo schema canonico riportato in
tabella A.1.
77
Figura 2.4 - Distribuzione per sesso
delle lines pronunciate (vedi tabella
B.4)
Males
82.10%
nili marginali. Una conferma di tale
ipotesi la si può ottenere confrontando
le percentuali riportate in figura 2.2
con quelle riportate in figura 2.4: come si può vedere, pur rappresentando
Females
17.90%
appena il 12% delle DD.PP., le donne
pronunciano quasi il 18% dei versi (o
delle linee di prosa, in base alla segmentazione dell’edizione Oxford). Potremmo dunque affermare che le poche figure femminili presenti sono frutto di una
sorta di selezione, e in particolare che sono in media un po’ più importanti
(sempre che “l’importanza” si possa misurare in versi: per esempio, si potrebbe
ipotizzare che siano semplicemente più prolisse, anche se ciò è facilmente falsificabile tramite un conteggio del numero di battute) delle numerosissime figure
maschili.
A questo proposito, per evitare di trascinarci appresso un grosso equivoco, è
meglio chiarire subito cosa si intende qui con “importanza media”, e quali sono
i limiti di un simile parametro. Se, per esempio, volessimo calcolare quanti versi
pronunciano in media i personaggi dei drammi, otterremmo un risultato in apparenza sorprendente: 72 per gli uomini, 111 per le donne. Vuole forse dire che, in
Shakespeare, le donne contano “una volta e mezzo” più degli uomini? Ovviamente no, come si può dedurre osservando una statistica classica come quella
riportata nella tabella B.1, dalla quale si evince facilmente che, tra i personaggi
che parlano di più, la prima donna (Rosalind) figura solo al quindicesimo posto.
Il dato indica, piuttosto, che i drammi di Shakespeare abbondano di uomini
“poco importanti” (i vari “messengers” e “servants”). È soltanto in questo senso
che le donne sono “in media un po’ più importanti”—o “più selezionate”—degli
uomini.
Quanto conta, la famiglia?
Fino a questo punto, ho preso in esame due variabili indipendenti soltanto: il
sesso e il genere drammatico. Per tentare di valutare l’importanza delle strutture
familiari, introdurrò ora una nuova variabile, e cioè il coinvolgimento o meno di
78
ogni DD.PP. in almeno una relazione fami-
Figura 2.5 - Quanti sono coinvolti in
relazioni familiari? (vedi tab. B.5)
liare diadica. Le relazioni diadiche che
prenderò in considerazione, qui e nel resto
DD. PP.
del capitolo, sono quelle elencate in tabella
Females
C.1. Si tratta 36 tipi di relazioni scelte con
Males
un criterio inevitabilmente rigido e arbitrario, ma spero anche sufficientemente am-
0%
pio, dettagliato e documentato da permette-
With Fam . Rels.
20% 40% 60% 80% 100%
Without Fam . Rels.
re a chiunque di apportarvi correzioni e
modifiche con relativa facilità.
Con l’introduzione di questa nuova variabile, il primo risultato che balza agli
occhi è quello riportato in figura 2.5: a fronte di appena 17 maschi su 100 coinvolti in relazioni familiari, le DD.PP. femminili che intrattengono almeno una
relazione familiare sono oltre la metà. L’interpretazione di questo dato è piuttosto semplice: le donne, in Shakespeare, al contrario di quanto avviene per gli
uomini, sono in primo luogo rappresentate per il ruolo da esse rivestito nel contesto familiare. Meno semplice, però, è coglierne le implicazioni. A prima vista,
infatti, è un dato che sembrerebbe non fare altro che confermare l’influenza della società patriarcale sulla popolazione dei drammi. In realtà, ritengo che il discorso sia un po’ più complesso.
Se, infatti, mettiamo a confronto la
figura 2.2 con la figura 2.6, ci accor-
Figura 2.6 - Distribuzione per sesso
delle DD.PP. coinvolte in almeno una
relazione familiare (vedi tabella B.5)
giamo che il disequilibrio nella rappresentazione dei sessi risulta assai
più attenuato quando si abbia a che fa-
Males
70%
re con le famiglie. Questo dato non è
Females
30%
in contraddizione con il precedente,
ma rende più esplicita la possibilità di
una seconda lettura: i drammi di Shakespeare, cioè, sono sì influenzati da una
società a organizzazione patriarcale, ma la rappresentazione che essi offrono
della famiglia permette di dare all’universo femminile una visibilità superiore di
quanto non permetta la rappresentazione che essi offrono del resto della società.
79
Detto altrimenti, all’interno dei drammi
Figura 2.7 - Quanto parla chi è
coinvolto in relazioni familiari?
(vedi tab. B.5 e tab. B.6)
di Shakespeare, la rappresentazione della famiglia è demograficamente più mimetica di quanto non lo sia la rappresen-
DD. PP.
tazione della società in generale.
Females
Questa considerazione non è in sé
Males
particolarmente rilevante e si presta a
0%
numerose obiezioni: esistono, infatti, in-
20%
With Fam. Rels.
40%
60%
80% 100%
Without Fam. Rels.
finiti altri sottoinsiemi, oltre alla famiglia, per i quali il grado di mimetismo—quale che sia il parametro che si adotti
per quantificarlo—è più elevato rispetto alla classe di tutti gli insiemi. Si pensi,
per esempio, al sottosistema “politico”, per il quale, considerando il periodo elisabettiano, l’assenza di donne è in se stessa un tratto mimetico. Ma ciò che a
mio parere la rende degna di nota è che appartenere o meno a una famiglia è, in
Shakespeare, un criterio sovradeterminante. Per rendercene conto, è sufficiente
confrontare la figura 2.5 con la figura 2.7: quel 17% di maschi e quel 50% di
femmine che sono coinvolti in relazioni familiari pronunciano, rispettivamente,
quasi il 50% e oltre l’80% dei versi! Si tratta di un dato secondo me fondamentale, poiché indica che le DD.PP. meno importanti sono prevalentemente quelle
situate al di fuori della famiglia. In altre parole, nei drammi di Shakespeare la
struttura famiglia ha un ruolo centrale, in quanto esiste una correlazione manifesta fra l’intrattenere una relazione familiare e il “peso” che i personaggi hanno
sulla scena.
A questo punto, è interesFigura 2.8 - Distribuzione dei versi per genere e
per appartenenza a relaz. familiari (vedi tab. B.7)
sante cercare di capire in cosa consista questa correla-
Tragedies
zione. Se fosse dovuta a ra-
Romances
Roman tragedies
gioni meramente pragmati-
Histories
Dark comedies
che—per
Comedies
0%
20%
40%
With Fam. Rels
60%
80%
100%
Without Fam. Rels.
esempio,
l’economicità delle relazioni
familiari, alla quale ho accennato nelle sezioni prece-
80
denti—dovrebbe presentarsi in modo più o meno uniforme in tutti i sottogeneri,
in quanto la divisione per sottogeneri è anzitutto tematica. Se, invece, intervengono anche ragioni semantiche, come pare ragionevole supporre, dovrebbe essere possibile osservare una disomogeneità nella distribuzione per sottogeneri.
Il grafico di figura 2.8 riporta la distribuzione delle linee pronunciate in base
al genere del dramma e all’appartenenza o meno di ogni D.P. a una o più relazioni familiari. La disomogeneità è evidente, e tutt’altro che scontata: se è abbastanza ovvio attendersi percentuali più basse per quanto riguarda histories e
Roman tragedies, infatti, potrebbe lasciare piuttosto perplessi il valore relativamente ridotto che presentano le commedie, e in particolare le dark comedies. A
ben pensarci, però, non c’è ragione di sorprendersi: le dark comedies si caratterizzano soprattutto per la rappresentazione di conflitti sociali, più che di conflitti familiari. Comunque sia, mi pare numericamente evidente che nei romances e,
soprattutto, nelle tragedie (dove oltre tre versi su quattro sono pronunciati da
DD.PP. appartenenti a una relazione familiare) la famiglia riveste una funzione
fondamentale. Questa non uniformità tra sottogeneri ci consente dunque di supporre che la famiglia sia importante non solo dal punto di vista strutturale, ma
anche da quello semantico, e che costituisca perciò un tema privilegiato.
Prima di continuare, è forse opportuna una precisazione rispetto a quanto
detto fino ad ora: la significatività di questi dati non è dovuta tanto a cosa indicano, quanto a come sono stati ottenuti. Infatti, chiunque abbia visto o letto almeno due o tre opere di Shakespeare sa benissimo che la famiglia riveste in esse
un ruolo centrale, e non c’è certo bisogno che intervenga io ad affermarlo… Ciò
che mi pare interessante è che tale impressione sembra essere confermata da
un’indagine puramente pragmatica, un’indagine che non richiede in input informazioni semantiche e che, potendo essere svolta in modo completamente automatico, è stata eseguita con relativa rapidità sull’intero corpus. Questo implica, tra l’altro, che sarebbe assai semplice riprodurla su altri corpus drammatici.
Ma ciò, ovviamente, esula dagli scopi di questa tesi.
81
Chi conta, in famiglia?
Nelle pagine precedenti, ho indicato come un possibile indicatore di mimetismo della famiglia la distribuzione dei sessi al suo interno. È un indicatore molto oggettivo, ma anche assai povero: se, per esempio, venisse adottato come unico criterio per analizzare uno strano corpus di drammi nei quali entrino in
scena soltanto mariti e mogli, o soltanto cugine e cugini, darebbe come risultato
distribuzioni perfettamente equilibrate, ma ovviamente non si potrebbe dire che
le strutture familiari rappresentate siano una buona mimesi delle strutture familiari reali.
Il fatto è che le relazioni familiari non costituiscono semplicemente un reticolo relazionale uniforme, bensì sono soggette a rapporti di tipo gerarchico. Esistono, cioè, relazioni diadiche primarie, secondarie, terziarie, ecc. Questo perché esse sono definite in base a un sistema di coordinate intrinsecamente egocentrico, l’io-qui-ora in relazione al quale assumono significato concetti come
quello di “madre”, “figlio”, “cognata”, ecc (vedi figura C.1). In altre parole, se
Figura 2.9 - Distribuzione dei ruoli familiari nei drammi (vedi tabella C.3)
90
80
70
60
50
40
30
20
10
Mothers
Fathers
Daughters
Sons
Grandmothers
Grandfathers
Granddaughters
Grandsons
Sisters
Brothers
Wives
Husbands
Aunts
Uncles
Nieces
Nephews
Sisters-in-law
Brothers-in-law
Mothers-in-law
Fathers-in-law
Daughters-in-law
Sons-in-law
Stepmothers
Stepfathers
Stepdaughters
Stepsons
Stepsisters
Stepbrothers
Aunts-in-law
Uncles-in-law
Nieces-in-law
Nephews-in-law
Illegitimate daughters
Illegitimate sons
Cousins
Lovers
0
82
si verificasse che il corpus shakespeareano mette in scena più relazioni diadiche
fra zie acquisite e nipoti acquisiti che non fra madri e figli, l’ipotesi mimetica
verrebbe in parte invalidata.
La figura 2.9 rappresenta la distribuzione dei ruoli familiari fra le DD.PP.
shakespeareane (per il significato del termine “ruolo” rispetto a “relazione diadica”, vedi nota alla tabella C.3, in appendice). L’aspetto che più salta agli occhi è—con la sola eccezione delle mogli30—la disparità fra i sessi (della quale si
è già discusso nelle sezioni precedenti), che genera risultati in apparenza anomali, come per esempio l’alto numero di zii e cognati rispetti a quello di madri,
figlie e sorelle. Una volta tenuto conto di questa disparità, però, si evidenziano
nettamente alcune tipologie relazionali predominanti, e in particolare il gruppo
delle relazioni verticali primarie madre/padre e figlia/figlio, e quello delle relazioni orizzontali primarie sorella/fratello e moglie/marito. Questa disomogeneità è dunque in accordo con la struttura gerarchica della quale si parlava prima,
ed indica che le relazioni primarie sono meglio rappresentate di quelle non primarie. La figura 2.9 mostra inoltre, com’era logico attendersi in base a quanto si
è detto nel primo capitolo sulla durata media della vita, la bassa incidenza delle
relazioni fra nonni e nipoti: un’ulteriore conferma dell’ipotesi mimetica.
Concentrandoci ora sulle sole relazioni primarie (figura 2.10), può essere interessante osservare la loro importanza in termini di versi pronunciati (figura
2.11). Ovviamente, il grafico tende un poco ad appiattirsi (vedi quanto si è detto
prima circa la cautela da adottare nelle medie su singoli personaggi) ma, considerando l’elevato numero di DD.PP. coinvolte, il risultato rimane comunque significativo: in particolare, i mariti sembrano nettamente dominare, le figlie balzano al terzo posto (quindi, assai più “loquaci” dei figli) e fra sorelle e fratelli si
ricrea un notevole equilibrio. La situazione illustrata in figura 2.11 mi pare, in
30
Le relazioni diadiche “x è marito di y” e “y è moglie di x” sono sessualmente simmetriche
(diversamente da tutte le altre—per esempio, da quella “x è padre di y”, nella quale y può
essere sia maschio che femmina), ed è quindi inevitabile che i ruoli da esse derivanti siano
sessualmente meglio distribuiti. La lieve discrepanza fra il numero dei mariti e quello delle mogli dipende dal fatto che una moglie può aver avuto più mariti, e viceversa. In particolare, l’unico marito risposato è Henry VIII, mentre le mogli risposate sono due (Lady
Anne e Queen Gertrude), quindi le mogli risultano meno numerose dei mariti.
83
Figura 2.11 - Media dei versi (o linee)
per ogni D.P. avente un ruolo primario
Figura 2.10 - I ruoli famigliari primari
0
20
40
60
0
80
100
200
300
400
Husbands
Brothers
Sons
Fathers
Husbands
Daughters
Wives
Sisters
Fathers
Brothers
Daughters
Wives
Mothers
Sons
Sisters
Mothers
questo senso, fornire una fotografia abbastanza adeguata di quello che potremmo chiamare il “nucleo familiare shakespeareano medio”.
Rimane comunque da prendere in considerazione l’anomalia relativa
all’elevato numero di zii e di cognati: anche tenendo conto della disparità fra
sessi, come è possibile che siano così generosamente rappresentate due tipologie di relazione che primarie non sono? È un dato che, se non adeguatamente
spiegato, potrebbe minare la validità dell’ipotesi mimetica. Suggerisco perciò di
considerare la distribuzione dei ruoli familiari—limitandoci, per comodità, solo
ai primi 22 (per una rappresentazione completa, vedi tabella C.3 in appendice)— all’interno dei sottogeneri. Come si può osservare, le distribuzioni sono
tutt’altro che uniformi. Suddividendo le diverse tipologie in quattro categorie—
a) relazioni verticali primarie (genitori-figli); b) relazioni verticali secondarie
(nonni-nipoti); c) relazioni orizzontali primarie (coniugi e fratelli); d) altre relazioni—diventano evidenti alcune disomogeneità dipendenti dal sottogenere:
1. nonni e nipoti sono totalmente assenti nelle commedie e nelle tragedie;
2. nelle commedie, le madri sono quasi totalmente assenti;
3. la relativa prevalenza delle “altre relazioni” (categoria d), e in particolare
“zio” e “cognato”, non si verifica né nelle commedie né nelle tragedie;
4. histories e Roman tragedies presentano un pattern praticamente identico
(vedi, per esempio, l’incidenza degli “zii”);
5. i picchi relativi a figli (maschi), fratelli e cognati sono limitati alle dark
comedies, alle histories, alle Roman tragedies e, in misura minore, ai romances.
84
Mothers
Fathers
Daughters
Sons
Grandmothers
Grandfathers
Granddaughters
Grandsons
Sisters
Brothers
Wives
Husbands
Aunts
Uncles
Nieces
Nephews
Sisters-in-law
Brothers-in-law
Mothers-in-law
Fathers-in-law
Daughters-inSons-in-law
Mothers
Fathers
Daughters
Sons
Grandmothers
Grandfathers
Granddaughters
Grandsons
Sisters
Brothers
Wives
Husbands
Aunts
Uncles
Nieces
Nephews
Sisters-in-law
Brothers-in-law
Mothers-in-law
Fathers-in-law
Daughters-inSons-in-law
Mothers
Fathers
Daughters
Sons
Grandmothers
Grandfathers
Granddaughters
Grandsons
Sisters
Brothers
Wives
Husbands
Aunts
Uncles
Nieces
Nephews
Sisters-in-law
Brothers-in-law
Mothers-in-law
Fathers-in-law
Daughters-inSons-in-law
Mothers
Fathers
Daughters
Sons
Grandmothers
Grandfathers
Granddaughters
Grandsons
Sisters
Brothers
Wives
Husbands
Aunts
Uncles
Nieces
Nephews
Sisters-in-law
Brothers-in-law
Mothers-in-law
Fathers-in-law
Daughters-inSons-in-law
Figura 2.12c -Histories
Figura 2.12d - Roman tragedies
Mothers
Fathers
Daughters
Sons
Grandmothers
Grandfathers
Granddaughters
Grandsons
Sisters
Brothers
Wives
Husbands
Aunts
Uncles
Nieces
Nephews
Sisters-in-law
Brothers-in-law
Mothers-in-law
Fathers-in-law
Daughters-inSons-in-law
Mothers
Fathers
Daughters
Sons
Grandmothers
Grandfathers
Granddaughters
Grandsons
Sisters
Brothers
Wives
Husbands
Aunts
Uncles
Nieces
Nephews
Sisters-in-law
Brothers-in-law
Mothers-in-law
Fathers-in-law
Daughters-inSons-in-law
Figura 2.12a - Comedies
Figura 2.12b - Dark comedies
Figura 2.12e - Romances
Figura 2.12f - Tragedies
Solo un’analisi sui singoli drammi permette di dare ragione di questi tratti:
per esempio, i sei cognati (un numero relativamente elevato) che compaiono
85
nelle dark comedies sono tutti dovuti a Troilus and Cressida, e in particolare al
matrimonio fra Hector e Andromache, e dunque non si tratta di una distribuzione tipica delle dark comedies in generale. Con la dovuta cautela, comunque, una
lettura complessiva è possibile, e sembra suggerire che la distribuzione dei ruoli
familiari fra DD.PP. sia dettata per alcuni sottogeneri—in particolare, le histories e le Roman tragedies—dall’esigenza di fedeltà al mito o alla storia, per altri—in particolare, le tragedie—da esigenze più strettamente drammatiche. Ancora, è interessante notare come queste due tipologie di distribuzione riflettano
la differenza postulata da Stone (vedi capitolo 1) fra famiglie a lignaggio aperto
e famiglie nucleari.
Riassumendo, penso si possa affermare che le tragedie e—numero di madri a
parte31—le commedie tendano ad offrire una rappresentazione della “struttura
familiare rinascimentale media” (vedi, per esempio, quanto si è detto, nel primo
capitolo, a proposito del numero dei figli e delle famiglie estese) più mimetica
rispetto a quella che presentano sottogeneri come le histories e le Roman tragedies, Sarà dunque prevalentemente su tragedie e commedie che converrà concentrare i primi passi del tipo di analisi che propongo.
I rapporti familiari che contano
Un ulteriore indicatore di mimesi, più raffinato dei precedenti ma anche più
complesso da ottenere, è quello relativo alla “intensità” delle relazioni. Indipendentemente dalla distribuzione dei ruoli familiari e dal numero di versi o linee
pronunciati da ogni personaggio, infatti, è ragionevole supporre che, se c’è mimesi relazionale, le sequenze di battute che si scambiano DD.PP. legate fra loro
da relazioni primarie siano preponderanti rispetto a quelle che intercorrono fra
DD.PP. legate fra loro da relazioni più marginali. Prendendo a prestito un ter31
Per una teoria di orientamento psicoanalitico che spieghi la relativa assenza di madri nelle
commedie, vedi J. ADELMAN, Suffocating Mothers, p. 13: “Maternal absence is as striking
in [the romantic] comedies as in the [Lancastrian] tetralogy. And if, in the histories, this
absence functions to enable the son’s assumption of his father’s identity, here it function
to protect comic possibility itself by sustaining the illusion that the endlessly appealing
girls of the comedies will never become fully sexual women and hence will never lose
their androgynous charm: having no mothers, they need not become mothers”.
86
mine classico della terapia della famiglia, enmeshment, ho dunque cercato di
stabilire quali sono le 15 relazioni a più elevato grado di “invischiamento” nel
corpus shakespeareano.
Il presupposto, ovviamente, è che nella vita familiare di tutti i giorni si stabiliscano più frequentemente scambi comunicativi fra moglie e marito, o fra madre e figlio, di quanto non accada, per esempio, fra zie e nipoti. Poiché l’unico
parametro pragmatico che avevo a disposizione per misurare la “frequenza e
l’intensità degli scambi comunicativi” è il numero di battute “a distanza zero”
(D0_PAIRS)—cioè consecutive—fra due DD.PP., quella che ho condotto è una
tipica analisi conversazionale. Naturalmente, ho limitato l’indagine alle coppie
di DD.PP. legate fra loro da almeno un tipo di relazione familiare (non figura,
per esempio, la relazione fra Othello e Iago).
Pur trattandosi di un’indagine meramente pragmatica, è piuttosto complessa
da condurre, poiché richiede di conoscere, per ogni battuta, non solo l’identità
dello speaker, che è esplicitata nel testo, ma anche quella del listener, che invece è implicita (e a volte difficile da assegnare perfino ricorrendo a un’analisi
semantica). Il procedimento che ho seguito è dunque inevitabilmente euristico:
avvalendomi di una classica regola sul turn-taking,32 ho ipotizzato che, in una
sequenza di battute di tipo A0B0A1B1A2B2 … AN-1BN-1ANBN, le battute A1…AN siano rivolte a B, e quelle B0…BN-1 siano rivolte ad A.33 In questo modo,
l’incidenza degli errori nell’identificazione del listener dovrebbe essere fortemente ridotta, soprattutto considerando che l’indagine è condotta su un corpus
di oltre 100.000 linee.
Il risultato, riportato in tabella C.6 (e riprodotto nella tabella 2.1, in forma
semplificata, per facilitarne la consultazione; le relazioni non primarie sono e-
32
Vedi V. Hermann, Dramatic Discourse, pp. 80-81: “[The turn-taking mechanism must be
abstract enough to be context-free […]. Rule 1a: if C select N in current turn, then C must
stop speaking, and N must speak next, transition occurring at the first TRP [transition relevant place] after N-selection.” Partendo da questa regola, mi sono limitato a supporre
che ci viene “selezionato”, dovendo riconoscere la selezione, sia anche un listener (in senso lato: può anche essere selezionato in modo non verbale).
33
Per una spiegazione più dettagliata, nonché corredata da un esempio del tipo di errori ai
quali questa ipotesi può dare luogo, vedi il commento alla tabella C.6 in appendice.
87
videnziate dallo sfondo grigio), è al tempo stesso sorprendente e incoraggiante.
Cominciamo dagli aspetti sorprendenti: al secondo posto, troviamo la relazione
fra Richard ed Elizabeth in Richard III, e cioè una relazione cognata-cognato!
Play Relation
DP_A
Tabella 2.1
DP_B
OTHELLO
D0 PAIRS N_SEQUENCES
Oth
Wife
DESDEMONA
88
18
R3
Sister-in-law
QUEEN ELIZABETH KING RICHARD
83
1
Mac
Wife
LADY MACBETH
MACBETH
81
11
Tit
Brother
MARCUS
TITUS
73
27
Tmp
Father
PROSPERO
MIRANDA
66
12
Tro
Uncle
PANDARUS
CRESSIDA
66
16
Ham
Mother
QUEEN GERTRUDE
HAMLET
64
14
LrF
Father
GLOUCESTER
EDGAR
63
10
Rom
Cousin
BENVOLIO
ROMEO
57
12
AYL
Cousin
CELIA
ROSALIND
53
25
Ham
Uncle
KING CLAUDIUS
HAMLET
53
19
Shr
Wife
KATHERINE
PETRUCCIO
53
20
Oth
Wife
EMILIA
IAGO
52
18
Ant
Brother-in-law ANTONY
CAESAR
51
16
LrF
Father
EDMOND
49
8
GLOUCESTER
Osservando attentamente la tabella (colonna N_SEQUENCES), si può però
notare che il conteggio di battute fra Richard e Queen Elizabeth è anomalo anche per un altro aspetto: è relativo a un’unica sequenza. Si tratta della lunghissima sequenza, chiusa dal noto verso “Relenting fool, and shallow, changing
woman” (IV.iv.362), nella quale Richard chiede la mano della nipote. Con i
suoi versi altamente stilizzati, caratterizzati dal frequente ricorso alla stichomythia, è una sequenza nella quale il virtuosismo verbale sembra prevalere su ogni altro scopo. In ogni caso, considerando anche l’argomento affrontato, non è
certo un dialogo che potremmo definire mimetico.
Quanto alle altre cinque relazioni non primarie presenti in tabella, hanno tutte in comune il fatto che alla relazione familiare “ufficiale” se ne sovrappone
un’altra almeno altrettanto intensa: Pandarus, per Cressida, è anzitutto
l’intermediario morboso; nel caso di Romeo e Benvolio, come in quello di Rosalind e Celia, l’intenso legame di amicizia prevale su quello di parentela; Antony e Caesar, prima di diventare cognati, sono due dei tre triumviri di Roma; il
88
legame incestuoso di Claudius con Gertrude, infine, rende la relazione zionipote con Hamlet pressoché equivalente a un rapporto primario.
In ogni caso, è importante osservare che ben 9 relazioni su 15 sono primarie.
Ed è significativo anche il fatto che quelle appartenenti alle tragedie siano oltre
la metà (8 su 15). Ciò che più mi pare incoraggiante come indicatore
dell’importanza della famiglia in Shakespeare, comunque, è un altro aspetto:
anche considerando soltanto il gruppo delle prime otto relazioni, tutte le “great
tragedies” vi si trovano rappresentate, e vi si ritrovano rappresentate da quattro
coppie che potremmo tranquillamente definire “canoniche”: Desdemona e Othello, Macbeth e Lady Macbeth, Gertrude e Hamlet, Gloucester ed Edgar (per
non parlare di Prospero e Miranda). In un certo senso, questo è un risultato
scontato. Ma è proprio il suo “essere scontato” a fornire la conferma principale
al principio mimetico che si voleva investigare: è un risultato che consideriamo
scontato perché ci pare “naturale” che le relazioni più intense (anche verbalmente)—quelle in grado di sostenere l’impianto drammatico di una “great tragedy”—siano, nel mondo della “realtà” come in quello della finzione, le relazioni
familiari primarie. Il fatto che “metodi” incommensurabili, come possono essere
le considerazioni su basi estetico-psicologiche di A.C. Bradley—tanto per fare
un esempio classico—e un’analisi intrinsecamente povera e meramente pragmatica come quella qui proposta, sembrino convergere nell’identificazione del
campione delle opere in qualche modo più significative è a mio parere reso possibile proprio dalla presenza, nei drammi citati, di un elevato livello di mimesi
delle relazioni familiari.
Le parole della famiglia
La peculiarità a mio avviso più rilevante del metodo di indagine numerica
che ho adottato è che, diversamente dalle statistiche tradizionali, assume come
oggetto di studio privilegiato non gli individui ma le relazioni. Sul piano conversazionale, questo si traduce in un allargamento della focalizzazione:
dall’enunciazione al dialogo, dalla battuta alla sequenza di battute. Ciò comporta la possibilità di analizzare un numero di parametri più ampio. A differenza
della singola battuta, per esempio, una battuta considerata nel suo contesto dia89
logico può essere di apertura, intermedia o di chiusura: nella sequenza ipotetica
che consideravamo prima, A0B0A1B1A2B2 … AN-1BN-1ANBN, la battuta di apertura
è A0, quella di chiusura è BN, tutte le altre sono battute intermedie.
Associando a questa tripartizione l’analisi delle relazioni familiari, si apre la
possibilità di cercare una correlazione fra dinamiche relazionali e dinamiche
conversazionali. Per esempio, diventa teoricamente realizzabile uno studio statistico che permetta di individuare, all’interno di una relazione padre-figlio, chi
dei due mostra maggiore propensione ad avviare un dialogo, e chi a terminarlo.
Premetto che, se condotta esclusivamente sull’alternanza delle battute, è un tipo di ricerca quanto mai soggetto ad errori, poiché è pressoché impossibile stabilire se una battuta non intermedia apre una nuova sequenza, ne chiude una
precedente, svolge entrambe le funzioni o, infine, non ne svolge nessuna delle
due. Considerando, però, il numero consistente di dati disponibili, penso possa
valere comunque la pena di dare un’occhiata, pur con tutta la cautela del caso,
ai risultati che si prospetterebbero.
Osservando le colonne DA_OPENS (numero di sequenze fra A e B inaugurate da una battuta di A) e DA_CLOSES (numero di sequenze terminate da una
battuta di A) della tabella C.6, relativa alle 15 relazioni familiari conversazionalmente più invischiate, possiamo distinguere due casi. Il caso simmetrico,
quello cioè in cui il numero di aperture e di chiusure di A è l’opposto di quello
di B (per esempio, Emilia e Iago, o Pandarus e Cressida), è quello che potremmo chiamare del “botta e risposta”, dettato probabilmente più da esigenze di
ritmo drammatico che dalla qualità della relazione fra A e B. Il caso asimmetrico, quando cioè le aperture sono distribuite più o meno equamente mentre c’è
una disparità evidente nella distribuzione delle chiusure, evidenzia invece chi
tende a sentirsi in diritto di avere l’ultima parola: in altre parole, i cosiddetti
one-ups (per esempio, Prospero, Hamlet e Petruccio—guarda caso tutti maschi). A questo proposito, è interessante osservare come anche Macbeth, da tale
interpretazione, risulterebbe essere tutt’altro che succube della moglie, ed è una
lettura che proverò ad illustrare in modo particolareggiato nel quinto capitolo.
L’analisi relazionale permette però anche qualcosa di assai più insolito e interessante: tentare una classifica delle parole più ricorrenti tra ruoli familiari. Si
90
tratta, in questo caso, di un’indagine al confine fra tratti pragmatici e tratti semantici, ed è quindi particolarmente utile per stabilire la qualità mimetica dei
drammi. Le tabelle C.5.1-17 riportano la top ten delle parole più frequenti per le
relazioni diadiche più significative. L’ordine in cui le parole sono elencate si
basa sulla loro frequenza all’interno delle battute intermedie, in quanto sicuramente le più affidabili per le ragioni discusse prima, ma è riportato anche il conteggio relativo a battute di apertura e chiusura.
Il primo dato che salta agli occhi è che, per tutte le relazioni, ai primi posti
troviamo pronomi personali di seconda persona. Questo risultato è fortemente
condizionato dall’algoritmo di estrazione delle parole: ho infatti ritenuto opportuno non tenere conto delle cosiddette stopwords, cioè di quelle classi di parole—avverbi, congiunzioni, preposizioni, pronomi, verbi modali, aggettivi dimostrativi, numerali e possessivi, nomi propri e interiezioni—che hanno funzione
prevalentemente grammaticale, ma ho deliberatamente escluso da questa lista i
pronomi di seconda persona, in quanto estremamente indicativi delle dinamiche
relazionali. Il fatto che si presentino in cima a tutti i conteggi, comunque, è un
sintomo evidente di quanto scrive Serpieri circa la prevalenza della funzione
deittica—relativa all’io-qui-ora del parlante—come specificità del genere
drammatico: “Ora, a teatro, dove tutti i personaggi sono io e tu, […] gli indicatori linguistici o paralinguistici […] o gestuali […] si moltiplicano a tal punto
da costituire lo specifico della lingua teatrale che sottende tutte le varie convenzioni storiche di linguaggi per la scena.”34
Ma quali pronomi di seconda persona si presentano con maggior frequenza?
Rispondere a questa domanda è assolutamente fondamentale per capire se, ad
esempio, la mimesi relazionale rispecchia le consuetudini di cui si è scritto nel
primo capitolo a proposito dell’educazione dei figli: poiché la scelta fra you e
thou, durante il Rinascimento, era anzitutto determinata da considerazioni inerenti la gerarchia sociale e il rispetto (pur con qualche rilevante eccezione),35 in
34
A. SERPIERI, “Ipotesi teorica di segmentazione del testo teatrale”, pp. 102-103.
35
Vedi J. MULHOLLAND, “‘Thou’ and ‘You’ in Shakespeare: a study in the second person
pronoun”.
91
un contesto mimetico sarebbe logico attendersi una disomogeneità nell’uso del
pronome di seconda persona fra genitori e figli. Osservando le tabelle C.5.1-4
possiamo notare che questa ipotesi è ampiamente soddisfatta: quando il parlante
è una madre o un padre tendono a dominare le forme th-, e viceversa quando a
parlare è un figlio o una figlia. Nelle relazioni orizzontali primarie, invece (tabelle C.5.5-8), si rileva una prevalenza indifferenziata per la forma you, che però è sensibilmente attenuata nel caso dei parlanti maschi (mariti e fratelli), visto
che nel loro caso, al contrario di quanto avviene per mogli e sorelle, al secondo
posto incontriamo una forma th-.
Ovviamente, come più volte ripetuto, occorre considerare questi dati con
molta cautela e tentare di sottoporli a qualche forma di verifica, in quanto
l’identità del listener è ottenuta euristicamente. A questo riguardo, una prima
valutazione—benché solo qualitativa—dell’affidabilità del metodo da me adottato per individuare il listener è indirettamente offerta proprio dai conteggi delle
parole. In quasi tutte le tabelle, infatti, la prima parola relativa a un legame di
parentela è esattamente la parola che indica la relazione complementare: “son”
quando a parlare è una madre (tabella C.5.1); “father” e “mother” quando parla
una figlia o un figlio (C.5.3-4); “sister” e “brother” tra sorelle, fratelli e fratellastri (C.5.5-6 e C.5.15); “uncle” se i parlanti sono nipoti (C.5.11-12); e “cousin”
nel caso di cugini (C.5.16). Ci sono però tre eccezioni notevoli, il “cousin” usato dagli zii e il “daughter” usato da suoceri e cognati, sulle quali occorre soffermarsi in dettaglio, poiché ognuna di esse ha una spiegazione diversa. Il frequente uso di “cousin” da parte di zii (C.5.9) che parlano ai nipoti o alle nipoti
(ma anche in numerose altre relazioni non primarie) è conseguenza della polisemia della parola “cousin” in epoca rinascimentale.36 Ecco, per esempio, come
Pandarus si rivolge alla nipote Cressida: “Well, cousin, I told you a thing yesterday. Think on 't." (Tro, I.ii.166). Più complesso è giustificare le sei occorrenze di “daughter” in bocca a un cognato (C.5.14). In effetti, non ha alcuna spie36
A tal proposito, è bene chiarire che nell’ambito di questa tesi la polisemia di “cousin” è
confinata ai testi, e naturalmente non si estende alla mia analisi: i personaggi che ho elencato nelle tabelle come “cugini” (vedi, per esempio, la tabella C.2.34) sono intesi come
cugini in senso restrittivo, cioè come figli (o figlie) di fratelli (o sorelle).
92
gazione che abbia validità generale, e lo si può comprendere solo andando a
controllare quando si verifica: tutti e sei i casi si presentano nell’interminabile
sequenza fra Richard e Queen Elizabeth, della quale abbiamo già scritto e che si
conferma dunque come una singolarità (se non un vero e proprio “mostro” di
virtuosismo e convenzionalità—un incubo, almeno per questa mia tesi…). Ancora diverso, infine, è il caso dell’elevata ricorrenza di “daughter” nelle battute
pronunciate dai suoceri, dovuto principalmente al fatto che la relazione complementare di “father-in-law”—a differenza delle relazioni complementari di
tutte le parentele fino ad ora considerate (con l’esclusione di “brother-inlaw”)—non è realisticamente utilizzabile per indicare l’interlocutore. Detto altrimenti, se è accettabile che un figlio si rivolga al padre chiamandolo “father”,
è alquanto anomalo che un suocero si rivolga al genero chiamandolo “son-inlaw”.37 Ecco, così, che a balzare al primo posto tra i termini che indicano una relazione di parentela non è una parola che serve a identificare l’interlocutore
bensì una parola riferita all’argomento. Trattandosi qui perlopiù di padri che
parlano con il genero, conoscendo la peculiare relazione che i padri shakespeareani tendono a stabilire con le figlie (vedi capitolo 4) non c’è dunque da stupirsi che l’argomento privilegiato sia proprio la figlia...
Quanto si è appena detto circa l’accettabilità dell’uso ricorrente di termini
che identifichino l’interlocutore ci offre l’occasione per un’ulteriore interpretazione di questi dati. Se considerassimo come termine di paragone della qualità
mimetica le relazioni familiari odierne, infatti, le parole che si riferiscono alla
parentela complementare dovrebbe essere, per molte categorie di relazioni,
pressoché assenti, perlomeno nella loro forma non colloquiale: chi mai, al giorno d’oggi, si rivolgerebbe alla figlia chiamandola “figlia”? O al cugino chiamandolo “cugino”? La loro presenza nei drammi è in parte dovuta alla differenza di consuetudini fra l’epoca presente e quella rinascimentale, ma il fatto che si
presentino con una frequenza così alta è certamente dovuto anche a un’altra ragione: la necessità di individuare l’interlocutore sull’asse esterno, cioè di per-
37
Ciò non si applica, invece, al caso delle suocere. In Cor. I.iii.1, per esempio, Volumnia si
rivolge a Virgilia dicendole: “I pray you, daughter, sing…”.
93
mettere al pubblico di identificarlo. Questa considerazione depone ovviamente
contro la qualità mimetica degli scambi conversazionali fra DD.PP. Al tempo
stesso, però, se tale considerazione è fondata ne deriva la conferma che le relazioni familiari sono, anche statisticamente, le principali proprietà S-necessarie
adottate nei drammi per garantire al pubblico l’accesso al mondo della finzione.
Oltre ai pronomi di seconda persona e ai legami di parentela, poi, fanno la
loro comparsa altre parole alle quali ritengo valga la pena accennare, per poi
magari tentare di avanzare qualche ipotesi. Un chiaro sintomo della differenza
fra la modalità affettiva del rapporto madre/figlio e di quello padre/figlio, per
esempio, mi pare essere offerto dall’opposizione fra “son” (usato dalle madri) e
“man” (usato dai padri). Un discorso analogo si potrebbe fare circa l’uso di “sir”
e “lord” da parte delle figlie rispetto a “father” (che è prevalente nei discorsi dei
figli maschi), o sulla frequenza di “lord” nella tabella relativa alle mogli.
L’impiego di “love”, invece, mi pare troppo indifferenziato per poterne trarre
qualche ipotesi.
Un’altra classe di parole potenzialmente degna di interesse pare infine essere
quella dei verbi dichiarativi, come “speak” (per le madri), “know” (per padri, figlie e mogli), “see” (per i fratelli) e “say” (per i mariti), ma nel loro caso il numero di occorrenze inizia ad essere pericolosamente basso, vicino cioè alla soglia oltre la quale le caratteristiche individuali dei personaggi prevalgono su
quelle del ruolo familiare, quindi la prudenza mi induce a rimandare
un’eventuale analisi della loro distribuzione alle letture dei singoli drammi.
Un tentativo fallito: i go-betweens
L’ultima tappa della mia indagine numerica sui drammi è stata il tentativo di
passare dall’analisi di relazioni diadiche all’analisi di relazioni triadiche.
L’importanza teorica di questa estensione è notevole, in quanto tutta la terapia
della famiglia—come del resto la psicoanalisi, benché su presupposti diversi—
si basa sul concetto di triangolazione: come recita uno fra i pochi “assiomi” della famiglia, infatti, quando fra due persone le cose non vanno bene si finisce inevitabilmente per coinvolgerne una terza. D’altro canto, trovare una rappresentazione formale, e adatta a un approccio statistico, per le relazioni triadiche è ri94
sultato assai più complesso che per quelle diadiche: anzitutto, le tipologie crescono in modo fattoriale; secondo, se anche si riuscissero a descrivere formalmente tutte le tipologie, la frammentazione dei dati diventerebbe talmente
elevata da rendere rischioso qualunque tentativo di generalizzazione; terzo, la
probabilità di errori nel metodo euristico di analisi conversazionale diventerebbe assai elevata, poiché se già è difficile determinare il candidato più probabile
al ruolo di listener in una sequenza diadica, determinare con sufficiente
approssimazione l’identità di tre interlocutori senza ricorrere ad analisi
semantiche è estremamente complicato, se non impossibile.
Mi sono dunque fermato a uno stadio che potremmo definire “intermedio”
fra analisi diadica e analisi triadica, e cioè alla produzione di una tabella delle
relazioni “più mediate” (vedi tabella C.7). In questa tabella, sono elencate le relazioni diadiche ordinate in modo decrescente in base all’incidenza percentuale
delle coppie di battute a “distanza 1” (N_D1) rispetto a quelle a “distanza 0”
(N_D0). Per battute a “distanza 1”, in una sequenza tipo A0B0A1B1C0A2B2 … AN1C1BN-1ANBN,
intendo le coppie come B1A2 o AN-1BN-1, cioè quelle coppie di bat-
tute intercalate dall’intervento di un terzo speaker, in questo caso C. Lo scopo
iniziale era quello di individuare C rispetto ad A e B, in modo da scoprire, per
esempio, se gli scambi fra madri e figli tendessero ad essere mediati da qualche
go-between particolare (il padre? una zia? la sorella?). Purtroppo, si è trattato di
un tentativo fallito: in parte per le difficoltà che ho elencato prima, in parte per
l’alto livello di entropia delle distribuzioni ottenute, non sono riuscito ad individuare alcuna classe di go-between che prevalesse sulle altre.
Ho comunque deciso di riportare in appendice la tabella C.7 per tre motivi:
primo, segna in modo concreto il limite fino al quale si è avventurata—è proprio il caso di dirlo—la mia analisi; secondo, benché per lo scopo che mi ero
prefissato essa rappresenti solo un punto di partenza, è in ogni caso una ricaduta
indiretta di un percorso assai insolito (l’analisi triadica), e quindi vale la pena
renderla disponibile per facilitare il lavoro a chi voglia proseguire oltre in tale
direzione; terzo, offrendo un tentativo di classificazione delle relazioni in base
al loro grado di mediazione, è possibile utilizzarla per sottoporre a verifica alcune delle interpretazioni presentate nelle pagine precedenti.
95
Per esempio, è possibile osservare la notevole omogeneità delle prime dieci
relazioni, da “granddaughter” a “daughter-in-law”: sono tutte relazioni intergenerazionali non primarie, e in particolare sono o relazioni tipicamente oblique e
generalmente considerate ansiogene (come lo stereotipo per eccellenza, suocera-nuora, o le relazioni fra “figliastre/i” e “matrigne/patrigni”, tutte rappresentate fra le prime dieci), oppure relazioni verticali di secondo grado (cioè fra nonni
e nipoti), relazioni dunque che, come si è visto nel primo capitolo a proposito
della durata media della vita, in epoca Tudor e Stuart erano assai più sporadiche
di quanto non siano oggi, e probabilmente assai meno intense dal punto di vista
affettivo, se l’immagine, offerta dai diari, dei nonni come “genitori dei genitori”
corrisponde davvero alla realtà di allora.
All’estremo opposto troviamo invece relazioni anch’esse tipicamente distanti, come quelle fra zie e zii acquisiti e relative nipoti, ma senza particolari potenzialità ansiogene. La presenza della tipologia “illegitimate-son” costituisce
un’eccezione, ma è opportuno sottolinearne che quella con il figlio illegittimo è
la relazione “naturale” per antonomasia. Riguardo a questi due estremi—
relazioni molto mediate e relazioni poco mediate—è comunque necessario ricordare che presentano entrambi tipologie per le quali la quantità di dati disponibili è assai scarsa, e dunque l’interferenza delle caratteristiche individuali è
elevatissima. D’altronde, si può notare che l’ultima colonna della tabella
(N_D2_PERC), nella quale sono riportate le percentuali relative alle battute a
“distanza 2”, non è troppo dissimile da quella della colonna N_D1_PERC, e
sembrerebbe dunque essere confermata la validità generale, anche se non
l’accuratezza puntuale, della classificazione ottenuta.
Il più interessante, comunque, è il caso delle posizioni intermedie, e in particolare l’ordine in cui si presentano le relazioni primarie, tutte rappresentate in
questo gruppo ed entro un intervallo percentuale assai ridotto (dal 36% delle
madri al 27% di mogli e mariti, dunque appena 9 punti percentuali da un estremo all’altro). Il rapporto meno mediato, e quindi più diretto, sembra essere
quello fra coniugi, confermando così un tratto già evidente nella tabella relativa
alle 15 relazioni più invischiate (tabella C.6). Quelli meno diretti risultano essere i rapporti fra madri e figli e quelli fra fratelli e sorelle, mentre un posto privi96
legiato spetta alla relazione fra padri e figlie, altro tratto, questo, nel quale ci
siamo più volte imbattuti e sul quale avremo nuovamente occasione di soffermarci.
Riassumendo…
Lasciandoci ora alle spalle le analisi più o meno puntuali, i numeri e le ipotesi sulle singole relazioni, cosa sembrano indicare, nel complesso, questi dati?
Per prima cosa, ritengo che offrano la fotografia di una rete di relazioni intrafamiliari notevolmente mimetica, e per alcuni particolari sottogeneri ampiamente
sufficiente, sia come qualità sia come quantità, per giustificare il tentativo di
applicare l’impianto teorico della terapia familiare alla lettura degli scambi conversazionali. Detto altrimenti, una rete di individui che comunicano verbalmente con membri della propria famiglia e che lo fanno seguendo modalità pragmaticamente affini (seppur linguisticamente diverse) a quelle che si possono osservare nel mondo “reale”. Ancora, mi pare a questo punto evidente che
l’organizzazione familiare, nel suo complesso, sia una delle strutture centrali—
se non addirittura la struttura centrale—attorno alle quali il corpus preso in esame tende a conformarsi. Infine, vorrei anticipare una lettura abbastanza sorprendente, per quanto discutibile: in base alle teorie della terapia familiare—e in
particolare di Murray Bowen e di Theodore Caplow38—circa la comunicazione
intergenerazionale vs. intragenerazionale, le famiglie shakespeareane, dando
l’impressione di privilegiare le relazioni verbali fra coniugi rispetto a quelle fra
genitori e figli, si presentano mediamente come famiglie piuttosto “sane”—o,
meglio, non così psicogene come verrebbe da supporre pensando ad alcune realizzazioni individuali. Questo, è bene ribadirlo, solo da un punto di vista strettamente pragmatico e relazionale. Ma di ciò avremo occasione di discutere nei
capitoli successivi.
38
Vedi M. BOWEN, Family Therapy in Clinical Practice, nel quale viene postulata
l’importanza del processo di differenziazione individuale; e, soprattutto, T. CAPLOW, Two
Against One: Coalitions in Triads, sui concetti di “triade patologica” e “coalizioni improprie”, caratterizzati entrambi dal rilievo anomalo che assumono le alleanze lungo l’asse intergenerazionale rispetto a quello intragenerazionale.
97
98
Capitolo terzo
Dalla clinica alla critica:
storia e modelli della terapia familiare
Io non credo nelle persone,
credo solo nelle famiglie.1
CARL A. WHITAKER
“A little known fact in literary critical circles is that Freudian analysis has
been compared with up to two hundred other therapeutic systems, and has been
shown to have no better success-rate than its many rivals, and to suffer from
two serious disadvantages, the length of time it takes and the consequent expense in analysts’ fees. Few of these other therapies have so far been used as
models by literary critics, for whom Freudianism has long been the single system”.2 Così scriveva, con feroce umorismo, Brian Vickers nel 1993. Scopo di
questa tesi è offrire un contributo che aiuti a colmare il vuoto da Vickers giustamente indicato. Poiché il modello terapeutico—o meglio, i modelli terapeutici—dei quali mi intendo avvalere sono relativamente poco noti, perlomeno rispetto alla psicoanalisi, in questo capitolo cercherò di illustrarne brevemente la
storia e i fondamenti.
La deliziosa nonchalance di Vickers offre l’occasione per mettere a fuoco un
aspetto fondamentale della sua avversione nei confronti della psicocritica, e
cioè quello che potremmo chiamare “integralismo freudiano”. Occorre infatti ricordare che la psicoanalisi freudiana, come del resto le varie scuole di psicologia che si sono sviluppate in seguito, non implica solo un tipo di terapia, ma
1
C.A. WHITAKER, Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, p. 133.
2
B. VICKERS, Appropriating Shakespeare. Contemporary Critical Quarrels, p. 272.
un’intera concezione dell’essere umano. Una concezione affascinante e geniale,
la cui applicazione in letteratura ha portato a risultati prima impensabili non solo nel campo della critica (per quanto riguarda Shakespeare, si può fare riferimento alla bibliografia riportata nel volume di Schwarz-Kahn3), ma anche nella
produzione stessa di opere artistiche. Una concezione talmente influente da lasciare spesso l'impressione che noi donne e uomini siamo veramente—
“oggettivamente”—come Freud ci ha descritto. Quella che mi accingo a tracciare è la storia di una tra le tante ipotesi alternative a quella offerta dalla teoria
psicoanalitica, un’ipotesi basata su modelli che si situano al crocevia fra numerose discipline e che coinvolgono campi di ricerca in apparenza lontanissimi tra
loro, quali la psicoterapia, la sociologia, l’antropologia, l’epistemologia e la cibernetica: ossia, la teoria dei sistemi familiari.
Termostati e doppi legami: l’epoca delle Macy Conferences
Le origini della terapia familiare sono meno scontate di quanto si potrebbe
immaginare. Certo, già nella psicoanalisi degli esordi alla famiglia era riservato
un ruolo tutt’altro che irrilevante—basti pensare all’importanza del concetto di
“triangolo edipico” nel modello di Freud sulle fasi evolutive della sessualità—e
non c’è dunque da stupirsi se alcuni terapeuti di formazione psicodinamica, forse più irriverenti di altri nei confronti dell’ortodossia freudiana, abbandonando i
rigidi vincoli sul setting a due, iniziarono a coinvolgere e a invitare ai colloqui
anche i familiari dei pazienti. Ciò avvenne soprattutto negli Stati Uniti, tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, ad opera di pionieri
come Nathan Ackerman e, più tardi, Virginia Satir e Murray Bowen. Il tratto
che accomunava i loro pur eterogenei approcci al trattamento terapeutico era
l’idea che, per ottenere un cambiamento, non fosse sufficiente lavorare solo
sull’individuo, bensì occorresse intervenire sull’intera rete delle sue relazioni
familiari. Bowen, per esempio, riadattando il principio-guida della terapia freu-
3
M. SCHWARZ E C. KAHN, Representing Shakespeare: New Psychoanalytical Essays, 1980.
100
diana—“dov’era l’Es, lì sarà l’Io”4—in termini non più intrapsichici ma intergenerazionali, si proponeva come obiettivo fondamentale per i suoi pazienti il
raggiungimento della “differenziazione del sé” rispetto allo “Io-massa” della
famiglia di origine. Per scindere i triangoli generazionali che invischiano genitori e figli in un confuso amalgama di emozioni, Bowen adottava tecniche terapeutiche che avrebbero fatto inorridire qualsiasi analista ortodosso, quali per
esempio invitare intere famiglie alle sedute o prescrivere ai pazienti di rivelare—tramite lettere inviate ai parenti—tutti i segreti e i pettegolezzi che ciascuno
taceva o diceva alle spalle degli altri.5
Ma i presupposti teorici della teoria dei sistemi familiari ebbero origine prevalentemente al di fuori della pratica terapeutica. Più o meno nello stesso periodo in cui psichiatri e psicanalisti muovevano i primi passi nel mondo della famiglia, infatti, alcuni scienziati provenienti dalle più svariate discipline—tra loro, John von Neumann (un matematico, nonché pioniere dell’informatica), Walter Pitts (un altro matematico), Warren S. McCulloch (un neurologo), Margaret
Mead (un’antropologa) e Gregory Bateson (principalmente, un epistemologo)—
cominciarono ad accorgersi che le ricerche da essi fino ad allora individualmente condotte, per quanto rivolte ad ambiti quanto mai distanti, sembravano orientarsi verso un non meglio definito interesse comune per i meccanismi di autoregolazione. Nell’intento di mettere a confronto le loro idee, decisero di dare vita
a un ciclo di convegni annuali dal sapore insolitamente multidisciplinare, convegni che si tennero negli Stati Uniti, dal 1942 al 1956, sotto gli auspici della
Josiah Macy Foundation: le Macy Conferences.6 Fin dal primo di questi singolari incontri, si cominciò a intravedere la possibilità di formulare una teoria che,
avvalendosi delle idee di informazione, controllo e retroazione, avrebbe potuto
4
Vedi S. FREUD, “The dissection of the Psychical Personality”, 1932 (in New Introductory
Standard Lectures, Standard Edition, a cura di STRACHEY, vol. XXII): “Where id was,
there ego shall be” (p. 80).
5
Vedi M. BOWEN, Family Therapy in Clinical Practice, 1978.
6
Due ottime retrospettive, che ben si integrano tra loro, sul periodo delle Macy Conferences
si possono trovare in B.P. KEENEY, L’estetica del cambiamento, e in H. VON FOERSTER,
Sistemi che osservano.
101
descrivere il comportamento tanto dei sistemi tecnologici (per esempio, un termostato) quanto di quelli biologici (per esempio, una famiglia). Per questa teoria, alcuni anni più tardi, Norbert Wiener (uno tra i padri dell’intelligenza artificiale) coniò il nome di cibernetica.
Il concetto fondamentale della prima teoria cibernetica—o cibernetica di
prim’ordine—è l’idea di sistema chiuso, o circolare: l’output del sistema, tramite il meccanismo di feedback, ne costituisce anche l’input. Un corollario del
concetto di sistema è che gli input e gli output, di qualsiasi natura essi siano—
dalle variazioni di temperatura di un ambiente ai cambiamenti di tono della voce
di un familiare—possono essere considerati semplicemente come informazioni.
Un punto di vista, questo, radicalmente diverso sia da quello della psicoanalisi,
basato essenzialmente sulla metafora dell’energia, sia da quello behaviorista,
che tende a modellare il comportamento degli esseri umani su sequenze lineari
di stimoli e risposte. In un sistema circolare, come può per esempio essere un
ambiente riscaldato la cui temperatura sia controllata da un termostato, il metodo più efficace per indurre un cambiamento non sta tanto nell’aumentare o diminuire la potenza del sistema di riscaldamento, o nel migliorare l’isolamento
termico dell’ambiente, quanto nell’intervenire sul meccanismo di feedback che
lo regola, ossia sulla soglia del termostato, e dunque sul significato
dell’informazione—troppo caldo, troppo freddo—che mette in relazione la centrale di riscaldamento con l’ambiente. In altre parole, la chiave per comprendere
il “comportamento termico” dell’ambiente è il termostato, più che il tipo di
combustibile usato o la metratura dell’ambiente stesso, e tutte le variazioni di
temperatura che intervengono sono allo stesso tempo stimoli e risposte, ossia
reazioni a reazioni.
Gregory Bateson: verso un’ecologia della mente
Tutto ciò era senz’altro interessante, ma anche piuttosto arido, specialmente
in relazione al comportamento degli esseri umani. Se la psicologia, e in particolare l’allora nascente psicoterapia familiare, cominciò a prendere in seria considerazione un punto di vista così astratto e difficile da abbordare come quello cibernetico, il merito è in gran parte da attribuire al ruolo e alla personalità di
102
Gregory Bateson. Descrivere l’opera di Bateson in poche parole è impossibile,
ma ad almeno un aspetto del suo contributo occorre accennare, a costo di semplificazioni e rischi di fraintendimento: egli riuscì a convincere chi si occupava
di psichiatria che quella cibernetica poteva essere una teoria non soltanto produttiva ma anche profondamente rispettosa della complessità che lo studio del
pensiero e del comportamento umano richiede. Di formazione antropologo ed
etnologo, Bateson impiegò con lucidità ed elasticità il modello cibernetico per
descrivere i fenomeni più disparati, dalla schizofrenia all'alcoolismo, dal “carattere nazionale” alla comunicazione tra cetacei, dall’ecologia all’apprendimento.
Tutte le direzioni che l’evoluzione del pensiero sistemico ha percorso negli ultimi quarant'anni—la necessità di distinguere correttamente la categoria logica
di un fenomeno, la teoria del double bind, il ruolo dei paradossi, la cibernetica
di second’ordine, ecc.—sono già presenti nelle sue opere, magari appena accennate ma più spesso perfettamente sviluppate.
Bateson iniziò ad accostarsi al mondo della malattia mentale nello stesso
modo in cui, negli anni precedenti, si era interessato alle più disparate forme di
gruppi sociali—dall’addestramento dei delfini alle cerimonie della società Iatmul—e cioè osservando le modalità di interazione fra i vari membri. In particolare, cominciò ad indagare, insieme a Jay Haley e ad altri psichiatri, le cause
dello strano rapporto che i pazienti affetti da schizofrenia sembravano stabilire
fra immaginazione e realtà:
Agli inizi degli anni ’50 alcuni ricercatori presero a interessarsi ad alcune osservazioni che avevano fatto sul comportamento di pazienti schizofrenici. Nonostante si ritenga che lo schizofrenico risponda a una sua propria visione interna distorta del mondo e venga considerato al di fuori del contatto con la realtà, questi
osservatori notarono che quando la madre di un paziente veniva in visita
all’ospedale, nei giorni successivi il paziente accusava una riacutizzazione della
sua sintomatologia. Poiché questa sintomatologia acuta non era certamente frutto
delle fantasticherie del paziente, pensarono di far stare insieme i pazienti schizofrenici e le loro madri e osservarono le loro interazioni per un certo tempo. Rimasero molto colpiti da quello che videro…7
7
A. NAPIER e C.A. WHITAKER, Il crogiolo della famiglia, p. 57.
103
Ciò che stupì l’équipe di ricercatori fu che il linguaggio e il comportamento
dei pazienti schizofrenici, assolutamente incomprensibile durante i colloqui individuali, inserito nel contesto familiare—e in particolare nella relazione con le
madri, ma non solo—mostrava invece una logica sorprendente e, soprattutto,
pattern comunicativi che si ripetevano: i genitori sembravano far di tutto per incoraggiare—se non addirittura per pretendere—nei figli un comportamento
schizofrenico. In altre parole, era come se la schizofrenia fosse l’esito appropriato, per quanto tragico, di una sorta di processo di apprendimento. Non solo:
l’équipe notò anche che, “se il paziente migliorava, qualcun altro della famiglia
peggiorava. Era quasi come se la famiglia richiedesse la presenza di qualcuno
con un sintomo.”8
Tutto ciò indusse Bateson a considerare la schizofrenia in termini “ecologici”: non tanto—o non solo—come la conseguenza di un trauma psichico o di
una particolare predisposizione genetica, dunque, quanto come una peculiare
forma di adattamento all’ambiente familiare, e più precisamente alle modalità di
comunicazione caratteristiche di tale ambiente. Analizzando le conversazioni
fra genitori e figli, Bateson si accorse che nelle famiglie dei pazienti schizofrenici era frequentissimo il ricorso a una particolare forma di ingiunzione su due
livelli (di solito, uno verbale e l’altro non verbale, o più in generale uno comunicativo e l’altro metacomunicativo), alla quale diede il nome di “doppio legame” (double bind), che ha la caratteristica di porre il destinatario
nell’impossibilità di rispondere adeguatamente alle richieste implicite ed esplicite del messaggio, in quanto esse sono fra loro in contraddizione. I risultati di
queste osservazioni furono raccolti in un articolo, ormai storico, dal titolo “Toward a Theory of Schizophrenia” (apparso nel 1956, su Behavioral Science, a
firma di Bateson, Don D. Jackson, Jay Haley e John Weakland), nel quale erano
descritti i tratti formali del double bind ed alcuni esempi, tratti da casi clinici,
del suo potenziale patogeno.
Gli “ingredienti” comunicativi necessari perché si possa parlare di double
8
L. HOFFMAN, Principi di terapia della famiglia, p. 26.
104
bind sono numerosi e a volte un po’ ambigui.9 Un breve esempio, però, è sufficiente per dare un’idea di quello che, secondo Bateson, dovrebbe essere il suo
“meccanismo”:
[…] Se la madre comincia a provare ostilità (o affetto) per il figlio e contemporaneamente si sente spinta a ritrarsi da lui, potrebbe dirgli: “Va’ a dormire, sei
stanco e voglio che ti riposi”. Questa frase apparentemente affettuosa tende a negare un sentimento che potrebbe essere espresso con queste parole: “Va’ fuori dai
piedi, perché sono stufa di te”. Se il bambino interpretasse correttamente i segnali
metacomunicativi, dovrebbe fare i conti col fatto che la madre non desidera averlo
vicino e per di più lo sta ingannando dimostrandosi affettuosa. Egli sarebbe ‘punito’ per aver appreso a distinguere con cura gli ordini dei messaggi, e quindi, piuttosto che riconoscere l’inganno materno, tende ad accettare l’idea di essere stanco.
Questo significa che, allo scopo di sostenere l’inganno della madre, il bambino
deve ingannare se sesso circa il suo stato interno: per continuare a vivere con lei,
egli deve discriminare in modo errato i suoi messaggi interni, oltre che discriminare in modo errato i messaggi altrui.10
L’instaurarsi, nel corso degli anni, di simili pattern comunicativi come forma
di relazione abituale all’interno della famiglia, può spiegare una sintomatologia
tipica della schizofrenia quale l’incapacità di distinguere fra livello metaforico e
livello letterale, o fra immaginazione e percezione della realtà.
Dalla teoria al trattamento terapeutico
9
La “ricetta” originale del double bind prevedeva i seguenti “ingredienti”: 1) due o più persone, una delle quali identificabile come vittima; 2) un’ingiunzione primaria negativa (per
esempio, una minaccia), di solito verbale; 3) un’ingiunzione secondaria, di solito non verbale, in conflitto con la prima e, come la prima, sostenuta da punizioni o da segnali che
minacciano la sopravvivenza; 4) un’ingiunzione negativa terziaria che impedisce alla vittima di sfuggire al conflitto (implicita, per esempio, nel rapporto genitori-figli); 5)
l’abitualità del fenomeno. Essa è stata in seguito più volte riformulata (anche dallo stesso
Bateson) e criticata, sia per l’assenza di criteri univoci e formali che consentano di discriminare fra doppi legami e altri pattern comunicativi, sia per il suo relativo insuccesso in
ambito clinico (ma anche per l’eccesso di responsabilità che, almeno nelle prime formulazioni, tendeva ad attribuire alla figura materna). Solo negli anni ottanta, e in particolare
grazie agli studi di V.E. CRONEN, K.M. JOHNSON e K.M. LANNAMANN sui livelli multipli
di contesto e sui circuiti riflessivi bizzarri (vedi “Paradoxes, Double Binds and Reflexive
Loops: an Alternative Theoretical Perspective”, Family Process, 20, 1982, pp. 91-112), si
è giunti a una riformulazione soddisfacente del ruolo svolto dal doppio legame
nell’insorgere di alcune forme di malattia mentale.
