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Volume n. 38 - Anno 2015 Volume nº 38 Anno 2015 A cura del Gruppo GIOMI Fondata da Prof. FRANCO FAGGIANA e Prof. MARCO PASQUALI LASAGNI Direttore Dott. PIETRO CAVALIERE –1– Volume n. 38 - Anno 2015 NORME EDITORIALI 1) La pubblicazione dei lavori è gratuita per gli A.A. L’onere sarà sostenuto dallo Sponsor, la Giomi SpA 2) Ogni lavoro ed ogni altra eventuale comunicazione dovranno essere inviati in Redazione in formato file Word con foto in jpg/gif (ad alta risoluzione) al seguente indirizzo e-mail: [email protected]. 3) Ogni lavoro dovrà contenere: – un riassunto e la sua traduzione in inglese (abstract); – l’indicazione delle parole chiave e la loro traduzione in inglese (key words); – un indirizzo mail per la corrispondenza. Non dovranno essere riferite notazioni bibliografiche non riportate nel testo. Nel testo dovrà essere indicata l’ubicazione della iconografia e delle tabelle. 4) Le indicazioni bibliografiche dovranno essere riportate con le seguenti modalità: – Autori (cognome per esteso, iniziale del nome puntato). – Indicazione della rivista anche abbreviata. – Per le riviste: volume, fascicolo, pagina iniziale e finale tra parentesi, anno di pubblicazione. – Per i libri: titolo, Autore, Società Editrice, anno e luogo di pubblicazione. 5) L’accettazione dei lavori avviene a giudizio insindacabile della Direzione della Rivista. 6) La Direzione della Rivista si riserva il diritto di rinviare agli AA., sentito il parere del Comitato di Redazione, gli elaborati giudicati insufficienti o incompleti, per l’opportuno completamento o aggiornamento. 7) Comitato di Redazione: Dott. Pietro Cavaliere Prof. Giulio Santoro Dott. Andrea Baldini Dott. Vincenzo De Cupis Dott. Giancarlo De Marinis Dott. Francesco Centofanti Dott. Mario Sbardella –2– Volume n. 38 - Anno 2015 INDICE F. DE MEO, M. EZECHIELI, V. BELLOTTI, C. CARDENAS, E. ASTARITA, E. MOYA, H. WINDHAGEN, M. RIBAS, P. CAVALIERE: Trattamento del conflitto femoro-acetabolare con accesso mini-open combinato con artroscopia: studio preliminare multicentrico.................................. 5 V. CALAFIORE, F. BASILE ROGNETTA, P. CAVALIERE: La ricostruzione del legamento crociato posteriore nei casi di lesione isolata........ 14 A. LAMBERTI, G. BALATO, P.P. SUMMA, F. TRAVERSO, A. BALDINI: La ricostruzione dell’apparato estensore con allotrapianto in protesi totale di ginocchio: risultati a medio-lungo termine................................................ 20 G. BAUMGARTNER, S. PELLE, G. CORSI, M. ALMBERGER: Il distacco epifisario dell’omero distale: diagnosi clinico-radiografica difficile?... 29 M. DE CUPIS, M. PALMACCI, M. RIONERO, G. GIORGIANNI, V. DE CUPIS: Fratture dell’omero prossimale: osteosintesi con placca a stabilità angolare......... 35 G. GIORGIANNI, M. DE CUPIS, E. LIBUTTI, V. DE CUPIS: Riparazione artroscopica della cuffia dei rotatori con ancore all-suture................. 49 G. RISITANO, F. COGLITORE: Sindrome da intrappolamento del nervo ulnare al gomito....................................... 59 G. RISITANO, F. COGLITORE: Il trattamento chirurgico della rizoartrosi................................................................ 64 G. RISITANO: Metodiche chirurgiche per il ripristino della funzione dei nervi periferici.............. 69 G.S. LORENZO, M. BIANCOROSSO, P. CAVALIERE, M.R. LORENZO: Il trattamento con Lars nelle recidive e nelle lesioni irreparabili del tendine d’Achille................................................................................................. 73 A. BILLI, R. ZANNONI, G. PIZZA: Utilizzo dell’endortesi senotarsica Kalix II nel piede piatto giovanile..................... 79 B. PITRONE, C. STELLA, D. RIZZO, G. SANTORO: Utilità della diagnostica per immagini nella patologia del piede............................ 92 –3– Volume n. 38 - Anno 2015 A. ROVINI, E. FURLAN, R. NARDACCHIONE: Informazione preoperatoria ed aspettative del paziente........................................... 118 A. PISANI, L. SOLIERA, G. CACCIOLA, P. CAVALIERE, A. BARBANERA: Anatomical differences in L5 and L4 pedicles: CT and MRI 3D direct volume rendering study of the morphometry and of the distance between them and nervous structure....................................................................................... 123 –4– Volume n. 38 - Anno 2015 TRATTAMENTO DEL CONFLITTO FEMORO-ACETABOLARE CON ACCESSO MINI-OPEN COMBINATO CON ARTROSCOPIA: STUDIO PRELIMINARE MULTICENTRICO ARTHROSCOPIC ASSISTED MINI-OPEN APPROACH FOR FEMOROACETABULAR IMPINGEMENT: EARLY MULTICENTRIC EXPERIENCE F. DE MEO1, M. EZECHIELI2, V. BELLOTTI3, C. CARDENAS3, E. ASTARITA3, E. MOYA3, H. WINDHAGEN2, M. RIBAS3, P. CAVALIERE1 1 GIOMI Istituti “Franco Faggiana” - Reggio Calabria, “Franco Scalabrino” - Messina - Italy 2 Hannover Medical School, Clinic for Orthopaedic Surgery - Germany 3 Universitary Hospital Quiron Dexeus, Barcelona - Spain Parole chiave: accesso mini-open combinato con artroscopia; impingement femoro-acetabolare; curva di apprendimento. Key words: Arthroscopic assisted mini-open approach; femoro acetabular impingement; learning curve. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Introduzione: nel trattamento chirurgico del conflitto femoro-acetabolare, patologia preartrosica ampiamente riconosciuta a livello mondiale, oltre alle metodiche a cielo aperto di lussazione “sicura” ed artroscopica, è altresì utilizzata quella mini-open combinata con artroscopia. Obiettivo: lo scopo di questo studio è analizzare i risultati a breve termine dei primi 72 casi di impingement femoro-acetabolare, trattati in due diverse strutture sanitarie, mediante la suddetta tecnica mini-open da chirurghi la cui specifica formazione è avvenuta presso un centro specialistico di riferimento per la chirurgia conservativa dell’anca. Materiali e metodi: i 72 pazienti operati sono stati sottoposti a controlli clinici postoperatori seriati, con un follow-up medio di 15 mesi (range 6-24 mesi), verificando l’esito della procedura chirurgica mediante le seguenti scale di valutazione: Western Ontario and McMaster University Arthritis Index, Hip Disability and Osteoarthritis Outcome Score and University of California, Los Angeles activity score; nonché la misurazione degli angoli Alfa e Wiberg. Risultati: in entrambi i centri tutti gli score di valutazione hanno mostrato risultati significativamente migliori rispetto ai valori pre-operatori. Gli indici del Western Ontario e McMaster University Arthritis sono aumentati da 64.3 a 91.4 (A) e da 68.1 a 89 (B). L’indice –5– Volume n. 38 - Anno 2015 Hip Disability and Osteoarthritis Outcome è aumentato da 59,5 a 94.4 (A) e da 62.1 a 93.8 (B). Lo score University of California, Los Angeles activity, è aumentato da 5.2 a 8.1 (A) e da 5.3 a 8.4 (B). Gli angoli Alfa e Wiberg dopo l’osteoplastica sono stati significativamente ridotti. Il tasso complessivo di complicanze è stato basso. Conclusioni: l’outcome clinico di questo studio preliminare induce a considerare la tecnica mini-open combinata con artroscopia una possibile valida alternativa per il trattamento del conflitto femoro-acetabolare. ABSTRACT Introduction: surgical treatment of femoro acetabular impingement is becoming accepted worldwide, owing to improvements in clinical results and quality of life. In addition to treatment by surgical dislocation or arthroscopy, arthroscopic assisted mini-open approach was postulated to treat this pathology. Objectives: the aim of this study was to analyse early results of the first consecutive 72 cases of femoro acetabular impingement treated by means of the arthroscopic assisted mini-open approach in two different centres by two surgeons trained by a senior surgeon experienced in the technique. Materials and Methods: after a mean follow-up time of 15 months (range 6–24 months), the Western Ontario and McMaster Universities Arthritis Index, Hip Disability and Osteoarthritis Outcome Score and University of California, Los Angeles activity score, Alpha angle and Wiberg angle were obtained. Results: in both centres, all three scores showed significantly better results at follow-up time than preoperatively. The Western Ontario and McMaster Universities Arthritis Index increased from 64.3 to 91.4 (A) and from 68.1 to 89 (B). The Hip Disability and Osteoarthritis Outcome Score increased from 59.5 to 94.4 (A) and from 62.1 to 93.8 (B). The University of California, Los Angeles activity score increased from 5.2 to 8.1 (A) and from 5.3 to 8.4 (B). The Alpha angle and the Wiberg angle were significantly reduced after osteoplasty. The overall complication rate was low. Conclusions: early results of this study show a good clinical and radiological outcome; therefore, the arthroscopic assisted mini-open approach can be used as an alternative in treating femoro acetabular impingement. INTRODUZIONE L’impingement femoro-acetabolare è caratterizzato dalla perdita dello spazio articolare causato da una “gobba” a livello della giunzione testa-collo del femore (Cam impingement) o da un eccesso di copertura acetabolare (Pincer impingement)1,2. La costrizione causata da queste alterazioni anatomiche provoca un progressivo danno del labrum e della cartilagine acetabolare1,2. Questi “patomorfismi” possono essere considerati delle vere e proprie deformità pre-artrosiche che, se non trattate, possono determinare artrosi precoce dell’anca per i ripetuti microtraumi provocati a livello dell’interfaccia condro-labrale3,4. Il trattamento chirurgico del conflitto femoro-acetabolare è ormai consolidato a livello mondiale: il suo obiettivo principale è l’aumento della congruenza articolare e la diminuzio- –6– Volume n. 38 - Anno 2015 ne delle forze distruttive trasmesse all’articolazione. Nel 2001, per la prima volta, Ganz et al.5, quale accesso chirurgico per rimodellare l’interfaccia testa-collo e trattare le patologie labrali, utilizzarono la tecnica di “lussazione sicura dell’anca” con associata osteotomia trocanterica. Si tratta di una metodica invasiva che richiede un più lungo periodo di riabilitazione rispetto alla pratica artroscopica e che può necessitare di un successivo intervento per la rimozione dei mezzi di sintesi (circa un terzo dei casi8); pur tuttavia i risultati clinici descritti in letteratura sono alquanto soddisfacenti6,7. Negli anni a seguire le tecniche artroscopiche sono divenute il “gold standard” per il trattamento del conflitto femoro-acetabolare con risultati molto promettenti9,11; più recentemente sono state anche utilizzate in casi più complessi come il pincer globale o la coxa profunda12. L’artroscopia dell’anca tuttavia deve essere praticata solo in centri di riferimento, essendo una tecnica complessa che richiede una lunga curva di apprendimento9,11. Come alternativa ai trattamenti chirurgici precedentemente citati, nel 2005 “Ribas et al.”13 proposero la tecnica mini-open combinata con artroscopia. Scopo di questo studio è quello di valutare i risultati clinici e radiologici di pazienti trattati con la tecnica mini-open combinata con artroscopia in due diversi centri (Hannover, Germania; Reggio Calabria, Italia), nonché di verificarne la relativa curva di apprendimento rispetto alla tecnica artroscopica, avendo gli operatori osservato una fellowship presso un centro specialistico di riferimento. MATERIALI E METODI Protocollo Lo studio, approvato da un comitato etico locale (N. 172-2013), include una coorte di 72 pazienti trattati con tecnica mini-open combinata con artroscopia, nel periodo compreso tra il 2011 e il 2013. Tutti i pazienti presentavano segni clinici e radiologici di conflitto femoroacetabolare: dolore inguinale costante e positività alla manovra di impingement, incremento dell’angolo Alfa e/o dell’angolo di Wiberg. I pazienti sono stati suddivisi in due gruppi: il gruppo A includeva 57 pazienti (25 donne e 32 uomini; range di età 14-65 anni, età media 36,12), operati presso il centro di Hannover; il gruppo B includeva 15 pazienti (9 donne e 6 uomini; range di età 19-46 anni, età media 28,5 anni), trattati presso il centro di Reggio Calabria. Di entrambi i gruppi sono stati acquisiti, nel pre-operatorio e dopo un follow-up medio di 15 mesi, i punteggi delle scale Western Ontario and McMaster Universities Arthritis Index, Hip Disability and Osteoarthritis Outcome Score and University of California, Los Angeles activity score; sono stati inoltre registrati: la positività al test di impingement ed al test della decompressione, la durata dell’intervento, le perdite ematiche e le complicanze, la misurazione dell’angolo Alfa in accordo con gli studi di Nötzli14 nella proiezione radiologica di Dunn e la misurazione dell’angolo di Wiberg in proiezione antero-posteriore. Il confronto tra i risultati pre-operatori e i follow-up è stato effettuato mediante software SPSS, versione 13 (SPSS software, Chicago, IL, USA). I valori di P < 0,05 sono stati definiti statisticamente significativi. –7– Volume n. 38 - Anno 2015 Tecnica operatoria La procedura chirurgica ha seguito la tecnica descritta da Ribas et al.13,15: il paziente è collocato in decubito supino su letto da trazione e, prima dell’inizio dell’intervento, con intensificatore di brillanza, si eseguono le manovre di flesso-estensione dell’anca e la trazione necessaria a distrarre l’articolazione. Dopo la preparazione del campo sterile, si pratica un’incisione longitudinale di circa 5-6 cm, diretta verso l’epifisi prossimale del perone, 1 cm distalmente e 1 cm lateralmente la spina iliaca antero-superiore (figura 1a). Dopo l’incisione della fascia muscolare superficiale, si isola il nervo femoro-cutaneo laterale e, attraverso il piano intermuscolare compreso tra tensore della fascia lata e sartorio (figura 1b), si introduce un separatore tipo Hohmann - smusso e retroverso - attorno la porzione superiore del collo femorale. Si introduce poi un secondo separatore a livello della porzione caudale del collo femore ed entrambi gli Hohmann si fissano ad un quadrato autostatico pneumatico (figura 1c). Si pratica a questo punto una capsulotomia a forma di T partendo dal legamento ileo-femorale e seguendo la rima acetabolare, prestando molta attenzione a non intaccare il sottostante labrum. Si applica quindi la trazione necessaria per distrarre la testa femorale e si effettua mediante un artroscopio con ottica a 70° l’esplorazione del compartimento aceta- Figura 1 (a) incisione di approssimativamente 5 cm a partenza 1 cm distale e 1 cm laterale alla spina iliaca antero-superiore diretta verso la testa del perone (b) accesso transmuscolare tra sartorio e tensore della fascia lata (c) montaggio dei separatori autostatici, si visualizzano i due Hohmann retroversi in corrispondenza del collo femorale e in alto a destra un terzo Hohmann a livello dell’eminenza ileo-pettinea (d) esplorazione artroscopica dell’acetabolo dopo distrazione dell’articolazione mediante trazione –8– Volume n. 38 - Anno 2015 bolare. Le eventuali lesioni labrali si riparano mediante utilizzo di ancorette riassorbibili di piccolo diametro (1.8 – 2.3); in caso di lesioni cartilaginee si praticano microfratture secondo la tecnica di Steadmann16. Se presente un’eccessiva copertura acetabolare, si pratica un rim trimming seguito da sutura labrale. Una volta terminato il tempo acetabolare si rilascia la trazione e si passa all’osteoplastica femorale seguendo la “regola degli spazi”, sempre come descritto da Ribas et al.15, verificando costantemente con fluoroscopia la riduzione del conflitto femoro-acetabolare fino alla sua scomparsa. In entrambi i centri è stato utilizzato lo stesso protocollo riabilitativo: carico sfiorante assistito da stampelle per 10 giorni o, in caso di praticate microfratture, carico protetto per 6 settimane; limitazione della flessione a 90° durante le prime 4 settimane; limitazione a 20° delle rotazioni interna ed esterna e dell’abduzione durante le prime 6 settimane. Nel post-operatorio tutti i pazienti hanno assunto farmaci non steroidei anti-infiammatori come profilassi per le calcificazioni eterotopiche. RISULTATI Entrambi i gruppi (A e B) hanno presentato risultati sovrapponibili in termini di durata dell’intervento (gruppo A con un range 75-199 ed una media di 142,5 minuti; gruppo B con un range 95-175 ed una media di 134 min) e perdite ematiche intraoperatorie (gruppo A range 40-126 ml e media di 62 ml e gruppo B range 45-110 ml e media di 68 ml). Le scale di valutazione hanno mostrato un incremento statisticamente significativo per ambedue i gruppi (figura 2): l’indice Western Ontario and McMaster Universities Arthritis è aumentato nel gruppo A da 64.3 (range 32–84) a 91.4 (range 50–100), nel gruppo B da 68.1 (range 48–80) a 89.4 (range 71–100); il punteggio Hip Disability and Osteoarthritis Outcome è aumentato nel gruppo A da 59.5 (range 38–82) a 94.4 (range 55–100), nel gruppo B da 62.1 (range 49–83) a 93.8 (range 69–100); il punteggio University of California, Los Angeles activity score è aumentato da 5.2 a 8.1 nel gruppo A e da 5.3 a 8.4 nel gruppo B (figura 2). Figura 2 - Cambiamenti significativi degli score clinici (Western Ontario and McMaster Universities Arthritis Index, Hip disability and Osteoarthritis Outcome Score and University of California, Los Angeles activity score) dal pre-operatorio al follow-up. –9– Volume n. 38 - Anno 2015 Gli angoli Alfa preoperatorio e di Wiberg hanno presentato una significativa riduzione nei due gruppi: in quello A l’angolo Alfa preoperatorio era 84.3° ± 12.17° e nel B 82.6° ± 11.43°, dopo l’osteoplastica nel gruppo A è risultato pari a 50.8° ± 3.67° e nel gruppo B pari a 52.1° ± 3.24°; l’angolo di Wiberg si è modificato da 33.6° ± 7.44° a 30.9° ± 4.1°nel gruppo A e da 38.43° ± 8.1° a 34.1° ± 4.24° nel gruppo B (figura 3). Sono stata registrate le seguenti complicanze: nel gruppo A, sei casi di irritazioni temporanee del nervo femoro-cutaneo laterale, un caso di riduzione di forza del quadricipite, un caso di infezione profonda da Staphylococcus Aureus che ha richiesto un secondo intervento di debrigdment e, nei primi interventi effettuati, tre casi di ipercorrezione; nel gruppo B, tre casi di irritazioni temporanee del nervo femoro-cutaneo laterale, un caso di ipercorrezione ed uno di ossificazioni eterotopiche. In 8 casi sui 10 delle irritazioni del nervo femoro-cutaneo laterale verificatisi, si è trattato di fenomeni di neuroaprassia temporanea, non più apprezzati al follow-up; i quattro pazienti con ipercorrezione radiologica non hanno mostrato svantaggi clinici. Figura 3 (a) Proiezione di Dunn pre-operatoria, mostra un impingment combinato (pincer e cam) con angolo Alfa patologico (b) Proiezione di Dunn post-operatoria, mostra l’osteoplastica della giunzione testa-collo, il ripristino di un angolo Alfa fisiologico e la riduzione della copertura acetabolare – 10 – Volume n. 38 - Anno 2015 Gruppo A pre-operatorio Gruppo B pre-operatorio Gruppo A follow-up Gruppo B follow-up WOMAC-score 64.3 (32–84) 68.1 (48–80) 91.4 (50–100)* 89.4 (71–100)* HOOS-score 62.1 (49–83) 94.4 (55–100)* 93.8 (69–100)* UCLA-activityscore 5.2 ± 2.1° 5.3 ± 1.9° 8.1 ± 1.2° * 8.4 ± 1.4° * Wiberg-angle 33.6° ± 7.44° 38.43° ± 8.1° 30.9° ± 4.1° * 34.1° ± 4.24° * Alpha-angle 84.3° ± 12.17° 82.6° ± 11.43° 50.8° ± 3.67° * 59.5 (38–82) 52.1° ± 3.24° * Tabella1: i valori mostrano i risultati pre e post-operatori dei gruppi A e B Asterisco*: statisticamente significativi DISCUSSIONE Alla luce dei risultati ottenuti, l’accesso mini-open combinato con artroscopia può considerarsi una tecnica riproducibile per il trattamento del conflitto femoro-acetabolare. La percentuale totale delle complicanze è stata bassa, con un cut-off di dieci casi. L’elevata incidenza di complicanze (70%) nei primi dieci casi trattati potrebbe essere attribuita ad una prima fase in salita della curva di apprendimento; a tal proposito, è stata effettuata una revisione sistematica della letteratura e, secondo Hoppe et al.9, sarebbe necessario un punto di cut-off di 30 casi prima di ridurre i tempi operatori e le complicanze dell’artroscopia dell’anca. Considerando che soltanto due delle dieci irritazioni del nervo femoro-cutaneo laterale sono risultate permanenti, la percentuale di incidenza di tale complicanza è stata del 2,7% sul totale dei casi trattati. L’incidenza di calcificazioni eterotopiche è stata bassa (1,3%), specie se confrontata con le percentuali riportate in letteratura (tra il 5,6% e il 36%) dopo artroscopia. Beckmann et al. hanno dimostrato comunque che l’utilizzo di famaci anti-infiammatori non steroidei riduce l’incidenza di calcificazioni eterotopiche dal 25% al 5,6%18. Una possibile spiegazione della bassa incidenza di questa complicanza riportata nella nostra casistica potrebbe essere correlata al fatto che i frammenti ossei generati durante l’osteoplastica sono stati costantemente rimossi mediante lavaggio, grazie anche ad una visione diretta degli stessi. Anche il tasso di infezione post-operatoria è stato basso (1,3%), specie se confrontato ai dati pubblicati in letteratura11. La riduzione della forza quadricipitale osservata in un caso (1,3%) è stata ritenuta attribuibile alla possibile sezione iatrogena del retto femorale a livello della spina iliaca anteroinferiore. Infine, l’outcome clinico, al follow-up, ha mostrato risultati incoraggianti e sovrapponibili a quelli riportati per la tecnica artroscopica e di lussazione sicura20,21. In conclusione, considerati i risultati a breve termine di questo studio che, come accennato, hanno dimostrato un buon outcome clinico e radiologico tenuto conto del basso tasso complessivo di complicanze, e considerata una curva di apprendimento in discesa dopo i pri- – 11 – Volume n. 38 - Anno 2015 mi dieci casi trattati, l’accesso mini-open combinato con artroscopia può essere considerato una valida alternativa all’artroscopia e alla lussazione sicura per il trattamento del conflitto femoro-acetabolare. Peraltro, grazie al cosiddetto “doppio controllo visivo”, rappresentato dalla visione diretta del compartimento acetabolare e femorale e dalla contemporanea verifica artroscopica, la tecnica descritta permette un trattamento sicuro dell’impingement femoro-acetabolare, risultando così particolarmente utile al chirurgo nella fase di iniziale approccio al trattamento di deformità complesse, quali coxa profunda o ricostruzioni autologhe del labrum. BIBLIOGRAFIA 1. 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Espinosa N., Rothenfluh D.A., Beck M., Ganz R., Leunig M. “Treatment of femoroacetabular impingement: preliminary results of labral refixation”. J Bone Joint Surg Am. 2006;88:925–935. 7. Siebenrock K.A., Gautier E., Woo A.K., Ganz R. “Surgical dislocation of the femoral head for joint debridement and accurate reduction of fractures of the acetabulum”. J. Orthop. Trauma.2002;16:543–552. 8. Beaule P.E., Le Duff M.J., Zaragoza E. “Quality of life following femoral head–neck osteochondroplasty for femoro acetabular impingement”. J. Bone Joint Surg Am.2007;89:773–779. 9. Hoppe D.J., de Sa D., Simunovic N. et al. “The learning curve for hip arthroscopy: a systematic review”. Arthroscopy, 2014;30(3):389–397. 10. Dietrich F., Ries C., Eiermann C., Miehlke W., Sobau C. “Complications in hip arthroscopy: necessity of supervision during the learning curve”. Knee Surg Sports Traumatol Arthrosc. 2014;22(4):953–958. – 12 – Volume n. 38 - Anno 2015 11. Möckle G., Labs K. “Complications in hip arthroscopy and follow-up therapy. Analysis over a 5-year time period with a total of 13,000 cases”. Orthopadies.2014;43(1):6–15. 12. Matsuda D.K., Gupta N., Hanami D. “Hip arthroscopy for challenging deformities: global pincer femoro-acetabular impingement”. Arthrosc Tech.2014;3(2):e197–204. 13. Ribas M., Ginebreda I., Candioti L., Vilarrubias J.M. “Surgical treatment of the anterior femoro-acetabular impingement syndrome of the hip”. J. Bone Joint Surg. Br.2005;87 (Suppl. 1):84c. 14. Nötzli H.P., Wyss T.F., Stoecklin C.H., Schmidt M.R., Treiber K., Hodler. “The contour of the femoral head-neck junction as a predictor for the risk of anterior impingement”. J. Bone Joint Surg Br. 2002;84(4):556-560. 15. Ribas M., Ledesma R., Cardenas C., Marin-Peña O., Toro J., Caceres E. “Clinical results after anterior mini-open approach for femoro-acetabular impingement in early degenerative stage”. Hip Int. 2010;20 (Suppl.7):36–42. 16. 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Zingg P.O., Ulbrich E.J., Buehler T.C., Kalberer F., Poutawera V.R., Dora C. “Surgical hip dislocation versus hip arthroscopy for femoro-acetabular impingement: clinical and morphological short-term results”. Arch Orthop. Trauma Surg. 2013;133(1):69–79. – 13 – Volume n. 38 - Anno 2015 LA RICOSTRUZIONE DEL LEGAMENTO CROCIATO POSTERIORE NEI CASI DI LESIONE ISOLATA RECONSTRUCTION OF ISOLATED POSTERIOR CRUCIATE LIGAMENT LESIONS V. CALAFIORE, F. BASILE ROGNETTA, P. CAVALIERE Istituto “Franco Faggiana” - Reggio Calabria Parole chiave: Legamento Crociato Posteriore, LCP, tendine gracile semitendinoso quadruplicato, vite distale riassorbibile. Key words: Posterior Cruciate Ligaments, PCL, quadruplicated gracilis semitendinosus tendons, distal resorbable screw. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Il legamento crociato posteriore è il legamento più robusto del ginocchio e risulta decisivo nel garantirne la stabilità. La rottura del LCP è un evento infrequente e generalmente si accompagna ad altre lesioni, come quella del legamento collaterale laterale, del punto d’angolo postero-laterale, del legamento crociato anteriore. L’incidenza di lesioni del LCP riportata in letteratura varia dal 3%2 al 37%3,4. L’intervento chirurgico non è sempre indicato in quanto la lassità residua può non comportare necessariamente una instabilità soggettiva ed il paziente riesce a compensare il cassetto posteriore con gli stabilizzatori secondari. Numerosi Autori hanno riportato i propri studi sul trattamento conservativo delle lesioni del LCP5 affermando che una gran parte degli atleti esaminati, dopo aver seguito un adeguato trattamento di fisioterapia, riprendevano l’attività agonistica praticata precedentemente al trauma, senza alcuna sintomatologia dolorosa od instabilità residua. La soluzione chirurgica trova la sua indicazione proprio in quei pazienti, generalmente sportivi, positivi ai test clinici e ad esami diagnostici, che avvertono instabilità e dolore. Nel presente lavoro gli Autori riportano la propria esperienza chirurgica nella ricostruzione isolata del LCP, con l’uso dei tendini gracile e semitendinoso, quadruplicati e stabilizzati mediante sistema a “sospensione” prossimale e vite riassorbibile distale. Dal 2011 ad oggi sono stati eseguiti presso il nostro Istituto 10 interventi di ricostruzione isolata del LCP. Dei pazienti trattati chirurgicamente, tutti soggetti sportivi, 8 sono di sesso maschile e 2 di sesso femminile. Il follow up è durato in media 3 anni (range di controllo 1- 5 anni). La valutazione dei risultati clinici al follow-up è stata eseguita mediante la scheda IKDC6. Il 100% circa dei pazienti è tornato a svolgere l’attività sportiva senza modificare le proprie abitudini. – 14 – Volume n. 38 - Anno 2015 ABSTRACT Posterior cruciate ligament (PCL) is the strongest ligament of the knee and it is very important for the knee stability. Usually it’s rupture is associated with multiple ligament injuries, such as lateral collateral ligament, posterolateral ligament complex. Isolated PCL lesion are very unusual, less symptomatic, very difficult to diagnose, and frequently misdiagnosed. Compared to the ACL, the PCL has a high potential for spontaneous healing. Most of the isolated PCL tears heals with a period of rest, and a programme of muscle strength and physiotherapy. Surgery is indicated in those case who don’t respond to a conservative treatment. For the PCL reconstruction we use the tendons of gracilis and semitendinous muscles, quadruplicated, fixed proximally with endobutton and distally with biosure HA. We evaluated 10 patients, 8 males and 2 females, operated for PCL reconstruction in the period from 2011 to nowadays follow up average, 3 years), using IKDC as evaluation scale. Medium result we obtained is 90. Right indications for surgery, good experience of the orthopaedic surger, motivation and collaboration of the patients are essentials for a best result for PCL reconstruction. INTRODUZIONE Il legamento crociato posteriore ha una lunghezza media di 38 mm, con un diametro medio di 11-13 mm. E’ un legamento intrasinoviale, ma extra articolare. Viene distinto in due fasci, antero-laterale e postero-mediale, anche se alcuni studi più recenti sono riusciti a riconoscere 4 fasci alla dissezione con microscopia elettronica7. Tali fasci hanno sedi di inserzione tibiale e femorale e meccanismi biomeccanici distinti. Diversi Autori hanno cercato di individuare con esattezza l’area di inserzione femorale per ottenere un corretto posizionamento chirurgico del LCP 8,9, non raggiungendo però una univocità di pareri, anche se la differenza di inserzione riscontrata tra uno studio e l’altro è di appena pochi millimetri. Il fascio AL si inserisce sulla porzione più prossimale della gola, mentre il fascio PL si inserisce sulla faccia laterale del condilo mediale. A ginocchio esteso il fascio AL è deteso, mentre il fascio PL è in tensione. Durante la flessione il fascio PM si detende progressivamente, mentre il fascio AL aumenta la propria tensione. Tale comportamento biomeccanico del LCP dimostra che non esiste una isometria nel movimento, cosa che invece avviene con il LCA. Ovviamente il legamento crociato posteriore non lavora in maniera autonoma nel limitare la traslazione posteriore della tibia. A questo scopo, infatti, vi partecipano i legamenti menisco-femorali di Humphrey e di Wirsberg, la capsula posteriore ed i numerosi tendini, il complesso popliteo-fibulare, il legamento collaterale laterale, che con forze diverse e con momenti differenti, contribuiscono alla stabilità posteriore del ginocchio. In particolare, i legamenti menisco femorali integrano il LCP nel controllare la traslazione posteriore, la capsula postero-mediale controlla l’abduzione posteriore ed il valgo, mentre le strutture posterolaterali controllano la traslazione posteriore a ginocchio esteso, la rotazione tibiale esterna e l’adduzione tibiale in varo. Per porre diagnosi di lesione del LCP è importante la raccolta dei dati anamnestici. Le lesioni del LCP, siano esse dovute a traumi da incidenti stradali (es. traumi da cruscotto) o da attività sportiva, avvengono sempre a causa di un forte impatto sul terzo prossimale della tibia con direzione posteriore. Le lesioni isolate negli sportivi possono avvenire a causa di un rapida iperflessione del ginocchio, e sono molto più rare di quelle combinate 10. – 15 – Volume n. 38 - Anno 2015 Nello studio cui facciamo riferimento, su 222 traumi acuti di ginocchio, avvenuti per incidenti sportivi e non, quelle del LCP sono il 38% (85 su 222). Quelle isolate rappresentano solamente il 3,5% (3 di 835), mentre la quota restante è data da lesioni associate ad altre lesioni legamentose del ginocchio. Lo studio radiologico prevede l’utilizzo di una radiografia sotto stress in cassetto posteriore con l’utilizzo del telos (foto1) e la risonanza magnetica nucleare (foto 2). Foto 1 Foto 2 – 16 – Volume n. 38 - Anno 2015 TECNICA CHIRURGICA Il trattamento chirurgico che abbiamo utilizzato nella ricostruzione del LCP nei casi lesione isolata prevede l’utilizzo dei tendini gracile e semitendinoso quadruplicati con una fissazione a sospensione prossimalmente (endobutton) ed una vite riassorbibile distalmente (Biosure HA). Previa piccola incisione cutanea antero-mediale all’altezza della tuberosità tibiale anteriore di circa 2,5 cm, si esegue il prelievo dei tendini gracile e semitendinoso con stripper chiuso. Successivamente si effettua l’artroscopia per visualizzare eventuali lesioni accessorie intra articolari. La tecnica chirurgica è resa più difficoltosa per la presenza del LCA intatto, che riduce la finestra di visualizzazione dell’inserzione distale del LCP. Il crociato anteriore alla prima visualizzazione appare deflesso in quanto generalmente il ginocchio si trova già in cassetto posteriore (foto 3). È necessario dover rimuovere il residuo di LCP per poter accedere posteriormente con l’artroscopio, ma risulta ancor più importante eseguire un accesso postero-mediale per la visualizzazione posteriore (foto 4). Tale accesso permette di eseguire in tutta sicurezza la pulizia dei residui di LCP e del setto sinoviale posteriore, potendo scendere anche di 1-2 cm al di sotto del piatto tibiale e servirà, successivamente, per dare un effetto carrucola al neo LCP, quando transiterà all’interno dei tunnel ossei per evitare il cosiddetto “killer loop”. Foto 3 Foto 4 – 17 – Volume n. 38 - Anno 2015 Si esegue il tunnel tibiale con estrema cautela, sotto controllo di apparecchio di brillanza, con il compasso posto ad un angolo di 60°. Risultano fondamentali gli strumenti atti a proteggere il fascio vascolo- nervoso, avendo sempre ben presente i potenziali rischi correlati11. L’half tunnel femorale viene realizzato invertendo i portali, con la telecamera sul versante antero-mediale e la fresa viene fatta passare attraverso il portale antero-laterale. Il punto di repere è il residuo prossimale del LCP, generalmente 8mm posteriormente alla cartilagine anteriore e 4 mm distalmente dalla cartilagine superiore (con ginocchio flesso a 90°). Un filo di seta, che servirà da shuttle per il passaggio del neolegamento, viene fatto passare attraverso il tunnel tibiale verso quello femorale. Lo step successivo, nonché il più delicato, è il passaggio del neo LCP all’interno dei tunnels sotto osservazione artroscopica. Si va, infine, a stabilizzare distalmente con vite riassorbibile in idrossiapatite calcica. Nel post operatorio preferiamo immobilizzare l’arto interessato con tutore in estensione che il paziente manterrà per un mese circa. Nei primi giorni consigliamo l’uso di un cuscino antigravitario al di sotto della tibia. La kinesi passiva inizia in quindicesima giornata, con l’obiettivo della flessione a 90° entro i primi 30 giorni. Dopo un mese il paziente potrà caricare completamente sull’arto operato, si rimuoverà il tutore e si darà indicazione di riprendere la completa flessione del ginocchio. MATERIALI E METODI Dal 2011 ad oggi abbiamo eseguito presso il nostro Istituto 10 interventi di ricostruzione isolata del LCP. I pazienti, tutti soggetti sportivi, sono 8 uomini e 2 donne. In otto casi si trattava di lesioni croniche, mentre in due casi la lesione era acuta. Due di questi pazienti presentavano lesioni meniscali associate, in entrambi si trattava del corno posteriore del menisco laterale. Il follow up è durato in media 3 anni (range di controllo 1-5 anni). La valutazione dei risultati clinici al follow-up è stata eseguita mediante la scheda IKDC (International Knee Documentation Committee). RISULTATI Il risultato medio ottenuto è 90. Non abbiamo avuto complicazioni post operatorie. Il protocollo riabilitativo è stato applicato correttamente su tutti i pazienti. La ripresa delle normali attività quotidiane, quali salire e scendere le scale, guidare la macchina, deambulare senza stampelle, è avvenuta al secondo mese circa. La ripresa dell’attività sportiva agonistica è iniziata dall’ottavo mese post operatorio. CONCLUSIONI La lesione isolata del LCP è un evento molto raro sia nei soggetti sportivi che negli individui sedentari. Ancora più rara è la soluzione chirurgica, perché spesso i pazienti non avvertono una instabilità soggettiva, riuscendo a compensare il deficit con gli stabilizzatori – 18 – Volume n. 38 - Anno 2015 secondari. Il trattamento chirurgico è riservato a quegli individui, generalmente sportivi che, nonostante il trattamento conservativo, non siano riusciti ad ottenere un buon grado di funzionalità del ginocchio o che lamentino sintomi dolorosi. La tecnica chirurgica da noi utilizzata si avvale dell’uso dei tendini gracile e semitendinoso quadruplicati, con fissazione a sospensione prossimale e vite ad interferenza riassorbibile distalmente. E’ una tecnica delicata, non priva di rischi, esteticamente gradevole, rispettosa dell’apparato estensore. La riabilitazione riveste un ruolo fondamentale per il successo dell’intervento chirurgico, sotto ogni aspetto. Sono, altresì, molto importanti la collaborazione e la motivazione del paziente, che devono essere valutate accuratamente dal chirurgo ortopedico prima di consigliare il trattamento chirurgico, perché sono elementi che contribuiscono al raggiungimento di un buon risultato finale. BIBLIOGRAFIA 1. Girgis F.G., Marshall et al. “The cruciate ligaments of the knee joint. Anatomical, functional and experimental analysis”. Clin. Orthop. 1975; 106:216-231. 2. Myiasaka K.C. D.D. “The incidence of knee ligament injuries in trauma patients”. Arthroscopy 1993;9:291-294. 3. 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Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Introduzione: La lesione dell’apparato estensore rappresenta una complicanza rara ma drammatica dopo la protesi totale di ginocchio (PTG). Sia la riparazione diretta che la ricostruzione con autotrapianto hanno fornito risultati funzionali scadenti. Gli allograft di apparato estensore completo (EMA) e di tendine d’Achille (ATA) hanno fornito buoni risultati clinico-funzionali ai follow-up a medio-lungo termine. Gli Autori riportano la propria esperienza nella ricostruzione delle lesioni croniche dell’apparato estensore dopo PTG con allotrapianti di EMA ed ATA, evidenziando alcuni aspetti tecnici cruciali per prevenirne il fallimento. Metodi: trentanove ricostruzioni di apparato estensore con allotrapianto sono state effettuate per rottura dopo PTG in trentotto pazienti (15 maschi e 23 femmine) con un’età media di 70 anni, i quali sono stati valutati ad un follow-up medio di 4,5 anni (range, 6 mesi a 10 anni). In trentadue casi è stato impiegato un EMA, mentre in sette casi è stato utilizzato un ATA. I pazienti sono stati valutati per range di movimento e grado di soddisfazione. Sono stati considerati fallimenti i casi in cui è stato riscontrato un extensor lag >20° ed i casi che hanno richiesto la revisione o la rimozione dell’allotrapianto. Risultati: La flessione media post-operatoria è risultata di 104° (75-130°) e l’estensione completa attiva è stata raggiunta in ventitre pazienti (58,9%). Tredici (33.3%) pazienti hanno manifestato un extensor lag, pari a 5° in sei casi e a 10° in sette casi. Il livello di soddisfazione è risultato ottimo in ventisei casi (66,6%), buono in dieci (25,6%) e scarso in tre (7,7%). Questi tre casi sono stati considerati fallimenti, di cui due EMA per ri-rottura a livello della tuberosità tibiale, ed un ATA per reinfezione, trattata con artrodesi. Conclusioni: la ricostruzione con allotrapianto dell’apparato estensore dopo PTG rap– 20 – Volume n. 38 - Anno 2015 presenta una soluzione complessa, ma valida. I nostri risultati a medio-lungo termine sono incoraggianti, ma disciplina nella tecnica chirurgica e rispetto delle indicazioni sono di fondamentale importanza per il successo clinico. ABSTRACT Introduction: Extensor mechanism rupture is a rare but dramatic complication after total knee arthroplasty (TKA). Both direct repair and autograft have provided poor functional results. Extensor mechanism allograft (EMA) and Achilles tendon allograft (ATA) have yielded mixed results in functional and clinical outcomes at medium and long-term follow-up.We report our clinical experience in reconstruction of chronic extensor mechanism using EMA and ATA, outlining some critical concepts and technical tricks needed to prevent failure. Methods: thirty-nine consecutive extensor mechanism allograft reconstructions were performed in thirty-eight patients (15 male and 23 female) with a mean age of 70 years who were followed for a mean time of 4.5 years (range, 6 months to 10 years). A full EMA was used in thirty-two cases, whereas an ATA was employed in seven cases. Patients were evaluated at various follow-up taking into account the range of motion and the degree of satisfaction. Reconstructions were considered failures in case of extensor lag of >20° or if a revision or removal of the allograft was needed Results: The mean post-operative flexion was 104° (75-130°) and full active extension was achieved in twenty-three patients (58.9%). Thirteen (33.3%) patients had a moderate extensor lag, equal to 5° in six cases and to 10° in seven cases. Patient satisfaction was high in twenty-six (66.6%), good in ten (25.6%) and poor in three (7.7%) patients. These three cases were considered as clinical failure, two of which for a re-rupture of EMA at the tubercle level, and one ATA for a re-infection that led to an arthrodesis. Conclusions: Allograft reconstruction for extensor mechanism failure following TKR is a complex but sound solution. Our findings at mid-to-long term follow-up are encouraging, but discipline in surgical technique and respect of indications are mandatory for satisfactory outcomes. INTRODUZIONE La lesione dell’apparato estensore rappresenta una complicanza rara ma drammatica dopo intervento di protesi totale di ginocchio (PTG). L’incidenza riportata in letteratura oscilla tra lo 0.2 e il 2.5%1,2,3. Le lesioni del tendine quadricipitale, le fratture della rotula e le lesioni o avulsioni del tendine rotuleo sono le cause più frequenti di rottura dell’apparato estensore dopo PTG4. Il più delle volte la lesione è di tipo cronico, su base degenerativa ed spesso il risultato di molteplici esposizioni chirurgiche o di processi infettivi4. Sia la riparazione diretta1,2,5,6 che i trapianti autologhi di semitendinoso e fascia lata2,3,7,10, hanno fornito risultati insoddisfacenti, vista la scarsa qualità dei tessuti autologhi, spesso compromessi da procedure chirurgiche pregresse3. L’utilizzo di allotrapianto di apparato estensore completo (EMA), costituito da tendine quadricipitale-rotula-tendine rotuleo-tuberosità tibiale, come soluzione ricostruttiva per queste lesioni dopo PTG, è stato descritto in origine da Emerson et al.11. La tecnica originale prevedeva un tensionamento dell’allotrapianto che permettesse il raggiungimento di 60° di flessione intra-operatoria11. Dopo risultati iniziali – 21 – Volume n. 38 - Anno 2015 incoraggianti, i follow-up a lungo temine evidenziarono numerosi fallimenti12,13. Successive modifiche tecniche, in particolar modo il tensionamento del graft in massima estensione, hanno consentito di ottenere notevoli miglioramenti negli outcome clinico-funzionali14,15 ed hanno fornito evidenze istologiche di integrazione nei tessuti ospiti16. Ulteriori studi clinici hanno contribuito a proporre l’allotrapianto di tendine d’Achille con tuberosità calcaneare (ATA) quale valida alternativa17,19. MATERIALI E METODI Dal luglio 2005 al luglio 2015 abbiamo effettuato 47 ricostruzioni di apparato estensore per rotture croniche dopo intervento di PTG. In 39 casi (38 pazienti) la ricostruzione è stata effettuata con allotrapianto, EMA in 32 casi e ATA in 7 casi. In 24 casi la rottura è stata di tipo meccanico, in 15 casi è stata di tipo infetto; in 36 casi la procedura è stata associata a revisione dell’impianto protesico, mentre in 3 casi la ricostruzione dell’apparato estensore è stata effettuata come procedura isolata. L’età media dei pazienti (15 maschi e 23 donne) è stata di 70 anni (41-83 anni). Gli interventi pregressi sono risultati in media 2.3. Il follow-up medio è stato di 4,5 aa (6 mesi10 anni) (Tab.1). Tabella 1. Caratteristiche dei pazienti Età Sesso Tipi di rottura Revisioni protesiche associate Ricostruzioni isolate Media interventi chirurgici pregressi 70 (41-83) 23 F; 15 M Meccaniche 24 (61.5%) Infette 15 (38.5%) 36 (92.3%) 3 (7.7%) 2.3 Criteri di scelta dell’allotrapianto La scelta del trapianto è avvenuta secondo specifici criteri (Tab. 2). Abbiamo utilizzato un EMA nei casi con comminuzione o scomparsa della rotula e/o esteso danno del tendine quadricipitale. Abbiamo, invece, preferito un ATA per lesioni del tendine rotuleo, con rotula non compromessa. Tabella 2. Criteri di scelta dell’allotrapianto Sede della lesione Stato della rotula EMAATA Prossimale Distale Non importante Intatta – 22 – Volume n. 38 - Anno 2015 Tecnica chirurgica In caso di ricostruzione con EMA, l’approccio chirurgico è stato effettuato mediante artrotomia anteriore centrale. La rotula è stata divisa in due longitudinalmente con sega oscillante e successivamente enucleata. L’alloggio a livello della tuberosità tibiale ricevente è stato preparato mediante un’osteotomia prossimale obliqua sul piano sagittale di circa 40° (“a coda di rondine”), tale da ricevere in un solido incastro la bratta tibiale del graft, sulla quale è stato effettuato un taglio smusso (fig. 1A-B). La fissazione tibiale è stata realizzata con cerchiaggi metallici e/o viti autofilettanti (fig. 1C). Prossimalmente, sia il trapianto che il quadricipite residuo sono stati imbastiti con suture alla Krackow, medialmente e lateralmente, utilizzando fili Ethibond (Ethicon, Johnson & Johnson, Somerville, NJ) #5. Dopo aver fatto passare i capi delle suture del trapianto attraverso due interruzioni di circa 2 cm create a livello della giunzione mio-tendinea del tendine quadricipitale, è stata effettuata la sutura delle porzioni sovrapposte di tessuto autologo e di trapianto mediante Ethibond #2, trazionando, con l’arto in massima estensione, distalmente le suture del quadricipite e prossimalmente le suture dell’allotrapianto. Foto 1A Foto 1B Foto 1C Figura 1. Fissazione distale dell’EMA. Preparazione Pr dell’alloggio a livello della tuberosità tuber tibiale mediante osteotomia prossimale pr inclinata sul piano sagittale di circa cir 40° (A). Solido incastro incastr della bratta tibiale del graft, sulla quale è stato effettuato un taglio smusso (B). Controllo Contr RX: da notare notar la fissazione mista con vite e cerchiaggi (C). – 23 – Volume n. 38 - Anno 2015 Infine, i due capi di sutura del trapianto sono stati uniti tra loro a rinforzare il punto di giunzione prossimale ed i tessuti residui sono stati suturati a coprire il trapianto, in modo da minimizzarne l’esposizione sottocutanea (fig. 2). Nelle ricostruzioni con ATA, dopo aver realizzato la fissazione della tuberosità calcaneare a livello tibiale con le medesime modalità descritte per l’EMA, la tecnica personale degli Autori prevede la divisione in due fasci della porzione tendinea del trapianto. Il primo fascio viene fatto passare all’interno di un tunnel da 6-8 mm eseguito nella rotula in direzione caudocraniale, recuperato prossimalmente attraverso un’interruzione del tendine quadricipitale e suturato ad esso mentre viene tensionato in massima estensione. Il secondo fascio viene, invece, suturato medialmente lungo la capsulotomia, ad esercitare un’azione anti-tiltante sulla rotula (fig. 3). Foto 2: Fissazione prossimale dell’EMA. Sutura delle porzioni sovrapposte di trapianto e tessuto ospite, mentre due assistenti trazionano distalmente i monconi di quadricpite residuo e prossimalmente il tendine quadricipitale del graft, con l’arto in massima estensione. Foto 3: Sutura dei due fasci tendinei dell’ATA, prossimalmente al tendine quadricipitale dell’ospite e medialmente lungo la capsulotomia. – 24 – Volume n. 38 - Anno 2015 RISULTATI La flessione media nel post-operatorio è risultata di 104° (75°-130°). Il recupero dell’estensione attiva massima si è avuto in ventitre casi (58.9%). Tredici pazienti (33.3%) hanno manifestato un extensor lag, pari a 5° in sei casi e a 10° in sette casi. Il livello di soddisfazione è risultato ottimo in ventisei (66.6%), buono in dieci (25.6%) e scarso in tre (7.7%) casi (Tab. 3). Questi ultimi tre casi corrispondono ad altrettanti fallimenti, dei quali due EMA per ri-rottura a livello della tuberosità tibiale ed un ATA per re-infezione che è stata trattata con artrodesi. Tabella 3. Risultati clinico-funzionali Flessione media Recupero massima estensione attiva Extensor lag residuo Fallimenti Livello di soddisfazione 104° (75°-130°) 23/39 casi (58.9%) 13/39 casi (33.3%) 3/39 casi (7.7%) Ottimo 26 casi (66.6%); buono 10 casi (25.6%); scarso 3 casi (7.7%) DISCUSSIONE Sebbene la rottura dell’apparato estensore sia una complicanza rara dopo protesi totale di ginocchio, rappresenta un evento drammatico, determinando deficit della deambulazione e grave instabilità articolare. Le diverse tecniche di riparazione descritte in letteratura hanno fornito risultati variabili e l’ideale metodo di trattamento resta ancora da definirsi20. La ricostruzione con allotrapianto rappresenta una tecnica complessa ma valida. Nella casistica presentata i risultati ottenuti ad un follow-up a medio-lungo termine si sono rivelati incoraggianti, sia in termini funzionali con il miglioramento dell’extensor lag e il mantenimento della flessione, sia in termini soggettivi, con l’elevato grado di soddisfazione dei pazienti. Se confrontato con studi precedenti su ricostruzione mediante allograft, i nostri risultati mostrano bassi tassi di fallimento. Ciò è dovuto sia al rispetto delle indicazioni nella scelta del trapianto sia all’affinamento ed alla standardizzazione della tecnica chirurgica. La fissazione prossimale realizzata mediante tensionamento in massima estensione rappresenta un momento cruciale per il successo dell’intervento. Burnett et al.15 in uno studio di comparazione tra le due tecniche di pensionamento, originariamente descritte da Emerson et al.11 e da Nazarian e Booth14, riportano risultati clinico-funzionali fallimentari in tutti i casi in cui il trapianto era stato tensionato a consentire 60° di flessione intraoperatoria (extensor lag medio di 59°, HSS score medio di 52 punti), contro un tasso di successo del 100% nel gruppo di pazienti in cui il trapianto era stato tensionato in massima estensione senza concedere la flessione intraoperatoria (extensor lag medio di 4.3°, HSS score medio di 88 punti)15. Altro elemento di tecnica di notevole importanza è rappresentato dalla fissazione distale, che deve essere realizzata in modo da garantire un solido incastro tra la bratta tibiale del graft e l’alloggio nella tuberosità tibiale ricevente, e rafforzata con cerchiaggi metallici o viti autofilettanti. L’adozione di un protocollo di riabilitazione postoperatoria che preveda l’immobilizzazione dell’arto in estensione con carico sfiorante per 6-8 settimane contribuirà all’integrazione del trapianto senza compromettere il recupero della flessio– 25 – Volume n. 38 - Anno 2015 ne, che avverrà successivamente per elongazione sarcomerica21. Alcuni Autori riportano risultati entusiasmanti con l’utilizzo di trapianti sintetici22,23. Questi presentano alcuni indubbi vantaggi, quali l’elevata reperibilità, la maneggevolezza e la facilità di impianto nei tessuti ospiti. Tuttavia, nella nostra esperienza, i pazienti trattati con ricostruzione mediante trapianti sintetici hanno riportato una maggior incidenza di extensor lag rispetto a quelli trattati con allograft. Per questo motivo riserviamo l’applicazione dei sintetici solo ai casi di lesione inaspettata o di necessità di rinforzo dell’allograft. CONCLUSIONI L’utilizzo degli allotrapianti nella ricostruzione dell’apparato estensore dopo PTG rappresenta una soluzione chirurgica complessa ma valida. Rispetto delle indicazioni e disciplina nella tecnica chirurgica sono gli elementi fondamentali per il successo clinico. La funzionalità degli allotrapianti non sembra deteriorarsi al follow-up a medio-lungo termine. Studi comparativi potrebbero essere utili a confrontare i due trapianti, pur restando peculiari le rispettive indicazioni. BIBLIOGRAFIA 1. Lynch A.F., Rorabeck C.H., Bourne R.B. “Extensor mechanism complications following total knee arthroplasty”. The Journal of Arthroplasty 1987;2:135-40. 