10
G. BATESON, D.D. JACKSON, J. HALEY e J. WEAKLAND, “Toward a Theory of Schizophrenia”, 1956 (trad. it. “Verso una teoria della schizofrenia”), in G. BATESON, Verso
un’ecologia della mente, pp. 258-9.
105
Se l’importanza della famiglia nel formarsi e nel perpetuarsi di determinate
forme di patologia diventava mano a mano più evidente, rimaneva invece
tutt’altro che chiaro stabilire le modalità di intervento per un eventuale trattamento terapeutico. I più importanti terapeuti della famiglia degli anni ’60 e
’70—Virginia Satir, Carl Whitaker, Milton Erickson e Don Jackson, non a caso
soprannominati “i grandi originali”—sembrano non avere altro in comune se
non uno straordinario intuito per cogliere al volo le più segrete dinamiche familiari e una capacità istrionica, difficilmente esportabile al di fuori dello studio di
ognuno di loro, di stabilire un intensa relazione emotiva con i membri delle famiglie in trattamento. Milton Erickson, per esempio, uno tra i leader indiscussi
nel campo dell'ipnosi, si avvaleva frequentemente di tecniche assai poco ortodosse come l’induzione dello stato di trance, o l’assegnazione di compiti paradossali, fino ad interventi ancora più diretti, come fissare incontri con
un’estetista per le pazienti dismorfofobiche, se non giungere addirittura allo
scontro fisico.11 Virginia Satir aveva invece un dono assolutamente unico per
spiazzare i suoi pazienti fornendo una lettura positiva anche delle situazioni più
infauste, come quando iniziò un trattamento con un ragazzo, accusato di aver
messo incinta due sue compagne di classe, complimentandosi per la “bontà del
suo seme”.12 Carl Whitaker, che era solito definire il suo “metodo” con
l’etichetta dal sapore squisitamente teatrale di “terapia dell’assurdo”, era convinto della necessità di creare una situazione “confusa” prima di poter procedere
a un qualsiasi autentico tentativo di cambiamento. Memorabili, in questo senso,
alcune sue prescrizioni come quella rivolta a una moglie e suo marito, entrambi
reduci da relazioni extra-coniugali e intenzionati a rimettere in sesto il loro matrimonio, ad invitare alla seduta successiva anche i due amanti e i loro rispettivi
coniugi.
L’aspetto più sorprendente di tali trattamenti non mi pare tanto la loro eccentricità, quanto il fatto che funzionavano—benché nessuno, a parte forse gli stes11
Per un affascinante resoconto delle tecniche terapeutiche di Milton Erickson, vedi J.
HALEY, Terapie non comuni. Alcune delle sue tecniche più bizzarre sono discusse più avanti, nel quarto capitolo di questa tesi.
12
L. HOFFMAN, Principi di terapia della famiglia, p. 206.
106
si terapeuti, riuscisse a spiegarsi come. Il ruolo svolto da alcune tattiche di intervento, però, era certamente riconoscibile: le prescrizioni paradossali, la connotazione positiva e “l’induzione alla confusione”, per esempio, sono tutte strategie che aiutano la famiglia a ridefinire la propria condizione e a considerare
sotto una nuova luce la posizione di ciascuno dei suoi membri.13 Lavorando
fianco a fianco con questi pionieri, e analizzando i filmati delle loro “interviste
alle famiglie”, altri terapeuti cominciarono così a individuare negli interventi
dei “grandi originali” ipotesi e tecniche che era possibile insegnare e apprendere.14 Fu così che, verso la fine degli anni ‘60 e per tutti gli anni ‘70, iniziarono a
sorgere, perlopiù negli Stati Uniti, numerose scuole di terapia familiare. Nelle
pagine che seguono tenterò di riassumere (semplificandoli drasticamente) i
principali orientamenti teorici di tali scuole, cercando di porre in rilievo il contributo che essi possono offrire all’analisi dei testi drammatici.
L’approccio strutturale di Salvador Minuchin
Fondatore, verso la fine degli anni ‘60, della Philadelphia Child Guidance
Clinic, Sal Minuchin deriva buona parte della sua metodologia d’intervento
dall’ipotesi di Bowen circa la necessità di raggiungere una “differenziazione del
sé”, allargando però l’obiettivo della differenziazione dall’individuo all’intera
generazione. Come Bowen, Minuchin ha un’idea abbastanza precisa di che cosa
si debba intendere per “famiglia sana”: una famiglia, cioè, nella quale i confini
generazionali (generational boundaries) siano chiari, e comunque sufficiente-
13
Per una teoria delle strategie di ristrutturazione in ambito terapeutico e comunicativo, vedi
P. WATZLAWICK, J.H. WEAKLAND, R. FISCH, Change. Sulla formazione e la soluzione dei
problemi, e in particolare il capitolo 8, “La sottile arte della ristrutturazione”; P.
WATZLAWICK, Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica; R.
BANDLER E J. GRINDER, La ristrutturazione. La programmazione neurolinguistica e la
trasformazione del significato, in particolare il capitolo 5, “Ristrutturazione di sistemi:
coppie, famiglie, organizzazioni”.
14
A questo proposito, è interessante notare come le opere più note sui primi terapeuti della
famiglia siano state spesso scritte non in prima persona ma dai loro allievi: è questo il caso, per esempio, di Milton Erickson e di Carl Whitaker (The Family Crucible è costituito
in gran parte dalle osservazioni raccolte da August Napier, per anni coterapeuta di Whitaker).
107
mente marcati da evitare che le coalizioni intergenerazionali (per esempio, madre/figlia, o nonno/nipote)—considerate potenzialmente patogene—finiscano
per prevalere sulle alleanze intragenerazionali (ossia, tra genitori, tra fratelli,
ecc.), fisiologiche e di solito innocue. Durante i primi colloqui, Minuchin e i
suoi allievi si preoccupano anzitutto di cogliere tali alleanze o coalizioni, per
poi rappresentarle in una sorta di “mappa del territorio psicopolitico della famiglia”: una mappa, cioè, che descriva la struttura familiare in termini di confini
fra sottosistemi (il sottosistema coniugale, quello genitoriale e quello dei fratelli). Terminata questa indagine preliminare, il compito della terapia diventa relativamente semplice da descrivere: “il terapista […] funge da costruttore di confini, chiarificando i confini invischiati e sciogliendo quelli eccessivamente rigidi”.15
L’alto grado di formalismo del modello di riferimento—una griglia di tratti
binari come sensibilità all’ambiente, alla distanza interpersonale e al consenso—fa dell’approccio strutturale di Minuchin un ottimo strumento per la descrizione delle “famiglie letterarie”. Per molti aspetti paragonabile ad altri modelli
strutturalisti (per esempio, quello narratologico di Greimas), nonché allo stesso
modello freudiano (il triangolo edipico, in fin dei conti, può essere considerato
come la realizzazione simbolica di una coalizione intergenerazionale), la teoria
di Minuchin mi pare interessante in ambito teatrale proprio in quanto permette
descrizioni svincolate sia da ipotesi intrapsichiche sia dal percorso narrativo,
nel senso che il ruolo attanziale dei vari membri della famiglia non è determinato dalla loro relazione con l’azione bensì dal loro rapporto con gli altri familiari.
Ciò lo rende particolarmente produttivo per l’analisi di quei testi teatrali naturalistici in cui l’azione è praticamente inesistente, ma anche per testi in cui, come
avviene in quelli di Shakespeare, la specificità dell’invenzione non riguarda tanto il plot quanto il linguaggio e la rappresentazione delle relazioni interpersonali.
15
Vedi S. MINUCHIN, Famiglie e terapia della famiglia, p. 59.
108
Il Mental Research Institute di Palo Alto e la terapia strategica breve
L’esempio più notevole dell’applicazione della cibernetica di prim’ordine allo studio dei sistemi umani è senza dubbio il lavoro di ricerca svolto, in collaborazione con Gregory Bateson, al Mental Research Institute di Palo Alto nel corso degli anni ‘60, e culminato nella pubblicazione di Pragmatics of Human
Communication.16 Diversamente da Bowen e Minuchin, i ricercatori del gruppo
di Palo Alto assunsero fin dall’inizio una posizione in netta discontinuità con le
teorie psicodinamiche allora imperanti: accantonando ogni tentativo di formalizzazione della struttura intrapsichica o extrapsichica dell’individuo o della famiglia, Paul Watzlawick e i suoi colleghi portarono fino alle estreme conseguenze il punto di vista cibernetico e l’assimilazione del concetto di comportamento a quello di comunicazione. A questo proposito, vale la pena riportare
l’analogia con la quale gli autori descrivono una tra le differenze principali tra
la psicoanalisi classica e il loro tipo di approccio:
If the foot of a walking man hits a pebble, energy is transferred from the foot
to the stone; the latter will be displaced and will eventually come to rest again in a
position which is fully determined by such factors as the amount of energy transferred, the shape and weight of the pebble, and the nature of the surface on which
it rolls. If, on the other hand, the man kicks a dog instead of the pebble, the dog
may jump up and bite him. In this case the relation between the kick and the bite
is of a very different order. It is obvious that the dog takes the energy for his reaction from his own metabolism and not from the kick. What is transferred, therefore, is no longer energy, but rather information. In other words, the kick is a piece
of behavior that communicates something to the dog, and to this communication
the dog reacts with another piece of communication-behavior. This is essentially
the difference between Freudian psychodynamics and the theory of communication as explanatory principles of human behavior.17
Ogni forma di comportamento, dunque, viene considerata dai terapeuti del
gruppo di Palo Alto anzitutto come una forma di comunicazione, verbale o non
verbale che sia. Ciò ha curiose implicazioni, come per esempio l’assioma secondo il quale “non è possibile non comunicare”, in quanto la scelta di non co-
16
P. WATZLAWICK, J.H. BEAVIN, D.D. JACKSON, Pragmatics of Human Communication,
1967.
17
Ibid. p. 29.
109
municare è una modalità comportamentale che in realtà comunica moltissimo—
seppure avvalendosi esclusivamente di canali non verbali—circa la qualità della
relazione fra due o più individui. Ancora più interessante, soprattutto per i nostri scopi, mi pare il concetto di “mente come scatola nera” (black box): considerare, cioè, la mente umana come se fosse una “scatola nera”, una scatola della
quale non possiamo né pretendiamo di sapere alcunché—al contrario di quanto
tenta di fare la psicoanalisi—di quello che vi avviene all’interno, limitandoci a
osservare ciò che vi entra e ciò che ne esce. Un simile punto di vista sulla mente
umana ha l’immediata conseguenza di porre l’accento non su ciò che un individuo “è” o “pensa”, “è stato” o “ha vissuto”, bensì sul modo in cui si relaziona
con gli altri individui. L’oggetto di studio—ed eventualmente il campo di intervento—si sposta così dall’individuo al sistema del quale l’individuo fa parte.
Tale approccio alla persona mi pare assai adeguato all’analisi delle dramatis
personae in quanto, rare eccezioni a parte, la specificità del genere drammatico
(diversamente dal romanzo o dalla lirica, per esempio) tende a precludere
l’accesso alla mente o al passato dei personaggi (basti pensare ad alcuni tratti
tipicamente narratologici come l’assenza di narratore e la conseguente localizzazione del point of view nello spettatore stesso18), e al tempo stesso tende a esaltare la rappresentazione, hic et nunc, delle loro interazioni, verbali e non verbali, con gli altri membri del sistema.
Ma ogni essere umano fa parte di un numero indefinito di sistemi (vedi figura 3.1):19 perché privilegiare proprio la famiglia? In effetti, l’approccio strategico del gruppo di Palo Alto, così come la terapia sistemica più in generale, trova
18
Per una tassonomia delle relazioni fra diegesi, focalizzazione e point of view, vedi M. Bal,
Narratologie: Essais sur la signification narrative dans quatre romans modernes, e P.
PUGLIATTI, Lo sguardo nel racconto. Circa la specificità, in tal senso, della rappresentazione teatrale, vedi J. LOTMAN, “Semiotica della scena, p. 16: “Lo spettatore teatrale conserva nei confronti dello spettacolo il punto di vista naturale, determinato dal rapporto ottico fra il suo occhio e la scena. Durante tutto il tempo dello spettacolo questa posizione
non cambia.” Per un’esauriente analisi del modo in cui le categorie genettiane di voce e
prospettiva subiscono variazioni nella transcodificazione dalle fonti ai drammi shakespeareani, vedi AA.VV., Nel laboratorio di Shakespeare, vol. 1, e in particolare i capp. 7 (“La
voce”) e 8 (“La prospettiva”).
19
La figura 3.1 è stata adattata da A.Y. NAPIER e C.A. WHITAKER, The Family Crucible, p. 62.
110
Fig. 3.1: Organizzazione gerarchica dei
principali sistemi e sottosistemi umani
COMUNITÀ MONDIALE
ALLEANZE NAZIONALI
NAZIONE
STATO
REGIONE
CITTÀ O COMUNITÀ
SOTTOGRUPPI DELLA COMUNITÀ
(lavoro, amicizie)
FAMIGLIE ALLARGATE
FAMIGLIE NUCLEARI
--------- PERSONA O ORGANISMO --------SISTEMA DI ORGANI
ORGANO
CELLULA
MOLECOLA
ATOMO
PARTICELLA ATOMICA
costantemente applicazione in molti altri campi: dai corsi di comunicazione
strategica, rivolti perlopiù a manager e
docenti, frequentissimi nel mondo anglosassone ma sempre più diffusi anche
in Italia, alla supervisione nella gestione
del personale in sistemi complessi (imprese,
ospedali,
ecc.).
Il
sistema-
famiglia, però, è almeno gerarchicamente l’unità sociale minima: essendo il più
contiguo
(biologicamente
e
affet-
tivamente) alla singola persona, è quello
che esercita su di essa l’influsso sociale
più diretto, così come la dipendenza più
immediata dalla sfera fisica deriva dalle condizioni del corpo (inteso come “sistema di organi”). Inoltre, la famiglia è il sistema nel quale di solito si realizza
con maggiore intensità e frequenza il tipo di modalità di comunicazione di cui
l’approccio sistemico si occupa, e cioè la “relazione faccia a faccia di persone
appartenenti a gruppi duraturi”.20
Queste caratteristiche della famiglia come gruppo sociale, a mio giudizio, ci
consentono anche di comprendere alcune delle ragioni per cui la famiglia sembra essere un luogo privilegiato non solo in Shakespeare ma, più in generale,
per il genere drammatico, e viceversa del motivo che induce molti terapeuti della famiglia21 a misurarsi con insolita frequenza con i testi teatrali. “Il teatro”,
20
L. HOFFMAN, Principi di terapia della famiglia, p. 26.
21
A parte l’ormai famosa analisi del “Who’s Afraid of Virginia Woolf” di Albee proposta da
WATZLAWICK in Pragmatics of Human Communication e le innumerevoli esemplificazioni tratte da testi teatrali alla quali i teorici della terapia familiare puntualmente ricorrono
(sempre WATZLAWICK, per esempio, in una raccolta da lui curata sul costruttivismo, non
ha esitato ad includere un saggio di ROLF BREUER—critico di letteratura inglese—sulla trilogia di Beckett), mi pare significativo che un terapeuta come SALVADOR MINUCHIN, al
termine della sua carriera di psicoterapeuta, abbia deciso di mettersi a scrivere drammi
(ovviamente familiari), raccolti poi nel volume Family Kaleidoscope (Cambridge, Massachusetts and London: Harvard U.P., 1984), nell’introduzione del quale si legge: “Two
111
come spiega Frye opponendolo a epos, lirica e romanzo, “è una mimesi del dialogo o della conversazione”,22 dunque un genere intrinsecamente sociale, nonché strettamente vincolato alla comunicazione faccia a faccia; e, a differenza
dell’epica (un altro genere tipicamente sociale), il teatro implica limiti logistici
(sullo spazio, sul tempo, sul numero di attori) tali da rendere impraticabile la
rappresentazione di sistemi sociali troppo estesi, se non a livello simbolico. Il
sistema-famiglia, dunque, pare proporsi come l’opzione più immediata in grado
di soddisfare tutti i requisiti che il teatro richiede, così come quella del teatro
sembra essere la scelta più naturale—certo più della lirica e in parte anche più
del romanzo—per chi voglia offrire una rappresentazione mimetica delle dinamiche familiari.
Tornando ora alla scuola di Palo Alto, ci sono due ultimi aspetti del loro modello ai quali ritengo sia utile accennare. Anzitutto, l’idea di arbitrarietà della
punteggiatura degli eventi. In tutte le situazioni di conflitto o di disagio, la prima e più naturale reazione di chi tenta di “risolverle” è quella di cercarne le
cause, l’origine. La psicoanalisi classica, in questo senso, ipotizzando momenti
di forte discontinuità nel vissuto personale dei pazienti (dall’attraversamento
delle fasi orale, anale ed edipica alla cosiddetta “scena primaria”) e individuando in alcuni di essi la causa scatenante delle dinamiche di rimozione, non fa eccezione. Essendo orientata al singolo individuo, inoltre, la psicoanalisi dà
un’importanza relativa alla “realtà” dell’evento scatenante: ciò su cui si concentra è piuttosto il processo di rimozione. Ma che succede quando le persone in terapia sono due o più? Regolarmente, ognuna di loro ha un’opinione assai diversa circa l’individuazione dell’origine—e quindi del “responsabile”—del disagio. “Non ti dico con chi esco perché altrimenti diventi sospettoso”, può dire
lei, individuando nella gelosia del marito l’origine di tutti i mali; “Ti controllo
years ago my wife and I began a new chapter: we took early retirement. Both of us, though
still enjoying the challenge of teaching others, had the frustrating feeling that we ourselves
where learning less. After much discussion we decided to take a year off to live in London. Settled there, we followed a life-long interest in normal families and pursued the
study of the processes of divorce and remarriage. Pat began to play the oboe. I toyed with
writing plays.” (p. 3).
22
N. FRYE, Anatomia della critica, p. 360.
112
perché mi nascondi qualcosa”, replica il marito, individuando così nella reticenza della moglie la causa del disagio coniugale. Chi ha ragione? Ma, soprattutto,
ha senso chiedersi chi ha ragione? In una prospettiva sistemica, come quella
adottata dalla scuola di Palo Alto, la vera causa del disagio non sta in un evento,
bensì nella regola—implicita ma fortissima—condivisa dall’intera famiglia che
stabilisce un rapporto di circolarità fra reticenza e sospetto. Proprio come il termostato nel caso della temperatura di un ambiente del quale parlavamo
all’inizio di questo capitolo, questa regola fa sì che quando la reticenza supera
una certa soglia intervenga il sospetto (e, dunque, le domande che tendono a
sciogliere la reticenza), ma non appena il sospetto raggiunge a sua volta una determinata soglia (con troppe domande, per esempio) intervenga di nuovo la reticenza. Stabilire chi per primo ha superato la soglia, e dunque come punteggiare
gli eventi, è perciò un’operazione arbitraria e piuttosto inutile, se non addirittura
dannosa (almeno per chi si pone come obiettivo la diminuzione del disagio, più
che l’individuazione del “colpevole”).
Come intervenire, allora, in questi casi? Qui arriviamo al secondo aspetto
che mi premeva affrontare: i terapeuti strategici ritengono che uno fra i sistemi
più efficaci sia ricorrere alle prescrizioni paradossali. Per illustrarne il principio,
consideriamo un caso tratto dalla realtà, e “preso in cura”—le virgolette sono
d’obbligo, come si vedrà—a Palo Alto da Watzaliwick, Weakland e Fisch. Tratta una situazione forse meno frequente del conflitto coniugale appena illustrato,
ma comunque abbastanza ricorrente (specie in Italia, aggiungerei, anche se qui è
il caso di una famiglia americana) e, soprattutto, assai esemplificativa: “Una
giovane coppia chiede una terapia coniugale perché la moglie sente di non poter
più sopportare l’eccessiva dipendenza e sottomissione del marito ai suoi genitori”,23 recita il problema d’esordio. In prima istanza, dunque, parrebbe che
l’origine del problema sia l’immaturità del marito. Nel giro di pochi minuti, però, i terapeuti vengono a sapere che il marito condivide pienamente il giudizio
negativo circa l’interferenza dei propri genitori, e che la “vera” causa del problema sta nell’impossibilità di evitare la loro invadenza:
23
Il caso è riportato in P. WATZLAWICK, J.H. WEAKLAND E R. FISCH, Change, pp.124-127,
dal quale sono tratte questa citazione e quelle che seguono.
113
I genitori, cha abitavano in una città lontana 2500 Km, facevano quattro visite
all’anno, ognuna della durata di tre settimane—e gli sposi erano giunti al punto di
temere queste visite come cataclismi. […] La coppia afferma di non saper più che
pesci pigliare. Hanno cercato con tutte le forze senza mai riuscirci di ottenere un
minimo d’indipendenza, ma anche il più lieve tentativo di proteggersi dal dominio
dei genitori viene interpretato come un segno di ingratitudine che a sua volta provoca un profondo senso di colpa nel marito e rabbia impotente nella moglie. Sono
tentativi, tra l’altro, che danno luogo a scene ridicole in pubblico; per esempio,
quando suocera e nuora implorano la cassiera di un supermercato di non prendere
il denaro dell’altra ma il proprio, o quando padre e figlio arrivano proprio a lottare
al ristorante per impossessarsi del conto non appena il cameriere lo porta al tavolo
[…]
Ma anche questa seconda ipotesi, e cioè che il comportamento dei genitori
sia all’origine di tutto, descrive una sola faccia della medaglia, poiché il loro
mal gradito interventismo è reso possibile proprio grazie agli sforzi che la coppia mette in atto, nel disperato tentativo di dimostrare la propria autonomia, per
evitarlo: “avevano cercato di fare tutto quello che potevano perché i genitori
trovassero il meno possibile da pulire, mettere in ordine, migliorare”. In altre
parole, pur senza volerlo, la coppia tendeva a rendere le visite piuttosto allettanti, e gli sforzi—gratificanti, per i genitori—richiesti per essere aiutati assolutamente sostenibili. Dando per scontato che sarebbe stato inutile, se non controproducente, suggerire alla coppia di chiedere in modo esplicito ai genitori di diradare le visite (come imporrebbe un approccio lineare, che non tenga cioè conto dei meccanismi di autorinforzo in atto nel sistema), i terapeuti decisero che
era necessario intervenire direttamente sulla metaregola soggiacente, che potremmo riassumere in “essere bravi genitori (o essere bravi figli) è la cosa più
importante del mondo”—così importante da rischiare e far rischiare una crisi
coniugale. Prescrissero dunque alla coppia quanto segue:
Questa volta dovevano interrompere le pulizie di casa alcuni giorni prima della
visita, fare in modo che si accumulassero quanti più panni sporchi era possibile,
smettere di lavare le automobili e lasciare i serbatoi quasi vuoti, trascurare il giardino, svuotare il frigorifero e la dispensa. Non dovevano riparare nessun guasto
(per esempio, rubinetti che perdevano, lampadine fulminate, ecc.). Non solo non
dovevano impedire che i genitori pagassero i generi alimentari, i conti dei ristoranti, i biglietti del teatro, la benzina, ecc., ma anzi dovevano aspettare senza agitarsi
minimamente finché i vecchi non tiravano fuori i soldi e non pagavano tutto quello che c’era da pagare. […] Insistemmo soprattutto su un divieto: non dovevano
tentare in nessun modo di far ammettere ai genitori che i figli hanno diritto alla lo-
114
ro indipendenza. Dovevano accettare tutto ciò che i genitori facevano per loro come una cosa naturale e dovevano ringraziarli senza troppo calore.
È indubbiamente una prescrizione paradossale, in quanto all’apparenza invita sia la coppia sia—indirettamente—i genitori a esasperare una situazione già
difficile. I due coniugi, ricordano i terapeuti, accettarono di metterla in pratica
soltanto perché erano veramente angosciati e perché erano consapevoli di avere
ormai esplorato ogni altra possibile alternativa. Ma produsse i risultati attesi: la
visita successiva fu assai più breve del solito, e il padre, prima di congedarsi,
“aveva preso da parte il figlio e gli aveva detto con tono amichevole ma deciso
che lui (il figlio) e la moglie erano stati troppo vezzeggiati […] e che era ormai
tempo di comportarsi più da persone mature e di dipendere meno dai genitori.”
Prescrivendo alla coppia di comportarsi da “cattivi figli” (cosa che, se non imposta “dall’alto”, non avrebbero mai osato fare), si era così riusciti a permettere
di ristrutturare completamente, e nel senso auspicato, il concetto di “bravi genitori”.
The Milan Approach
Ho volutamente intitolato questa sezione in inglese per evitare in partenza
l’insorgere di un comprensibile equivoco, e cioè che la scuola di terapia familiare di Milano sia nota e riconosciuta come autorevole soltanto in Italia. Nulla di
più lontano dalla realtà: al contrario, è proprio in ambito nordamericano che la
scuola di Milano, formatasi nel corso degli anni ‘70 e ‘80, ha i suoi più convinti
estimatori, e un ampio spazio dedicato al Milan approach si può trovare in tutti
i volumi di storia della terapia della famiglia, dal più volte citato Foundations of
Family Therapy di Lynn Hoffman all’imponente Handbook of Family Therapy
di Alan Gurman e David Kniskern.24
Per quali motivi? Può essere opportuno iniziare con un po’ di storia. Quasi
tutti i più noti esponenti della scuola di Milano, da Mara Selvini Palazzoli
(l’ispiratrice nonché la caposcuola) a Gianfranco Cecchin e Luigi Boscolo (che
24
A.S. GURMAN e D.P. KNISKERN (a cura di), Handbook of Family Therapy, New York:
Brunner/Mazel, 1981 (trad. it. a cura di Paolo Bertrando, Manuale di terapia della famiglia, Torino: Bollati Boringhieri, 1995).
115
attualmente la dirigono) sono, di formazione, psicoanalisti. Già verso la fine
degli anni ’60, però, cominciarono a interessarsi alle idee del gruppo di Palo Alto—e in particolare all’epistemologia di Bateson—e a trascorrere lunghi periodi
negli Stati Uniti per lavorare fianco a fianco con i più famosi terapeuti strategici
dell’epoca. Nel 1971, quattro di loro (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin e
Giuliana Prata) decisero di formare un’équipe per condurre una “ricerca svolta a
livello empirico […] nel tentativo di controllare la validità dell’ipotesi fondamentale di partenza basata sui modelli offerti dalla Cibernetica e dalla Pragmatica della comunicazione umana: la famiglia è un sistema autocorrettivo, che si
autogoverna mediante regole costituitesi nel tempo attraverso tentativi ed errori.”25 Poiché appunto di ricerca si trattava, più che di terapia, cercarono di impostarla con il maggior rigore possibile, definendo a priori alcune modalità piuttosto rigide, da mantenere costanti per tutte le famiglie in trattamento: per esempio, la durata della terapia (dieci sedute, di solito a intervallo mensile); la sequenza dei singoli incontri (pre-seduta, seduta vera e propria, discussione, conclusione, verbale); il setting (due terapeuti nella sala di terapia, due dietro lo
specchio, nella saletta di osservazione).
Questa sistematicità permise all’équipe di valutare con notevole obiettività
quali fossero, indipendentemente dalle idiosincrasie e dal maggiore o minore
“carisma del terapeuta”, le strategie di intervento più efficaci per indurre un
cambiamento duraturo, nonché di formalizzarle al punto da soddisfare, pur entro certi limiti, un criterio scientifico essenziale: la ripetibilità. Fra le strategie
così individuate e motivate, alcune in particolare hanno riscosso consensi tali da
rendere quello del Milan approach un modello teorico di riferimento in ambito
internazionale: l’uso sistematico della connotazione positiva del sintomo; il ricorso alle ipotesi come strumento terapeutico; il ricorso metodico alle domande
circolari (cioè domande che “definiscono una relazione”, e che di solito hanno
la forma: “se si presentasse la condizione x, come pensa che reagirebbe il familiare y?”); l’importanza della “neutralità” del terapeuta nei confronti delle posi-
25
M. SELVINI PALAZZOLI, L. BOSCOLO, G. CECCHIN e G. PRATA, Paradosso e controparadosso, 1975.
116
zioni dei singoli clienti, intesa non tanto nel senso che il terapeuta deve essere
imparziale, quanto nel sapersi collocare, rispetto al livello della famiglia, a un
metalivello che gli permetta di agire sull’intero sistema; infine, ed è forse la
strategia più sconcertante, la cosiddetta “prescrizione invariabile”, ossia una
prescrizione paradossale studiata “a tavolino” che è sempre la stessa26 per tutte
le famiglie con figli anoressici o psicotici, e teoricamente in grado—se “somministrata” nei tempi e nei modi indicati—di creare le condizioni indispensabili,
sia nella famiglia che fra famiglia e terapeuti, per un intervento efficace. Già da
questi brevissimi accenni si può intuire per quale motivo il Milan approach sia
ritenuto l’approccio sistemico per eccellenza.
Nel corso degli anni ’80, oltre ad affinare e ampliare il proprio metodo di intervento, l’équipe di Milano si è dedicata soprattutto all’elaborazione di modelli
e di metafore in grado di descrivere le possibili connessioni fra modalità familiari ed esiti psicotici, ossia, riassume Mara Selvini Palazzoli, “come connettere
il disturbo della coppia genitoriale col disturbo del figlio”.27 La metafora principale è quella del “gioco”, e da questa ne derivano numerose altre, alcune delle
quali—“istigazione” e “imbroglio”—sono usate anche nel corso di questa tesi.
Ma perché proprio il “gioco”, e cosa intendono, i terapeuti di Milano, con
l’espressione “gioco familiare”?
Il termine “gioco” produce immediate associazioni con le idee di gruppo,
squadra, soggetti (giocatori), posizioni (comando, gregario, attacco, difesa, ecc.),
strategie, tattiche, mosse, abilità, alternanza di turni (quindi sequenza temporale).
Abbiamo così la possibilità di disporre di un linguaggio molto legato alle relazioni
interpersonali, in quanto scambi di comportamenti. Parole come imbroglio, istigazione, minaccia, promessa, seduzione, voltafaccia, cooperazione, vincere, perdere,
stallo, sono molto legate alla necessità di descrivere vicende interumane.
[…] La metafora del gioco è risultata molto adatta a integrare le regole generali dell’interazione dei giocatori (ragionamento sistemico-olistico) con le mosse dei
soggetti (ragionamento strategico). […] In questo senso, la metafora del gioco ci
ha facilitato l’accesso a una visione che non separa i singoli dalle reciproche inter-
26
La prescrizione invariabile, con le frasi “esatte” da pronunciare, fu presentata per la prima
volta al Congresso Internazionale di Terapia Familiare tenutosi a Lione nel 1980, dove
venne distribuita in fotocopia ai partecipanti. La relazione non venne mai pubblicata, ma
la si può trovare in M. SELVINI PALAZZOLI et al., Giochi psicotici in famiglia, pp. 19-30.
27
M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, p. xiv.
117
dipendenze, né separa l’interdipendenza dai singoli, ma considera i singoli come
interdipendenti e tuttavia relativamente impredicibili, in quanto più o meno abili a
effettuare, all’interno delle regole e conseguentemente delle mosse avversarie, tutte le scelte rimaste possibili.28
Come si può intuire da quest’ultima precisazione circa la necessità di trovare
un equilibrio fra prospettive esclusivamente orientate al sistema e prospettive
esclusivamente orientate all’individuo, la terapia familiare, nel coso degli anni
’80, è diventata sempre meno dogmatica e più disponibile alla contaminazione,
come vedremo nella sezione successiva. La scuola di Milano, in particolare, si è
dedicata sempre di più all’integrazione, nel proprio modello, della cosiddetta
“seconda cibernetica”, sottolineando la necessità che, all’idea di “neutralità”, si
affianchi la consapevolezza da parte del terapeuta del suo essere inevitabilmente
parte del sistema. Di conseguenza, alle strategie finalizzate a mantenere una
prospettiva “binoculare”29 (dai co-terapeuti dietro allo specchio al concetto stesso di “équipe”) si sono affiancate strategie volte a coinvolgere in modo costruttivo, nel corso degli interventi, le emozioni—e perfino gli stessi pregiudizi30—
del terapeuta. In un certo senso, questa ennesima svolta può essere vista come
un recupero dell’aspetto più tipicamente relazionale della psicoanalisi, e cioè
della dinamica di transfert e controtransfert, ed è probabilmente un segno del
fatto che la terapia familiare ha raggiunto la piena maturità: superata l’esigenza
di definire la propria specificità per opposizione, può finalmente permettersi di
assimilare, senza complessi di inferiorità, le intuizioni migliori degli approcci
“concorrenti”.
Ultime tendenze: costruttivismo, seconda cibernetica ed emozioni
Per quanto diverse, le scuole di terapia familiare condividono tutte alcuni assunti basilari: l’importanza di intervenire sul nucleo familiare, e non solo sul28
Ibid., pp. 158-160.
29
Qui inteso nel senso indicato da G. BATESON in Mente e natura, pp. 93-122, e cioè una
prospettiva non solo più ricca di quella “monoculare”, ma di livello logico diverso, in
quanto l’informazione alla quale dà accesso è la differenza fra due informazioni.
30
Sull’impiego consapevole, in terapia, dei pregiudizi del terapeuta, vedi G. CECCHIN, G.
LANE e W.A. RAY, Verità e pregiudizi. Un approccio sistemico alla psicoterapia.
118
l'individuo; la funzionalità del sintomo, inteso come meccanismo retroattivo atto a preservare l’equilibrio dell'intero sistema (sintomo, quindi, non tanto “causato da” quanto “finalizzato a” qualcosa); la consapevolezza che qualsiasi cambiamento individuale coinvolge sempre l’intero sistema familiare. In seguito agli sviluppi teorici del costruttivismo e della seconda cibernetica31 (secondo la
quale qualsiasi descrizione di un sistema deve comprendere anche l’osservatore
del sistema stesso), come in parte si è già detto parlando della scuola di Milano,
altri due principi basilari si sono aggiunti a quelli condivisi da più o meno tutte
le scuole: a) la realtà della famiglia, il “come stanno realmente le cose”, è una
costruzione sociale della famiglia stessa; b) nel corso della terapia, il sistema
famiglia comprende anche il terapeuta, che quindi partecipa non solo
all’interpretazione ma anche all'invenzione della realtà.
In ambito terapeutico, la svolta teorica segnata dal costruttivismo ha avuto
una ricaduta immediata e assai concreta: se la realtà non è quell’entità oggettiva
che si tende a credere ma dipende piuttosto dai punti di vista di chi la inventa,
una situazione in apparenza senza speranza potrebbe esserlo, per l’appunto, solo
in apparenza. Ciò significa che al terapeuta intento ad aiutare le famiglie ad uscire da una situazione di stallo si prospetta un nuovo strumento di intervento, o
meglio un nuovo obiettivo: ampliare il campo delle possibili “letture del mondo” della famiglia stessa. In altre parole, “allenare” la famiglia a costruirsi realtà
più accettabili. Interventi di ristrutturazione che vanno in questo senso sono ben
esemplificati nell’opera di Mony Elkaïm,32 uno psicoterapeuta che individua
l’origine dei doppi legami familiari nell'incompatibilità che si viene a creare tra
la richiesta ufficiale esplicita ogni membro della famiglia (es. “voglio essere accettato”) e la sua mappa del mondo (l’insieme delle sue credenze, per esempio
“non posso che essere respinto”).
Più in generale, comunque, la terapia familiare degli anni ‘90 sembra essere
orientata a scoperchiare quella che Watzlawick chiamava the black box, per
31
Vedi P. WATZLAWICK, La realtà inventata. Contributi al costruttivismo; H.
FOERSTER, Sistemi che osservano; E. MORIN, La conoscenza della conoscenza.
32
M. ELKAÏM, Se mi ami non amarmi.
119
VON
cominciare a prendere in considerazione da una parte la dimensione semantica
delle relazioni—ossia le emozioni e la “storia familiare” (con i suoi miti, i suoi
rituali e i suoi script)33—e dall’altra l’influenza del contesto sociale sul sistema
familiare.34 Assegnare un ruolo alle emozioni può a prima vista apparire un passo indietro, un ritorno a una psicologia di taglio più introspettivo che comunicazionale. In realtà, c’è una differenza sostanziale rispetto al passato: emozioni e
narrazioni vengono ora considerate anzitutto nella loro dimensione intersoggettiva, in base al principio che è solo nell’interazione con il contesto che esse possono formarsi. L’idea della natura intersoggettiva delle emozioni, condivisa da
studiosi di numerose discipline (per esempio, da filosofi come Francis Jacques35
e da sociologi come Thomas Scheff36), era presente già negli studi di Bateson37 e
dei primi terapeuti della famiglia, i quali però tendevano a porla in secondo piano rispetto alla sfera più strettamente pragmatica dell’intersoggettività. Ma è
proprio il parziale fallimento, in campo terapeutico, di teorie rigidamente pragmatiche come quella del double bind ad avere indotto la terapia familiare a rivalutare l’importanza della dimensione diacronica (dunque, la narrazione) e dei
significati (dunque, le emozioni).
33
Sui tentativi di integrare le emozioni nella prospettiva sistemica, vedi M. ANDOLFI et al.
Sentimenti e sistemi, dove sono raccolti i numerosi contributi presentati al primo convegno
della European Family Therapy Association, dedicato appunto al ruolo giocato dalle emozioni in sistemi complessi come le culture, le istituzioni e, naturalmente, la famiglia. Sul
concetto di “storia familiare” e, più in generale, sull’impiego delle tematiche narrative in
terapia, vedi J. BYNG-HALL, Le trame della famiglia.
34
Per un confronto appassionato fra queste due nuove tendenze e la terapia familiare delle
origini, vedi R. DALLOS e A. URRY, “Abandoning our parents and grandparents: does social construction mean the end of systemic family therapy?”.
35
Vedi F. JACQUES, Difference and Subjectivity.
36
T.J. SCHEFF, Microsociology: Discourse, Emotion, and Social Structure.
37
A questo proposito, mi pare significativo il fatto che nel volume Semiotica delle passioni
(a cura di I. PEZZINI) sia stato inserito un articolo di G. BATESON, “Emozioni e scienze sociali” (è l’unico contributo, in tutta la raccolta, non di un semiotico), dedicato proprio alla
dimensione relazionale delle emozioni.
120
Terapia della famiglia, letteratura e critica letteraria
Per quanto incompleta, la breve storia della terapia familiare che ho tentato
di tracciare nelle sezioni precedenti dovrebbe essere sufficiente a suggerire
un’analogia con quanto è avvenuto, più o meno negli stessi anni, nella critica
letteraria. A questo riguardo, è indicativo il fatto che una terapeuta come Lynn
Hoffman, per illustrare il passaggio dalla prima alla seconda cibernetica, si riferisca esplicitamente al confronto fra New Criticism e Decostruzione.38 A dire il
vero, questo riferimento non dovrebbe stupire più di tanto: per i terapeuti della
famiglia, il confronto con la letteratura in senso lato (durante il periodo di
training, per esempio, è pratica comune sottoporre agli studenti film e opere
teatrali) e con la critica letteraria è un’attività tutt’altro che rara. E questo anche
su un piano più strettamente teorico: come osserva Paolo Bertrando, “the interest in literary metaphors and methods, ideal for therapists who (in the USA)
were less and less linked to psychiatry and medicine, led to involvement in literary criticism, that became the means of introduction of postmodern ideas”.39
Assai diverso, invece, appare il panorama interdisciplinare visto dall’altro lato della barricata: gli studi di critica letteraria che si rifanno esplicitamente alla
terapia familiare sono—ancora—rarissimi. Il primo del quale sono a conoscenza
è The Daughter’s Dilemma40 di Paula Marantz Cohen, un’affascinante percorso
sulla figura della “figlia” nel romanzo inglese dell’Ottocento, basato in particolare sull’approccio strutturale. Striking at the Joints41 di John V. Knapp, invece,
è un’introduzione alle opportunità offerte dalle “nuove psicologie” alla critica
letteraria. Nel terzo capitolo, “Family Systems in Literature”, l’autore propone
una lettura, basata sulla teoria dei sistemi familiari, di Sons and Lovers di D. H.
38
Vedi L. HOFFMAN, “Constructing realities: An art of lenses”, Family Process, 29, 1990.
39
P. BERTRANDO, “Commentary to Abandoning Our Parents and Grandparents: Does Social
Construction Mean the End of Systemic Family Therapy? by Rudi Dallos and Amy Urry”.
40
P. MARANTZ COHEN, The Daughter's Dilemma: Family Process and the NineteenthCentury Domestic Novel. Le opere esaminate dall’autrice sono Clarissa di S. Richardson,
Mansfield Park di J. Austen, Wuthering Heights di E. Brontë, The Mill on the Floss di G.
Eliot e The Awkward Age di H. James.
41
J.V. KNAPP, Striking at the Joints: Contemporary Psychology and Literary Criticism.
121
Lawrence e di Call It Sleep di Henry Roth. Intento dichiarato del volume di
Knapp è quello di denunciare l’immobilismo della critica ad orientamento psicologico e di suggerire alternative possibili (in particolare: la terapia familiare,
il comportamentismo e il cognitivismo) per favorire una maggiore interazione,
soprattutto in ambito accademico, tra social sciences e humanities. Infine, sempre a cura di John Knapp, è da segnalare l’importante raccolta di saggi—
preceduti da un’introduzione dello stesso Knapp su “Family Systems Psychotherapy, Literary Character, and Literature”—pubblicata nel 1997 in un numero
monotematico di Style, intitolato Family Systems Psychotherapy and Literature/Literary Criticism. Per quanto mi è riuscito di scoprire, si tratta del primo e
per ora unico tentativo volto in modo esplicito a introdurre la teoria dei sistemi
familiari nell’ambito degli studi letterari.
In nessuno dei tre lavori citati sono analizzati testi teatrali, né tanto meno
opere di Shakespeare. Lo stesso Knapp mi ha però gentilmente anticipato che,
nel volume di prossima uscita Reading the Family Dance (una raccolta di una
dozzina di letture di opere letterarie basate sui modelli della terapia familiare, a
cura di John V. Knapp e Ken Womack, in corso di stampa presso la Delaware
University Press), sarà incluso un suo saggio su Hamlet. Sempre nella stessa
raccolta, inoltre, sarà presente, in versione inglese, la lettura proposta nel quarto
capitolo di questa tesi di The Taming of the Shrew. È evidente quanto sarebbe
fuori luogo tentare di interpretare questi deboli segnali come sintomatici di un
interesse per la teoria dei sistemi familiari che va diffondendosi nell’ambito dello studio dei testi drammatici. Certo è, però, che la terapia della famiglia ha raggiunto una maturità tale da permetterle di proporsi, anche al di fuori del suo
preciso ambito di intervento, come una preziosa risorsa di modelli, prospettive,
terminologia e—aspetto da non sottovalutare, come ci insegna l’esperienza
freudiana—metafore.
122
Capitolo quarto
Terapeuti shakespeariani
Una delle numerose differenze fra persone e dramatis personae è che per
queste ultime non ha senso parlare di terapia. Per quanto intenso il loro soffrire,
non è possibile, né tantomeno auspicabile, tentare di alleviarlo. In altre parole,
se per assurdo si riuscisse a fare di Hamlet un giovanotto sereno e pieno di voglia di vivere, si sarebbe compiuto un vero e proprio crimine estetico. È questo
il motivo per il quale le letture psicologicamente orientate si avvalgono dei modelli cui fanno riferimento solo in parte: ne sfruttano, cioè, l'aspetto teoreticodescrittivo, ma non quello terapeutico-operativo.
Questa ragionevole cautela, che qui ovviamente condividiamo, ammette però
almeno un’eccezione: il caso in cui una delle dramatis personae è essa stessa un
terapeuta, o perlomeno agisce come tale. Per esempio, quando Sir Reilly,
l’ospite misterioso di The Cocktail Party di Eliot, ricevendo Edward nel suo
studio lo informa che
Indeed, it is often the case that my patients
Are only pieces of a total situation
Which I have to explore. The single patient
Who is ill by himself, is rather the exception.1
e gli propone un colloquio a tre, invitando Lavinia a unirsi a loro, è chiaro
che il suo modello terapeutico di riferimento è piuttosto distante da quello freudiano ortodosso. Non solo le premesse teoriche (è raro che il malato sia uno soltanto) ma lo stesso setting (il colloquio a tre) sono assai più affini, in questo caso, al modello della terapia di coppia.
1
T. S. ELIOT, The Cocktail Party, p. 114.
Nei drammi di Shakespeare, naturalmente, non s’incontrano terapeuti con
tanto di targa sul portone e iscrizione all’albo. Ci sono però numerosi personaggi che, con il loro agire e le loro parole, modificano profondamente la condizione psicologica di altri. Alcuni di essi, poi, lo fanno consapevolmente e con un
preciso obiettivo. Obiettivo che, almeno in certi casi, potremmo definire terapeutico, in quanto finalizzato al raggiungimento di una situazione più sopportabile di quella di partenza.
Passando ora in rassegna alcuni di questi “terapeuti” shakespeareani, presenterò brevemente tre diverse modalità di cambiamento, per concentrarmi poi su
un quarto tipo di intervento terapeutico, quello più rilevante ai fini di questa tesi: il cambiamento innescato dalla comunicazione paradossale. Poiché si tratterà
di accostamenti alquanto inconsueti, però, prima di proseguire è opportuno renderne esplicito lo scopo. Forse è più semplice cominciare elencando gli obiettivi
che questo capitolo non si propone: anzitutto, non è mia intenzione offrire una
chiave di lettura dei drammi nella loro interezza. Ancora, pur ponendo a confronto diverse modalità “terapeutiche” e i loro “esiti”, non intendo affatto mostrare la maggiore o minore efficacia dell’una rispetto all’altra, né in ambito critico né tanto meno in ambito clinico: sarebbe un’operazione tanto disonesta
quanto ridicola, vista l’arbitrarietà che mi ha guidato nella scelta delle situazioni
e la parzialità del punto di vista dal quale le illustrerò. Piuttosto, questo capitolo
rappresenta una sorta di “scorciatoia metodologica” per affrontare ancora una
volta la questione dell’applicabilità del modello della terapia familiare ai
drammi di Shakespeare. Nei capitoli precedenti, ho tentato di dimostrare questa
applicabilità sottolineando le affinità fra “l’oggetto di indagine” della terapia
della famiglia—ossia le famiglie occidentali contemporanee—e le famiglie delle finzioni shakespeareane. Qui seguirò invece il percorso inverso, partendo
cioè non dai modelli descrittivi bensì dalle strategie di intervento: se riuscissimo
a dimostrare che un determinato approccio terapeutico può dimostrarsi efficace
tanto nei drammi familiari della realtà odierna quanto in quelli di Shakespeare,
avremmo a disposizione un elemento prezioso a favore dell’applicabilità, in entrambi i contesti, del modello sul quale tale intervento si fonda. Tale modello
d’intervento, nel nostro caso, è quello della terapia strategica e paradossale. La
124
scelta qui compiuta di accostarlo ad altri modelli terapeutici è dunque finalizzata esclusivamente a fornire esempi di “esiti falsificanti”—esiti che non è sempre
immediato riconoscere in quanto tali—ai quali un simile esperimento potrebbe
condurre.
L'autoanalisi: cambiare “overhearing oneself”
Il sintomo più rivelatore della potenziale presenza di un “terapeuta” in un
dramma è il cambiamento nella percezione che un personaggio ha di sé e della
propria situazione esistenziale. Ma quale tipo di cambiamento? Un cambiamento può avvenire in diversi modi. A questo proposito, è interessante ricordare
come uno fra i tratti più innovativi di Shakespeare sia la sua abilità nel creare
personaggi che cambiano da soli, “overhearing themselves”. Questa abilità, così
ripetutamente riconosciutagli da essere ormai diventata un luogo comune, è definita da Harold Bloom come “the internalization of the self, [...] one of Shakespeare's greatest inventions, particularly because it came before anyone else was
ready for it.”2 In cosa consista tale auto-cambiamento è ben descritto dallo stesso Bloom nel saggio “The analysis of character” (saggio secondo il quale, nonostante la citazione appena riportata, almeno un valido precursore della genialità
shakespeariana pare esserci stato):
The origins of Shakespeare’s originality in the portrayal of men and women
are to be found in the Canterbury Tales of Geoffrey Chaucer, insofar as they can
be located anywhere before Shakespeare himself. Chaucer's savage and superb
Pardoner overhears his own tale-telling as well as his mocking rehearsal of his
own spiel, and through this overhearing he is emboldened to forget himself, and
enthusiastically urges all his fellow-pilgrims to come forward to be fleeced by
him. His self-awareness, and apocalyptically rancid sense of spiritual fall, are
preludes to the even grander abysses of the perverted will in Iago and in Edmund.
What might be called the character trait of negative charisma may be Chaucer’s
invention, but came to its perfection in Shakespearean mimesis.3
Secondo Bloom, dunque, la perturbante originalità di Shakespeare, appena
mitigata dal precedente chauceriano, consisterebbe nell’aver creato personaggi
2
H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 409.
3
H. BLOOM, Hamlet, p. x.
125
con notevoli capacità di introspezione e auto-analisi. Hamlet e Iago, da questo
punto di vista, sono probabilmente le due figure più emblematiche. Ciò non toglie, però, che i suoi drammi siano popolati da altri—magari meno affascinanti—personaggi i quali, per cambiare, hanno bisogno di un po’ di aiuto
dall’esterno. Chi sono? Chi li aiuta? In che modo? E, soprattutto, con quale successo?
L'analisi freudiana classica: cambiare ricordando il passato
Secondo il modello psicoanalitico classico, il cambiamento terapeutico avviene diventando consapevoli di una realtà psichica prima ignorata. Tramite un
lungo processo di rimozione delle rimozioni, una porzione repressa
dell’inconscio affiora alla coscienza, mettendo così il paziente in grado di gestirla. Un processo, come ben sappiamo, che si realizza principalmente grazie a
tecniche come la libera associazione, l’interpretazione dei sogni e la relazione
con l’analista. Caratteristica fondamentale di tale processo è che il materiale
psichico rimosso si riferisce al passato individuale—rispetto, per esempio, a
quanto avviene nella terapia junghiana. Per essere curato, il paziente freudiano
deve avere un passato, reale o intrapsichico che sia. Detto in modo brutale, deve
esserci stato un periodo della sua vita nel quale aveva due o tre anni e si trovava
in balìa di incontrollabili pulsioni sessuali. Caratteristica, questa, che un personaggio drammatico raramente soddisfa.4
Ma ciò che più qui ci interessa rilevare è che, pur presentando numerosi personaggi aventi uno spessore psicologico e linguistico tale da rendere legittima e
stimolante l’applicazione delle teorie psicoanalitiche, il canone shakespeariano
lascia il compito interpretativo agli spettatori, ai lettori e, soprattutto, ai critici.
4
A questo proposito, è forse opportuno sottolineare come il modello freudiano ortodosso,
proprio per la sua ricchezza e complessità, sia comunque applicabile anche allo studio di
personaggi senza un passato (tipicamente attraverso l'analisi simbolica del materiale onirico e linguistico). Vale anche la pena ricordare che, dall'inizio del ventesimo secolo ad oggi, le teorie e le pratiche psicoanalitiche si sono costantemente evolute. Per un brillante resoconto degli effetti di tale evoluzione sulla critica shakespeariana, si può fare riferimento
al saggio di N. HOLLAND “Hermia’s Dream”, nel quale l’autore individua tre fasi chiave
nello sviluppo della critica psicoanalitica e, per ognuna di esse, mostra una possibile applicazione per la lettura di MND.
126
Ciò preclude, com’è ovvio, ogni possibilità di assistere ad un intervento terapeutico, che dovrebbe inevitabilmente realizzarsi sull’asse interno. Se anche,
come alcuni critici concordano nel sostenere,5 la vita intrapsichica così come
descritta da Freud è andata formandosi proprio all'epoca di—o, addirittura, grazie a—Shakespeare, per avere i primi terapeuti in grado di indagarla si è reso
necessario attendere altri tre secoli. Quando, per esempio, Volumnia rivela a
Virgilia alcuni particolari sul passato di Coriolanus—“When yet he was but
tender-bodied and the only son of my womb...” (Cor, I.iii.5-6)—lo fa per convincere la nuora a darsi un po’ di contegno, e non certo per interrogarsi sul pur
problematico carattere del figlio.
Non mancano, però, anche nel canone shakespeariano, situazioni almeno in
parte assimilabili a quella del setting psicoanalitico.6 Una fra le più significative
la si incontra in The Tempest, atto primo, scena seconda. Nei paragrafi successivi proverò ad evidenziare alcuni dei processi di cambiamento che la scena presenta. Non sarà in alcun modo una lettura in chiave psicoanalitica, bensì
un’analisi delle strategie adottate da Prospero nella sua conversazione con Miranda. Strategie che, come spero di mostrare, hanno alcune affinità con quello
che diventerà il modello operativo della psicoanalisi freudiana.
La scena si apre con Miranda in preda all’agitazione, addolorata per la sorte
dei naufraghi, che chiede aiuto al padre. Prospero, dopo averla brevemente rassicurata sul presente, propone di spostare l’attenzione sul passato, e in particolare sull’infanzia di Miranda. Al termine della conversazione, l’ancora perplessa
Miranda, ubbidendo all’ordine di Prospero, si addormenta. Da un punto di vista
5
Vedi, per esempio, H. BLOOM, Ruin the Sacred Truths, p. 58; S. GREENBLATT, “Psychoanalysis and Renaissance Culture”, in S. GREENBLATT, Learning to Curse: essays in early
modern culture.
6
Per una definizione di setting psicoanalitico, si può fare riferimento al primo volume del
Trattato di psicoanalisi, a cura di ANTONIO ALBERTO SEMI: “Il setting si può definire come l'assetto relazionale analitico che lo psicoanalista deve assumere e conservare per tutta
la durata del trattamento. È condizione fondamentale e insostituibile perché si possa fare
della psicoanalisi. Come osserva Di Chiara [“Il setting analitico”, in Psiche, 8, 1971, p.
47], il setting «serve a consentire al paziente di realizzare esperienze che abbiano relazione
con il proprio inconscio, con la propria infanzia, con i propri conflitti, e dove realizzare
esperienze significa fare esperienza del transfert»." [corsivo mio].
127
strettamente drammatico, la strategia qui messa in atto ha naturalmente lo scopo
di fornire agli spettatori le informazioni necessarie per comprendere quanto sta
per essere rappresentato. Anche ciò che avviene sull’asse interno, però, è degno
di nota.
Anzitutto, per l’intimità e la ritualità della scena.7 L'incontro avviene davanti
alla grotta di Prospero, un antro magico, quindi sulla soglia di un luogo che è al
tempo stesso casa e “studio”. Miranda, dopo aver esposto il suo problema, aiuta
il padre a togliersi il “magic garment”, che viene steso a terra, ed entrambi si
siedono, creando così una cornice comunicativa—e terapeutica—ideale. Nelle
letture critiche di The Tempest, la figura di Prospero diventa di volta in volta
quella del mago, del regista, del portavoce di Shakespeare, del colonizzatore,
del patriarca e via dicendo. All’inizio della seconda scena, invece, Prospero è
soprattutto un padre, e l’incanto dell’azione è tale che il tentare di attribuirgli
ruoli ulteriori quasi dispiace.
Il modo in cui si svolge il dialogo è però decisamente insolito. Per prima cosa, è un raro caso, all’interno del corpus shakespeariano, di dénouement in una
scena iniziale. Ancora, a differenza di quanto avviene in un dénouement classico, l’effetto immediato non è quello di rendere Miranda consapevole delle sue
nobili origini—informazione che pare interessarle assai poco— bensì, almeno
in apparenza, quello di rasserenarla al punto da farla addormentare. Inoltre,
mentre per l’asse esterno è fondamentale che cosa viene raccontato, per quello
interno l’accento sembra venire spostato su come viene raccontato. Larga parte
degli scambi ha, infatti, contenuto metacomunicativo:
Miranda
More to know
Did never meddle with my thoughts.
Prospero ’Tis time
I should inform thee farther.
7
[I.ii.21-22]
[I.ii.22-23]
A proposito dell'intimità, vale la pena osservare che, anche da un punto di vista strettamente conversazionale, il rapporto fra Prospero e Miranda è, fra tutte le relazioni padrefiglia presenti in Shakespeare, quello più "denso": in sole 12 sequenze, infatti, presenta
ben 66 scambi di turno a distanza zero (a "botta e risposta", cioè sequenze ABABAB...),
41 dei quali in questa scena. Per un confronto con la densità conversazionale di altre relazioni familiari shakespeariane, v. tabella C.6 in appendice.
128
Prospero
Sit down,
For thou must now know farther.
[I.ii.32-33]
Miranda
You have often
Begun to tell me what I am, but stopped
And left me to a bootless inquisition,
Concluding “Stay; not yet”.
[I.ii.33-36]
Prospero The hour’s now come.
The very minute bids thee ope thine ear,
Obey, and be attentive.
[I.ii.35-38]
Miranda Please you, farther.
[I.ii.65]
Prospero Dost thou attend me?
Miranda Sir, most heedfully.
[I.ii.78]
Prospero Thou attend’st not!
Miranda O good sir, I do.
[I.ii.87-88]
Prospero I pray thee mark me.
[I.ii.88]
Prospero Dost thou hear?
Miranda Your tale, sir, would cure deafness.
[I.ii.106]
Miranda Alack, for pity!
I, not rememb’ring how I cried out then,
Will cry it o’er again; it is a hint
That wrings mine eyes to ’t.
[I.ii.132-135]
Prospero Hear a little further,
And then I’ll bring thee to the present business
Which now’s upon ’s, without the which this story
Were most impertinent.
[I.ii.135-138]
Prospero Well demanded, wench;
My tale provokes that question.
[I.ii.139-140]
Prospero Now I arise.
Sit still, and hear the last of our sea-sorrow.
[I.ii.170-171]
Prospero Here cease more questions.
Thou art inclined to sleep; ’tis a good dullness,
And give it way. I know thou canst not choose.
[I.ii.185-187]
Ciò che più colpisce sono le ossessive richieste di attenzione di Prospero:
“Obey, and be attentive”, “Dost thou attend me?”, “Thou attend’st not!”, “I pray
thee mark me” e, ancora, “Dost thou hear?”. Come interpretarle? Secondo David Sundelson,8 ciò che il dialogo mette in scena è un’alternanza di dubbio e
8
David Sundelson, “So Rare a Wonder’d Father: Prospero’s Tempest”.
129
rassicurazione, necessaria a Prospero per affrontare l’imminente separazione affettiva da Miranda, la quale è destinata a innamorarsi di Ferdinand. Mi pare una
lettura condivisibile, soprattutto tenendo presente la sete di dimostrazioni affettive cui i padri shakespeariani—Lear in testa—vanno soggetti in prossimità del
matrimonio delle figlie. Ma è una lettura che illumina un solo aspetto della conversazione: l'ansia di Prospero.
Che dire, invece, dell'ansia di Miranda? In fin dei conti, ciò che vediamo accadere in scena è che è lei a chiedere aiuto, ed è lei ad ottenerlo. Quello che ottiene, però, non è l’aiuto che ha richiesto. “If by your art, my dearest father, you
have / Put the wild waters in this roar, allay them” (I.ii.1-2), lo supplica
all’inizio. Prospero, invece, non muove un dito per calmare la tempesta. Tempesta sulla quale, peraltro, pare non avere un controllo completo: “But are they,
Ariel, safe?” (I.ii.218), chiederà ad Ariel quando Miranda già dorme. Procrastinare la soddisfazione delle richieste altrui è una modalità tipica di Prospero: la
possiamo osservare, per esempio, nel suo atteggiamento verso Ariel che chiede
la libertà, o quando ordina a Ferdinand di raccogliere la legna. Prospero stesso
ne è perfettamente consapevole e, ciò che più conta, lo fa per fini che si potrebbero definire terapeutici: “lest too light winning / Make the prize light”
(I.ii.454-5).
Con Miranda, Prospero adotta la medesima modalità, non solo riguardo alla
tempesta, ma anche alle stesse spiegazioni: “You have often / Begun to tell me
what I am, but stopped / And left me to a bootless inquisition, / Concluding
«Stay; not yet»”, si lamenta Miranda all’inizio; la fine del dialogo—“Here cease
more questions”—è però un ennesimo “not yet”. Perché questa ulteriore dilazione? Ancora una volta, dal punto di vista dell’asse esterno lo scopo è evidente: se i flashback sono necessari per comprensione della storia, un eccesso di anticipazioni sarebbe drammaticamente deleterio. C’è però una spiegazione anche
per quanto riguarda l'asse interno? Una lettura che renda giustizia alla verosimiglianza di questo pur bizzarro dialogo?
Propongo di partire da un’ipotesi semplice e ingenua, almeno rispetto a quella di Sundelson: la comunicazione apparentemente fàtica di Prospero—i suoi
“Dost thou hear?” e “Dost thou attend me?”—ha in realtà una funzione princi130
palmente conativa, ed è segno di irritazione. Prospero è irritato non tanto perché
Miranda non lo ascolta, quanto perché ciò che le sta dicendo pare non raggiungere l’effetto voluto. La stessa Miranda, confusamente consapevole della richiesta del padre, si affanna infatti a rassicurarlo: “I, not rememb’ring how I cried
out then, / Will cry it o’er again; it is a hint / That wrings mine eyes to ’t.”
Cosa vuole Prospero dalla figlia? Lasciando ora da parte gli scambi metacomunicativi, concentriamoci su ciò che le chiede sul piano del contenuto. La
prima domanda è: “Canst thou remember / A time before we came unto this
cell?” (I.ii.38-39). E, ancora: “By what? By any other house or person? / Of
anything the image tell me that / Hath kept with thy remembrance.” (I.ii.42-44).
Infine: “But how is it / That this lives in thy mind? What seest thou else / In the
dark backward and abyss of time?” (I.ii.48-50). Fatte da Prospero, queste domande non hanno, è evidente, scopo informativo: a differenza di noi spettatori,
Prospero sa benissimo come andarono le cose dodici anni prima, quando Miranda non aveva nemmeno tre anni. Il loro scopo sembra invece essere quello di
aiutare Miranda ad intraprendere un viaggio a ritroso nel buio abisso del passato. Un passato traumatico per entrambi, “me and thy crying self” (I.ii.132).
In fatto di eventi traumatici, è il caso di ricordarlo, Miranda è un’ottima
cliente: è perfino riuscita a elaborare il tentato stupro da parte di Caliban. Come
si scoprirà poco più avanti nella stessa scena, impietosita dalla condizione di
Caliban, Miranda si è impegnata in prima persona per aiutarlo. Ma una volta ricevuto un assaggio della sua vera natura—“thy vile race” (I.ii.360)—Miranda è
stata in grado di affrontare la realtà, senza opporre particolari resistenze psicologiche e senza rimanere invischiata nei sensi di colpa, al punto da rinfacciare a
Caliban che la condizione di schiavo è esattamente quella che si merita.
Le recenti letture in chiave postcoloniale e neostoricista di questo episodio,9
pur raffinate e apprezzabili, tendono a distoglierci da una constatazione abba-
9
Vedi P. BROWN, “'This Thing of Darkness I Acknowledge Mine': The Tempest and the
Discourse of Colonialism” (in Political Shakespeare: New Essays in Cultural Materialism, a cura di J. DOLLIMORE e A. SINFIELD, Ithaca, N.Y.: Cornell U.P., 1985, pp. 48-71) e
S. GREENBLATT, “Martial Law in the Land of Cockaigne” (in Shakespearean Negotiations, pp. 129-163).
131
stanza ovvia: c’è un evidente parallelismo in quanto è accaduto fra Miranda e
Caliban da una parte e fra Prospero e suo fratello Antonio dall’altra. Senza soffermarci, ora, ad analizzare le numerose affinità fra i due episodi, ci è qui sufficiente notare che si tratta di due eventi traumatici—di ingratitudine e violenza—ai danni di Prospero e Miranda.
Come abbiamo detto, Miranda è stata in grado di elaborare positivamente il
tentato stupro. Lo stesso non si può dire per l’altro episodio, e cioè il colpo di
stato di Antonio e l’abbandono di Prospero e Miranda sul vascello, episodio che
potremmo senza dubbio definire di tentato omicidio. In questo caso, Miranda
era troppo piccola per riuscire a elaborare consciamente quanto stava accadendo. L’episodio è stato così quasi completamente rimosso, e per dodici lunghi
anni Miranda è riuscita a tirare avanti senza sapere nulla della sua infanzia. Certo, la curiosità c’era, come si evince dalle battute iniziali del dialogo con il padre. Ma Prospero, come qualsiasi psicoanalista, sa bene che scavare in un passato traumatico non è una cura indolore: è fonte di grande sofferenza, un’impresa
da intraprendere solo quando è veramente necessario.
Con l’arrivo di Antonio nei pressi dell’isola, però, quel momento è giunto:
“’Tis time / I should inform thee farther”, come annuncia alla figlia. È ora che
Miranda affronti la realtà, che lasci affiorare alla coscienza quelle immagini—
“rather like a dream than an assurance” (I.ii.45)—che fino a quel momento ha
conservato nell’inconscio. Ed è soprattutto ora che, messa al corrente dei fatti,
capisca quanto anche in questo caso, come quando ha ridotto Caliban in
schiavitù, l’agire di suo padre sia giusto e condivisibile: come Antonio lasciò
loro in balìa del mare, ora Prospero lascia lui e i suoi compagni in balìa della
tempesta. Torniamo per un istante agli enunciati metacomunicativi di prima, e
consideriamoli, questa volta, inseriti nel loro immediato contesto verbale:
132
•
•
•
[...] Thy false uncle — Dost thou attend me? [...] Being once perfected
how to grant suits [...]
[...] now he [Antonio] was the ivy which had hid my princely trunk and
sucked my verdure out on ’t. Thou attend’st not! [...] I pray thee mark me.
[...] hence his [Antonio] ambition growing—Dost thou hear? [...] To have
no screen between this part he played And him he played it for, he needs
will be absolute Milan.
Ora, non c’è dubbio che le richieste d’attenzione di Prospero abbiano soprattutto lo scopo di tenere viva l’attenzione del pubblico. E forse, come propone
Sundelson, esprimono una richiesta di affetto e gratificazione da parte di Prospero. Credo però che, occorrendo tutte in prossimità di considerazioni sul malvagio fratello, abbiano anche la funzione di elicitare in Miranda sdegno e desiderio di vendetta, come viene reso esplicito in un'ulteriore domanda retorica:
“tell me / If this might be a brother” (I.ii.118).
In fondo, la trama di The Tempest è proprio quella di un “revenge romance”,
quindi non stiamo dicendo nulla di particolarmente strano o nuovo. Ciò che, per
i nostri scopi, e alla luce di quanto visto fino ad ora, mi sembra invece degno di
nota è che la strategia di Prospero si rivela un parziale insuccesso.
Fin dall’inizio, infatti, qualcosa sembra non andare per il verso giusto. Anzitutto, c’è il bizzarro fraintendimento che mette in dubbio la paternità di Prospero (I.ii.52-59). È un episodio che lascia perplessi: non è particolarmente comico,
non fornisce alcuna nuova informazione al pubblico e mette seriamente in pericolo la gravità, anche ritmica, dei versi di Prospero ("Twelve year since,
Miranda, twelve year since..."). Nella lettura di Sundelson, il fraintendimento
finisce proprio per gettare un’ombra di dubbio sull’effettiva paternità di Prospero: “Just as his own anxiety about impotence is projected onto a personified Milan, these half-suppressed doubts of his wife’s chastity are related to the imagery of his expulsion from the city [...]. The father and daughter flee together
from a rejecting wife and mother.”10 A noi può essere sufficiente osservare che
la reazione di Miranda è in qualche modo deviante: sposta, seppure per poco, il
fuoco del discorso e ne mina la solennità. Questa tendenza allo spostamento si
incontra anche, e più volte, nelle successive reazioni di Miranda, la quale, inve10
David Sundelson, “So Rare a Wonder’d Father: Prospero’s Tempest”, p. 36.
133
ce di rimanere indignata per il comportamento criminale dello zio, continua a
mettere in primo piano il suo essere stata di peso per il padre. Nell’unico caso in
cui, messa con le spalle al muro dal “tell me if this might be a brother” di Prospero, non può fare a meno di esprimere un'opinione al riguardo, lo fa in modo
sorprendentemente ambiguo:
I should sin
To think but nobly of my grandmother.
Good wombs have borne bad sons.
[1.ii.118-120]
Il padre le chiede un giudizio sullo zio, e lei risponde con una—fin troppo
cauta— litote sulla nonna e con una frase proverbiale che, essendo formulata al
plurale, rischia di gettare in cattiva luce Prospero stesso, che si ritrova accomunato all’odiato Antonio. In fin dei conti, con la tempesta che tanto ha turbato
Miranda, Prospero sta rendendo al fratello pan per focaccia: il plurale del proverbio non si può dire del tutto fuori luogo. Comunque sia, Prospero reagisce di
nuovo in modo piuttosto brusco (“Now the condition”, I.ii.120) e, soprattutto,
da questo momento in poi ben si guarda dal porre alla figlia ulteriori domande.
Meglio andare dritti allo scopo:
Hear a little further,
And then I’ll bring thee to the present business
Which now’s upon ’s, without the which this story
Were most impertinent.
[I.ii.135-138]
Miranda, però, continua a opporre resistenza e a sublimare la voglia di vendetta che Prospero pare determinato a far affiorare: il maggiore desiderio che la
storia sembra suscitare in lei è quello di conoscere il buon Gonzalo.
È solo al termine del racconto che Miranda, non sollecitata, rivela il motivo
della sua poca concentrazione:11
11
A questo proposito, si può osservare come sia possibile una lettura della dinamica della
conversazione "terapeutica" fra Prospero e Miranda anche in termini di transfert (da parte
di Miranda, che trasla su Prospero, responsabile della tempesta presente, anche la responsabilità dell'abbandono in mare durante l'infanzia) e controtransfert (la reazione di Prospero al transfert di Miranda).
134
And now I pray you, sir—
For still ’tis beating in my mind—your reason
For raising this sea-storm.
[I.ii.176-178]
La conversazione si chiude, così, in modo circolare: per tutta la sua durata, le
emozioni di Miranda non hanno mai abbandonato la scena della tempesta, e la
sua identificazione con i naufraghi—“O, I have suffered / With those that I saw
suffer!” (I.ii.5-6)—è rimasta pressoché intaccata. Prospero, che a questo punto
si è già alzato in piedi, risponde in modo piuttosto evasivo e le chiede di non fare altre domande. Pare rassegnarsi al fatto che la strategia analitica, basata sulla
rievocazione del passato, non ha funzionato. Dovrà ricorrere a un’altra strategia,
molto meno sofisticata ma già sperimentata e di sicuro successo. È giunto per
lui il momento di togliersi di dosso i panni del proto-analista e tornare a quelli,
nei quali si sente assai più a suo agio, di mago:
Here cease more questions.
Thou art inclined to sleep; ’tis a good dullness,
And give it way. I know thou canst not choose. (Miranda sleeps)
[I.ii.185-187]
Viene da domandarsi: che razza di intervento è mai questo? Per tentare una
risposta, vorrei proporre un’ultima analogia, fra l’arte di Prospero e uno strumento che risale agli albori della psicoanalisi: l’ipnosi. Da questo punto di vista,
quasi tutto il dramma, popolato com’è di visioni e di personaggi pronti a ubbidire incondizionatamente alle parole di Prospero, potrebbe essere letto come una
lunga suggestione ipnotica. Solo quasi, però. Non tutto il dramma. La conversazione discussa nelle pagine precedenti, per esempio, non rientrerebbe in quel
quasi. Così come non vi rientrerebbero i famosi versi dell’epilogo—“Now my
charms are all o’erthrown, / And what strength I have’s mine own, / Which is
most faint”—da sempre interpretati metaforicamente come l’addio di Shakespeare al teatro. Più in generale, però, l’epilogo può essere letto come la rinuncia
all’esercizio di un potere—artistico, magico o terapeutico che sia—in qualche
modo sentito come falso, disonesto, a vantaggio di un nuovo potere, magari
meno spettacolare ma più autentico.
135
Ora, è quantomeno curioso che una rinuncia di sapore straordinariamente
simile la si possa ritrovare in una delle lezioni di introduzione alla psicoanalisi
di Freud proprio a proposito dell’ipnosi, un’altra forma di “magia”:
Originariamente Breuer e io stesso abbiamo esercitato la psicoterapia con il
mezzo dell’ipnosi; la prima paziente di Breuer era stata curata esclusivamente sotto influsso ipnotico, e in un primo tempo anch’io seguii il metodo di Breuer. Confesso che il lavoro procedeva più facilmente e piacevolmente, oltre che in tempo
molto più breve; ma gli esiti erano capricciosi e instabili, perciò alla fine abbandonai l’ipnosi. Questo stato riusciva a sottrarre alla percezione del medico proprio
l’esistenza della resistenza. La respingeva indietro, sgombrando un certo campo
per il lavoro analitico e ammassandola ai confini di esso, col risultato che la resistenza diventava impenetrabile, più o meno come il dubbio della nevrosi ossessiva. Perciò potei anche affermare [in Per la storia del movimento psicoanalitico,
1914] che la psicoanalisi vera e propria ha avuto inizio con la rinuncia all'aiuto
dell'ipnosi.12
Come l’ipnosi per Freud, la magia permette al lavoro di Prospero di procedere in modo facile e piacevole. Quando si tratta di vincere la resistenza fisica di
Ferdinand, sono sufficienti poche parole—“Come on; obey. / Thy nerves are in
their infancy again, / And have no vigour in them.” (I.ii.486-488)—per farlo regredire allo stadio infantile.
Allo stesso modo, per vincere la resistenza psicologica di Miranda, un “Thou
art inclined to sleep” è certo più sbrigativo di qualsiasi evocazione del passato.
Ciò nonostante, Prospero decide di tentare un’altra soluzione. Perché? Il motivo
è in fondo lo stesso che, tre secoli dopo, lascerà perplesso Freud circa l'ipnosi:
L'esercizio della terapia ipnotica implica una prestazione irrilevante sia da parte del paziente che del medico. Questa terapia s'accorda perfettamente con la valutazione delle nevrosi che ancor oggi dà la maggior parte dei medici. Il medico dice
al nervoso: “Lei non ha nulla, è solo un fatto nervoso, e perciò sono in grado di liberarla dai suoi guai con due o tre parole in pochi minuti”. Ripugna però alla nostra mentalità energetica l’idea che sia possibile muovere con uno sforzo esiguo
un grosso peso, affrontandolo direttamente e senza l’aiuto esterno di strumenti adatti.”13
In altre parole, si arriva a un punto in cui diventa necessario rinunciare alla
magia, anche a costo di un parziale insuccesso, “lest too light winning / Make
12
S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, p. 265.
13
Sigmund Freud, cit., p. 405.
136
the prize light”. L’inizio della seconda scena del primo atto della tempesta è, in
questo senso, un primo tentativo, per quanto fallimentare, di rinuncia: intervenire su Miranda non con la suggestione ma riportando alla superficie un passato
rimosso. Non con l’ipnosi, ma con l’analisi.
Il comportamentismo: cambiare simulando
Acquisire consapevolezza del proprio passato non è l’unico modo per avviare un processo di cambiamento. In numerosi casi, per esempio, può essere sufficiente simulare una situazione diversa da quella che la realtà presenta. Una strategia d’intervento di questo tipo viene adottata dagli psicoterapeuti di orientamento comportamentista. Secondo Burrhus Frederic Skinner, il padre del behaviourismo, le emozioni non sono la causa del comportamento: ne sono piuttosto
la risposta involontaria. Poiché, però, un’emozione positiva tende a rafforzare il
comportamento che l’ha generata—e viceversa—può essere possibile intervenire sul comportamento agendo sull’emozione che esso genera, tipicamente con
un premio o una punizione. La differenza più evidente rispetto alla terapia
analitica è dunque che, secondo i comportamentisti, per modificare un
comportamento non è necessario indagarne le origini: può essere sufficiente
cambiarne le conseguenze. O, in altre parole, seguendo la terminologia di
Skinner, spezzare la correlazione fra stimolo e risposta.
Come fare, però, per modificare le conseguenze emotive di un dato comportamento? Di solito, è l’ambiente che ci circonda e la nostra esperienza personale
di esso a determinare se, in una certa situazione, è il caso di reagire con emozioni positive o negative. Se, per esempio, la reazione immediata di un bambino
che bagna il letto la notte è quella di provare piacere in conseguenza allo svuotamento della vescica, questo piacere può agire da rinforzo, e favorire
l’insorgere dell'enuresi. Come intervenire? Il classico metodo comportamentista
è quello di porre un rivelatore d’umidità sotto le lenzuola, un rivelatore che attivi una suoneria abbastanza potente da svegliare immediatamente il bambino. In
tal modo, alla piacevole sensazione di liberazione si sovrappone quella spiacevole del risveglio forzato. Se la terapia è sufficientemente lunga—e magari aiutata da un rinforzo positivo, cioè una forma di gratificazione, quando al mattino
137
il letto è ancora asciutto—la correlazione fra comportamento e emozione positiva potrebbe spezzarsi, portando così alla scomparsa dell’enuresi. Non è qui mia
intenzione esprimere un parere su una simile forma di terapia. Mi interessa invece sottolinearne due aspetti. Primo, non richiede alcuna indagine sui fattori
psicologici e relazionali che possono aver causato il sintomo (insicurezze affettive, bisogno di attenzione, volontà di tenere unita la famiglia, ecc.). Secondo,
l’intervento terapeutico si avvale di una temporanea finzione, una simulazione:
crea un “mondo alternativo” nel quale, quando facciamo pipì a letto, suona un
allarme che ci sveglia.
Cosa c’entra tutto ciò con il teatro di Shakespeare? Secondo Peter Murray,
l’autore di Shakespeare's Imagined Persons,
Shakespeare’s understanding is close enough to behaviorism that an analysis
employing radical behaviorism can illuminate his characters, showing how they
are imagined persons. Of course if Shakespeare’s characters are in any terms psychologically valid and Skinner’s system is valid, a Skinnerean analysis will illuminate the characters, and this may be seen as one way to state my thesis, but I
also think Shakespeare’s texts bear the distinctive marks of a behaviorist way of
thinking [...].14
Pur condividendo, almeno in parte, la tesi di Murray secondo la quale in
molte occasioni il comportamento dei personaggi di Shakespeare può essere
spiegato in termini comportamentisti, ciò che in questo capitolo vorrei trattare
riguarda un argomento molto più circoscritto: c’è qualche proto-terapeuta comportamentista, in Shakespeare? Come agisce? E, ancora, con quale successo?
Prima di tentare una risposta, prendiamo in considerazione un tipo di comportamento, potenzialmente patologico, un po’ più complesso dell’enuresi: il
“mal d'amore”. Come si potrebbe curare, in un’ottica comportamentista, un soggetto disperatamente innamorato? Anzitutto, considerando l’innamorarsi come
un comportamento. Più precisamente, un comportamento che, per quanto in apparenza possa condurre alla disperazione, in realtà produce conseguenze sufficientemente positive da rinforzarsi. Quali conseguenze? La più ovvia, certamente, è quella biologica: l’animale-uomo, nel periodo di massima fertilità, è incline
14
P.B. MURRAY, Shakespeare's Imagined Persons. The Psychology of Role-playing and Acting, p. 16.
138
a innamorarsi perché ciò aumenta la probabilità che si presentino occasioni
d’accoppiamento. Infatti, sempre restando sul solo piano biologico, un uomo
innamorato sembra offrire alla compagna maggiori garanzie come potenziale
padre, garanzie tanto più gradite in quanto i cuccioli della specie umana sono,
tra tutti i cuccioli, quelli che maggiormente necessitano di protezione e cure. In
altre parole, la risposta biologica all’innamoramento tende ad essere
l’accoppiamento. Pensare a un rinforzo più positivo di questo mi pare un compito arduo. D’altronde, nonostante l’abbondanza di esempi di innamorati non corrisposti che si incontrano in letteratura, è facile immaginare che se anche nella
vita reale fosse più frequente il fallimento amoroso degli innamorati che quello
degli indifferenti, il mestiere di fioraio sarebbe estinto da tempo.
Ma innamorarsi non produce solo conseguenze biologiche, come tutti ben
sappiamo o ricordiamo. Capita che—a volte? spesso?—l’innamorato trovi, o
pensi di trovare, corrispondenza. E allora, nelle parole di Barthes (e corsivo
mio), “[...] per un po’, anche se limitatamente, disordinatamente, qualcosa è andato per il verso giusto: sono stato appagato (tutti i miei desideri aboliti attraverso la pienezza del loro soddisfacimento): l’appagamento esiste, e io lotterò
senza tregua per ottenerlo di nuovo: attraverso tutti i meandri della storia amorosa, mi ostinerò a voler ritrovare, rinnovare, la contraddizione—la contrazione—dei due abbracci.”15 L’appagamento cui fa riferimento Barthes non è—non
è soltanto, perlomeno—l’accoppiamento: è la potenzialità dell’abbraccio, della
corrispondenza, appunto. Ed è un appagamento tale che “lotterò senza tregua
per ottenerlo di nuovo”. Il meccanismo del rinforzo è qui più evidente e più efficace che mai. Come inibirlo?
A dire il vero, più che come, verrebbe da chiedersi perché inibirlo:
l’innamoramento non è come l’enuresi, non è un fenomeno patologico. Oppure
lo è? Decidere cosa è patologico e cosa no, come ben ha illustrato Foucault a
proposito della follia,16 è un’operazione più che mai dipendente dal contesto—
storico, geografico, sociale o culturale che sia. Nel contesto che ci riguarda più
15
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, pp. 13-14.
16
M. Foucault, Histoire de la folie à l'àge classique.
139
da vicino, per esempio, cioè nei drammi di Shakespeare, l’innamorarsi—pur
quando potenzialmente corrisposto—è più volte definito come qualcosa da evitare a tutti i costi, se non proprio una manifestazione patologica da curare: basti
pensare a Much Ado About Nothing o a Love’s Labour’s Lost.
Il dramma in cui il comportamento amoroso è apparentemente più osteggiato
è senz’altro As You Like It, dove già nella seconda scena del primo atto Celia
mette in guardia Rosalind dai pericoli dell’amore:
Rosalind
From henceforth I will, coz, and devise sports.
Let me see, what think you of falling in love?
Celia
Marry, I prithee do, to make sport withal; but love
no man in good earnest, nor no further in sport neither
than with safety of a pure blush thou mayst in honour
come off again.
[I.ii.23-28]
Ovviamente, ammonimenti come quello di Celia—come del resto quelli nei
quali ci si imbatte in Much Ado About Nothing e in Love’s Labour’s Lost—sono
perlopiù ironici: la connotazione di scherzosa complicità che, perlomeno nelle
commedie, permea il discorso amoroso è tale da ribaltarne completamente il significato. Ci sono, è vero, alcune eccezioni, la più notevole delle quali è la caustica e niente affatto ironica riflessione di Rosalind sul morir d’amore: “these
are all lies. Men have died from time to time, and worms have eaten them, but
not for love” (IV.i.92-94). Ciò che, comunque, qui più ci interessa è che in entrambi i casi l’amore, almeno a livello letterale, tende a venire posto in relazione
con la patologia.
L’equazione più esplicita fra innamoramento e malattia la incontriamo nel
terzo atto di As You Like It, quando Rosalind-Ganymede e Orlando si incontrano per la prima volta da quando sono entrati nella foresta di Arden. A parte le
numerose traslazioni dal lessico medico dell’epoca—da “cast away my physic
but on those that are sick” alla “quotidian of love”—quella che propone Rosalind si configura come un’autentica sintomatologia del mal d’amore, intercalata
da un susseguirsi anaforico di osservazioni diagnostiche:
A lean cheek, which you have not; a blue eye and sunken, which you have not;
an unquestionable spirit, which you have not; a beard neglected, which you have
not [...] Then your hose should be ungartered, your bonnet unbanded, your sleeve
140
unbottoned, your shoe untied, and everything about you demonstrating a careless
desolation. But you are no such man.
Stando alla brillante diagnosi di Rosalind, se proprio Orlando è innamorato,
lo è di se stesso. Forse un po’ ipocondriaco, diremmo noi, ma comunque in grado di andarsene a casa sulle sue gambe. Poiché, però, Orlando non si rassegna—non
sarà
davvero
ipocondriaco?—e
continua
a
insistere
sull’insopportabile sofferenza che la sua condizione gli procura, l’arrendevole
dottor Ganymede-Rosalind decide di prenderlo sul serio e, di fronte allo scetticismo di Orlando (“Did you cure any so?”), gli snocciola nientemeno che la perla del proprio improvvisato curriculum professionale, con tanto di dettagli sul
metodo terapeutico da lei seguito. Tutto ciò fa naturalmente parte della tortuosissima—soprattutto se confrontata con l’impressionante rapidità con la quale si
concretizza l’amore fra Celia e Oliver—strategia di Rosalind per sedurre Orlando, ma la cura da lei proposta riveste per questo capitolo un interesse particolare, quindi vale la pena riportarla per esteso:
Orlando
Did you any cure any so?
Rosalind
Yes, one; and in this manner. He was to imagine me his love, his
mistress; and I set him every day to woo me. At which time would
I, being but a moonish youth, grieve, be effeminate, changeable,
longing and liking, proud, fantastical, apish, shallow, inconstant,
full of tears, full of smiles; for every passion something, and for
no passion truly anything, as boys and women are for the most
part cattle of this colour—would now like him, now loathe him;
then entertain him, then forswear him; now weep for him, then
spit at him, that I drave my suitor from his mad humour of love to
a living humour of madness, which was to forswear the full
stream of the world and to live in a nook merely monastic. And
thus I cured him, and this way will I take upon me to wash your
liver as clean as a sound sheep's heart, that there shall not be one
spot of love in 't.
Orlando
I would not be cured, youth.
Rosalind
I would cure you if you would but call me Rosalind and come
every day to my cot, and woo me.
[III.ii.391-411]
Chiamami Rosalind e corteggiami: di nuovo, viene spontaneo chiedersi che
razza di programma terapeutico sia mai questo. Prima di bollarlo troppo precipi-
141
tosamente come un semplice espediente drammatico atto a preparare il terreno
per le scene che seguiranno, però, può essere opportuno investigare se non abbia qualche affinità con pratiche terapeutiche del mondo reale. Certo, non ha
nulla a che spartire con la psicoanalisi. Ma se pensiamo, per esempio, ai metodi
che si ispirano allo psicodramma di Jacob L. Moreno, le affinità balzano subito
agli occhi: esattamente come avviene nello psicodramma moreniano, infatti, la
cura che Rosalind-Ganymede propone a Orlando si basa sull’espediente di fargli recitare il ruolo dell’innamorato. E di farlo in un contesto protetto, cioè in
una situazione nella quale tutti gli aspetti dell’essere innamorato—anche quelli
più nascosti, più negativi—possano essere esplorati senza rischio, in quanto la
controparte, l’io ausiliario, è il terapeuta.
Oscurato dalla vertiginosa alternanza di ruoli sessuali che il gioco di proposto da Rosalind implica (un attore maschio che interpreta un personaggio femminile travestito da uomo che gioca a recitare la parte di una donna), nelle letture di As You Like It l’aspetto potenzialmente terapeutico passa di solito in secondo piano.17 Ma ciò non può farci dimenticare che la finalità esplicita (non
quella implicita, ovviamente) della messa in scena di Rosalind è essenzialmente
terapeutica. Così come non possiamo ignorare che alla possibilità di influenzare
il comportamento umano tramite una rappresentazione teatrale faranno affidamento, pochi anni dopo Rosalind, l’Hamlet della “Mousetrap” e il Polonius della “nunnery scene”. In entrambi i casi, le modalità di base si fondano sulla tecnica comportamentista per eccellenza: ricreare artificialmente un certo contesto—e, dunque, determinati stimoli—per elicitare particolari emozioni e reazioni. “[To frighten] with false fire”, come riassume brillantemente Hamlet
(III.ii.254).
Ma la messa in scena di Rosalind, quella di Hamlet e quella di Polonius
hanno anche un altro punto in comune: tutte e tre si rivelano un fallimento. O,
perlomeno, sono assai poco efficaci. Polonius e Claudius non riusciranno a capire se interpretare il comportamento di Hamlet come dettato da amore non cor-
17
Cfr. J.E. HOWARD, “Crossdressing, The Theatre, and Gender Struggle in Early Modern
England”.
142
risposto per Ophelia o da altre cause:
King Claudius
Love? His affections do not that way tend... [III.i.165]
Polonius
But yet do I believe
The origin and commencement of this grief
Sprung from neglected love
[III.i.179-181]
Hamlet, a sua volta, pur garantendo che, dopo quanto ha visto, prenderà le
parole del fantasma per oro colato, non può fare a meno di cercare ulteriori conferme nelle impressioni di Horatio—“Didst perceive?... Upon the talk of the
pois’ning?”—e nel confronto diretto con Gertrude. Conferme che, vale la pena
notare, o non giungono o giungono in forma quantomeno implicita.
Tornando a Rosalind-Ganymede, anche lei, com’è ovvio, non riesce minimamente a scalfire l’ossessione amorosa di Orlando (benché, dobbiamo ammettere, è perlomeno capace di dissuaderlo dal devastare l’ambiente incidendo i
suoi versi zoppicanti sulla corteccia degli alberi...). Certo, il suo è un caso particolare, visto che non ha alcun desiderio di raggiungere i risultati prospettati al
paziente—un ipotetico “ordine degli psicologi della foresta di Arden”, da questo punto di vista, non esiterebbe un istante a radiarla dall’albo. Dobbiamo però
tenere presente che la differenza fra “insuccesso infelice” e “insuccesso felice”
è fortemente condizionata dalla differenza di genere drammatico: dal punto di
vista dell’efficacia, sia nella commedia di Rosalind sia nella tragedia di Hamlet
l’esito delle simulazioni è comunque un insuccesso.
Terapie strategiche brevi: cambiare con i paradossi18
Nelle sezioni precedenti abbiamo volutamente accostato due tecniche contemporanee di induzione del cambiamento—una di impronta psicoanalitica,
l’altra comportamentista—con altrettante modalità che si possono rinvenire nel
teatro di Shakespeare. In entrambi i casi, queste tecniche, sulla scena, sembrano
non funzionare. Ci occuperemo ora di una modalità che, invece, porta a un suc18
Una versione ridotta, e in inglese, della sezione che segue, appare come saggio autonomo,
dal titolo “Are Happy Families All Alike?”, in un volume di saggi su critica letteraria e terapia della famiglia curato da J.V. KNAPP e K. WOMACK, Reading the Family Dance, in
corso di stampa presso la Delaware University Press.
143
cesso talmente completo da risultare quasi imbarazzante. Poiché questa modalità mette in scena tecniche che hanno un riscontro diretto nella pratica della terapia familiare, la analizzeremo in maggior dettaglio di quanto non si sia fatto fino ad ora.
The Taming come “problem play”
Il “caso clinico” ci è offerto da un dramma piuttosto problematico: The Taming of the Shrew. Insieme a The Merchant of Venice, infatti, The Taming of the
Shrew è da molti considerato il vero “problem play” della nostra epoca: portando in scena il processo di sottomissione di una donna al proprio marito, questa
un tempo tranquilla commedia entra, ai nostri giorni, violentemente in conflitto
con le più radicate opinioni delle società occidentali in materia di discriminazione sessuale e ruolo della donna. In quanto spettatori e lettori eticamente consapevoli, nonché in quanto spettatrici e lettrici, troviamo difficile accettare che
Shakespeare possa aver scritto questo dramma con lo scopo di farci divertire alle spalle di un personaggio che non esiteremmo a definire una vittima. Non c’è
dunque da stupirsi innanzi ai numerosi tentativi, portati avanti da molti critici
contemporanei, di leggere The Taming in una prospettiva che possa consentire
di apprezzare il dramma senza sentirsi offesi, colpevoli, o comunque a disagio.
Quali letture, dunque? Anzitutto, interpretazioni in chiave ironica: la critica
femminista del dopoguerra, osserva Bretzius,19 ha fatto sempre più frequentemente ricorso all’apparente ironia di The Taming al fine di rendere esplicito il
discorso profondamente sovversivo che si cela nel dramma. E infatti abbiamo
letture che sottolineano come la storia di Katherina sia, da un punto di vista narratologico, una finzione di secondo livello20—una finzione nella finzione—e, di
conseguenza, che “Shakespeare tames the taming by making us see it through
the drunken, cozened eyes of a Cristopher Sly”.21 Secondo Karen Newman, per
19
S. BRETZIUS, Shakespeare in Theory: the Postmodern Academy and the Early Modern
Theater, p. 57.
20
J. DUSINBERRE, Shakespeare and the Nature of Women, p. 106.
21
Joel Fineman, “Fratricide and Cuckoldry: Shakespeare's Doubles”, in Schwartz and Kahn,
cit., p. 84.
144
esempio, “the foregrounded female protagonist of the action and her powerful
annexation of traditionally male discoursive domains distances us from that system by exposing and displaying its contradictions. Representation undermines
the ideology about women that the play presents and produces, both in the induction and in the Katherina/Petruchio plot: Sly disappears as lord, but Katherina keeps talking”.22
Oltre a queste letture “revisioniste”, c’è poi un gruppo di letture basate su
studi e analisi riguardanti la condizione femminile nel Rinascimento, studi e analisi che la critica femminista degli ultimi anni, raccogliendo l’appello di
Lynda Boose circa la necessità di teorizzare “a history that includes women”,23
ha notevolmente approfondito, rivelando aspetti sempre più sconcertanti in tema
di abusi e violenze sulle donne. In queste letture, si sottolinea la possibilità che
la rappresentazione di The Taming, agli albori del XVII secolo, potesse benissimo essere interpretata come un atto di denuncia implicita. Come scrive la stessa Boose, “ironically enough, if The Taming of the Shrew presents a problem to
male viewers, the problem lies in its representation of a male authority so successful that it nearly destabilizes the very discourse it so blatantly confirms”.24
Al fine di rendere più esplicita la potenzialità destabilizzante di un dramma come The Taming, le letture di questo tipo, applicando i metodi del new historicism e del cultural materialism, sono corredate di un’impressionante—in tutti i
sensi—documentazione storiografica, come gli elenchi dettagliati sui metodi e
gli strumenti di tortura usati nel Rinascimento per “domare” le bisbetiche in
carne ed ossa,25 o carteggi riguardanti l’applicazione di una pratica brutale quale
lo skimmington.26
22
K. NEWMAN, Fashioning Femininity and English Renaissance Drama, p. 42.
23
L.E. BOOSE, “The Family in Shakespeare Studies; or—Studies in the Family of Shakespeareans; or—The Polics of Politics”, p. 735.
24
L.E. BOOSE, “Scolding Brides and Bridling Scolds: Taming the Woman’s Unruly Member”, p. 179.
25
Ibid.
26
K. NEWMAN, Fashioning Femininity and English Renaissance Drama, p. 35.
145
Dietro lo specchio
Gli studi, perlopiù di orientamento femminista, ai quali ho brevemente accennato, oltre ad essere estremamente utili per la ricchezza della documentazione storiografica, offrono anche interpretazioni secondo me assai convincenti.
Vorrei però, a questo punto, proporre un modo piuttosto insolito—se non proprio originale—di guardare a The Taming, spostando cioè il centro del discorso
da Katherina alla suo sistema familiare. La maggior parte dei saggi che ho citato, infatti, sembrano concentrarsi principalmente su due soli aspetti del dramma:
il doppio livello di finzione e ciò che Boose chiama “Katherina’s selfdeposition”—cioè, la scena finale—mentre la vita di Katherina all’interno della
sua famiglia d’origine rimane costantemente relegata nell’ombra. Considerando
che uno fra gli obiettivi più importanti promossi, e raggiunti, dalla critica femminista degli ultimi decenni è stato quello di dare la giusta enfasi al ruolo giocato nel teatro di Shakespeare dalle strutture familiari,27 questa parziale omissione
mi pare un fenomeno piuttosto curioso. Probabilmente, una ragione che spieghi
questo disinteresse per la famiglia di origine di Katherina può essere quella
suggerita da Carol Neely, e cioè la “ricerca di modelli positivi”. Una ricerca
che, come la stessa Neely riconosce, può comportare alcuni rischi: “the heroines
tend to be viewed in a partial vacuum, unnaturally isolated from the rest of the
play [...]”.28
Ponendo l’accento più sulle interazioni che sugli individui, invece, un approccio basato sulla terapia familiare può offrire un valido antidoto al “vuoto
innaturale” menzionato da Neely. Inoltre, come spero di poter dimostrare con il
confronto che mi accingo a proporre, può anche contribuire a porre sotto una
nuova luce quello che è certo il tratto più “oltraggioso” dell’intero dramma—
vale a dire, il “taming” di Katherina. L’esperimento che propongo è dunque
quello di assumere la posizione doppiamente distaccata che il prologo sembra
27
Vedi C. KAHN, “The Providential Tempest and the Shakespearean Family”; L.E. BOOSE,
“The Father and Bride in Shakespeare”. PMLA, 3, 97, 1982, pp. 325-347.
28
C. NEELY, “Feminist Modes of Shakespearean Criticism: Compensatory, Justificatory,
Transformational” (citata in B. VICKERS, Appropriating Shakespeare. Contemporary
Critical Quarrels), p. 327.
146
implicare semplicemente come un invito ad astenersi da giudizi morali su quanto sta per accadere, e di prendere posto al fianco di Sly, come se fossimo coterapeuti o studenti di terapia familiare, dietro a quella cornice squisitamente teatrale che è lo specchio unidirezionale.
Ciò che sta per accadere, in effetti, dal punto di vista clinico suscita indubbiamente un certo interesse: “what Shakespeare seems to have been doing in
Shrew”, osserva Boose, “is conscientiously modelling a series of humane but effective methods for behavioral modification.”29 La parola chiave, qui, è “modification”, come lo stesso titolo del dramma sembra voler sottolineare: con il suo
gerundio, è l’unico titolo tra tutti i drammi di Shakespeare a porre esplicitamente al centro dell’attenzione non uno o più protagonisti, l’esito o il genere, bensì
un processo. Ma che tipo di modifica? Benché sembri una modifica del comportamento, non è raggiunta attraverso un approccio comportamentista (tipo quelli
descritti nella sezione precedente), e soprattutto non coinvolge la sola Katherina, ma l’intero suo sistema familiare. Osserviamo dunque che genere di famiglia
sta per fare la sua entrée al di là dello specchio.
I Minola: una famiglia in stallo
Entra Baptista con le sue due figliole. Le sue primissime parole sono per i
corteggiatori di Bianca, la più giovane fra le due:
Gentlemen, importune me no farther,
For how I firmly am resolved you know:
That is, not to bestow my youngest daughter
Before I have a husband for the elder.
[I.i.48-51]
Nonostante la sua brevità, questo brano ci offre una notevole quantità di informazioni. Per cominciare con una constatazione ovvia, possiamo notare la distanza storica fra la nostra società e quella di Baptista. Primo, nel mondo di
Baptista si suppone che i padri abbiano il diritto di concedere—o di trattenere—
la mano delle proprie figlie quando qualcuno la chiede. Secondo, questo diritto
è tranquillamente riconosciuto dagli stessi pretendenti, i quali che non si op-
29
L. BOOSE, “Scolding Brides and Bridling Scolds”, p. 198.
147
pongono. Terzo, le figlie più vecchie devono sposarsi prima delle minori. Considerando queste banali differenze di prospettiva, è però importante capire
quanto ampiamente fossero condivise: mentre sappiamo con certezza che c’è
stato un tempo nel quale le prime due regole erano pressoché universalmente riconosciute (anche se, come abbiamo visto nel primo capitolo, all’epoca di Shakespeare le cose erano già notevolmente cambiate), la terza è un po’ più idiosincratica. In effetti, come i dialoghi che seguono confermeranno, l’insistere sul
voler far sposare Katherina per prima sembra essere dettato più da un desiderio
personale di Baptista che da un’inviolabile regola sociale.
In ogni caso, se davvero è questo il suo desiderio, sembrano esserci ben poche probabilità che possa venir soddisfatto: i due corteggiatori preferirebbero
morire più che sposare Katherina. E la stessa Katherina pare tutt’altro che contenta per la decisione del padre:
I pray you, sir, is it your will
To make a stale of me amongst these mates?
[I.i.57-8]
Dietro al nostro specchio unidirezionale, ancora non abbiamo un’idea chiara
della posizione di Katherina—sappiamo soltanto che Gremio la considera “too
rough”, e che suo padre non darà il permesso alla sorella di sposarsi se prima
non lo fa lei. Perciò, invece di imporre una qualsiasi interpretazione su quel che
dice, suggerisco di osservare attentamente le sue primissime parole e di tentare
qualche ipotesi di lavoro preliminare. Al livello della struttura della comunicazione,30 possiamo notare che la domanda retorica di Katherina, benché si riferisca a Gremio e Hortensio, è diretta al padre. Se la sua ipotesi è corretta, la volontà di Baptista sarebbe quella di “make a stale of her among those mates”.
Mentre ‘mates’ si riferisce certamente a Gremio e a Hortensio, cosa intende Katherina con ‘stale’? La maggior parte degli interpreti31 propende per il significato di ‘decoy bird’, uccello da esca: quindi, metaforicamente, o una persona usata
come esca per intrappolare qualcuno, o una prostituta, o uno zimbello (‘laugh30
Sul “livello della struttura della comunicazione”, vedi P. WATZLAWICK, J.B. BAVELAS e
D.D. JACKSON, Pragmatics of Human Communication, sezione 3.3.
31
Vedi le note nell’edizione Arden a cura di B. MORRIS, pp. 174-175.
148
ing-stock’). In questo senso, Katherina sarebbe il piccione che Baptista usa per
distrarre i due falchi corteggiatori dal più prezioso uccello Bianca. Se le cose
stanno così, potremmo chiederci perché mai Baptista voglia tenere Bianca lontana dai suoi corteggiatori e, soprattutto, come possa confidare di avere una
qualche speranza di successo, visto che né Gremio né Hortensio sembrano avere
intenzione di lasciarsi distrarre da Katherina.
C’è, comunque, almeno un’altra possibile ipotesi. Al tempo di Shakespeare,
‘stale’ aveva anche il significato di ‘stallo’ (‘stalemate’),32 soprattutto quando
usato in coppia con ‘mate’. In effetti, Hortensio non capisce per qual motivo
Katherina abbia definito lui e Gremio ‘mates’—“mates’, maid? How mean you
that?” (I.i.59). Egli suppone che Katherina volesse intendere “husbands”. Ma
Katherina potrebbe aver voluto dire tutt’altro: come in una partita a scacchi,
Baptista, vedendo che sta per subire uno scacco matto—cioè, è in procinto di
cedere la figlia minore—sta usando Katherina per arrivare a uno stallo, una situazione bloccata nella quale nessuno dei giocatori può vincere.
Benché anche questa ipotesi non sia in grado di spiegare l’avversione di
Baptista all’idea di cedere Bianca, possiamo osservare che essa descrive in modo abbastanza accurato ciò che sta avvenendo nel dramma, per lo meno fino alla
fine del primo atto: a) Gremio e Hortensio—come del resto Lucentio—vogliono
sposare Bianca; b) per riuscirci, hanno bisogno dell’approvazione di Baptista; c)
Baptista non sarà d’accordo fino a che uno di loro non accetterà di sposare Katherina; ma d) nessuno di loro è disposto a fare questo. Tenendo a mente queste
due ipotesi—Katherina come “zimbello”, o come “agente bloccante”—e la domanda ancora aperta sui moventi di Baptista, proseguiamo oltre, e andiamo a fare la conoscenza di Bianca, la sorella minore.
Baptista
Gentlemen, that I may soon make good
What I have said—Bianca, get you in.
And let it not displease thee, good Bianca,
For I will love thee ne’er the less, my girl.
Katherine A pretty peat! It is best
Put finger in the eye, an she knew why.
32
Vedi O.E.D., “stale”, def. 6, e la nota nell’edizione Arden citata.
149
Bianca
Sister, content you in my discontent.
[To Baptista] Sir, to your pleasure humbly I subscribe.
My books and instruments shall be my company,
On them to look and practise by myself.
[I.i.74-83]
Ognuno dei personaggi di questo breve e vivace quadretto familiare sembra
impaziente di mettere in atto il suo personalissimo show: Baptista mostra tenerezza per la sua figlia più giovane, Katherina mostra gelosia e risentimento,
Bianca mostra saggezza e rispetto per il padre.
Sto qui usando il verbo ‘mostrare’, al posto del verbo ‘essere’, di proposito:
come avvertono gli autori di Paradosso e contro paradosso, quando ci si accinge a descrivere le interazioni familiari “l’uso del verbo essere” ci condanna “a
pensare secondo il modello lineare, a fare punteggiature arbitrarie, [...] a postulare il momento causale perdendoci nei meandri di infinite ipotesi esplicative”,33
impedendoci così di tenere a mente che i giochi familiari sono appunto giochi,
nel senso che si basano tanto sulla personalità di ognuno dei singoli membri
quanto su un insieme di regole condivise. Se, per esempio, decidessimo di definire Katherina come una donna che è bisbetica—come certo sembra essere—
saremmo probabilmente indotti a tentare di giustificarla, o a ridere alle sue spalle una volta che è stata “addomesticata”. Se, al contrario, ci limitiamo a osservare che mostra di essere bisbetica, la prima domanda che ci porremo sarà perché—o, meglio ancora, a che scopo.34
Volendo indagare lo scopo di un comportamento, pare ragionevole iniziare
con l’osservarne gli effetti. Quali sono, dunque, gli effetti del quadretto di prima? La dimostrazione di tenerezza da parte di Baptista obbliga letteralmente
Bianca a ubbidire umilmente ai suoi desideri, cioè, a entrare in casa e starsene
lontana dai suoi spasimanti. Al tempo stesso, provoca l’accesso di gelosia di
Katherina. Inizialmente, a dire il vero, questo è diretto soltanto verso sua sorella, ma nei versi successivi Katherina diventa un po' più esplicita: “Why, and I
trust I may go too, may I not? What, shall I be appointed hours, as though, belike, I knew not what to take and what to leave? Ha?” (I.i.102-4). Riassumendo,
33
M. SELVINI PALAZZOLI et al., Paradosso e controparadosso, p.36.
34
P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p. 45.
150
le parole di Baptista aiutano a stabilire—o meglio a rafforzare—un’alleanza intrafamiliare: Baptista e Bianca contro Katherina.
Il profilo di questa alleanza è del tutto evidente nella reazione di Katherina:
con il suo attacco, conferma la sorella minore nel ruolo di vittima, il padre in
quello di difensore, e se stessa in quello che i terapeuti della famiglia chiamano
paziente designato (“identified patient”)—il membro, cioè, che nell’opinione
dei familiari ha bisogno di cambiare, di migliorare, di essere curato.
In effetti, per gli standard della cultura rinascimentale, il comportamento di
Katherina è socialmente così inaccettabile che, alla fine, qualcuno dovrà per
forza intervenire. Al tempo stesso, è importante sottolineare che il suo comportamento non sembra essere congenito, quanto piuttosto parte di una complessa
strategia. Una strategia, come abbiamo già cominciato a vedere, alla quale ogni
membro della famiglia offre il proprio contributo. Aggiungerei anche che, nella
sua situazione attuale, Katherina non sembra particolarmente felice, anzi:
l’impressione che dà è quella di una persona che sta soffrendo. Magari questa
constatazione può apparire ovvia, eppure molti critici sembrano dimenticarla
completamente quando giungono ad analizzare la scena conclusiva del dramma.
Lasciamo ora per un istante da parte Katherina, per dare un’occhiata agli effetti della sobria reazione di Bianca. Per farlo, dobbiamo seguire la triade
all’interno della loro casa. Il secondo atto comincia mostrandoci Bianca che,
con le mani legate, implora Katherina di liberarla (II.i.1-7). È una scena alquanto bizzarra: stanno semplicemente giocando? Chissà. In ogni caso, anche se il
loro fosse semplicemente un gioco tra ragazze, non possiamo fare a meno di coglierne la fin troppo evidente implicazione simbolica: Bianca ha le mani legate
sia letteralmente che metaforicamente—cioè, nessuno può chiedere la sua mano—a causa del caratteraccio della sorella. A dire il vero, questa fuorviante
spiegazione causa-effetto è una conseguenza del modo indiretto di comunicare
di Baptista: come i corteggiatori di Bianca ben sanno, in realtà è Baptista che
sta tenendo legate le mani di Bianca, ma poiché non lo dice mai esplicitamente,
l’impressione è che la guastafeste sia Katherina.
Questa lettura simbolica sembra essere confermata dalle parole della stessa
Katherina, la quale immediatamente stabilisce un nesso tra la strana scena
151
d’apertura e i corteggiatori di Bianca: “Of all thy suitors here I charge thee tell /
Whom thou lov’st best. See thou dissemble not” (II.i.8-9). In ogni caso, quale
che sia la nostra ipotesi sulla lite tra Katherina e Bianca, certo non è soltanto un
gioco innocente. Come i versi successivi rivelano, la posta in ballo è nientemeno che i sentimenti più profondi di Katherina:
Bianca
Believe me, sister, of all the men alive
I never yet beheld that special face
Which I could fancy more than any other.
Katherine Minion, thou liest. Is ’t not Hortensio?
Bianca
If you affect him, sister, here I swear
I’ll plead for you myself but you shall have him.
Katherine O then, belike you fancy riches more.
You will have Gremio to keep you fair.
Bianca
Is it for him you do envy me so?
Nay, then, you jest, and now I well perceive
You have but jested with me all this while.
I prithee, sister Katherina, untie my hands.
Katherine (strikes her) If that be jest, then all the rest was so. [II.i.10-22]
Se mai ne abbiamo dubitato, questa sequenza incredibilmente mimetica—
che Watzlawick definirebbe escalation complementare35—dovrebbe convincerci una volta per tutte che la rudezza di Katherina nei confronti degli uomini non
è soltanto una questione di carattere: come Bianca ha perfettamente intuito, Katherina la invidia, e accetterebbe ben volentieri uno scambio di ruoli. Ma quel
che Bianca sembra non aver indovinato è per l’affetto di chi Katherina la invidia così disperatamente. Ovviamente, né per quello di Hortensio né per quello
di Gremio. Dev’essere qualcuno che, per lei, conta assai di più:
(Enter Baptista)
35
Baptista
Why, how now, dame, whence grows this insolence?
Bianca, stand aside.—Poor girl, she weeps.—
Go ply thy needle, meddle not with her.
(To Katherine) For shame, thou hilding of a devilish spirit,
Why dost thou wrong her that did ne’er wrong thee?
When did she cross thee with a bitter word?
Katherine
Her silence flouts me, and I’ll be revenged.
Vedi P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, pp. 107-8.
152
(She flies after Bianca)
Baptista
What, in my sight? Bianca, get thee in.
(Exit Bianca)
Katherine
What, will you not suffer me? Nay, now I see
She is your treasure, she must have a husband.
I must dance barefoot on her wedding day,
And for your love to her lead apes in hell.
Talk not to me. I will go sit and weep
Till I can find occasion of revenge.
(Exit)
Baptista
Was ever gentleman thus grieved as I?
[II.i.23-37]
Katherina non potrebbe aver descritto la sua condizione in modo più esplicito: Bianca è la preferita non solo dei corteggiatori, ma anche di suo padre, la
persona del cui affetto Katherina mostra di avere più disperatamente bisogno.
Inoltre, nel suo scatto di rabbia, diventa persino capace di riconoscere e di verbalizzare il modo in cui il comportamento di Bianca la tormenta: attraverso il silenzio, cioè attraverso il suo comportamento eccessivamente rispettoso, da vittima sacrificale. Bianca, la “poor girl” che conosce “so well her duty to her elders” e che non ha mai “fatto nulla di male”, interpreta quel ruolo che, in terapia
familiare, si è soliti definire “provocatore passivo”.36
Giunti a questo punto, possiamo osservare che, benché risulterebbe estremamente difficile indovinare cosa accadrà, è abbastanza semplice descrivere
come accadrà fra Baptista, Bianca e Katherina.37 Cerchiamo perciò di riassumere le nostre ipotesi in una provvisoria cornice di riferimento: la famiglia Mìnola
è intrappolata in un processo omeostatico, una situazione di stallo nella quale
ogni mossa possibile sembra finire sempre nello stesso ineluttabile loop; e, ciò
che è più importante, ogni membro della famiglia contribuisce ad alimentare
questo processo. Il programma di Baptista, per esempio, è ben illustrato da Hortensio:
36
Vedi M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, p. 173: “[È arduo] definire il provocatore passivo: è facile scambiarlo per una vittima, chiuso com’è là nel suo
angolino in fondo alla scacchiera dallo schieramento delle pedine dell’avversario. Ma è
nella sua imperturbabilità (tic-tac, avanti e indietro, sempre la stessa mossa) che possiamo
scorgere il suo peculiare potere di provocazione.”
37
Cfr. P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p. 185.
153
He hath the jewel of my life in hold,
His youngest daughter, beautiful Bianca,
And her withholds from me and other more,
Suitors to her and rivals in my love,
Supposing it a thing impossible,
For those defects I have before rehearsed,
That ever Katherina will be wooed.
Therefore this order hath Baptista ta’en:
That none shall have access unto Bianca
Till Katherine the curst have got a husband.
[I.ii.117-126]
Potremmo ora tornare a chiederci perché, benché persuaso dell’impossibilità
di trovare una via d’uscita, Baptista persista nell’imporre una simile condizione.
Se però confrontiamo il suo comportamento con quello di tanti altri padri di famiglie monoparentali shakespeariane (Lear, Shylock, Brabantio, e Antiochus,
per esempio), la sua volontà di trattenere Bianca si rivela tutt’altro che originale: i padri soli, per lo meno in Shakespeare, non hanno alcuna intenzione di rinunciare all’affetto della loro figlia preferita o unica. Persino quando sono abbastanza saggi da rassegnarsi, come nel caso di Prospero o di Simonides, sembrano provare una sorta di piacere perverso nel sollevare le difficoltà più assurde e, per quanto scherzose possano essere le intenzioni, nel sottoporre i futuri
generi ai test più mortificanti.38 A questo proposito, vale la pena osservare come
nella famiglia di Lear—che strutturalmente è la più simile a quella di Baptista,
poiché in entrambe ci sono due o più figlie—Goneril e Regan, le figlie maggiori, mostrino un comportamento disfunzionale non tanto diverso da quello di Katherina, per non dire delle notevoli affinità fra il “she’s your treasure” di Katherina e il “He always loved our sister most” (LrF, I.i.290) di Goneril. Insomma,
Baptista sembra proprio essere invischiato nel doppio legame che affligge la
maggior parte dei padri shakespeariani: vogliono la felicità delle loro figlie predilette, ma non possono accettare l’idea di lasciarle andare. Il comportamento di
Katherina si adegua a questo scopo paradossale in modo perfetto.
E Bianca? La sua è una posizione difficilmente invidiabile: se essere la figlia
preferita può sembrare gratificante, comporta però un’enorme mole di responsabilità. È un ruolo, il suo, che richiede sia moderazione sia abilità strategica:
38
Vedi L. BOOSE, , “The Father and Bride in Shakespeare”, p. 340.
154
non può disubbidire al padre ma, al tempo stesso, non può accontentarsi per
sempre di “musica, strumenti e poesia”. La sua unica possibilità è imparare molto rapidamente come agire in modo indiretto.39 Perciò anche il suo ruolo di provocatore passivo non va considerato un sintomo di innata malizia, ma piuttosto
come la parte a lei assegnata entro l’insieme di regole della famiglia Minola—
perlomeno fino a che The Taming rimane una commedia (se mai dovesse risolversi in tragedia, conoscendo la sorte di personaggi come Cordelia è abbastanza
facile supporre a quali mutamenti potrebbe andare incontro la strategia di Bianca). Non abbiamo, dunque, alcun motivo di stupirci per la scaltrezza del suo
“despair not” (III.i.40-43) in risposta alla serrata corte di Lucentio.
Infine, abbiamo Katherina, il paziente designato. In apparenza, il suo stallo
personale è abbastanza semplice da spiegare. Da una parte, se si sposa se ne deve andare, perdendo così ogni speranza di guadagnarsi l’affetto del padre. Inoltre, andarsene vorrebbe anche dire perdere il controllo su Bianca e Baptista i
quali, una volta liberati dalla sua fastidiosa presenza, potrebbero finalmente intendersela l’un l’altro—“to commune”, è il verbo che usa Baptista (I.i.101)—
senza impedimenti. D’altra parte, restando e comportandosi come fa, sa perfettamente che non si guadagnerà comunque il favore del padre. In realtà, il gioco
potrebbe essere più complesso: consciamente o meno, l’intrattabile Katherina è
indirettamente utile alla strategia segreta di Baptista. Da un punto di vista sistemico il suo sintomo non soltanto è funzionale all’omeostasi dell’intera famiglia, ma è anche potenzialmente gratificante per la stessa Katherina. Incapace di
39
Sui rapporti diadici fra sorelle e le preferenze genitoriali, vedi F.J. SULLOWAY, Born To
Rebel. Birth Order, Family Dynamics, and Creative Lives. Secondo Sulloway, la “nicchia
della ribellione” è in genere occupata dai secondogeniti. Ma, “among sister dyads, some
firstborns are distinctly non conforming, whereas some laterborns are distinctly conforming. These findings are restricted to pairs of sisters in two-child sibships” (p. 149). Questo
tipo di anomalia, ben esemplificato dalle sorelle Minola, è legato alle interazioni fra “nicchie familiari” e genere sessuale, nel senso che i primogeniti tendono anche ad assumere
una posizione “mascolina”. Inoltre, scrive Sulloway, “absence of parental favor causes
most offspring to adopt laterborn strategies” (p. 355), e questo pare essere ciò che accade
nel caso di Katherina. A Bianca, benché naturalmente “nata per ribellarsi” (come infine
mostrerà, una volta liberatasi dai vincoli familiari), è perciò concessa solo una forma indiretta—“sly”—di ribellione.
155
ottenere l’amore del padre, tenendo Bianca lontana da potenziali mariti Katherina può almeno sperare di diventarne la complice segreta.
Se le cose stanno davvero così, però, si tratta di un gioco troppo pericoloso
per andare avanti a lungo. Come Katherina sta cominciando ad intuire, prima o
poi Bianca riuscirà comunque a sposarsi, e lei si ritroverà condannata “to lead
apes in hell” fino alla fine dei suoi giorni. E tutto ciò non sarà sufficiente a convincere Baptista a cambiare le sue preferenze. I terapeuti della Scuola di Milano
hanno dato alle alleanze—o, più precisamente, coalizioni—segrete come questa
fra Katherina e Baptista il nome di imbroglio,40 e hanno illustrato il modo in cui
l’inevitabile processo di disillusione che vi fa seguito possa degenerare in particolari forme di psicosi. Ora, benché sia altamente improbabile che patologie
come la schizofrenia o l’anoressia potessero annidarsi nella mente di una giovane donna elisabettiana, certo non mancavano altre più o meno gravi “malattie”
mentali e, soprattutto, sociali tra le quali scegliere. Baptista ha dunque tutte le
ragioni per domandarsi se “was ever gentleman thus grieved”: come ha minacciato, Katherina comincerà a isolarsi sempre più—“go sit and weep”—fino a
che non troverà la sua “occasion of revenge”. E quale miglior vendetta che il fare continuare tutto in questo modo all’infinito? Nemmeno Hamlet sarebbe capace di concepirne una altrettanto devastante.
L’ingresso in scena del dottor Petruchio e Milton H. Erickson
Come si è detto all’inizio di questo capitolo, un aspetto peculiare delle letture orientate psicologicamente è che possono sfruttare solo in parte il sistema cui
fanno riferimento: si devono per forza di cose limitare all’impianto teorico,
mentre la pratica terapeutica non può che essere accantonata. In altre parole, se
The Taming dovesse diventare una tragedia—una “revenge tragedy”, come Katherina sembra fantasticare—non ci sarebbe modo di evitarlo. Ma The Taming
deve essere una commedia: come fare, allora, per districare in modo persuasivo
la situazione pericolosamente invischiata dei Mìnola?
40
M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, cap. 5.
156
Con una soluzione quanto mai appropriata, tramite l’entrata in scena di Petruchio il terapeuta lo mette a disposizione lo stesso Shakespeare. A dire il vero,
il modo in cui Petruchio “addomestica” Katherina è di solito interpretato più
come una forma di addestramento che di terapia: Katherina è “addomesticata”
alla vita matrimoniale nel modo in cui un falco selvatico viene addestrato alla
caccia.41 Questa analogia, per quanto possa offendere la nostra sensibilità, è
chiaramente presente e continuamente sfruttata nel corso dell’intera opera, sia a
livello lessicale che metaforico. È però un’analogia che non tiene conto della
condizione iniziale dei due termini di confronto: mentre un falcone, prima di essere addestrato, è presumibilmente più libero e possibilmente più felice che dopo, Katherina, come abbiamo visto, parte da una situazione iniziale così dolorosa che il suo addomesticamento può persino essere letto come una sorta di salvataggio.42 Da questo punto di vista, il nucleo centrale dell’opera—il “taming”—è la storia di come Petruchio, una persona fuori dal sistema, riesce a tagliare i nodi intricati del gioco della famiglia Mìnola. Ciò che proporrò nelle
pagine che seguono è un confronto fra i tratti terapeutici dell’intervento di Petruchio e le altrettanto bizzarre tecniche di uno dei maestri della terapia strategica: Milton H. Erickson.
“Strategic therapy”, scrive Jay Haley in Uncommon Therapy: The Psychiatric Techniques of Milton H. Erickson, “is not a particular approach or theory but
a name for those types of therapy where the therapist takes responsibility for directly influencing people”.43 In altre parole, mentre secondo la psicologia dinamica il cambiamento è innescato principalmente dalla presa di coscienza del paziente, il terapeuta strategico non fa affidamento sull’esplorazione del sé e
sull’insight. Il caso di Ruth, narrato dallo stesso Erickson in My Voice Will Go
with You, è in questo senso emblematico:
41
Cfr. B. MORRIS (a cura di), The Taming of the Shrew, p. 125.
42
Vedi H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 29.
43
J. HALEY, Uncommon Therapy. The Psychiatric Techniques of Milton H. Erickson, p. 17.
157
At Worcester Hospital, the superintendent remarked one day, “I wish somebody could find some way of handling Ruth.”
I inquired about Ruth, a very pretty, petite twelve-year-old girl, very winning
in her ways. You couldn’t help liking her. She was so nice in her behavior. And all
the nurses warned every new nurse who come to work there, “Keep away from
Ruth. She’ll tear your dress; break your arm or your foot!”
The new nurses didn’t believe that of sweet, winsome twelve-year-old Ruth.
And Ruth would beg the new nurse, “Oh, would you please bring me an ice-cream
cone and some candy from the store?”
The nurse would do it and Ruth would accept the candy and thank the nurse
very sweetly, and with a single karate chop break the nurse’s arm, or rip her dress
off, or kick her in the shins, or jump on her foot. Standard, routine behavior for
Ruth. Ruth enjoyed it. She also liked to tear the plaster off the walls periodically.
I told the superintendent I had an idea, and asked if I could handle the case. He
listened to my ideas and said, “I think that will work, and I know just the nurse
who’ll be glad to help you.”44
Erickson non chiede al sovrintendente il motivo del comportamento di Ruth.
Semplicemente, ha un’idea, e vuole provare a metterla in pratica. Consideriamo
ora la prima reazione di Petruchio alla presentazione di Katherina che gli fa
Hortensio:
Hortensio, peace. Thou know’st not gold’s effect.
Tell me her father’s name and ’tis enough,
For I will board her though she chide as loud
As thunder when the clouds in autumn crack.
[I.ii.92-95]
Anche in questo caso non c’è alcun segno di interesse per i motivi che possono aver portato Katherina a essere così intrattabile. Petruchio vuole una donna che sia abbastanza ricca per essere sua moglie: per quanto bisbetica, sarà in
grado di risolvere il caso. In che modo? Come Gremio correttamente prevede,
“he’ll rail in his rope-tricks” (I.ii.110). “Rope-tricks”, in questo contesto, è
un’espressione piuttosto ambigua: può essere una corruzione di Gremio per
“rhetorics”, ma può anche significare qualcosa che ha a che fare con una gestualità scherzosa. O entrambe le soluzioni, mi verrebbe da suggerire: la strategia di
Petruchio, come quella di Erickson, si basa tanto sull’uso metaforico quanto su
quello performativo del linguaggio—si basa, cioè, sia sulle parole che
sull’azione, come ora vedremo.
44
S. ROSEN (a cura di), My Voice Will Go with You. The Teaching Tales of Milton H. Erickson, M.D., pp. 229-230.
158
La prima delle loro tecniche ha a che vedere con il timing. La terapia strategica, per essere efficace, non deve mai durare troppo a lungo—di solito dai cinque ai dieci incontri—e dovrebbe essere piuttosto diretta. “You want therapy,
you want it fast, you’re getting desperate”, scrive Erickson riportando alcune
battute del primo incontro con una cliente, “Do you want me to give it to you in
my way? Do you think you can take it? Because I can give it to you rapidly,
thoroughly, effectively, but it will be a rather shocking experience”.45
L’intervista preliminare di Petruchio con Baptista è altrettanto diretta:
Petruchio And you, good sir. Pray, have you not a daughter
Called Katherina, fair and virtuous?
Baptista
I have a daughter, sir, called Katherina.
Gremio
You are too blunt. Go to it orderly.
Petruchio You wrong me, Signor Gremio. Give me leave.
[…]
Signor Baptista, my business asketh haste,
And every day I cannot come to woo.