2. Rand J.A., Morrey B.F., Bryan R.S. “Patellar tendon rupture after total knee arthroplasty”. Clinical orthopaedics and related research 1989:233-8. 3. Cadambi A., Engh G.A. “Use of a semitendinosus tendon autogenous graft for rupture of the patellar ligament after total knee arthroplasty. A report of seven cases”. 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Jaureguito J.W., Dubois C.M., Smith S.R., Gottlieb L.J., Finn H.A. “Medial gastrocnemius transposition flap for the treatment of disruption of the extensor mechanism after total knee arthroplasty”. The Journal of bone and joint surgery American volume 1997;79:866-73. 10. Wilson F.C., Venters G.C. “Results of knee replacement with the Walldius prosthesis: an interim report”. Clinical orthopaedics and related research 1976:39-46. 11. Emerson R.H. Jr., Head W.C., Malinin T.I. “Reconstruction of patellar tendon rupture after total knee arthroplasty with an extensor mechanism allograft”. Clinical orthopaedics and related research 1990:154-61. 12. Emerson R.H. Jr., Head W.C., Malinin T.I. “Extensor mechanism reconstruction with an allograft after total knee arthroplasty”. Clinical orthopaedics and related research 1994:79-85. 13. Leopold S.S., Greidanus N., Paprosky W.G., Berger R.A., Rosenberg A.G. “High rate of failure of allograft reconstruction of the extensor mechanism after total knee arthroplasty”. The Journal of bone and joint surgery American volume 1999;81:1574-9. 14. Nazarian D.G., Booth R.E. Jr. “Extensor mechanism allografts in total knee arthroplasty”. Clinical orthopaedics and related research 1999:123-9. 15. Burnett R.S., Berger R.A., Paprosky W.G., Della Valle C.J, Jacobs J.J., Rosenberg A.G. “Extensor mechanism allograft reconstruction after total knee art.hroplasty. A comparison of two techniques”. The Journal of bone and joint surgery American volume 2004;86-A:2694-9. 16. Burnett R.S., Fornasier V.L., Haydon C.M., Wehrli B.M., Whitewood C.N., Bourne R.B. “Retrieval of a well-functioning extensor mechanism allograft from a total knee arthroplasty. Clinical and histological findings”. The Journal of bone and joint surgery British volume 2004;86:986-90. 17. Barrack R.L, Stanley T., Allen Butler R. “Treating extensor mechanism disruption after total knee arthroplasty”. Clinical orthopaedics and related research 2003:98-104. 18. Crossett L.S., Sinha R.K., Sechriest V.F., Rubash H.E. “Reconstruction of a ruptured patellar tendon with achilles tendon allograft following total knee arthroplasty”. The Journal of bone and joint surgery American volume 2002;84-A:1354-61. 19. Diaz-Ledezma C., Orozco F.R., Delasotta L.A., Lichstein P.M., Post Z.D., Ong A.C. “Extensor mechanism reconstruction with achilles tendon allograft in TKA: results of an abbreviate rehabilitation protocol”. The Journal of Arthroplasty 2014;29:1211-5. 20. Brown N.M., Murray T., Sporer S.M., Wetters N., Berger R.A., Della Valle C.J. “Extensor mechanism allograft reconstruction for extensor mechanism failure following to– 27 – Volume n. 38 - Anno 2015 tal knee arthroplasty”. The Journal of bone and joint surgery American volume 2015;97:279-83. 21. Burnett R.S., Berger R.A., Della Valle C.J., et al. “Extensor mechanism allograft reconstruction after total knee arthroplasty”. The Journal of bone and joint surgery American volume 2005;87 Suppl 1:175-94. 22. Browne J.A., Hanssen A.D. “Reconstruction of patellar tendon disruption after total knee arthroplasty: results of a new technique utilizing synthetic mesh”. The Journal of bone and joint surgery American volume 2011;93:1137-43. 23. Dominkus M., Sabeti M., Toma C., Abdolvahab F., Trieb K., Kotz R.I. “Reconstructing the extensor apparatus with a new polyester ligament”. Clinical orthopaedics and related research 2006;453:328-34. – 28 – Volume n. 38 - Anno 2015 IL DISTACCO EPIFISARIO DELL’OMERO DISTALE: DIAGNOSI CLINICO-RADIOGRAFICA DIFFICILE? EPHIPHYSEAL SEPARATION OF THE DISTAL HUMERUS: A DIFFICULT CLINICAL RADIOLOGICAL DIAGNOSIS? G. BAUMGARTNER, S. PELLE, G. CORSI, M. ALMBERGER Dipartimento di Emergenza e Accettazione - Policlinico Umberto I - Roma Parole chiave: trauma del gomito, distacco epifisario, omero distale, Salter Harris tipo 2. Key words: elbow lesions, epiphyseal separation, distal humerus, Salter Harris type 2. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Le fratture dell’omero distale nei bambini sono estremamente frequenti, rappresentando circa l’85% di tutte le lesioni del gomito nei pazienti pediatrici1. La peculiare anatomia radiologica del gomito in età pediatrica e le difficoltà riscontrate nel corso della visita di un bambino sofferente creano, spesso, un dilemma diagnostico per il medico. Le fratture sovracondiloidee, le fratture del condilo laterale o dell’epitroclea sono il risultato più comune di un trauma del gomito in un bambino. Il distacco epifisario dell’omero distale è considerato una lesione rara; tuttavia può essere più frequente di quanto si consideri. Può spesso essere confuso per una lussazione del gomito; solo una attenta valutazione degli esami radiografici conduce alla diagnosi di distacco epifisario. Gli Autori presentano due casi di lesione dell’epifisi distale dell’omero in cui è stato effettuato un errore diagnostico. E’ inoltre proposto un semplice reperto radiografico che in combinazione ai tradizionali segni può essere utile nella valutazione di un gomito doloroso in un bambino. ABSTRACT Distal humeral fractures in children are extremely common, making up approximately 85% of all elbow fractures in pediatric patients. The unique radiographic anatomy of the pediatric elbow and the difficulties in clinical examination of a suffering child often could create diagnostic dilemma to the physician. Supracondylar fractures, lateral condyle fractures and medial epicondyle fractures are the most common lesions of the elbow in children. – 29 – Volume n. 38 - Anno 2015 Epiphyseal separation of the distal humerus is considered to be an infrequent event. However it could be a much more common lesion than is appreciated. It could be frequently misdiagnosed as a dislocated elbow; only a careful evaluation of the radiographs lead to the diagnosis of transepiphyseal injuries. Two cases of misdiagnosed distal humeral epiphyseal separation are presented. In addition to traditional radiological sign, the Autors propose a simple radiological mark useful in pediatric painful elbow evaluation. INTRODUZIONE La prima descrizione di distacco epifisario dell’omero distale è stata attribuita a Gurit nel 18182. Nel 1850, RW Smith fornisce una descrizione più completa della lesione3. Successivamente, Poland4 nel 1989 e Ashhurst5 nel 1910 pubblicano separatamente due casistiche che comprendono 6 lesioni ciascuna. Tra il 1950 ed il 1980 Delee e collaboratori riportano una serie di 13 casi e forniscono, inoltre, una classificazione in tre gruppi dei distacchi epifisari dell’omero distale6. Gruppo A (età: 0-9 mesi): il nucleo di ossificazione del condilo omerale laterale non è visibile, il coinvolgimento metafisario è assente o minimo. Gruppo B (età: 7 mesi - 3 anni): il nucleo di ossificazione del condilo omerale laterale è visibile, è presente un piccolo frammento metafisario. Gruppo C (età: 3-7 anni ): è ben evidente il nucleo del condilo ed è evidente un più ampio interessamento metafisario. La letteratura successiva sottolinea quali siano le difficoltà nella diagnosi di questa rara lesione7,8. I distacchi dell’epifisi distale dell’omero non sono semplici da identificare sui radiogrammi. I reperi radiografici più comunemente impiegati nella valutazione di un trauma del gomito in età pediatrica sono la linea radio-capitellare e la linea omerale anteriore nella proiezione laterale; entrambi, tuttavia, non risultano utili nella identificazione del distacco epifisario dell’omero distale. I distacchi di tipo B e C devono essere differenziati dalle fratture del condilo omerale. I distacchi epifisari mostrano, sui radiogrammi in proiezione antero-posteriore, una scomposizione postero-mediale del complesso radio-ulnare rispetto alla diafisi omerale. Nelle lussazioni o nelle fratture del condilo laterale, il complesso radio-ulnare subisce una scomposizione laterale9. Se non attentamente analizzate, le immagini radiografiche possono essere ingannevoli, sopratutto nei bambini al di sotto dei 12 mesi. Se i reperti risultano ambigui, l’ecografia può essere uno strumento utile nella valutazione del trauma del gomito nei pazienti pediatrici10. L’artrografia può essere impiegata al fine di valutare l’integrità dell’articolazione. Tuttavia non può essere raccomandata come indagine di routine a causa del rischio di infezione e dell’invasività della procedura11. La Risonanza Magnetica consente di visualizzare direttamente la cartilagine ed i tessuti molli e di evidenziare il distacco epifisario. D’altra parte è un esame costoso, non facilmente disponibile, che spesso richiede un support anestesiologico nei pazienti pediatrici12. – 30 – Volume n. 38 - Anno 2015 CASE REPORTS Caso 1 – W.P.S. Un bambino di 1 anno è condotto al Dipartimento di Emergenza dai genitori a causa di dolore e tumefazione al gomito sinistro a seguito di una caduta. All’esame, è evidente una marcata tumefazione del gomito sinistro. Il bambino si mostra riluttante nel muovere il gomito a causa del dolore. Gli esami radiografici richiesti sono stati interpretati come positivi per una frattura dell’epicondilo mediale. L’arto è stato immobilizzato in una doccia gessata per 20 giorni. A causa del deterioramento dell’apparecchio, il bambino è stato nuovamente condotto a visita dopo 10 giorni. I nuovi radiogrammi eseguiti hanno mostrato il distacco epifisario dell’omero distale. Non è stato eseguito alcun tentativo di riduzione ed è stata applicata una nuova immobilizzazione. Caso 2 – M.S. Un bambino di 8 mesi accede al Dipartimento di Emergenza a causa di dolore al gomito sinistro. I genitori non riferiscono alcun trauma. All’ispezione il bambino si presenta con gomito in semiflessione e avambraccio pronato. Una marcata tumefazione è evidente a livello del gomito. Ogni tentativo di mobilizzazione del gomito suscita vivo dolore. I radiogrammi richiesti sono interpretati come normali. Dopo una manovra di riduzione, nel sospetto di una pronazione dolorosa, il bambino è dimesso a domicilio. Dopo 3 giorni, a causa di gonfiore e dolore persistente il bambino è nuovamente condotto a visita; nell’ipotesi di artrite settica, viene effettuata una prescrizione di terapia antibiotica. Infine, il bambino è visitato per la terza volta dopo 5 giorni; i radiogrammi, in proiezione antero-posteriore, laterale ed obliqua, rivelano un interessamento metafisario sul versante laterale associato ad una evidente alterazione del normale rapporto tra il complesso radio/ ulna e l’omero distale. Il bambino viene ricoverato; la risonanza magnetica conferma la diagnosi di distacco epi– 31 – Volume n. 38 - Anno 2015 Foto 3 Foto 4 Foto 5 fisario. A causa della presentazione tardiva, è operato un tentativo di manovra di riduzione sotto anestesia che non sortisce la riduzione della episifi omerale. L’arto viene immobilizzato per 3 settimane. Al medio follow-up (18 mesi), il bambino presenta una deviazione del gomito in varo con un’articolarità completa. DISCUSSIONE L’epifisi omerale distale nei bambini è rappresentata da un’ampia struttura cartilaginea. Ciò è considerata come una predisposizione anatomica alla separazione traumatica a livello della cartilagine di accrescimento. La caduta sulla mano atteggiata a difesa è il meccanismo traumatico più comune; il distacco è provocato da una trauma in varo che genera una forza diretta posteriormente13. Il distacco epifisario dell’omero distale è anche descritto come lesione ostetrica: un alto sospetto diagnostico deve dunque essere posto nella valutazione di un neonato con arto ipomobile14. Deve, inoltre, essere considerata anche l’eziologia non accidentale della lesione: l’identificazione di un distacco epifisario dell’omero distale in un bambino può indicare la possibili– 32 – Volume n. 38 - Anno 2015 tà di abuso, particolarmente nei casi in cui non siano fornite spiegazioni circa le circostanze del trauma15. La diagnosi è essenzialmente clinica e radiografica: la corretta interpretazione dei radiogrammi permette di distinguere il distacco epifisario dalla lussazione posteriore o dalla frattura del condilo laterale. Nei casi in cui la presentazione sia tardiva, può essere identificata una vivace reazione periostale in linea con l’epifisi scomposta. Entrambi i casi presentati confermano quanto possa essere difficile riconoscere questa rara lesione. In particolare, gli Autori intendono rimarcare come il simultaneo interessamento scheletrico metafisario (Salter Harris tipo 2) possa essere confondente nel formulare una corretta diagnosi. Nel primo caso, la frattura metafisaria è stata interpretata erroneamente come una più comune frattura del condilo omerale laterale. Nel secondo caso, il frammento scheletrico sul versante mediale dell’omero è stato valutato come frattura dell’epitroclea, sebbene il nucleo di accrescimento dell’epicondilo mediale appaia solo dopo il nucleo di accrescimento del condilo laterale. Risulta infatti indispensabile la conoscenza dell’ordine di comparsa dei nuclei di accrescimento del gomito nella valutazione del trauma in età pediatrica. Gli Autori propongono un semplice modo per identificare il distacco epifisario, analizzando la proiezione antero-posteriore, considerando le difficoltà nell’ottenere una vera proiezione laterale in un bambino con un trauma del gomito. Nella proiezione antero-posteriore, possono essere considerate la linea radio-capitellare, che risulta normale, ed una linea che, congiungendo il centro della diafisi omerale ed il centro della fossetta olecranica, passa attraverso la metafisi ulnare prossimale. Nel distacco epifisario tale linea risulta invece passare tra la metafisi radiale e la metafisi ulnare se non addirittura attraverso la metafisi radiale. CONCLUSIONI Il distacco epifisario dell’omero distale è una lesione infrequente, spesso non riconosciuta alla presentazione iniziale. La lesione deve essere distinta dalla lussazione del gomito, dalla frattura del condilo laterale e dalla frattura sovracondiloidea. L’ecografia e la Risonanza Magnetica possono essere utili nella diagnosi, ma l’impiego di queste tecniche di imaging presenta numerose limitazioni nella valutazione del trauma pediatrico. La consapevolezza dell’esistenza di questa lesione e la conoscenza dell’anatomia radiografica di base, congiunta all’uso di semplici reperi radiografici, rappresentano la chiave per ottenere una diagnosi corretta e tempestiva. BIBLIOGRAFIA 1. Shrader M.W. (2008) “Pediatric supracondylar fractures and pediatric physeal elbow fractures”. Orthop Clin North Am 39(2):163-71. – 33 – Volume n. 38 - Anno 2015 2. Stimson L.A. (1883) “A Treatise on Fractures”. Lea and Febiger, Philadelphia. 3. Smith R.W. (1850) “Observations on disjunction of the lower epiphysis of the humerus”. Quart. J. Med. Sci 9: 63-74. 4. Poland J. (1898) “Traumatic Separation of the Epiphysis”. Smith, London. 5. Ashhurst APC. (1910) “An Anatomical and Surgical Study of Fractures of the Lower End of the Humerus”. Lea and Febiger, Philadelphia. 6. Delee J.C., Wilkins K.E., Rogers L.F,. Rockwood C.A. (1980) “Fracture separation of the distal humeral epiphysis”. J. Bone Joint Surg. Am 62: 46-51. 7. Peterson H.A. (1992) “Physeal injuries of the distal humerus”. Orthopaedics 15: 793-808. 8. Gilbert S.R., Conklin M.J. (2007) “Presentation of distal humerus physeal separation”. Pediatr. Emerg. Care 23(11):816-9. 9. Sen R.K., Bendi G.S., Nagi O.N. (1998) “Fracture epiphyseal separation of the distal humerus”. Australasian Radiology 42, 271-274. 10. Rogers L.F., Poznanski A.K. (1994) “Imaging of epiphyseal injuries”. Radiology 191: 297-308. 11. Akbarnia B.A., Silberstein M.J., Rende R.J., Graviss E.R., Luisiri A. (1986) “Arthrography in the diagnosis of fractures of the distal end of humerus in infants”. J. Bone Joint Surg Am 68:599-602. 12. Nimkin K., Kleinman P.K., Teeger S., Spevak M.R. (1995) “Distal humeral physeal injuries in child abuse: MR imaging and ultrasonography findings”. Pediatr. Radio. 25: 562-5. 13. Holda M.E., Manoli A., Lamont R.L. (1980) “Epiphyseal separation of the distal end of the humerus with medial displacement”. J. Bone Joint Surg. Am 62: 52-7. 14. Barret W.P., Almquist E.A., Staheli L.T. (1984) “Fracture separation of the distal humeral epiphysis in the newborn”. J. Pediatr. Orthop 4:617-9. 15. Hansen M., Weltzien A., Blum J., Botterill N.J, Rommens P.M. (2008) “Complete distal humeral epiphyseal separation indicating a battered. child syndrome: a case report”. Arch. Orthop. Trauma Surg 128:967-972. – 34 – Volume n. 38 - Anno 2015 FRATTURE DELL’OMERO PROSSIMALE: OSTEOSINTESI CON PLACCA A STABILITA’ ANGOLARE PROXIMAL HUMERAL FRACTURES: LOCKING PLATE OSTEOSYNTHESIS M. DE CUPIS, M. PALMACCI, M. RIONERO, G. GIORGIANNI, V. DE CUPIS Istituto “ICOT - Marco Pasquali” - Latina Parole chiave: fratture omero prossimale, osteosintesi, placca a stabilità angolare, necrosi avascolare. Key words: proximal humeral fractures, osteosynthesis, locking plate, avascular necrosis. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Le placche a stabilità con speciale configurazione per la regione anatomica dell’omero prossimale sono state introdotte recentemente per sopperire alle difficoltà incontrate nella stabilizzazione delle fratture dell’omero prossimale. Lo scopo di questo lavoro è quello di fornire indicazioni sul loro utilizzo, valutare i risultati funzionali a breve e medio termine e le comuni complicanze associate a questa tecnica chirurgica. ABSTRACT Locking plates with special configuration for the anatomic region of the proximal humerus have been introduced recently to address the difficulties of stabilizing proximal humeral fractures. The purpose of this study is to give indications about the use, to evaluate the short to medium term functional results and common complications associated with this surgical technique. INTRODUZIONE Le fratture dell’omero prossimale rappresentano dal 5 al 9% di tutte le fratture1,3 ed hanno un’incidenza di 105 su 100.000 persone-anno4; il loro numero risulta essere in aumento a causa del progressivo invecchiamento della popolazione mondiale. L’80-85% delle fratture dell’omero prossimale è rappresentato da fratture composte o minimamente scomposte e non comportano problemi di scelta terapeutica rispondendo favorevolmente al trattamento conservativo. Le difficoltà insorgono nelle fratture scomposte – 35 – Volume n. 38 - Anno 2015 e comminute che rappresentano tutt’oggi una sfida per il chirurgo ortopedico, presentando non poche problematiche di gestione. La frequente osteoporosi nei pazienti spesso anziani e le forze deformanti delle strutture muscolari che circondano la spalla sono solo alcuni degli aspetti da considerare nella scelta del giusto trattamento. Esistono differenti pareri riguardo la migliore opzione di trattamento per questi pazienti, che può variare dal trattamento conservativo, alla fissazione interna, fino alla sostituzione protesica5. Il trattamento incruento, come ampiamente descritto da numerosi lavori in letteratura, porta quasi sempre ad un cattivo risultato e dovrebbe essere preso in considerazione solo in pazienti con condizioni generali scadenti o patologie associate, che non permettono di eseguire l’intervento1,6,9. La riduzione a cielo aperto e la fissazione interna delle fratture dell’omero prossimale è indicata nelle fratture a 2 o 3 frammenti con scomposizione significativa, o in alcune fratture a 4 frammenti, specialmente quando si tratta di pazienti giovani. In letteratura sono state descritte numerose tecniche di fissazione interna, dall’uso di fili metallici e osteosutura10, ai chiodi endomidollari11,12, alla sintesi con placche e viti13,14. I risultati iniziali della sintesi con placche sono stati promettenti seppur gravati da un’alta incidenza di necrosi avascolare, di lesioni del nervo ascellare e di fallimenti del costrutto15,16, che hanno spinto molti Autori a raccomandare l’emiartroplastica per fratture a 3 o 4 frammenti17,20. Negli ultimi 10 anni, però, le placche a stabilità angolare per la sintesi di fratture dell’omero prossimale hanno guadagnato popolarità considerevole, in ragione del fatto che questi impianti hanno dimostrato di consentire una fissazione più stabile delle fratture in pazienti osteoporotici21,22. In seguito a studi biomeccanici le placche a stabilità angolare hanno dimostrato di garantire una stabilità torsionale significativamente maggiore, portando a risultati migliori rispetto all’utilizzo di placche di vecchia generazione23. Inoltre, la maggiore conoscenza della vascolarizzazione della testa omerale e le nuove tecniche chirurgiche che permettono di preservare il periostio, hanno diminuito di molto l’incidenza della necrosi cefalica24,25. Clinicamente numerosi studi hanno dimostrato che le placche a stabilità garantiscono un’alta percentuale di guarigione delle fratture scomposte dell’omero prossimale, anche in ragione del fatto che la presenza di fori o asole per la sutura ossea contribuisce ulteriormente a contrastare le forze muscolari deformanti26,27 (Fig. 1). Fig. 1: Placca a stabilità Philos (Synthes) con 10 fori prossimali. – 36 – Volume n. 38 - Anno 2015 Tuttavia esiste ancora un significativo numero di complicanze legate a questa tecnica chirurgica, molte delle quali possono presentarsi intra-operatoriamente28,29. Studi recenti hanno descritto un’alta incidenza di tali complicazioni che includono il cutout delle viti, il posizionamento in varo della testa e l’impingement secondario al mal posizionamento della placca29,30. In aggiunta a ciò esiste un piccolo gruppo di pazienti nei quali si sviluppa una pseudoartrosi. INDICAZIONI E CONTROINDICAZIONI Nelle fratture dell’omero prossimale la scelta del tipo di sintesi deve essere basata non solo sul tipo di frattura ma anche su una serie di numerosi elementi che riguardano il singolo paziente. Ovviamente, in primis, deve essere valutato il numero di frammenti e soprattutto il grado di scomposizione che caratterizza la frattura, ma, al fine di scegliere il giusto trattamento, vanno presi in considerazione anche altri aspetti. Molto importante è la valutazione delle condizioni generali del paziente e dell’eventuale presenza di lesioni o traumi associati, oltre che delle richieste funzionali del soggetto