[II.i.42-115]
Fin dall’inizio, Petruchio mette in chiaro che il suo corteggiamento sarà piuttosto diverso dal pattern tradizionale. Non procederà per gradi, “orderly”. Se
non proprio una “uncommon therapy”, come minimo il suo intervento promette
di essere un corteggiamento abbastanza fuori dal comune. Perciò, quando Baptista prova a opporre resistenza (“But for my daughter Katherina, this I know, /
She is not for your turn”, II.i.62-63), non mi affretterei ad interpretare la risposta di Petruchio come se fosse dettata semplicemente dall’umiltà che la situazione richiede: se le mie ipotesi precedenti sono corrette, il suo “I see you do
not mean to part with her” (II.i.64) potrebbe essere assai più appropriato di
quanto Baptista non pretenda (“Mistake me not”, II.i.66).
Per di più, una volta che i termini del matrimonio sono già stabiliti, per
quanto in apparenza impaziente di liberarsi di Katherina, Baptista solleva un ulteriore ostacolo: “Ay, when the special thing is well obtain’d, / That is, her love,
for that is all in all” (II.i.128-129). Ora, non è stupefacente che proprio nel più
45
J. HALEY, Uncommon Therapy, p. 91.
159
smaccatamente patriarcale fra i drammi di Shakespeare ci si vada ad imbattere
in un padre così desideroso di rispettare l’autonomia decisionale della figlia?
Pur rimanendo favorevolmente colpito dal suo apprezzabile sfoggio di sensibilità, non posso fare a meno di chiedermi se la considerazione di Baptista per i desideri di Katherina non nasconda anche una certa angoscia: se Katherina se ne
va, Bianca potrà finalmente sposarsi, lasciandolo così completamente solo. In
ogni caso, Petruchio sembra non condividere affatto le perplessità di Baptista—
“For I am rough and woo not like a babe” (II.i.137)—e Baptista non può fare altro che acconsentire al suo desiderio di scambiare qualche parola con
l’intrattabile Katherina (“have some chat with her”, II.i.162).
Il primo colloquio tra Katherina e Petruchio—un centinaio di versi di dialogo brillante e ininterrotto—mette in scena quanto Petruchio già aveva anticipato: l’incontro fra “two raging fires” (II.i.132). La strategia di questo colloquio è
già pianificata:
I'll attend her here,
And woo her with some spirit when she comes.
Say that she rail, why then I'll tell her plain
She sings as sweetly as a nightingale.
Say that she frown, I'll say she looks as clear
As morning roses newly washed with dew.
Say she be mute and will not speak a word,
Then I'll commend her volubility,
And say she uttereth piercing eloquence.
If she do bid me pack, I'll give her thanks
As though she bid me stay by her a week.
If she deny to wed, I'll crave the day
When I shall ask the banns, and when be married.
But here she comes, and now, Petruccio, speak.
[II.i.169-181]
Prima di soffermarci sulle caratteristiche terapeutiche del programma di Petruchio, può essere opportuno riprendere in mano il caso di Ruth: quale tattica
aveva in mente Erickson per affrontare con successo l’intrattabile ragazzina?
One day I got a call. “Ruth is on a binge again.” I went to the ward. Ruth had
torn the plaster off the wall. I tore off the bed clothes. I helped her destroy the bed.
I helped her break windows. I had spoken to the hospital engineer before going to
the ward; it was cold weather. Then I suggested, “Ruth, let’s pull that steam register away from the wall and twist off the pipe.” And so I sat down on the floor and
we tugged away. We broke the register off the pipe.
160
I looked around the room and said, “There’s nothing more we can do here.
Let’s go to another room.”
And Ruth said, “Are you sure you ought to do this, Dr. Erickson?”
I said, “Sure, it’s fun, isn’t it? I think it is.”
As we walked down the corridor to another room there was a nurse standing in
the corridor. As we came abreast of her, I stepped over and ripped her uniform and
her slip off so she stood in her panties and bra.
And Ruth said, “Dr. Erickson, you shouldn’t do a thing like that.” She rushed
into the room and got the torn bedsheets, and wrapped them around the nurse.
She was a good girl after that.46 (230-231)
Potremmo chiederci come definire questo tipo di intervento: terapia, “taming”, o che altro? Ma ciò che più ci dovrebbe interessare è un altro aspetto:
come funziona? Forse Peter—uno dei fedeli servitori di Petruchio—una risposta
l’avrebbe: “he kills her in her own humour” (IV.i.167). Ma se siamo alla ricerca
di una razionalizzazione un po’ meno concisa della “logica” che sta dietro a simili cambiamenti comportamentali, ci conviene rivolgerci a Watzlawick: “If
one person wants to influence another person’s behavior, there are basically
only two ways of doing it. The first consists of trying to make the other behave
differently. This approach [...] fails with symptoms because the patient has no
deliberate control over this behavior. The other approach consists in making
him behave as he is already behaving”.47 Questa seconda tecnica, nota come
“prescrizione del sintomo”, è l’intervento basilare di tutti i trattamenti fondati
sull’uso terapeutico dei paradossi. Diversamente da quanto avviene in una classica terapia comportamentista, qui il cliente, invece di essere “punito” se mantiene il comportamento sintomatico e “premiato” se l’abbandona, è invitato a
non cambiare. Quindi la prescrizione del sintomo, invece di spezzare il legame
tra comportamento e rinforzo, mina alla base le motivazioni profonde del comportamento sintomatico: come ribellarsi, infatti, contro qualcuno che ci ordina
di ribellarci senza incorrere in un paradosso?
Ciò che accade nel primo incontro tra Katherina e Petruchio è, da questo
punto di vista, una sorta di terapia paradossale. Per cominciare, l’occasione
stessa dell’incontro obbliga Katherina a ridefinire drasticamente la propria iden46
S. ROSEN (a cura di), My Voice Will Go with You, pp. 230-1.
47
P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p. 237.
161
tità. Per la prima volta da quando è entrata in scena, a Katherina non è più concesso di limitasi al semplice ruolo di ostacolo tra Bianca e i suoi spasimanti:
l’oggetto del desiderio, ora, è proprio lei. Secondo, Petruchio non adotta il linguaggio dell’amore cortese. Con apparente disappunto di lei, per esempio, Petruchio la chiama ‘Kate’ (II.i.185). E subito dopo si unisce a lei nel suo esuberante ricorso a catene metaforiche oscene e giochi di parole. In questo modo, egli non solo stabilisce una differenza tra sé e gli altri corteggiatori, ma conferma
anche il linguaggio di lei—e il suo comportamento—come appropriato.48 Infine,
affermando di trovarla “passing gentle” (II.i.236), “pleasant, gamesome, passing
courteous / But slow in speech” (II.i.239-240), Petruchio finisce indirettamente
per prescrivere a Katherina proprio il suo sintomo: in altre parole la invita ad
essere un po’ più bisbetica di quanto già non sia. Infatti, benché il suo discorso
sia di solito interpretato semplicemente come ironico, il suo effetto performativo diventa evidente nella reazione di Katherina: se può essere vero che fino a
questo punto “it is Kate who gets the best of her suitor”,49 da questo momento in
poi lei sembra essere sempre più confusa.
Abituata com’è a sentirsi ordinare di essere “più carina”—dal padre, dalla
sorella, da Hortensio, da Gremio, insomma da chiunque—ora non sa più cosa
replicare. Inizialmente, cerca di porre fine a questa sempre più pericolosa conversazione (“Go, fool, and whom thou keep’s command”, II.i.251). Poi, pur mascherandola con un po’ d’ironia, comincia a provare una sorta d’ammirazione
per questo suo strano spasimante (“Where did you study all this goodly
speech?”, II.i.256). Alla fine, persino suo padre non può fare a meno di notare
che qualcosa è cambiato: “Why, how now, daughter Katherine? In your
dumps?” (II.i.277), le chiede infatti Baptista. L’espressione che egli usa, “to be
in one’s own dumps”, significa trovarsi in uno stato confusionale, e implica
48
In un contesto terapeutico, comunicare con il linguaggio del paziente richiede un’abilità
straordinaria, ma è un’abilità che a volte può diventare cruciale per l’esito della terapia
stessa. Per un esempio stupefacente del modo in cui Erickson riusciva a sfruttare la sua
capacità di parlare il linguaggio del paziente a fini terapeutici, vedi J. HALEY, Uncommon
Therapy, pp. 120-121.
49
K. NEWMAN, Fashioning Femininity and English Renaissance Drama, p. 43.
162
perplessità, stupore, disorientamento.50 Non esattamente la reazione che ci saremmo aspettati dalla “sharp-tongued” Katherina.
Però, per superare la fase di stallo, tutto ciò non è ancora sufficiente. Occorre
qualcosa di più. Infatti, nonostante l’abilità di Petruchio, Katherina è ancora
lungi dall’essere convinta: come ripete Gremio, “she says she’ll see thee hang’d
first” (II.i.293). A questo punto, qualsiasi spasimante ragionevole probabilmente si arrenderebbe. Invischiata com’è nel “gioco senza fine” della sua famiglia,
ogni consiglio fondato sulla ragionevolezza—come quello di Hortensio, “No
mates for you / Unless you were of gentler, milder mould” (I.i.59-60), per esempio—risulterebbe pateticamente inefficace. Ma Petruchio, come già abbiamo avuto modo di constatare, non è uno spasimante ragionevole, e sa fin troppo
bene come districare un simile groviglio. Facendo ricorso a un classico espediente della comunicazione paradossale, dà scacco matto in appena due versi:
‘Tis bargain’d ‘twixt us twain, being alone
That she shall still be curst in company.
[II.i.297-298]
Si tratta di una mossa sorprendente, il cui nome tecnico, nel linguaggio della
terapia familiare, è “controparadosso”. Una mossa il cui effetto è di coinvolgere
Katherina in un nuovo tipo di “gioco senza fine”: se lei dovesse negare
l’accordo, infatti, l’effetto che otterrebbe non sarebbe altro che quello di confermarlo.51 Per quanto possa sembrarci nient’altro che un trucco da quattro sol50
Vedi O.E.D., alla voce “dumps”, def. 1-2.
51
Il concetto di “gioco senza fine” è illustrato in dettaglio in P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, pp. 232-3: “To begin with a highly theoretical example,
imagine the following. Two persons decide to play a game consisting of the substitution of
negation for affirmation and vice versa in everything they communicate each other. Thus
‘yes’ becomes ‘no’, ‘I don’t want’ means ‘I want’, and so forth. It can be seen that this
coding of their message is a semantic convention and similar to the myriad other conventions used by two people sharing a common language. It is not immediately evident, however, that once this game is under way the players cannot easily revert to their former
‘normal’ mode of communication. In keeping with the rule of inversion of meaning, the
message ‘Let’s stop playing’ means ‘Let’s continue.’ To stop the game it would be necessary to step outside the game and communicate about it. Such a message would clearly
have to be constructed as a metamessage, but whatever qualifier were tried for this purpose would itself be subject to the rule of inversion of meaning and would therefore be
useless. The message ‘Let’s stop playing’ is undecidable, for (1) it is meaningful both at
the object level (as part of the game) and on the metalevel (as a message about the game);
163
di, il punto di svolta della commedia si fonda esattamente su questo paradosso
pragmatico. Katherina e suo padre, come del resto tutti gli altri personaggi in
scena, rimangono letteralmente senza parole—“I know not what to say”
(II.i.311), balbetta Baptista—e le nozze possono finalmente essere annunciate.
Il giorno delle nozze è ricco di suspense: lo sposo è in ritardo, e nessuno sa
con certezza se arriverà o no. Essendo una situazione di incertezza condivisa, ci
offre un osservatorio privilegiato per analizzare come i vari personaggi reagiscono sotto pressione. L’effetto più spettacolare del ritardo di Petruchio è, senza
ombra di dubbio, quello di mettere Baptista finalmente in grado di mostrare il
suo affetto per Katherina:
Go, girl, I cannot blame thee now to weep,
For such an injury would vex a saint,
Much more a shrew of thy impatient humour.
[III.ii.27-29]
Mai aveva avuto prima parole altrettanto gentili per sua figlia.
Ma non è il solo a mostrare un atteggiamento inedito. Quando Petruchio riesce infine a presentarsi alle nozze, la sua unica preoccupazione è per Katherina:
But where is Kate? Where is my lovely bride?
[III.ii.90]
But where is Kate? I stay too long from her.
[III.ii.108]
But what a fool am I to chat with you,
When I should bid good morrow to my bride,
And seal the title with a lovely kiss.
[III.ii.119-121]
Possiamo interpretare queste parole come espressione di autentico amore?
Non lo so. Per lo meno, hanno l’effetto di porre Katherina al centro
dell’attenzione, e non più come la bisbetica di prima, bensì come la donna amata. Per riassumere, l’effetto generale di questa strana cerimonia è che i pregiudizi di ciascuno vengono completamente rimessi in discussione: come dice Gremio, “Such a mad marriage never was before” (III.ii.180). Lo stesso sconcerto
che le modalità delle nozze provocano può essere considerato, a tutti gli effetti,
(2) the two meanings are contradictory; and (3) the peculiar nature of the game does not
provide for a procedure that would enable the players to decide on the one or the other
meaning. This undecidability makes it impossible for them to stop the game once it is under way. Such situations we label games without end.”
164
come parte di un processo terapeutico, poiché è proprio quando le cose cominciano ad essere come “non si sono mai viste prima” che le persone hanno
l’opportunità di iniziare a mettere in dubbio le proprie più radicate convinzioni
e di svilupparne di nuove. Finchè tutti sono confusi, i processi omeostatici sono
sospesi, e il cambiamento può andare avanti.
Non appena le nozze hanno termine, Petruchio intraprende il passo più importante della sua strategia, cioè portare Katherina lontano dalla famiglia. Intraprende questo passo con brutalità sconcertante—almeno secondo i nostri standard. Al tempo stesso, però, pone la massima attenzione nel dirigere la sua veemenza verso chiunque eccetto che verso Katherina. Benché sia proprio lei
l’unica che oppone apertamente una qualche resistenza, infatti, Petruchio impone la sua volontà solo sugli altri, e lo fa attraverso un’ulteriore varietà di paradosso: una ingiunzione paradossale. Minacciandoli con le parole: “Touch her
whoever dare!” (III.ii.231), egli ordina loro di non fare ciò che non hanno alcuna intenzione di fare. Ancora una volta, l’effetto principale del suo comportamento è di portare Katherina all’attenzione di tutti: ora non solo ha un marito,
ma un marito pronto a combattere per lei.
Quel che accade nel quarto atto, con il trasferimento nella casa di campagna
di Petruchio, è talmente brutale e bizzarro che stabilire una qualsiasi analogia
fra l’agire di Petruchio e un qualsiasi tipo di trattamento terapeutico potrebbe
sembrare un passo arrischiato. Lo stesso Harold Bloom, pur definendolo una terapia (“cure”), ne attenua prudentemente la portata sia tramite l’uso delle virgolette sia con l’aggiunta dell’aggettivo “phantasmagoric”.52 Ciò nonostante, se ripensiamo al caso di Ruth, le affinità fra la strategia di Erickson e quella di Petruchio diventano cospicue. Per esempio, il modo in cui Petruchio si avvale della complicità dei suoi servi è esattamente identico al modo in cui in cui Erickson e l’infermiera collaborano: entrambi, cioè, fanno ricorso al comportamento sintomatico dei loro “pazienti”, amplificandolo al punto che sia a Ruth sia a
Katherina non è lasciata altra scelta se non quella di assumere la posizione opposta—vale a dire di comportarsi in modo “normale”. Il “Dr. Erickson, you
52
H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 31.
165
shouldn’t do a thing like that” di Ruth sembra così echeggiare il “Patience, I
pray you, ‘twas a fault unwilling” (VI.i.143) di Katherina innanzi ai maltrattamenti inflitti da Petruchio al suo servo. E persino la disumana tattica di ridurre
alla fame non è completamente aliena alla psicoterapia strategica—non a quella
di Erickson, perlomeno. Haley riporta un caso nel quale la madre di Joe, un
bambino di otto anni gravemente disturbato, attenendosi rigorosamente alle dettagliate istruzioni che Erickson le ha impartito, se n’è stata seduta con tutto il
suo peso sopra il figlio per più di sei ore, a leggersi un libro:
With the chapter finally finished, the mother got up and so did Joe. He timidly
asked for something to eat. His mother explained in laborious detail that it was too
late for lunch, that breakfast was always eaten before lunch, and that it was too
late to serve breakfast. [...] Unfortunately, he had missed his breakfast, therefore
he had to miss his lunch. Now he would have to miss his dinner, but fortunately he
could begin a new day the next morning.53
Petruchio, allo stesso modo, sta ben attento a non stabilire alcun collegamento esplicito tra la sua volontà e il lasciare Katherina affamata—così come con
nessuna delle altre privazioni che le tocca subire. La sua “way to kill a wife with
kindness” (IV.i.195), infatti, altro non è che un modo per inaugurare una relazione complementare con Katherina, prevenendo al tempo stesso l’escalation
simmetrica che finirebbe altrimenti per innescarsi a causa del “mad and headstrong humour” (IV.1.196) di lei. Da un punto di vista rigorosamente etico, tutto
questo è per noi ovviamente inaccettabile: perché deve essere Katherina quella
che si deve rassegnare alla posizione di one-down? Occorre però anche dire che
la strategia paradossale di Petruchio ha per lo meno un notevole vantaggio relazionale: autorizza Katherina ad illudersi che la battaglia che sta perdendo non è
contro il marito, ma contro un nemico esterno—sia esso la sfortuna, il fato, o un
assurdo insieme di regole. Detto altrimenti, permette a Katherina di sottomettersi mantenendo quel minimo di dignità che la sua ingiusta società consente alle
donne. Non a caso, l’esibizione in pubblico della sua posizione di one-down
comincia fin da subito a portarle qualche beneficio: persino Hortensio è ora di-
53
J. HALEY, Uncommon Therapy, pp. 215-216.
166
sposto a prendere le sue parti: “Signor Petruchio, fie! You are to blame / Come,
Mistress Kate, I’ll bear you company” (IV.iii.48-49).
Infine, ecco l’ultimo intervento, che a mio parere è anche il più sorprendente:
Petruchio
Good Lord, how bright and goodly shines the moon!
Katherine
The moon? The sun! It is not moonlight now.
Petruchio
I say it is the moon that shines so bright.
Katherine
I know it is the sun that shines so bright.
Petruchio
Now, by my mother's son, and that's myself
It shall be moon, or star, or what I list
Or e’re I journey to your father's house.
[IV.v.2-8]
Perché mai costringere Katherina a chiamare il sole ‘luna’? Questo sembra
veramente un tentativo di condizionamento gratuito e intollerabile, un intervento che, almeno potenzialmente, potrebbe portarla alla pazzia. C’è però da considerare che tutto ciò succede in una circostanza estremamente delicata: mentre
stanno dirigendosi verso la casa di Baptista—quando, cioè, la “nuova” Katherina sta per essere riportata nel suo vecchio ambiente per la prima volta dopo le
nozze, in un momento in cui la sua relazione con Petruchio è ancora assai precaria.
Ma consideriamo con attenzione lo scambio di battute. Il fatto che la stella a
noi più vicina si chiami ‘sole’, come ci insegna Saussure, è piuttosto arbitrario.
Più precisamente, è una delle tante convenzioni sociali di quella stessa società
per la quale Petruchio, l’uomo che si è sposato indossando “unreverent robes”,
ha mostrato di non avere alcun riguardo neppure durante le nozze—quella stessa società che, come Boose ha brillantemente mostrato, non avrebbe avuto la
benché minima esitazione a issare Katherina su un “cucking-stool” per esporla
al pubblico ludibrio.54 A queste convenzioni sociali, Petruchio vuole opporre le
sue convenzioni personali, e pretende che la moglie le condivida, così che essi
possano entrare in casa di Baptista non come due individui ma come una coppia
unita. Al tempo stesso, l’apparente accettazione da parte di Katherina delle stravaganze del marito non sembra tanto un indice di subalternità, quanto il segno
54
Vedi L. BOOSE, “Scolding Brides and Bridling Scolds”, pp. 185-6.
167
che ha finalmente trovato il modo per trattare con lui. E infatti il loro paradossale scambio di battute culmina con il sole che viene chiamato ‘sole’—non ‘luna’:
Katherine
Forward, I pray, since we have come so far,
And be it moon, or sun, or what you please.
And if you please to call it a rush-candle,
Henceforth I vow it shall be so for me.
Petruchio
I say it is the moon.
Katherine
I know it is the moon.
Petruchio
Nay then you lie, it is the blessed sun.
Katherine
Then, God be blessed, it is the blessed sun. [IV.v.12-18]
È qui fondamentale sottolineare che, benché il sole sia di nuovo il ‘sole’, la
loro litigata è stata tutt’altro che inutile: ha portato a un nuovo tipo di sole. Non
più quello di Petruchio, o di Katherina, o della società—bensì il sole della loro
neonata famiglia. È precisamente attraverso processi come questo della negoziazione dei significati che le coppie, poco alla volta, diventano famiglie—e, se
possibile, famiglie felici. Ognuna a suo modo.
Cos’è accaduto, dunque? Petruchio ha provato a se stesso di avere il potere
di prendere decisioni su tutto. Al tempo stesso, Katherina ha scoperto che “farlo
comportare come già si sta comportando” è un ottimo modo per fargli decidere
ciò che lei vuole. Ed è proprio questo il motivo per il quale non mi persuadono
le letture che finiscono per proclamare o Petruchio o Katherina “vincitore della
contesa”: la loro negoziazione non è un gioco a somma zero, e il risultato è un
successo per entrambi i contendenti. Se volessimo proprio trovare un vincitore,
l’unico candidato possibile mi sembra essere la loro vita coniugale:
Katherine Husband, let’s follow to see the end of this ado.
Petruchio First kiss me, Kate, and we will.
Katherine What, in the midst of the street?
Petruchio What, art thou ashamed of me?
Katherine No, sir, God forbid; but ashamed to kiss.
Petruchio Why, then, let’s home again. Come, sirrah, let’s away.
Katherine Nay, I will give thee a kiss. Now pray thee, love, stay.
Petruchio Is not this well? Come, my sweet Kate.
Better once than never, for never too late.
168
[V.i.130-138]
Qui, Katherina ha perfino deciso di tornare a rivolgersi a Petruchio usando la
forma “thee”—che aveva abbandonato subito dopo le nozze.55 Come non essere
d’accordo con Bloom quando afferma che “there is no more charming a scene
of married love in all Shakespeare”56?
La seduta sta volgendo al termine. Prima di abbandonare il nostro posto dietro lo specchio unidirezionale, ci viene offerta un’ultima interazione: la controversa scena della “self-deposition” di Katherina—il suo innumerevoli volte citato “place your hands below your husband’s foot” (V.ii.178). È, questo suo atteggiamento, da interpretarsi nel senso del vecchio detto “the operation was a
success, but the patient died”57? In altre parole, la “guarigione” le è costata
l’identità, come sia la critica femminista di stampo neostoricista sia le letture
“non-revisioniste” sembrano implicare? O dovremo forse leggere le sue ultime
parole in senso ironico, come invece suggeriscono i “revisionisti”?58 Penso esista una terza possibilità. Benché l’identità Katherina non sia mai stata tanto vitale quanto in quest’ultimo scorcio di dramma, il tropo appropriato, qui, non è
l’ironia. Le sue parole non sono né vere né false: sono strategiche. Il loro significato, cioè, non va cercato al livello del contenuto—ciò che dicono—ma al livello della relazione—ciò che fanno. E cosa fanno? Le permettono di ottenere
55
Vale la pena notare che il modo in cui Shakespeare fa di volta in volta usare a Katherina la
forma arcaica e quella moderna del pronome personale di seconda persona è quanto mai
sottile. Prima del matrimonio, Katherina si rivolge a Petruchio sia con il “you” sia, quando
è alterata, con la forma “thou/thee” (per esempio: “Where did you study all this goodly
speech” vs “Go, fool, and whom thou keep’st command”). Subito dopo le nozze, però,
l’unica forma da lei usata nei suoi confronti è “you” (“Patience, I pray you...”, IV.i.142; “I
pray you, husband...”, IV.i.154; “I dare assure you, sir, ...”, 4.3.186). Ma, una volta a Padova, ritorna ad usare la forma “thee”, perlomeno quando si trovano a quattr’occhi. Ora,
poiché si era soliti usare la forma “th-” tanto per convogliare disprezzo quanto intimità,
specialmente se in opposizione alla forma “you”, (vedi J. MULHOLLAND, “‘Thou’ and
‘You’ in Shakespeare: a study in the second person pronoun”, pp. 34-43), ci sarebbero sufficienti elementi per interpretare il doppio passaggio di Katherina come un ulteriore sintomo dell’evoluzione del suo atteggiamento nei confronti di Petruchio: dal disprezzo alla
sottomissione, e dalla sottomissione alla complicità.
56
H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 32.
57
Citato in P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p. 135.
58
Per un confronto fra “revisionists” e “non-revisionists” nella storia della critica di The
Taming, vedi S. BRETZIUS, Shakespeare in Theory, p. 59.
169
finalmente vendetta sul padre: ora è lei la figlia favorita—“For she is chang’d,
as she had never been” (V.ii.117)—ma non ha più bisogno del suo amore. Questo è un risultato che non sarebbe spiegabile se considerassimo The Taming un
sadico processo di “behavioral modification”, come vorrebbe Boose,59 ma non
si tratta nemmeno di semplice—per quanto sottile— opportunismo, come sembra invece suggerire Bloom.60 Se consideriamo l’evolversi dei fatti da un punto
di vista sistemico—cioè osservando l’intera rete di relazioni, e non solo i singoli
personaggi—ciò che è cambiato non è dentro Katherina, bensì fuori: nella sua
nuova famiglia, essere bisbetici non serve più ad alcuno scopo—non è più un
sintomo funzionale.
Vorrei concludere sottolineando un’ultima affinità fra quanto accade al termine della commedia e le dinamiche tipiche dei sistemi umani. In un dramma
teatrale, come nella vita reale, il cambiamento in un membro della famiglia implica necessariamente un cambiamento da parte di tutti gli altri membri. Bianca,
lungi dall’essere l’insipida sorella che Bloom pretende ella sia,61 una volta liberatasi dalla responsabilità di essere la figlia favorita diventa finalmente capace
di affermare i propri diritti in modo esplicito. E persino lo stesso Baptista, le cui
preoccupazioni principali altro non erano che il denaro e Bianca, ora che non è
più “thus grieved”, sembra essere più felice che mai di pagare le ventimila corone della scommessa e di invecchiare in solitudine.
59
L. BOOSE, “Scolding Brides and Bridling Scolds”, cit., p. 198.
60
H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 33.
61
Ibid., p. 29.
170
Capitolo quinto
La disgregazione di una coppia
When a married couple reach the middle years of marriage,
their difficulties have often become habitual patterns. Sometimes the children are involved in their struggles, but often the
presenting complaint is an acknowledge marital problem. A
typical issue offered at this time is a power struggle between
husband and wife over who should be the dominant one in the
marriage. It is in the nature of all learning animals that they organize in a hierarchy, and a continual question in marriage can
be who is first and who is second in the hierarchy of a marital relationship. Some couples manage flexibility on this issue; at
times and in some areas the wife is dominant, at other times or
in other areas the husband is, and in many situations they function as peers. A marriage in difficulty is usually one where the
couple is able to function only in one way and there is discontent
with that way. Sometimes, too, one of the spouses makes paradoxical demands on the other. Often a wife wants her husband to
be more dominating—but she’d like him to dominate her the
way she tells him to.1
JAY HALEY
Quando un terapeuta si accinge a seguire un caso, se viene a sapere che in
passato il cliente ha già chiesto aiuto altrove, ne terrà debitamente conto, perlomeno per tentare di offrire una soluzione diversa. Lo stesso vale allorché ci si
trovi ad affrontare una coppia di coniugi letterari. Inizieremo dunque con un
brevissimo accenno a qualche “precedente anamnestico”.
In analisi
I nostri due coniugi entrarono per la prima volta in terapia nel 1916. Trattandosi nientemeno che del re e della regina di Scozia, si rivolsero al migliore ana-
1
J. HALEY, Uncommon Therapy, p. 223.
lista sulla piazza. Il luminare comprese al volo che si trattava di un caso disperato, se non altro perché entrambi i clienti erano deceduti da parecchi secoli. Il
marito, ucciso in battaglia. La moglie, suicida. Ciò nonostante, l’analista non si
perse d’animo. Con l’attenzione e la passione che sempre riservava a tutti i casi
nei quali gli capitava di imbattersi, decise che valeva comunque la pena di tentare di capire cosa era accaduto. Il materiale a disposizione non si poteva certo
dire abbondante o affidabile—una storia inverosimile di streghe e di spettri,
qualche battuta qua e là fra i due coniugi, una breve sequenza ai confini con il
sogno—ma altro non c’era. Alla fine, giunse ad avanzare l’ipotesi che il dramma della sfortunata coppia fosse probabilmente da imputarsi all’assenza di figli.
Con rara onestà intellettuale, non mancò però di rilevare che quella conclusione
lo lasciava alquanto perplesso: “Ma quali che siano questi motivi, che in così
breve tempo fanno di un uomo ambizioso e pieno di incertezze un tiranno sfrenato e della sua istigatrice dal cuore d’acciaio una donna malata e tormentata
dai rimorsi, non si può secondo me indovinare”.2 Il caso rimaneva dunque insoluto.
Caso e analisi sono rispettivamente il Macbeth di Shakespeare e la lettura
che ne fa Freud in un breve saggio del 1916 sull’origine della nevrosi, genialmente intitolato “Coloro che soccombono al successo”. Da allora, incoraggiate
sia dal potente fascino dei personaggi e della vicenda sia dalla conclusione
aperta di Freud, le letture psicoanalitiche di Macbeth non sono certo mancate.
Tra le numerose chiavi d’interpretazione adottate, le due principali sono quelle
che considerano Macbeth l’una un dramma edipico3 e l’altra un dramma intrapsichico.4 Entrambe le direzioni erano già state additate, in forma più o meno e2
S. FREUD, “Coloro che soccombono al successo”, 1916, in S. FREUD, Opere, p. 642.
3
Vedi J. KROHN, “Addressing the oedipal dilemma in Macbeth”, p. 334: “Understanding
Macbeth as a drama about the ultimate oedipal crime of patricide rests partly on a view of
Duncan as “father”, and partly on a specific view of Lady Macbeth in her relationship with
Macbeth, namely a view of Lady Macbeth, as experienced by Macbeth, as a mother-wife.
The oedipal theme is thus played out in the triangle of Macbeth, Duncan, and Lady Macbeth.”
4
Vedi J. GROËN, “Women in Shakespeare with particular reference to Lady Macbeth”, p.
475: “Turning to the psychoanalytic interest in Lady Macbeth, we find that analysts have
also continued to ponder over the enigmatic side of this figure. Ludwig Jekels, in particu-
172
splicita, nel saggio di Freud. Ed entrambe comportano la necessità di una lettura
a livello simbolico: da una parte, nel dramma non c’è traccia della madre di Macbeth; dall’altra, Macbeth e Lady Macbeth, sebbene uniti da comuni ambizioni
e da un solido vincolo matrimoniale, sono a tutti gli effetti due persone—per
quanto dramatis personae—diverse.
Nella maggior parte delle interpretazioni psicoanalitiche, infine, la sterilità
della coppia sembra essere considerata un dato di fatto, proprio come voleva
Freud. Ma anche quest’ultima assunzione implica, se non una lettura simbolica,
perlomeno una supposizione, poiché il dramma lascia aperta anche la seppur
remota possibilità che qualche figlio ci sia.5 Curiosamente, invece, tende ad essere messa in secondo piano, se non proprio omessa, l’osservazione principale
di Freud: i due, ma in particolar modo Lady Macbeth, soccombono all’apice del
successo, proprio quando quella che sembrerebbe essere la loro massima ambizione—la corona—è soddisfatta. E di chi soccombe al successo, Freud scrive
che “si ha davvero l’impressione che costoro non siano in grado di sopportare la
loro felicità, dal momento che la connessione causale fra successo e malattia risulta inequivocabile”.6
Dagli individui al sistema
Proporrò ora una lettura del dramma dei coniugi Macbeth in chiave sistemico-relazionale. È una lettura volutamente parziale, in quanto concentrata in modo pressoché esclusivo sulla relazione fra Macbeth e Lady Macbeth. È, inoltre,
una lettura nella quale “la connessione fra successo e malattia” risulta tutt’altro
lar, tried to solve the riddle of Macbeth and his Lady in a number of articles (1926, 1933
and 1943), and it is not for nothing that one of his articles was entitled ‘The riddle of
Shakespeare’s Macbeth’ (1943). The article could just as well have been called ‘The riddle
of Lady Macbeth’. Even Freud does not succeed when he tries to fit her into his character
type of ‘those who are wrecked by success’ (1916). However, what has always intrigued
me is his comment that Ludwig Jekels, in a Shakespeare study, says that Shakespeare often splits a character into two persons, each of whom by himself or herself is incomprehensible unless he or she is entirely united wit the other person. This might also be the
case with Macbeth and the Lady.”
5
Cfr. A.C. BRADLEY, Shakespearean Tragedy, pp. 463-5.
6
S. FREUD, Opere, p. 635.
173
che “causale” o “inequivocabile” come vorrebbe Freud: poco utile, quindi, a
spiegare perché Lady Macbeth giunge al suicidio e suo marito alla follia. In
compenso, credo possa offrire ipotesi alternative su come si evolve la loro relazione, nonché sul motivo di alcuni avvenimenti minori, ma a prima vista altrettanto inspiegabili, che si presentano nel corso della tragedia. Spero così di poter
contribuire a mostrare come un approccio relazionale possa rivelarsi fecondo
anche in un campo come la critica letteraria, campo nel quale i contributi della
psicologia danno a volte l’impressione d’essersi fermati a Lacan, se non addirittura allo stesso Freud.
Come già si è fatto nel capitolo precedente, propongo di seguire i Macbeth
da un punto di vista tipicamente “teatrale”, fingendo cioè di trovarsi dietro allo
specchio unidirezionale della terapia della famiglia e quindi di osservare la coppia nell’evolversi del suo interagire, cogliendone le parole, gli atteggiamenti, le
reazioni, le conseguenze. Con una differenza, però: mentre l’osservazione di Petruccio e Katherine si è concentrata prevalentemente su aspetti pragmatici e
strategici, così come avveniva con i clienti in carne ed ossa agli esordi della terapia della famiglia, vorrei ora cercare di integrare nel mio metodo di analisi alcuni fra gli sviluppi teorici di maggior rilievo della terapia familiare contemporanea, e in particolare lasciare più ampio spazio a considerazioni di tipo semantico, come possono essere quelle che riguardano la sfera emotiva. Manterrò invece inalterato il principio-guida, e cioè considerare la famiglia non come un
aggregato di personalità fra loro indipendenti, bensì come un’unità, con le proprie modalità e le proprie emozioni. Un’unità entro la quale le modalità e le emozioni dei singoli individui risultano interdipendenti, in quanto inevitabilmente condizionate dal loro essere parte di un unico sistema.
Il primo incontro: la lettera
Nella pratica terapeutica, e in particolare in quella della terapia familiare, è
assai raro che il primo incontro fra terapeuta e famiglia sia davvero un primo
incontro. Di solito, il primo appuntamento è preceduto da qualche altra forma di
contatto, per esempio la telefonata di uno dei membri della famiglia, o la presentazione del collega dal quale ha avuto origine il cosiddetto “invio”. In altre
174
parole, nell’istante in cui una coppia entra nel suo studio, il terapeuta ha già
qualche pregiudizio su di essa (per esempio, può supporre che chi ha telefonato
sia anche il più intenzionato, o la più intenzionata, a seguire la terapia), e ha già
in mente qualche ipotesi preliminare, per quanto si possa impegnare ad affrontare l’incontro con la maggiore imparzialità possibile.
Qualcosa di simile accade anche con i nostri due coniugi: il loro primo effettivo incontro sul palcoscenico avviene nella quinta scena del primo atto del
dramma che li vede protagonisti, ma già nella seconda scena ci viene offerto un
indizio su quale potrebbe essere la qualità della loro relazione, o almeno su come potrebbe essere percepita da chi li conosce. Macbeth, infatti, reduce da una
battaglia durante la quale ha avuto occasione di mostrare tutto il proprio ardimento, viene definito da Ross come “Bellona’s bridegroom” (I.ii.54). È un epiteto che si presta a numerose interpretazioni, dalla semplice circonlocuzione
metaforica per “guerriero” fino a supporre che in realtà non sia riferito a Macbeth.7 Assumendo che si riferisca a Macbeth—come sintassi e contesto sembrano suggerire—il problema maggiore, dal punto di vista interpretativo, diventa stabilire in che modo segmentare nella frase il campo d’azione della metafora.
Le possibilità sono tre: 1) è una costruzione puramente letterale (in tal caso,
Macbeth dovrebbe avere una moglie di nome Bellona…); 2) l’intera costruzione
è metaforica, e sta semplicemente a significare che Macbeth è un valoroso guerriero; 3) la metafora riguarda prevalentemente il termine “Bellona”, e dunque
Macbeth potrebbe essere letteralmente sposato con una metaforica “dea della
guerra”. È interessante notare che la prima e la terza ipotesi, a differenza della
seconda, si configurano come “proprietà S-necessarie” (vedi capitolo 2), e dunque verificabili, o meglio falsificabili, in base alla conformazione del mondo
della tragedia: in altre parole, se per assurdo scoprissimo che Macbeth non è
sposato, avremmo la certezza che l’unica ipotesi valida è la seconda, che peral-
7
Vedi K. MUIR, Macbeth. The Arden Shakespeare, p. 10: “Granville-Barker suggests that Bellona’s bridegroom may not be Macbeth. But though Shakespeare was condensing three
campaigns into one, there would have been no point in making some other general responsible for the victory over Sweno, in defiance of his source.”
175
tro è quella più probabile anche in base alla costruzione sintattica, introdotta dal
determinativo “that”.
Al tempo stesso, il significato letterale dell’epiteto è abbastanza chiaro, e
coinvolge due campi semantici: quello della guerra (“Bellona”) e quello del matrimonio (“bridegroom”). Poiché esiste un’evidente isotopia fra questi due nuclei concettuali e l’universo tematico di Macbeth, possiamo perlomeno riconoscere che la definizione offerta da Ross, quale che sia il suo significato figurato,
pare essere insolitamente appropriata. In ogni caso, da “apprendisti terapeuti
della famiglia”, sono tutte ipotesi di lavoro che è bene tenere in considerazione,
così come un vero terapeuta della famiglia avrebbe qualche difficoltà nel giudicare insignificante se una cliente, concordando il primo appuntamento, si riferisse al coniuge definendolo “quel disgraziato del padre dei miei figli” invece
che “mio marito”.
Macbeth compare per la prima volta nella terza scena, dove le tre streghe gli
profetizzano il futuro (di questo avremo occasione di parlare più avanti). Nella
scena successiva, la quarta, scopriamo che Macbeth in effetti è sposato, come
egli stesso dichiara: “I'll be myself the harbinger, and make joyful / The hearing
of my wife with your approach.” (I.iii.45-46). Questi due versi ci danno, indirettamente, anche un’altra informazione, e cioè che la lettera che Lady Macbeth
avrà fra le mani nella scena successiva è stata inviata da Macbeth fra la terza e
la quarta scena,8 dunque subito dopo l’incontro con le streghe. Questo dettaglio
sul timing degli eventi, come vedremo, non è irrilevante.
La prima comunicazione fra i due coniugi avviene proprio tramite questa lettera. Poiché si tratta del loro primo scambio, occorre considerarla con una certa
attenzione. Anzitutto, pare assai significativo l’uso della lettera come canale di
comunicazione, perché introduce una curiosa circolarità: Lady Macbeth ha fra
le mani una lettera sia nella prima sia nell’ultima scena (V.i) in cui appare. Ciò
8
Questo perché nella lettera che Lady Macbeth riceve, come è reso evidente dalla sua reazione all’annuncio del servitore, non vi è cenno dell’imminente arrivo di Duncan. A questo proposito, vedi W. DODD, “Letters in Drama (with some Shakespearean Examples)”,
p. 51: “[The] only opportunity Macbeth could have had to write the letter is in the very
brief interval, during which he returns from the battlefield to Duncan’s camp, between the
end of I.iii and line 14 of the next scene.”
176
dà motivo di supporre che scrivere e leggere siano modalità comunicative per
lei non sporadiche. Il fatto che Macbeth abbia ritenuto urgente metterla al corrente di quanto gli è accaduto, e che lo abbia fatto con una lettera, sembra suggerire che, se mai questi due coniugi hanno un problema, questo non sia certo la
famosa “difficoltà a comunicare”.
Lady Macbeth entra in scena leggendo la lettera ad alta voce. Considerando
il contenuto della lettera, che non contiene alcuna nuova informazione per il
pubblico, ciò sembra alquanto strano.9 Macbeth è indubbiamente il dramma più
“economico” dell’intero canone. Perché mai inserirvi un passaggio in apparenza
così ridondante sia per l’asse esterno sia per quello interno? C’è qualcosa di
nuovo nella lettera che Lady Macbeth legge? Ebbene, sì. Per prima cosa, possiamo osservare che, definendo Lady Macbeth “my dearest partner of greatness”
(I.v.10) ed esplicitando il motivo della comunicazione (“that thou mightst not
lose the dues of rejoicing by being ignorant of what greatness is promised thee”,
I.v.11-12), Macbeth conferma al pubblico la solidità del suo rapporto con la
moglie e, al tempo stesso, le fa sapere che non ha alcuna intenzione di escluderla da quanto gli sta accadendo: se il messaggio originale delle streghe era “sarai
re”, lui lo traduce in “saremo la coppia regnante”.
Il coinvolgimento, vale la pena notare, è una modalità già riscontrata in Macbeth, il quale non appena ha appreso della profezia si è premurato di tradurla,
parlandone con Banquo, in “Your children shall be kings” (I.iii.84).10 E questo
ci porta a considerare un’altra fondamentale informazione derivante dalla lettura
9
Cfr. A. SERPIERI (a cura di), Macbeth, p. 31: “La lettera, non necessaria nella concatenazione delle azioni, visto che Macbeth sta per raggiungere di persona il castello in anticipo
sul re, ha la funzione drammatica di presentare Lady Macbeth da sola, con le sue reazioni
e le sue determinazioni”. Vedi anche W. DODD, “Letters in Drama (with some Shakespearean Examples)”, p. 51: “[It] enables Lady Macbeth to express her misgivings about
Macbeth’s lack of sound Machiavellian principles, and to reveal herself to the audience as
one capable of chastising him with the value of her tongue. It is perhaps a little less obvious that the use of the letter script contributes to connoting the opening scenes of the play
with a feeling of precipitation.”
10
Circa questa modalità di Macbeth, è significativo un suggerimento di John Russell Brown
per gli attori che si trovino a impersonarlo: “the actor must give an impression of words
disguising thoughts” (J.R. BROWN, Shakespeare: The tragedy of Macbeth, p. 34).
177
ad alta voce della lettera, e cioè l’omissione dell’ultima parte della profezia.
Questa omissione, come il seguito del dramma confermerà, non è il frutto d’una
distrazione: Macbeth non rivela mai alla moglie, né qui né quando Lady Macbeth gli chiede esplicitamente una spiegazione del suo agire (III.ii.46), che le
“sorelle fatali” hanno citato anche la stirpe di Banquo. Non è nemmeno pensabile che Macbeth ometta questo particolare ritenendolo irrilevante, poiché sarà
proprio l’ultima parte della profezia a determinare buona parte delle sue azioni
criminose. Siamo dunque costretti a rimettere in discussione le nostre ipotesi
circa le motivazioni che possono aver indotto Macbeth a scrivere alla moglie: se
in apparenza la lettera sembra avere funzione prevalentemente informativa, in
realtà il sovrascopo deve essere un altro. Quale? Confidando nel fatto che Macbeth e la moglie sembrano conoscersi piuttosto bene, un terapeuta della famiglia, per rispondere a questa domanda, suggerirebbe probabilmente di concentrarsi sugli effetti che la lettera produce. Osserviamoli, dunque:
Glamis thou art, and Cawdor, and shalt be
What thou art promised. Yet do I fear thy nature.
It is too full o' th' milk of human kindness
To catch the nearest way. Thou wouldst be great,
Art not without ambition, but without
The illness should attend it. What thou wouldst highly,
That wouldst thou holily; wouldst not play false,
And yet wouldst wrongly win. Thou'dst have, great Glamis,
That which cries “Thus thou must do” if thou have it,
And that which rather thou dost fear to do
Than wishest should be undone. Hie thee hither,
That I may pour my spirits in thine ear
And chastise with the valour of my tongue
All that impedes thee from the golden round
Which fate and metaphysical aid doth seem
To have thee crowned withal.
[I.v.14-29]
È una reazione tanto grandiosa poeticamente quanto sorprendente dal punto
di vista psicologico: leggere che il marito le annuncia la possibilità di diventare
re suscita in Lady Macbeth un sentimento di paura e scetticismo. Se ci pensiamo, è una reazione quantomeno insolita, poiché ciò che Lady Macbeth teme non
è la possibilità che la profezia possa rivelarsi sbagliata, bensì che il marito non
sappia essere all’altezza della profezia! Se la reazione terminasse qui, verrebbe
178
davvero da chiedersi chi mai glielo ha fatto fare, a Macbeth, di perdere tempo a
scrivere una lettera per una moglie che lo stima così poco. Ma Lady Macbeth
non si limita a svalutare il marito agli occhi del pubblico: l’effetto complessivo
della lettera è quello di spingerla a prendere in mano la situazione. Le “sorelle
fatali” hanno fornito il “metaphysical aid”; dell’aiuto quotidiano e concreto sarà
lei stessa a farsene carico.
Se le cose stanno veramente così, il sovrascopo implicito della lettera di Macbeth sembrerebbe essere quello di ottenere aiuto, e bisogna dargli atto che, almeno per ora, sembra averlo perfettamente raggiunto. Affinché questo sia il
gioco strategico di Macbeth, però, è necessario ipotizzare che egli fosse consapevole di due cose: a) che la moglie avrebbe probabilmente reagito in tal modo;
b) di avere bisogno dell’aiuto della moglie. Ora, se è vero che dei Macbeth sappiamo poco, è anche vero che sappiamo tutto. In altre parole, al contrario di
quanto avviene per una coppia in terapia, non ci è data la possibilità di far loro
domande, ma abbiamo la garanzia implicita che l’intera loro “vita” si svolge
sotto i nostri occhi, per quanto alterata e distorta da problemi filologici ed ermeneutici. Dunque, è solo nel testo che possiamo sperare di trovare tracce
dell’eventuale consapevolezza di Macbeth. Circa la possibile reazione di Lady
Macbeth, il “Bellona’s bridegroom” di Ross, se inteso come un indizio del modo in cui la moglie di Macbeth è percepita dai membri del mondo interno della
finzione, potrebbe avvalorare l’ipotesi che Macbeth stesso sappia bene quali effetti susciterà la sua lettera, o perlomeno che sia consapevole del suo aspetto
performativo. Ciò mi pare confermato anche dalla domanda retorica che Lady
Macbeth porrà al marito dopo averlo visto esitare: “What beast was 't then /
That made you break this enterprise to me?” (I.vii.47-48). Come a dire: sapevi
bene che avrei reagito in questo modo, e allora perché coinvolgermi se non eri
d’accordo?11 Quanto al senso di inadeguatezza di Macbeth, al suo essere consapevole di non poter riuscire da solo, oltre al tranciante giudizio della moglie,
possiamo osservare come Banquo commenti il suo stupore attribuendolo
11
È qui opportuno sottolineare che l’apertura del rimprovero di Lady Macbeth, perlomeno
letteralmente, riguarda in modo esplicito il fatto che il marito l’ha coinvolta, e solo più avanti il discorso si allarga alla sua incoerenza.
179
all’inesperienza (“New honours come upon him, / Like our strange garments,
cleave not to their mould / But with the aid of use.”, I.iii.143-145) e come Macbeth stesso associ le proprie esitazioni a una sorta di immaturità (“We are yet
but young in deed.”, III.iv.143).
In attesa di trovare nuove conferme o eventuali smentite alle precedenti ipotesi, possiamo osservare che la peculiare qualità della comunicazione fra Macbeth e la moglie è ulteriormente ribadita dalla sconcertante reazione di Lady
Macbeth all’annuncio dell’arrivo del re da parte del messaggero: “Thou’rt mad
to say it. / Is not thy master with him, who, were 't so, / Would have informed
for preparation?” (I.v.29-31). Di nuovo, ritorna il tema del coinvolgimento:
l’idea che il marito possa “non averla informata” è per Lady Macbeth semplicemente inconcepibile, al punto da provocare una violenta reazione nei confronti del messaggero, il quale si sente in dovere di giustificarsi ricorrendo
all’immagine del compagno “almost dead for breath” (I.v.33).12 Ancora prima di
assistere all’incontro fra i due coniugi, dunque, abbiamo già elementi sufficienti
per la formulazione di un’ipotesi, per quanto vaga, sulla loro modalità relazionale. I Macbeth sembrano essere una coppia ad alto grado di “invischiamento”.
Una coppia insolitamente paritaria, almeno per gli standard dell’epoca. Una
coppia nella quale è dato per scontato che ci si deve tenere informati l’un l’altro
su tutto ciò che accade, e che si deve agire insieme. Violare questa regola implicita provoca, perlomeno nella moglie, forti reazioni. Con l’omissione nella lettera e con il tardivo annuncio circa l’arrivo di Duncan, però, questa regola—
intenzionalmente o meno—è già stata violata due volte.
La prima interazione verbale: “leave all the rest to me”
Le prime battute che i due coniugi si scambiano in scena si caratterizzano
per la loro asimmetria: Lady Macbeth domina sia quantitativamente sia qualita-
12
Per una lettura completamente diversa della reazione di Lady Macbeth, vedi K. ELAM,
“«Thou’rt mad to say it»: Seven types of ineffability in Macbeth”, p. 190: “Naming the
King seems to create as much difficulty in the play as murdering the King. […] So powerful is the naming taboo that when the messenger innocently lexicalizes her secret object of
discourse, she is appalled.”
180
tivamente per tutta la durata del breve dialogo, mentre Macbeth si mostra quanto mai laconico e schivo. Apparentemente, siamo davanti a quella che in linguaggio strategico viene definita una “relazione complementare”, cioè una relazione nella quale uno dei due partecipanti ha decisamente la posizione di onedown e l’altra quella di one-up. Una tale descrizione coincide con l’immagine
proposta dalla maggior parte delle interpretazioni critiche: Macbeth l’usurpatore
ambizioso ma incerto, Lady Macbeth l’istigatrice spietata. Quest’ultima apre
l’incontro con parole che richiamano immediatamente quelle delle streghe—
“Great Glamis, worthy Cawdor, / Greater than both by the all-hail hereafter”
(I.v.52-53)—mentre Macbeth risponde in modo assai più dimesso (“My dearest
love”), come se la trionfale accoglienza lo facesse sentire a disagio e cercasse
quindi di spostare la conversazione su una dimensione più intima, più alla sua
portata. Ancora, possiamo osservare come già fin dalle prime due battute venga
affrontato il topos del “tenersi informati a vicenda”: Lady Macbeth, inconsapevole dell’omissione del marito, esulta perché la lettera l’ha trasportata “beyond
this ignorant present”; Macbeth, da parte sua, provvede immediatamente a porre
rimedio alla sua seconda “omissione”, aggiornando la moglie sull’imminente arrivo del re. I temi, le emozioni e le modalità che, come questa del “tenersi informati”, già si erano presentati e riaffiorano ora nel corso del dialogo sono numerosi: l’inadeguatezza di Macbeth (“Your face, my Thane, is as a book...”,
I.v.60), la necessità di dissimulare, la paura. Riguardo a tutti e tre, Lady Macbeth si impone con decisione nel ruolo di aiutante: “Only look up clear. / To
alter favour ever is to fear. / Leave all the rest to me.” (I.v.70-2).
L’unico segnale esplicito che lascia intravedere un minimo di assertività da
parte di Macbeth riguarda la gestione del timing degli eventi: “We will speak
further” (I.v.70). Si tratta di un segnale debole, ma da non sottovalutare, perché
anche in questo caso ci troviamo innanzi a una modalità—quella di “dilazionare
nel tempo”—che si ripresenterà più volte nel successivo corso degli eventi, e
che già si è riscontrata in precedenza: “The interim having weighed it, let us
speak / Our free hearts each to other ... Till then, enough.” (I.iii.153-6), ha infatti imposto Macbeth a Banquo dopo l’incontro con le streghe. C’è però un secondo elemento che, per quanto implicito, contribuisce a insinuare il sospetto
181
che Macbeth sia tutt’altro che subalterno alla moglie: è l’ironia drammatica
soggiacente all’intero scambio fra i due. Lady Macbeth, infatti, considera il marito “un libro aperto” e pretende di insegnargli come ci si deve comportare per
“ingannare il mondo”, ma grazie alla lettera che lei stessa ha letto ad alta voce
noi sappiamo che Macbeth le sta in realtà celando qualcosa. Proprio come la lettera, la faccia di Macbeth è un “testo” che Lady Macbeth sa leggere benissimo,
solo che non c’è scritto tutto.
In altre parole, il gioco al quale stiamo assistendo potrebbe essere assai più
complesso di quanto non appaia, e se la relazione fra Macbeth e la moglie ha
tutta l’aria di configurarsi come “complementare” ciò è da intendersi nel senso
strettamente tecnico del termine:13 non indica, cioè, che uno è “debole” e l’altra
è “forte”, bensì che il loro modo di relazionarsi prevede che uno si mostri debole e l’altro si mostri forte. Non è infatti un caso che Lady Macbeth finisca per
dare voce esattamente a ciò il marito già aveva pensato per conto suo (“Why do
I yield to that suggestion / Whose horrid image doth unfix my hair / And make
my seated heart knock at my ribs / Against the use of nature?”, I.iii.133-6), e
cioè all’idea di assassinare il re. Detto altrimenti: a volte si possono “fare cose”
anche con il silenzio, oltre che con le parole.
La seconda interazione: cos’è un uomo?
Fino a questo punto, la nostra osservazione dei Macbeth si è limitata ad aspetti pragmatici e strategici. Di conseguenza, etichette come one-up e one13
Come sottolinea puntualmente Paul Watzlawick, “there are two different positions in a
complementary relationship. One partner occupies what has been variously described as
the superior, primary, or one-up position, and the other the corresponding inferior, secondary, or one-down position. These terms are quite useful as long as they are not equated
with good or bad, strong or weak. A complementary relationship may be set by the social
or cultural context (as in the cases of mother and infant, doctor and patient, or teacher and
student), or it may be the idiosyncratic relationship style of a particular dyad. In either
case, it is important to emphasize the interlocking nature of the relationship, in which dissimilar but fitted behaviors evoke each other. One partner does not impose a complementary relationship on the other, but rather each behaves in a manner which presupposes,
while at the same time providing reasons for, the behavior of the other: their definitions of
the relationship fit.” (P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p.
69).
182
down sono rimaste etichette vuote, semplici posizioni all’interno di un non meglio definito gioco familiare. La seconda interazione verbale fra i due coniugi,
assai più ricca della precedente in termini di negoziazione del significato, ci
permetterà di cominciare a riempire queste etichette: vale a dire, ci metterà in
grado di individuare le direzioni lungo le quali i Macbeth tendono a posizionarsi a vicenda—a con-porsi—come one-up o one-down. Prima di invitare la coppia a “rientrare in studio” (o in scena che dir si voglia) è però opportuno introdurre in poche parole i principali presupposti teorici del modello al quale si ispirerà la mia analisi, e cioè il modello delle polarità semantiche familiari illustrato
da Valeria Ugazio, una terapeuta della famiglia, nel volume Storie permesse,
storie proibite.14 Essendo un modello orientato in modo esplicito all’analisi della conversazione familiare, è secondo me uno tra quelli che più facilmente si
prestano a essere utilizzati per lo studio di testi drammatici.
Nel tentativo di superare il concetto di “mente umana come scatola nera”
(postulato dai primi terapeuti della famiglia, ma ben presto rivelatosi insufficiente da un punto di vista terapeutico) senza per questo rinunciare alla centralità della dimensione relazionale rispetto a quella individuale, Valeria Ugazio
propone anzitutto di considerare tre “proprietà della conversazione”:
1. Ciascun membro della famiglia costruisce la conversazione all’interno di una
struttura semantica di salienza condivisa, formata di regola da alcune polarità
semantiche.
2. È impossibile non definirsi, o meglio non con-porsi, rispetto a una dimensione semantica che è saliente nel proprio contesto relazionale.
3. Ciascun partner conversazionale, con-ponendosi rispetto alle dimensioni semantiche rilevanti nel proprio gruppo, àncora la propria identità a quella degli
altri
membri
del
gruppo
e
garantisce
così,
sin
dall’inizio,
l’intersoggettività.
La prima proprietà, ponendo l’accento sulla condivisione della struttura semantica fra i membri di una stessa famiglia, è la logica conseguenza in ambito
14
V. UGAZIO, Storie permesse storie proibite. Polarità semantiche familiari e psicopatologia.
183
microsociale dell’assioma fondante del costruzionismo sociale:15 la “realtà” non
è né un’entità oggettiva esistente a priori né una costruzione individuale, ma
piuttosto si sviluppa nello spazio fra le persone, si costruisce nella relazione.
Ogni famiglia, come ogni altro gruppo sociale, possiede dunque un proprio sistema di coordinate semantiche per interpretare e definire la realtà, un sistema
formato di regola da un certo numero di polarità e non altre. Per esempio, in
una famiglia nella quale sia rilevante la polarità “intelligente/ottuso”, quando la
figlia avvia una relazione con un uomo, nelle conversazioni familiari
quest’ultimo tenderà a venire definito come “brillante”, o come “un po’ ingenuo”, e comunque in base ai suoi successi o insuccessi scolastici e intellettuali.
Se quello stesso uomo avviasse invece una relazione con una ragazza nella cui
famiglia prevale la polarità “dare/prendere”, le definizioni e la conversazione
tenderebbero ad articolarsi su concetti come l’altruismo, l’egoismo, o l’avarizia.
La seconda proprietà sottolinea invece l’impossibilità di sottrarsi al sistema
di polarità del gruppo sociale di appartenenza. Questo carattere di inevitabilità è
intrinseco alla natura stessa delle relazioni, e viene ben illustrato da Valeria Ugazio ripercorrendo il processo che porta alla loro formazione: “Quando due
persone si incontrano per la prima volta iniziano—consapevolmente o no, poco
importa—un processo di negoziazione della relazione reciproca che porta progressivamente a restringere la gamma dei possibili comportamenti che caratterizzano la relazione. Man mano che la natura della relazione si definisce, alcune
vie si aprono e di conseguenza altre si chiudono: ogni possibilità è anche un
vincolo.”16 A questo proposito, è importante notare il ruolo fondamentale della
dimensione diacronica nell’instaurarsi dell’impossibilità: è inevitabile conporsi rispetto a una polarità semantica perché la formazione di una relazione
coincide con il processo di selezione della polarità semantica stessa. In altre parole, il rapporto fra relazione e con-posizione non è di tipo lineare (causa-
15
Vedi K. GERGEN, “The social constructionist movement in modern psychology. Più in generale, il costruzionismo sociale si rifà agli studi di M. FOUCAULT (L'archéologie du
savoir, 1969) e di J. DERRIDA (Writing and Difference, 1978) sul processo di formazione
del significato.
16
V. UGAZIO, Storie permesse storie proibite, p. 46.
184
effetto), ma tipicamente circolare, e richiede tempo: se anche l’amore fra Orlando e Rosalind scocca come una scintilla, è solo tramite il loro con-porsi entro
coordinate assiologiche—come, per esempio, quella “serio/faceto”—che la loro
relazione può svilupparsi, e viceversa è solo nel processo di sviluppo della loro
relazione nella foresta di Arden che tali coordinate possono delinearsi.
La terza proprietà, infine, mette in risalto il carattere intersoggettivo del concetto di identità.17 Vale a dire che anche i tratti individuali per eccellenza—il
“carattere”, la “personalità”—sono in realtà fortemente dipendenti dal contesto,
cioè dalle polarità semantiche dominanti all’interno del gruppo di appartenenza
e dalla disposizione dei membri del gruppo rispetto ad esse. Ciò non significa
semplicemente che, se una “posizione” è già occupata, non rimane che prenderne un’altra. Trattandosi di processi circolari, infatti, quello che avviene è che,
affinché una polarità semantica assuma rilevanza, è necessario che ci siano almeno due persone in qualche modo disponibili ad occuparne i poli opposti. Fra i
concetti di polarità e di posizionamento, dunque, non vi è un rapporto gerarchico, ma piuttosto un rapporto di reciprocità.
Queste tre proprietà possono apparire al tempo stesso troppo ovvie e troppo
astratte per avere una qualsiasi utilità nell’analisi di un testo drammatico. In realtà, tenendo presente che si riferiscono a un ambito estremamente circoscritto—la conversazione—ci si accorge ben presto che il punto di vista da esse
suggerito è assai meno vago di quanto sembri, e che proprio il dialogo drammatico offre un ottimo banco di prova per verificarne o falsificarne la produttività.
Le domande alle quali, analizzando la seconda interazione verbale fra Macbeth
e Lady Macbeth, cercherò ora di rispondere saranno dunque: attorno a quali polarità semantiche si sviluppa il loro dialogo? Come si con-pongono, i due coniugi, rispetto a tali polarità? Su quali parametri si basano, per definire il “mondo”? E attorno a quali emozioni sembra ruotare il loro rapporto di coppia?
Anzitutto, possiamo osservare che lo scambio di battute inizia in modo palesemente simmetrico, anche da un punto di vista strettamente retorico:
17
Sull’intersoggettività del concetto di “persona”, anche a livello di “persone grammaticali”,
vedi F. JACQUES, Difference and Subjectivity, e in particolare il capitolo “A Communicational Approach to the Person”.
185
MACB.
How now? What news?
LADY M.
He has almost supped. Why have you left the chamber?
MACB.
Hath he asked for me?
LADY M.
Know you not he has?
MACB.
We will proceed no further in this business.
[I.vii.28-31]
Cinque domande in cinque battute. Già Wilson Knight aveva notato come
Macbeth sia forse l’opera con più alta densità di domande dell’intero canone
shakespeareano.18 Ma qui siamo di fronte a un fenomeno assai particolare: una
sequenza di domande alle quali si risponde con domande, alcune delle quali—
per la precisione, le due di Lady Macbeth—estremamente cariche di sottintesi e
di rimprovero. È uno scambio ad alto tasso mimetico: come in un tipico preludio a una lite fra coniugi del mondo reale, si fa ampio uso di domande illegittime19 (Lady Macbeth, infatti, sa benissimo perché il marito ha abbandonato la
cena, così come Macbeth è perfettamente consapevole che Duncan ha chiesto di
lui), e la dimensione del contenuto (i motivi, i fatti) passa in secondo piano rispetto a quella della relazione (i giudizi, i rimproveri, le strategie di attacco e di
difesa). Chiunque fra gli spettatori abbia un minimo di esperienza diretta nel
campo delle relazioni familiari, ascoltando per la prima volta questo breve
scambio non avrà alcuna difficoltà a prevedere che le battute successive non avranno per argomento la cena con Duncan, bensì il rapporto fra Macbeth e Lady
Macbeth.