in esame. Determinante è, inoltre, la qualità dell’osso in quanto, tanto più questa appare scarsa, tanto più risulterà difficile l’osteosintesi. Per quanto riguarda l’età del paziente, questo tipo di intervento risulta trovare maggiore indicazione nei giovani-adulti con meno di 60 anni, anche nei casi di frattura con lussazione associata gravati da una incidenza maggiore di necrosi cefalica. Non va sottovalutata, infine, la possibilità da parte del paziente di eseguire una corretta riabilitazione post-operatoria. Si può affermare, in modo schematico, che possono essere trattate con placca e viti le fratture a 3 e 4 frammenti senza lussazione e con buona qualità dell’osso. Al contrario, tale tecnica non risulta indicata nei casi di frattura-lussazione a 4 frammenti, nelle fratture “head splitting” e nelle fratture da impatto con affondamento della spongiosa e distruzione di più del 40-45% della superficie articolare. Il trattamento incruento va riservato, in genere, alle fratture con minima scomposizione, indipendentemente dal numero di rime di frattura e costituisce controindicazione alla sintesi con placca anche la presenza di infezione locale o di esposizione ampia. In questi casi la sintesi dovrebbe essere eseguita a minima con fili di Kirschner, rinviando la sintesi stabile con placca a guarigione dei tessuti molli avvenuta. VALUTAZIONE PRE-OPERATORIA Nei pazienti con frattura dell’omero prossimale è molto importante un’attenta valutazione di possibili deficit di tipo neurologico o vascolare, soprattutto nei casi che presentano lussazione o scomposizione dei frammenti. Il nervo ascellare è quello coinvolto nella maggior parte dei casi di trauma ad alta energia ma può essere presente anche un deficit neurologico da lesione del plesso brachiale o del nervo muscolo-cutaneo. Dopo aver valutato attentamente il paziente preferiamo immobilizzare l’arto in una fasciatura tipo Desault con spalla addotta e intraruotata. Riteniamo che l’intervento di sintesi su frattura debba essere eseguito da un chirurgo esperto nella patologia della spalla, solo dopo un’attenta valutazione clinica e radiologica e che l’intervento in urgenza debba essere riservato a casi veramente eccezionali. – 37 – Volume n. 38 - Anno 2015 Nel planning pre-operatorio le proiezioni radiografiche, che andrebbero sempre eseguite, ,sono rappresentate da un’antero-posteriore vera dell’articolazione gleno-omerale, da una proiezione laterale vera o a “Y” e da una proiezione ascellare (Fig. 2). Nella proiezione antero-posteriore vera la spalla affetta viene posizionata con il suo margine posteriore contro la cassetta radiografica, mentre la spalla sana inclinata anteriormente di circa 40°. Per realizzare la proiezione laterale, invece, la spalla affetta viene posta con il suo versante antero-laterale contro la cassetta mentre l’altra spalla viene inclinata in avanti di circa 40°; il tubo radiogeno è posizionato in asse con la scapola ed il raggio ha una direzione posteroanteriore. La proiezione ascellare, infine, è quella più facile da eseguire nei pazienti con frattura poiché non richiede la rimozione del braccio dalla fasciatura o dal tutore. Proiezioni supplementari trans-toraciche potrebbero essere utili per lo studio della scomposizione dei frammenti ma non sono eseguite di routine. Fig. 2: Esame radiografico in uomo di 61 anni con frattura a 3 frammenti occorsa in seguito a caduta accidentale. Fig. 3: Ricostruzione TC tridimensionale per lo studio della frattura. – 38 – Volume n. 38 - Anno 2015 Il planning pre-operatorio non può prescindere da un’esame TC con ricostruzioni bidimensionali e tridimensionali, strumento fondamentale per una corretta valutazione del tipo di frattura, del numero di frammenti e della loro scomposizione in tutti i piani dello spazio. In particolare la TC ci dà indicazioni riguardo la dislocazione delle tuberosità, l’interessamento della superficie articolare, i rapporti tra omero e glena, importanti soprattutto in caso di lussazione posteriore o la presenza di grossi difetti ossei a livello epifisario e metafisario (Fig. 3). Tale esame risulta inoltre di fondamentale importanza nella valutazione di fratture associate a livello di glena, acromion o clavicola e permette di meglio pianificare la via d’accesso chirurgica. TECNICA OPERATORIA Esistono in commercio diverse placche a stabilità angolare , ma la scelta di una di queste rispetto ad altre è nella maggior parte dei casi da attribuire all’esperienza del chirurgo più che alle caratteristiche della frattura o della placca stessa. E’ pur vero affermare che nell’universo della stabilità angolare esistono placche con diverso numero, direzione, posizione ed orientamento delle viti o dei peg cefalici e questo dovrebbe aiutare il chirurgo a scegliere il mezzo di sintesi più adatto, in termini di riduzione e tenuta sui frammenti, sfruttamento dell’osteosutura, preservazione della vascolarizzazione dei frammenti e minima invasività dello spazio sottoacromiale. E’ giusto affermare che il buon esito dell’intervento è comunque condizionato, in primis, da un’adeguata riduzione della frattura più che dalla sua stabilizzazione, e che questa è spesso difficoltosa, come nei casi di lussazione posteriore della testa o di fratture molto comminute o con importante scomposizione. In questi casi la riduzione deve avvenire quasi alla cieca al fine di evitare un eccessivo scollamento delle parti molli che potrebbe portare ad una non guarigione della frattura. Ancora una volta ricordiamo l’importanza di eseguire una corretta valutazione pre-operatoria attraverso gli esami radiografici e l’esame TC, eseguire la via d’accesso più adatta, seguire i singoli passaggi per la riduzione ed affidarsi alla placca con la quale si ha più dimestichezza. POSIZIONE DEL PAZIENTE Il paziente viene generalmente posizionato in decubito beach-chair su letto articolato, con adeguata deviazione del collo per fare in modo che non interferisca con le manovre di riduzione e permetta di eseguire il controllo radiografico in proiezione antero-posteriore ed ascellare (Fig. 4). Il braccio viene lasciato libero al fine di semplificare la riduzione ed è sempre posizionato un sostegno imbottito sul fianco omolaterale che consente le manovre di trazione, senza correre il rischio di spostare il paziente in modo pericoloso. – 39 – Volume n. 38 - Anno 2015 Fig. 4: Paziente in decubito beach-chair. Posizione dell’amplificatore di brillanza per eseguire il controllo radiografico in proiezione antero-posteriore ed ascellare. ACCESSO L’accesso utilizzato è quello deltoideo-pettorale standard per esporre l’omero prossimale. Dopo l’incisione cutanea e l’identificazione dello spazio tra deltoide e pettorale la vena cefalica viene tenuta lateralmente al fine di evitare possibili lesioni durante il posizionamento dei divaricatori. Molto importante è l’identificazione dello spazio sottodeltoideo previo accurato scollamento e divaricazione del muscolo deltoide con braccio in abduzione per limitare al minimo la tensione di quest’ultimo. E’ fondamentale evitare la trazione al di sotto del tendine congiunto onde scongiurare lesioni del nervo muscolo-cutaneo. Il tendine del capo lungo del bicipite può essere palpato profondamente rispetto al muscolo grande pettorale e questo appare, spesso, incarcerato tra i frammenti di frattura. E’ molto importante, inoltre, evitare un eccessivo scollamento a livello del solco bicipitale, per preservare la branca ascendente dell’arteria circonflessa anteriore posizionata lateralmente rispetto a tale solco. Seguendo il decorso del tendine bicipitale può essere aperto l’intervallo dei muscoli rotatori, cercando di preservare fino alla fine tale tendine, che potrà essere utilizzato come punto di riferimento per il giusto posizionamento della placca; se, al contrario, il tendine risulta lesionato, dopo la riduzione della frattura può essere eseguita una tenodesi. Essenziale risulta preservare il periostio delle tuberosità soprattutto quando è necessaria una sezione della cuffia dei rotatori, per meglio controllare la riduzione dei frammenti; questo scongiurerà il rischio di una non guarigione della frattura possibile anche dopo perfetta riduzione della stessa. La placca dovrebbe essere sempre posizionata subito lateralmente al solco bicipitale ed una rotazione interna dell’omero di circa 45° ci aiuterà a meglio visualizzare tale zona. – 40 – Volume n. 38 - Anno 2015 RIDUZIONE DELLA FRATTURA Il primo step consiste generalmente nel ridurre in posizione anatomica la testa, che di solito si posiziona in varo ed in retroversione; questa rappresenta una fase molto delicata dell’intervento e dal suo buon esito dipende in gran parte il risultato dello stesso. Può essere, in alcuni casi, molto utile identificare il profilo mediale del collo omerale passando al di sotto del sottoscapolare per via smussa, per verificarne il giusto riallineamento, confermato da un controllo con amplificatore in proiezione ascellare. Risultano utili piccoli divaricatori per la spinta della testa da posteriore ad anteriore al fine di ottenere la sua riduzione se dislocata o lussata posteriormente (Fig. 5). Nel caso in cui si creino dei vuoti nell’osso metafisario, risultandone un allineamento dei frammenti non uniforme, è possibile utilizzare degli innesti ossei di spongiosa omoplastica; tali innesti dovrebbero ridurre le lacune ossee evitando la perdita di riduzione della frattura nel post-operatorio. Il secondo step, dopo la riduzione della testa, consiste nel posizionare le tuberosità al di sotto di essa. Alcuni fili di sutura, preferibilmente non assorbibili e ad alta resistenza, vengono fatti passare davanti e dietro la cuffia per facilitare la riduzione del trochite e del trochine. Dopo il posizionamento della placca i fili vengono fissati ad essa sfruttando gli appositi fori o occhielli. Fig. 5: Utilizzo di piccoli divaricatori per la riduzione della frattura. APPLICAZIONE DELLA PLACCA E SINTESI Dopo accurata riduzione della frattura, e sempre sotto controllo ampliscopico, si procede alla sintesi con placca a stabilità. Il basso profilo che consente di ridurre al minimo l’impingement al di sopra della testa, le viti prossimali che si avvitano direttamente sulla placca con angolazione divergente per migliorarne la fissazione riducendo così i rischi di mobiliz– 41 – Volume n. 38 - Anno 2015 zazione, i fori e le asole per il passaggio delle suture sono le caratteristiche principali delle placche di nuova generazione. Negli ultimi anni il disegno, il numero e l’orientamento delle viti cefaliche ha subito un’evoluzione e, in particolare l’angolazione tra vite e placca ha reso più favorevole la riduzione della testa omerale. La tecnica di applicazione esposta in seguito si riferisce alla placca da noi più frequentemente utilizzata (Philos-Synthes). La placca viene posizionata appena lateralmente al solco bicipitale, con il margine superiore situato a circa 2,5 cm. distalmente dall’apice della testa dell’omero. Determiniamo la posizione della placca servendoci di una guida specifica dotata di un supporto prossimale per il passaggio di un filo di Kirschner. Il filo deve essere rivolto verso la superficie articolare prossimale, ed inserito al di sotto della cuffia dei rotatori. Dopo aver fissato la placca nella giusta posizione con almeno 2 fili di Kirschner si procede ad applicare provvisoriamente una vite da corticale nel foro combinato oblungo del corpo della placca. Successivamente si passa alla perforazione della corticale laterale e alla determinazione della lunghezza delle viti prossimali, scegliendo i fori più “adatti” per la specifica frattura; nella testa omerale la vite deve trovarsi nell’osso subcondrale a circa 5-8mm sotto la superficie articolare. Il manicotto esterno garantisce che la vite di bloccaggio sia fissata correttamente nella placca, in quanto l’inserimento obliquo di una vite di bloccaggio compromette la stabilità angolare. La placca deve essere fissata con almeno 4 viti prossimali, ma se l’osso è di cattiva qualità, si consigliano punti di fissazione multipli utilizzando anche tutti i fori disponibili. Si procede, infine, con il posizionamento delle viti diafisarie, utilizzando sempre un centrapunte che ne garantisce la giusta fissazione; queste viti devono essere bloccate nel foro della placca ad un angolo di 90° per garantire una stabilità ottimale (Fig. 6). Annodare, infine, le suture attraverso i fori dedicati della placca, creando una struttura che funzioni come un tension band, trasmettendo le forze della cuffia dei rotatori alla placca e nella diafisi, in modo da evitare la dislocazione dei frammenti durante il periodo di riabilitazione precoce (Fig. 7). A sintesi completata è giusto valutarne attentamente la stabilità per meglio programmare i tempi del recupero funzionale post-operatorio. Fig. 6: Controllo finale con amplificatore di brillanza dopo il posizionamento della placca a stabilità. – 42 – Volume n. 38 - Anno 2015 Fig. 7: Annodamento dei fili di sutura passanti nelle tuberosità attraverso i fori dedicati della placca. TRATTAMENTO POST-OPERATORIO Al paziente viene posizionato in sala operatoria un tutore in abduzione a 15° in rotazione neutra. Se la sintesi è stabile sarà possibile permettere da subito la mobilizzazione passiva della spalla, unitamente alla mobilizzazione libera di gomito e mano. Al momento della dimissione viene consegnato al paziente un protocollo riabilitativo che prevede movimenti passivi e autoassistiti della spalla, soprattutto in flessione anteriore fino a 50° circa per le prime 4 settimane. Alla fine di tale periodo viene generalmente rimosso il tutore ed il paziente viene incoraggiato a riprendere le piccole attività quotidiane, quali l’alimentazione e l’afferramento di piccoli oggetti. La fisioterapia prosegue con esercizi sia passivi che attivi preferibilmente da eseguire in acqua. Dopo 8 settimane è concesso il movimento completo con ripresa graduale delle normali attività ed il nuoto. DISCUSSIONE Il trattamento delle fratture dell’omero prossimale risulta essere a tutt’oggi un grosso problema per il chirurgo ortopedico e, soprattutto per quanto riguarda le fratture scomposte, non esiste consenso sulla migliore opzione di trattamento31,32. L’eterogeneità dei fattori considerati in letteratura, che includono il campione studiato, il tipo di frattura ed i risultati riportati, non permette di determinare quale sia la migliore soluzione chirurgica in questo – 43 – Volume n. 38 - Anno 2015 tipo di frattura, ma possiamo affermare con certezza che risulta molto difficile raggiungere una sintesi stabile. L’osso metafisario della testa dell’omero è stato paragonato ad un guscio d’uovo essendo presente solo una piccola quantità di osso nel centro della testa stessa22. L’uso delle placche a stabilità, soprattutto nei pazienti con osteoporosi, si è incrementata notevolmente negli ultimi 10 anni cambiando il modo di gestire gran parte delle fratture dell’omero prossimale. Questo tipo di fissazione ha dimostrato di garantire maggiore stabilità meccanica portando a migliori risultati funzionali. Recenti studi di valutazione biomeccanica riportano maggiore stabilità in seguito a stress in varo ed in torsione delle placche a stabilità dell’omero prossimale rispetto al chiodo endomidollare bloccato33. Altri studi su cadavere hanno dimostrato come il sistema ad angolo fisso assicuri migliori risultati rispetto alla placca tradizionale senza stabilità34. Per tutte queste ragioni la placca a stabilità angolare è diventata il trattamento di scelta specialmente nei pazienti giovani con fratture scomposte dell’omero prossimale. Il grado di escursione articolare che il paziente raggiunge dopo un intervento di riduzione e sintesi con placca a stabilità dell’omero prossimale è uno dei principali vantaggi legati a questa tecnica chirurgica, sebbene stupisca come in letteratura solamente 2 articoli descrivano il recupero del ROM tra i vantaggi interessanti 35,36. Non stupisce, invece, il fatto che i risultati migliori si hanno nelle fratture a 2 e 3 frammenti rispetto alle fratture a 4 frammenti. Confrontando gli studi di valutazione dei risultati nei pazienti con frattura scomposta dell’omero prossimale trattati con endoprotesi, quelli trattati con placca a stabilità risultano avere una migliore prognosi. Nel lavoro di Zyto et al. il constant score medio dopo intervento di endoprotesi ad un follow-up medio di 39 mesi risulta essere pari a 51 nelle fratture a 3 frammenti e pari a 46 nelle fratture a 4 frammenti37; questi valori sono significativamente minori rispetto a quelli riportati nella recente review di Sproul et al. sulle placche a stabilità che indicano un constant score medio di 72 dopo intervento in seguito a frattura a 3 frammenti e di 68 dopo frattura a 4 frammenti38. In uno studio recente anche Solberg et al. riportano risultati migliori nei pazienti trattati con placca rispetto a quelli trattati con endoprotesi, ma mettono in evidenza una percentuale maggiore di complicazioni nei pazienti del primo gruppo39. La necrosi avascolare è una delle complicanze più temute in seguito ad intervento di riduzione e sintesi a cielo aperto delle fratture dell’omero prossimale e si può sviluppare fino a 5 anni dopo il trauma, associandosi a dolore, riduzione dell’escursione articolare ed artrosi gleno-omerale, portando inevitabilmente ad un intervento di sostituzione protesica. Anche lo stesso intervento di sintesi può contribuire allo sviluppo di necrosi avascolare, soprattutto in quei casi dove è richiesta un’ampia dissezione dei tessuti molli. In letteratura viene riportata una percentuale media di sviluppo di questa complicanza pari al 10%, ma solo la metà di questi pazienti viene sottoposta ad intervento di protesi di spalla. Cutout delle viti o loro perforazione della testa con secondario impegno dell’articolazione gleno-omerale sono complicanze che si presentano con incidenza del 7,5% e rappresentano la causa principale di precoce reintervento. La perforazione della testa può essere primaria, dovuta ad un errore tecnico non riconosciuto durante l’intervento, oppure secondaria al collasso della testa omerale a causa dello sviluppo di una necrosi avascolare. Una recente review di 187 fratture dell’omero prossimale trattate con placca a stabilità riporta un 14% di incidenza di perforazione primaria della vite e un 7% di perforazione secondaria ed un’incidenza del 21% di cutout della vite29. Il cutout delle viti rappresenta una delle complicanze più importanti in questo di tipo di chirurgia e risulta essere la causa più comune di chirurgia di revisione28,29. – 44 – Volume n. 38 - Anno 2015 La complicanza più comune descritta nelle recenti review è la viziosa consolidazione in varo che è stata riscontrata con un’incidenza media del 16% e che sembra dovuta nella maggior parte dei casi alla perdita del supporto mediale nelle fratture comminute. Tale complicanza risulta essere molto importante in quanto una viziosa consolidazione in varo della frattura può essere complicata sia dal cutout delle viti sia dall’impingement subacromiale, due problematiche che spesso richiedono di essere risolte chirurgicamente. In conclusione possiamo affermare che la sintesi delle fratture dell’omero prossimale con placca a stabilità angolare rappresenta una tecnica relativamente nuova nel campo dell’ortopedia che ha subito un rapido incremento in termini di popolarità. Gli studi biomeccanici mostrano dei risultati potenzialmente benefici rispetto alle placche di vecchia generazione, come un incremento della rigidità e della stabilità nel sito di frattura, specialmente nelle fratture comminute e nei pazienti con osteoporosi. Nonostante i promettenti risultati clinici esiste ancora un’alta percentuale di complicanze che richiedono un reintervento, suggerendo che questa tecnica chirurgica debba essere utilizzata attentamente e solamente in pazienti ben selezionati. BIBLIOGRAFIA 1. Nayak N.K., Schickendantz M.S., Regan W.D., et al. “Operative treatment of nonunion of surgical neck fracture of the humerus”. Clin. Orthop. 1995; 313:200-205. 2. Sporer S.M., Weinstein J.N., Koval K.J. “The geographic incidence and treatment variation of common fractures of elderly patients”. J. Am Acad Orthop Surg 2006; 14:246-255. 3. Volgas D.A., Stannard J.P., Alonso J.E. “Nonunions of the humerus”. Clin. Orthop. 2004; 419:46-50. 4. Rose S.H., Melton L.J. 3rd, Morrey B.F. et al. “Epidemiologic features of humeral fractures”. Clin. Orthop. 1982; 168:24-30. 5. Zyto K. “Non operative treatment of comminuted fractures of the proximal humerus in elderly patients”. Injury 1998; 29:349-352. 6. 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Solberg B.D., Moon C.N., Franco D.P. et al. “Surgical treatment of three and fourpart proximal humeral fractures”. J. Bone Joint Surg Am 2009;91:1689-97. – 48 – Volume n. 38 - Anno 2015 RIPARAZIONE ARTROSCOPICA DELLA CUFFIA DEI ROTATORI CON ANCORE ALL-SUTURE ROTATOR CUFF TEAR ARTHROSCOPIC REPAIR WITH ALL-SUTURE ANCHORS G. GIORGIANNI, M. DE CUPIS, E. LIBUTTI, V. DE CUPIS Istituto “ICOT - Marco Pasquali” - Latina Parole chiave: lesioni della cuffia dei rotatori, ancore tutta sutura, diametro ancore, pull out. Key words: rotator cuff tear, all-suture anchors, anchor’s diameter, pull out. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Nella riparazione artroscopica della cuffia dei rotatori sono state recentemente introdotte le ancore all-suture, prodotte in tessuto e caratterizzate da un diametro inferiore rispetto alle ancore tradizionali. Gli Autori riferiscono la loro esperienza su una serie di 30 pazienti sottoposti ad intervento di reinserzione artroscopica della cuffia dei rotatori mediante l’utilizzo di ancore all-suture. Dopo l’esposizione della tecnica chirurgica e la descrizione dei risultati gli Autori espongono i punti salienti della loro esperienza. ABSTRACT Recently, all suture anchors made with textile and with a reduced diameter were introduced for arthroscopic rotator cuff repair. The Authors report their experience on a series of 30 patients underwent surgery of arthroscopic reinsertion of rotator cuff through the use of all suture anchors. After the exposition of the surgical technique and the description of the results the Authors expose the highlights of their experience. INTRODUZIONE Nella riparazione artroscopica della cuffia dei rotatori sono state recentemente introdotte le ancore all-suture, prodotte in tessuto e caratterizzate da un diametro inferiore rispetto alle ancore tradizionali. Queste ancore sono interamente composte da sutura e richiedono un tunnel osseo da 1,4 mm. a 2,3 mm. di diametro, decisamente minore rispetto a quello necessario per le ancore avvitate tradizionali (Fig. 1). – 49 – Volume n. 38 - Anno 2015 Fig. 1: Ancore all-suture Iconix (Stryker) I principali vantaggi delle ancore all-suture rispetto alle ancore tradizionali sono intimamente legati al loro minor diametro che va da un minimo di 1,4 mm. (per le ancore all-suture utilizzate nel trattamento delle instabilità) ad un massimo di 2,3 mm. (per le ancore all-suture utilizzate nel trattamento delle lesioni della cuffia dei rotatori). Questa importante caratteristica garantisce, a parità di tecnica chirurgica, l’impiego in lesioni di piccole dimensioni con un significativo minor sacrificio osseo; l’impiego in lesioni parziali attraverso suture trans-tendinee, minimizzando l’insulto tendineo; l’impiego in lesioni di medie e grandi dimensioni, nelle quali assicura la possibilità di inserire un maggior numero di ancore, conferendo alla sutura una maggior resistenza (maggior numero di fili impiegati). Infine, le ancore all-suture, associate con suture anchors tradizionali nelle tecniche Double row, dimostrano migliori risultati rispetto all’utilizzo delle sole suture anchors tradizionali. Per quanto concerne gli svantaggi, questi potrebbero essere rappresentati da una aumentata incidenza di pull out in pazienti affetti da osteoporosi. L’uso del condizionale è legato attualmente ad una scarsa letteratura in merito. Un recente lavoro di Galland et al.1 presenta uno studio biomeccanico su omero bovino in cui viene messa a confronto la resistenza a forze di trazione longitudinale di una suture anchor tradizionale di diametro 5,5 mm. in polietilene e di 2 ancore all-suture di diametro 1,4 mm. L’analisi statistica dei dati ottenuti in questo lavoro non dimostra differenze significative tra le ancore all-suture e le ancore tradizionali di controllo nella resistenza al pull out o nella dislocazione in mm. dopo ciclo di carico longitudinale. Curva di trazione delle ancore all suture (ASA) – 50 – Curva di trazione delle screw anchor (SA) Volume n. 38 - Anno 2015 Table 1 Reasons for failure for each anchor type Anchor pullout Eyelet fracture Thread rupture Screw anchor (SA) 5.5 mm. 8 5 0 All suture anchor (ASA) 1.4 mm. (x2) 12 0 1 Le cause di fallimento sono diverse nei due gruppi esaminati. Sarebbero da attribuire quasi esclusivamente a pull out per le ancore all-suture, mentre per le ancore tradizionali sarebbero legate a pull out e rottura dell’occhiello in percentuali simili (Fig. 2 e 3). Fig. 2: Fallimento in ancora avvitata: rottura dell’occhiello. Fig. 3: Fallimento di ancora all-suture: distacco dell’ancora. MATERIALI E METODI L’obiettivo del nostro lavoro è stato quello di valutare i risultati a breve e medio termine nei pazienti con lesione della cuffia dei rotatori trattata artroscopicamente utilizzando le ancore allsuture. A tale scopo sono stati presi in esame 30 pazienti, trattati chirurgicamente per lesione della cuffia dei rotatori in un intervallo di tempo compreso tra Ottobre 2013 e Novembre 2014. L’età media al momento dell’intervento risultava 61,1 anni (con un range 34-76), 11 maschi e 19 femmine. In tutti i casi i pazienti venivano studiati con esame radiografico e RMN pre-operatori e valutati pre e post-operatoriamente con scheda Vas (pre - 1 mese - 3 mesi - 6 mesi) e Constant Score (pre - 3 mesi - 6 mesi). Tutti i pazienti venivano sottoposti ad una attenta valutazione del ROM attivo (elevazione anteriore, abduzione, rotazione interna e rotazione esterna) nel pre-operatorio e a 6 mesi dall’intervento chirurgico. – 51 – Volume n. 38 - Anno 2015 VALUTAZIONI PRE- ED INTRA-OPERATORIE Le lesioni della cuffia dei rotatori nei pazienti trattati sono state valutate secondo le seguenti classificazioni, che tengono conto di vari fattori importanti quali la geometria della lesione, l’estensione della lesione, il grado di retrazione tendinea, il grado di degenerazione grassa: • Valutazione RM e intra-operatoria della geometria della lesione secondo la classificazione di Davidson e Burkhart (Fig. 4 e 5). • Valutazione RM ed intra-operatoria della lesione secondo la classificazione di DeOrio e Cofield (Fig. 6 e 7). Fig. 4: Lesione ad L Fig. 5: Lesione massiva Fig. 6: Lesione piccola Fig. 7: Lesione grande – 52 – Volume n. 38 - Anno 2015 • • • • Piccole lesioni rappresentate da fissurazioni o isolata avulsione del sovraspinato Medie lesioni con diametro maggiore inferiore ai 3 cm. Grandi lesioni con diametro da 3 a 5 cm. Lesioni massive con diametro maggiore di 5 cm. • Valutazione RM e intra-operatoria della retrazione del sovraspinoso secondo la classificazione di Patte (Fig. 8 a, b, c). Fig. 8a Stage 1 Fig. 8b Stage 2 Fig. 8c Stage 3 Stage 1: Moncone prossimale in prossimità dell’inserzione Stage 2: Moncone prossimale a livello della testa omerale Stage 3: Moncone prossimale a livello della glena • Valutazione RM della degenerazione grassa secondo la scala di Goutallier. Grado 0 Grado 1 Grado 2 Normale Strie di grasso Più muscolo – 53 – Grado 3 Grado 4 Muscolo e grasso Più grasso che in parti uguali muscolo Volume n. 38 - Anno 2015 TECNICA CHIRURGICA La tecnica chirurgica adottata prevede una posizione del paziente in decubito sul fianco con arto superiore abdotto di 30°-70° ed anteposto di 10°-15°, utilizzando un apposito dispositivo di trazione. L’anestesia locoregionale avviene mediante blocco interscalenico. Attraverso portali artroscopici standard per la spalla si procede ad un primo tempo articolare rivolto alla identificazione e all’eventuale trattamento di lesioni delle strutture del comparto articolare (lesioni del clbb, Slap lesion, lesioni del cercine glenoideo, lesioni del sottoscapolare ecc.). Si procede ad un tempo sub-acromiale in cui, identificata la lesione, previa bursectomia parziale, si pone grande attenzione alla delimitazione dei margini sani del tendine . E’ possibile così valutare la reale estensione della lesione, la sua geometria, il grado di retrazione laddove presente, e la possibilità di riducibilità della lesione al foot print senza eccessiva trazione e la qualità del tendine. Una volta scelta la strategia di riparazione si procede alla pulizia del foot print al trochite con motorizzato, tenendo a mente che la tenuta delle ancore all suture scelte in questo gruppo di pazienti è prettamente corticale, per cui tale pulizia dovrebbe soffermarsi al solo residuo tendineo, pena l’indebolimento della corticale con conseguente aumentato rischio di pull out. La tecnica riparativa da noi selezionata per questo studio è una tecnica Single row con 1 o più ancore all suture da 2,3 mm., che vengono inserite sulla stessa linea, al trochite omerale previa preparazione del foro pilota da 2,3 mm. con strumentario dedicato (Fig.9). Fig. 9: Preparazione del foro pilota. – 54 – Volume n. 38 - Anno 2015 Trazionando poi sui fili lungo l’asse longitudinale dell’ancora, la punta tutta sutura della stessa si arriccia per effetto bunching, passando da un diametro di 2,3 mm. ad un diametro di 4 mm., conferendo alle prove di pull out un’ottima sensazione di resistenza (Fig.10). Effetto “bunching” dell’ancora. I fili, quindi, si fanno passare attraverso il tendine con normali suture passer e si annodano con nodo Fisherman modificato. L’eventuale acromionplastica anteriore completa l’intervento. RIABILITAZIONE POST-OPERATORIA Tutti i pazienti, dimessi in IIIª giornata, seguono il medesimo protocollo riabilitativo, qui di seguito brevemente schematizzato: • Tutore in abduzione a 15° per 30 giorni • Esercizi di mobilizzazione attiva del gomito permessi subito dopo l’intervento • Kinesi passiva con protezione della rotazione interna dalla Iª alla IVª settimana • Kinesi attiva-assistita dalla Vª alla VIIIª settimana • Kinesi attiva dalla IXª alla XIIª • Ritorno alle attività manuali dopo 5-6 mesi – 55 – Volume n. 38 - Anno 2015 RISULTATI Qui di seguito riportati sinteticamente i risultati ottenuti: • Classificazione di Davidson e Burkhart Crescent 17 paz. Longitudinali (L, L inv, U) 9 paz. Massive 4 paz. 56,6% 30% 13,4% • Classificazione di DeOrio e Cofield Piccole 15 Medie 8 Grandi 4 Massive 3 50% 26,6% 13,3% 10,1% • Classificazione di Patte Stage 1 Stage 2 Stage 3 16 10 4 53,3% 33,3% 13,4% • Classificazione di Goutallier Grado 0 Grado 1 Grado 2 Grado 3 16 6 5 3 53,3% 20% 16,6% 10,1% ROM medio pre-operatorio • 145,0°: elevazione anteriore (range 30°-180°) • 127,2°: abduzione (range 30°-175°) • 61,0°: rotazione esterna (range 10°-80°) • Sacro: rotazione interna (range natica-D7) ROM medio a 6 mesi • 160,2°: elevazione anteriore (range 50°-180°) • 146,5°: abduzione (range 50°-175°) • 71,5°: rotazione esterna (range 15°-90°) • L3: rotazione interna (range natica-D7) • Miglioramento del ROM statisticamente significativo (p<0,05) Miglioramento del ROM statisticamente significativo (p<0,05) – 56 – Volume n. 38 - Anno 2015 Dall’analisi dei nostri risultati emerge che nessun caso di rottura del device è stato registrato, mentre in 3 casi è stata riportata una tenuta insufficiente del device alle prove di pull out intraoperatorio con conseguente sua mobilizzazione, risolta in ciascun caso mediante l’introduzione di ancore avvitate in polietilene da 5,5 mm. nello stesso foro pilota delle ancore all-suture mobilizzate e senza maschiatura (Fig. 11). Fig. 11: Mobilizzazione dell’ancora al pull out e posizionamento di ancora avvitata nello stesso foro. Di questi 3 casi riportati, 1 caso è avvenuto alla prima esperienza di utilizzo del device a causa di un mero errore tecnico, rappresentato da una eccessiva decorticazione del Foot print con shaver motorizzato; nei restanti 2 casi di pull out una successiva più attenta analisi delle radiografie pre-operatorie ha mostrato un quadro di osteoporosi con assottigliamento della corticale al trochite, con sottostante circoscritta area di rarefazione ossea simil geodica. CONCLUSIONI Nella nostra casistica le ancore all-suture si sono dimostrate un device sicuro, affidabile e di facile utilizzo, portando a ottimi risultati a breve e medio termine. Il principale vantaggio, secondo noi, è rappresentato dal fatto che nella riparazione della cuffia dei rotatori il piccolo diametro (2,3 mm. ) permette l’utilizzo di più ancore per una ricostruzione ancora più anatomica e, soprattutto, previene tutte le complicanze legate al grosso diametro del tunnel osseo necessario per l’introduzione delle comuni ancore avvitate. I casi di fallimento riportati nella nostra iniziale breve esperienza di utilizzo delle ancore all-suture sembrerebbero legate ad un errore tecnico (1 caso) e ad una non corretta selezione del paziente (2 casi). BIBLIOGRAFIA 1. Galland, Gravier R., Le Cann S., Chabrand P., Argenson J.N. “Pullout strength of all suture anchors in the repair of rotator cuff tears: a biomechanical study”. International Orthopaedics 2013. Oct; 37(10):2017-23. – 57 – Volume n. 38 - Anno 2015 2. Davidson J., Burkhart S.S. et al. “The geometric classification of rotator cuff tears: a system linking tear pattern to treatment and prognosis”. Arthroscopy 2010 Mar; 26(3):417-24. 3. DeOrio J.K., Cofield . “Results of a second attempt at surgical repair of a failed initial rotator-cuff repair”. J. Bone Joint Surg Am 1984 Apr; 66(4):563-7. 4. Patte D. “Classification of rotator cuff lesions”. Clin Orthop Relat Res 1990 May; (254):81-6. 5. Goutallier D., Postel J. M., Bernajeau J., Lavau L., Voisin M C. “Fatty muscle degeneration in cuff ruptures. Pre- and postoperative evaluation by CT scan”. Clin. Orthop. Relat. Res. 1994; Jul; (304):78-83. – 58 – Volume n. 38 - Anno 2015 SINDROME DA INTRAPPOLAMENTO DEL NERVO ULNARE AL GOMITO ENTRAPMENT OF THE ULNAR NERVE AT THE ELBOW G. RISITANO, F. COGLITORE Casa di Cura “Cappellani Giomi” - Messina Parole chiave: nervo ulnare, canale cubitale, chirurgia, decompressione, trasposizione. Key words: ulnar nerve, cubital elbow canal, surgery, decompression, transposition. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Gli Autori riportano la loro esperienza nel trattamento della sindrome da intrappolamento del nervo ulnare al canale cubitale, considerando le indicazioni e le tecniche chirurgiche in rapporto alle specifiche situazioni cliniche e riflettono sulle metodiche in funzione dei fattori prognostici. ABSTRACT The Authors report their experience in treating ulnar nerve entrapment at the elbow, discussing the use of different surgical techniques according to the clinical and prognostic factors in specific cases. INTRODUZIONE Le neuropatie del nervo ulnare non sono così frequenti come quelle del nervo mediano al canale carpale, ma sono senza dubbio al secondo posto fra le sindromi canalicolari dell’arto superiore. Il trattamento di queste neuropatie è motivo di controversie, anche per il fatto che i risultati che si conseguono non sono così soddisfacenti come per la sindrome del canale carpale. La distanza fra la sede della lesione (la doccia epitrocleare al gomito), gli organi innervati dal nervo ulnare (muscoli intrinseci e corpuscoli sensitivi del V e IV dito) e le caratteristiche anatomiche e funzionali del nervo fanno sì che il recupero della funzione nervosa dopo il trattamento sia soggetto a numerose variabili che condizionano strategie di trattamento differenti da caso a caso e da chirurgo a chirurgo. In questo studio prenderemo in considerazione le esperienze diverse di un Chirurgo della Mano che si confronti sul campo con pazienti e situazioni cliniche simili ma differenti, cer– 59 – Volume n. 38 - Anno 2015 cando di dare delle indicazioni sul modo migliore di affrontare la sfida che una sindrome da intrappolamento del nervo ulnare al gomito pone al clinico, alla luce delle nostre conoscenze ed esperienze. MATERIALI E METODI Possiamo cominciare col dire che in caso di una sindrome in fase iniziale, con sintomi solo sensitivi ed in assenza di alterazioni trofiche muscolari, il trattamento conservativo, consistente nell’uso di farmaci antinfiammatori, nell’evitare attività e microtraumi ripetuti e nell’uso di tutori notturni in semi estensione del gomito, permette di non far progredire il danno neuropatico e di non dover ricorrere al trattamento chirurgico. Quest’ultimo è indicato, e deve essere eseguito con sollecitudine, nei casi nei quali il trattamento conservativo non è efficace e quando i rilievi clinici e strumentali depongono per un deterioramento della funzione del nervo. A questo proposito la integrazione degli esami morfologici (ecografia del nervo) con gli esami funzionali (EMG+ENG) consente oggi con grande sicurezza di porre le giuste indicazioni per il trattamento. Una volta poste le indicazioni per un trattamento chirurgico1, le opzioni in atto sono diverse: • decompressione endoscopica, • decompressione a cielo aperto, (fig. 1-1a) • decompressione e trasposizione. La maggior parte dei casi vengono in prima istanza trattati mediante una semplice decompressione del nervo a cielo aperto. La nostra esperienza, tuttavia, fa sì che i casi più impegnativi, cioè quelli in cui la neuropatia è grave o di vecchia data, i casi in cui la ecografia evidenzia una sub-lussazione del nervo dalla doccia epitrocleare o la presenza di compressioni estrinseche importanti, i casi post-traumatici ed i casi di insuccesso di una decompressione primaria, siano da noi trattati mediante una trasposizione anteriore del nervo ulnare2. La trasposizione avviene in sede sotto-cutanea, mentre la trasposizione sub-muscolare con o senza epicondilectomia, è riservata solo a casi molto selezionati3. Fig. 1: decompressione “in situ”. – 60 – Volume n. 38 - Anno 2015 RISULTATI Negli ultimi 5 anni abbiamo trattato 36 casi di intrappolamento del nervo ulnare al gomito, 8 dei quali bilateralmente, ed in 10 casi è stata eseguita, oltre che la decompressione, anche la trasposizione anteriore sotto-cutanea del nervo. Non sono stati eseguiti interventi endoscopici, anche se in almeno 10 casi si è fatta una incisione limitata con la semplice sezione del ligamento epitrocleare, senza apertura del setto intermuscolare mediale e dell’arcata di Osborne, come invece si è fatto in tutti gli altri casi di decompressione in situ ed in tutti quelli seguiti da trasposizione. I pazienti erano in prevalenza di sesso maschile e di età avanzata. Frequente l’associazione con altre patologie come il Diabete o malattie neurologiche (Parkinson, mielopatie, miastenia etc.). In un caso di lesione inveterata del nervo da ferita da taglio, la trasposizione è stata eseguita in un paziente giovane allo scopo di potere eseguire una sutura diretta del nervo, senza dover ricorrere a innesti di nervo autologo. Un caso è stato trasposto dopo una decompressione semplice, eseguita dallo stesso chirurgo, con persistenza dei sintomi e deterioramento della funzione nervosa a motivo dell’attività del soggetto stesso. La valutazione dei risultati è stata affidata ad un osservatore indipendente e i dati sono riassunti in forma tabellare Tab. 1. DISCUSSIONE La decompressione tradizionale del nervo ulnare, sezionando il ligamento epitrocleare e lasciando il nervo “in situ”, consente di accedere alla sede della compressione con una anestesia locale, con una incisione chirurgica ridotta e permette di mantenere anche la vascolarizzazione del nervo, limitando in tal modo le complicanze locali. D’altro canto, con la decompressione in situ, il nervo può diventare “instabile”4 e, dal punto di vista meccanico, la decompressione può non risultare completa (setto intermuscolare ed arcata di Osborne possono non essere sufficientemente liberati, evento questo che fa sì che la decompressione endoscopica sia ancora meno affidabile di quella a cielo aperto). I vantaggi di una trasposizione anteriore del nervo sono evidenti: la decompressione è sicuramente più completa, il posizionamento del nervo al davanti del centro di rotazione del gomito fa sì che non sia più in tensione nella flessione dell’arto e sia costantemente “rilassato”. D’altro canto, la trasposizione può determinare un inginocchiamento del nervo; la anestesia e la incisione chirurgica sono più importanti; bisogna cercare di salvaguardare la vascolarizzazione del nervo ed evitare di lederne i rami collaterali. Tutto questo fa sì che l’intervento sia più complesso e maggiore sia il rischio di complicanze, per cui va eseguito da chirurghi esperti. Va anche detto che in tutti i casi di decompressione in situ in cui al termine della procedura si osservi una evidente sublussazione del nervo ulnare alla flessione del gomito, si deve procedere alla trasposizione anteriore di necessità. Ultima considerazione: nella trasposizione anteriore sotto-cutanea, non sotto-muscolare, il nervo ulnare diventa più vulnerabile a traumatismi di vario genere: potrebbe, ad esempio, essere scambiato per un vaso ed essere punto per fare un prelievo di sangue da un operatore sanitario ignaro della nuova situazione anatomica del nervo stesso. Una delle complicanze che possono inficiare il risultato di una decompressione del nervo ulnare al gomito è costituita dalla lesione del nervo cutaneo mediale dell’avambraccio, che lascia un neuroma doloroso e che diventa elemento di indicazione per una chirurgia secondaria. – 61 – Volume n. 38 - Anno 2015 – 62 – Volume n. 38 - Anno 2015 La analisi o meta-analisi della letteratura in via retrospettiva dimostra che la tecnica chirurgica non influenza i risultati clinici più di quanto non sia il tempo e la precisione della diagnosi, ma che la tendenza è in favore di una tecnica chirurgica che va verso la trasposizione anteriore (Dellon, Barthes, Thoma, Macadam). In studi neurochirurgici recenti, randomizzati e controllati in via prospettica, è stato dimostrato che i rilievi elettrofisiologici non sono significativamente diversi nei casi sottoposti a semplice decompressione rispetto a quelli in cui il nervo è stato trasposto e che la decompressione semplice ha una minore incidenza di complicanze5. Questi ultimi risultati devono essere stimolo alla riflessione. BIBLIOGRAFIA 1. Osterman A.L., Davis C.A. “Subcutaneous transposition of the ulnar nerve for treatment of cubital tunnel syndrome.” Hand Clin.; 12:421-33 1996. 2. Macadam S.A., Gandhi R., Bezuhly M., Lefaivre K.A. “Simple decompression versus anterior subcutaneous and submuscular transposition of the ulnar nerve for cubital tunnel syndrome: a meta-analysis”. J. Hand Surg.; 33:1311-1312. 2008. 3. Black B.T., Barron O.A., Townsend P.F., Glickel S.Z., Eaton R.G. “Stabilized subcutaneous ulnar nerve transposition with immediate range of motion. Long-term follow-up”. J. Bone Jt Surg.; 82-A:1544-51. 2000. 4. Vigasio A., Marcoccio I. et al. “La lussazione abituale del nervo ulnare al gomito,una nuova proposta diagnostica”. Rivista Italiana di Chirurgia della Mano; 43(3):287-290 2006. 5. Gervasio O., Gambardella G., Zaccone C., Branca D. “Simple decompression versus anterior submuscular transposition of the ulnar nerve in severe cubital tunnel syndrome: a prospective randomized study”. Neurosurgery; 56:108-17, 2005. – 63 – Volume n. 38 - Anno 2015 IL TRATTAMENTO CHIRURGICO DELLA RIZOARTROSI TREATMENT OF CARPO-METACARPAL OSTEOARTHROSIS G. RISITANO, F. COGLITORE Casa di Cura “Cappellani Giomi” - Messina Parole chiave: rizoartrosi, mano, chirurgia. Key words: thumb artrhritis, hand, surgery. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Gli Autori illustrano la esperienza più recente nel trattamento di una patologia della mano sempre più frequentemente diagnosticata e trattata e riportano l’uso di quello che oggi riceve il consenso della comunità scientifica internazionale come il “golden standard” del trattamento chirurgico. ABSTRACT The Authors report their recent experience in treating carpo-metacarpal arthritis of the thumb, more and more frequently dignosed and treated by the procedure that has been adopted as the golden standard by the scientific consensus. INTRODUZIONE L’artrosi dell’articolazione alla base del pollice, ovvero dell’articolazione carpo-metacarpale o trapezio-metacarpica, è frequente ma spesso ben tollerata. La patologia è invalidante per persone con particolari esigenze funzionali e presenta uno spettro di situazioni anatomocliniche che pongono la necessità di diagnosticare, valutare e classificare i singoli casi, per usare strategie terapeutiche diverse di volta in volta. Per questo motivo abbiamo voluto esaminare la nostra esperienza nel trattamento di questa frequente patologia della mano, sia nelle forme più semplici e pauci sintomatiche, sia nelle forme più complesse con interessamento peri-trapeziale, che nelle forme post-traumatiche, mettendo a confronto il trattamento conservativo, le tecniche chirurgiche mini-invasive, la trapeziectomia con le sue varianti e le artroplastiche alternative. – 64 – Volume n. 38 - Anno 2015 MATERIALI E METODI La rizoartrosi si presenta solitamente in donne attive di mezza età, alla mano dominante, con un interessamento radiografico bilaterale1. Il trattamento conservativo, consistente nell’uso di un tutore, farmaci anti-infiammatori, terapia fisica e infiltrativa, rappresenta nella maggior parte dei casi la prima linea di trattamento. Nei pazienti con elevate richieste funzionali, o quando la sintomatologia non è controllata con i metodi conservativi e quando compare dolore anche a riposo, si consiglia il trattamento chirurgico2. Abbiamo effettuato uno studio retrospettivo per verificare quali indicazioni siano state poste, quali tecniche siano state usate e quali risultati sono stati conseguiti dagli AA negli ultimi 5 anni. Sono stati trattati chirurgicamente 35 pazienti, di cui soltanto 4 di sesso maschile, di età media di oltre 47 anni, nella maggior parte dei casi con una patologia bilaterale, prevalente dal lato dominante. I dati clinici sono riassunti nella tabella 1. I pazienti di sesso maschile erano i più giovani della serie e presentavano patologie della carpo-metacarpale del Iº raggio di tipo post- traumatico. Il trattamento chirurgico proposto ed eseguito nella quasi totalità dei casi è stato una trapeziectomia totale o subtotale, semplice o implementata da teno-sospensione mediante una striscia del tendine APL, passata attraverso una asola nel contesto del tendine FCR e suturata alla base del Iº metacarpo. Il postoperatorio è stato caratterizzato da una immobilizzazione rigida per circa 3 settimane, seguita da un protocollo di mobilizzazione attiva protetta con tutore amovibile per i primi 3 mesi. RISULTATI Non abbiamo avuto complicanze infettive e in nessun caso abbiamo eseguito un re-intervento. In 5 casi abbiamo avuto una sindrome tipo CRPS, ma blanda e regredita con l’uso del tutore ed un adeguato e tempestivo trattamento farmacologico e riabilitativo. In almeno 2 di questi casi era presente una parestesia con disestesia a livello dei rami sensitivi del nervo radiale, mai lesi, ma spesso irritati dal trauma chirurgico o dal processo cicatriziale. Dal punto di vista del controllo della sintomatologia dolorosa tutti i pazienti hanno manifestato un miglioramento significativo rispetto allo status pre-operatorio, risultato che si è concretizzato piuttosto lentamente, ma che ha continuato a migliorare nel tempo, anche nei casi con follow up più lungo. Per quel che attiene alla forza ed alla apertura del primo spazio possiamo considerare che il recupero della forza e della destrezza è lento, ma costante dopo i primi 3 mesi e si mantiene nel tempo. Se andiamo ad analizzare le prese di precisione (key pinch), ed in particolare la evoluzione della stabilità della articolazione metacarpo-falangea a valle della articolazione operata, dobbiamo ammettere che se esisteva una iperestensione della MF del pollice, questa non è migliorata con l’intervento e che, anzi, con il passare del tempo, la capacità di flettere questa articolazione durante il key pinch si riduceva in modo significativo. Il ritorno alle attività lavorative o amatoriali è avvenuto in modo unifomemente valido per tutti i pazienti operati e non abbiamo dovuto riscontrare variazioni delle mansioni pre-esistenti all’intervento. – 65 – Volume n. 38 - Anno 2015 – 66 – Volume n. 38 - Anno 2015 Fig. 1: Rizoartrosi con interessamento peritrapeziale (artrosi STT). DISCUSSIONE La trapeziectomia semplice o implementata da un gesto ancillare come la tenosospensione è ormai considerata dalla letteratura corrente come il mezzo migliore per trattare la rizoartrosi e la artrosi peri-trapeziale, comprese le forme di artrosi STT e le forme post-traumatiche, fermi restando i principi e le indicazioni per il trattamento conservativo della patologia. In effetti la trapeziectomia consente di controllare definitivamente il dolore e di mantenere la apertura del primo spazio per le prese grossolane della mano3. Si tratta, tuttavia, di un intervento che modifica, semplificandola, la biomeccanica della mano, la quale ha bisogno di tempo e di accomodamenti importanti per ripristinare i parametri funzionali. In particolare, i parametri di stabilità della prima colonna della mano, della forza nelle prese direzionali e la prevenzione o il trattamento della iperestesione della MF del pollice, non sono sufficientemente migliorati dalla asportazione del trapezio senza una sua sostituzione. Per questo alcune scuole di pensiero, specie oltre oceano, insistono sulla utilità di andare ad esplorare o ri-esplorare trattamenti sostitutivi come le artrodesi o le artroplastiche con impianti. Per le prime le indicazioni sono limitate solo a soggetti giovani, destinati a lavori pesanti, con alterazioni localizzate (post- traumatiche) e, quindi, senza lesioni peritrapeziali; per le altre, fallite tutte le protesi finora proposte, compresi spaziatori di diverso tipo, anche biologici, ci si orienta sulla possibilità di una vera e propria sostituzione fisiologica del trapezio, senza sostituzione della base del metacarpo, così da assicurare maggiore forza e funzionalità in pinch della mano dominante. – 67 – Volume n. 38 - Anno 2015 BIBLIOGRAFIA 1. Armstrong A.L., Hunter J.B., Davis T.R. “The prevalence of degenerative arthritis of the base of the thumb in post-menopausal women”. J. Hand Surg Br., 19: 340 1994. 