Il tentativo da parte di Macbeth di mantenere il dialogo su un piano simmetrico—che, da quanto abbiamo visto nella prima interazione, non è la modalità
più frequente fra i due coniugi—termina con la violenta reazione di Lady Macbeth (I.vii.35-45), nella quale la tensione relazionale dello scambio viene resa
esplicita da una similitudine carica di connotati erotico-sentimentali (“From this
time / Such I account thy love”). Macbeth, vuoi perché incapace di reggere la
potenza d’urto della reazione della moglie vuoi perché—come le ipotesi fino ad
18
G.W. KNIGHT, “Macbeth and the metaphysic of evil”, 1930.
19
Su domande legittime e domande illegittime, vedi H. VON FOERSTER, Sistemi che osservano, pp. 130-1: “Definirò domanda illegittima quella domanda di cui si conosca già la risposta […]”.
186
ora formulate sembrano suggerire—ritiene tatticamente più proficuo adottare
una posizione one-down, asseconda il ritorno alla modalità complementare
(“Prithee, peace.”, I.vii.45). Ed è esattamente a questo punto, e cioè quando la
modalità apparentemente più consona alla coppia si ristabilisce, che viene introdotta e negoziata una definizione assai sintomatica delle polarità semantiche
salienti per i Macbeth: la definizione di “uomo”.
MACB.
Prithee, peace.
I dare do all that may become a man;
Who dares do more is none.
LADY M. What beast was ‘t then
That made you break this enterprise to me?
When you durst do it, then you were a man;
And to be more than what you were, you would
Be so much more the man.
[I.vii.45-51]
A un primo sguardo, le contrastanti definizioni di Macbeth e Lady Macbeth
possono apparire semplicemente opposte, e dunque giocarsi su un’unica polarità
semantica. Già, ma quale polarità? A un esame più attento, la questione si mostra assai più complicata: le polarità semantiche attorno alle quali le definizioni
dei due coniugi si collocano sembrano essere almeno due.20 Lo schema riportato
in figura 5.1, la cui struttura è adattata dal modello di Mony Elkaïm (un altro terapeuta della famiglia) sui doppi legami reciproci,21 può aiutare a chiarire la situazione.
La struttura del modello di Elkaïm è intrinsecamente circolare, e può dunque
essere letta a partire da qualsiasi punto. Cominceremo dal “programma ufficiale” di Macbeth, formulato in I.vii.31-35 e riassumibile in “voglio essere uomo”.
In questo suo programma, “essere uomo” può essere identificato con “essere mite” (o innocente, o buono), la qualità che Macbeth, nel monologo di apertura
(I.vii.1-28), ha riconosciuto a Duncan, e che gli impedisce di procedere oltre. La
20
La compresenza di più polarità semantiche non solo è contemplata dal modello di V.
UGAZIO, ma sembra anzi essere la norma: “[…] In altre famiglie sono rilevanti altre
polarità, e in tutte le famiglie sono salienti più polarità” [corsivo dell’autrice], Storie
permesse storie proibite, p. 49.
21
Vedi M. ELKAÏM, Se mi ami non amarmi, pp. 19-36.
187
“I dare do all that may become a man;
who dares do more is none.”
Uomo = Mitezza
Programma
ufficiale di
Macbeth
Mappa del
mondo di
Macbeth
Voglio essere
uomo
(I.vii.31-35)
Senza il mio
aiuto, non sarai
mai uomo
Per essere uomo, devo uccidere Duncan.
Uomo = Violenza
Uomo = Bambino
Voglio che tu
sia uomo
“When you durst do it, then you were a man;
and to be more than what you were,
you would be so much more the man.”
Mappa del
mondo di
Lady M.
Programma
ufficiale di
Lady M.
Uomo = Virilità
Fig. 5.1
verbalizzazione di questa definizione è appunto quella esplicitata alla moglie: “I
dare do all that may become a man; Who dares do more is none.”
Come abbiamo visto, però, Lady Macbeth interpreta questa definizione in
base alla sua “mappa del mondo”, che è riassumibile in “senza il mio aiuto, non
sarai mai uomo”. Secondo questa prospettiva, che pone l’accento non più sulla
mitezza bensì sull’incapacità di osare, la definizione di uomo offerta da Macbeth potrebbe essere riformulata in “essere bambino”. Ciò entra in contrasto
con quello che pare essere il “programma ufficiale” di Lady Macbeth, la quale
vuole che il marito sia uomo a modo suo, e cioè intendendo per “uomo” un maschio adulto e virile, come sottolineato dalla sua ingiunzione: “When you durst
do it, then you were a man; and to be more than what you were, you would be
so much more the man.” A questo proposito, possiamo osservare la natura del
doppio legame di Lady Macbeth: ordinando al marito di essere più “adulto”, lo
pone implicitamente nella condizione di bambino. Se Macbeth si mostrerà più
uomo (accogliendo, dunque, il tratto locutorio dell’enunciato della moglie), in
tal caso avrà ubbidito, confermando così la sua subalternità. Se, al contrario, disubbidirà (accogliendo così, il tratto illocutorio dell’enunciato), rifiutando di
mostrarsi uomo confermerà comunque la definizione di Lady Macbeth (vedi figura 5.2).
188
In ogni caso, così come l’enunciato di
FIG. 5.2
Atto locutivo,
sul contenuto:
“Non comportarti da
bambino!”
“Sii ardito!”
Atto illocutivo,
sulla relazione:
“Ubbidisci!”
Macbeth contribuisce a rafforzare la
“mappa del mondo” della moglie, anche
l’enunciato di Lady Macbeth non trova ostacoli ad inserirsi nella “mappa del mondo” di suo marito, che ben sappiamo contemplare l’omicidio di Duncan. Non dobbiamo infatti dimenticare che, sebbene il
suo “programma ufficiale” preveda la mitezza, Macbeth ha già lasciato trapelare
la possibilità del ricorso alla violenza (benché mostrandosi disgustato all’idea)
per realizzarsi pienamente come uomo. In altre parole, anche quello formulato
da Macbeth è un doppio legame: se vuole essere un re amato e ammirato come
Duncan, deve inevitabilmente eliminare quest’ultimo, ma questo stesso atto gli
precluderà la possibilità di essere amato e ammirato.22
Doppi legami reciproci a parte (sui quali ritorneremo fra breve), i due aspetti
per il momento più rilevanti che lo schema ci aiuta a cogliere sono: a) la circolarità dei comportamenti dei due coniugi, intrappolati in un meccanismo ad autorinforzo per il quale non ha alcun senso cercare il responsabile; b) un indizio
sulle polarità semantiche attorno alle quali si organizzano le loro letture del
mondo, e cioè la contrapposizione “mitezza/violenza” da una parte e quella
“bambino/adulto” dall’altra.
Occorre, a questo punto, chiedersi: di quali polarità semantiche queste opposizioni possono essere un sintomo? Premesso che la segmentazione in polarità è
relativamente arbitraria (in fondo, è un’operazione affine a quella di segmentazione della realtà in campi semantici), cercando due polarità che possano dar
ragione delle coppie di opposizioni appena identificate, penso che potremmo
ipotizzare la polarità bene/male da una parte, e quella dipendenza/indipendenza
dall’altra. Oltre al pregio di essere sufficientemente astratte, queste due polarità
22
Cfr. J. KOTT, Shakespeare Our Contemporary, pp. 92-3: “Macbeth has killed the king, because he could not accept a Macbeth who would be afraid to kill a king. But Macbeth who
has killed cannot accept the Macbeth who has killed. Macbeth has killed in order to get rid
of a nightmare. But it is the necessity of murder that makes the nightmare.”
189
hanno il vantaggio di essere state ampiamente esplorate in ambito clinico23 e,
soprattutto, di avere connotazioni emotive facilmente individuabili. Come sottolinea Valeria Ugazio, “tutte le polarità semantiche hanno un nucleo emotivo”,24
e questo ci permetterà di mettere a confronto le emozioni caratteristiche delle
polarità appena ipotizzate con quelle presenti nel testo shakespeareano.
Circa la polarità bene/male, Valeria Ugazio nota che “le emozioni che stanno
alla base [di questa polarità semantica] sono colpa/innocenza e disgusto/godimento dei sensi… Ciò significa che la conversazione si organizza preferibilmente intorno a episodi che mettono in gioco cattiveria, malvagità, deliberata volontà di fare il male… ma anche bontà, purezza, innocenza… Grazie a
questi processi conversazionali, i membri di queste famiglie si sentiranno, e saranno considerati, buoni, puri, incontaminati o, al contrario, cattivi, corrotti,
spietati; troveranno persone disposte a salvarli, a redimerli, a elevarli o, al contrario, intenzionate a far loro violenza, a iniziarli al vizio, a perderli, a sedurli…”.25
Prima di proseguire, forse non è superfluo sottolineare che le osservazioni di
Ugazio sulle famiglie nelle quali tale polarità è particolarmente saliente si basano, per l’appunto, su “odierne famiglie reali” (per la precisione, su un corpus di
una trentina di casi da lei seguiti), e non su casi letterari, né tantomeno su casi
del periodo elisabettiano. Al tempo stesso, ritengo ci siano ben pochi dubbi sul
fatto che il leit-motif delle definizioni fino a questo punto proposte da Macbeth
nei suoi monologhi e nei suoi dialoghi stia proprio nella contrapposizione fra le
emozioni registrate da Valeria Ugazio, e che le “persone da lui trovate” (una in
particolare, ovviamente… ma anche le tre sorelle fatali, Banquo, Duncan e parecchie altre che verranno) condividano molti dei tratti qui elencati. Il pensiero
23
Basti pensare, per esempio, al concetto di “senso di colpa” nell’analisi freudiana per quanto riguarda la polarità bene/male; e alle mille forme terapeutiche che si basano sul concetto
di “auto-aiuto” (per esempio, l’associazione degli alcoolisti anonimi, o le comunità per
tossicodipendenti)—tutte finalizzate allo sviluppo, in un contesto protetto, di un certo grado di autonomia—per quanto riguarda la polarità dipendenza/indipendenza.
24
V. UGAZIO, Storie permesse storie proibite, p. 49.
25
Ibid., p. 185-187.
190
stesso di Macbeth, in questo primo atto perennemente in bilico fra sanguinarie
visioni omicide e immagini di straordinaria intensità, come quella della “pity,
like a naked new-born babe” (I.vii.21) o delle lacrime che affogano il vento,
sembra prendere forma dall’opposizione fra bene e male. Non a caso, Macbeth è
forse, tra i drammi shakespeareani, quello nel quale l’ascendenza delle morality
plays è più evidente.26
Per quanto riguarda la polarità dipendenza/indipendenza, invece, “le emozioni che stanno alla base di questa polarità sono paura/coraggio… Ciò significa che la conversazione in queste famiglie si organizza preferibilmente attorno a
episodi dove la paura, il coraggio, il bisogno di protezione e il desiderio di esplorazione e di indipendenza svolgono un ruolo centrale… In queste famiglie
ci sarà chi è così dipendente e bisognoso di protezione da avere bisogno di
qualcuno che lo accompagni per affrontare anche le situazioni più consuete della vita quotidiana. Ma più di un membro della famiglia, all’opposto, avrà dato e
continuerà a dare prova di particolare autonomia.”27
Paura e coraggio, anche volendosi riferire soltanto all’elevato numero di occorrenze delle parole appartenenti al loro campo semantico,28 sono certamente
l’altra dimensione emotiva prevalente in Macbeth. Altrettanto palese, come vedremo nel secondo atto durante l’omicidio di Duncan, è l’importanza rivestita
dalle dinamiche di “richiesta/offerta di aiuto”, forse il gioco familiare che più di
ogni altro caratterizza i coniugi Macbeth rispetto alle altre coppie del canone
shakespeareano. Ciò che invece, offuscato dalla grandiosità di alcuni eventi,
può essere meno evidente è quanto il topos della dipendenza influenzi, come
scrive Ugazio, “anche le situazioni più consuete della vita quotidiana”. Eppure è
26
Cfr. D. FARLEY-HILLS, “Macbeth come morality play”, pp. 91-103.
27
V. UGAZIO, Storie permesse storie proibite, pp. 136-137.
28
Vedi, per esempio, A. SERPIERI (a cura di), Macbeth, pp. xxvi-xxvii: “Il suo [di Macbeth]
fare è tragico e orribile perché il suo immaginare è tragico e orribile. Molto vasto è pertanto il campo semantico dell’immaginario, riferito quasi totalmente a Macbeth, sempre colmo di paura e di orrore. Come conferma statistica della rilevanza straordinaria della paura
nell’eroe malvagio per eccellenza quale a prima vista pare essere Macbeth, si noterà che,
come sostantivo e come verbo, fear e to fear presentano ben 35 occorrenze, la più alta frequenza relativa nel canone.”
191
proprio nelle situazioni più comuni che il pattern relazionale fra Macbeth e
Lady Macbeth può essere colto con maggior chiarezza—perlomeno da noi
spettatori contemporanei, più allenati a fare ipotesi sulle relazioni di coppia in
base alle “piccole cose” (chi apre la porta di casa agli ospiti? chi li intrattiene?)
che in base all’esecuzione di un regicidio. Ebbene, sarà un caso, ma nella sesta
scena del primo atto Macbeth non compare—“Where's the Thane of Cawdor?”
domanda Duncan (I.vi.20)—ed è Lady Macbeth a fare gli “onori di casa”. E,
presumibilmente, da quanto possiamo inferire dalle battute che i due si scambiano nella scena successiva, è sempre lei a rimanere con gli ospiti durante la
cena. Tale modalità si presenterà più volte nel corso del dramma, ed è sintomatica della tendenza di Macbeth a delegare alla moglie (o ad altri, come per esempio i tre assassini di Banquo) non solo il “lavoro sporco”, ma anche le più
consuete relazioni sociali.
Prima di passare alle interazioni successive, vorrei infine osservare come la
polarità semantica dipendenza/indipendenza (e quindi le emozioni paura/coraggio), benché alla base del modo in cui Lady Macbeth—per ora—
definisce la realtà, sia condivisa nella conversazione da entrambi i coniugi. Infatti, sebbene durante il monologo Macbeth abbia mostrato di essere assillato da
preoccupazioni di carattere etico, durante le battute che scambia con la moglie
finisce per accettare totalmente la sua “mappa del mondo”, e l’unico parametro
di valutazione diventa il “fattore rischio”:
MACBETH If we should fail?
LADY M.
We fail!
But screw your courage to the sticking-place
And we'll not fail.
La terza interazione: “these deeds must not be thought after these ways”
Le nostre ipotesi, a questo punto del dramma, descrivono una coppia che
comunica molto e in modo prevalentemente complementare, ma al tempo stesso
con segreti latenti che contraddicono una lettura semplicistica che veda Lady
Macbeth in posizione di one-up e il marito in quella di one-down. Da un punto
di vista semantico, le polarità salienti della loro conversazione sono quella be192
ne/male (che sembra condizionare soprattutto Macbeth) e quella dipendenza/indipendenza. Le emozioni che ci attendiamo da loro, dunque, dovrebbero
avere a che fare da una parte con le opposizioni “colpa/innocenza” e “disgusto/godimento dei sensi”, dall’altra con l’opposizione “paura/coraggio”. Le loro
azioni, infine, si presume che saranno orientate ad atti particolarmente nobili o
malvagi e da strategie di richiesta, offerta o rifiuto di aiuto e collaborazione. Il
secondo atto, portando in scena non solo conversazioni ma anche azioni e reazioni dei due coniugi, ci permetterà di mettere alla prova tali ipotesi.
L’apertura della seconda scena del secondo atto è, in questo senso, quanto
mai rivelatrice: “That which hath made them drunk hath made me bold” (II.ii.1),
esordisce Lady Macbeth riferendosi all’ubriacatura, programmata in precedenza, delle due guardie del corpo di Duncan. Tutto, persino il vino, può assumere
connotati diversi in base alla polarità semantica d’elezione, e se per le guardie
significa il passaggio dalla sobrietà all’ubriachezza, per Lady Macbeth—che vive immersa in una polarità le cui emozioni-chiave sono paura e coraggio—
comporta la differenza fra l’essere pavidi e l’essere audaci. E di audacia, in questa scena, i due coniugi ne avranno un notevole bisogno.
L’omicidio avviene fuori scena, e quando Macbeth ritorna la moglie lo accoglie, significativamente, con un “My husband!” (II.ii.13). Ciò è molto appropriato: Macbeth, finalmente, ha mostrato di saper passare dalle intenzioni ai fatti (“I have done the deed”, II.ii.14), di essere diventato un autentico “Bellona’s
bridegroom”, e può quindi per la prima volta essere riconosciuto da Lady Macbeth come marito—il tipo di marito che lei voleva. I versi che seguono mettono in atto una vivace battaglia per la definizione di quanto è accaduto, definizione che si gioca in modo assai esplicito fra le due polarità semantiche ipotizzate. Proviamo dunque ad analizzarli in dettaglio:
MACBETH I have done the deed. Didst thou not hear a noise?
LADY M.
I heard the owl scream and the crickets cry.
Did not you speak?
MACBETH When?
LADY M.
Now.
MACBETH As I descended?
193
LADY M.
Ay.
MACBETH Hark! Who lies i' th' second chamber?
LADY M.
Donalbain.
[II.ii.14-18]
In questo primo scambio, caratterizzato da estrema concitazione e da una serie di botta e risposta perlopiù monosillabici, l’emozione dominante è chiaramente la paura. La pertinenza delle risposte è indice della cooperazione fra i
due, cooperazione resa possibile dal fatto che Macbeth, messi temporaneamente
da parte i suoi scrupoli morali, condivide qui con la moglie un comportamento
basato sulla polarità dipendenza/indipendenza. Trascorso il primo istante di tensione, però, Macbeth volge lo sguardo alle proprie mani sporche di sangue, e la
polarità bene/male prende subito il sopravvento:
MACBETH This is a sorry sight.
LADY M.
A foolish thought, to say a sorry sight.
MACBETH There's one did laugh in 's sleep, and one cried “Murder!”
That they did wake each other. I stood and heard them.
But they did say their prayers and addressed them
Again to sleep.
LADY M.
There are two lodged together.
MACBETH One cried “God bless us” and “Amen” the other,
As they had seen me with these hangman's hands.
List'ning their fear I could not say “Amen”
When they did say “God bless us.”
LADY M.
Consider it not so deeply.
MACBETH But wherefore could not I pronounce “Amen”?
I had most need of blessing, and “Amen”
Stuck in my throat.
LADY M.
These deeds must not be thought
After these ways. So, it will make us mad.
MACBETH Methought I heard a voice cry “Sleep no more,
Macbeth does murder sleep” the innocent sleep,
Sleep that knits up the ravelled sleave of care,
The death of each day's life, sore labour's bath,
Balm of hurt minds, great nature's second course,
Chief nourisher in life's feast.
LADY M.
What do you mean?
MACBETH Still it cried “Sleep no more” to all the house,
“Glamis hath murdered sleep, and therefore Cawdor
Shall sleep no more, Macbeth shall sleep no more.”
194
LADY M.
Who was it that thus cried? Why, worthy thane,
You do unbend your noble strength to think
So brain-sickly of things. Go get some water
And wash this filthy witness from your hand.
[II.ii.18-45]
Rispetto alle battute immediatamente precedenti, la distanza emozionale fra i
due è qui abissale. Mano a mano che Macbeth si abbandona all’orrore e al disgusto per il crimine commesso, e lascia che il rimorso—e, quindi, la polarità
bene/male—prenda il sopravvento, Lady Macbeth comincia a reagire squalificando le sue percezioni: “foolish thought”, “consider it not so deeply”, “these
deeds must not be thought after these ways”, “to think so brain-sickly of
things”, infatti, sono tutte considerazioni che non riguardano ciò che il marito
afferma, bensì la capacità stessa del marito di afferrare e descrivere la realtà.29
Ciò a cui stiamo assistendo, dunque, è un attacco portato avanti sul piano metacomunicativo, ma Macbeth pare non rendersene conto, e continua il suo discorso sul piano del contenuto. Da qui la sensazione di incomunicabilità che le battute sembrano convogliare.
Perché mai, viene da chiedersi, Lady Macbeth dovrebbe mostrarsi così
sprezzante con il marito proprio ora che egli ha mostrato il suo “valore”? La mia
ipotesi è che si tratti di una dinamica ben nota a chiunque si occupi di terapia
della famiglia: quando il “paziente identificato” tende a dare segni di “miglioramento” (nel nostro caso, l’autonomia raggiunta da Macbeth sia nell’azione
criminosa sia, soprattutto, nella reazione emotiva), qualcun altro in famiglia
comincia a stare peggio, ad opporre resistenza, e l’intero sistema familiare—per
il quale il sintomo rivestiva una funzione omeostatica—rischia di entrare in crisi.30 Il fatto che Macbeth si sia rivelato in grado di compiere il regicidio ha in-
29
Nell’ambito degli studi sulla comunicazione familiare, questa frequentissima modalità di
comunicazione viene definita disconferma. Ecco come la descrive lo psicoterapeuta R.D.
LAING: “[…] no matter how [a person] feels or how he acts, no matter what meaning he
gives his situation, his feeling are denuded of validity, his acts are stripped of their motives, intentions and consequences, the situation is robbed of its meaning for him, so that
he is totally mystified and alienated.” (The Self and Others, Further Studies in Sanity and
Madness, pp. 135-6).
30
Vedi L. HOFFMAN, Principi di terapia della famiglia, p. 296: “Uno dei primi segnali per i
ricercatori che un sintomo psichiatrico poteva essere un fenomeno familiare fu il fatto
195
trodotto un turbamento nell’equilibrio della coppia, poiché vengono a mancare i
presupposti per confrontarsi sulla sua inettitudine e sul suo bisogno di aiuto,
sottraendo così margine d’azione e di argomentazione alla moglie e lasciando a
Macbeth stesso la possibilità di leggere gli eventi secondo la polarità a lui più
affine.
Un errore, un segno di incapacità da parte di Macbeth, sarebbe a questo punto provvidenziale, poiché permetterebbe alla relazione di riportarsi su binari conosciuti. E un errore è stato commesso:
LADY M.
Why did you bring these daggers from the place?
They must lie there. Go, carry them, and smear
The sleepy grooms with blood.
MACBETH I’ll go no more.
I am afraid to think what I have done,
Look on ‘t again I dare not.
LADY M.
Infirm of purpose!
Give me the daggers. The sleeping and the dead
Are but as pictures. ‘Tis the eye of childhood
That fears a painted devil. If he do bleed
I’ll gild the faces of the grooms withal,
For it must seem their guilt.
[II.ii.46-55]
Quale repentina trasformazione! Non appena Lady Macbeth individua una
falla nell’azione del marito, la conversazione può procedere secondo il pattern
ormai abituale, la comunicazione fra i due riprende, e la polarità dominante torna ad essere quella della dipendenza/indipendenza, mantenuta con tenacia da
Lady Macbeth ridefinendo la reazione del marito in soli termini di paura, e mai
di colpa. Coraggio e paura, così, sono nuovamente le emozioni salienti, e Lady
Macbeth può finalmente ricorrere a modalità e metafore che riportano Macbeth
nel ruolo di “bambino”: dandogli, cioè, un ordine (e, quindi, l’occasione di disubbidire) e associando “fear” a “eye of childhood”. Ma c’è di più: dopo tanti
interventi verbali, Lady Macbeth ha infine occasione di offrire un aiuto concreto, quell’intervento “non metafisico”—“leave all the rest to me”—che aveva
promesso (e imposto) a Macbeth fin dalla loro prima interazione.
spesso notato che se il disturbo del paziente designato migliorava, altri problemi potevano
nascere.”
196
Quando sviene Lady Macbeth?
A questo punto, tutti gli ostacoli che separavano la coppia dalla corona sono
stati eliminati. In teoria, non rimane loro altro da fare che godersi il compimento—per quanto assai forzato—della profezia delle streghe. In realtà, come gli
spettatori e Macbeth ben sanno, si tratta di un risultato parziale, sul quale incombe un’enorme ombra. Ma per quanto è dato di sapere a Lady Macbeth, lei e
suo marito sono davvero all’apice del successo, proprio come li vuole Freud.
Lady Macbeth, in particolare, oltre a essere in procinto di diventare regina di
Scozia, ha tutte le ragioni per ritenere di aver confermato in modo definitivo il
proprio ascendente sul marito, e dunque il suo successo è doppiamente coronato. Eppure, è proprio nella scena immediatamente successiva all’omicidio che ci
è data occasione di assistere al suo primo segno di cedimento: Lady Macbeth
sviene.
Lo svenimento di Lady Macbeth è già di per sé un fatto piuttosto incongruo
e ambiguo. Alcuni commentatori lo interpretano come una messa in scena—un
preteso svenimento—avente lo scopo di aiutare (ancora una volta) Macbeth ad
uscire da una situazione assai critica. Altri, come Bradley, sono più propensi a
cogliere in questo cedimento il primo sintomo di una spirale di rimorsi che la
porterà al sonnambulismo e al suicidio.31 A prima vista, le ipotesi fino ad ora
qui formulate parrebbero accordarsi meglio con uno svenimento preteso, soprattutto se finalizzato ad aiutare Macbeth, che con un improvviso quanto immotivato pentimento. Eppure, fra le motivazioni fornite da Bradley a favore dello
svenimento autentico ce n’è una che, perlomeno in una lettura come quella qui
proposta, non può essere sottovalutata: “she would not willingly have run the
risk of leaving her husband to act his part alone”.32 Oltre ad essere
un’osservazione assai sottile, riassume in modo egregio il tipo di relazione coniugale che ho tentato di illustrare nelle pagine precedenti. Ma c’è anche un altro dato decisamente a favore dello svenimento autentico: come scopriremo
31
A.C. BRADLEY, Shakespearean Tragedy, p. 343.
32
Ibid., p. 458.
197
nell’atto conclusivo del dramma, Lady Macbeth finirà comunque, e senza ombra
di dubbio, per “soccombere”, come dice Freud. Ora, o si opta per
un’interpretazione secondo la quale il cedimento avviene all’improvviso (o fuori scena), oppure, se si ritiene che sia l’esito di un processo del quale la tragedia
rende conto, lo svenimento nel secondo atto sembra essere un ottimo candidato
per segnare l’inizio di una crisi—il punto di svolta.
Il principale problema dell’interpretazione di Bradley, a mio parere, non sta
nell’inverosimiglianza delle motivazioni, quanto nella loro astrazione dal contesto. Se si afferma che Lady Macbeth sviene perché inizia a provare rimorsi, non
si può poi al tempo stesso sostenere che il suo provare rimorsi è confermato dal
fatto che sviene, come sembra suggerire Bradley: sarebbe una dimostrazione
troppo circolare, che finirebbe per non spiegare alcunché. Se mai una giustificazione per lo svenimento di Lady Macbeth esiste, questa va cercata tenendo conto dei contesti relazionali e situazionali entro i quali avviene.
Propongo, quindi, di ripercorrere brevemente gli eventi che conducono al
grido “Help me hence, ho!” e alla successiva perdita di sensi. Macduff, uscito di
scena per andare a chiamare Duncan, rientra gridando “O horror, horror, horror!” e annunciando il più sacrilego degli assassinii (II.iii.62-73). Macbeth e
Lennox si precipitano nella stanza del re per constatare con i propri occhi la tragedia. Nel frattempo, entrano in scena Lady Macbeth e Banquo. Alla notizia del
regicidio, Lady Macbeth ha una reazione divenuta famosa per la sua inopportunità—“Woe, alas! What, in our house?” (II.iii.86-87)—ma in realtà assolutamente coerente con quanto sappiamo del suo sistema di polarità semantiche.33
Seccamente rimbrottata da Banquo con il suo “Too cruel anywhere”, Lady Macbeth assiste, senza mostrare segni di cedimento, al rientro del marito e di Lennox e al loro terribile resoconto. In fin dei conti, ciò che stanno descrivendo è
materia a lei ben nota, no? Oppure no? Ecco i cruciali versi immediatamente
precedenti lo svenimento:
33
Cfr. K. ELAM, “«Thou’rt mad to say it»: Seven types of ineffability in Macbeth”, p. 204:
“Lady Macbeth, at Macduff’s announcement of the non-news regarding the King’s murder, produces what appears to be an almost comically inappropriate and inadequate response, brief, elliptical and oblique, making no reference to the event or to her emotional
state and expressing only proprietorial concern over the venue”.
198
LENNOX
Those of his chamber, as it seemed, had done 't.
Their hands and faces were all badged with blood,
So were their daggers, which, unwiped, we found
Upon their pillows. They stared and were distracted.
No man's life was to be trusted with them.
MACBETH O, yet I do repent me of my fury
That I did kill them.
MACDUFF Wherefore did you so?
MACBETH Who can be wise, amazed, temp'rate and furious,
Loyal and neutral in a moment? No man.
Th' expedition of my violent love
Outran the pauser, reason. Here lay Duncan,
His silver skin laced with his golden blood,
And his gashed stabs looked like a breach in nature
For ruin's wasteful entrance; there the murderers,
Steeped in the colours of their trade, their daggers
Unmannerly breeched with gore. Who could refrain,
That had a heart to love, and in that heart
Courage to make 's love known?
LADY M.
Help me hence, ho!
[II.iii.101-118]
A quanto pare, qualcosa di cui Lady Macbeth poteva non essere a conoscenza c’è: suo marito ha ucciso le guardie. Rispetto all’enormità di quanto accaduto, questo può apparire un particolare irrilevante. Se però consideriamo la tacita
regola della coppia (il “tenersi informati” affrontato nelle sezioni precedenti), la
reazione spropositata di Lady Macbeth all’annuncio dell’inatteso arrivo di Duncan (I.vii.47-48), la sua avversione alle variazioni rispetto ai piani concordati
(2.2.46-48) e il fatto che, nel pur dettagliatissimo piano del regicidio (da lei
stessa predisposto), l’uccisione delle guardie non fosse affatto contemplata, non
ci è difficile intuire come questa iniziativa personale di Macbeth possa essere
considerata, nell’economia della coppia, un’ennesima violazione. Più grave ancora, la nuova definizione di “uomo” qui offerta da Macbeth (II.iii.108-109) si
prefigura come una vera e propria sfida alla moglie, sfida ulteriormente sottolineata dalla frase che precede lo svenimento e che riprende—volutamente?—un
precedente accostamento di Lady Macbeth fra coraggio e amore: “Who could
refrain, / That had a heart to love, and in that heart / Courage to make 's love
known?”
199
Questa improvvisa rivelazione del marito mette radicalmente in crisi tutti gli
equilibri della coppia e le loro stesse “mappe del mondo” per ben tre ragioni:
1. L’uccisione delle guardie è la prima—di una lunga serie—azione delittuosa che Macbeth progetta e porta a termine senza bisogno dell’aiuto
della moglie.
2. Al tempo stesso, è un’azione strategicamente saggia (come riconoscerà
Lennox in 3.6.14).
3. Infine, è un’azione che rientra perfettamente nella definizione di “agire da
uomo” secondo i parametri Lady Macbeth. Anzi, ci rientra fin troppo.
È importante sottolineare il “fin troppo”, perché è proprio l’esagerazione la
chiave che ci permette di comprendere fino a che punto la rivelazione di Macbeth possa aver sconvolto la moglie. Proviamo, infatti, a riconsiderare il doppio legame nel quale Lady Macbeth costringe il marito (vedi figura 5.2). A
quanto pare, Macbeth ha escogitato un modo per uscirne: comportandosi in modo troppo ardito, è riuscito a “ubbidire disubbidendo”, soddisfacendo così
l’ingiunzione ad essere adulto sia sul piano del contenuto sia su quello della relazione. Si tratta di una mossa strategica affine a quella nota come “amplificazione del sintomo”, alla quale i terapeuti della famiglia a volte ricorrono per
sbloccare pattern relazionali particolarmente resistenti al cambiamento. Ma qui
non siamo nel contesto protetto di una terapia, anzi: siamo nel bel mezzo di una
fra le più violente tragedie mai scritte. Il rischio immediato al quale la coppia va
incontro è quello dell’isolamento: Lady Macbeth senza più nessuno da “accudire”, Macbeth senza più nessuno che lo aiuti. Se la lettura fino ad ora proposta ha
qualche validità, dunque, non c’è da stupirsi che Lady Macbeth perda i sensi
proprio in questo esatto frangente del dramma: ha appena scoperto che il “mostro” da lei creato si è ormai completamente sottratto al suo controllo.
La quarta interazione: “Be innocent of the knowledge, dearest chuck”
Nel terzo atto assistiamo alle prime conseguenze del crollo della relazione
fra Macbeth e la moglie. Nella prima scena, completamente all’insaputa di Lady
Macbeth, che sta perdendo il suo ruolo di “aiutante/dominatrice”, Macbeth si
200
rivolge ai tre assassini per commissionare loro l’omicidio di Banquo e di Fleance. La scena successiva si apre proponendoci una situazione tanto inedita quanto prevedibile: Lady Macbeth, ora regina, si presenta giù di tono, delusa per la
“dubbia gioia” nella quale è ormai condannata a sopravvivere. Quando il marito, su sua esplicita richiesta (“Say to the King I would attend his leisure / For a
few words”, III.ii.3-4), la raggiunge, la prima domanda che ella gli pone è sintomatica della svolta impressa al loro rapporto dalla recente crisi: “How now,
my lord, why do you keep alone” (III.ii.10). Il processo che li condurrà a un
progressivo isolamento è dunque già ampiamente avviato, e risulta qui amplificato dal fatto che Lady Macbeth, pur condividendo—perfino a livello lessicale—le angosce del marito, non ne venga da lui resa partecipe. Pensano gli stessi
pensieri, ma ciascuno li pensa per proprio conto.
In effetti, l’intera seconda scena del terzo atto, se considerata come uno studio sul linguaggio allusivo e sulla reticenza fra coniugi, è un vero capolavoro,
impregnata com’è di sospetti non esplicitati, di intenzioni appena accennate e
subito occultate, di tentativi di comunicazione abortiti sul nascere.34 Benché i
due coniugi si riferiscano, con locuzioni vaghe e metaforiche, a un non meglio
precisato senso di incompiutezza (“Naught's had, all's spent, / Where our desire
is got without content”, dice Lady Macbeth; e il marito le fa eco con “We have
scorched the snake, not killed it”), il cono d’ombra attorno al quale si sviluppa
il dialogo—il nucleo semantico che dà coesione lessicale e coerenza psicologica
all’intero scambio—è evidentemente Banquo. Sintomatica, per esempio, la domanda d’esordio di Lady Macbeth (“Is Banquo gone from court?”, III.ii.1). Perfide, invece, le due allusioni di Macbeth (“Let your remembrance / Apply to
Banquo...”, III.ii.31-32; “Thou know’st that Banquo and his Fleance lives...”,
III.ii.38), entrambe volutamente lasciate in sospeso dal magistrale “Be innocent
34
A questo proposito, è curioso che due grandi registi come Polanski e Welles, nei loro rispettivi Macbeth cinematografici, abbiano scelto—discostandosi dalla stage direction comunemente adottata—di lasciare Lady Macbeth a fianco del marito quando egli pronuncia
il famoso monologo della prima scena del terzo atto (quello nel quale si riferisce in modo
esplicito al “problema Banquo”). In tal modo, la sottigliezza psicologica della seconda
scena, e più in generale della relazione fra Macbeth e Lady Macbeth, risulta notevolmente
penalizzata.
201
of the knowledge, dearest chuck, / Till thou applaud the deed” (III.ii.46-47)—la
risposta con la quale Macbeth, privando di ogni valore due precedenti affermazioni della moglie (rispettivamente, “Thy letters have transported me beyond /
This ignorant present”, I.v.55-56; e “Leave all the rest to me”, I.v.72), conquista
definitivamente la posizione di one-up.35
Circa quest’ultimo verso, vale la pena soffermarci un istante sull’uso di
“chuck”, poiché usato in questo contesto è un termine perlomeno insolito: sentire Macbeth rivolgersi alla sua istigatrice dal cuore di pietra—come la vorrebbe
Freud—con un “pulcino mio” (o “cocca”, come alcuni hanno tradotto) certo non
passa inosservato! Vivian Salmon, in un saggio sull’inglese colloquiale
elisabettiano, annota “chuck” fra i termini usati per esprimere affetto,
aggiungendo però che “non è comunemente usato con le mogli e gli amici
intimi”.36 Secondo me, qui non si tratta né di una “spia di volgarità” né di una
semplice espressione di affetto: a livello performativo-strategico, l’uso di
“chuck” sottolinea e rafforza il rovesciamento complementare della posizione di
Macbeth da one-down a one-up. Nelle tragedie, Shakespeare lo impiega altre tre
volte, e sempre in circostanze assai particolari: due volte in bocca a Othello
(“What promise, chuck?”, III.iv.49; “Pray you, chuck, come hither”, IV.ii.25)
per rivolgersi a Desdemona quando già è completamente in preda alla gelosia,
convinto del tradimento; e una volta in Antony and Cleopatra (“No, my chuck.
Eros, come, mine armour, Eros!”, IV.iv.2). Quest’ultima occorrenza, in
particolare, si presenta in una situazione curiosamente simile a quella di
Macbeth, e nella quale l’uso di “chuck” sembra quanto meno inopportuno.
Antony, ormai sull’orlo del baratro, sta preparandosi a una battaglia che sarà sì
vittoriosa, ma che prelude alla sua sconfitta definitiva. Cleopatra cerca di
calmarlo adottando una strategia squisitamente “ladymacbethiana”: “Sleep a little” (IV.iv.1). E anche qui il “chuck” della replica di Antony sottolinea un
35
Non a caso, è proprio in questo esatto punto del dramma che W. EMPSON individua il salto
di livello nell’evoluzione di Macbeth “into a new, into the accustomed, readiness for murder” (Seven Types of Ambiguity, 1930; per la citazione, vedi il capitolo “Ambiguity of the
first type” nella raccolta antologica curata da D. LODGE, 20th Century Literary Criticism,
London, p.149).
36
V. SALMON, “L’inglese colloquiale elisabettiano nelle commedie di Falstaff”, in K. ELAM
(a cura di), La grande festa del linguaggio, pp. 242-243.
202
della replica di Antony sottolinea un ribaltamento di posizione, per quanto temporaneo, da one-down a one-up.
La domanda da porsi, a questo punto, mi pare debba essere: come si è resa
possibile una simile inversione dei rapporti di potere? Se questa fosse un’analisi
focalizzata sui personaggi come individui, la risposta avrebbe probabilmente a
che fare con: a) la capacità acquisita da Macbeth di mantenere segreti tali da
permettergli di muoversi indipendentemente dalla moglie; e b) l’incipiente
“ammorbidimento” di Lady Macbeth, che comincia a cedere ai rimorsi. Entrambe queste spiegazioni rimangono valide anche nell’ambito di un’analisi relazionale, ed è interessante osservare come riflettano le due polarità semantiche dipendenza/indipendenza e bene/male. Non sono, però, sufficienti a offrire una
lettura che tenga conto del contesto relazionale entro il quale avviene il cambiamento. In altre parole, come sono collegate fra loro queste due notevoli variazioni della “danza familiare” dei Macbeth? Ritengo che gli elementi e le ipotesi fino ad ora raccolte ci permettano di avanzare qualcosa di più di una semplice supposizione: il “gioco” non può più andare avanti come prima perché sono venuti a mancare i presupposti per una regola fondamentale della coppia, e
cioè quella che prevede che Lady Macbeth aiuti e che Macbeth si lasci aiutare.
Se ripercorriamo con attenzione il dialogo della seconda scena, infatti, non
avremo difficoltà ad accorgerci che, nonostante l’evidente panico del quale entrambi sono preda, Lady Macbeth non è mai in grado di condividere con Macbeth la propria fragilità e la propria debolezza. Cosa la blocca? O meglio, quale
strategia adotta per impedirsi di aprire il proprio cuore al marito? Proviamo a rileggere i punti pragmaticamente salienti dei suoi interventi:
• Things without all remedy
Should be without regard. What's done is done.
• Come on, gentle my lord,
Sleek o'er your rugged looks, be bright and jovial
Among your guests tonight
• You must leave this.
• But in them nature's copy's not eterne.
• What's to be done?
203
Se ne isoliamo l’aspetto performativo, questi versi sembrano dire tutti la
stessa cosa: “eccomi, sono qui per aiutarti”. La loro straordinaria somiglianza ci
dà un’idea quasi “quantitativa” della rigidità del pattern relazionale dei Macbeth:37 l’unica modalità con la quale Lady Macbeth sa rapportarsi al marito è
quella dell’offerta di aiuto. Ma il problema è che ora Macbeth non ha più bisogno dell’aiuto della moglie. La situazione, per lei, si sta facendo estremamente
pericolosa: non solo sta scoprendo di essere diventata inutile, ma addirittura rischia di “perdere il posto”, cioè non le è più consentita quella posizione di “indipendente”—lungo l’asse semantico dipendenza/indipendenza—che rappresentava la sua nicchia familiare d’elezione. Lady Macbeth, se vuole sopravvivere, dovrà tentare di “riciclarsi”.
Già, ma cosa significa “riciclarsi” nell’ambito di un “mercato del lavoro”
dalle alternative così ridotte come quello dell’economia familiare? Considerando le polarità salienti della famiglia Macbeth, significa che a Lady Macbeth non
rimarrà altro che cercare una collocazione lungo l’unico altro asse semantico da
loro condiviso, e cioè quello bene/male. Il processo sarà ragionevolmente lungo
e, considerando i suoi “precedenti penali”, c’è da supporre che Lady Macbeth
tenterà l’impossibile pur di evitare una ridefinizione del proprio ruolo in base a
parametri etici, ma è un processo che pare aver già avuto inizio. D’altro canto,
se la posizione di “cattivo” verrà occupata da Lady Macbeth, anche Macbeth si
ritroverà in parte spodestato, ed è ragionevole attendersi un suo sempre più deciso spostamento verso la polarità semantica indipendenza/dipendenza, ed anche questo è un fenomeno che in una certa misura abbiamo già potuto apprezzare. La conferma di questi sconvolgimenti, se conferma ci sarà, ci verrà offerta
dalla redistribuzione delle emozioni familiari fra i due coniugi.
37
Circa la rigidità delle loro modalità, possiamo qui notare un fenomeno già rilevato in precedenza, e cioè come Lady Macbeth tenda a verbalizzare ciò che Macbeth ha già deciso
per proprio conto: “But in them nature's copy's not eterne”, dice, infatti, riferendosi a Banquo e Fleance.
204
Hecate, l’isotopia dell’esclusione e le profezie autoavverantesi
Prima di proseguire, vorrei proporre una breve digressione su alcune dramatis personae che, pur non essendo direttamente coinvolte nella relazione coniugale dei Macbeth, la influenzano e la riflettono in modo singolare: le streghe.
Possiamo cominciare mettendo in rilievo un banale parallelismo: sia nella scena
d’apertura sia nel terzo atto le streghe “anonime” sono tre, proprio come gli assassini. Il ruolo che svolgono rispetto all’azione, però, è assai diverso: il loro
agire, infatti, si limita perlopiù all’annunciare il futuro e, di conseguenza, incitare Macbeth. Ciò le rende, dunque, funzionalmente più affini a Lady Macbeth
(con la quale condividono anche un certo modo di esprimersi, come abbiamo
osservato), e per la precisione alla Lady Macbeth del primo atto.
Nella quinta scena del terzo atto, alle tre streghe anonime se ne aggiunge una
quarta, il cui nome è già echeggiato due volte nella parole di Macbeth (in II.i.52
e in III.ii.42): Hecate. Si tratta di una scena che la maggior parte dei filologi
tende ad attribuire a Middleton—o, perlomeno, non a Shakespeare—per ragioni
legate a testimonianze dell’epoca, allo schema metrico e, soprattutto, alla presenza di una canzone ripresa da (o prestata a?) The Witch dello stesso Middleton.38 Non mancano, comunque, pareri di segno diverso, come per esempio
quello di Serpieri, il quale sottolinea la funzionalità della scena sia all’impianto
drammatico sia a quello tematico dell’intera tragedia.39
Non avendo competenze in campo filologico, mi astengo dall’avanzare ipotesi personali circa il problema dell’attribuzione. C’è però un aspetto della relazione fra Hecate e le altre streghe che riprende, esplicitandola ed amplificandola, una modalità già riscontrata in Lady Macbeth. Poiché, per il tipo di analisi
che sto conducendo, questa ripetizione si viene a configurare come una sorta di
isotopia relazionale, ritengo valga la pena dedicarvi attenzione. Ecco dunque i
bizzarri versi con i quali Hecate si rivolge alle sue tre “colleghe” in occasione
del suo prorompente ingresso in scena:
38
Cfr. K. MUIR (a cura di), Macbeth, pp. xxxii-xxxv.
39
Vedi A. SERPIERI (a cura di), Macbeth, pp. 116-117.
205
Have I not reason, beldams as you are?
Saucy and over-bold, how did you dare
To trade and traffic with Macbeth
In riddles and affairs of death,
And I, the mistress of your charms,
The close contriver of all harms,
Was never called to bear my part
Or show the glory of our art?
And, which is worse, all you have done
Hath been but for a wayward son,
Spiteful and wrathful, who, as others do,
Loves for his own ends, not for you.
[III.v.2-13]
Hecate, evidentemente, è furiosa, come intuisce la prima strega al solo vederla apparire (“Why, how now, Hecate? You look angerly.”, III.v.1). Il motivo
per cui è così arrabbiata è uno soltanto: è stata esclusa. Esclusa da che cosa?
Esclusa dal “fare la sua parte” (“to bear my part”). Detto altrimenti, le tre “sorelle fatali” hanno preso un’iniziativa senza renderla partecipe, e questo, a quanto
ci è dato di capire, viola le norme che regolano il loro rapporto con Hecate. Già,
perché Hecate è, come lei stessa si definisce, “the mistress of your charms / the
close contriver of all harms”. Ora, chiunque sia l’autore di questi versi e per
quanto possa essersi scostato dal piede trocaico caratteristico della parlata delle
altre streghe, penso gli si possa dare atto di essersi mantenuto straordinariamente coerente con i passi di danza della coreografia emotiva che Macbeth e Lady
Macbeth hanno allestito sin dal primo atto. Anche Macbeth, come le tre streghe,
ha avuto l’insolenza di “trafficare in affari di morte” senza coinvolgere la moglie. E Lady Macbeth, la quale ha più volte fatto notare al marito di essere “the
mistress of [his] charms” e la “close contriver of all harms”, sembra non aver
gradito l’esclusione più di quanto l’abbia gradita Hecate. Magari sta persino
cominciando a sospettare che egli agisca “for his own ends, not for [her]”. Certo, questa è null’altro che una fragile ipotesi, così come potrebbe essere solo
una fortuita coincidenza se l’ultimissima battuta che sentiremo pronunciare da
Lady Macbeth (“Come, come, come, come...”, V.i.64) sembra riprendere la canzone con la quale Hecate esce di scena (“I come, I come, I come, I come...”,
III.v.40). Rimane il fatto che la comparsa e l’intervento di Hecate contribuisco-
206
no, anche su un piano strettamente emozionale, a conferire
Destinatore
(streghe)
Oggetto
(regno)
A conclusione di questa rapida incursione nella dimensione “magica” di Macbeth, vorrei
considerare le affinità—questa
volta tutt’altro che fortuite—fra
le ultime due profezie del primo
atto e un fenomeno, ben noto
nell’ambito della terapia della
Destinatario
(Macbeth)
VOLERE
ulteriore unità al dramma.
SAPERE
Soggetto
(Macbeth)
Aiutante
(streghe)
POTERE
Oppositore
(Duncan)
Fig. 5.3: la profezia delle streghe secondo il
modello attanziale mitico di Greimas
(da Serpieri, Retorica e immaginario, 1986)
famiglia, noto come “profezia auto-avverantesi”. “The self-fulfilling prophecy,”
scrive Paul Watzlawick, “from the interactional viewpoint, is perhaps the most
interesting phenomenon in the area of punctuation. A self-fulfilling prophecy
maybe regarded as the communicational equivalent of «begging the question».
It is behavior that brings about in others the reaction to which the behavior
would be an appropriate reaction. For instance, a person who acts on the premise that «nobody likes me» will behave in a distrustful, defensive, or aggressive
manner to which others are likely to react unsympathetically, thus bearing out
his original premise.”40
La profezia relativa al “diventare re” e quella sulla stirpe di Duncan potrebbero essere considerate self-fulfilling prophecies? E, in caso positivo, cosa significherebbe ciò? Per tentare di rispondere, proviamo a partire considerando il
ruolo della profezia sul “diventare re” secondo un modello ormai classico, quello attanziale mitico di Greimas (vedi Fig. 5.3).41 È una rappresentazione assai
particolareggiata, ma il suo livello di astrazione è talmente elevato da farla
risultare a mio avviso poco utile per comprendere come funziona la profezia. Se
da una parte è evidente che le streghe hanno funzione destinante sull’asse del
sapere, in che modo aiutano Macbeth sull’asse del potere, visto che non in-
40
P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communiation, pp. 98-99.
41
La figura è tratta da A. SERPIERI, Retorica e immaginario, p. 205.
207
Fig. 5.4: le profezie delle streghe secondo il modello della
self-fulfilling prophecy
PROFEZIA 2:
“sarò re”
(RE-) AZIONE:
scrivere a Lady M.
REAZIONE:
“devi uccidere il re”
tervengono mai?
La metà superiore dello schema
proposto in figura 5.4, eviden-
PROFEZIA 3:
“non rimarrò re”
(RE-) AZIONE:
uccidere i rivali
REAZIONE:
tutti in guerra contro me
ziando la circolarità fra la profezia (quindi, il
sapere) e il suo
compimento (il potere), offre una possibile spiegazione: Macbeth crede di essere destinato a diventare re (e teme di dover far ricorso alla violenza), quindi si
comporta con la moglie di conseguenza—cioè, scrivendole—e quest’ultima reagisce aiutandolo a (o imponendogli di) diventare re. Analoga, e forse più chiara, è la dinamica che sottende al compimento della terza profezia: in questo caso, è evidente come proprio il timore di perdere la corona sia la causa scatenante
delle (re-)azioni che condurranno Macbeth a perderla.
La quinta interazione: “Are you a man? Ay, and a bold one!”
Da un punto di vista strettamente relazionale, la quarta e ultima interazione
fra i due coniugi (il banchetto: atto terzo, scena quarta) non propone alcunché di
nuovo. La comunicazione continua a basarsi su tattiche alle quali ormai siamo
abituati, e le polarità semantiche soggiacenti a definizioni ed emozioni sono ancora bene/male e dipendenza/indipendenza. Ciò non significa, però, che
all’interno della coppia non avvenga alcun cambiamento: di cambiamenti, come
vedremo, ce ne sono eccome. Piuttosto, significa che i cambiamenti si sviluppano entro una cornice di riferimento—un metalivello, dunque—che è sempre la
stessa dall’inizio del dramma. Poiché, come si è detto nel secondo capitolo, è
esattamente su questa “coerenza di secondo livello”, più che sulle singole azioni, che si fonda la possibilità di una mimesi delle relazioni familiari, propongo
di porre comunque la dovuta attenzione anche a quest’ultima interazione, e in
particolare all’individuazione di pattern ricorrenti e variazioni inattese.
208
Le battute di esordio, nel loro avvicendarsi di turn-taking senza sorprese,
condensano in pochi versi la modalità relazionale paradigmatica dei Macbeth:
Banquet prepared. Enter Macbeth as King, Lady Macbeth as
Queen, Ross, Lennox, Lords, and attendants. [Lady Macbeth sits]
MACBETH You know your own degrees; sit down. At first and last
The hearty welcome.
LORDS
Thanks to your majesty.
They sit
MACBETH Ourself will mingle with society
And play the humble host. Our hostess keeps her state,
But in best time we will require her welcome.
LADY M.
Pronounce it for me, sir, to all our friends,
For my heart speaks they are welcome.
[III.iv.1-7]
Macbeth, come sempre impacciato quando costretto a muoversi in società,
rivolge a Lady Macbeth una richiesta di aiuto, tentando di delegarle il “benvenuto”—non subito, “in best time”... e anche questa dilazione non dovrebbe sorprenderci. Lady Macbeth, seppure con l’impareggiabile cortesia verso gli ospiti
che già in altre occasioni ha avuto modo di mostrare, gli rifiuta esplicitamente
l’aiuto richiesto. Dunque, una variazione (il rifiuto) entro un frame abituale (la
richiesta di aiuto). Questo doppio livello del comportamento è tipico di un
gruppo sociale come la famiglia, di un gruppo, cioè, che è al tempo stesso un
aggregato di individualità e un’unità dotata di regole proprie. A tal proposito, è
interessante osservare come ciò che dall’esterno può “funzionare” come un garbato scambio di convenevoli, visto alla luce delle regole intrinseche alla famiglia possa rivelarsi un condensato di frasi pungenti, sfide, rancori e vendette.
Detto altrimenti, l’atto linguistico che si cela dietro al “Pronounce it for me” di
Lady Macbeth può essere tradotto sia come un neutrale “lascio a te l’onore, caro” sia come “credevi di non avere più bisogno del mio aiuto, eh? Bene, vediamo un po’ come te la cavi da solo…”.
Comunque sia da intendere il rifiuto di Lady Macbeth, i versi immediatamente successivi ci dimostrano che, senza il suo aiuto, gli esiti sono quanto meno deludenti. Il primo assassino, infatti, rivela a Macbeth che il piano per sopprimere Banquo e Fleance è parzialmente fallito. La reazione relativamente
composta di Macbeth appare quasi sorprendente. In realtà, anche in questo caso
209
assistiamo all’ennesima messa in atto della tattica del rimandare: “Get thee
gone. Tomorrow / We’ll hear ourselves again” (III.iv.30-31).
Il resto della scena ci offre infine la rappresentazione di quello che, senza
timore di esagerare, possiamo definire un autentico episodio psicotico. Quale
che sia la natura dello spettro di Banquo (allucinazione? fenomeno soprannaturale?), infatti, il plateale comportamento di Macbeth durante il banchetto presenta caratteristiche tipicamente egodistoniche, portandolo per esempio a rifiutare contro ogni evidenza il fatto che il posto a lui riservato è libero, e a perdere
completamente l’autocontrollo nonostante la presenza dei nobili di Scozia.
Premetto che sono alquanto restio ad applicare categorie diagnostiche della psichiatria contemporanea all’analisi di un personaggio teatrale di una tragedia che
ha ormai quattro secoli, così come mi lascia assai perplesso il ricorso al concetto di “patologia” per comportamenti ovviamente dettati da esigenze puramente
drammatiche. Ciò che, in questo caso particolare, mi spinge ad osare più del solito è che il testo stesso trabocca di riferimenti diretti al disturbo mentale di Macbeth. E non tanto perché Macbeth dichiara di avere una “strange infirmity”
(III.iv.85) e viene definito dalla moglie “quite unmanned in folly” (III.iv.72),
quanto per l’atmosfera di imbarazzo—“If much you note him / You shall offend
him” (III.iv.55-56)—che si crea attorno al suo modo di comportarsi, segnalata
dal tentativo disperato, portato avanti da Lady Macbeth, di ridurre la gravità
dell’episodio riconducendolo a un’assai poco convincente condizione di “normalità”: “My lord is often thus” (III.iv.52), “The fit is momentary” (III.iv.54),
“Think of this, good peers, / But as a thing of custom” (III.iv.95-96).
Alla fine, anche Lady Macbeth deve rassegnarsi ad ammettere apertamente
che la situazione è divenuta insostenibile (“You have displaced the mirth, broke
the good meeting / With most admired disorder”, III.iv.108-109), e si trova costretta a congedare brutalmente gli invitati:
I pray you, speak not. He grows worse and worse.
Question enrages him. At once, good night.
Stand not upon the order of your going,
But go at once.
[III.iv.116-119]
210
Conoscendola (e ormai possiamo dire di conoscerla piuttosto bene), non è
difficile percepire quale senso di sconfitta e umiliazione traspaia da questi versi,
sublimi per il loro realismo e per il carattere di urgenza che trasmettono. Lei, la
“sweet remembrancer” (III.iv.36) dal contegno impeccabile, l’ospite irreprensibile e talmente attenta alle formalità da reagire con un “What, in our house!” alla notizia dell’omicidio di Duncan, proprio lei è ora obbligata a supplicare i
convitati di ignorare l’etichetta (“Stand not upon the order of your going”) pur
di allontanarli nel più breve tempo possibile.
Macbeth, dunque, è a questo punto “ufficialmente” malato. Già, ma di che
genere di malattia? E, soprattutto, a quale funzione adempiono i suoi sintomi
nell’ambito dell’economia familiare? Per tentare un’ipotetica risposta alla prima
domanda, invece di ricorrere troppo precipitosamente al capiente ombrello della
schizofrenia (una “diagnosi” sotto molti punti di vista esagerata per un uomo
che, pur fra mille difficoltà, continuerà a portare avanti un compito complesso
come è quello di gestire un regno), propongo di dare una breve occhiata ai tre
tratti salienti della sintomatologia classica del cosiddetto disturbo ossessivocompulsivo:
A Ossessioni come definite da 1, 2, 3 e 4:
1 pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche
momento nel corso del disturbo, come intrusivi o inappropriati, e che
causano ansia e disagio marcati;
2 i pensieri, gli impulsi, o le immagini non sono semplicemente eccessive
preoccupazioni per i problemi della vita reale;
3 la persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o immagini, o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni;
4 la persona riconosce che i pensieri, gli impulsi, o le immagini ossessive
sono un prodotto della propria mente.
Compulsioni come definite da 1 e 2:
1 comportamenti ripetitivi (per es., lavarsi le mani, riordinare, controllare),
o azioni mentali (per es., pregare, contare, ripetere parole mentalmente)
che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad
un’ossessione, o secondo regole che devono essere applicate rigidamente;
2 i comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre il disagio, o a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; comunque questi
comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico
con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono
chiaramente eccessivi.
211
B In qualche momento nel corso del disturbo la persona ha riconosciuto che le
ossessioni o le compulsioni sono eccessive o irragionevoli.
C Le ossessioni o compulsioni causano disagio marcato, fanno consumare tempo (più di un’ora al giorno), o interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico),
o con le attività o relazioni sociali usuali.42
Ora, anche senza ricordare episodi platealmente compulsivi come il riferimento al lavaggio del sangue dalle mani (II.ii.57-61), penso si possa riconoscere
che vi è un notevole margine di sovrapponibilità fra questi sintomi e il comportamento di Macbeth, in particolare per quanto riguarda il suo continuo oscillare
fra stati allucinatori e periodi di iperattività, una forma di coazione a ripetere
che lo porta, in una spirale inarrestabile, a reagire ai rimorsi con la violenza e alla violenza con i rimorsi. Al tempo stesso, se pur si giungesse a “incasellare”
Macbeth nella definizione di ossessivo-compulsivo, non credo si sarebbe fatto
alcun passo avanti nell’interpretazione di quanto avviene sulla scena. Ciò che
mi pare assai più significativo è che la nevrosi ossessivo-compulsiva pare sia
una manifestazione patologica tipica delle famiglie nelle quali la polarità semantica bene/male abbia una rilevanza primaria: “[Nelle] famiglie al cui interno si sviluppano organizzazioni a orientamento ossessivo-compulsivo, […] al
centro della dinamica emotiva vi è la contrapposizione fra bene e male. La polarità semantica critica è «buono/cattivo». Tale polarità è, in queste famiglie, saliente”,43 scrive Ugazio. E aggiunge un’osservazione che, a mio parere, ben si
presta a descrivere le rare manifestazioni di “bontà” presenti in Macbeth, sia nel
contesto della coppia regale sia, più in generale, in personaggi dal comportamento non sempre ineccepibile, come per esempio Banquo (il quale, pur essendo, in quanto leggendario capostipite di James I, teoricamente l’eroe “topico” di
questa tragedia senza eroi, non fa nulla per impedire il regicidio e l’ascesa al
trono di Macbeth): “Ciò che contraddistingue queste famiglie non sono soltanto
la polarità «bene/male» e i processi schismogenetici di cui è oggetto, ma soprattutto l’adesione a una concezione «sottrattiva» della bontà: buono è chi rinuncia
42
AA.VV., Mini DSM-IV. Criteri diagnostici. pp. 230-2.
43
Vedi V. UGAZIO, Storie permesse storie proibite, cap. 5, “La semantica del sacrificio: la
nevrosi ossessivo-compulsiva”, p. 185.
212
all’espressione dei propri desideri e interessi, chi si sacrifica, chi si allontana
dalla dinamica «pulsionale», e non chi è disponibile, accogliente, garbato e generoso verso gli altri. Cattivo è invece chi sa esprimere la propria sessualità e le
proprie «pulsioni» aggressive”.44
Tornando ora alla “strange infirmity” di Macbeth, se la si considera da una
prospettiva meno psichiatrica e più sistemica occorre partire dall’ipotesi che un
sintomo non è mai soltanto una somma di comportamenti provocati da cause più
o meno note: un sintomo è anzitutto funzionale al sistema. Più esattamente, tende a svolgere una funzione omeostatica, cioè aiuta a lasciare le cose come stanno. C’è qualche traccia, nella scena del banchetto, di questa tendenza
all’omeostaticità? Possiamo iniziare con l’osservare che il “sofferto” congedo di
Lady Macbeth (III.iv.116-119) del quale si è parlato poc’anzi, a ben guardare,
non è per lei così umiliante come potrebbe a prima vista apparire: poiché tutti
gli invitati sono stati testimoni diretti della follia di Macbeth e degli sforzi della
moglie per arginarne le conseguenze, il comportamento di Lady Macbeth durante il banchetto, in realtà, risulta—ai loro come ai nostri occhi—pressoché eroico. In fin dei conti, si potrebbe dire che ce l’ha messa tutta. Dunque, l’effetto
immediato della “malattia” di Macbeth è stato quello di concedere alla moglie
l’ennesima—forse l’ultima—possibilità di intervenire in suo aiuto. Non a caso,
anche in questa scena la “sweet remembrancer” coglie l’occasione per ridefinire
le angosce il marito come puerilità e trattarlo come un infante: “O, these flaws
and starts, / Impostors to true fear, would well become / A woman's story at a
winter's fire / Authorized by her grandam. Shame itself, / Why do you make
such faces?” (III.iv.62-66). Non solo: di nuovo, ci è data l’opportunità di assistere a una lotta serrata per la definizione del significato di “uomo”—ormai il
vero e proprio leit-motif della coppia.
Rispetto al primo atto, però, Macbeth è ora decisamente più assertivo: alla
domanda retorica “Are you a man?”, non esita ad abbandonare l’asse di riferimento bene/male e, accogliendo la sfida della moglie, a ridefinirsi secondo le
44
Ibid., p. 186. Per i “processi schismogenetici”, cioè i processi di differenziazione progressiva del comportamento che portano a relazioni simmetriche o complementari, vedi G.
BATESON, Verso un’ecologia della mente, pp. 101-114.
213
emozioni caratterizzanti della polarità dipendenza/indipendenza, ossia paura e
coraggio: “Ay, and a bold one, that dare look on that / Which might appal the
devil” (III.iv.57-59). Di questa progressiva dislocazione fra polarità semantiche—Macbeth sempre più orientato verso la dipendenza/indipendenza, Lady
Macbeth lentamente costretta a misurarsi con la polarità bene/male—si era già
avuto qualche presagio nel secondo atto (vedi sezione “La quarta interazione”).
Ciò che qui risulta quanto mai evidente è la con-posizione, l’intersoggettività:
LADY M.
You have displaced the mirth, broke the good meeting
With most admired disorder.
MACBETH Can such things be
And overcome us like a summer's cloud,
Without our special wonder? You make me strange
Even to the disposition that I owe,
When now I think you can behold such sights
And keep the natural ruby of your cheeks
When mine is blanched with fear.
[III.iv.108-115]
Il senso di alienazione di Macbeth non è dovuto—o meglio, non è dovuto
soltanto—all’apparizione di Banquo: è l’assenza di emozioni nel volto della
moglie a lasciarlo sconcertato e a fargli sperimentare una sorta di crisi
d’identità. Il segreto che alcune scene addietro gli aveva permesso di rivolgersi
a Lady Macbeth con paternalistica superiorità—“Be innocent of the knowledge,
dearest chuck”—ora gli si ritorce contro e contribuisce ad aggravare la sua condizione di isolamento. Condizione qui amplificata dal fatto che la stessa apparizione, in quanto visibile solo a Macbeth, agisce come un ulteriore elemento di
divisione, emarginandolo dal resto dei convitati e, in particolare, dalla moglie.
“Se non sopportate la solitudine, non sposatevi”45
Nell’analisi di Freud, il “successo” che porta Lady Macbeth al tracollo è la
corona: pur di ottenerla, ella ha sacrificato “la sua stessa femminilità, senza riflettere a quale parte decisiva questa è destinata quando successivamente si tratterà di sostenere l’obiettivo della sua ambizione.”46 Circa questa interpretazione,
45
C.A. WHITAKER, Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, p. 111.
46
S. FREUD, Opere, p. 637.
214
l’aspetto che più mi lascia perplesso è che, nella conversazione fra i due coniugi, il tema dei figli—o dell’assenza di figli—non sembra avere particolare rilievo: anzi, considerando la sua potenziale importanza rispetto al plot, si configura
piuttosto come un tabù, più che come un leit-motif. Certo, c’è l’invito a “generare solo figli maschi”, ma è formulato prima dell’omicidio di Duncan. E anche
nel monologo in cui Macbeth si tormenta per il “barren sceptre in my grip, /
Thence to be wrenched with an unlineal hand, / No son of mine succeeding”
(III.i.63-65), la sterilità cui egli allude pare essere non tanto legata alla sfera
sessuale
(ossia,
l’impossibilità
di
avere
un
figlio)
quanto
politica
(l’impossibilità di fare sì che un eventuale figlio possa ereditare il trono).
Trovo invece assai convincente l’osservazione di Freud circa il “successo”:
Lady Macbeth, in effetti, soccombe all’apice del successo. Solo che il suo successo non è tanto la corona—quella, fin dall’inizio, è più un’ambizione del marito che sua—quanto l’essere riuscita a fare del marito l’uomo da lei desiderato.
Come lui stesso le fa sapere al termine della scena del banchetto, la trasformazione è giunta a un punto di non ritorno: “I am in blood / Stepped in so far that,
should I wade no more, / Returning were as tedious as go o'er. / Strange things I
have in head that will to hand, / Which must be acted ere they may be scanned”
(III.iv.135-139). Al pari della seconda serie di profezie delle “sorelle fatali”, però, il successo di Lady Macbeth cela un insidia. Come recita la citazione di apertura di questo capitolo, “often a wife wants her husband to be more dominating, but she’d like him to dominate her the way she tells him to”: Macbeth, invece, sembra essere diventato troppo indipendente per dominare—la moglie, gli
altri e gli eventi—seguendo le indicazioni di Lady Macbeth.
Il compimento delle “strange things” che egli ha in mente, per esempio, avviene sullo sfondo dell’unico atto—il quarto—nel quale Lady Macbeth non
compare mai in scena. Il suo periodo di assenza è delimitato in modo tale da
suggerire l’idea di un lungo sonno agitato: l’avevamo lasciata a Forres mentre si
accingeva ad andare a dormire insieme al marito e la ritroviamo a Dunsinane,
questa volta sola, alzarsi dal letto in stato di sonnambulismo. A scanso
d’equivoci circa la precarietà delle sue condizioni di salute, Shakespeare ce la
mostra attraverso gli occhi di un dottore tanto onesto e riservato nella diagno215
si—“This disease is beyond my practice” (V.i.56)—quanto competente e accorto nella prescrizione. “Look after her. / Remove from her the means of all annoyance, / And still keep eyes upon her” (V.), suggerisce alla dama di compagnia. È come se il prezzo pagato per scalzare il marito dalla posizione di “paziente designato” sia stato quello, altissimo, di sostituirsi al lui nello scomodo
ruolo.
Come si comporta, Lady Macbeth, in questa sua “slumbery agitation”
(V.i.11)? Tramite uno straziante re-enactment, rievoca le conversazioni con
Macbeth, esaltandone i due temi cruciali: la dinamica dell’offerta di aiuto e le
ossessioni. Da una parte, infatti, continua a immaginare il marito al suo fianco, a
trattarlo come un bambino e a offrirgli consigli e assistenza nel modo che le conosciamo: “No more o' that, my lord, no more o' that. You mar all with this
starting” (V.i.41-43), “Wash your hands, put on your nightgown, look not so
pale” (V.i.59-60), e ancora “To bed, to bed. There's knocking at the gate. Come,
come, come, come, give me your hand. What's done cannot be undone. To bed,
to bed, to bed” (V.i.63-65). D’altra parte, l’immedesimazione con il coniuge—e
la conseguente confusione di ruoli—è così intensa da dare l’impressione che ella si sia come appropriata del disturbo ossessivo-compulsiva di Macbeth: “What
is it she does now? Look how she rubs her hands”, si domanda il dottore, e la
dama di compagnia gli spiega che “It is an accustomed action with her, to seem
thus washing her hands. I have known her continue in this a quarter of an hour”
(V.i.25-29).
Che cosa le è accaduto, nell’arco di così poco tempo,47 per ridurla in questo
stato? Proverò qui a formulare un’ipotesi generale, in chiave sistemicorelazionale, che tenga conto di tutto ciò che si è osservato fino ad ora. Lady Macbeth, come abbiamo più volte notato, tende a definire la realtà in termini di dipendenza/indipendenza: nel rapporto con il marito, l’importante ruolo a lei assegnato è sempre stato quello dell’aiutante-protettrice, ruolo che implicava per
Macbeth la posizione di “dipendente” (quindi infantile, bambino, pauroso). La
47
Sulla durata dell’azione, a dire il vero, i pareri sono piuttosto discordi: Freud assumeva
una settimana o poco più; altre letture concedono fino a qualche mese.
216
progressiva assunzione dell’iniziativa da parte di Macbeth ha avuto l’effetto di
lasciarla spiazzata, di mettere in crisi la con-posizione della coppia e quindi la
sua stessa identità. L’unico “luogo” nel quale Lady Macbeth serve ancora è il
mondo dei sogni: nel suo travagliato isolamento onirico, può permettersi di continuare ad aiutare e mostrare il suo coraggio. Nel mondo della realtà, cadute le
premesse della polarità dipendenza/indipendenza, l’unica altra polarità semantica con la quale può misurarsi e definirsi è quella bene/male. Ma questo comporta che, al contrario di quanto avveniva in passato, Lady Macbeth è ora costretta
a misurarsi e definirsi in base a parametri etici: l’“undaunted mettle” (I.vii.73)
del primo atto ha ceduto il posto a un “fraught bosom of that perilous stuff /
Which weighs upon the heart” (V.iii.46-47). Non c’è dunque da stupirsi se, in
preda a un’emozione da lei sempre ignorata come il rimorso, cominci ora a mostrare sintomi di tipo ossessivo-compulsivo.
Non dobbiamo però dimenticare che tale spostamento avviene all’interno di
un sistema—la coppia—che va oltre l’individualità di Lady Macbeth. Infatti,
come più o meno tutti i critici hanno notato, ciò a cui assistiamo nel corso del
dramma (e, in modo esplicito, nell’ultimo atto), più che uno spostamento, è un
rovesciamento. Il segnale più rivelatore di tale inversione dei ruoli è che, per la
prima volta dall’inizio della tragedia, Macbeth si mostra preoccupato per la moglie e tenta di aiutarla. Naturalmente, lo fa a modo suo, ossia senza intervenire
in prima persona (“How does your patient, doctor?”, V.iii.39), bensì delegando
l’incarico (“Cure her of that”, V.iii.41). Al progressivo spostamento della moglie verso la polarità semantica bene/male ha corrisposto l’adozione, da parte di
Macbeth, della polarità dipendenza/indipendenza. Solo che, mentre Lady Macbeth era “indipendente” come lo è una madre nei confronti di un figlio bisognoso di cure, Macbeth diventa “indipendente” nel modo in cui un bambino diventa adulto: ciò che gli è necessario per definirsi tale non è tanto qualcuno da
aiutare, quanto il distacco da una figura genitoriale sempre più fragile, alla quale garantire assistenza senza però eccessivo coinvolgimento. A livello emozionale, possiamo osservare come, ora che è asserragliato con il suo sempre più
scarno seguito nella roccaforte di Dunsinane, non ci siano più spettri e allucinazioni originati dai sensi di colpa a tormentarlo, bensì un esercito in carne ed os217
sa che genera in lui emozioni di malcelata paura e coraggio incosciente. Macbeth, a questo proposito, è indubbiamente “cresciuto”. Non è più il suo volto
ad essere “blanched with fear” (III.iv.115), ma piuttosto quello dei suoi sudditi,
ai quali può ordinare, anch’egli in un re-enactment di scambi cui già abbiamo
assistito, “Go prick thy face and over-red thy fear” (V.iii.16).
Dinamiche di aiuto, coinvolgimento cercato o evitato, mezze verità (come
quelle sul bosco di Birnam e sul “nato di donna”): tutte le modalità relazionali
caratteristiche dei Macbeth continuano a riproporsi in queste ultime scene. Persino la tendenza di Macbeth a rimandare trova eco nella sublime reazione
all’annuncio della morte della moglie. Nonostante le disposizioni del dottore,
infatti, Lady Macbeth è riuscita comunque a togliersi la vita (“as 'tis thought, by
self and violent hands / Took off her life”, V.xi.36-37), e il primo pensiero con
il quale Macbeth accoglie la notizia, benché in apparenza bizzarro, è esattamente quello che più volte gli ha permesso di affrontare—o meglio di non affrontare
subito—i momenti critici, ossia la dilazione: “She should have died hereafter. /
There would have been a time for such a word. / Tomorrow, and tomorrow, and
tomorrow…” (V.V.16-18).
Infine, anche l’altra notevole anomalia della reazione di Macbeth alla morte
della moglie—e cioè il sorprendente distacco emotivo con il quale subito la astrae nella categoria generale dell’assurdità del tempo e della vita—risulta più
comprensibile, se considerata alla luce della nuova con-posizione della coppia.
Secondo il modello di Ugazio, i soggetti che, come la Lady Macbeth dei primi
atti e il Macbeth dell’ultimo, vengono a occupare la posizione di indipendente,
“per mantenere questa posizione escludono, o contengono il più possibile, i
comportamenti emotivi ed espansivi che li condurrebbero a percepirsi come dipendenti dagli altri, e quindi a perdere la valutazione positiva di sé. Il mantenimento dell’autostima e del sentimento di competenza ed efficacia personale è
pagato al prezzo di evitare il coinvolgimento emotivo, che viene avvertito come
distruttivo e limitante le capacità di funzionamento individuale.”48 Ma c’è di
più: tale strategia, in ambito clinico, viene definita “a orientamento claustrofo48
V. UGAZIO, Storie permesse, storie proibite, p. 148.
218
bico” (poiché nelle sue manifestazioni più esasperate può sfociare in una sintomatologia claustrofobica), e ciò pare essere quanto mai appropriato alla situazione del Macbeth dell’ultimo atto: solo (non c’è più Lady Macbeth a sostenerlo) e assediato. Scena dopo scena, l’esercito nemico si stringe attorno a lui per
cerchi concentrici, fino al fatale duello con Macduff. La vista del bosco di Birnam che si avvicina, il desiderio e l’impossibilità di una via di fuga (“Were I
from Dunsinane away…”, sospira il dottore; “Arm, arm, and out. / If this which
he avouches does appear / There is nor flying hence nor tarrying here”, ordina
Macbeth), l’efficace similitudine dell’orso al palo (“They have tied me to a
stake. I cannot fly, / But bear-like I must fight the course”): tutte immagini che
contribuiscono a convogliare la sensazione di una situazione claustrofobica.
Per concludere, vorrei sottolineare come la dinamica di rovesciamento
appena descritta, in fin dei conti, non sia molto diversa da quello che
generazioni di lettori e di spettatori di Macbeth non hanno faticato a
riconoscere. Anche nella casistica delle emozioni non vi è alcunché di
particolarmente nuovo. Ritengo però che il punto di vista sistemico che qui si è
cercato di adottare permetta di cogliere con maggiore evidenza che le emozioni
e le polarità semantiche in gioco non sono patrimonio individuale dell’uno o
dell’altro personaggio, bensì una sorta di griglia familiare condivisa, tramite la
quale definire e sperimentare se stessi e il mondo, lungo le cui direttrici, e non
altre, Macbeth e Lady Macbeth—un significativo sottoinsieme di ciò che Harry
Berger chiama community of the play49—devono reciprocamente posizionarsi.
49
H. BERGER, Making Trifles of Terrors. Redistributing Complicities in Shakespeare, p.108:
“The community is a group of speakers placed in relation to each other by differences of
gender and generation, of social rank and political status, and of position in households,
families, and extended families. Their interactions are mediated by these roles, their attitudes and projects heavily influenced by the assumptions and expectations, the constraints
and opportunities, that adhere to the roles. The community of the play, thus understood,
has recently come into prominence through the efforts of the new psychoanalytical critics
who focus attention on family, gender, and generation, treating characters less as autonomous individual psyches (the focus of the older psychoanalytical approach) and more as
subjects whose “selves” include the “others” to whom they are bound and opposed by the
reciprocal positionality of their institutional roles.”
219
220
Capitolo sesto
Scene di triangolazione
Tombs show what the family wanted the world to see;
the plays show what they might have preferred to conceal.1
CATHERINE BELSEY
Tra i numerosi punti di contatto fra psicodinamica e terapia della famiglia,
quello più evidente è che entrambi gli orientamenti identificano nel triangolo
madre-padre-figlio/a l’unità fondante dei propri modelli. Nella teoria psicodinamica, la natura di tale triangolo è anzitutto intrapsichica, riferendosi principalmente alle fantasie erotiche tipiche di una fase evolutiva di un solo membro della triade: il figlio o la figlia. Questa distinzione sessuale ha invece
un’importanza assai limitata nella teoria dei sistemi familiari, secondo la quale
il triangolo ha natura anzitutto extrapsichica: i vertici della triade, in questo caso, rappresentano individui, e ciò che li collega è una rete di messaggi e alleanze. In entrambe le teorie, poi, si ritiene che la configurazione triangolare non sia
semplicemente una struttura, bensì che dia origine a un particolare processo, la
triangolazione: “La prima nozione clinica che viene in mente quando si pensa al
triangolo primario,” scrivono Elisabeth Fivaz-Depeursinge e Antoinette Corboz-Warnery, “è quella di triangolazione. È interessante notare che tale concetto
viene utilizzato sia nella teoria psicodinamica che in quella dei sistemi familiari.
Nella prima, il termine fa riferimento all’esperienza edipica soggettiva del bambino di esclusione dalla relazione dei genitori. Nella seconda, fa riferimento
all’aspetto problematico in cui un bambino viene preso nella relazione conflit-
1
C. BELSEY, Shakespeare and the Loss of Eden: The Construction of Family Values in
Early Modern Culture, p. 95.
tuale dei suoi genitori al fine di deviarne la tensione.”2 Ciò che, per questa tesi,
mi pare particolarmente rilevante circa la triangolazione—intesa nel senso della
terapia familiare—è il suo carattere normativo: “La triangolazione è un processo che si verifica in tutte le famiglie, in tutti i gruppi sociali, come forma di interazione a due che porti all’esclusione di un terzo o agisca direttamente contro di
lui.”3
In tutte le famiglie, dunque, dovrebbe essere possibile osservare tale processo. Poiché si tratta di una dinamica interazionale non solo assai significativa ma
anche ben definita e relativamente semplice da individuare, la triangolazione si
prospetta come un parametro privilegiato per poter esprimere una valutazione
circa il livello di mimeticità delle relazioni familiari nel teatro shakespeareano.
L’analisi di scene di triangolazione familiare, perciò, era uno degli obiettivi che
mi ero prefisso quando iniziai a progettare questo lavoro di tesi. Ben presto, però, mi sono imbattuto in un ostacolo che sinceramente non avevo considerato:
nonostante la straordinaria abbondanza di strutture familiari nel corpus shakespeareano (vedi capitolo 2), le triadi di dramatis personae legate fra loro in
triangoli primari sono piuttosto rare, e in particolare sono rarissime le scene di
compresenza fra madri, padri e figli.
Se pensiamo per un istante alla quantità—e all’importanza—di altre relazioni familiari (padri/figli, fratelli/sorelle, mogli/mariti), la cosa potrebbe lasciarci
piuttosto perplessi. Le spiegazioni, in realtà, non mancano, e le più convincenti
sono a mio giudizio quelle che hanno a che fare con: a) la difficoltà di rappresentare in modo efficace ruoli di donne adulte servendosi di attori maschi;4 b) la
relativa irrilevanza del triangolo primario sul piano macrosociale (l’equazione
2
E. FIVAZ-DEPEURSINGE e A. CORBOZ-WARNERY, Il triangolo primario, p. 18.
3
L. HOFFMAN, Principi di terapia della famiglia, p. 36.
4
Vedi il secondo capitolo di questa tesi. Sull’impiego dei boy actors per i ruoli femminili,
vedi A. GURR, The Shakespearean Stage 1574-1642, pp. 68 e 95. Vedi anche J. KOTT,
Shakespeare Our Contemporary, p. 258: “On the Elizabethan stage female parts were
acted by boy actors. That was a limitation, as theatre historians well know. Female parts in
Shakespeare are decidedly shorter than male parts. Shakespeare was well aware of the
limitations of boy actors. They could play girls; with some difficulty they could play old
women. But how could a boy act a mature woman?”.
222
fra autorità patriarcale e autorità regale, condensata nella descrizione del marito/padre come “a king in his own house”,5 si rispecchia infatti in modo assai più
immediato nelle strutture diadiche, come padre/figli e marito/moglie, più che
nella triade padre/madre/figli), irrilevanza che determina un ridimensionamento
delle possibili connotazioni politiche insite nella rappresentazione di un dramma familiare; c) lo “svantaggio drammatico” insito nell’adottare una struttura
che, se proposta in modo mimetico, contempla tra i suoi effetti la tendenza
all’omeostaticità (in quanto la triangolazione è naturalmente orientata alla riduzione del tasso di conflittualità), a spese quindi della drammaticità dell’azione. 6
In ogni caso, alcune scene di compresenza fra tutti e tre i membri di triangoli
primari ci sono. Poiché il tipo di approccio da me adottato si fonda principalmente sull’analisi delle interazioni—verbali e non—più che del plot o delle
strutture, è su queste scene che mi concentrerò nel presente capitolo. Nella tabella che segue ho elencato quelle che mi è riuscito di individuare,7 divise in
quattro categorie.
5
WILLIAM GOUGE, Of domesticall duties, 1622, p. 258 (citato da M. INGRAM, Church
courts, sex and marriage in England, p. 143).
6
Un’ipotesi ulteriore, basata su presupposti psicoanalitici e riferita solo ai primi drammi,
viene avanzata da C.L. BARBER: “Shakespeare’s earlier work is shaped by a very strong
identification with the cherishing role of the parents of early infancy. This is the role the
poet adopts in cherishing the young man addressed in the sonnets. Such relationship is
grounded most deeply in very early modes of relations, dyadic rather than triadic.” (C.L.
BARBER, “The family in Shakespeare’s Development: Tragedy and Sacredness”, p. 190).
7
Ho incluso nella tabella anche due scene (quella di Cymbeline e quella di Hamlet) nelle
quali uno o più membri del triangolo sono “morti”, nel senso che appaiono e parlano in
qualità di “spettri”. Questo perché, ai fini di un’analisi relazionale, l’essere vivi o morti è
una proprietà irrilevante rispetto alla capacità dell’individuo di interagire, sia con modalità
verbali sia con modalità non verbali. Il fatto, poi, che in Hamlet uno dei membri della
triangolazione rimanga escluso dalla relazione—è il caso di Gertrude, alla quale è preclusa
la percezione di Old Hamlet—non mi pare sufficiente per ridefinire la relazione triadica
come due relazioni diadiche. Anzitutto, è vero solo in una direzione, poiché Old Hamlet
percepisce Gertrude perfettamente. Ma, soprattutto, come mostrerò nel corso del capitolo,
l’irrompere in scena di Old Hamlet ha conseguenze dirette sull’andamento della conversazione fra Hamlet e Gertrude. In ogni caso, trattandosi di dramatis personae, e non di persone, il criterio della compresenza in scena è indubbiamente soddisfatto anche dalla triade
Hamlet-Gertrude-Old Hamlet.
223
Categoria
Opera
Scene finali di
ricongiungimento,
denouement,
e happy ending
Err
Abbess
H5
Queen Isabel
Per
Wiv
Wt
Cym
Altre scene
senza conflittualità
all’interno
della triade
Scene di conflitto
padre-figlio/a,
con coalizione
fra madre e
figlio/a
Scene di conflitto
marito-moglie,
con triangolazione
sul figlio
Madre
Figlio/a
Thaisa
Mistress Page
Hermione
22
5.5
5.3
Mother
Sicilius
5.5
Queen Elizabeth
3H6
Per
Cor
Queen Margaret
Thaisa
Virgilia
Egeon
Scena
Antipholus Of Ephesus
Antipholus Of Syracuse
King Charles Catherine
Dauphin
Pericles
Marina
Page
Anne
Leontes
Perdita
R3
R2
Padre
First Brother
Second Brother
Posthumus
King Edward Dorset
Gray
King Henry Prince Edward
Pericles
Marina
Coriolanus
Young Martius
Duchess Of York York
Aumerle
Wiv
Rom
Mistress Page
Capulet's Wife
Page
Capulet
Anne
Juliet
3H6
Wt
Queen Margaret
Hermione
King Henry
Leontes
Prince Edward
Mamillius
Ham
Gertrude
Ghost
Hamlet
5.1
5.2
2.1
2.5
10,11
5.3
5.2,
5.3
3.4
3.5,
4.2
1.1
1.2,
2.1
3.4
Nella prima categoria, figurano scene e relazioni che, pur appartenendo a
sottogeneri drammatici diversi, sono notevolmente omogenee fra loro. Dal punto di vista della posizione da esse occupate nella sequenza narrativa, si tratta di
scene finali. Dal punto di vista tematico, almeno per quanto riguarda la triade,
sono tutti classici happy ending, orchestrati attorno a topoi tipici della commedia, come quello del matrimonio felice (è il caso di Henry V e di The Merry Wives of Windsor) o quello del dénouement e relativo ricongiungimento familiare.
In un precipitarsi di eventi che farebbe impallidire d’invidia autori televisivi e
conduttori di programmi tipo Chi l’ha visto, The Comedy of Errors ci propone
una Abbess che si rivela essere Emilia e ritrova marito e figli; Pericles, una sacerdotessa che si scopre essere la moglie (e la madre) da anni data per morta
(anch’ella in un naufragio...) nonché l’immancabile ricongiungimento fra padre
e figlia; The Winter’s Tale, infine, non esita a ricorrere a una scena di “resurrezione” pur di riunire una figlia e una moglie al padre (e marito) rinsavito e pen224
tito. Come osserva Catherine Belsey a proposito di quest’ultimo finale, “families fail, but we continue to believe in the ideal of the family”.8 Ideale accuratamente tenuto a distanza di sicurezza da ogni potenziale rischio, aggiungerei io, e
non solo per l’improbabilità dei ricongiungimenti: un terzo tratto comune a molte di queste scene, infatti, è che dal punto di vista relazionale i membri delle
triadi primarie intrattengono rapporti piuttosto tiepidi e convenzionali (perlomeno rispetto all’eccezionalità della situazione in cui si trovano), quasi a suggerire che, per ricominciare a vivere insieme nel migliore dei modi, sia opportuno
imparare fin da subito a controllare le proprie manifestazioni emotive.
Le scene che ho raggruppato nella seconda categoria, al contrario delle precedenti, si svolgono entro contesti drammaticamente critici: ossia, in prossimità
della morte dei protagonisti, o comunque in momenti di pericolo estremo. Al
pari delle scene della categoria precedente, però, non presentano un tasso di
conflittualità degno di nota fra i protagonisti del triangolo primario. In altre parole, le difficoltà ci sono, ma sono esterne alla triade. Posthumus, in una scena
di problematica attribuzione,9 riceve in forma di visione la pietosa visita dei genitori e dei fratelli, mentre è in attesa di venire giustiziato; più che di un triangolo (o pentagono) primario, si tratta di un coro familiare, con tanto di musica in
sottofondo.10 In Richard III, Elizabeth e Dorset sono accorsi al capezzale di
King Edward praticamente soltanto per sentirsi rivolgere la stessa richiesta di
pacificazione destinata agli altri nobili; per quanto riguarda la conversazione
familiare, l’unico aspetto rilevante pare essere l’ambiguità filologica del verso
II.i.19, con il quale il re si rivolge al figlio direttamente (“you, son Dorset”) nel
Folio e indirettamente (“your son Dorset”)—mediando sulla moglie, quindi—
8
C. BELSEY, Shakespeare and the Loss of Eden. The Construction of Family Values in
Early Modern Culture, p.121.
9
Sul problema dell’attribuzione di questa scena, vedi J.M. NOSWORTHY (a cura di),
Cymbeline, The Arden Shakespeare, pp. xxxiii-xxxvii.
10
Per un’interpretazione psicoanalitica della visione di Posthumus, vedi M. SKURA, “Interpreting Posthumus’s Dream from Above and Below: Families, Psychoanalysts, and Literary Critics”, secondo il quale “[the] dream can be interpreted either as a revelation of the
divine forces in human affairs, or as a revelation of the family matrix that underlies all
human experience.” (p. 211).
225
nei quarto. Anche nel secondo atto di 3 Henry VI la comunicazione entro la
triade primaria—formata da Queen Margaret, King Henry e Prince Edward, reduci dagli scambi burrascosi dell’atto precedente, di cui parleremo più avanti—
si riduce a pacifiche, per quanto concitate, esortazioni alla fuga. Altrettanto
conversazionalmente povere sono le due scene di compresenza fra Thaisa, Pericles e Marina al momento della nascita di quest’ultima: la prima (scena 10 o
Prologo del terzo atto, a seconda dell’edizione) è un dumb show del parto; e anche nella scena successiva, con Thaisa creduta morta e Marina appena venuta
alla luce, non c’è occasione per alcuno scambio. Assai più importante è l’ultimo
caso elencato, ossia la terza scena del quinto atto di Coriolanus: qui la comunicazione familiare, oltre ad essere copiosa, raggiunge un apice d’intensità emotiva che non ha eguali nel resto del dramma. Ma anche qui la triade primaria—
Virgilia, Coriolanus e Young Martius—riveste un ruolo marginale, schiacciata
com’è da una parte dall’ingombrante diade Volumnia-Coriolanus, e dall’altra
dal conflitto interiore fra pubblico e privato che sta lacerando lo stesso Coriolanus. Per quanto riconducibile a una scelta fra famiglia e politica (la prima significativamente associata alla sfera dell’istintualità animale, più che delle emozioni umane: “I'll never / Be such a gosling to obey instinct, but stand / As if a
man were author of himself / And knew no other kin”, V.iii.34-37), è un conflitto che riguarda in modo appena periferico il rapporto fra Coriolanus e la moglie
o il figlio, come illustra bene il crescendo—forse non del tutto esente da una
certa dose di autocompiacimento—di Volumnia, da Virgilia a Young Martius
per culminare su se stessa:
Daughter, speak you,
He cares not for your weeping. Speak thou, boy.
Perhaps thy childishness will move him more
Than can our reasons. There's no man in the world
More bound to 's mother, yet here he lets me prate
Like one i' th' stocks.
[V.iii.156.161]
Eppure, nonostante la causa prima del conflitto sia esterna alla triade, il brevissimo intervento di Virgilia—e di Young Martius—ci dà comunque occasione
di assistere all’ineluttabilità del ricorso alla triangolazione:
226
VOLUMNIA
If I cannot persuade thee
Rather to show a noble grace to both parts
Than seek the end of one, thou shalt no sooner
March to assault thy country than to tread—
Trust to 't, thou shalt not—on thy mother's womb
That brought thee to this world.
VIRGILIA
Ay, and mine,
That brought you forth this boy to keep your name
Living to time.
Y. MARTIUS A shall not tread on me.
I'll run away till I am bigger, but then I'll fight.
CORIOLANUS Not of a woman's tenderness to be
Requires nor child nor woman's face to see.
I have sat too long.
He rises and turns away
[V.iii.121.132]
Forse è solo un caso, ma nel testo di Plutarco,11 al quale questa scena si mantiene quanto mai aderente, gli interventi di Virgilia e di Young Martius non ci
sono. E che tipo di scelta compie Shakespeare al momento di inserirli? Scartando senza indugio la possibilità che far appello direttamente al legame coniugale
possa rivelarsi una tattica sufficientemente efficace (e credibile, aggiungerei),
Shakespeare opta per la strategia più ovvia e comune possibile—almeno agli
occhi di una platea a noi contemporanea: l’immediata deviazione sul legame
genitoriale, e quindi il coinvolgimento del figlio. Mutatis mutandis, è più o meno la stessa strategia alla quale ognuno di noi dimostra di saper ricorrere allorché, sentendoci trascurati dal proprio compagno o compagna, facciamo osservare loro che, passando troppo tempo al lavoro e troppo poco in famiglia, stanno
trascurando i figli, costringendo così questi ultimi a prendere posizione in una
battaglia che non è la loro. A dire il vero, l’intervento di Virgilia, per quanto
debole e sintetico, è assai più raffinato di una semplice triangolazione quotidiana, poiché innesta sul legame genitoriale la questione dell’onore, alla quale Coriolanus è altrettanto—se non più—sensibile. La dinamica relazionale, però,
non cambia: Young Martius non rimane insensibile al tentativo di coinvolgi11
PLUTARCO, “The Life of Caius Martius Coriolanus”, nella traduzione (dal francese: la traduzione dal greco al francese è di JAMES AMYOT) di THOMAS NORTH, Lives of Noble Grecians and Romanes, 1579, in P. BROCKBANK (a cura di), Coriolanus, The Arden Shakespeare.
227
Figura 6.1: Triadi con almeno una situazione conflittuale (adattata da L. Hoffman)
P
P: padre
M: madre
F: figlio/a
= alleato
= avversario
M
F
Caso A: alleanza
madre-padre
P
M
F
Caso B: coalizione
madre-figlio
P
M
F
Caso C: nessuna
alleanza
P
M
F
Caso D:
triangolazione
mento, e reagisce pronunciando l’unica battuta concessagli nel dramma. Si tratta
di una battuta al tempo stesso comica e mimetica, come spesso avviene in Shakespeare nei rari casi in cui i bambini prendono la parola (si pensi, per esempio,
al figlio di Macduff in Macbeth, o a William Page in The Merry Wives of Windsor). Se l’effetto immediato che ottiene è quello di stemperare—per quanto
impercettibilmente—la tensione drammatica, dal punto di vista della triangolazione l’intervento di Young Martius gli permette di sottrarsi al seppur debole
conflitto fra i genitori: detto altrimenti, è un rarissimo esempio di comunicazione nella quale il livello della relazione (riassumibile in: voi discutete pure quanto volete, ma lasciatemene fuori) e il livello del contenuto (“I'll run away till I
am bigger”) coincidono. La conseguenza meno immediata—ma dal punto
drammatico altrettanto importante—è invece quella di soffocare sul nascere un
sub-plot che, a metà del quinto atto, potrebbe rivelarsi deleterio per l’economia
narrativa della tragedia. Young Martius, infatti, non è destinato né a morire,
come il Mamillius di The Winter Tale, né a sostenere una parte attiva, come lo
Young Lucius di Titus Andronicus, ma più semplicemente a farsi da parte, a sottrarsi.
Conflitti fra padri e figli: “Here comes your father. Tell him so yourself”
Cosa sarebbe accaduto se Young Lucius fosse stato già sufficientemente adulto per mantenere la sua promessa—“I'll run away till I am bigger, but then
I'll fight”—e si fosse posto in aperto conflitto con il padre? Come si sarebbe potuta comportare Virgilia? Sono domande oziose, ovviamente, e non è certo mia
intenzione offrire una risposta. Può però essere interessante vagliare le possibili
alternative, confidando sul fatto che, se riferite alla sola triade primaria, non so-
228
no poi tante. Considerando un unico parametro binario, come può essere
l’opposizione ‘alleato’ vs ‘avversario’, le combinazioni “geometricamente” ottenibili sono infatti soltanto quattro (vedi figura 6.1): Virgilia potrebbe (a)
prendere le parti del marito, (b) del figlio, (c) di nessuno dei due, o (d) di entrambi.
Da un punto di vista strettamente pragmatico, però, solo le prime due possibilità rappresentano triadi “congrue”, nel senso che entrambe schematizzano la
situazione di un “nemico” comune a due “alleati”. Il caso C, per esempio, potendosi tradurre in “il nemico del mio nemico è mio nemico”, descrive una situazione di totale isolamento piuttosto insolita, quanto meno in ambito familiare
(la terapia della famiglia assegna a questa configurazione l’etichetta di “famiglia disimpegnata”). Ancora più incongruo è il caso D, la cui espressione verbale ha la forma: “il nemico del mio amico è mio amico”.12 Incongruo, ma non impossibile: è infatti la configurazione che meglio descrive una situazione di
triangolazione in senso stretto, come vedremo nella prossima sezione di questo
capitolo.
Ora, tralasciando inutili ipotesi su Virgilia, vorrei piuttosto concentrami su
scene di compresenza nelle quali il conflitto è effettivamente presente, per cercare di capire se ci sono configurazioni che tendono a prevalere, in quali circostanze, e con quali esiti. Il motivo che mi induce a questo tipo di indagine è
piuttosto ovvio: nella misura in cui le relazioni familiari fra i personaggi shakespeareani hanno qualità mimetica, è ragionevole attendersi che in situazioni familiari analoghe fra loro tenderanno a svilupparsi configurazioni simili. Non solo: poiché il caso della triangolazione (in senso stretto) è ritenuto, dai terapeuti
della famiglia, quello potenzialmente più patologico—in quanto implica sempre
un livello di comunicazione implicito, un segreto, una qualche forma di ambivalenza o di tradimento della fiducia—sarebbe interessante valutarne l’impatto
all’interno dei drammi in cui esso si presenta.
12
Le regole di congruenza delle triadi qui illustrate, così come la figura, sono trattate in L.
HOFFMAN, Foundations of Family Therapy, pp.125-150.
229
Riguardo alle scene in cui il conflitto fondamentale sia quello fra genitori e
figli (e limitandoci, come impone il metodo di analisi qui adottato, a quelle scene nelle quali ci sia compresenza fra i membri del triangolo primario), il primo
aspetto che salta agli occhi è che si tratta sempre di conflitti con la figura paterna. Un caso emblematico, sia per il modo in cui rappresenta l’opposizione fra
valori politici e valori familiari sia per la dinamica dei rapporti di potere fra sessi, è la breve ma intensa crisi familiare, portata in scena nell’ultimo atto di Richard II, fra il duca di York, sua moglie e il figlio Aumerle. La configurazione
dei loro rapporti è chiaramente quella illustrata dal caso B, e cioè una solida coalizione fra madre e figlio. Ciò che mi pare particolarmente significativo circa
questa scena è la circolarità dei rapporti di alleanza, che sembrano sostenersi e
amplificarsi a catena in un crescendo magistrale, più che essere originati da una
causa precisa e oggettiva. Quando Aumerle raggiunge i genitori, che stanno parlando con rassegnazione e relativa tranquillità dell’ascesa al trono di Bolingbroke, non si intravede alcun conflitto esplicito fra i membri della triade.
L’unico, debole, segnale di una potenziale alleanza latente è il possessivo singolare usato (ben due volte) dalla duchessa of York per salutare l’ingresso del figlio—“Here comes my son Aumerle” (V.ii.41) e “Welcome, my son” (V.ii.46).13
Il saluto del duca, del tutto indiretto, è invece sintomatico del distacco emotivo
nei confronti di Aumerle:
Aumerle that was;
But that is lost for being Richard's friend,
And, madam, you must call him “Rutland” now.
I am in Parliament pledge for his truth
And lasting fealty to the new-made King.
[V.ii.41-45]
Possiamo notare come il duca non perda occasione per infierire su Aumerle,
ricordandogli il ducato perduto (a causa della sua amicizia per Richard) e il fatto di esser stato costretto ad intervenire in prima persona per garantire la sua fedeltà a Bolingbroke, il nuovo sovrano. Per quanto riguarda il contributo dello
stesso Aumerle alla conversazione, si tratta perlopiù di risposte insoddisfacenti,
13
Nella realtà, la duchessa di York, seconda moglie del duca di York, era solo la matrigna di
Aumerle. Dalle battute di questa scena è però evidente che, nel dramma, ne è la madre.
230
all’insegna della delusione per la situazione politica, del distacco, e
dell’insofferenza per la curiosità dei genitori (mi pare emblematica, in questo
senso, la ridondanza di negazioni nel verso “Madam, I know not, nor I greatly
care not”, V.ii.48). Fino a questo punto, il conflitto è solo latente. Le ostilità
vengono ufficialmente aperte soltanto con la scoperta, da parte del Duca, della
lettera sul complotto ordito ai danni di Bolingbroke. Da quest’istante in poi, la
tensione subisce un’escalation, com’è naturale, ma la configurazione delle alleanze non presenta alcuna novità inattesa: semplicemente, e con il contributo di
tutti i partecipanti, si irrigidisce.
AUMERLE
I do beseech your grace to pardon me.
It is a matter of small consequence,
Which for some reasons I would not have seen.
YORK
Which for some reasons, sir, I mean to see.
I fear, I fear!
DUCHESS OF YORK What should you fear?
'Tis nothing but some bond that he is entered into
For gay apparel 'gainst the triumph day.
YORK
Bound to himself? What doth he with a bond
That he is bound to? Wife, thou art a fool.
Boy, let me see the writing.
AUMERLE
I do beseech you, pardon me. I may not show it.
YORK
I will be satisfied. Let me see it, I say.
(He plucks it out of Aumerle's bosom, and reads it)
Treason, foul treason! Villain, traitor, slave!
DUCHESS OF YORK What is the matter, my lord?
YORK
Ho, who is within there? Saddle my horse. –
God for his mercy, what treachery is here!
DUCHESS OF YORK Why, what is it, my lord?
YORK
Give me my boots, I say. Saddle my horse. –
Now by mine honour, by my life, my troth,
I will appeach the villain.
DUCHESS OF YORK What is the matter?
YORK
Peace, foolish woman.
DUCHESS OF YORK I will not peace. What is the matter, son?
AUMERLE
Good mother, be content. It is no more
Than my poor life must answer.
231
DUCHESS OF YORK Thy life answer?
YORK
Bring me my boots. I will unto the King.
(His man enters with his boots)
DUCHESS OF YORK Strike him, Aumerle! Poor boy, thou art amazed.
[V.ii.60-87]
È un tipico scambio ad escalation simmetrica: più York si infuria, più la moglie prende le parti del figlio, pur non sapendo minimamente di cosa si stia parlando (“'Tis nothing but some bond…”; “What is the matter?”). Ciò provoca, a
sua volta, le reazioni violente di York nei confronti della stessa moglie (“Wife,
thou art a fool”; “Peace, foolish woman”), il che non fa altro che intensificare la
coalizione fra lei e Aumerle (“Good mother, be content”; “Poor boy, thou art
amazed”). Il culmine viene raggiunto con il ricorso—a quanto pare, quasi una
regola, in Shakespeare, per situazioni conflittuali di questo tipo—ai temi
dell’incertezza della paternità e del parto, ossia con un riferimento alle due esperienze oggettivamente più escludenti che si possano immaginare nell’ambito
di una coalizione madre-figlio contro il marito-padre: “Hadst thou groaned for
him / As I have done thou wouldst be more pitiful. / But now I know thy mind:
thou dost suspect / That I have been disloyal to thy bed, / And that he is a bastard, not thy son.” (V.ii.102-106). Sarà solo grazie a un intervento esterno alla
triade—l’intercessione dello stesso Bolingbroke nella scena successiva—che il
conflitto si potrà, almeno parzialmente, sanare.
Circa quest’ultimo intervento, vale la pena osservare brevemente come funziona, perché le tre strategie in esso adottate ne fanno un piccolo cammeo di terapia familiare. Per prima cosa, Bolingbroke riesce ad allentare l’ormai insostenibile tensione emotiva ricorrendo all’umorismo:
KING HENRY
What shrill-voiced suppliant makes this eager cry?
DUCHESS OF YORK A woman, and thy aunt, great King; 'tis I.
Speak with me, pity me! Open the door!
A beggar begs that never begged before.
KING HENRY
Our scene is altered from a serious thing,
And now changed to “The Beggar and the King”. [V.iii.73-78]
Questa è forse la mossa più importante: grazie al reframing da “serious
thing” alla ballata, lascia intravedere la possibilità di un cambiamento, e quindi
232
del perdono, come coglie subito York (“If thou do pardon…”). La seconda tattica terapeutica messa in atto—consciamente o meno, poco importa—da Bolingbroke è quella di connotare positivamente il comportamento di entrambi i genitori: la rigidità etica di York (definito dalla moglie “hard-hearted man”) viene
tradotta in termini di lealtà (“O loyal father of a treacherous son”), così come la
parzialità senza ritegno della duchessa (“Thou frantic woman, what dost thou
make here? / Shall thy old dugs once more a traitor rear?”, le si rivolge York) è
anch’essa giudicata da Bolingbroke un comportamento appropriato (“Your
mother well hath prayed”). Terza e ultima tattica è la prescrizione finale: York
uscirebbe di scena indebolito e perdente, in quanto il figlio è stato perdonato,
ma assegnandoli il compito di far convergere le forze a lui fedeli su Oxford, Bolingbroke lo rivaluta agli occhi della moglie come proprio principale alleato. È
proprio grazie a queste piccole—ma efficaci—alchimie relazionali che il cambiamento risulta persuasivo, permettendoci così di assistere all’uscita di scena
della triade—e alla conclusione del subplot—ragionevolmente persuasi che il
loro conflitto si sia, almeno per ora, positivamente risolto.
Le occasioni di conflitto fra padri e figlie, in Shakespeare, sono numerose,
ma avvengono tutte, praticamente senza eccezioni, in un’unica fase della vita
familiare: all’avvicinarsi del matrimonio della figlia. Anche le rare scene, individuate in tabella, in cui la madre è presente alla conversazione rientrano in
questa casistica. Come si comportano, le madri, in tali frangenti? In modo curiosamente simile, ma al tempo stesso nient’affatto semplice da schematizzare,
poiché i loro interventi, seppur brevissimi, sono quanto mai ambigui. In generale, potremmo dire che tendono inizialmente a salvaguardare il rapporto di tiepida complicità con le figlie, ma sempre subordinandolo alla relazione con i rispettivi coniugi. Una cosa è certa: nessuna di loro si sognerebbe di sostenere le
ragioni della figlia con la determinazione mostrata dalla duchessa di York nei
riguardi di Aumerle.
Nel terzo atto di The Merry Wives of Windsor, Mistress Page promette ad
Anne (la quale è piuttosto sconsolata all’idea di doversi sposare con Slender,
come le impone, con un improbabile inciso, il padre: “Now, Master Slender.—
Love him, daughter Anne.—Why, how now?”, III.iv.65-66) di trovarle un parti233
to migliore (“I seek you a better husband”, III.iv.83), riferendosi però al dottor
Caius, e non certo a Fenton come desidererebbe Anne. La sua promessa, quindi,
non è da intendersi come un’alleanza con la figlia, quanto piuttosto come una
forma di antagonismo nei confronti del marito. In questo senso, la configurazione di alleanze della famiglia Page si potrebbe ricondurre al caso C della figura
6.1: ossia, una famiglia disimpegnata, come in effetti il main plot—ponendo a
confronto la distratta fiducia di Master Page con la gelosia morbosa di Master
Ford—sembra confermare. In realtà, Mistress Page si spinge perfino ad affermare che concederà ad Anne l’ultima parola nella scelta dello sposo, ma lo fa in
modo indiretto e ambiguo, ossia rivolgendosi a Fenton e lasciando intendere che
il suo vero scopo è quello di sbarazzarsi della fastidiosa presenza di
quest’ultimo, più che di lasciare la figlia libera di decidere:
Come, trouble not yourself, good Master Fenton.
I will not be your friend nor enemy.
My daughter will I question how she loves you,
And as I find her, so am I affected.
Till then, farewell, sir. She must needs go in.
Her father will be angry.
[III.iv.88-93]
L’unica emozione qui seriamente presa in considerazione è la collera di
Master Page.
Nel terzo atto di Romeo and Juliet ci si imbatte in una situazione del tutto
simile a quella appena descritta, solo che in questo caso la triade protagonista
non si presenta affatto come una famiglia disimpegnata. Le famiglie disimpegnate, perfettamente funzionali al plot di una commedia farsesca, mal si adattano a condurre in modo credibile a un epilogo tragico, perlomeno nel mondo della finzione (nella realtà, almeno in quella odierna, è purtroppo facile immaginare una Anne appena un poco più fragile sviluppare qualche sintomo in grado di
portare su di sé l’attenzione dei genitori…). Nella famiglia di Juliet, invece, le
emozioni sono intense, e hanno un peso determinante sulla relazione fra i membri della triade. Seppur giocato attorno all’equivoco sul “villain Romeo”
(III.v.80) e sul motivo per il quale Juliet lo vorrebbe a portata di mano, il dialogo iniziale fra lei e la madre è sintomatico, se non di complicità, quantomeno di
un rapporto di attenzione:
234
CAPULET'S WIFE Why, how now, Juliet?
JULIET
Madam, I am not well.
CAPULET'S WIFE Evermore weeping for your cousin's death?
[III.v.68-69]
Ma non appena Juliet confida la sua profonda avversione all’idea del suo
“careful father”, e cioè il matrimonio con Paris, ecco che la madre subito si ritrae dalla relazione, interrompendo brutalmente la comunicazione: “Here comes
your father. Tell him so yourself, / And see how he will take it at your hands”
(III.v.124-125). La conversazione che ne segue (presenti Capulet, sua moglie,
Juliet e la Nurse) è, anche soltanto dal punto di vista del turn taking, straordinariamente ben architettata per convogliare con il massimo dell’efficacia la modalità relazionale caratteristica dei Capulet. Anzitutto, possiamo notare che il padre esordisce comunicando con Juliet in modo indiretto, cioè mediando sulla
moglie e scaricando su di lei, con il ripetuto ricorso—ipocrita? almeno stando
alla scena precedente, parrebbe aver deciso tutto da solo14—ai pronomi plurali
(ricorso non condiviso dalla moglie), parte della responsabilità del famigerato
accordo con Paris:
CAPULET
How now, wife?
Have you delivered to her our decree?
CAPULET’S WIFE
Ay, sir, but she will none, she gives you thanks.
I would the fool were married to her grave.
CAPULET
Soft, take me with you, take me with you, wife.
How, will she none? Doth she not give us thanks?
Is she not proud? Doth she not count her blest,
Unworthy as she is, that we have wrought
So worthy a gentleman to be her bride?
[III.v.137-145]
A questo punto, pur mitigando l’impatto del suo intervento con quella che
Capulet definisce sprezzantemente “chopped logic”, è Juliet la prima a trovare il
coraggio di avviare il confronto in modalità diretta. La sua precisazione, lungi
14
Cfr. III.iv.13-16.: “I think she will be ruled / In all respects by me. Nay, more, I doubt it
not. / Wife, go you to her ere you go to bed. / Acquaint her here of my son Paris’ love”.
Più in generale, possiamo osservare che Capulet non è solito usare il plurale maiestatis,
quindi il ricorso ai pronomi plurali di prima persona sembra qui finalizzato a condividere
con la moglie (o, ma mi pare più improbabile, con Paris) la scomoda responsabilità della
decisione.
235
dall’essere un mero sofisma, coglie esattamente il cuore del problema, che è poi
il problema shakespeareano—e rinascimentale—per eccellenza per quanto riguarda i rapporti intergenerazionali (vedi capitolo 1), e cioè la distinzione fra
ubbidienza e gratitudine filiale. Secondo Capulet, i due concetti sono equivalenti. Secondo Juliet, in questo senso una degna precorritrice di Cordelia, una figlia
può provare gratitudine—e, forse, anche amore—per il proprio padre pur non
avendo la benché minima intenzione di piegarsi alle sue assurde pretese.
E la madre? Nel corso del violentissimo attacco del marito a Juliet, interviene due volte, allorquando la reazione di Capulet raggiunge l’apice
dell’aggressività verbale, cercando di calmarlo: “Fie, fie, what, are you mad?”
(III.v.157) e “You are too hot” (III.v.175). Al pari della temeraria intromissione
della Nurse (“You are to blame, my lord, to rate her so.”, III.v.169), si tratta in
entrambi i casi di interventi di contenimento rivolti esclusivamente all’aspetto
illocutorio della sfuriata del marito, e non certo al suo contenuto. In altre parole,
la madre di Juliet sembra non prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di
potersi schierare dalla parte della figlia, ed esattamente come nel caso di Mistress Page analizzato poc’anzi l’unica emozione che pare turbarla è la collera
del marito. In effetti, da quando ha pronunciato il fatidico “Tell him so yourself”, la signora Capulet non ha più rivolto la parola alla figlia. La battuta che
sancisce la sua uscita di scena—“Talk not to me, for I'll not speak a word. / Do
as thou wilt, for I have done with thee.” (III.v.202-203)—è in questo senso una
fra le più inesorabili dell’intero canone: più ancora dell’ira di Capulet, che almeno ha posto delle condizioni, segna il definitivo isolamento di Juliet dalla rete delle alleanze familiari.
In un’analisi di King Lear, confrontando la situazione di Lear con quella di
Giobbe, Harold Bloom a un certo punto si domanda: “[what] would Lear’s wife
have said, had she accompanied her royal husband onto the heath?”15 Chissà.
Visti i precedenti in fatto di triangoli fra padri, madri e figlie, comunque, pare di
intuire che perfino la presenza di un’eventuale Lady Lear avrebbe potuto rivelarsi insufficiente a garantire l’happy ending.
15
H. BLOOM, Ruin the Sacred Truths, p. 70.
236
Triangolazioni: “O cursed spite, that ever I was born to set it right!”
Nei casi passati in rassegna nella sezione precedente, il conflitto principale è
fra un genitore—il padre—e un figlio o una figlia. In tali situazioni, è alla madre che rimane la possibilità, o forse sarebbe più corretto dire l’incombenza, di
decidere quale alleanza privilegiare. Dunque, è lei il “bersaglio” esplicito delle
triangolazioni, come è reso evidente dal ruolo di mediatrice conversazionale
imposto alla signora Capulet nella scena di Romeo and Juliet appena esaminata.
In tali circostanze, la differenza fra figli maschi e figlie femmine parrebbe essere significativa. In effetti, se mai si dovesse trarre una generalizzazione di sapore freudiano dai pochi casi trattati fino ad ora, verrebbe spontaneo supporre che
il triangolo edipico eserciti la sua influenza non tanto nella psiche dei figli
quanto in quella delle madri: irremovibili quando si tratta di preservare un legame privilegiato con i figli, restie e sfuggenti quando invece si tratta rispondere a un appello delle figlie in conflitto con i propri padri.16
Limitandosi invece a più caute ipotesi extrapsichiche, ciò che possiamo osservare è che, quando il conflitto riguarda padri e figli o figlie, le madri possono
non solo allearsi con i primi (come nel caso della madre di Juliet) o con i secondi (come nel caso della duchessa di York), ma anche sottrarsi alla triangolazione
(come nel caso di Mistress Page). Situazione assai diversa è invece quella nella
quale il conflitto principale sia fra i genitori: in tal caso, evitare il coinvolgimento diventa per i figli un’impresa praticamente impossibile.
Dovendo elencare i giovani shakespeareani ai quali la possibilità di sottrarsi—dai triangoli familiari come da quelli politici—sia negata in partenza, il nome di Prince Edward, figlio di Henry VI e di Queen Margaret, figurerebbe certamente fra i primi della lista. La sua condizione appare alquanto fragile sin
dall’inizio di 3H6: terreno di negoziazione fra un padre disposto a venderlo politicamente pur di regnare in pace e una madre combattiva e determinata a tutto
pur di evitare tale disonore, Prince Edward si trova nella posizione più emble-
16
A questo proposito, cfr. Hamlet III.ii.104-105, laddove alla richiesta di Gertrude (“Come
hither, my good Hamlet. Sit by me.”) Hamlet oppone un rifiuto, preferendo sedersi accanto a Ophelia (“No, good-mother, here's mettle more attractive.”).
237
matica che si possa immaginare per impersonare lo stato di crisi conseguente al
sovvertimento dell’ordine sociale e familiare, sovvertimento qui rappresentato
da una parte dall’interruzione della successione dinastica e dall’altra
dall’inversione dei rapporti di potere fra uomo e donna. Nella prima scena del
dramma, Queen Margaret si trova in una situazione assai simile a quella della
duchessa di York in Richard II e a quella di Virgilia—per quanto rovesciata,
poiché qui spetta a lei ergersi a paladina dell’onore—nella scena di Coriolanus
analizzata in precedenza: tutte e tre, cioè, tentano di convincere i rispettivi mariti a tornare sui propri passi, a cambiare idea. In che modo? Pur dotata di
tutt’altra tempra rispetto a Virgilia, Queen Margaret ricorre alla stessa strategia
e agli stessi argomenti suoi e della duchessa di York, e in particolare
all’esperienza del parto:
Ah, wretched man, would I had died a maid
And never seen thee, never borne thee son,
Seeing thou hast proved so unnatural a father.
Hath he deserved to lose his birthright thus?
Hadst thou but loved him half so well as I,
Or felt that pain which I did for him once,
Or nourished him as I did with my blood,
Thou wouldst have left thy dearest heart-blood there
Rather than have made that savage Duke thine heir
And disinherited thine only son.
[I.i.217-226]
Oltre al topos che potremmo chiamare dello “Hadst thou felt that pain”, possiamo notare come, nei momenti critici della vita familiare, i personaggi shakespeareani mostrino una spiccata tendenza a fantasticare un’impossibile “riscrittura” della propria storia in termini che prevedono la cancellazione della famiglia stessa, o perlomeno di alcuni membri di essa: in questo senso, il “would I
had died a maid” di Margaret è perfettamente equivalente al “Wife, we scarce
thought us blest / That God had lent us but this only child, / But now I see this
one is one too much” (Rom, III.v.164-166) di Capulet.
Anche nel caso di Queen Margaret, come nei due precedenti, la rievocazione
della sofferenza del parto avviene in presenza del figlio, ma qui il coinvolgimento di quest’ultimo è assai più lacerante, poiché ciascuno dei genitori tenta di
238
coalizzarsi con Prince Edward sottraendolo—anche fisicamente—alla sfera di
influenza dell’altro, come ben illustrano le battute che seguono:
KING HENRY
Gentle son Edward, thou wilt stay with me?
QUEEN MARGARET
Ay, to be murdered by his enemies.
PRINCE EDWARD
(to King Henry) When I return with victory from the field,
I'll see your grace. Till then, I'll follow her.
QUEEN MARGARET
Come, son, away—we may not linger thus.
Exit with Prince Edward
[I.i.260-264]
Fortunatamente per la salute mentale del povero Prince Edward—direbbe un
terapeuta della famiglia—la ricerca di un’alleanza avviene in modo quanto mai
esplicito, ma la violenza psicologica del dialogo non è per questo meno intensa,
soprattutto se si pensa alla frase con la quale Queen Margaret si inserisce fra la
domanda del padre e la risposta del figlio, squalificando completamente il marito sia come guerriero sia, soprattutto, come genitore.
Il coinvolgimento di Prince Edward, a ben guardare, è solo in parte una
triangolazione in senso stretto, poiché egli stesso è direttamente coinvolto nel
conflitto fra Queen Margaret e Henry VI: in quanto legittimo erede al trono, ha
un interesse oggettivo a privilegiare un’alleanza con la madre. Non solo: oltre
all’interesse, ha anche la maturità e la forza necessarie per poter esprimere la
propria opinione al riguardo. Assai più tragica—nonché per molti aspetti straordinariamente moderna—è invece la posizione di un altro giovane personaggio
shakespeareano: Mamillius. “As The Winter’s Tale indicates”, scrive Catherine
Belsey al riguardo, “the most helpless victims of parental love-turned-to-hate
are the children, who cannot be held to blame. Mamillius, allowed to charm the
audience at the beginning of the play, is not restored to life in the end.”17 Nella
lettura di Belsey, a dire il vero, l’indicazione che il dramma offre riguardo agli
effetti perniciosi del conflitto genitoriale su Mamillius parrebbe essere di natura
principalmente simbolica: “Unpredicted and arbitrary, sexual jealously disman-
17
C. BELSEY, Shakespeare and the Loss of Eden: The Construction of Family Values in
Early Modern Culture, p. 127.
239
tles a marriage; the unaccountable rage of Leontes violently displaces parental
care, as Mamillius dies of grief and his newborn sister is exposed to die”.18
Ora, mentre pare indubbio che la morte di Mamillius sia da ricondursi al dolore per la condizione della madre (“The prince your son, with mere conceit and
fear / Of the Queen's speed, is gone”, III.ii.143.144), non mi sentirei di sostenere, come sembra suggerire Belsey, che il cambiamento di cui egli si rende protagonista nella prima parte del dramma sia così imprevedibile e occasionato solo dalla gelosia di Leontes. Il dilemma di Mamillius, al contrario, mi pare profilarsi sin dalle prime battute che lo si ode scambiare in scena, ed è il dilemma di
chi—come accade ai bambini—si trova in una posizione troppo debole per sottrarsi all’ambivalente pressione della triangolazione. Sua madre ha appena stretto la mano di Polixenes, quand’ecco che Leontes, il quale dall’inizio della scena
ha totalmente ignorato la presenza del figlio (mentre non gli è sfuggito il gesto
della moglie, gesto che la gelosia ha ingigantito al punto da trasformarlo in un
“paddling palms and pinching fingers”, I.ii.117), subito si ricorda di lui con una
domanda che, a un bambino, deve parere curiosamente bizzarra, ma il cui nucleo semantico, subito reso esplicito agli spettatori, è esattamente quello già osservato nelle precedenti scene di triangolazione: l’incertezza della paternità.
18
LEONTES
Mamillius, art thou my boy?
MAMILLIUS
Ay, my good lord.
LEONTES
I' fecks,
Why, that's my bawcock. What? Hast smutched thy nose?
They say it is a copy out of mine. Come, captain,
We must be neat—not neat, but cleanly, captain.
And yet the steer, the heifer, and the calf
Are all called neat.—Still virginalling
Upon his palm?—How now, you wanton calf—
Art thou my calf?
MAMILLIUS
Yes, if you will, my lord.
LEONTES
Thou want'st a rough pash and the shoots that I have,
To be full like me. Yet they say we are
Almost as like as eggs. Women say so,
That will say anything. But were they false
As o'er-dyed blacks, as wind, as waters, false
Ibid., p. 102.
240
As dice are to be wished by one that fixes
No bourn 'twixt his and mine, yet were it true
To say this boy were like me. Come, sir page,
Look on me with your welkin eye. Sweet villain,
Most dear'st, my collop! Can thy dam—may 't be?
[I.ii.121-139]
Mi pare evidente che questa delirante sovrapposizione fra monologo interiore e dialogo è destinata anzitutto all’asse esterno. Ciò non toglie che abbia un
effetto anche su Mamillius, che si trova involontariamente ad essere “arruolato”
dal padre in una battaglia della quale non ha la benché minima consapevolezza.
Anche lo scambio successivo, con le sue frequenti connotazioni relative alla vita militare, sembra insistere sul tema del reclutamento:
LEONTES
Mine honest friend,
Will you take eggs for money?
MAMILLIUS
No, my lord, I'll fight.
LEONTES
You will? Why, happy man be 's dole!—My brother,
Are you so fond of your young prince as we
Do seem to be of ours?
POLIXENES
If at home, sir,
He's all my exercise, my mirth, my matter;
Now my sworn friend, and then mine enemy;
My parasite, my soldier, statesman, all.
He makes a July's day short as December,
And with his varying childness cures in me
Thoughts that would thick my blood.
LEONTES
So stands this squire
Officed with me. We two will walk, my lord,
And leave you to your graver steps. Hermione,
How thou lov'st us show in our brother's welcome.
Let what is dear in Sicily be cheap.
Next to thyself and my young rover, he's
Apparent to my heart.
[I.ii.162-178]
Un tratto distintivo della triangolazione è che, al contrario di un’innocua
manifestazione di affetto genitoriale, viene attuata solo quando serve. E quando
serve, Mamillius, a Leontes? Stando alle stage directions, sembra risultare utile
alla sua strategia soprattutto quando Hermione è in scena. Non appena questa se
ne va, infatti, ecco che Leontes si affretta a congedare il figlio, non senza un ultimo tentativo di insinuare in lui avversione nei confronti della madre (“Go
play, boy, play. Thy mother plays, and I / Play too; but so disgraced a part,
241
whose issue / Will hiss me to my grave. Contempt and clamour / Will be my
knell. Go play, boy, play.”, I.ii.188-191). A questo punto, mi pare ci siano sufficienti indizi per avanzare l’ipotesi che il ruolo di Mamillius nell’economia del
dramma non sia semplicemente quello di vittima designata, ma anche quello di
strumento passivo usato da Leontes nella sua guerra totale contro la moglie: sottraendoglielo, le dà un consistente assaggio delle punizioni esemplari che
l’attendono.