2. Wolf J.M., Delaronde S. “Current trends in nonoperative and operative treatment of trapeziometacarpal osteoarthritis: a survey of US hand surgeons”. J. Hand Surg Am., 37: 77-82. 2012. 3. Gangopafhyay S., McKenna H., Burke F.D., Davis T.R. “Five to 18 year follow-up for treatment of trapezio-metacarpal osteoarthritis: a prospective comparison of excision, tendon interposition and ligament reconstruction and tendon interposition”. J. Hand Surg. Am. 37 (3): 411-17, 2012. – 68 – Volume n. 38 - Anno 2015 METODICHE CHIRURGICHE PER IL RIPRISTINO DELLA FUNZIONE DEI NERVI PERIFERICI SURGICAL TECHNIQUES IN RESTORING FUNCTION OF THE PERIPHERAL NERVE G. RISITANO Casa di Cura “Cappellani Giomi” - Messina Parole chiave: nervi periferici, tubulizzazione, neurotizzazione, nerve transfer. Key words: peripheral nerve, tubulization, neurotization, nerve transfers. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO L’Autore prende spunto dal Simposio sul Sistema Nervoso Periferico tenutosi a Torino il 27 Novembre 2015 per fare una riflessione personale sullo stato dell’arte nella chirurgia funzionale delle lesioni dei nervi periferici, rivedendo i dati della letteratura, sia per quel che attiene alla riparazione diretta mediante tecniche di sutura e innesti, sia per quel che attiene ai trasferimenti di fascicoli distali con le metodiche di “baby sitting” o “supercharge”. ABSTRACT The Author, according to the Peripheral Nerve Symposium held in Turin on November 27th 2015, offers informations and thoughts about the state of the art in reconstructive surgery of the peripheral nerve lesions, looking at the uptodate knowledge about direts repair or grafts and other functional methods as nerve transfers, baby sitting and supercharge procedures. INTRODUZIONE Il problema che anche oggi si pone davanti a coloro che in Ortopedia, in Chirurgia Plastica, in Neurochirurgia, in Chirurgia Generale o in Chirurgia della Mano, si cimentano con la ricostruzione dei nervi periferici è che il recupero della funzione dopo una lesione è sempre parziale. La complessità anatomica e funzionale di un nervo periferico fa sì che anche le tecniche microchirurgiche non consentano una ricostruzione “cellulare” e che, quindi, i risultati funzionali non siano mai all’altezza delle attese del chirurgo e dei pazienti. Il nervo leso possiede la capacità di rigenerare gli assoni, ma questa rigenerazione può – 69 – Volume n. 38 - Anno 2015 essere insufficiente ad assicurare un recupero della funzione nervosa se la lesione è lontana dagli organi bersaglio, se la distanza fra i due monconi del nervo supera i 2-5 cm, se il nervo è complesso ed i suoi fascicoli nervosi motori e sensitivi non trovano la strada giusta e se la età e le condizioni del paziente non sono favorevoli alla ripresa funzionale. La chirurgia dei nervi periferici si basa su tecniche microchirurgiche che tendono a ripristinare la continuità del nervo lesionato, mediante una neurorrafia termino-terminale senza tensione oppure mediante la interposizione di un innesto nervoso autologo, offrendo agli assoni rigeneranti e alle cellule di Schwann il supporto per il superamento dello spazio fra la sede della lesione e gli organi bersaglio. Il recupero della funzione è tuttavia limitato dalla non-specificità della rigenerazione, dal tempo e dalla distanza, per cui una lesione prossimale è destinata ad un recupero spesso insoddisfacente della funzione dell’arto. In occasione del XXVI Congresso della Società Italiana di Microchirurgia è stato possibile fare un’analisi delle tecniche di ricostruzione funzionale dei nervi periferici e di valutarne i risultati, sia nella ricerca che nella clinica. Per le lesioni nervose più distali possono essere presi in esame i lavori sperimentali e clinici sulla rigenerazione dei nervi periferici attraverso condotti e guide biologiche e sintetiche, in confronto a quello che ancora oggi, secondo Millesi, è il “golden standard”, vale a dire l’innesto nervoso autologo. Esso rappresenta, in assenza della possibilità di una sutura microchirurgica termino-terminale senza tensione, il modo migliore per dare supporto ai processi di rigenerazione assonale e della glia, per ottenere un risultato ottimale anche se non del tutto soddisfacente1. In particolare l’uso di innesti di vena autologa si è rivelato un buon supporto per la ricostruzione di una lesione con un gap non superiore ai 3-5 cm, soprattutto nei nervi digitali e nei nervi sensitivi in genere2; nella ricostruzione di grossi tronchi nervosi (nervi misti) e per gap superiori a 5 cm i risultati non possono essere considerati accettabili. Anche la implementazione del tubulo di vena con tessuto muscolare o con tessuto ingegnerizzato non ha consentito di superare distanze maggiori ma solo a dare maggiore sostegno alla rigenerazione, grazie all’azione di riempimento meccanico che permetteva che la vena non si collassasse3. Nella ricostruzione delle lesioni del plesso brachiale nell’adulto ed in età pediatrica la tubulizzazione biologica ha un ruolo importante, ma sempre e solo allo scopo di riunire con un condotto e una guida biologica strutture nervose non troppo distanti, cosa che si verifica più facilmente nella chirurgia delle paralisi ostetriche4. La tubulizzazione con condotti sintetici non dà gli stessi risultati della tubulizzazione biologica, anche se impianti permeabili, riassorbibili e ingegnerizzati possono sempre dare speranze per il futuro. Allo stato attuale i tubuli biologici conservano quelle che sono le caratteristiche necessarie per fare da supporto alla rigenerazione nervosa. Resta ancora valido per perdite di sostanza superiori a 5 cm il ricorso alla ricostruzione mediante innesti nervosi autologhi, che però hanno lo svantaggio di non essere molto numerosi e di lasciare comunque un deficit sensitivo ed una cicatrice a livello del sito donatore. Nelle lesioni più prossimali o nelle perdite di sostanza più ampie la ricostruzione mediante ponteggi, sia di tubuli e sia di nervo autologo, dà luogo a risultati clinici poco soddisfascenti, sicchè ci si orienta sempre più spesso su una chirurgia “funzionale” che, invece di ricostruire il “gap” nervoso, preferisce “trasferire” unità nervose distali alla lesione che – 70 – Volume n. 38 - Anno 2015 risultino spendibili e sincrone con la funzione del nervo leso. In analogia a quanto si fa con i trasferimenti di unità funzionali muscolo-tendinee per vicariare la funzione meccanica di muscoli e tendini lesi e irrecuperabili, emerge in questi ultimi anni la tendenza ad utilizzare i cosiddetti “transfer” nervosi. Già Brunelli aveva proposto ed affermato la tecnica della “neurotizzazione” diretta delle strutture muscolari in casi particolari di lesioni dei nervi periferici. La neurotizzazione “indiretta” è invece una tecnica che prevede la ricostruzione funzionale di un tronco nervoso de-afferentato utilizzando come donatore di assoni rigeneranti un nervo vicino ad esso, di cui alcuni fascicoli vengono sacrificati per raggiungere gli organi bersaglio (motori) prima che questi divengano atrofici e pertanto funzionalmente inefficienti. Queste tecniche sono state utilizzate e rese popolari da Narakas5 soprattutto nella chirurgia funzionale delle lesioni del plesso brachiale nell’adulto, ma non sono state ben accolte dalla comunità scientifica per la ricostruzione funzionale dei tronchi nervosi più importanti dell’arto superiore e della mano. Decenni di studi clinici condotti soprattutto da McKinnon et al.6 hanno fatto pian piano cambiare atteggiamento nei confronti di queste metodiche, al punto che oggi si può proporre, oltre che il sacrificio di un fascicolo motorio del nervo ulnare per innervare il bicipite brachiale attraverso il trasferimento sul moncone distale del nervo muscolo-cutaneo, anche il trasferimento di un fascicolo motorio del nervo mediano intatto, destinato al muscolo pronatore quadrato o flessore superficiale delle dita sul fascicolo motorio del nervo ulnare danneggiato da una lesione prossimale, la cui ricostruzione mediante sutura diretta o innesti a livello prossimale non avrebbe mai potuto portare in tempi utili ad una reinnervazione utile degli organi bersaglio del nervo ulnare stesso. Anche noi abbiamo avuto la opportunità di evidenziare, sia a livello sperimentale7 che clinico8, come tecniche di connessione periferica end-to side o side to side possano dare risultati funzionali più soddisfacenti nelle lesioni prossimali, utilizzando i nervi periferici funzionanti per manterenere il trofismo degli organi bersaglio (baby sitting) e per migliorare la entità del recupero funzionale anche dopo la riparazione diretta prossimale (supercharge) (Fig 1). – 71 – Volume n. 38 - Anno 2015 BIBLIOGRAFIA 1. Millesi H. “Nerve transplantation for reconstruction of peripheral nerves injured by the use of the microsurgical technique”. Minerva Chir. 22 (950-1), 1967. 2. Tang J.B., Gu Y.O., Song YS. “Repair of d igital nerve defect with autogenous vein graft during flexor tendon surgery in zone 2”. J. Hand Surg Br., 18 (449-53) 1993. 3. Brunelli G.A., Battiston B.,Vigasio A., Brunelli G., Marocolo D. “Bridging nerve defects with combined skeletal muscle and vein conduits”. 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Plast Aesthet Res; 2:(208-12) 2015. – 72 – Volume n. 38 - Anno 2015 IL TRATTAMENTO CON LARS NELLE RECIDIVE E NELLE LESIONI IRREPARABILI DEL TENDINE D’ACHILLE RECURRENT AND NOT HEALED ACHILLE’S TENDON LESION TREATED THROUGH LARS TECHNIQUE G.S. LORENZO, M. BIANCOROSSO, P. CAVALIERE, M.R. LORENZO Istituto “Franco Faggiana” - Reggio Calabria Parole chiave: tendine di Achille, sistema di rinforzo legamentoso avanzato, Lars, recidive. Key words: Achille’s tendon, ligament advanced reinforcement system, Lars, recurrences. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Oggetto dello studio è quello di presentare i risultati della ricostruzione chirurgica delle lesioni irreparabili del tendine d’Achille con il rinforzo legamentoso avanzato (LARS). I controlli a breve termine hanno dimostrato i buoni risultati della tecnica, in accordo con la recente letteratura internazionale. ABSTRACT The aim of the studies to show results of Achilles Tendon (AT) reconstruction surgery using ligament advanced reinforcement system (LARS) in case of irreparable lesion of AT. Results of our Short Term Follow up demonstrate the good outcome of this technique according to the recent international literature. INTRODUZIONE Le recidive di lesioni del tendine di Achille e le lesioni irreparabili, per fortuna non molto frequenti, non sono di cura tanto facile. La lesione si verifica in un tessuto già particolarmente degenerato e sfibrato, spesso con un gap importante per retrazione tra i monconi, in particolare nelle lesioni inveterate e nelle recidive di lesioni già riparate chirurgicamente. Le controversie maggiori riguardano il tipo di trattamento. Il trattamento da noi seguito è stato quello chirurgico con l’utilizzo del legamento artificiale LARS (Ligament Advanced Reinforcement System). Si tratta di un legamento composto da 60 fibre longitudinali di poliestere, con una resistenza di 2600 newtons (fig.1). – 73 – Volume n. 38 - Anno 2015 Il tendine artificiale presenta tre parti distinte: una prossimale piatta, che corrisponde al moncone prossimale; una intermedia di fibre longitudinali libere, che corrisponde alla zona di rottura; una distale in cordone cilindrico, che corrisponde al moncone distale del tendine rotto. MATERIALI E METODI Presso l’Istituto “F. Faggiana” di Reggio Calabria dal gennaio 2013 al febbraio 2016 abbiamo trattato 42 pazienti con lesione del tendine di Achille. In 13 pazienti è stato necessario l’utilizzo del legamento artificiale LARS per la presenza di tessuto notevolmente degenerato (fig. 2-3) e sfibrato, sia a monte che a valle della lesione, a cui spesso si associava anche una importante retrazione dei monconi, specie nelle lesioni inveterate giunte alla nostra osservazione dopo molto tempo dall’evento traumatico. In due casi era presente una recidiva dopo una precedente lesione già trattata chirurgicamente. Si è trattato di 11 uomini e 2 donne, con età media di 42 anni. Tutti i pazienti hanno eseguito esame ecografico e RMN pre-operatori e post-operatori. La tecnica chirurgica che abbiamo utilizzato è quella del dr. Nicolas Duval, che prevede l’introduzione con sutura del tendine artificiale all’interno del moncone prossimale (fig. 4-5) ed anche all’interno del moncone distale, con ancoraggio al calcagno con vite interferenziale (fig. 6). Non abbiamo avuto nessuna complicanza legata all’utilizzo del LARS, né recidive in merito. Nel post-operatorio la sutura è stata protetta immobilizzando la caviglia con un tutore a 90°, la mobilizzazione cauta attiva e passiva della caviglia è iniziata in quarta giornata, il divieto di carico è stato di 35 giorni. Cauta attività sportiva e lavorativa dopo sessanta giorni. Fig. 1: Legamento artificiale LARS (Ligament Advanced Reinforcement System). – 74 – Volume n. 38 - Anno 2015 Fig. 2 Fig. 3 Fig. 2-3: Moncone distale notevolmente degenerato. Fig. 4 Fig. 5 Fig. 4-5: Sutura del tendine artificiale LARS all’interno del moncone prossimale e passaggio all’interno del moncone distale. – 75 – Volume n. 38 - Anno 2015 Fig. 6 Fig. 6: Ancoraggio distale del tendine LARS al calcagno con vite interferenziale. RISULTATI Abbiamo rivisto a controllo 8 dei pazienti trattati con legamento artificiale LARS. A tutti abbiamo eseguito esame ecografico e RMN di controllo. Un solo paziente ha presentato problemi di cicatrizzazione della ferita; nessuno disturbi sensoriali; nessuno problemi di natura infettiva, anche se in letteratura i dati pubblicati mostrano un rischio di infezione < 1%. Tutti i pazienti sono tornati alle loro precedenti attività lavorative senza deficit di forza della flessione plantare. In tutti i pazienti il decorso post operatorio è stato regolare e rapido. – 76 – Volume n. 38 - Anno 2015 CONCLUSIONI La chirurgia ricostruttiva con LARS nelle riparazioni delle recidive e delle lesioni irreparabili del tendine d’Achille ha dato buoni risultati. L’utilizzo di una armatura protesica endotendinea ha il merito di rendere la ricostruzione immediatamente robusta e soddisfacente per il chirurgo e, nel medesimo tempo, rende il decorso post-operatorio più semplice e più rapido per il paziente. Riteniamo pertanto che la riparazione delle lesioni irreparabili del tendine di Achille con il legamento artificiale Lars sia un’ottima soluzione chirurgica nelle lesioni con notevole degenerazione. Riteniamo, pertanto, questa metodica un aiuto valido nei casi in cui le metodiche classiche di ricostruzione con le varie suture (termino-terminali, di ribaltamento o di rinforzo con il tendine plantare gracile) non diano una buona garanzia di tenuta. BIBLIOGRAFIA 1. 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Key words: arthrorisis subtalar, Kalix II, flat foot. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Il piede è un organo complesso, costituito da un grande numero di articolazioni che ne consentono il movimento. Gli archi plantari hanno lo scopo di migliorare la distribuzione del peso corporeo sulla esigua superficie del piede. Per piede piatto valgo si intende un’alterazione morfologica del piede, caratterizzata da valgismo del retropiede e diminuzione dell’arcata plantare. L’endortesi Kalix II, in lega di Titanio e Polietilene ad alta densità, è stata creata per il trattamento del piede iperpronato e per la stabilizzazione dell’articolazione sottoastragalica. Tra Gennaio 2009 e Dicembre 2014 sono stati sottoposti a risi sottoastragalica con endortesi Kalix II4,5,16,38 648 piedi di pazienti di età compresa tra i 10 e 15 anni, 421 maschi e 227 femmine. I casi sono stati tutti controllati con un Follow-up massimo di 5 anni e minimo di 6 mesi. ABSTRACT The foot is a complex organ, consisting of a large number of joints which allow its movement. The plantar arches have the purpose of improving the distribution of body weight on the small surface of the foot. The endorthesis Kalix II, in titanium alloy and high-density polyethylene, was created for the treatment of iperpronated foot and for stabilization of the subtalar joint. Between January 2009 and December 2014 have been subjected to arthrorisis subtalar with endorthesis Kalix II, 648 feet of patients aged between 10 and 15 years, 421 males and 227 females. The cases were all controlled with a maximum follow-up of 5 years and a minimum of 6 months. – 79 – Volume n. 38 - Anno 2015 INTRODUZIONE Il piede è un organo complesso, costituito da un grande numero di articolazioni, che ne consentono il movimento e l’adattabilità a tutte le superfici. Si tratta di una struttura che ci permette di scaricare il peso corporeo sulle varie superfici che calpestiamo, sia nella vita quotidiana sia nello sport. Con le sue afferenze propriocettive è parte integrante del sistema posturale posseduto dall’uomo, che gli permette il controllo antigravitario e la deambulazione. L’adattabilità alle varie condizioni di deambulazione è dovuto in particolare al movimento dell’articolazione sottoastragalica; l’astragalo ed il calcagno, difatti, sono molto importanti nella biomeccanica del piede. L’astragalo (una delle ossa meno vascolarizzate dell’organismo, ricoperto all’80% da cartilagine per consentire la fluidità nel movimento) è posto al centro del piede e costituisce il perno osseo di tutta la regione; esso distribuisce sugli archi plantari il peso del corpo, che viene poi scaricato su tre punti principali di appoggio, ovvero la tuberosità posteriore del calcagno e le teste del primo e quinto metatarso (in ordine decrescente). Non a caso quindi, il calcagno è molto voluminoso; nella parte posteriore del calcagno vi è una sporgenza rugosa sulla quale si inserisce il tendine calcaneare ( tendine di Achille), che origina dai muscoli del tricipite della sura, fondamentale per la deambulazione. Gli archi plantari hanno lo scopo di migliorare la distribuzione del peso corporeo sulla esigua superficie del piede, sia in posizione eretta che durante la deambulazione. In particolare, l’arco mediale (il centro della volta) è deputato a sostenere l’intero peso corporeo. Per piede piatto valgo si intende un’alterazione morfologica del piede, caratterizzata da valgismo del retropiede e diminuzione dell’arcata plantare. Il mantenimento dell’arcata plantare dipende da una adeguata interazione tra gli elementi muscolari, legamentosi ed ossei, sottoposti alla regolazione del sistema nervoso che mantiene il tono muscolare e garantisce la coordinazione dei movimenti. Nel piede piatto valgo il calcagno è in flessione plantare, l’astragalo effettua un esagerato movimento di discesa in avanti, in basso ed in dentro e trascina con sè lo scafoide, i metatarsi si vengono a trovare tra la forza di discesa dello scafoide e la forza ascendente del terreno sul piede e tendono a sublussarsi verso l’alto, la tibio-peroneale è estesa, la sub-astragalica è pronata, l’articolazione di Chopart è abdotta e flessa dorsalmente, il resto del piede è supinato. Si ha una detorsione delle articolazioni plastiche del piede, con supinazione dell’avampiede e conseguente valgismo del retro piede. Elementi fondamentali del trattamento chirurgico del piede piatto valgo infantile: 1 – riduzione del rapporto tra astragalo e calcagno, 2 – correzione del valgismo impedendo il crollo mediale, 3 – mantenimento della correzione per un tempo sufficiente a consentire la ristrutturazione dello scheletro del retropiede durante l’accrescimento, mantenendo un’adeguata stimolazione propriocettiva. Per raggiungere questo scopo sono state studiate ed attuate numerose tipologie di interventi: - innesti ossei (frequenti le rigidità secondarie da reazione osteogenica, recidiva da riassorbimento), – 80 – Volume n. 38 - Anno 2015 - artrorisi eso-seno-tarsiche (mobilizzazione o rottura impianto - danno osseo - decubiti da sporgenza della vite), artrorisi endo-seno-tarsiche (Lesioni delle strutture seno tarsiche come leg. interosseo, sede dei corpuscoli propriocettivi del Golgi)12,13,17,18,21,23,24,26,27,28,29,31,33,34,35,36,37,56,57,62,63,65,66,70,71. MATERIALI E METODI L’endortesi Kalix II, in lega di Titanio e Polietilene ad alta densità, è stata creata per il trattamento del piede iperpronato e per la stabilizzazione dell’articolazione sottoastragalica. È stata disegnata per bloccare il crollo e la dislocazione del talo, consentire una normale articolarità della sottoastragalica bloccando l’eccessiva pronazione e le sue conseguenze. Fig. 1: Endortesi senotarsica Kalix II e strumentario. L’obiettivo secondo Viladot4,3,5,16,38,52,64,68,75,78,83 è riempire il cilindro cavo che forma il seno del tarso con un robusto cilindro che impedisce lo scivolamento dell’astragalo sul calcagno in avanti, medialmente ed in basso, senza bloccare completamente l’articolarità. Se l’astragalo si mantiene “in sella” sul calcagno, anche il calcagno non può angolarsi in valgismo perché non riesce a sfuggire al carico regolare di tutto l’osso astragalico. – 81 – Volume n. 38 - Anno 2015 Controindicazioni: piede piatto rigido o con deformità associate, piede piatto con adduzione dell’avampiede, rotture croniche del tendine tibiale posteriore, artriti sintomatiche, affezioni neurologiche (paraplegia), allergie o intolleranze ai metalli presunte o accertate. TECNICA CHIRURGICA A B D F I C E G H J Fig. 2: Tecnica Chirurgica A: incisione sul seno del tarso. B: misurazione con blocchetti di prova. C: controllo scopico della prova. D: Kalix montata sulla pistola applicatrice. E: inserimento nel seno del tarso. F: controllo scopico inserimento impianto in proiezione antero-posteriore. G: posizione dell’endortesi. H: controllo scopico dell’endortesi applicata. I: visione chirurgica. J: controllo scopico in proiezione laterale. – 82 – Volume n. 38 - Anno 2015 CASISTICA Tra Gennaio 2009 e Dicembre 2014 sono stati sottoposti a risi sotto astragalica con endortesi Kalix4,5,16,38 648 piedi di pazienti di età compresa tra i 10 e 15 anni, 421 maschi e 227 femmine; 30 pazienti presentavano sinostosi fibrosa astragalo calcaneare, 11 pazienti piede piatto neurologico. I casi sono stati tutti controllati con un Follow-up massimo di 5 anni e minimo di 6 mesi. Il 96% dei pazienti considerati avevano eseguito un trattamento conservativo con ortesi per un minimo di 2 anni, alcuni fino all’intervento. L’indicazione chirurgica si è basata in tutti i casi su: • Anamnesi (familiarità, malattie genetiche, malattie neuro muscolari etc.). • Esame clinico, elemento importante per valutare la severità prognostica ed il grado di valgismo (un piatto di secondo grado associato a notevole valgismo ci orienta verso l’intervento). Il test dell’alluce negativo indica ipotonia dei muscoli flessori con impossibilità di una correzione attiva non chirurgica. Nell’ultima fase del passo posteriore, quando il piede sta per staccarsi da terra, la persistenza del valgismo calcaneare è un indice prognostico sfavorevole. Obesità, iperlassità legamentosa, rilievo podografico, deficit dell’equilibrio in stazione monopodalica, scarsa correggibilità del retropiede in stazione eretta sulle punte, retrazione del sistema Tricipite – Tendine di Achille, deficit nella deambulazione sui talloni, sono i segni clinici presi in considerazione più frequentemente dalla maggior parte degli Autori30,55,61,70. • Esame radiografico dei piedi sotto carico nelle proiezioni standard (laterali e dorso plantari) valutando gli angoli astragalo-calcaneari1,6,8,14,79. A D B C E Fig. 3 - A. B. C. rilievi radiografici delle divergenze astragalo calcaneari (Angolo Costa Bertani, Angolo di Kite), D. E. rilievi podoscopici e differenze nel valgismo del calcagno (D) e della volta plantare (E) nello stesso soggetto tra il piede operato e l’altro non operato. – 83 – Volume n. 38 - Anno 2015 RISULTATI I risultati sono stati valutati in base a morfologia del piede (eccellenti 35%, buoni 49%, sufficienti 9%, cattivi 7%), dolore (dolenzia alla deambulazione prolungata in 10 casi, regredita in poche settimane), motilità-funzionalità (ROM completo), possibilità di svolgere sport (in tutti i casi ripresa dell’attività sportiva in 6 mesi; il 70% dei maschi ed il 5% delle femmine praticavano calcio – 15% dei maschi ed il 18% delle femmine praticavano pallavolo o pallacanestro), soddisfazione del paziente e soddisfazione dei genitori. Miglioramento AOFAS SCORE da un preoperatorio di 82,50 ad un postoperatorio di 97,10. Vi è stato anche un miglioramento degli angoli di Costa-Bertani (preop 144°- postop 126°) e di Kite ( preop 26,6° - postop 21,8°). Scheda di valutazione Abbiamo utilizzato una scheda da noi appositamente creata che viene compilata nel preoperatorio e poi ai controlli ad 1-3-6-mesi, 1 anno 2 anni e dopo rimozione dell’impianto (Fig. 4). Fig. 4. – 84 – Volume n. 38 - Anno 2015 Dopo l’intervento abbiamo applicato a tutti i pazienti un gambaletto in materiale sintetico per 3 settimane. Alla rimozione del gambaletto viene consigliato l’uso di scarpe con air system, idrochinesiterapia con esercizi di deambulazione e corsa in acqua. Non abbiamo riscontrato contratture da irritazione delle strutture recettoriali seno tarsiche. Le indagini istologiche eseguite sugli impianti rimossi e sui prelievi dei tessuti circostanti non hanno fatto rilevare segni di irritazione o flogosi. Nei primi tempi della deambulazione la maggior parte dei pazienti deambulava con il piede in supinazione, atteggiamento che si normalizzava nell’arco di 3 mesi. Complicanze41,42,49,58,72 – Nella nostra casistica riportiamo alcune complicanze generiche e specifiche della metodica: in 4 casi di infezioni cutanee superficiali; in 7 casi mobilizzazioni dell’endortesi entro il primo anno (5 casi per distorsione traumatica; 2 casi per sovradimensionamento dell’impianto); in 10 casi sindromi seno-tarsiche – tutte risolte in breve tempo. CONCLUSIONI In base alla nostra esperienza riteniamo che, essendo il piede piatto valgo una deformità frequente quanto complessa, la stessa vada trattata chirurgicamente in età di accrescimento, quando, dopo un’attenta valutazione morfologica e funzionale, sia clinica che strumentale, si evidenzi una prognosticità negativa. Il trattamento dovrebbe essere eseguito tra i 10 e 15 anni in modo da prevenire o risolvere l’insorgenza di sindromi dolorose o deformità secondarie. La risi con endortesi senotarsica Kalix II è un intervento a nostro avviso semplice, rapido, poco invasivo e permette di rispettare le strutture anatomiche del piede, salvaguardando la propriocezione. Unico inconveniente può essere la necessità di rimuovere l’endortesi dopo un certo periodo di tempo, in genere 2 anni. BIBLIOGRAFIA 1. Wong M.W., Griffith J.F. “Magnetic resonance imaging in adolescent painful flexible flatfoot”. Foot Ankle Int. 2009 Apr; 30(4):303-8. 