Ciò che accade in un punto cruciale della scena successiva sembra confermare la lettura ora proposta:
LEONTES
(To Hermione) Give me the boy. I am glad you did not nurse him.
Though he does bear some signs of me, yet you
Have too much blood in him.
HERMIONE
What is this? Sport?
LEONTES
(to a Lord) Bear the boy hence. He shall not come about her.
Away with him, and let her sport herself
With that she's big with, (to Hermione) for 'tis Polixenes
Has made thee swell thus.
Credo che nessun altro dialogo shakespeareano—e, per quanto ne so, nessuna opera letteraria precedente—sia in grado di offrire una rappresentazione più
cruda ed esplicita di ciò che si intende attualmente con l’espressione “bambino
conteso” e, più in generale, di strumentalizzazione dei figli.
Un ultimo aspetto degno di nota della triangolazione di cui Mamillius è oggetto mi pare essere che anche Hermione, pur con tutt’altro stile, a modo suo
usa il figlio. Nel terzo atto, rivolgendosi a Leontes, definisce Mamillius “My
second joy, / And first fruits of my body”, e si lamenta perché “from his presence / I am barred, like one infectious.” (III.ii.95-97). Ovviamente, data la situazione in cui si trova, non ci è difficile credere alla sincerità dei suoi sentimenti.
Ma ciò non ci impedisce di ricordare che le sue prime parole riguardo a Mamillius, quando ancora la quotidianità della vita familiare non era oscurata da minacce di morte, furono quelle rivolte alle dame di compagnia: “Take the boy to
you. He so troubles me / 'Tis past enduring.” (II.i.1.2). Con questo, non intendo
certo suggerire che Hermione abbia una parte di “responsabilità”: quale madre
non ha il diritto a desiderare un istante di tregua, soprattutto se in stato di gravi242
danza e perciò presumibilmente assillata da un figlio geloso? Ma proprio
quest’ultimo aspetto—la gelosia per la sorellina in arrivo—potrebbe essere considerato un ulteriore tassello che contribuisce a rendere insostenibile la posizione di Mamillius all’interno della famiglia. Dunque, un Mamillius “allowed to
charm the audience at the beginning of the play”, come vorrebbe Belsey? In
parte, forse, sì. Ma con tutte le ambiguità e le sfumature di un’opera che, pur
densa di eventi meravigliosi, dal punto di vista delle relazioni familiari è una fra
le più mimetiche di tutto Shakespeare.19
Ci resta ora da affrontare un’ultima scena di triangolazione: la ben nota closet scene di Hamlet. Sotto numerosi punti di vista, è una scena di triangolazione
assolutamente peculiare: anzitutto, uno dei due genitori non è più in vita (almeno in senso strettamente biologico, poiché per il resto pare essere più vitale di
molti altri personaggi); secondo aspetto anomalo, solo il figlio può udire e vedere il padre, il che crea una situazione nella quale la triangolazione è pressoché
inevitabile, poiché colloca Hamlet in una posizione di mediazione non solo fra
padre e madre, ma anche fra il mondo dei vivi e quello dei non vivi (anche se
non ancora del tutto morti);20 infine, il rapporto fra Hamlet e Gertrude è, fra tutte le relazioni madre-figlio, quello conversazionalmente più ricco di tutto il canone shakespeareano (vedi tab. C.6 in appendice). A tutto ciò si deve aggiungere, naturalmente, la particolarità della situazione stessa: Gertrude, almeno agli
occhi di Hamlet e del Ghost, è una madre che sembra aver tradito—non si sa
bene fino a che punto: quando ha avuto inizio la sua relazione con Claudius? è
19
Cfr. H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, pp. 639-40: “Wilson Knight,
subtly evading his own inveterate transcendentalism, judged the play’s deity to be neither
biblical nor classical, but rather what he called «Life itself», rightly testifying to The Winter’s Tale’s naturalism, marvellous in its scope. Realism is a very difficult term to employ
in discussions of imaginative literature, but to me The Winter’s Tale is far more realistic
than Sister Carrie or An American Tragedy. Dreiser is more the romancer, while Shakespeare is the truest poet of things as they are.”
20
Stephen Greenblatt, per esempio, lo colloca in una sorta di rappresentazione teatrale del
Purgatorio, rappresentazione intesa a restituire al pubblico—seppure solo in forma di finzione—quello spazio, tipicamente cattolico, di mediazione fra vita e morte che il Puritanesimo stava in tutti i modi cercando di eliminare (cfr. S. GREENBLATT, Hamlet in Purgatory, 2001).
243
stata complice nell’omicidio?—il marito. Dunque, come nel caso di The Winter’s Tale, ci troviamo davanti a una scena di triangolazione originata da un sospetto di tradimento da parte della moglie ai danni del marito.
Riguardo quest’ultimo aspetto, è interessante osservare quanto di frequente,
in Shakespeare, le tragedie di coppia tendano a lasciare uno spazio aperto, per
quanto ridotto, al dubbio, all’ambiguità, al mistero (si pensi al rapporto fra Desdemona e Cassio, o a quello fra Hermione e Polixenes). Ciò raggiunge l’apice
in Hamlet, che se visto come un romanzo giallo lascerebbe i propri lettori alquanto perplessi circa il coinvolgimento effettivo di Gertrude. Ed è proprio questo stato di incertezza, di assenza di “prove oggettive di colpevolezza”, a costituire il contesto comunicazionale della closet scene e, più in generale, il leit motif delle interpretazioni su Hamlet: è o non è in grado di agire? E se lo è, cosa lo
conduce a una situazione di stallo che permetterebbe al dramma di protrarsi, in
una rappresentazione puntualmente fedele, per circa sei ore?
Ognuno ha le proprie proposte, spesso in contraddizione l’una con l’altra.
Coleridge individuava il motivo dell’esitazione di Hamlet in una “great, an almost enormous, intellectual activity, and a proportionate aversion to real action
consequent upon it”.21 A.C. Bradley, nella sua magistrale lettura sulle cause della melancholy di Hamlet, si oppone a tale interpretazione suggerendo scherzosamente che possa essere frutto di una proiezione della nevrosi dello stesso Coleridge, “for it is downright impossible that the man we see rushing after the
Ghost, killing Polonius, dealing with the King’s commission on the ship, boarding the pirate, leaping into the grave, executing his final vengeance, could ever
have been shrinking or slow in an emergency. Imagine Coleridge doing any of
these things!”22 La psicoanalisi, prima con Freud poi con Ernest Jones, scavando tanto nel presente di Shakespeare23 quanto nell’infanzia di Hamlet,24 vi rin-
244
viene inesorabilmente un conflitto edipico represso. Goddard, non meno sarcastico di Bradley, replica a sua volta che “it is as if Hamlet, of all characters in
literature, were specifically created not to be understood by the Freudian psychology.”25 E che dire della querelle fra chi vede in Hamlet anzitutto il protagonista di una revenge tragedy—“the slow avenger of his father’s death”,26 come
recita l’accurata definizione di Hazlitt—e chi, invece, come Girard,27 l’emblema
dell’assurdità della vendetta?
La qualità e la quantità di questi e innumerevoli altri interventi, succedutisi
negli ultimi quattro secoli, costituiscono al tempo stesso una risorsa preziosa e
un ostacolo non da poco per chi, volente o nolente, si ritrovi come me a dover
aggiungere il proprio, per quanto modesto e ininfluente, contributo. La difficoltà principale, a mio modo di vedere, non sta tanto nell’evitare di scrivere qualcosa di già scritto—ritengo infatti che sia pressoché inevitabile, avendo a che
fare con Hamlet, rassegnarsi in partenza a dover limitare in modo radicale le
proprie ambizioni di originalità—quanto nel fatto che il filtro costituto da tante
interpretazioni autorevoli, sedimentatesi l’una sull’altra nel corso dei secoli, ci
21
S.T. COLERIDGE, “Hamlet”, 1819 (in H. BLOOM, a cura di, Hamlet, p. 21).
22
A.C. BRADLEY, Shakespearean Tragedy, p. 110.
23
Cfr. S. FREUD, The Interpretation of Dreams, 1900: “Hamlet was written immediately after the death of Shakespeare’s father, that is, under the immediate impact of his bereavement and, as we may well assume, while his childhood feelings about his father had been
freshly revived.” (in H. BLOOM, a cura di, Hamlet, p. 41).
24
Cfr. E. JONES, Hamlet and Oedipus, 1949: “We have here the reason why it is impossible
to discuss intelligently the state of mind of anyone suffering from a psychoneurosis,
whether the description is of a living person or an imagined one, without correlating the
manifestations with what must have operated in his infancy and is still operating. That is
what I propose to attempt here.” (in H. BLOOM, a cura di, Hamlet, p. 53).
25
H.C. GODDARD, The Meaning of Shakespeare, 1951 (in H. BLOOM, a cura di, Hamlet, p.
108).
26
W. HAZLITT, Characters of Shakespeare’s Plays, 1817 (in H. BLOOM, a cura di, p. 15).
27
Cfr. R. GIRARD, “Hamlet’s Dull Revenge”: “We can make sense out of Hamlet just as we
can make sense out of our world, by reading both against revenge. This is the way Shakespeare wanted Hamlet to be read and the way it should have been read long ago.” (in H.
BLOOM, a cura di, p. 185).
245
allontana e ci rende quanto mai scettici rispetto alle intuizioni che la nostra esperienza personale di vita, e in particolare di vita in famiglia, potrebbe offrirci.
Con il fine dichiarato di riconquistare un poco di libertà (per quanto artificiosa) di movimento, propongo dunque di partire da due considerazioni, di fonte autorevolissima l’una quanto di fonte sconosciuta l’altra, assai distanti nel
tempo, ma in un certo senso stranamente affini. La prima è del dottor Johnson,
il quale, nel 1765, faceva un’osservazione in netto contrasto con quelle, assai in
voga in tempi più recenti, di chi vede in Hamlet l’attore, il regista, lo sceneggiatore e perfino il creatore di se stesso e del suo dramma: “Hamlet is, through the
whole play, rather an instrument than an agent.”28 L’altra è invece di una classe
di anonimi studenti della nostra epoca, a mio giudizio ottimi rappresentanti di
una notevole percentuale degli odierni spettatori e lettori shakespeareani “non
professionisti”, così come la riporta la loro docente di letteratura all’Indiana
University: “They see [Hamlet] as the product of a dysfunctional family long
before they see him as a tragic hero.”29
Cosa accomuna queste due definizioni? O, detto, altrimenti, in quale luogo
“Hamlet come strumento” e “Hamlet come prodotto di una famiglia disfunzionale” possono sovrapporsi? Per rispondere, vorrei cominciare riportando un caso clinico dei nostri tempi, trattato alcuni anni fa dall’équipe milanese di terapia
della famiglia guidata da Maria Selvini Palazzoli, e riportato con un titolo che,
se riferito a Hamlet, penso riuscirebbe a riscuotere un’approvazione pressoché
unanime da parte degli interpreti shakespeareani del XX secolo: “Il custode del
buon costume”. Il resoconto è un po’ lungo, ma credo valga la pena riportarlo
senza eccessivi tagli, lasciando ai lettori la libertà di decidere—magari con il testo di Hamlet a fianco—anche sulla rilevanza di particolari a prima vista superflui:
Il caso che qui presentiamo fu per certi lati perfino eccitante. Si trattava di una
coppia sulla quarantina, che chiedeva aiuto per un figlio unico di diciott’anni, da
alcuni mesi dimesso dal reparto psichiatrico di un ospedale, in cui era stato ricove-
28
S. JOHNSON, The Plays of William Shakespeare, 1765 (in H. BLOOM, a cura di, p. 7).
29
J.A. SPECTOR, “Anne Tyler’s Dinner at the Homesick Restaurant: A Critical Feast”, p.
310.
246
rato per una crisi psicotica acuta definita come confusionale. Il ragazzo, che già
precedentemente alla crisi aveva lasciato la scuola, le amicizie, l’attività sportiva,
viveva letteralmente incollato ai genitori, specialmente alla madre. I genitori possedevano e conducevano insieme un’azienda commerciale […]. Erano entrambi di
bell’aspetto, ma il personaggio di gran lunga più interessante era la moglie. Non
solo essa non dimostrava affatto la sua età, ma (senza risultare ridicola) si vestiva
e si pettinava come un’adolescente un po’ perduta, diffondendo intorno a sé (impossibile capire come, ma i maschi dell’équipe lo avvertivano benissimo anche attraverso lo specchio [unidirezionale]) un clima di erotismo peccaminoso.30
Incerti sul da farsi, i terapeuti optarono come prima mossa per un tradizionale intervento di rinforzo dei confini intergenerazionali, ossia prescrissero alla
coppia un certo numero di uscite serali a due, senza alcun coinvolgimento del
figlio. Ma questa prescrizione incontrò una certa resistenza:
Inaspettatamente, trattandosi di una coppia elegante che sfoggiava importanti
relazioni mondane, il marito sollevò contro le sparizioni obiezioni a non finire:
non sapeva darsi pace per le possibili angosce di Dario [il figlio], e con vari pretesti e contrattempi ne procrastinò l’esecuzione. Ciò ci fece sospettare il timore da
parte del marito che le sue sparizioni con la moglie disgustassero Dario; e soprattutto che quel figlio onnipresente gli facesse molto comodo. […] L’esplosione
psicotica di Dario era stata preceduta da un episodio patetico: il suo amico e coetaneo, che frequentava la loro casa, si era preso una cotta travolgente per sua madre. Poco dopo suo padre aveva avuto un attacco coronarico. Ipotizzammo che egli non si sentisse affatto sicuro che quel biondo ragazzo non turbasse la pace di
sua moglie.
Lo stile provocatorio della donna ci parve consistere proprio in questo: nessuno […] riusciva a capire cosa mai si nascondesse sotto quei lunghi capelli ricciuti,
dietro lo sguardo languido di quei drammatici occhi scuri. Era innamorata? Era
indifferente? Voleva peccare? Non aveva peccato? ... Così Dario, dopo un breve
periodo di comportamenti inusitati durante il quale cercò di angosciare la madre
frequentando un gruppo di balordi, aveva deciso di assumersi in proprio, con i
comportamenti psicotici, il controllo di una situazione familiare costantemente in
“zona di luce rossa”.
Come psicotico, Dario era una guardia del corpo efficientissima. La sua giornata era la seguente: si alzava al mattino alla stessa ora dei genitori, con loro prendeva la prima colazione e con loro si trasferiva nell’azienda, dove occupava un
piccolo scrittoio accanto a quello della madre. Lì trascorreva senza far nulla
l’intera giornata. Impossibile farlo uscire con amici, mandarlo al cinema, indurlo a
riprendere qualche attività sportiva. Se gli capitava di stare qualche ora in casa solo con la madre, le ronzava intorno come a spiarla…31
30
M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, p. 138.
31
Ibid., pp. 138-139.
247
FIG. 6.2 - IL TRIANGOLO
“PERVERSO”
OLD HAMLET
GERTRUDE
A scanso d’equivoci premetto subito
che non è certo mia intenzione suggerire
che Dario possa essere considerato un epigono di Hamlet—se non nella misura in
cui, come vorrebbe Bloom, tutti noi un po’
lo siamo… Le differenze individuali, è e-
HAMLET
vidente, sono incommensurabili, a partire
dal fatto che il padre di Dario è vivo e ve-
geto (anche se reduce da un attacco coronarico…), al contrario del padre di
Hamlet. Ciò che mi pare rilevante è piuttosto l’affinità, fra i due “casi”, a livello
di contesto relazionale. Una rappresentazione schematica di tale contesto è
quella descritta dal caso D della figura 6.1 (riportato in figura 6.2 con le linee di
alleanza/conflitto adattate alla situazione di Hamlet): una situazione, cioè, “in
cui due genitori in conflitto aperto o dissimulato tentano entrambi di procacciarsi la simpatia o l’appoggio del figlio contro l’altro”, scrive Lynn Hoffman. E
aggiunge un’annotazione, tutt’altro che marginale, che mi pare colga perfettamente la sublime complessità emotiva della closet scene: “Un genitore starà dalla parte del bambino contro l’altro e a volte è difficile determinare se sia in
maggiore difficoltà il bambino o l’altro coniuge.”32
Tornando ora al dottor Johnson e agli studenti di letteratura dell’Indiana
University, la corrispondenza fra “Hamlet come strumento” e “Hamlet come
prodotto di una famiglia disfunzionale” dovrebbe essere più chiara, e si tratta
ancora una volta di un fenomeno tipicamente circolare: a) Hamlet serve al padre
32
L. HOFFMAN, Foundations of Family Therapy, p. 146. A proposito di “triangoli perversi”—o inammissibili, come li chiama Hoffman, è interessante osservare che in Hamlet sono almeno due: considerando anche Claudius, infatti, si ottengono due “triadi congrue”
(Old Halmet-Hamlet-Claudius e Old Hamlet-Gertrude-Claudius), ossia riassumibili nella
formulazione “il nemico del mio amico è mio nemico”, e due “triadi incongrue” (Old Hamlet-Hamlet-Gertrude e Claudius-Gertrude-Hamlet), riassumibili nella formulazione “il
nemico del mio amico è mio amico”. L’aspetto che mi pare rilevante di questo tipo di rappresentazione è che individua correttamente, basandosi soltanto su coordinate strutturali,
le posizioni critiche (o “a rischio”, se si preferisce), e cioè quelle dei due personaggi che si
ritrovano ad essere “amici” di due “nemici”: rispettivamente, Hamlet (benvoluto da un padre e da una madre in conflitto) e Gertrude (benvoluta da un marito—Claudius—e da un
figlio in conflitto).
248
per punire il fratello assassino e, inevitabilmente, per quanto in modo indiretto,
la moglie; b) questo suo dover essere utile a qualcuno che lo ama (Old Hamlet)
per danneggiare una persona che lo ama altrettanto (Gertrude) pone Hamlet in
una stato di potenziale dissociazione, uno stato nel quale le sole possibili alternative paiono essere, secondo la teoria dei sistemi familiari, il “ritirarsi nel regno del sogno ad occhi aperti, della fantasia, dell’arte o, per citare manifestazioni più patologiche, nella schizofrenia o nella paranoia”;33 c) “to put an antic
disposition on” (I.v.173) è l’alternativa “scelta” da Hamlet, ma è al tempo stesso
lo strumento che meglio gli permetterà di portare a termine il compito affidatogli dal padre, quindi di servire.
A questo proposito, vorrei sottolineare due aspetti. Anzitutto, non mi convince quanto scriveva il dottor Johnson circa la “feigned madness” di Hamlet, e
cioè che “he does nothing which he might not have done with the reputation of
sanity”:34 come minimo, il suo comportamento crea sconcerto e causa disagio,
sia nel rapporto fra Claudius e Gertrude sia più in generale nell’ambiente di corte. Sono infatti la sua melancholy e le sue bizzarrie—il suo ostinato comportarsi
da “paziente designato”—a guastare la felicità coniugale di Claudius e, soprattutto, di Gertrude. In questo senso, The Mousetrap, indipendentemente dal suo
successo o meno (vedi capitolo 4) come cartina al tornasole della colpevolezza
di Claudius, è un esempio fra tanti di quella serie di efficaci “strategie di disturbo” che costituiscono, a mio avviso, non tanto un’esitante preparazione alla
vendetta quanto, piuttosto, la vendetta stessa—per quanto, parafrasando Hazlitt,
una “slow vengeance”. E, proprio per questa sua agonizzante lentezza—“This
physic but prolongs thy sickly days” (III.iii.96), riconoscerà lo stesso Hamlet—
assai più terribile della deludente vendetta finale. Il secondo aspetto della follia
di Hamlet che mi preme porre in rilievo riguarda il suo rapporto con i comportamenti psicotici “autentici”. La distinzione fra “follia simulata” e “follia vera”,
almeno da un punto di vista sistemico, non è affatto così netta, anzi: se si considera il sintomo non tanto come una conseguenza (magari dipendente da fattori
33
Ibid., p. 115.
34
S. JOHNSON, The Plays of William Shakespeare, 1765 (in H. BLOOM, a cura di, p. 7).
249
genetici o ambientali) quanto come un comportamento funzionale, finalizzato a
qualche scopo, la follia è in un certo senso sempre simulata. Jay Haley, per esempio, parla a questo proposito di “the art of being schizophrenic”,35 e lo stesso Gregory Bateson, nel suo “A Theory of Play and Fantasy”,36 aveva messo in
luce le affinità fra i processi soggiacenti alla formazione delle metafore e quelli
in atto nella comunicazione caratteristica degli schizofrenici. La differenza,
semmai, è che nel caso dei sintomi “autentici” non si è liberi di decidere quando
interrompere la simulazione: il contesto, e in particolare il contesto familiare,
non lo permetterebbe.
E Hamlet? È libero, Hamlet, di abbandonare la sua “antic disposition” e di
affrontare apertamente, ossia parlandone con Gertrude in modo esplicito, i dubbi e i conflitti che lo assillano? L’occasione gli si offre—su invito di Gertrude
(tramite Polonius: “My lord, the Queen would speak with you, and presently”,
III.ii.362-363)—precisamente con la closet scene. Ben determinato ad andare
senza troppi giri di parole al cuore del problema, pur contenendosi entro i limiti
premurosamente tracciati dal padre nel primo atto (“I will speak daggers to her,
but use none”, III.ii.385), Hamlet accetta il confronto.
Sin dalle prime battute, si delinea come un’escalation simmetrica ad altissima tensione. Nello spazio di una ventina di versi, assistiamo, nell’ordine, a: a)
un attacco esplicito, da parte di Gertrude, sul piano del contenuto (“Hamlet,
thou hast thy father much offended”, III.iv.9); b) un contrattacco altrettanto duro, da parte di Hamlet, giocato sulla definizione di “padre”, che Gertrude vorrebbe comprendesse “il marito della madre” mentre per Hamlet ciò è inaccettabile (“Mother, you have my father much offended”, III.iv.10); c) con un sintomatico abbandono del ‘thou’ per un più distaccato ‘you’, il dialogo si sposta sul
piano della relazione, diventando così un meta-scambio sull’appropriatezza delle reciproche battute (Gertrude: “Come, come, you answer with an idle tongue”;
Hamlet: “Go, go, you question with a wicked tongue”, III.iv.11-12); d) uno
35
L. HOFFMAN, Foundations of Family Therapy, p. 119.
36
G. BATESON, “A Theory of Play and Fantasy; a Report on Theoretical Aspects of the Project for Study of the Role of Paradoxes of Abstraction in Communication”, 1955 (in G.
BATESON, Steps to an Ecology of Mind).
250
scambio di minacce (Gertrude: “I'll set those to you that can speak”; Hamlet:
“You shall not budge. You go not till I set you up a glass...”, III.iv.18-19); e) un
omicidio!
Il fatto che Hamlet e Gertrude, nonostante l’ingombrante presenza del cadavere di Polonius, continuino a dialogare imperterriti è un segnale non trascurabile dell’importanza che il loro scambio riveste. La morte di un personaggio
tutt’altro che marginale come Polonius, in altre circostanze e in altri drammi, sarebbe infatti stata più che sufficiente per decretare il raggiungimento di un climax tale da indurre quanto meno una variazione nel programma narrativo. Ma
in queste prime battute si può osservare anche un altro fenomeno che, nelle precedenti analisi di scene di triangolazione, già abbiamo incontrato (vedi sezione
su 3H6 in questo capitolo), ossia la tendenza, nei momenti critici, alla “riscrittura” della storia familiare: “You are the Queen, your husband's brother's wife. /
But—would you were not so—you are my mother” (III.iv.15-16), risponde infatti Hamlet allo “Have you forgot me?” di Gertrude.
Il dialogo procede poi con quello che Janet Adelman definisce “Hamlet’s attempt to [...] recover the fantasied presence of the asexual mother of childhood”,37 e che io, in modo meno azzardato, mi limito a considerare un tentativo da
parte di Hamlet di ricreare—perlomeno in termini emotivi—la triade primaria:
ossia, inducendo in Gertrude il senso di colpa (“Such an act / That blurs the
grace and blush of modesty...”, III.iv.39-40), stabilendo un confronto fra Old
Hamlet e Claudius a favore del primo (“Look here upon this picture, and on
this...”, III.iv.52) e, infine, cercando di elicitare in lei qualche segno di emozione (“O shame, where is thy blush?”, III.iv.72), Hamlet tenta di riavvicinare la
madre al padre, o perlomeno al ricordo del padre (“Remember me”, I.v.91, era
stata la consegna dello spettro al momento dell’addio).
La domanda da porsi, a questo punto, mi pare essere: perché Hamlet si
accolla un compito simile? Non certo per adempiere al giuramento fatto al
padre, il quale era stato assai esplicito al proposito (“Leave her to heaven, / And
to those thorns that in her bosom lodge / To prick and sting her.”, I.v.86-88).
37
J. ADELMAN, Suffocating Mothers. Fantasies of Maternal Origin in Shakespeare’s Plays,
p. 33.
251
those thorns that in her bosom lodge / To prick and sting her.”, I.v.86-88). Per
preparare Gertrude a quanto sta per accadere? Nemmeno, visto che nella scena
precedente, quando Hamlet ha avuto occasione di uccidere Claudius, questa
motivazione non lo ha nemmeno sfiorato. Per autentico “disgusto”, allora? Vale
a dire, perché considera l’adulterio della madre socialmente e religiosamente inammissibile? Questa è di sicuro una delle possibili ragioni, come dimostrano i
numerosi riferimenti alle “reazioni” del Cielo e della Terra (“Heaven's face doth
glow, / Yea, this solidity and compound mass / With tristful visage, as against
the doom, / Is thought-sick at the act”, III.iv.47-50). D’altronde, è ben noto
quanto il double standard maschilista—secondo il quale l’adulterio da parte di
donna era un “delitto” così grave da corrispondere non tanto al veniale adulterio
da parte di uomo quanto, piuttosto, all’omicidio—fosse comunemente accettato
dalla popolazione maschile dell’epoca.
A questo riguardo, poiché il differente atteggiamento sociale fra epoca elisabettiana e epoca odierna potrebbe sollevare giustificate perplessità circa il punto
di vista sistemico qui adottato, penso sia interessante riportare quanto osservano
i terapeuti dell’équipe di Milano sul fenomeno della prevalenza di coalizioni
contro la madre:
Un dato clinico su cui ci siamo a lungo interrogati è il seguente: perché mai rileviamo una netta prevalenza di coalizioni del paziente designato con il padre contro la madre anche nelle psicosi a insorgenza adolescenziale o giovanile? [vs psicosi a insorgenza infantile, per le quali la spiegazione esula almeno in parte da fattori culturali] Quali potrebbero essere le ragioni culturali che spiegano questo riproporsi del medesimo schema prevalente, che vede il figlio solidarizzare con un
padre ritenuto succube di una madre prevaricatrice? Non ci sembra che nei ruoli
dei due genitori con figli già adolescenti siano presenti differenze così significative da giustificare questo dato. Ci pare, invece, che un motivo possa essere il seguente: nella nostra società è più coerente con gli stereotipi sessuali (gender-role)
aspettarsi che il provocatore attivo sia il padre, a causa del modello tradizionale
dell’uomo forte e dominatore, sia dei privilegi maschili non ancora scomparsi.38
38
M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, pp. 201-202. Sui concetti di
provocatore passivo e provocatore attivo, vedi capitolo 4 (sezione su The Taming of the
Shrew). In generale, possiamo identificare il provocatore attivo nel coniuge con comportamento apertamente aggressivo e/o provocante (in Hamlet, Gertrude), e quello passivo
nel coniuge più defilato, e in apparenza succube degli eventi, ma in realtà anch’egli partecipe al conflitto (in Hamlet, ovviamente Old Hamlet).
252
A quanto pare, benché la terapia della famiglia abbia iniziato a studiare il fenomeno del coinvolgimento dei figli nei conflitti coniugali oltre tre secoli e
mezzo dopo la prima rappresentazione di Hamlet, gli stereotipi sessuali non
sembrano—purtroppo—essere cambiati abbastanza da rendere l’approccio qui
adottato totalmente anacronistico... Maria Selvini Palazzoli e i suoi colleghi
proseguono poi annotando un ulteriore pattern che tende a riproporsi nella
triangolazione fra genitori e figli, e si tratta di un pattern estremamente illuminante per la nostra lettura della closet scene:
Ora, nei casi in cui nello stallo di coppia è il padre a ricoprire il ruolo del provocatore attivo, possiamo sì registrare nel figlio che si intromette la comparsa di
comportamenti disturbanti, ma raramente essi sono di tipo psicotico. [...] Invece,
nelle nostre famiglie con un paziente designato psicotico, c’è un doppio fattore di
confusione: anzitutto il provocatore passivo è il padre (contrariamente alle aspettative connesse al gender-role), il quale seduce il figlio e lo istiga contro la madre.
In più, al momento della resa dei conti, quello stesso padre non “osa” appoggiare
la decisione del figlio di ribellarsi a sua madre. Anzi, solidarizza con lei, biasimandolo.39
Al momento della resa dei conti... solidarizza con lei, biasimandolo. Nessuna
delle letture nelle quali che mi è fino ad ora capitato di imbattermi è riuscita a
convincermi pienamente circa la motivazione, sull’asse interno, del bizzarro intervento del Ghost a metà della closet scene. Certo, per quanto concerne l’asse
esterno, l’improvvisa apparizione del vecchio re—magari “in his night gowne”,
come vorrebbe l’intrigante stage direction del malconcio Q1, e magari interpretato dallo stesso Shakespeare—è un coup de théâtre senza uguali. Così come è
ovvio il legame sintagmatico fra evocation (l’elogio del padre da parte di Hamlet) e visitation. L’imperativo d’esordio (“Do not forget”), a sua volta, instaura
indubbiamente una continuità con il “Remember me” del primo atto, e insieme
al
verso
circa
la
vendetta
ancora
incompiuta
(“This
visitation
Is but to whet thy almost blunted purpose”) rende plausibile la prima parte
dell’intervento. Ma lo spettro non si limita ad apparire e a ricordare il lavoro
ancora da compiere:
39
Ibid., pp. 202-203.
253
But look, amazement on thy mother sits.
O, step between her and her fighting soul.
Conceit in weakest bodies strongest works.
Speak to her, Hamlet.
[III.iv.102-105]
Come spiegare questa “intrusione” nel primo scambio profondo—per quanto
teso—fra Hamlet e Gertrude? E perché dire a qualcuno, in questo caso al figlio,
di fare ciò che già sta facendo da qualche minuto, ossia di parlare alla madre?
Considerando il solo punto di vista di Old Hamlet, la spiegazione parrebbe
semplice e lineare: lo spettro è preoccupato per la precaria condizione psicologica di Gertrude, e non potendo intervenire in prima persona delega l’incarico al
figlio. Ma quali possono essere le conseguenze—che Old Hamlet ne sia consapevole o meno—di un simile intervento sull’intera triade, e in particolare sulla
relazione fra Hamlet e Gertrude? Per tentare una risposta, riporto qui una delle
regole, già incontrata nel quarto capitolo, sull’induzione del cambiamento: “If
one person wants to influence another person’s behavior, there are basically
only two ways of doing it. The first consists of trying to make the other behave
differently. [...] The other approach consists in making him behave as he is already behaving”.40 Qual è l’effetto paradossale di questo secondo approccio?
Anzitutto, un’alienazione dell’arbitrio e della spontaneità: d’ora in poi, il colloquio di Hamlet con la madre sarà in qualche modo viziato, poiché risulta inserito—perlomeno nella mente di Hamlet, il quale a differenza di Gertrude ha visto
e udito il padre—entro un contesto di ingiunzione (“Speak to her, Hamlet”).
Non a caso, la domanda che egli le rivolge immediatamente dopo l’intervento
del padre (“How is it with you, lady?”) è piuttosto “fuori tono” rispetto al serrato e violento dialogo che la precede.
Un secondo effetto, ed è ciò che mi ha indotto a definire l’intervento del
Ghost come un’intrusione, è l’ingerenza nella relazione madre-figlio. Greenblatt, cogliendone il lato positivo, osserva: “To be sure, this ghost has appeared
not to his wife but to the son from whom he demands vengeance. Yet what we
see—what Hamlet sees not only here but also, in his imagination, again and
40
P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p. 237.
254
again—is a gesture of spousal tenderness and solicitude”.41 Pur trovandomi sostanzialmente d’accordo con questa lettura, ritengo che evidenzi solo una faccia
della medaglia. Proviamo infatti a pensare per un istante alla situazione in cui si
trova Hamlet in questo frangente: benché tormentato dai dubbi e dal senso di
colpa per non aver ancora attuato la vendetta, il suo duro attacco a Gertrude—
per quanto discutibile—è comunque inteso a difendere l’onore del padre, oltre
che a tentare di recuperare quello della madre. Detto altrimenti, Hamlet, pur nella sua apparente inconcludenza, è sempre stato, dal primo atto fino ad ora, un
fedele alleato del padre. Tutto ciò a costo di notevoli sacrifici, non ultimo la
simulazione dello stato di pazzia. E a questo punto che fa il Ghost? Non solo lo
biasima, ma addirittura trova modo di solidarizzare con la madre—quella stessa
“seeming-virtuous queen” (I.v.46) che ad appena un mese, “A little month”
(I.ii.147), dalla morte del marito era già a letto con colui che lo aveva ucciso.
Che tipo di situazione è questa? Propongo di affidarci un’ultima volta alla
consulenza dell’équipe della scuola sistemica di Milano:
[...] Battezzammo tale fenomeno ricorrente col nome di “imbroglio”. [...] Precisamente vogliamo significare l’intero vortice dei comportamenti-comunicazione
che i vari membri della famiglia si scambiano a partire da una certa mossa che
punteggiamo come iniziale. In tale nostra accezione, il termine acquista un significato composito, a metà tra quello del termine anglosassone “imbroglio”, che indica solo intrico e confusione, e quello del medesimo termine italiano, che invece
allude alla truffa vera e propria. Vediamo di darne una definizione il più possibile
precisa.
Per imbroglio intendiamo un processo interattivo complesso che sembra strutturarsi ed evolversi attorno a una specifica tattica comportamentale messa in atto
da un genitore, caratterizzata dall’ostentare come privilegiata una relazione diadica intergenerazionale (genitore-figlio) che di fatto non è tale. Questo nel senso che
il presunto privilegio non è effettivamente autentico, ma bensì strumento di una
strategia mirata contro qualcuno [...]42
Il problema dell’imbroglio è che, prima o poi, affiora. Proprio come lo spettro di Old Halmet nella closet scene. E quando viene percepito in quanto tale,
nei migliori dei casi l’effetto è un’amara disillusione: scoprire che il “genitore
del cuore”, più che amarci, ci sta usando, magari proprio per ristabilire un rap41
S. GREENBLATT, Hamlet in Purgatory, p. 224.
42
M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, p. 70.
255
porto privilegiato con l’altro genitore—quello che gli interessa davvero, quello
che noi, da fedeli alleati, abbiamo così accanitamente tormentato. Nei casi più
sfortunati, può accadere che la disillusione abbia un esito di tipo psicotico.
Ora, nonostante gli otto morti che possiamo contare quando la tragedia giunge al termine, non mi pare che il caso di Hamlet sia uno di quelli “sfortunati”.
Non sono nemmeno così sicuro che la dinamica dell’istigazione/imbroglio sia
alla base del dramma della triade: troppi sono gli aspetti che, per attenermi al
taglio dato a questo capitolo, non ho preso in considerazione, a partire dal fondamentale ruolo di Claudius. Eppure, non posso fare a meno di notare, con Harold Bloom, come l’atteggiamento di Hamlet nei confronti del padre subisca,
nell’ultima parte del dramma, un notevole cambiamento: “Certainly he is no
longer haunted by his father’s ghost. It may be that the desire for revenge is fading in him. In all of act V he does not speak once of his dead father directly.
There is a single reference to «my father’s signet» which serves to seal up the
doom of those poor schoolfellows, Rosencrantz and Guildenstern, and there is
the curious phrasing of «my king» rather than «my father» in the half-hearted
rhetorical question the prince addresses to Horatio”.43 Nella misura in cui
l’analisi delle dinamiche interne alla triade qui proposta è plausibile, alla base
del distacco emotivo di cui parla Bloom parrebbe proprio esserci la disillusione
di Hamlet conseguente al bizzarro intervento del Ghost, tanto sollecito a privilegiare la relazione con il figlio quando si tratta di chiedergli aiuto quanto rapido a ridimensionarla nel momento in cui l’aiuto si rivela controproducente. In
altre parole, se Hamlet può, sotto numerosi punti di vista, essere considerato
l’apogeo della fortunata tradizione delle revenge tragedies, mi pare si possa dire
che con il dramma della triade primaria Old Hamlet-Gertrude-Hamlet si inaugura il genere—altrettanto fortunato e altrettanto tragico, sul palco dei teatri come
tra le mura domestiche—della instigation tragedy.
43
H. BLOOM, Ruin the Sacred Truths, p. 56.
256
Conclusioni
Famiglie in Shakespeare, famiglie nel teatro
JONATHAN
Why, I vow […], they lifted up a great green cloth
and let us look right into the next neighbor’s house.
Have you a good many houses in New-York made
so in that ‘ere way?
JENNY
Not many; but did you see the family?
JONATHAN
Yes, swamp it; I see’d the family.
JENNY
Well, and how did you like them?
JONATHAN
Why, I vow they were pretty much like other families;there was a poor, good-natured, curse of
husband, and a sad rantipole of a wife.
[…]
JENNY
Well, Mr. Jonathan, you were certainly at the playhouse.
JONATHAN
I at the play-house!Why didn’t I see the play
then?
ROYALL TYLER, The Contrast, III.i
Come il Mr. Jonathan di The Contrast1, ciò che ho “visto” nel corso di questa tesi è stata “la” famiglia, e in particolare la famiglia nei drammi di Shakespeare. Giunto alle conclusioni, è forse il momento di ampliare un po’ la prospettiva, o perlomeno di esplicitarne i limiti, che mi sembrano essere essenzialmente due: primo, Shakespeare non parla solo di famiglie; secondo, non solo
Shakespeare parla di famiglie.
Cominciamo dal secondo punto: il frequente ricorso alla struttura ‘famiglia’
non è una prerogativa del teatro di Shakespeare. Come ho cercato di illustrare
1
The Contrast, portata in scena per la prima volta (e con notevole successo di pubblico) al
John Street Theater di New York City il 16 aprile 1787, è considerata la prima commedia
americana.
nel secondo capitolo, la famiglia si presta ottimamente a soddisfare una fra le
esigenze principali del teatro in generale: consentire agli spettatori, in un tempo
relativamente breve e con mezzi espressivi estremamente vincolati, l’accesso al
mondo della finzione. Proponendosi come un sistema sociale del quale chiunque ha esperienza diretta, la rete delle relazioni familiari rappresenta infatti una
sorta di palinsesto pragmatico e semantico noto a priori: per creare tensione
drammatica, dunque, non è necessario “partire da zero”, ma sarà sufficiente introdurre un limitato numero di differenzeossia, di significati. È come se la
famiglia portasse “in dote” una quantità di informazioni assai maggiore degli altrio quanto meno di molti altrisistemi relazionali.
Un’irriverente “dimostrazione per assurdo” può forse chiarire cosa intendo.
Uno fra i tratti più ambigui di The Merchant of Venice è la motivazione che
spinge Antonio a rischiare la vita per consentire a Bassanio di corteggiare Portia. Persino un campione di self-confidence come Harold Bloom sembra nutrire
qualche perplessità al riguardo: “Antonio is dark matter, and requires some contemplation if his adversary Shylock is to be properly understood. Antonio lives
for Bassanio and indeed is willing to die for him, and mortgages his pound of
flesh to Shylock solely so that Bassanio can deck his good looks out in order to
wive it wealthily in Belmont,” 2 osserva incredulo. E giunge infine a concordare,
fatto piuttosto insolito per Bloom, con quanti intravedono nella generosità di
Antonio motivazioni sessuali: “Antonio, though he is in Belmont, will go to bed
alone… Bassanio, we have to assume, is bisexual, but Antonio clearly is not,
and his homoeroticism is perhaps less relevant than his sadomasochism, the
doom-eagerness that could allow him to make so mad a contract with Shylock.”3
Omosessualità, dunque? O sadomasochismo? Oppure, semplice amicizia? O,
ancora, il “mad contract” di Antonio vuole essere un segno della carità cristiana
in opposizione all’avidità dell’usuraio ebreo Shylock? Non saprei. E credo che a
Shakespeare, in fondo, non interessasse più di tanto rendere trasparenti le motivazioni di Antonio: l’importante è che, drammaticamente, il suo gesto “funzio-
2
H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 179.
3
Ibid., p. 179.
258
ni”. Ciò che invece voglio sottolineare è che, se Shakespeare avesse ritenuto necessario offrire una motivazione convincente, questo gli avrebbe richiesto tempo: difficilmente i 185 versi della prima scena del primo atto sarebbero stati sufficienti. A meno di… non ricorrere a un altro tipo di relazione, semanticamente
più densa della semplice friendship. Detto altrimenti, se l’elenco delle dramatis
personae recitasse “Antonio, a merchant; Bassanio, his son…”, non ci sarebbe
praticamente altro da aggiungere, allo stesso modo in cui non c’è necessità di
alcun chiarimento per comprendere l’angoscia di Shylock alla scoperta della fuga di Jessica, anzi: ciò che introduce una “differenza” significativa, in
quest’ultimo caso, è esattamente l’opposto, e cioè la relativa tiepidezza delle
motivazioni affettive rispetto a quelle materiali.
Questo breve esempio, per quanto banale, può aiutarci a comprendere alcune
delle ragioni per le quali il teatroda Sofocle ed Euripide a Arthur Miller e Harold Pinter, diciamo, passando per autori del calibro di Racine, Ibsen e Pirandellomostra una così spiccata tendenza al ricorso alle strutture familiari. Ciò
sembra valere, almeno in parte, anche per i contemporanei di Shakespeare: basti
pensare, per esempio, a opere come The Malcontent (1604) di John Marston,
The Duchess of Malfi (1623) di John Webster o Women Beware Women (16207) di Thomas Middleton. La stessa The Spanish Tragedy (1592) di Thomas
Kyd, seppur in modo assai più stilizzato e lineare di quanto non avvenga in
Shakespeare, fa affidamento a una fitta rete di relazioni familiari.
Certo, non mancano le eccezioni: il Doctor Faustus di Christopher Marlowe
ne è un esempio eclatante. Ed è proprio confrontando un’eccezione come Doctor Faustus con il dramma shakespereano ad esso forse più affine, Macbeth, che
ritengo si possa cogliere, se non l’originalità di Shakespeare nel reclutare intere
famiglie, perlomeno la sua originalità nell’impiegarle. Per illustrare ciò che intendo, propongo di cominciare osservando il rapporto esistente fra Doctor Faustus e le Moralities, così come lo illustra Robert Weimann: “It was in Marlowe’s plays that the serious hero, through a new realism in the interplay of speech and action, first moved to the foreground as an essentially individual and
dynamic (as opposed to an allegorical and static, or unchanging) figure… The
profound originality of Faustus’ monologue lies primarily in the fact that it
259
represents, although necessarily in abbreviated form, an intellectual process that
involves an empirically significant image of change and movement in thought
or attitude. Even though this speech [Weimann si riferisce qui al monologo di
apertura, “Settle thy studies Faustus, and begin…”] condenses years of restless
soul-searching, the course of Faustus’ thoughts and ambitions is not described,
declaimed, or didactically evaluated, but rather dramatically recreated.”4 Semplificando un poco, Marlowe riesce a integrare in un unico personaggio i tratti
più mimetici di figure essenzialmente comiche tipo quella del “Vice” e lo spessore intellettuale di discorsi che in precedenza erano riservati alla prosa più altisonante e convenzionale. Il risultato è una nuova forma di rappresentazione
dell’individuo, al tempo stesso più mimetica e più drammatica di quanto non
avvenisse in precedenza.
Ciò che Shakespeare riesce a realizzare con l’invenzione di una coppia come
quella di Macbeth e Lady Macbeth è qualcosa di simile: ma invece di limitarsi a
un individuo, lo realizza in un intero sistema, e in particolare in un sistema familiare. E la differenza che questa scelta introduce, come ho tentato di dimostrare nel quinto capitolo opponendo una lettura sistemica alle letture intrapsichiche, non sta semplicemente nel numero di “partecipanti”. Anzitutto, la diade,
rispetto al singolo individuo, permette di ricorrere al dialogo, incrementando
così sia le potenzialità mimeticheche il monologo inevitabilmente finisce per
turbaresia quelle drammatiche.5 Inoltre, trattandosi di una diade familiare, la
relazione fra Macbeth e Lady Macbeth innesca una serie di “giochi strategici” al
4
R. WEIMANN, Shakespeare and the Popular Tradition in the Theater. Studies in the Social
Dimension of Dramatic Form and Function, pp.200-201.
5
A questo proposito, mi pare assai condivisibile, nonché applicabile in larga misura anche
al teatro elisabettiano, un’osservazione di Stanislavsky (in E. BENTLEY, a cura di, The Theory of the Modern Stage) circa la difficoltà che incontra il singolo attorerispetto a due o
piùnel tenere viva l’attenzione del pubblico: “Experience has taught me that an actor
can hold the attention of an audience by himself in a highly dramatic scene for at most
seven minutes (that is the absolute maximum!). In a quiet scene the maximum is one
minute (this, too, is a lot!). After that the diversity of the actor’s means of expression is not
sufficient to hold the attention of the audience, and he is forced to repeat himself with the
result that the attention of the audience slackens until the next climax which requires new
methods of presentation. But, please, note that this is true only in the cases of geniuses!”
(p. 225).
260
tempo stesso imprevedibili e accessibili. Questo perché, se da una parte la relazione fra due o più individui è intrinsecamente più esposta all’imprevisto di
quanto non sia un’unica mente in dialogo con se stessa (come poteva immaginare, Lady Macbeth, il modo in cui il marito si accingeva a diventare “uomo”?),
d’altra parte quello delle dinamiche familiarie persino della teatralità delle
dinamiche familiariè un ambito nel quale gli spettatori sono ferratissimi fin
dall’infanzia.6 Sono proprio le relazioni familiari, infatti, la prima esperienza
sociale di ognuno di noi, e molto spesso sono anche fra le primissime forme di
finzione alle quali, già da bambini, prendiamo parte in quanto attori consapevoli
(a differenza di quanto avviene con il mondo intrapsichico, per esempio), come
sembra testimoniare il brano tratto dal diario di John Dee con il quale ho concluso il primo capitolo“Arthur Dee and Mary Herbert, being but three year
old the eldest, did make as it were a show of childish marriage, of calling each
other husband and wife…”.
A proposito dell’imprevedibilità intrinseca in alcuni dialoghi shakespeareani, William Dodd propone una definizione che mi pare estremamente esplicativa
e assai pertinente a quanto appena detto: “Shakespeare sometimes imagines dialoguesin this case [la prima scena di King Lear] between Lear, Cordelia, and
Kentas what I define … as sites of emergence. In such emergences personal
interaction suddenly comes to the verge of a breakthrough, or a breakdown, or
simply and tragically loses its thread. […] We can expect personal interactions
6
Cfr. J. BYNG-HALL, Le trame della famiglia, pp. 48-49: “I bambini trascorrono una gran
quantità di tempo a osservare attentamente ciò che accade nella famiglia. Dalla loro posizione di spettatori, essi osservano quanto accade tra i familiari che si trovano sul palcoscenico in quel momento. […] Quando osservano gli avvenimenti che hanno luogo sul «palcoscenico», i bambini possono mettersi nei panni di chi è percepito come agente oppure
nei panni di chi viene agito, e immaginare cosa significhi essere in quel ruolo in quel momento. Passando da una prospettiva all’altra, il bambino giunge a comprendere alcuni dei
motivi che sottostanno all’interazione, vedendoli dal punto di vista di un’altra persona. Le
esperienze «sul palcoscenico» contemplano da un lato l’essere agito e dall’altro il suo contrario, intraprendere un’azione. E, ancora una volta, osservare ciò che gli spettatori pensano di ciò che sta accadendo e prestare attenzione a come il «pubblico» reagisce agli avvenimenti. […] Il bambino alla fine impara a essere un attore e a riflettere sull’evento e sul
significato dell’evento per se stesso e per gli altri. Si chiariscono ai suoi occhi i motivi che
sono alla base delle azioni di ogni persona e questo gli offre la possibilità di riconoscere lo
script in cui potrà essere coinvolto.”
261
to give rise to outcomes that are not predictable on the basis of the separate
knowledge and intentions of the individual actors. Speakers, of course, can use
their power to try to control or to distort an interaction, but they can never completely remove its contingency, since the production of meaning and reference
is always a shared activity.”7 La mia impressione, basata sia sui risultati numerici presentati nel secondo capitolo sia sui dialoghi analizzati nei capitoli successivi, è che la variabile che maggiormente determina il “sometimes” cui fa riferimento Dodd sia esattamente la famiglia. Con ciò non intendo dire che i sites of
emergence possano presentarsi solo nell’ambito delle relazioni familiari: semplicemente, esse ne accrescono la probabilità, e questo perché la famiglia stessa
è, ed era, uno straordinario site of emergence.8 In altre parole, non credo sia un
caso se il grande “imprevisto” che dà origine all’azione di King Learil love
test e la conseguente reazione di Cordeliaavviene tra un padre e una figlia.
Così come non è casuale se uno fra gli episodi più “imprevedibili” (e più gustosi) che i cicli delle Mystery Plays ci hanno lasciato sia il famoso alterco fra Noah e sua moglie.9 E ancora, per rimanere nell’ambito della tradizione popolare,
quando Robert Weimann, per illustrare l’opposizione fra i concetti di locus e
platea, individua nelle battute di comico disappunto di Joseph l’unica scena di
Joseph’s Return nella quale “the anachronism approach the standards and experience of the audience”,10 pur senza esplicitarlo porta l’esempio di una relazione di coppia.
Anche in quest’ultimo caso, dunque, le relazioni familiari si propongono
come un territorio comune idealeuna chiave d’accesso, una plateaal mondo della finzione. La famiglia viene cioè “usata” dal teatro in modo analogo a
7
W. Dodd, “Impossible Worlds: What Happens in King Lear, Act 1, Scene 1?”, p. 487.
8
Cfr. C. BELSEY, Shakespeare and the Loss of Eden: The Construction of Family Values in
Early Modern Culture, p. xiii: “In the course of the sixteenth century in England… family
values became the object of intense propaganda, and of the anxiety that the reconstruction
of any value system necessarily creates.”
9
Vedi per esempio The Flood, in R BEARLE e P.M. KING (a cura di), York Mystery Plays,
pp. 21-32.
10
R. WEIMANN, Shakespeare and the Popular Tradition in the Theater. Studies in the Social
Dimension of Dramatic Form and Function,, p. 82.
262
quello in cui altre forme di “finzione” la usano. Le Sacre Scritture, per esempio.
O, per rimanere ai tempi di Shakespeare, il role-playing familiare di Queen Elizabeth, la quale spessissimo ricorreva all’efficace tattica di presentarsi ai suoi
sudditi ricorrendo alla figura della “Virgin Mother”, se non addirittura come
“natural mother”11.
Queste considerazioni ci riportano, indirettamente, all’altro grande limite
della prospettiva di questa tesi, e cioè che Shakespeare non parla solo di famiglie. In effetti, nonostante il particolare punto di vista qui adottato, ritengo che
sarebbe assurdamente riduttivo definire Shakespeare come “Poet of the
Family”:12 la varietà dei temi trattati nei suoi drammi copre praticamente l’intera
sfera dell’esperienza umana, dagli aspetti più individuali a quelli macrosociali.
Come si concilia, allora, l’ovvietà di questa affermazione con il fitto intreccio di
relazioni familiari sia al livello della composizione delle dramatis personae sia,
soprattutto, al livello della conversazione? Per usare una formula sintetica, potrei dire che la famiglia non è tanto l’argomento quanto il modo del teatro di
Shakespeare.
Ciò che intendo mettere in rilievo con questa pur discutibile generalizzazione è che la famiglia, oltre a facilitare l’accessibilità alla finzione, è il sistema relazionale sul quale si basa uno fra i tratti più peculiari dei drammi di Shakespeare: quell’apparente assenza di “moral purpose” che gli contestava Samuel Johnson nella sua Preface to Shakespeare del 1765 e che io tradurrei, invece, con
il termine eticamente neutrale di ‘complessità’. Passando, infatti, da una composizione delle dramatis personae essenzialmente fondata sull’individuo—come,
per esempio, le Moralities, con i loro “Everymen” in balia di conflitti decisa11
Vedi, per esempio, S. GREENBLATT, Renaissance Self-Fashioning. From More to
Shakespeare, p. 168: “«And so I assure you all,» she told Commons in 1563, «that, though
after my death you may have many step-dames, yet shall you never have a more natural
mother than I mean to be unto you all.»”. A proposito del role-playing come tattica di
acquisizione e mantenimento del potere, non posso fare a meno di rilevare, almeno di
sfuggita, la sua notevole longevità ed efficacia: basti pensare, per esempio, al ricorso a
immagini come quella del “presidente operaio” adottata da Silvio Berlusconi durante la
campagna elettorale del 2001.
12
Cfr. C.L. BARBER, “The Family in Shakespeare’s Development”, p. 195: “If I were writing
this essay in 1876 instead if 1976, it would be called «Shakespeare: Poet of the Family».”
263
mente più intrapsichici che interpersonali e inseriti in casting allegorici che rimandano al limite alla struttura archetipica freudiana (con i Vices al posto
dell’es, le Virtues al posto del super-io e Mankind, naturalmente, al posto
dell’io)—ad una composizione fondata sulla famiglia, concetti etici come “responsabilità” e “colpa”, o “bene” e “male”, non vengono semplicemente “redistribuiti”. Piuttosto, la loro ricollocazione al livello delle relazioni interpersonali
comporta un vero e proprio salto di livello logico: ciò che prima poteva essere
descritto in termini lineari, visto in un contesto più ampio assume tratti tipicamente circolari. Ecco allora che la Katherine di The Taming non è più vittima—
o carnefice—in quanto shrew: è l’intera sua famiglia di origine, Katherine compresa, a perpetuare una strategia entro la quale a Katherine spetta il ruolo di
shrew. Lo stesso sembra valere per Macbeth e Lady Macbeth: l’istigazione è
una modalità della coppia, è condivisa da entrambi i suoi membri, per cui una
lettura che si limiti ad assegnare a Lady Macbeth il ruolo di “istigatrice”—come
se l’istigare facesse parte del suo patrimonio genetico—rischia di non cogliere
le strategie messe in atto da Macbeth per “istigarla a farsi istigare”.
Carl Whitaker, a questo proposito, sostiene che “l’aggressività sia sempre
equivalente, da entrambe le parti. [...] Anche l’amore è pari. [...] L’amore è
sempre uguale da entrambe le parti. In amore ci si ama allo stesso modo, si
scambiano solo i ruoli: una volta uno chiede ancora amore e l’altro rifiuta, e viceversa. [...] Un partner lo proclama a gran voce, l’altro lo nega, ed è la stessa
cosa. Idem per l’odio. Lui può dire: «Ti detesto più di qualsiasi cosa al mondo».
Lei può essere tranquilla e riservata, ma la rabbia è la stessa: mentre uno la esprime più apertamente, l’altro la occulta.”13 Non saprei dire fino a che punto la
posizione di Whitaker sia da intendersi provocatoriamente e quanto invece rifletta le dinamiche delle famiglie reali. Ritengo, comunque, che la sua descrizione ben si adatti a molte famiglie shakespeareane: come scrive Catherine Belsey a proposito di Hamlet, “tragedy stems from the commitment the family elicits. Both in Genesis and Shakespeare, love and hate are inextricably entwined;
and the greater the emotional investment, the greater the potential disruption of
13
C.A. WHITAKER, Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, pp. 112-113.
264
the security and stability.”14 Più in generale, in rapporti di coppia come quello
fra Katherine e Petruchio, Macbeth e Lady Macbeth, Othello e Desdemona, ma
anche in rapporti intergenerazionali come quello fra Gloucester ed Edmund, o
nelle triangolazioni discusse nel settimo capitolo, la peculiare circolarità delle
relazioni familiari viene rappresentata a un insolito livello di complessità, e ciò
contribuisce in modo determinante a quella “profondità psicologica” che spesso
si tende invece ad attribuire ai singoli personaggi.15
E la terapia della famiglia?
Come si integra in tutto ciò la terapia della famiglia? A quali conclusioni mi
ha portato l’impiego delle sue teorie come chiave di lettura privilegiata delle relazioni familiari in Shakespeare? Per rispondere, conviene riprendere un passaggio della definizione di Dodd: “We can expect personal interactions to give
rise to outcomes that are not predictable on the basis of the separate knowledge
and intentions of the individual actors.” Bene: se c’è un aspetto della teoria dei
sistemi familiari che, nei precedenti capitoli, penso di essere riuscito a illustrare
è la sua programmatica diffidenza verso qualsiasi ipotesi che sia basata
sull’individuo in quanto tale. Allargando sistematicamente la prospettiva dal
contenuto alla relazione, affidandosi a metafore come quelle del “gioco” e della
“strategia familiare”, sostituendo al concetto di “paziente” quello di “paziente
designato”, indagando dei sintomi non le cause bensì le finalità e, infine, imponendosi sempre di considerare l’individuo come “individuo nel sistema”quindi, contestualizzandolola terapia della famiglia si è rivelata, per la
mia esperienza di lettore, un eccellente strumento per avvicinarmi alla dimensione psicologica dei drammi di Shakespeare evitando, al tempo stesso, di venire risucchiato dalla “tentazione dell’analisi del carattere”.
14
C. BELSEY, Shakespeare and the Loss of Eden: The Construction of Family Values in
Early Modern Culture, p. 174.
15
Cfr. G. TAYLOR, Reinventing Shakespeare: A Cultural History from Restoration to the
Present, p. 404: “Shakespeare’s characterization has been acclaimed more often than any
other feature of his art. Claims that Shakespeare’s portraiture surpassed every other dramatist’s began in the Restoration and continue into our own day.”
265
Paradossalmente, sono giunto alla conclusione che guardare alle famiglie di
Shakespeare attraverso lo specchio unidirezionale della terapia della famiglia
aiuta a non dimenticare che le dramatis personae, lungi dall’essere “individui
quasi reali”, sono anzitutto le parti di un sistema di relazioni. Dell’intero sistema, la terapia della famiglia prende esplicitamente in considerazione solo un
sottosistema, la famigliao, come avviene in questa tesi, alcune diadi e alcune
triadi familiari. Ciò non pregiudica la possibilità che la teoria, i metodi e la terminologia da essa messe a disposizione possano rivelarsi proficue anche applicate a sistemi sociali più ampi. Lo stesso metodo di analisi numerica presentato
nel secondo capitolo, metodo i cui presupposti sono derivati in larga parte dalla
teoria dei sistemi familiari, una volta definite nuove modalità di relazione potrebbe essere applicato a innumerevoli altri sistemi: per esempio, sostituendo (o
integrando) le relazioni diadiche familiari con relazioni diadiche di potere o, più
in generale, politiche (del tipo “x è suddito di y”, o “x è rivale di y”, ecc.) non
dovrebbe essere difficile produrre ulteriori statistiche orientate alla relazione,
più che all’individuo.
Circa quest’ultimo punto, infine, penso sia utile esplicitare le due direzioni
che eventuali sviluppi futuri della ricerca fino a qui condotta potrebbero seguire. Anzitutto, un’estensione del campo di applicazione—sia dell’approccio basato sulla terapia della famiglia sia del metodo di indagine numerico orientato
alle relazioni—a testi drammatici di altri autori e di altre epoche. Oppure, come
accennavo nel precedente paragrafo, un ampliamento della tipologia di relazioni, uscendo quindi dal solo ambito familiare. Questa seconda possibilità, poi,
penso potrebbe rivelarsi interessante da esplorare anche dal semplice punto di
vista metodologico: come l’approccio narratologico, infatti, si fonda su categorie relazionali, ma ciò che definisce la relazione non è più il rapporto fra personaggio e percorso narrativo, bensì quello fra due o più personaggi. Una prospettiva, dunque, che a mio parere ben si adatta al genere drammatico,16 nonché po16
Uso qui l’aggettivo “drammatico” nel senso in cui lo intende Martin Esslin, e cioè per definire una sorta di meta-genere “unique among the representational arts in that it represents
‘reality’ by using real human being and often also real object, to create its fictional universe.” (M. ESSLIN, The Field of Drama: How the Signs of Drama Create Meaning on
Stage and Screen, p. 29).
266
tenzialmente in grado di correggere alcune delle numerose semplificazioni alle
quali l’applicazione tout court della narratologia, nata per descrivere altre tipologie testuali, spesso conduce.
Per concludere, torniamo un istante al nostro Mr. Jonathan, in quale, convinto di aver visto “la famiglia del vicino”, si domanda esterrefatto “Why didn’t I
see the play then?” Questa tesi di dottorato può in fin dei conti essere letta come
un tentativo di dimostrare la pertinenza della sua domanda. Ora che è terminata,
la mia speranza è che sia riuscita a suggerire anche qualche risposta.
267
Appendice A
Abbreviazioni dei titoli delle opere
In tutte le tabelle delle appendici, le abbreviazioni dei titoli delle opere, per
motivi di coerenza con il database dei testi della Oxford Edition, sono quelle riportate in tabella A.1. In tale tabella, è riportata anche la corrispondenza con le
abbreviazioni suggerite dall’MLA Style Manual (le discrepanze sono indicate da
un asterisco) e la classificazione in sottogeneri adottata per le analisi numeriche.
Tabella A.1 – Abbreviazioni e generi
Abbr.
MND
AIT *
AWW
Ant
AYL
Cor
Cym
Ham
H5
1H4
2H4
1H6
RDY *
CYL *
JC
Jn
LrF
LrQ
R2
R3
LLL
MM
Titolo
A Midsummer Night’s Dream
All Is True (Henry VIII)
All’s Well That Ends Well
Antony and Cleopatra
As You Like It
Coriolanus
Cymbeline King of Britain
Hamlet Prince of Denmark
Henry the Fifth
Henry the Fourth, Part 1
Henry the Fourth, Part 2
Henry the Sixth, Part 1
Henry the Sixth, Part 3
Henry VI, Part 2
Julius Caesar
King John
King Lear [The Folio Text]
King Lear [The Quarto Text]
King Richard the Second
King Richard the Third
Love’s Labour’s Lost
Measure for Measure
MLA
MND
H8
AWW
Ant
AYL
Cor
Cym
Ham
H5
1H4
2H4
1H6
3H6
2H6
JC
Jn
LrF
LrQ
R2
R3
LLL
MM
Genere
Comedy
History
Dark comedy
Roman tragedy
Comedy
Roman tragedy
Romance
Tragedy
History
History
History
History
History
History
Roman tragedy
History
Tragedy
Tragedy
History
History
Comedy
Dark comedy
Abbr.
Ado
Oth
Per
Rom
Err
Tim
MV
Wiv
Shr
Tmp
Mac
TGV
TNK
WT
Tit
Tro
TN
Titolo
Much Ado About Nothing
Othello
Pericles, Prince of Tyre
Romeo and Juliet
The Comedy of Errors
The Life of Timon of Athens
The Merchant of Venice
The Merry Wives of Windsor
The Taming of the Shrew
The Tempest
The Tragedy of Macbeth
The Two Gentlemen of Verona
The Two Noble Kinsmen
The Winter’s Tale
Titus Andronicus
Troilus and Cressida
Twelfth Night
MLA
Ado
Oth
Per
Rom
Err
Tim
MV
Wiv
Shr
Tmp
Mac
TGV
TNK
WT
Tit
Tro
TN
270
Genere
Comedy
Tragedy
Romance
Tragedy
Comedy
Roman tragedy
Comedy
Comedy
Comedy
Romance
Tragedy
Comedy
Romance
Romance
Roman tragedy
Dark comedy
Comedy
Appendice B
Statistiche sui singoli personaggi
Tutti i dati riportati in questa e nella successiva appendice sono stati ottenuti
con un software, da me sviluppato, dedicato all’analisi di dati numerici riguardanti le interazioni familiari. Il corpus sul quale è stata condotta l’analisi è la
versione digitale—per la precisione, il CD-ROM dell'Andromeda Interactive
Ltd.—dei drammi nell’edizione della Oxford University Press, pubblicata nel
1988 a cura di Stanley Wells e Gary Taylor.1
Tabella B.1 - Chi parla per almeno per 500 versi (o linee)2
Play
Ham
Oth
R3
H5
Cor
Oth
MM
Tim
Ant
R2
LrF
JC
Mac
Character
HAMLET
IAGO
RICHARD GLOUCESTER
KING HARRY
CORIOLANUS
OTHELLO
DUKE
TIMON
ANTONY
KING RICHARD
LEAR
BRUTUS
MACBETH
N_LINES
1375
1082
1081
1032
882
873
846
845
825
748
723
721
703
N_UTTERANCES
342
272
296
147
189
274
194
210
203
99
180
193
146
LINES/UTTERANCES
4.02
3.98
3.65
7.02
4.67
3.19
4.36
4.02
4.06
7.56
4.02
3.74
4.82
1
Per King Lear, del quale l’edizione Oxford presenta sia il testo del Quarto che del Folio,
ho provato a usare entrambe le versioni, senza però ottenere differenze significative nei risultati numerici. I dati qui presentati si riferiscono, comunque, alla versione del Folio.
2
Poiché il software identifica ogni speaker basandosi direttamente sulle informazioni fornite dai testi digitalizzati, sono stato costretto a correggere a posteriori i dati riguardanti alcuni personaggi che hanno uno o più “alias”, e in particolare: in 2H4, PRINCE HARRY corrisponde a KING HARRY; in Cor, MARTIUS corrisponde a CORIOLANUS; in LLL, PRINCESS
corrisponde a QUEEN; in R2, KING RICHARD corrisponde a RICHARD e BOLINGBROKE corrisponde a KING HENRY; in R3, RICHARD GLOUCESTER corrisponde a KING RICHARD; in
RDY, EDWARD corrisponde a KING EDWARD, GEORGE corrisponde a GEORGE OF
CLARENCE e RICHARD corrisponde a RICHARD OF GLOUCESTER. Per la corrispondenza versi/linee, mi sono basato su quella suggerita dall’edizione Oxford.
Tit
AYL
WT
Ant
Tmp
2H4
1H4
Rom
Per
LLL
Cym
TNK
Shr
Cor
1H4
MV
1H4
Rom
Tro
Ham
Jn
TNK
JC
TITUS
ROSALIND
LEONTES
CLEOPATRA
PROSPERO
SIR JOHN
SIR JOHN
ROMEO
PERICLES
BIRON
INNOGEN
PALAMON
PETRUCCIO
MENENIUS
PRINCE HARRY
PORTIA
HOTSPUR
JULIET
TROILUS
KING CLAUDIUS
BASTARD
ARCITE
CASSIUS
703
690
682
669
653
640
619
612
611
595
592
591
585
582
579
574
555
539
536
525
522
518
505
117
201
126
204
114
182
152
163
122
160
118
141
158
163
170
117
102
118
132
101
89
134
139
6.01
3.43
5.41
3.28
5.73
3.52
4.07
3.75
5.01
3.72
5.02
4.19
3.70
3.57
3.41
4.91
5.44
4.57
4.06
5.20
5.87
3.87
3.63
Tabella B.2 - Chi prende parola più spesso?
Play
Ham
R3
Oth
Oth
Tim
Ant
Ant
AYL
MM
JC
Cor
2H4
LrF
1H4
Oth
Cor
Rom
LLL
Shr
Tro
1H4
TN
Tro
TGV
H5
TGV
Mac
AWW
TNK
JC
Wiv
Ado
Ado
RDY
TNK
Tro
Character
HAMLET
RICHARD GLOUCESTER
OTHELLO
IAGO
TIMON
CLEOPATRA
ANTONY
ROSALIND
DUKE
BRUTUS
CORIOLANUS
SIR JOHN
LEAR
PRINCE HARRY
DESDEMONA
MENENIUS
ROMEO
BIRON
PETRUCCIO
CRESSIDA
SIR JOHN
SIR TOBY
PANDARUS
VALENTINE
KING HARRY
PROTEUS
MACBETH
PAROLES
PALAMON
CASSIUS
SIR JOHN
BENEDICK
DON PEDRO
KING EDWARD
ARCITE
TROILUS
N_UTTERANCES
342
296
274
272
210
204
203
201
194
193
189
182
180
170
167
163
163
160
158
153
152
152
152
149
147
147
146
142
141
139
137
134
134
134
134
132
272
N_LINES
1375
1081
873
1082
845
669
825
690
846
721
882
640
723
579
389
582
612
595
585
298
619
347
392
388
1032
444
703
377
591
505
446
434
321
426
518
536
LINES/UTTERANCES
4.02
3.65
3.19
3.98
4.02
3.28
4.06
3.43
4.36
3.74
4.67
3.52
4.02
3.41
2.33
3.57
3.75
3.72
3.70
1.95
4.07
2.28
2.58
2.60
7.02
3.02
4.82
2.65
4.19
3.63
3.26
3.24
2.40
3.18
3.87
4.06
Tabella B.3
Tabella B.4
Il sesso più rappresentato
Il sesso che parla di più
GENDER
FEMALES
MALES
TOTAL
N_DD_PP PERCENTAGE
179
12.34
1271
87.66
1450
100.00
GENDER
FEMALES
MALES
TOTAL
N_LINES PERCENTAGE
19821
17.90
90904
82.10
110725
100.00
Tabella B.5
Tabella B.6
Il sesso più rappresentato
Il sesso che parla di più
tra chi è coinvolto in almeno
tra chi è coinvolto in almeno
una relazione familiare
una relazione familiare
GENDER
FEMALES
MALES
TOTAL
N_DD_PP PERCENTAGE
96
30.38
220
69.62
316
100.00
GENDER
FEMALES
MALES
TOTAL
N_LINES PERCENTAGE
16138
26.94
43760
73.06
59898
100.00
A proposito di queste ultime due tabelle (B.5 e B.6), il criterio che ho adottato per stabilire
il coinvolgimento o meno in una relazione familiare è, inevitabilmente, arbitrario. In particolare, ho deciso di definire “coinvolto in (almeno) una relazione familiare” ogni parlante che intrattenga, con uno o più altri parlanti dello stesso dramma, almeno una delle 36 relazioni elencate in tabella C.1. Come si potrà notare consultando tale tabella, sono considerate solo le relazioni più “nucleari” (per esempio, non è presente la relazione tra le due mogli di due fratelli,
ma entrambe sono considerate come cognate dell’altro fratello). Non sono considerati i “fidanzati” (es. Romeo e Juliet prima del terzo atto), ma gli “amanti”—nel senso in cui oggi si
definisce una persona come “il proprio compagno” o “la propria compagna”—sì, a patto che
si tratti di un legame consolidato e reciproco (per esempio, Titania e Bottom non sono considerati amanti, Aaron e Tamora sì). Com’è inevitabile, in molti casi si tratta di scelte discutibili. Il principio al quale ho cercato di attenermi è stato quello, piuttosto largo, di considerare
“relazione familiare” ogni relazione “di sangue” (quindi, anche i figli illegittimi) e/o “legale”,
nonché le relazioni sentimentali tra coppie che vivono, o potrebbero ragionevolmente vivere,
sotto lo stesso tetto (quindi, gli “amanti”). In ogni caso, tutte le relazioni che, ai fini
dell’analisi numerica, sono state considerate come familiari sono riportate nell’appendice C.
273
Tabella B.7 - Distribuzioni per genere di dramma
in base al sesso e al coinvolgimento o meno in relazioni famigliari3
Comedies
DD.PP.
WITHOUT
FEMALES
LINES
DD.PP.
RELATIVES
MALES
LINES
DD.PP.
TOTAL
LINES
DD.PP.
WITH
FEMALES
LINES
DD.PP.
RELATIVES
MALES
LINES
DD.PP.
TOTAL
3
LINES
Dark
comedies
Roman
Histories tragedies
Romances
Tragedies
21
5
16
10
20
11
1881
140
613
210
309
530
157
55
365
235
117
122
9842
5520
14300
8294
5203
3985
178
60
381
245
137
133
11723
5660
14913
8504
5512
4515
24
9
28
8
15
12
4576
1771
3043
1488
2877
2383
43
13
83
19
30
32
8644
1895
12579
4854
6708
9080
67
22
111
27
45
44
13220
3666
15622
6342
9585
11463
Per la ripartizione dei drammi nei sei sottogeneri, vedi Appendice A.
274
Appendice C
Tabelle e statistiche sulle relazioni diadiche
La differenza formale più evidente della terapia familiare rispetto ad altri
modelli di terapia è che il soggetto di indagine primario non è un individuo,
bensì una relazione. Di questo ho dovuto ovviamente tenere conto sia nella lettura dei singoli drammi (vedi capitoli 4, 5 e 6) sia nell’analisi numerica sul corpus shakespeareano in generale (vedi capitolo 2). Ma cosa significa analizzare
numericamente un corpus di relazioni? Quale tipo di dati è richiesto?
FIGURA C.1 – LE 36 RELAZIONI FAMILIARI DIADICHE CONSIDERATE
GRANDMOTHER
GRANDFATHER
AUNT-IN-LAW
UNCLE-IN-LAW
AUNT
UNCLE
STEPMOTHER
STEPFATHER
MOTHER-IN-LAW
FATHER-IN-LAW
MOTHER
FATHER
SISTER-IN-LAW
BROTHER-IN-LAW
COUSIN
STEPSISTER
STEPBROTHER
NIECE
NEPHEW
SISTER
BROTHER
DAUGHTER-IN-LAW
SON-IN-LAW
D.P.
WIFE
HUSBAND
LOVER
DAUGHTER
SON
ILLEGIT. DAUGHTER
ILLEGITIMATE SON
GRANDDAUGHTER
GRANDSON
STEPDAUGHTER
STEPSON
NIECE-IN-LAW
NEPHEW-IN-LAW
Così come per uno studio basato sugli individui può essere utile sapere
quanti versi e quali parole un personaggio pronuncia, se gli oggetti di indagine
sono le relazioni familiari le domande che sarà opportuno porsi saranno domande tipo: quanti e quali padri ci sono, nei drammi Shakespeare? Quali sono i ruoli familiari più rappresentati nelle commedie? Quanti versi e quali parole una
moglie pronuncia?
Rispondere a simili domande comporta problemi assai diversi—e notevolmente più complessi—da quelli che occorre affrontare per le corrispondenti
domande sulle singole dramatis personae. Anzitutto, un problema di scelta:
mentre quello degli individui è un insieme chiuso e ben definito, l’estensione
dell’insieme delle relazioni familiari dipende da quali relazioni si decide di
prendere in considerazione. Si tratta, inevitabilmente, di una decisione arbitraria. Le relazioni qui considerate sono le 36 relazioni diadiche illustrate in figura
C.1 ed elencate nelle tabelle che seguono.
Ancora, un individuo è sempre e comunque un individuo—per quanto possa
affermare “I am not what I am”—mentre un fratello, per esempio, può benissimo essere anche un padre, un figlio e uno zio. Di conseguenza, la definizione
dell’identità del soggetto di studio non è più data da fattori biofisici (per esempio, il corpo dell’individuo, o dell’attore), bensì dalla relazione stessa. Ciò
comporta che ad ogni singolo individuo possano corrispondere più identità.1 Per
fare un esempio concreto, questo significa che, contando i versi pronunciati da
un personaggio, sarà necessario distinguere se li sta pronunciando “da madre”,
o “da moglie”, o altro ancora.
Questo ci conduce ad affrontare un ulteriore ostacolo. Se il conteggio classico di versi, battute, scene e parole—come, per esempio, quello delle tabelle
nell’appendice B—è relativamente semplice, ciò è dovuto al fatto che i testi in
versione elettronica specificano in modo univoco, per ogni battuta, chi è il parlante. Un’analisi conversazionale centrata sulle relazioni, però, implica anche
sapere chi è l’ascoltatore. Questo dato, purtroppo, nelle edizioni elettroniche
1
Per le numerose e interessanti implicazioni filosofiche di una simile definizione di identità, vedi F. JACQUES, Difference and subjectivity: dialogue and personal identity, New Haven, London: Yale University Press, 1991.
276
manca. Avendo deciso di condurre l’indagine sull’intero corpus shakespeareano—si parla di oltre 100.000 linee di testo!—sono stato così costretto a ricorrere a metodi indiretti per stabilire in modo automatico la possibile identità
dell’ascoltatore. Questi metodi, illustrati più avanti (vedi tabelle C.5.1-17 e
C.6), sono piuttosto pionieristici, e non sempre affidabili. In compenso, la notevole mole del campione permette di ridurre considerevolmente l’incidenza di
eventuali errori.
Un altro aspetto che ho dovuto considerare è che le relazioni, al contrario
dell’identità del singolo personaggio, non sono stabili, ma evolvono nel tempo.
Un caso tipico è quello dei matrimoni: se nel corso di un dramma due personaggi si sposano, si avrà la nascita di due nuove relazioni diadiche (“X è moglie di
Y” e “Y è marito di X”). Questa discontinuità sull’asse diacronico si deve riflettere, com’è ovvio, anche sui dati numerici: se, per esempio, si stanno contando
le battute che Katherine e Petruchio si scambiano da moglie e marito, occorrerà
iniziare il conteggio a partire dal quarto atto, e non prima. Tutti i dati qui riportati tengono conto di questo fattore (per i confini diacronici delle relazioni, vedi
le colonne From e To delle tabelle C.2.1-36).
Prima di passare alle tabelle, un’ultima precisazione: per ragioni dovute
all’algoritmo di analisi testuale che ho sviluppato, sono state considerate solo le
relazioni diadiche i cui membri siano entrambi speakers, cioè pronuncino almeno una battuta nel corso del dramma. Ciò comporta, per fare un esempio concreto, che personaggi come Fulvia di Antony and Cleopatra siano rimasti esclusi, e
di conseguenza che relazioni diadiche come “Antony è marito di Fulvia” non
siano contemplate.
Infine, un invito alla collaborazione. Le tabelle che seguono sono il dato di
partenza di tutte le statistiche di questa tesi: nella misura in cui contengono errori, anche le statistiche saranno falsate. So per esperienza che tali tabelle non
sono affatto esenti da errori e omissioni, a volte anche macroscopiche. Invito
perciò le lettrici e i lettori a segnalarmeli, inviando un e-mail a: [email protected]. Grazie di cuore.
277
Tabella C.1 - Relazioni diadiche nel corpus shakespeareano2
Tipo di relazione
(x R y)
Numero
MOTHER
35
FATHER
92
DAUGHTER
35
SON
89
GRANDMOTHER
8
GRANDFATHER
2
GRANDDAUGHTER
3
GRANDSON
7
SISTER
32
BROTHER
136
WIFE
67
HUSBAND
67
AUNT
2
UNCLE
47
NIECE
12
NEPHEW
37
SISTER-IN-LAW
39
BROTHER-IN-LAW
59
MOTHER-IN-LAW
10
FATHER-IN-LAW
30
DAUGHTER-IN-LAW
18
SON-IN-LAW
22
STEPMOTHER
3
STEPFATHER
1
STEPDAUGHTER
1
STEPSON
3
STEPSISTER
2
STEPBROTHER
20
AUNT-IN-LAW
10
UNCLE-IN-LAW
1
NIECE-IN-LAW
2
NEPHEW-IN-LAW
9
ILLEGITIMATE_DAUGHTER
0
ILLEGITIMATE_SON
3
COUSIN
42
LOVER
12
TOTALS
958
2
Scene in cui
c'è compresenza
67
177
86
152
8
3
3
8
81
251
161
161
2
95
21
76
32
66
15
28
18
25
2
3
2
3
2
24
12
2
1
13
0
6
86
48
1740
Elenco di riferimento
Tabella C.2.1
Tabella C.2.2
Tabella C.2.3
Tabella C.2.4
Tabella C.2.5
Tabella C.2.6
Tabella C.2.7
Tabella C.2.8
Tabella C.2.9
Tabella C.2.10
Tabella C.2.11
Tabella C.2.12
Tabella C.2.13
Tabella C.2.14
Tabella C.2.15
Tabella C.2.16
Tabella C.2.17
Tabella C.2.18
Tabella C.2.19
Tabella C.2.20
Tabella C.2.21
Tabella C.2.22
Tabella C.2.23
Tabella C.2.24
Tabella C.2.25
Tabella C.2.26
Tabella C.2.27
Tabella C.2.28
Tabella C.2.29
Tabella C.2.30
Tabella C.2.31
Tabella C.2.32
—
Tabella C.2.33
Tabella C.2.34
Tabella C.2.35
La natura diadica delle relazioni qui elencate implica che, per ogni relazione del tipo “x R
y” (dove x e y sono due personaggi), ne esista una corrispondente del tipo “y R x”. Ciò significa che ogni relazione è contata due volte. Se si vuole ottenere il numero complessivo
di relazioni, dunque, occorre dividere il totale per due.
278
Tabella C.2.1 - Elenco delle relazioni mother - “x è madre di y”
Play
AWW
AWW
Cor
Cor
Cym
Cym
Cym
Cym
H5
H5
Ham
Jn
Jn
Jn
Jn
Mac
Per
R2
R2
R3
R3
R3
R3
R3
R3
R3
RDY
Rom
Rom
Tit
Tit
WT
WT
Wiv
Wiv
x
COUNTESS
WIDOW
VIRGILIA
VOLUMNIA
MOTHER
MOTHER
MOTHER
QUEEN
QUEEN ISABEL
QUEEN ISABEL
QUEEN GERTRUDE
CONSTANCE
LADY FALCONBRIDGE
LADY FALCONBRIDGE
QUEEN ELEANOR
LADY MACDUFF
THAISA
DUCHESS OF YORK
DUCHESS OF YORK
DUCHESS OF YORK
DUCHESS OF YORK
DUCHESS OF YORK
QUEEN ELIZABETH
QUEEN ELIZABETH
QUEEN ELIZABETH
QUEEN MARGARET
QUEEN MARGARET
CAPULET'S WIFE
MONTAGUE'S WIFE
TAMORA
TAMORA
HERMIONE
HERMIONE
MISTRESS PAGE
MISTRESS PAGE
y
BERTRAM
DIANA
YOUNG MARTIUS
CORIOLANUS
FIRST BROTHER
POSTHUMUS
SECOND BROTHER
CLOTEN
CATHERINE
DAUPHIN
HAMLET
ARTHUR
BASTARD
FALCONBRIDGE
KING JOHN
MACDUFF'S SON
MARINA
AUMERLE
HARRY PERCY
CLARENCE
KING EDWARD
KING RICHARD
DORSET
GRAY
PRINCE EDWARD
GHOST OF PRINCE EDWARD
PRINCE EDWARD
JULIET
ROMEO
CHIRON
DEMETRIUS
MAMILLIUS
PERDITA
ANNE
WILLIAM
from
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.10.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
2.2.0
0.0.0
0.0.0
to
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
Tabella C.2.2 - Elenco delle relazioni father - “x è padre di y”
Play
1H4
1H4
1H4
1H6
1H6
1H6
2H4
2H4
2H4
2H4
AYL
AYL
Ado
CYL
CYL
CYL
CYL
Cor
Cym
Cym
Cym
Cym
Cym
Cym
x
KING HENRY
KING HENRY
NORTHUMBERLAND
MASTER GUNNER
RENE’
SHEPHERD
KING HENRY
KING HENRY
KING HENRY
KING HENRY
DUKE FREDERICK
DUKE SENIOR
LEONATO
CLIFFORD
SALISBURY
YORK
YORK
CORIOLANUS
CYMBELINE
CYMBELINE
CYMBELINE
SICILIUS
SICILIUS
SICILIUS
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JOHN OF LANCASTER
PRINCE HARRY
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HERO
YOUNG CLIFFORD
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KING CHARLES
KING CHARLES
GHOST
POLONIUS
POLONIUS
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GLOUCESTER
LEAR
LEAR
LEAR
EGEUS
GOBBO
SHYLOCK
BANQUO
KING DUNCAN
KING DUNCAN
MACDUFF
SIWARD
BRABANZIO
ANTIOCHUS
KING SIMONIDES
PERICLES
JOHN OF GAUNT
YORK
CLARENCE
KING EDWARD
KING EDWARD
KING EDWARD
KING HENRY
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YORK
YORK
CAPULET
MONTAGUE
BAPTISTA
BAPTISTA
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JAILER
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TITUS
TITUS
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PROSPERO
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LEONTES
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ANTIPHOLUS OF EPHESUS
ANTIPHOLUS OF SYRACUSE
CATHERINE
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HAMLET
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OPHELIA
PRINCE HENRY
LOUIS THE DAUPHIN
EDGAR
EDMOND
CORDELIA
GONERIL
REGAN
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LANCELOT
JESSICA
FLEANCE
DONALBAIN
MALCOLM
MACDUFF'S SON
YOUNG SIWARD
DESDEMONA
DAUGHTER
THAISA
MARINA
BOLINGBROKE
AUMERLE
DAUGHTER
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PRINCE EDWARD
EDWARD
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JULIET
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SILVIA
JAILER'S DAUGHTER
YOUNG LUCIUS
PUBLIUS
LAVINIA
LUCIUS
MARTIUS
MUTIUS
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MIRANDA
CRESSIDA
BASTARD
CASSANDRA
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Tabella C.2.3 - Elenco delle relazioni daughter - “x è figlia di y”
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CATHERINE
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DUKE SENIOR
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Tabella C.2.4 - Elenco delle relazioni son - “x è figlio di y”
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YOUNG MARTIUS
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KING HENRY
KING HENRY
MASTER GUNNER
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FALCONBRIDGE
KING JOHN
LOUIS THE DAUPHIN
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MACDUFF'S SON
MACDUFF'S SON
MALCOLM
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AUMERLE
BOLINGBROKE
HARRY PERCY
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KING RICHARD
PRINCE EDWARD
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PRINCE EDWARD
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LUCIUS
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MAMILLIUS
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SICILIUS
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KING CHARLES
QUEEN ISABEL
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QUEEN GERTRUDE
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MACDUFF
KING DUNCAN
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YORK
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DUCHESS OF YORK
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KING EDWARD
QUEEN ELIZABETH
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DUCHESS OF YORK
KING EDWARD
QUEEN ELIZABETH
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KING HENRY
QUEEN MARGARET
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MONTAGUE'S WIFE
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TAMORA
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Tabella C.2.5 - Elenco delle relazioni grandmother - “x è nonna di y”
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Tabella C.2.6 - Elenco delle relazioni grandfather - “x è nonno di y”
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Tabella C.2.7 - Elenco delle relazioni granddaughter - “x è nipote di y”
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Tabella C.2.8 - Elenco delle relazioni grandson - “x è nipote di y”
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ARTHUR
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QUEEN ELEANOR
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Tabella C.2.9 - Elenco delle relazioni sister - “x è sorella di y”
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GONERIL
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Tabella C.2.10 - Elenco delle relazioni brother - “x è fratello di y”
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CAESAR
EDWARD
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STAFFORD'S BROTHER
ARVIRAGUS
ARVIRAGUS
FIRST BROTHER
FIRST BROTHER
GUIDERIUS
GUIDERIUS
POSTHUMUS
POSTHUMUS
SECOND BROTHER
SECOND BROTHER
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ANTIPHOLUS OF SYRACUSE
DROMIO OF EPHESUS
DROMIO OF SYRACUSE
DAUPHIN
GLOUCESTER
y
PRINCE HARRY
LADY PERCY
WORCESTER
JOHN OF LANCASTER
NORTHUMBERLAND
GLOUCESTER
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PRINCE JOHN
CLARENCE
PRINCE HARRY
PRINCE JOHN
CLARENCE
GLOUCESTER
PRINCE JOHN
CLARENCE
GLOUCESTER
PRINCE HARRY
DUKE SENIOR
DUKE FREDERICK
OLIVER
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JAQUES
ORLANDO
JAQUES
OLIVER
LEONATO
ANTONIO
OCTAVIA
RICHARD
EDWARD
STAFFORD'S BROTHER
STAFFORD
GUIDERIUS
INNOGEN
POSTHUMUS
SECOND BROTHER
ARVIRAGUS
INNOGEN
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FIRST BROTHER
POSTHUMUS
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ANTIPHOLUS OF EPHESUS
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KING EDWARD
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LAVINIA
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Tabella C.2.14 - Elenco delle relazioni uncle - “x è zio di y”
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JAILER'S DAUGHTER
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Tit
Tit
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Tit
Tit
Tit
Tit
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MARCUS
MARCUS
MARCUS
MARCUS
MARTIUS
MUTIUS
QUINTUS
TITUS
ANTONIO
SEBASTIAN
PANDARUS
SHALLOW
LUCIUS
MARTIUS
MUTIUS
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YOUNG LUCIUS
YOUNG LUCIUS
PUBLIUS
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Tabella C.2.15 - Elenco delle relazioni niece - “x è nipote di y”
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Ado
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BEATRICE
HERO
CELIA
ROSALIND
BLANCHE
DESDEMONA
DAUGHTER
DAUGHTER
JAILER'S DAUGHTER
LAVINIA
MIRANDA
CRESSIDA
y
LEONATO
ANTONIO
DUKE SENIOR
DUKE FREDERICK
KING JOHN
GRAZIANO
KING EDWARD
KING RICHARD
JAILER'S BROTHER
MARCUS
ANTONIO
PANDARUS
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Tabella C.2.16 - Elenco delle relazioni nephew - “x è nipote di y”
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CYL
CYL
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HOTSPUR
KING HENRY
KING HENRY
KING HENRY
GLOUCESTER
KING HENRY
GLOUCESTER
KING HARRY
HAMLET
ARTHUR
AUMERLE
BOLINGBROKE
KING RICHARD
KING RICHARD
DORSET
DORSET
DORSET
GRAY
GRAY
GRAY
PRINCE EDWARD
PRINCE EDWARD
PRINCE EDWARD
YORK
BENVOLIO
TYBALT
LUCIUS
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MUTIUS
PUBLIUS
QUINTUS
YOUNG LUCIUS
YOUNG LUCIUS
y
WORCESTER
BURGUNDY
GLOUCESTER
WINCHESTER
CARDINAL BEAUFORT
GLOUCESTER
EXETER
EXETER
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JOHN OF GAUNT
YORK
JOHN OF GAUNT
YORK
CLARENCE
KING RICHARD
RIVERS
CLARENCE
KING RICHARD
RIVERS
CLARENCE
KING RICHARD
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SIR JOHN
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MARCUS
MARCUS
MARCUS
TITUS
MARCUS
LAVINIA
MARTIUS
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Tit
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YOUNG LUCIUS
FERDINAND
SLENDER
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Tabella C.2.17 - Elenco delle relazioni sister-in-law - “x è cognata di y”
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CELIA
CELIA
ROSALIND
ROSALIND
INNOGEN
INNOGEN
ADRIANA
LUCIANA
QUEEN GERTRUDE
QUEEN GERTRUDE
CORDELIA
CORDELIA
GONERIL
GONERIL
REGAN
REGAN
DUCHESS OF GLOUCESTER
DUCHESS OF GLOUCESTER
DUCHESS OF YORK
LADY ANNE
LADY ANNE
QUEEN ELIZABETH
QUEEN ELIZABETH
LADY BONA
LADY GRAY
LADY GRAY
LADY GRAY
BIANCA
KATHERINE
EMILIA
TAMORA
ANDROMACHE
ANDROMACHE
ANDROMACHE
ANDROMACHE
ANDROMACHE
ANDROMACHE
CASSANDRA
HELEN
y
JAQUES
ORLANDO
JAQUES
OLIVER
FIRST BROTHER
SECOND BROTHER
ANTIPHOLUS OF SYRACUSE
ANTIPHOLUS OF EPHESUS
GHOST
KING CLAUDIUS
ALBANY
CORNWALL
CORNWALL
FRANCE
ALBANY
FRANCE
JOHN OF GAUNT
YORK
JOHN OF GAUNT
CLARENCE
KING EDWARD
CLARENCE
KING RICHARD
KING LOUIS
GEORGE
RICHARD
RUTLAND
PETRUCCIO
LUCENTIO
THESEUS
BASSIANUS
BASTARD
CASSANDRA
DEIPHOBUS
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AGAMEMNON
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Tabella C.2.18 - Elenco delle relazioni brother-in-law - “x è cognato di y”
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HOTSPUR
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ARVIRAGUS
CLOTEN
FIRST BROTHER
GUIDERIUS
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POSTHUMUS
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ROSALIND
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POSTHUMUS
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ARVIRAGUS
CLOTEN
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POSTHUMUS
SECOND BROTHER
ANTIPHOLUS OF EPHESUS
ANTIPHOLUS OF SYRACUSE
GHOST
KING CLAUDIUS
ALBANY
ALBANY
CORNWALL
CORNWALL
FRANCE
FRANCE
JOHN OF GAUNT
JOHN OF GAUNT
YORK
CLARENCE
CLARENCE
KING EDWARD
KING EDWARD
KING RICHARD
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GEORGE
HASTINGS
HASTINGS
KING LOUIS
MONTAGUE
MONTAGUE
OXFORD
OXFORD
RICHARD
RIVERS
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WARWICK
WARWICK
LUCENTIO
PETRUCCIO
THESEUS
BASSIANUS
AGAMEMNON
BASTARD
DEIPHOBUS
HELENUS
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TROILUS
GUIDERIUS
INNOGEN
LUCIANA
ADRIANA
QUEEN GERTRUDE
QUEEN GERTRUDE
CORDELIA
REGAN
CORDELIA
GONERIL
GONERIL
REGAN
DUCHESS OF GLOUCESTER
DUCHESS OF YORK
DUCHESS OF GLOUCESTER
LADY ANNE
QUEEN ELIZABETH
LADY ANNE
RIVERS
QUEEN ELIZABETH
KING EDWARD
RIVERS
LADY GRAY
MONTAGUE
WARWICK
LADY BONA
HASTINGS
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MONTAGUE
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ANDROMACHE
ANDROMACHE
ANDROMACHE
ANDROMACHE
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Tabella C.2.19 - Elenco delle relazioni mother-in-law - “x è suocera di y”
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AWW
Cor
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LADY NORTHUMBERLAND
COUNTESS
VOLUMNIA
MOTHER
DUCHESS OF YORK
DUCHESS OF YORK
QUEEN MARGARET
CAPULET'S WIFE
MONTAGUE'S WIFE
HERMIONE
y
LADY PERCY
HELEN
VIRGILIA
INNOGEN
LADY ANNE
QUEEN ELIZABETH
LADY ANNE
ROMEO
JULIET
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Tabella C.2.20 - Elenco delle relazioni father-in-law - “x è suocero di y”
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Ado
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Cym
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NORTHUMBERLAND
NORTHUMBERLAND
BUCKINGHAM
BUCKINGHAM
DUKE FREDERICK
DUKE SENIOR
LEONATO
CYMBELINE
SICILIUS
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LEAR
LEAR
LEAR
EGEUS
SHYLOCK
BRABANZIO
KING SIMONIDES
STANLEY
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CAPULET
MONTAGUE
BAPTISTA
BAPTISTA
VINCENTIO
ALONSO
PROSPERO
PRIAM
LEONTES
POLIXENES
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MORTIMER
LADY PERCY
LADY PERCY
ABERGAVENNY
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CLAUDIO
POSTHUMUS
INNOGEN
ADRIANA
ALBANY
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FRANCE
LYSANDER
LORENZO
OTHELLO
PERICLES
HENRY EARL OF RICHMOND
LADY GRAY
ROMEO
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ANDROMACHE
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Tabella C.2.21 - Elenco delle relazioni daughter-in-law - “x è nuora di y”
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LADY PERCY
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INNOGEN
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LADY ANNE
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LADY GRAY
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DUCHESS OF YORK
YORK
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Tabella C.2.22 - Elenco delle relazioni son-in-law - “x è genero di y”
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AYL
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SURREY
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CLAUDIO
POSTHUMUS
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FRANCE
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PERICLES
HENRY EARL OF RICHMOND
ROMEO
ROMEO
LUCENTIO
PETRUCCIO
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FLORIZEL
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BUCKINGHAM
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LEONATO
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LEAR
LEAR
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BAPTISTA
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Tabella C.2.23 - Elenco delle relazioni stepmother - “x è matrigna di y”
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Tabella C.2.24 - Elenco delle relazioni stepfather - “x è patrigno di y”
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Cym
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Tabella C.2.25 - Elenco delle relazioni stepdaughter - “x è figliastra di y”
Play
Cym
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to
7.0.0
Tabella C.2.26 - Elenco delle relazioni stepson - “x è figliastro di y”
Play
Cym
Cym
Cym
x
ARVIRAGUS
CLOTEN
GUIDERIUS
y
QUEEN
CYMBELINE
QUEEN
293
from
0.0.0
0.0.0
0.0.0
to
7.0.0
7.0.0
7.0.0
Tabella C.2.27 - Elenco delle relazioni stepsister - “x è sorellastra di y”
Play
Cym
Tro
x
INNOGEN
CASSANDRA
y
CLOTEN
BASTARD
from
0.0.0
0.0.0
to
7.0.0
7.0.0
Tabella C.2.28 - Elenco delle relazioni stepbrother - “x è fratellastro di y”
Play
Ado
Ado
Cym
Cym
Cym
Cym
Cym
LrF
LrF
Tro
Tro
Tro
Tro
Tro
Tro
Tro
Tro
Tro
Tro
Tro
x
DON JOHN
DON PEDRO
ARVIRAGUS
CLOTEN
CLOTEN
CLOTEN
GUIDERIUS
EDGAR
EDMOND
BASTARD
BASTARD
BASTARD
BASTARD
BASTARD
BASTARD
DEIPHOBUS
HECTOR
HELENUS
PARIS
TROILUS
y
DON PEDRO
DON JOHN
CLOTEN
ARVIRAGUS
GUIDERIUS
INNOGEN
CLOTEN
EDMOND
EDGAR
CASSANDRA
DEIPHOBUS
HECTOR
HELENUS
PARIS
TROILUS
BASTARD
BASTARD
BASTARD
BASTARD
BASTARD
from
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
to
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
Tabella C.2.29 - Elenco delle relazioni aunt-in-law - “x è zia acquisita di y”
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CYL
Ham
R2
R2
R3
R3
R3
R3
R3
Rom
x
DUCHESS
QUEEN GERTRUDE
DUCHESS OF YORK
DUCHESS OF YORK
LADY ANNE
LADY ANNE
LADY ANNE
LADY ANNE
QUEEN ELIZABETH
MONTAGUE'S WIFE
y
KING HENRY
HAMLET
BOLINGBROKE
KING RICHARD
DAUGHTER
DORSET
GRAY
PRINCE EDWARD
DAUGHTER
BENVOLIO
from
0.0.0
1.0.0
0.0.0
0.0.0
1.3.0
1.3.0
1.3.0
1.3.0
0.0.0
0.0.0
to
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
Tabella C.2.30 - Elenco delle relazioni uncle-in-law - “x è zio acquisito di y”
Play
Rom
x
CAPULET
y
TYBALT
294
from
0.0.0
to
7.0.0
Tabella C.2.31 - Elenco delle relazioni niece-in-law “x è nipote acquisita di y”
Play
R3
R3
x
DAUGHTER
DAUGHTER
y
LADY ANNE
QUEEN ELIZABETH
from
1.3.0
0.0.0
to
7.0.0
7.0.0
Tabella C.2.32 - Elenco delle relazioni nephew-in-law “x è nipote acquisito di y”
Play
CYL
Ham
R2
R2
R3
R3
R3
Rom
Rom
x
KING HENRY
HAMLET
BOLINGBROKE
KING RICHARD
DORSET
GRAY
PRINCE EDWARD
BENVOLIO
TYBALT
y
DUCHESS
QUEEN GERTRUDE
DUCHESS OF YORK
DUCHESS OF YORK
LADY ANNE
LADY ANNE
LADY ANNE
MONTAGUE'S WIFE
CAPULET
from
0.0.0
1.0.0
0.0.0
0.0.0
1.3.0
1.3.0
1.3.0
0.0.0
0.0.0
to
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
Tabella C.2.33 - Elenco delle relazioni illegitimate son “x è figlio illegittimo di y”
Play
Jn
LrF
Tro
x
BASTARD
EDMOND
BASTARD
y
LADY FALCONBRIDGE
GLOUCESTER
PRIAM
from
0.0.0
0.0.0
0.0.0
to
7.0.0
7.0.0
7.0.0
Tabella C.2.34 - Elenco delle relazioni cousin - “x è cugina/o di y”
Play
Ado
Ado
AYL
AYL
Jn
Jn
Jn
Jn
R2
R2
R2
R2
R2
R2
R2
R2
R2
R2
R3
R3
R3
R3
R3
x
BEATRICE
HERO
CELIA
ROSALIND
ARTHUR
BLANCHE
PRINCE HENRY
PRINCE HENRY
AUMERLE
AUMERLE
BOLINGBROKE
BOLINGBROKE
BOLINGBROKE
HARRY PERCY
HARRY PERCY
KING RICHARD
KING RICHARD
KING RICHARD
DAUGHTER
DAUGHTER
DAUGHTER
DORSET
GRAY
y
HERO
BEATRICE
ROSALIND
CELIA
PRINCE HENRY
PRINCE HENRY
ARTHUR
BLANCHE
BOLINGBROKE
KING RICHARD
AUMERLE
HARRY PERCY
KING RICHARD
BOLINGBROKE
KING RICHARD
AUMERLE
BOLINGBROKE
HARRY PERCY
DORSET
GRAY
PRINCE EDWARD
DAUGHTER
DAUGHTER
295
from
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
to
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
R3
Rom
Rom
Rom
Rom
Rom
Rom
TNK
TNK
Tit
Tit
Tit
Tit
Tit
Tit
Tit
Tit
Tit
Tit
PRINCE EDWARD
BENVOLIO
CAPULET
CAPULET'S COUSIN
JULIET
ROMEO
TYBALT
ARCITE
PALAMON
LAVINIA
LUCIUS
MARTIUS
MUTIUS
PUBLIUS
PUBLIUS
PUBLIUS
PUBLIUS
PUBLIUS
QUINTUS
DAUGHTER
ROMEO
CAPULET'S COUSIN
CAPULET
TYBALT
BENVOLIO
JULIET
PALAMON
ARCITE
PUBLIUS
PUBLIUS
PUBLIUS
PUBLIUS
LAVINIA
LUCIUS
MARTIUS
MUTIUS
QUINTUS
PUBLIUS
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
Tabella C.2.35 - Elenco delle relazioni lover - “x è amante di y”
Play
Ant
Ant
CYL
CYL
Per
Per
Tit
Tit
Tit
Tit
Tro
Tro
x
ANTONY
CLEOPATRA
QUEEN MARGARET
SUFFOLK
ANTIOCHUS
DAUGHTER
AARON
BASSIANUS
LAVINIA
TAMORA
HELEN
PARIS
y
CLEOPATRA
ANTONY
SUFFOLK
QUEEN MARGARET
DAUGHTER
ANTIOCHUS
TAMORA
LAVINIA
BASSIANUS
AARON
PARIS
HELEN
296
from
0.0.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
1.0.0
1.0.0
0.0.0
1.1.0
1.1.0
0.0.0
0.0.0
0.0.0
to
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
7.0.0
Tabella C.3 – Distribuzione dei ruoli familiari3
Family Role
Mothers
Fathers
Daughters
Sons
Grandmothers
Grandfathers
Granddaughters
Grandsons
Sisters
Brothers
Wives
Husbands
Aunts
Uncles
Nieces
Nephews
Sisters-in-law
Brothers-in-law
Mothers-in-law
Fathers-in-law
Daughters-in-law
Sons-in-law
Stepmothers
Stepfathers
Stepdaughters
Stepsons
Stepsisters
Stepbrothers
Aunts-in-law
Uncles-in-law
Nieces-in-law
Nephews-in-law
Illegitimate daughters
Illegitimate sons
Cousins
Lovers
TOTALS
3
Dark
Roman
All Comedies comedies Histories tragedies Romances Tragedies
23
1
2
9
3
4
4
58
12
2
18
4
11
11
30
9
3
4
1
7
6
74
6
6
33
10
10
9
3
0
0
2
1
0
0
2
0
0
0
1
1
0
3
0
0
2
0
1
0
7
0
0
5
2
0
0
21
6
2
4
2
3
4
77
13
8
29
9
11
7
65
20
3
15
5
11
11
66
20
3
15
5
11
12
2
0
0
0
1
0
1
32
5
1
15
5
3
3
11
4
1
2
1
2
1
25
1
0
14
6
1
3
22
6
3
6
1
2
4
46
7
6
18
3
7
5
9
0
1
3
1
2
2
26
8
1
6
0
7
4
14
2
2
5
1
3
1
20
7
0
4
0
4
5
1
0
0
0
0
1
0
1
0
0
0
0
1
0
1
0
0
0
0
1
0
3
0
0
0
0
3
0
2
0
1
0
0
1
0
13
2
6
0
0
3
2
6
0
0
4
0
0
2
1
0
0
0
0
0
1
1
0
0
1
0
0
0
9
0
0
6
0
0
3
0
0
0
0
0
0
0
3
0
1
1
0
0
1
29
4
0
11
6
2
6
12
0
2
2
6
2
0
718
133
54
234
74
115
108
Come si può osservare, i numero di questa tabella non corrispondono a quelli della tabella
C.1. Questo non deve stupire, perché il ruolo è un’entità diversa dalla relazione. Lear, per
esempio, avendo tre figlie, intrattiene nella tabella C.1 tre relazioni diadiche del tipo “Lear
è padre di y”, ma nella tabella C.3 il suo ruolo di padre è conteggiato un’unica volta. Per
una ragione analoga, i conteggi qui riportati non corrispondono nemmeno a quelli della tabella B.7: un singolo personaggio, infatti, pur avendo un solo sesso, può intrattenere più
relazioni famigliari. Per esempio, nella colonna Dark Comedies della tabella B.7 Cressida
è considerata come una singola donna, mentre in C.3 e C.4 è sia una figlia (di Calchas) sia
una nipote (di Pandarus), quindi incide due volte sia nel conteggio dei ruoli (C.3) sia in
quello dei versi (C.4).
297
Tabella C.4 – Distribuzione dei versi (o linee) per ruolo familiare4
Family Role
Dark
Roman
All
Comedies comedies Histories tragedies Romances Tragedies
3410
330
355
1326
605
483
311
12338
1728
51
3235
1849
3146
2329
5787
1828
474
351
59
1501
1574
12012
1306
1129
4093
1118
1583
2783
504
0
0
195
309
0
0
872
0
0
0
703
169
0
248
0
0
44
0
204
0
267
0
0
221
46
0
0
3702
1004
460
435
95
1062
646
12852
2286
1171
4334
1927
1929
1205
10974
3966
519
1847
451
1978
2213
19265
4794
502
3760
2574
2998
4637
173
0
0
0
59
0
114
5656
698
392
2630
1063
281
592
2655
1386
298
44
59
479
389
5790
147
0
3631
300
140
1572
4175
1617
79
634
257
960
628
8979
1944
837
2653
1302
1359
884
1300
0
291
361
309
222
117
5386
1303
20
682
0
2214
1167
2852
331
492
577
39
874
539
5287
1879
0
262
0
1397
1749
165
0
0
0
0
165
0
290
0
0
0
0
290
0
592
0
0
0
0
592
0
566
0
0
0
0
566
0
629
0
37
0
0
592
0
2495
434
854
0
0
566
641
768
0
0
613
0
0
155
264
0
0
0
0
0
264
2
0
0
2
0
0
0
2741
0
0
1169
0
0
1572
0
0
0
0
0
0
0
Mothers
Fathers
Daughters
Sons
Grandmothers
Grandfathers
Granddaughters
Grandsons
Sisters
Brothers
Wives
Husbands
Aunts
Uncles
Nieces
Nephews
Sisters-in-law
Brothers-in-law
Mothers-in-law
Fathers-in-law
Daughters-in-law
Sons-in-law
Stepmothers
Stepfathers
Stepdaughters
Stepsons
Stepsisters
Stepbrothers
Aunts-in-law
Uncles-in-law
Nieces-in-law
Nephews-in-law
Illegitimate daughters
Illegitimate sons
820
Cousins
5588
Lovers
3038
TOTALS
142442
4
0
1386
0
28367
3
0
125
8089
Vedi nota alla tabella C.3.
298
522
1163
618
35402
0
315
2226
15665
0
1109
69
26928
295
1615
0
27991
C.5 - Top ten delle parole più usate fra parenti
In questa sezione, per ogni tipo di relazione familiare diadica, sono riportate
le dieci parole più ricorrenti “all’interno di conversazioni famigliari”. Per ottenere questi dati, si sono individuate tutte le sequenze di scambi di battute del tipo LSL (listener-speaker-listener), con S e L legati da un grado di parentela, ed
è stato effettuato un conteggio separato per sequenze di apertura Sl, di chiusura
lS e intermedie lSl, dove con la lettera maiuscola S è indicata la battuta calcolata
per il conteggio.
Non si è tenuto conto di un cospicuo numero di stopwords: avverbi e congiunzioni, preposizioni, pronomi, verbi modali, aggettivi dimostrativi, numerali
e possessivi, nomi propri e interiezioni. Unica eccezione, i pronomi di seconda
persona: a causa il loro elevato valore informativo circa la relazione fra parlanti,
sono stati inclusi nel conteggio.
Un esempio può chiarire come si è proceduto per la selezione dei dati e mettere in evidenza alcuni dei limiti di questa analisi. Consideriamo la sequenza
che segue (Oth, IV.iii.1-10):
(Enter Othello, Desdemona, Lodovico, Emilia, and attendants)
Lodovico
I do beseech you, sir, trouble yourself no further.
Othello
O, pardon me, ’twill do me good to walk.
Lodovico
(to Desdemona) Madam, good night. I humbly thank your ladyship.
Desdemona
Your honour is most welcome.
Othello
Will you walk, sir?
O, Desdemona!
Desdemona
My lord?
Othello
Get you to bed on th’instant. I will be returned
forthwith. Dismiss your attendant there. Look ’t be done.
Desdemona
I will, my lord.
(Exeunt Othello, Lodovico, and attendants)
Emilia
How goes it now? He looks gentler than he did.
Si tratta di una sequenza A1B1A2C1B2C2B3C3D1, nella quale le uniche persone
coinvolte in una relazione famigliare diadica sono B e C, in quanto B è marito
di C. Per il conteggio relativo alla relazione “è marito di”, le battute considerate
299
saranno B2 e B3, entrambe sequenze intermedie. Per quanto riguarda la relazione
“è moglie di”, invece, le battute saranno C1,C2 e C3, la prima d’apertura, la seconda intermedia e la terza di chiusura.5
Il problema principale di tale analisi è che, mentre l’identità di chi sta parlando è resa esplicita, quella di colui o colei alla quale si rivolge è implicita.
Un’analisi semantica permette di intuire a chi ci si rivolge, ma ha lo svantaggio
di non poter essere eseguita automaticamente—almeno, non con le edizioni
elettroniche di cui disponevo e con il software da me sviluppato. Un’analisi
radicalmente pragmatica, invece, basata cioè esclusivamente sulle sequenze di
turn-taking, è piuttosto semplice da eseguire, ma porta a risultati a volte
inaffidabili: non sempre, infatti, chi risponde è la stessa persona alla quale ci si
rivolge—altrimenti, è ovvio, avremmo solo scene con non più di due parlanti.
Considerando le sole battute intermedie, la probabilità di identificare
correttamente quello che potremmo chiamare il “ricevente implicito” aumenta:
in una sequenza ABA, infatti è ragionevole supporre che B si stia rivolgendo ad
A. Rimane comunque un notevole margine d’errore: per esempio, il “sir”
pronunciato da Othello in B2—una battuta intermedia—è chiaramente rivolto a
Lodovico, non a Desdemona. L’influenza di tali errori è notevolmente
ridimensionata dalla mole del corpus considerato (oltre 100.000 linee), ma è
comunque opportuno considerare le tabelle qui riportate con la dovuta cautela.
Le tabelle che seguono sono solo 17, e non 36, perché mi è parso opportuno
non considerare significative le statistiche relative a relazioni in cui la parola
più frequente nelle battute intermedie (colonna N_Middle) ricorra meno di 15
volte. Le tre colonne N_Middle, N_Open e N_Close identificano rispettivamente, all’interno di una sequenza, le battute intermedie, quelle di apertura e quelle
di chiusura. L’ordinamento delle righe è fatto sul numero di ricorrenze nelle
battute intermedie, in quanto questo, come già detto, è il dato più affidabile.
5
Per il metodo di analisi del turn-taking qui adottato, e per la tipologia delle battute, vedi
Vimala Herman, Dramatic discourse: dialogue as interaction in plays, London: Routledge, 1995.
300
Tabella C.5.1
Speaker: MOTHER
WORD
thou
you
thy
thee
your
speak
son
come
sir
honour
Tabella C.5.2
Speaker: FATHER
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
50
9
23
39
25
17
28
8
26
20
6
17
19
11
15
15
4
3
12
9
6
9
4
7
9
1
2
7
2
2
WORD
thou
you
thy
thee
your
know
let
man
come
well
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
146
69
57
135
104
76
103
48
32
65
38
37
47
31
20
28
23
6
28
23
16
26
9
8
25
22
15
24
12
8
Tabella C.5.3
Speaker: DAUGHTER
WORD
you
your
sir
lord
father
good
love
know
think
heart
Tabella C.5.4
Speaker: SON
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
81
23
43
37
16
12
31
2
6
29
7
7
19
6
7
18
6
14
15
2
10
10
4
1
9
2
1
7
1
2
WORD
you
your
father
let
lord
good
hear
look
man
mother
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
124
41
54
78
25
34
34
16
24
27
5
16
20
13
7
18
11
21
16
1
3
16
1
2
16
8
17
16
7
16
Tabella C.5.5
Speaker: SISTER
Tabella C.5.6
Speaker: BROTHER
WORD
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
you
58
24
19
your
18
12
9
thou
17
4
5
love
12
6
2
sister
12
8
2
cry
11
1
3
brother
10
2
2
lord
10
4
4
thee
10
1
2
thy
9
1
3
WORD
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
you
89
98
87
thy
48
31
30
thou
42
32
49
thee
34
21
27
your
31
38
31
brother
30
26
29
see
25
8
8
come
20
19
21
let
19
21
23
sir
18
13
5
301
Tabella C.5.7
Speaker: WIFE
WORD
you
your
lord
thy
thou
love
come
thee
know
good
Tabella C.5.8
Speaker: HUSBAND
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
224
95
76
112
32
43
73
27
21
53
12
22
45
17
22
34
6
4
33
10
11
29
14
15
27
9
12
26
10
17
WORD
you
thou
your
thy
thee
love
come
let
say
go
Tabella C.5.9
Speaker: UNCLE
WORD
you
thy
thou
your
man
well
cousin
lord
good
king
Tabella C.5.10
Speaker: FATHER-IN-LAW
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
86
40
63
36
15
7
34
6
14
25
14
41
21
5
3
20
7
3
17
6
8
16
9
8
15
8
12
14
15
4
WORD
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
thou
16
8
9
you
12
24
26
thy
10
2
2
good
6
1
1
thee
6
4
7
daughter
5
1
3
your
5
10
12
love
4
0
2
hear
3
0
1
lay
3
0
0
Tabella C.5.11
Speaker: NIECE
WORD
you
uncle
good
man
defend
love
matter
your
say
tell
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
114
93
78
69
47
32
35
43
36
33
32
39
27
23
31
26
20
16
23
28
36
23
29
25
23
18
10
21
22
34
Tabella C.5.12
Speaker: NEPHEW
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
25
16
16
15
4
2
9
1
2
8
2
3
5
0
0
5
3
4
5
0
0
5
3
4
4
3
1
4
0
1
WORD
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
you
28
40
40
uncle
17
16
15
thy
14
13
10
your
12
30
25
tell
10
5
4
come
9
14
13
thou
9
23
7
father
8
5
11
thee
8
14
4
dauphin
7
0
1
302
Tabella C.5.13
Speaker: SISTER-IN-LAW
WORD
thou
thy
thee
your
life
love
blood
live
thine
break
Tabella C.5.14
Speaker: BROTHER-IN-LAW
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
36
1
1
35
0
4
11
2
1
10
6
4
9
0
1
8
0
0
7
1
0
6
0
1
6
0
0
5
0
0
WORD
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
you
35
24
29
your
11
11
17
love
10
2
4
thy
9
8
4
good
7
7
2
daughter
6
1
0
myself
6
0
1
death
5
0
0
‘em
5
2
2
fair
5
2
2
Tabella C.5.15
Speaker: STEPBROTHER
Tabella C.5.16
Speaker: COUSIN (F/M)
WORD
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
you
29
13
13
thy
22
1
7
thou
17
2
1
thee
9
3
1
brother
6
7
2
villain
6
1
0
your
6
2
1
father
5
4
5
fear
4
0
0
hear
4
2
1
WORD
you
your
love
thou
cousin
good
thee
let
thy
man
Tabella C.5.17
Speaker: LOVER (F/M)
WORD
you
thou
let
thee
thy
your
lord
heart
queen
come
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
41
24
9
25
21
15
23
12
7
20
8
9
20
8
10
19
17
5
13
6
6
11
5
2
11
3
4
10
4
9
303
N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE
158
32
35
73
16
12
61
6
12
59
23
22
43
23
10
37
7
7
32
14
18
28
10
15
28
17
26
27
12
5
Il grado di “invischiamento” (enmeshment)
Le tabelle che seguono sono fra le più complicate da ottenere, ma probabilmente anche le più indicative del grado di intensità comunicativa fra membri di
una relazione famigliare. Per ottenerle, ho analizzato tutte le sequenze di battute
fra dramatis personae che intrattengono fra loro una relazione familiare, conteggiando le seguenti variabili: D0_PAIRS, cioè le coppie di battute contigue
(“a distanza 0”); D1_PAIRS, cioè le coppie di battute intercalate da una battuta
di un terzo speaker (“a distanza 1”); D2_PAIRS, cioè le coppie di battute intercalate da due battute di un terzo e un quarto speakers (“a distanza 2”);
DP_A_OPENS, cioè il numero di sequenze di D0_PAIRS inaugurate da una
battuta della dramatis persona A; e, infine, DP_A_CLOSES, cioè il numero di
sequenze di D0_PAIRS terminate da una battuta della dramatis persona A. Ovviamente, la somma di “aperture” delle DD.PP. di ogni coppia risulta uguale alla somma delle “chiusure” per quella coppia, e tale somma indica in numero di
“sequenze a distanza 0”.
Un breve esempio può chiarire l’algoritmo. Supponiamo che A e B siano
DD.PP. che intrattengono fra loro una (o, più correttamente, due) delle 36 relazioni familiari considerate in questa tesi, e che M e N siano invece altre DD.PP.
In tal caso, una serie di battute come quella che segue:
N1 M1 A1 N2 B1 A2 B2 A3 B3 A4 M2 N3 M3 N4 B4 N5 M4 A5 B5 A6
produrrà i seguenti conteggi:
D0_PAIRS fra A e B
7
cioè: B1A2, A2B2, B2A3, A3B3, B3A4 e A5B5, B5A6
D1_PAIRS fra A e B
1
cioè: A1B1 (spezzata da N2)
D2_PAIRS fra A e B
1
cioè: B4A5 (spezzata da N5 e da M4)
D0_OPENS per A
1
cioè: A5 … A6 (sequenza inaugurata da A)
D0_OPENS per B
1
cioè: B1 … A4 (sequenza inaugurata da B)
D0_CLOSES per A
2
cioè: B1 … A4 e A5 … A6 (sequenze terminate da A)
D0_CLOSES per B
0
(B non termina mai alcuna sequenza a distanza zero)
304
Tabella C.6 - Le quindici relazioni famigliari più “dirette”
Play
Oth
Oth
R3
R3
Mac
Mac
Tit
Tit
Tmp
Tmp
Tro
Tro
Ham
Ham
LrF
LrF
Rom
Rom
AYL
AYL
Ham
Ham
Shr
Shr
Oth
Oth
Ant
Ant
LrF
LrF
Relation
Wife
Husband
Sister-in-law
Brother-in-law
Wife
Husband
Brother
Brother
Father
Daughter
Uncle
Niece
Mother
Son
Father
Son
Cousin
Cousin
Cousin
Cousin
Uncle
Nephew
Wife
Husband
Wife
Husband
Brother-in-law
Brother-in-law
Father
Illegitimate
son
DP_A
DESDEMONA
OTHELLO
QUEEN ELIZABETH
KING RICHARD
LADY MACBETH
MACBETH
MARCUS
TITUS
PROSPERO
MIRANDA
PANDARUS
CRESSIDA
QUEEN GERTRUDE
HAMLET
GLOUCESTER
EDGAR
BENVOLIO
ROMEO
CELIA
ROSALIND
KING CLAUDIUS
HAMLET
KATHERINE
PETRUCCIO
EMILIA
IAGO
ANTONY
CAESAR
GLOUCESTER
EDMOND
DP_B
OTHELLO
DESDEMONA
KING RICHARD
QUEEN ELIZABETH
MACBETH
LADY MACBETH
TITUS
MARCUS
MIRANDA
PROSPERO
CRESSIDA
PANDARUS
HAMLET
QUEEN GERTRUDE
EDGAR
GLOUCESTER
ROMEO
BENVOLIO
ROSALIND
CELIA
HAMLET
KING CLAUDIUS
PETRUCCIO
KATHERINE
IAGO
EMILIA
CAESAR
ANTONY
EDMOND
GLOUCESTER
D0
DP_A
DP_A
D1
D2
PAIRS OPENS CLOSES PAIRS PAIRS
88
7
9
12
11
88
11
9
12
11
83
1
0
4
0
83
0
1
4
0
81
5
2
3
10
81
6
9
3
10
73
14
9
20
19
73
13
18
20
19
66
5
9
12
5
66
7
3
12
5
66
9
7
6
7
66
7
9
6
7
64
6
4
11
5
64
8
10
11
5
63
6
5
13
6
63
4
5
13
6
57
6
5
10
6
57
6
7
10
6
53
11
18
15
11
53
14
7
15
11
53
8
9
12
21
53
11
10
12
21
53
10
5
9
11
53
10
15
9
11
52
11
7
9
10
52
7
11
9
10
51
11
8
9
18
51
5
8
9
18
49
3
4
2
5
49
5
4
2
5
Partendo dalla struttura della tabella C.6, ho poi ritenuto opportuno indagare,
per tutte le coppie D1_PAIRS e D2_PAIRS (cioè le coppie di battute a distanza
maggiore di zero), quali fossero le relazioni familiari diadiche più soggette
all’interferenza di uno o più “go-betweens”. Per fare questo, è stato sufficiente
calcolare, per ogni relazione familiare diadica, l’incidenza relativa (in percentuale) delle coppie di battute a distanza 1 o 2 rispetto a quelle a distanza 0. Il risultato è riportato nella tabella che segue, C.7.
305
Tabella C.7 - Le tipologie di relazioni famigliari più “mediate”
RELATION
GRANDDAUGHTER
STEPMOTHER
STEPDAUGHTER
GRANDMOTHER
STEPFATHER
STEPSON
GRANDSON
GRANDFATHER
MOTHER-IN-LAW
DAUGHTER-IN-LAW
LOVER
FATHER-IN-LAW
MOTHER
SON-IN-LAW
BROTHER
BROTHER-IN-LAW
SISTER-IN-LAW
SISTER
NEPHEW
SON
UNCLE
DAUGHTER
FATHER
COUSIN
WIFE
HUSBAND
NIECE
STEPBROTHER
AUNT-IN-LAW
NEPHEW-IN-LAW
UNCLE-IN-LAW
ILLEGITIMATE_SON
N_D0
0
3
3
5
8
8
12
7
47
52
132
111
269
106
886
295
157
342
321
662
442
407
859
398
884
884
121
140
73
82
10
59
N_D1
1
4
4
6
8
8
11
6
33
36
88
41
97
38
317
100
52
109
102
210
133
120
235
108
238
238
31
26
12
13
1
2
N_D2
2
3
3
5
3
3
8
5
18
21
60
31
64
28
231
88
42
57
94
168
122
82
193
90
185
185
29
25
9
8
0
7
N_D1_PERC
INF
133.33
133.33
120.00
100.00
100.00
91.67
85.71
70.21
69.23
66.67
36.94
36.06
35.85
35.78
33.90
33.12
31.87
31.78
31.72
30.09
29.48
27.36
27.14
26.92
26.92
25.62
18.57
16.44
15.85
10.00
3.39
N_D2_PERC
INF
100.00
100.00
100.00
37.50
37.50
66.67
71.43
38.30
40.38
45.45
27.93
23.79
26.42
26.07
29.83
26.75
16.67
29.28
25.38
27.60
20.15
22.47
22.61
20.93
20.93
23.97
17.86
12.33
9.76
0.00
11.86
Come è facile intuire dai conteggi percentuali, si tratta di una tabella che va
interpretata con estrema cautela (vedi capitolo 2), per esempio avendo
l’accortezza di scartare i dati relativi a relazioni diadiche il cui numero di coppie D0_PAIRS sia talmente basso da precludere un risultato sensato (è il caso,
ovviamente, della relazione “granddaughter”; per sicurezza, però, tenderei a escludere anche tutte le relazioni con D0_PAIRS inferiore a 40-50).
Infine, alla luce di questi risultati, avevo pensato che sarebbe stato interessante stabilire l’identità (in termini di ruolo familiare) dei “go-betweens”—per
esempio: chi interrompe più spesso il botta e risposta fra padri e figlie? Un fratello? La madre? Qualcuno completamente estraneo alla famiglia? Purtroppo,
come ho spiegato al termine del secondo capitolo, non sono riuscito a ottenere
risultati significativi. Questo tentativo segna perciò il limite, ovviamente provvisorio, del metodo di analisi relazionale numerica adottato in questa tesi.
306
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