2. Michael S. Lee, Jared M. “Revision of Failed Flatfoot Surgery. Clinics in Podiatric Medicine and Surgery”. Volume 26, Issue 1, January 2009, Pages 47-58. 3. Jerosch J., Schunck J., Hazem A.A. “The stop screw technique - A simple and reliable method in treating flexible flatfoot in children”. Foot and Ankle Surgery, In Press, Corrected Proof, Available online 27 February 2009. 4. Galloppi V., Russo N., Billi A., Pizza G. “Treatment of child Valgus Flat Foot with expansion endorthesis Kalix II. Our experience”. 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Piede piatto dell’adolescente e dell’adulto. Sindrome di Civinini-Morton. Morbo di Haglund. Key words: foot and ankle x ray, computed tomography, RM, ecography. Young and elder platfoot. Civinini-Morton and Haglund diseases. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Gli Autori prendono spunto dalla trattazione generale della fisiopatologia del piede piatto dell’adolescente e della patologia del piede dell’adulto, oggetto del simposio svolto a Messina il 23.01.2016, per illustrare le varie tecniche di diagnostica per immagini oggi a disposizione del radiologo, ed espongono alcuni esempi di fisiopatologia del piede e della caviglia estrapolati, ad alcuni dalla casistica delle indagini diagnostiche effettuate presso l’Istituto “Franco Scalabrino” di Messina negli ultimi 5 anni, con precipuo riferimento al alcuni dettagli quali l’evidenziamento ecografico del Morbo di Civinini Morton e le modificazioni dell’assetto strutturale del piede nella sindrome di Haglund. Gli Autori sottolineano l’efficacia dello studio solo se lo stesso viene fondato sulla associazione tra le varie tecniche effettuate e soprattutto sulla collaborazione indispensabile con l’ortopedico ed il fisiatra al fine di una definizione sempre più accurata del percorso diagnostico e del più adeguato indirizzo terapeutico. ABSTRACT The recent Congress on the physiopatology of plat-foot in young people, and on some pathologic features in elder’s foot (Messina 23/01/2016) gave us the expedience to present the diagnostic techniques actually available for the radiographic study (and namely: traditional X-ray, TC, RMN and echography), and to illustrate some foot-and ankle pathology in young – 92 – Volume n. 38 - Anno 2015 and elder people, following the last 5 years examinations by “Franco Scalabrino” Institute in Messina, with main reference to some particular pathology, as the Civinini-Morton and Haglund diseases. Following the Author’s opinion, the effectiveness of the study depends upon the combination of the different techniques, if it appears need, and chiefly upon the jointly work with the physician and the specialist. INTRODUZIONE Anche se l’esame radiografico costituisce ancora oggi il pilastro fondamentale dell’impianto diagnostico per le più svariate immagini sulla fisiopatologia delle affezioni interessanti il sistema di appoggio del piede dell’uomo nelle sue varianti essenziali della statica e della cinematica funzionale, da qualche decennio altre metodiche, quali la ecografia, la Tomografia Computerizzata e la RMN, hanno integrato in misura determinante il supporto per la definizione diagnostica, consentendo una essenziale discriminazione nosografica nell’ampio spettro della fisiopatologia del piede e del collo-piede, già oggetto di studi consolidati nel periodo precedente l’avvento di queste più recenti metodiche strumentali. L’approfondimento dello studio, grazie al contributo di questi presidi propri della diagnostica per immagini, ha evidenziato la necessità di una collaborazione sempre più stretta con il clinico, sia per l’integrazione tra i dati della deformazione clinica ed i disturbi accusati dal soggetto con quelli che rappresentano la complessa morfologia del piede tramite la ricostruzione 3D delle diverse componenti della anatomia del piede e della caviglia, sia per le modificazioni evidenziate dalla diagnostica per immagini dopo gli interventi di trattamento applicati nel singolo caso. Tutto ciò ha comportato una migliore definizione di quadri al limite tra norma e patologia nelle fasi successive dello sviluppo, come pure quella di alcuni aspetti patologici del piede dell’adulto abbastanza definiti sotto il profilo clinico, ma identificabili in modo determinante grazie alle particolari tecniche oggi a disposizione della diagnostica per immagini. Sulla base di questa premessa abbiamo ritenuto meritevole di interesse il richiamo sulla importanza delle varie metodiche proprie della diagnostica per immagini evidenziando in modo particolare alcune patologie sulle quali, sino ad oggi, sussistono pareri discordanti, sia per la definizione nosografica che per le modalità di trattamento. MATERIALI E METODI Nel periodo compreso tra il 1/1/2010 ed il 31/12/2015, nel servizio di Diagnostica per immagini del nostro Istituto abbiamo effettuato accertamenti con le metodiche strumentali in nostra dotazione su un totale di 1416 soggetti, 862 maschi e 534 femmine, per i quali da parte del medico curante o del fisiatra o dello specialista ambulatoriale erano stati posti quesiti per l’accertamento di eventuali patologie. Dei soggetti esaminati 456 erano bambini di età compresa tra i 3 ed i 10 anni, 858 adolescenti tra 11 e 16 anni, 116 adulti di varia età ma tutti ad accrescimento ultimato. Nel 76% dei casi l’accertamento ha avuto esito positivo per la indicazione di qualche condizione al di fuori della norma, nel 24% il soggetto non ha rivelato alcun elemento di conclamata patologia, tenendo sempre presente che per il quadro più frequente per il quale veniva – 93 – Volume n. 38 - Anno 2015 richiesto l’accertamento, quello del piede piatto dell’età evolutiva, il confine tra la norma e la patologia, e soprattutto la correggibilità o meno della modificazione della morfologia del piede e del collo-piede sono elementi talmente indefinibili da vanificare ogni tentativo di una collocazione certa del singolo caso entro i limiti della fisiologia o al di fuori di essa. Per questa ragione, al fine di evitare di entrare in dettagli superflui, o peggio ancora per non incorrere nel rischio di interpretazioni erronee, abbiamo ritenuto opportuno limitarci ad indicare le possibilità di identificazione diagnostica che competono a ciascuna delle quattro tecniche basilari di indagine, al fine di segnalare in modo estremamente sintetico solo quegli aspetti di fisiopatologia del piede e del collo-piede che possano trarre una qualche utilità nell’ambito della diagnostica clinica. Fig. 1 - Pesplanus (PP) è la perdita dell’arco longitudinale mediale del piede. La caduta della volta plantare determina una distribuzione anomala delle forze di carico sulle ossa e sui tendini, con sovraccarico di tutta la zona interna del piede, il cosiddetto piede astragalico, deputato alla funzione ammortizzante del piede. Fig. 2A - L’ingrandimento delle immagini non modifica la valutazione degli angoli. – 94 – Volume n. 38 - Anno 2015 Fig. 2B L’ingrandimento delle immagini non modifica la valutazione degli angoli. Fig. 3 - Proiezioni standard nello studio radiologico del piede. – 95 – Volume n. 38 - Anno 2015 Linea di Feiss Retta che passa per il centro del corpo dell’astragalo e per il punto più basso della testa del I metatarso. In condizioni normali tocca nel suo decorso il centro dello scafoide. Fig. 4 ASSI DI MONTAIGNE Proiezione LL sottocarico Prendendo come riferimento un piano verticale che passa per l’interlinea calcaneocuboidea, da questo si tracciano tre linee: I) linea di Schade, lungo l’asse del I° metatarso II) linea lungo l’asse longitudinale del V metatarso III) linea che raggiunge il punto medio della tuberosità posteriore del calcagno. – 96 – Volume n. 38 - Anno 2015 Gli angoli che si vengono a formare dall’intersezione delle tre linee con quella verticale indicano le eventuali modificazioni della volta plantare: Intersezione I linea > 67° Intersezione II linea > 66° Intersezione III linea > 76° Fig. 5 Fig. 6 – 97 – Volume n. 38 - Anno 2015 Linea di Schade La retta condotta su radiogramma di piede normale, nel suo decorso attraversa il centro dello scafoide e del I cuneiforme. Fig. 7 – 98 – Volume n. 38 - Anno 2015 ANGOLO DI KITE O DIVERGENZA ASTRAGALO-CALCANEARE Fig. 8 ANGOLI DI MOREAU E DI COSTA-BERTANI Costa-Bertani Due linee: una parte da punto più basso della tuberosità posteriore del calcagno, l’altra dal punto più basso del sesamoide interno dell’alluce. S’incontrano al bordo inferiore della testa astragalica. – 99 – Volume n. 38 - Anno 2015 Fig. 9 Moreau Due rette che, partendo dal punto più basso dell’interlinea calcagno-cuboidea, si dirigono l’una al margine inferiore della testa del V metatarso, l’altra al punto più basso della tuberosità posteriore del calcagno. ANGOLO DI ROCHER Formato dalla congiunzione di una retta passante per i punti più bassi della tuberosità posteriore del calcagno e dell’interlinea calcaneo-cuboidea con prolungamento della linea condotta lungo l’asse longitudinale del I raggio metatarsale. Fig. 10 – 100 – Volume n. 38 - Anno 2015 CALCANEAR PITCH L’angolo formato dal piano orizzontale ed una linea che va dal piano di appoggio plantare ad una linea lungo la corticale inferiore del calcagno. Se inferiore a 20°caratterizza il piede piano, se superiore a 25° il piede cavo. Fig. 11 – 101 – Volume n. 38 - Anno 2015 TALOCALCANEAL ANGLE Nella proiezione laterale del piede è l’angolo formato da gli assi longitudinali del talo e del calcagno. Se inferiore a 35° denota una deformità in varo, se superiore a 50° piede cavo. Fig. 12 ANGOLO DI DIJAN-ANNONIER Formato da due rette che s’intersecano a livello della parte più bassa dell’interlinea astragalo-scafoidea e che passano rispettivamente per il bordo inferiore della grande tuberosità del calcagno e per il polo inferiore del sesamoide interno dell’alluce. Fig. 13 – 102 – Volume n. 38 - Anno 2015 BOEHLER ANGLE Nella proiezione laterale è l’angolo formato dalla linea diretta dalla tuberosità postero-superiore del calcagno all’apice della faccetta posteriore dell’articolazione subtalare e la linea dall’apice della faccetta posteriore al margine superiore del processo anteriore del calcagno. Se inferiore a 20° denota una compressione del margine superiore del calcagno da frattura del corpo. Fig. 14 L’ANGOLO DI MEARY Corrisponde all’angolazione degli elementi della linea tra asse dell’astragalo e quello del 1° metatarso. L’angolo, normalmente di zero gradi, è aperto in alto in caso di piede piatto. Fig. 15 – 103 – Volume n. 38 - Anno 2015 Studio TC effettuato con tecnica spirale ed algoritmo di ricostruzione per l’analisi delle strutture tendinee. Analisi del comparto mediale. Fig. 16 – 104 – Volume n. 38 - Anno 2015 Analisi delle formazioni ossee e tendinee del comparto laterale. Fig. 17 – 105 – Volume n. 38 - Anno 2015 RMN sequenze eseguite in coronale con evidenziazione dei profili cartilaginei e dei legamenti del comparto mediale e laterale. Fig. 18 – 106 – Volume n. 38 - Anno 2015 RMN secondo piani sagittali con sequenze «dedicate» all’interfaccia tendine osso ed all’analisi qualitativa delle formazioni tendinee. Fig. 19 Fig. 20 – 107 – Volume n. 38 - Anno 2015 RMN con protocolli mirati alla valutazione dei rapporti tra muscolo ed osso. Fig. 21 Fig. 22 – 108 – Volume n. 38 - Anno 2015 ECOGRAFIA Trasduttore lineare ad alta frequenza Impiegata nel sospetto di piede piatto da lesioni del Tibiale posteriore, o da impingement Fig. 24 – 109 – Volume n. 38 - Anno 2015 Ecografia con evidenziamento di «impingement mediale» LESIONE FIBRO-CICATRIZIALE IN ESITO LEG. T-C PROF Fig. 25 – 110 – Volume n. 38 - Anno 2015 SINDROME DI CIVININI-MORTON Fig. 26 – 111 – Volume n. 38 - Anno 2015 Localizzazione caratteristica del Morbo di Civinini-Morton Fig. 27 Comparazione tra l’evidenziamento ecografico (sopra) ed RMN (sotto) del Morbo di Civinini-Morton. Fig. 28 – 112 – Volume n. 38 - Anno 2015 SINDROME DI HAGLUND Fig. 29 – 113 – Volume n. 38 - Anno 2015 - da disfunzione del tibiale posteriore la causa più frequente è la perdita di funzionalità del tibiale posteriore, tendine deputato al sostegno attivo della volta, il quale, per cause degenerative su base meccanica o vascolare, si sfibra allungandosi fino alla possibile rottura, perdendo così la sua azione traente e di sostegno sulle ossa del piede. Fig. 30 – 114 – Volume n. 38 - Anno 2015 DISCUSSIONE La ricognizione sul notevole numero di documenti raccolti negli ultimi anni presso il nostro servizio e presi in esame al fine di valutare l’importanza delle varie metodiche per lo studio della fisiopatologia del piede nell’età dell’accrescimento e di alcune patologie del piede nel soggetto adulto, consente di formulare alcune considerazioni che riteniamo utili sul ruolo che ciascuna delle diverse tecniche di indagine riveste sotto il profilo diagnostico e per la eventuale valutazione del trattamento più idoneo per il quadro patologico accertato. 1) L’esame radiografico diretto si è confermato il presidio principale nel corredo dei mezzi dei quali attualmente lo specialista dispone. Tale ruolo basilare, di esecuzione semplice, rapida e poco costosa sì è rivelato essenziale nello studio sulla morfologia del piede nell’età dello sviluppo, sia per la indicazione del confine tra la norma e la patologia - come emblematicamente rappresentato dai valori geometrici delle volte plantari e dei rapporti astragalo calcaneari propri del “piede piatto” del bambino e dell’adolescente - sia come elemento fondamentale per seguire l’evoluzione dei rapporti articolari in relazione all’accrescimento ed ai provvedimenti terapeutici adottati, dai consigli del fisiatra sulla cinematica correttiva ai presidi ortesici ed alla eventuale correzione chirurgica. 2) L’esame TAC, specie nella ricostruzione spaziale tridimensionale si è rivelato un elemento prezioso, oltre che per la morfologia osteo-legamentosa nei traumi scheletrici più o meno complessi, per la diagnosi di alterazioni statiche e cinetiche dovute a patologie delle strutture muscolo tendinee, come nella sindrome di HAGLUND per cedimento del muscolo tibiale posteriore con conseguente deviazione in valgismo del retro piede, altrimenti attribuibile a modificazione dei rapporti articolari fra astragalo e calcagno. 3) L’esame RMN risulta utile per la definizione diagnostica di alcune patologie, quali quelle che comportano modificazioni di lieve entità, non evidenziabili con l’indagine radiologica, interessanti la spugnosa dell’osso ed i rapporti legamentosi-tendinei. 4) L’esame ecografico consente la visualizzazione di determinate patologie dei tessuti molli, quali i noduli tipici del “neuroma” di Civinini-Morton, la cui esatta localizzazione costituisce una guida preziosa per la indicazione al trattamento, specie se lo stesso viene effettuato mediante ago o sonda radioopaca, con correlata possibilità della visualizzazione topografica nel corso dell’intervento. Nel quadro generale delle indagini, a nostro parere, risulta della massima importanza il ricorso a mezzi diagnostici più sensibili (TAC, RMN, ecografia) nei casi nei quali il semplice esame radiografico non risolve in pieno il requisito diagnostico, e soprattutto la costante collaborazione con il podologo, il fisiatra e l’ortopedico al fine di determinare con certezza il quadro diagnostico ed il controllo della patologia in rapporto alla sua evoluzione ed al trattamento. – 115 – Volume n. 38 - Anno 2015 BIBLIOGRAFIA 1.Albanese A. “Cura delle alterazioni statiche della volta plantare”. Relaz. al XXXIII Congresso SIOT, Bologna 1948. 2. Bassetti D., Principi N. “ Piede piatto nel bambino. Terapia Medica Essenziale”. Vol. I Pagg. 134-136. Edimes Ed., Pavia 1992. 3. Berardi G.C., Chiappara P. “Il piede piatto”. La Ginn. Medica, II, 11, 1963. 4. Buckup F. “Ortopedia Pediatrica”. Aulo Gaggi Ed., Bologna 1988. 5. Ciminari R., Motu A., Pecotti P. “Piede e caviglia. Diagnostica per immagini”. Idelson-Gnocchi. Ed., Napoli 1998. 6. Close J. R. “Motor function in lower extremity”. Charles Thomas Publ., Springfield 1964. 7. De Pasquali P. M., Fullone F.W. “Il trattamento del piede piatto infantile associato a plastica teno-gleno-legamentosa medicale”. Chir. Del Piede, 28, 107-118, 2004. 8. Folliero A. “La volta plantare normale e patologica”. Aracne Ed., Roma 2004. 9. Gauthier R.G. Thomas “Morton’s disease: a nerve intrapment sindrome. A new Surgical Tecnique”. Clin. Orth. Rel. Researches 42:90-92, 1979. 10. Giuntini L., Agrifoglio E. “Manuale di Ortopedia e Traumatologia. Alterazione della volta plantare”. (pg. 197-209). SEU, Roma 1975. 11. Laganà R. “La metatarsalgia da neuroma di Civinini Morton”. Acta Orthopaedica Italica 36, 22, 2013. 12. Larciprete M., Parino E. “Atlante di artroscopia e imaging dell’apparato muscolo scheletrico. Caviglia e piede”. Utet Ed., Sez. Scienze Mediche 2004. 13. Lelievre J. “Patologie du pied”. Masson Ed., Paris 1967. 14. Lelievre J., Lelievre J. S. “Manuale di Patologia del piede”. Masson Ed. 1988. 15. Lorenzo G. S. “Manuale pratico illustrato della patologia del piede e della caviglia”. Laruffa Ed.; 2009. 16. Lorenzo G. S., Cavaliere P., Lorenzo M. R. “Il neuroma di Civinini Morton: Nostra esperienza di trattamento”. Acta Orthopaedica Italica 35, 23-27 2013. 17. Manter J. T. “Movement of subtalar and transverse tarsal joints”. Anatomical Record, 4, 80, 1941. – 116 – Volume n. 38 - Anno 2015 18. Miller M. D., Osborne J. R., Warer J. P., FU F. H. “RMN e artroscopia. Immagini a confronto”. Verduci Ed., Roma 1998. 19. Mucelli R. P. “Trattato italiano di tomografia computerizzata”. Cap. 36, Caviglia e piede (pagg. 743-745) Gnocchi Ed., 1996. 20. Pace N., Milano L. “ Semeiotica clinica del piede”. Minerva Medica F.D.G., 1983. 21. Paparella Treccia R. “Il piede dell’uomo”. Verduci Ed., Roma 1977. 22. Pisani G. “Trattato di chirurgia del piede”. Minerva Medica Ed. Torino 1990. 23. Ronconi P., Giannini S. “La sindrome di Morton. Valutazione ecotomografica”. Chir. Del Piede 19: 409-410, 1992. 24. Sharrard W. J. W. “Pedriatic orthopedics and fractures”. Blackwell Scientific Pubblications, Oxford-Edinburgh 1973. 25. Viladot A. “Surgical treatment of the child’s flatfoot”. Chir. Ort. Rel.res. 283, 84-38, 1992. 26. Viladot A., RoigPuerta J., Escarpentier Y. “Fisiopatologia del tarso posteriore”. Podologie, Paris 1963. 27. William S. M., Lissner H. S. “Biomechanics of Human Locomotion”. W. B. Saunders, Philadelphia 1962. 28. Zanchini M., Grasso S. “Misurazioni radiografiche dell’apparato locomotore”. Piede (pagg. 85-98). Aulo Gaggi Ed., Bologna 1986. – 117 – Volume n. 38 - Anno 2015 INFORMAZIONE PREOPERATORIA ED ASPETTATIVE DEL PAZIENTE PATIENTS INFORMED CONSENT AND EXSPECTATIONS A. ROVINI, E. FURLAN, R. NARDACCHIONE Unità Operativa di Chirurgia del Ginocchio Policlinico Abano Terme - Padova Parole chiave: consenso informato, aspettative. Key words: informed consent, expectations. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] RIASSUNTO Il tema del consenso informato ha determinato negli ultimi anni un profondo cambiamento nel rapporto medico paziente. Dal modello di tipo ippocratico paternalistico, ove spicca la figura centrale del medico, in uso legittimo fino a non molti anni fa, si è passato ad un modello in cui il paziente viene elevato a parte attiva, ove al paziente spetta un’informazione comprensibile sul percorso terapeutico che dovrà affrontare e sulle possibili alternative e dovrà essere lui stesso a decidere, in base alle informazioni ricevute, se e quale percorso terapeutico intraprendere. Il consenso proprio, per essere informato, dovrà possedere una strutturazione specifica e una serie di requisiti fondamentali. Le aspettative del paziente verranno rese reali dal processo di informazione. Questo processo realizza una maggior soddisfazione del paziente stesso. ABSTRACT The issue of informed consent in recent years has led to a profound change in the doctorpatient relationship. By model type Hippocratic paternalistic, where stands the central figure of the doctor, in legitimate use until a few years ago, it has changed to a model in which the patient is raised to an active player. The patient lies on an understandable course of treatment that will face and about possible alternatives and to be himself to decide, according to information received, if and which course of treatment to take. The consensus, right to be informed, will have a specific structure and a set of basic requirements. Patient expectations are made real by the information process. This process creates a greater satisfaction of the patient. – 118 – Volume n. 38 - Anno 2015 INTRODUZIONE ll tema del consenso del paziente agli atti sanitari ha determinato un profondo cambiamento nella complessa problematica del rapporto medico – paziente. Storicamente il medico si proponeva come una figura centrale e carismatica nella società e nel rapporto col paziente ove l’ipse dixit, come verità dogmatica, veniva tacitamente recepita. A rendere necessario questo modello concorreva la scarsezza di mezzi di informazione ed apprendimento e l’estrema difficoltà di accedere al sapere. Il tutto era poi avvalorato da quesiti ed aspettative del paziente molto semplici. Questo modello del rapporto medico – paziente di tipo ippocratico, ove nessuna informazione è dovuta al paziente, ove il medico decide in scienza e coscienza, lo troviamo ben descritto da Erodoto già nel V sec. a.C., quando raccomandava ai suoi discepoli: “Fa tutto quello con calma e competenza, nascondendo il più delle cose al paziente mentre ti occupi di lui. Dà gli ordini necessari con voce lieta e serena, distogliendo la sua attenzione da ciò che gli viene fatto; qualche volta dovrai rimproverarlo in modo aspro e risentito, altre volte dovrai confortarlo con sollecitudine e attenzione, senza nulla rivelargli della sua condizione presente e futura”. Questa modalità di relazione medico – paziente viene considerata lecita sino quasi ai giorni nostri. La Corte d’Appello di Milano, nella sentenza del 16 ottobre ’64, afferma l’alto valore morale del medico che nasconde la verità al paziente e la sua piena discrezionalità in merito alle informazioni da fornire a quest’ultimo. Rolando Riz, ne “Il trattamento medico e le cause di giustificazione (1975)” ribadisce che il trattamento medico eseguito lege artis è comunemente considerato lecito anche in mancanza di consenso. Conseguenza diretta di questo modus operandi era la mancanza del consenso all’atto medico da parte del paziente. Dal punto di vista giuridico nel 1992 la Corte di Cassazione con sentenza n. 699/1992 con la quale conferma la sent. della Corte d’Assise di Firenze n. 13 del 18 ott. 90’, finisce con l’introdurre la nuova regola generale che ogni intervento medico realizzato senza il consenso del paziente costituisce il reato di lesioni, anche quando da un punto di vista strettamente tecnico non sia censurabile ed anche se apporti un beneficio al paziente. Dopo più di dieci anni nasce La Carta di Firenze, redatta da alcuni dei principali esperti del settore medico-sanitario e presentata il 14 aprile 2005, che propone una serie di regole che devono stare alla base di un nuovo rapporto, non paternalistico, tra medico e paziente. Il paziente ha diritto alla piena e corretta informazione sulla diagnosi e sulle possibili terapie, ma ha anche diritto alla libertà di scelta terapeutica, scelta che dovrà essere vincolante per il medico. Si introduce quindi il concetto di consenso informato così come veniva ribadito nella sentenza del Tribunale di Milano n. 3520: “… il consenso deve essere frutto di un rapporto reale e non solo apparente tra medico e paziente, in cui il sanitario è tenuto a raccoglierne l’adesione effettiva e partecipata, non solo cartacea”. I moduli sono spesso inadeguati [“sintetico e non dettagliato senza indicare i rischi specifici”] “Non poteva ritenersi che la paziente, anche solo dalla semplice lettura del modulo, potesse avere compreso effettivamente le modalità e i rischi connessi all’intervento, in modo da esercitare consapevolmente il proprio diritto di auto-determinarsi in vista dello stesso). Il consenso quindi non può esimersi dall’essere unito all’informazione, che deve presentare delle caratteristiche fondamentali. – 119 – Volume n. 38 - Anno 2015 Dovrà essere: • Aggiornata • Accessibile • Completa • Comprensibile • Graduale nel tempo Potrà esser orale ed eventualmente scritta utilizzando opuscoli e materiali audiovisivi. Altra caratterista dovrà essere l’interattività. Andrà sempre allegata al consenso. Il consenso informato trova fondamento sia nella Costituzione Italiana che nel Codice Deontologico. Nello specifico l’articolo 13 della Costituzione recita “la libertà personale è inviolabile” e tale affermazione trova riscontro ed applicazione della sentenza n. 471/1990 della Corte Costituzione che sancisce la libertà di disporre del proprio corpo. Ancora, l’art. 32 della Costituzione Italiana dispone: “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Passando al codice deontologico, nell’art. 33 riguardo all’informazione al cittadino: “il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate. Il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche.” Vista la severa normativa sul consenso informato, è di uso comune l’utilizzo di moduli appositi per ottenere prova tangibile dell’avvenuto consenso. Tali moduli sono utili in caso di contenzioso nella misura in cui consentono di ricostruire, in maniera articolata, il percorso compiuto dagli interessati per pervenire alla decisione clinica condivisa. Il modulo non è una scorciatoia per evitare l’unica strada che porta alla decisione clinica condivisa: la comunicazione personale ed interattiva. Il processo di informazione del consenso deve cogliere le aspettative del paziente che si avvicina ad un trattamento medico. Esse saranno, innanzitutto , soggettive, proprie di ciascun paziente. Vi saranno poi delle aspettative oggettive, realizzabili, non idealizzate, le quali devono essere espresse nell’informazione trasmessa. Il compito del medico è di modulare le aspettative soggettive del paziente per trasformarle in aspettative oggettive, realizzabili e di comunicarle al paziente. – 120 – Volume n. 38 - Anno 2015 VALUTAZIONE DEL PAZIENTE Comunicazione dell’informazione Il paziente va informato attraverso un colloquio supportato anche da un’informazione scritta e multimediale. Contenuti dell’informativa: • Analisi del problema da affrontare e rischi connessi • Obiettivi che si vogliono e che si possono raggiungere • Strumenti utilizzati • Esperienza personale. Le informazioni andranno trasmesse in modo accurato, il più scientifico possibile, utilizzando anche scambio di dati e conoscenze col paziente. Non si dovrà trascurare di recepire le “emozioni” del paziente. Per quanto riguarda l’utilizzo di supporti informatici multimediali, pur utilizzandoli nel nostro percorso preoperatorio, non sembrano modificare il livello di soddisfazione del paziente. – 121 – Volume n. 38 - Anno 2015 Il processo informativo inizia con la visita del paziente e prosegue con l’iter preoperatorio, che deve prevedere incontri personalizzati con un medico dell’equipe chirurgica e con il fisioterapista che preparerà il paziente all’iter riabilitativo postoperatorio. ASPETTATIVE Considerando l’attenzione con cui la popolazione affronta i temi riguardanti la salute, molto spesso ci troviamo di fronte a pazienti molto informati con aspettative molto elevate. Va fatta, quindi, un’attenta e dettagliata valutazione delle aspettative cercando di confrontarle con quelle obiettivamente raggiungibili. I miglioramenti che il paziente si attende sono: - diminuzione del dolore (- 99,2% riduzione del dolore, soddisfazione nel 87%. In letteratura tra il 60 e 88,5%); - miglioramento della deambulazione (93% salire e scendere le scale (soddisfazione nel 63% dei pazienti operati. In letteratura tra il 47% ed il 75%); - migliore funzionalità articolare In base ai diversi aspetti culturali, lavorativi e religiosi, i pazienti hanno aspettative diverse: è necessario prendere in considerazione tutti questi aspetti e confrontarli con le aspettative di ogni singolo paziente. In conclusione si può affermare che la valutazione delle aspettative del paziente è un atto medico di fondamentale importanza, che influisce sulla predizione del successo della chirurgia. Prefissare degli obiettivi chirurgici e riabilitativi condivisi col paziente aumenta la soddisfazione del paziente stesso. BIBLIOGRAFIA 1. “Il trattamento medico e le cause di giustificazione”. Riz Roland, CEDAM, 1975 Padova – p.175. 2. Palazzo C., Jourdan C., Descamps S., Nizard R., Hamadouche M., Anract P., Boisgard S., Galvin M., Ravaud P., Poiraudeau S. “Determinants of satisfaction 1 year after total hip arthroplasty: the role of expectations fulfilment”. BMC Musculoskelet Disord. 2014 Feb 24;15:53. doi: 10.1186/1471-2474-15-53. 3. Haanstra T.M., van den Berg T., Ostelo R.W., Poolman R.W., Jansma E.P., Cuijpers P., de Vet H.C., et al. “Systematic review: do patient expectations influence treatment outcomes in total knee and total hip arthroplasty?” Health Qual Life Outcomes 2012, 10:152. – 122 – Volume n. 38 - Anno 2015 ANATOMICAL DIFFERENCES IN L5 AND L4 PEDICLES: CT AND MRI 3D DIRECT VOLUME RENDERING STUDY OF THE MORPHOMETRY AND OF THE DISTANCE BETWEEN THEM AND NERVOUS STRUCTURE A. PISANI1, L. SOLIERA1, G. CACCIOLA1, P. CAVALIERE1, A. BARBANERA2 1 GIOMI Istituti “Franco Faggiana” - Reggio Calabria, “Franco Scalabrino” - Messina 2 S.O.C. Neurochirurgia, Azienda Ospedaliera “SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo” - Alessandria Key words: Lumbar spine anatomy. Anatomical varations in lumbar vertebrae. Lumbar spine pedicles morfology. Indirizzo per la corrispondenza: [email protected] ABSTRACT The Authors expose the results of their anatomic and radio-imaging study on morfometry and direction of vertebral lumbar pedicles. The study could give the opportunity for improvement of transpedicular screwing in stabilizing lumbar spine surgical procedures. INTRODUCTION Lumbar vertebrae have the largest bodies and their diameter progressively increase descending down towards sacrum, in particular the transverse diameters as a greater increase compared to the antero-posterior diameter1. Lumbar region is characterized by wide range of anatomical vari-ations due to greater weight and force that are applied at this level. Pedicles in the lumbar region arise from the rostral aspect of the vertebral body, these processes present important differences among population. Several researches in current literature based on cadavers, analyzed morphometry of lumbar vertebrae (pedicles, vertebral arches, vertebral body, vertebral foramen, intervertebral space height)18,19,20,21. Karabekir et Al. (2011)2, compared 100 dry lumbar vertebrae from 20 adult cadavers to MRI acquistion of the lumbar vertebrae of 21 healthy control subject; both vertebral body and pedicle morphometry were analyzed. Shiubii lien et Al. (2007)2 considered both specimens from 6 cadavers and morphometric analysis extrapolated from CT scan of the thoracic and lumbar spine, to identify a safe region for pedicles screw fixations. However, these works lack in term of number of samples and patients examined. Thus, only few examples in recent literature report data from a conspicuous number of patients. Muhammad M Alam et Al.4 analyzed pedicles dimension, canal diameters, and laminae morphometry in 49 patients (two-hundred and twenty vertabrae), Wolf et Al.5 made and evaluation of the workspace of the pedicle entry point – 123 – Volume n. 38 - Anno 2015 the one between the vertebral body and the disk puncture points in 55 patients (Tab. 1). We analyzed 325 patients and we subdivided this sampleinto three different categories based on the degree of lateral tilt of pedicle of L5. Then we performed CT and MRI of the lumbar spine, from L1 to the center of the femur head, to evaluate the bone morphometric values of the pedicles and the relation between them and the adjacent nervous structures (Tab. 2). Pedicle Screw fixation is a common technique used by surgeons in treatment of spine disorders to obtain posterior spinal column fusion6,23. The purpose of pedicle screw fixation is to improve conditions of patients suffering from a wide range of disorders through the stabilization of the “posterior” vertebral column. The main reason that made the surgeons choose the pedicles for screw application comes from anatomical factors. In order to obtain a successful three dimensional fixation the surgeon needs to select the strongest site accesible posteriorly, that is the pedicle. Early anatomical studies underline that the diameter and structure of the pedicle is large enough to allow the insertion of vertebral screw via transpedicular route. The key role played by the pedicles in this procedure is now supported by biomechanical studies and by even more recent morphometry studies that will be discussed in this work. Pedicle screw fixation in the lumbar region allows a strong anchorage of the screw itself to the vertebral body this leads to a secure three dimensional positional control between the screw and the longitudinal elements. The numerous benefits of the transpedicular fixation explains why this surgical technique is applied in treatment of several pathologies: spinal fractures, Tumors, scoliosis, spondylolisthesis and low back pain among the others. In spinal fractures a better positional control of the anterior column leads to a reduction of displaced and fractured vertebrae moreover: satisfying results are reported in the decompression of the canal of retropulsed bony fragments associated with burst fractures13,7,24,25. Concerning tumors, pedicle screw fixation, allowing a strong fixa-tion and a three dimensional positioning control, determines posterior tumor decompression with subsequent restoration or prevention of paraplegia14,15,27. Recently clinical and radiological results of percutaneous pedicle screw fixation in the management of metastatic tumours have been invastigated26. Results of this study are encouraging: patients with spinal tumors and fractures treated with pedicle screw fixation experienced and increased quality of life following their surgery28,29. In scoliosis30,31,32, application of transpedicular screws is apparently a suitable replacement of the classic correction arranged with Harrington instrumentation. Pedicular screw implicates the trasmission of a derotation force to the center of vertebral body allowing a true segmental scoliosis correction. Some complications typical of the Harrington Instrumentation (flatback syndrome) can be solved with the application of screw or hook-rod system. Through pedicle screw fixation an invasive violation of the spinal canal can be avoided34. Spondylolisthesis and spon-dilopthosis33,34 are treated with pedicle screw fixation, this approach attempt to improve the quality of life of patients suffering from high grade spondylolisthesis. Unfortunately single stage approach shows an high rate of implant and fusion failure. Low back pain is often treated with pedicle screw fixation, its advantage consists of an increased stability of vertebral elements that leads to a solid fusion17. Zdeblick TA in his work points out on the improved fusion rate that occurs after the application of transpedicular screws. Low back pain represents the most common cause of activity limitation in people younger than 45 years old in United States, the second most frequent reason for visit and the third ranking cause of surgical procedures. In order to obtain correct pedicle screw fixation the angle of the screw has to be equal or at least similar to the lateral tilt of the pedicles. “new leg pain”is a condition that come immediately a lumbar fusion using pedicle screw that may be caused by a screw – 124 – Volume n. 38 - Anno 2015 breaching the cortex of the pedicle. Thanks to current imaging and diagnostic technique the cause of Failed back spinal surgery (FBSS) may be identified. The main (most frequent) cause of failure is foraminal stenosis followed by recurrent or residual disk erniation (25% to 29%) 8,35,36. The accuracy of the application of Pedicle screw has been investigated in recent literature37,38. These studies point out a large range of wrong fixated screws9. The variation in term of results is probably lead back to the different assessment methods. In recent year new technology has been developed and introduced, for example navigation and computer assisted fluoroscopy39,40,41,42. A comparison can be made between the results from hand free fixation of pedicle screw and the ones from these new techniques. There is a minor incidence of FBSS when the new “guided” techniques are applied. The higher rate of failure that occurs when these new guided techniques can be explained with an anatomical variation of the lumbar spine and especially of the pedicles of L4 and L5. MATERIAL AND METHODS Participants and Radiological acquisitions This study include 325 consecutive patients (166 male (51,1%) and 159 female (49,9%), mean age of 62 years old (range from 34 to 72 years old), who were visited in our orthopedic ambulatory between January 2015 and December 2015 (Tab. 2). Considering the morphological feature of this study the only exclusion criteria were (I) musculoskeletal congenital abnormities, (II) fractures at lumbar-sacral region or (III) precendent surgeries at lumbar spine or hip. For each patient that met the inclusion criteria were acquired: (I) antero-posterior and latero-lateral radiography of the lumbo-sacral spine, (II) CT examinations were performed with aSomatom Definition scanner (Siemens) using the followingparameters: Kv 120, mAs 400, slice thickness of 0.6 mm, (III) MRI acquisition were taken with a Philips Achieva 3T R2.6 (Best, the Netherlands) wasused for generating, firstly, Coherent Gradient Echo in aUltra Fast Echo Sequence so as to acquire T1-weighted isotropic volumes for high resolution scans. All subjects, who were examined for other reasons, gave informed consent and all procedures followed were in accordance with the Declaration of Helsinki of 1975. Sample Subdivision: L5 pedicle lateral tilt The sample is divided into three categories based on the lateral tilt of L5 pedicles. The evaluation was made with an axial slice of the CTscan at the level of the rostral part of the vertebral body. The angles evaluations were performed by using a freeware software package (Osirix 3.1.1 64 bit) at L5, placing a line from the middle point of the pedicle to the anterior margin of the vertebral body, and a line from the anterior margin of vertebral body to the center of the spinous process. The same angles were evaluated also for L4, L3, L2, L1. Bone Morphometry measurement 3D direct volume rendering (3D DVR) of the CT scan were reconstructed using the same software (Osirix 3.1.1 64 bit), three parameters of the bone structure were analyzed: (I) pedicle width (PW), defined as the transverse axis of the pedicle, (II) pedicle height (PH), defined as the vertical axis of the pedicle and (III) interpedicular distance (IPD) defined as the distance between the pedicles at their emergency at the rostral part of the vertebral body. The measurements come from the analysis of the whole lumbar region. – 125 – Volume n. 38 - Anno 2015 Distance between pedicles and nervous structures 3D direct volume rendering (3D DVR) of the MRI scan were reconstructed using the same software (Osirix 3.1.1 64 bit), four parameters were analyzed: (I) pedicle-inferior root distance (PIRD), (II) pedicle-superior root distance (PSRD), (III) root-exit angle (REA) and (IV) nerve root diameter. The measurements came from the whole lumbar region. RESULTS Classification according to lateral tilt of L5 Sample has been divided considering lateral tilt of L5 into three different groups (Fig. 1). The name of each category is referred to the letters W, U, V: - W remind the widest degree of lateralization, - U an intermediate degree, - V the narrowest one. The first one or W-Type (WT) exhibited a lateral tilt of L5 larger than 36° (min. 36°, max. 44.7° and mean of 37.3°); 123 patients, 41.8% of the whole, belong to this group. The second group or V-Type exhibited a lateral tilt of L5 from 30° to 36° (min. 30.8°, max 35.8° and mean of 33.4°); 141 patients, 48% of the whole, belong to this group. The third group or U-type exhibited a lateral tilt of L5 smaller than 30° (min. 27.5°,max. 29.9° and a mean of 28.6°); 30 patients, 10.2% of the whole, belong to this group (Tab. 3). Focusing attention on 144 women (Tab. 2), which represented 48% of the whole sample, we observe that 57 women, indeed 41.3% of total women, belong to the first group or Wing Type; 69 women, indeed 50% of total women, belong to the second one or V type, while 12 women, indeed 8.7% of total women, belong to the U type. On the other hand taking into consideration 156 men (Tab. 3), 53% of the whole sample, we notice that 66 men, so 42.3% of all men, belong to the first group or Wing type; while 72 men, that means 46.2% of all men, belong to the second group of V type; Finally the 6 left (11.5% of all men) belong to the third group. Lateral tilt of L4 In this study the lateral tilt of L4 pedicle is calculated whit the same method described in the previous paragraph. The average that we obtained calculating the degree of lateral tilt of the pedicle in each of the three categories in L4 depends on the one of L5: Patients that exhibited a W-type (41.8%) show a degree of lateralization of the pedicle of L4 of 28.4° (+/- 3.8°). Patients that exhib-ited a U-type (48%) show a degree of lateralization of the pedicle of L4 of 25.1° (+/- 3.5°). Patients that exhibited a V-type (10,8%) show a degree of the lateralization of the pedicle of the L4 of 22.2°(+/-3.3°) (Tab. 3) (Fig. 2). Lateral tilt of L3, L2, L1 According to the lateralization of the pedicles in the first three lumbar vertebrae, data appear almost overlapping with the measurements that several works in recent literature reported. There is no variations based on the positioning of L5 in the three categories. The Average degree of lateralization in L3 is 22.2° (+/-1.8°), for L2 and L1 pedicles this degree is 21.2° (+/-1.5) and 20.7° (+/-1.5°) respectively. Morphometric Values of Pedicles Thanks to the 3D DVR of the CTscan it was possible to study the 3D morphometry of the – 126 – Volume n. 38 - Anno 2015 pedicle structure. Concerning L5: PW has a mean value of 18,5 mm in WT, 17,2 mm in VT and 15,8 mm for UT; PH has a mean value of 13,4 mm in WT, 12,8 mm (VT) and 11,2 mm in UT; IPD has a mean value of 29,2 mm in WT, 27,3 mm in VT and 25,8 mm in UT. Concerning L4: Pedicle width: 13,6mm (WT), 12,6 mm (VT) e 11,8 mm (UT). Per il Pedicle Height: 13,3 mm (WT), 12,6 mm (VT) 11mm (UT). Interpedicular Distance: 27,2 mm (WT), 26,6 mm (VT) and 25,6 (UT). Even from the morphometric point of view there are not substatial differences in pedicles of the proximal lumbar vertebrae (L1, L2, L3) according to our proposed classification (Tab. 4) (Fig. 3). Pedicles and adjacent nerve roots Thank to 3D DVR of the MRI we analyzed the correlation between the pedicles and the ad-jacent nervous structures, especially with nerve roots. We analyzed four parameters and then we compared the results obtained in the three different categories. Concerning L5: PSRD has a mean value of 4.9 mm in WT, 4.6 mm in VT and 4.4 mm in UT; PDSD has a mean value of 1.9 mm in WT, 1,5 mm in VT and 1.3 mm in UT; REA has a mean value of 43° in WT, 40.2° in VT and 37.8° in UT. No differences were observed for PIRD (with a mean value of 1,5 mm) and NRD (with a mean value of 4 mm). Concerning L4: PSRD has an average value of 4.9 mm in WT, 4.8mm in UT, 4.5mm in VT; PDSD has an average value of 2.0 mm in WT, 1,8 mm in UT and 1.5 mm in VT. REA has an average value of 40.2° in WT, 38.8° in UT, 36.4° in VT. PIRD has the same value in WT and UT (1.8 mm) while in VT the average value is 1.6 mm. No differences were observed for NRD. Concerning L1, L2, L3 no differences were observed in the four parameters into the three categories (Tab. 5) (Fig. 4). DISCUSSION We hypothesized that high rate of failed Surgical treatment concerning the application of interpedicular screw in the pedicles of the lumbar region and in particular at the level of L4 and L5, is due to anatomical differences present among population. Our results underline the necessity of implement a classification of the distal lumbar vartebrae (L4-L5) according to the lateral tilt of the pedicles (Fig. 5). We can assume that our results based on CT and MRI scan of 325 patients can supply a de-finitive evidence that the degree of lateral tilt assumes three main morphometric features (W-Type 41%, U-Type 48% and 12% V-Type from the largest to the narrowest) among populations. About 48% of the population present degree of lateralization of U-Type L5 between 30° and 36° degrees, Subjects that presents a pedicle of L5 shows a lateralization of L4 pedicle of 25.1° (+/- 3.5°). Our results underline that L4 lateralization depends directly from L5 one [Tab.6], not only in U-Type but also in W-Type ( L5 mean PLT 37.3° +/- 2.8°, L4 mean PLT of 28.4° +/- 3.8°), and V-type (L5 mean PLT 28.6° L4 mean PLT 22.2°). Morphometric features follow the variations of the lateral tilt. Our results point out that both longitudinal diameter (PH) and trasverse diameter (PW) decrease with low values of PLT, poeple belonging to the W-type category show an average values of PW of 18.5 mm while V-type subjects have a mean of 15.8 mm (14% less than W-Type). The same conclu– 127 – Volume n. 38 - Anno 2015 sions can be assumed for pedicle height (PH), 13.3mm in W-type subjects and 11 mm in Vtype subjects. This data suggest that less is PLT the lesser is the area of the pedicle. For this reason during a pedicle screw fixation will be easier to damage medial wall. Concerning other values that vary with the PLT, IPD shows wide variations passing from an average value of 27.2 mm to a mean of 25.6 mm in W-type and V-type respectively. It’s correct to suppose that a variation of IPD is associated with a reduction of the trasverse diameter of vertebral canal making itself more vulnerable to foraminal stenosis. The distance of the pedicle from the nerve roots depends on PLT too. In this work we consider five points but three of them show sensible difference. No differences are evident for PIRD and for NRD on the other hand the slight reduction has been observed concerning PSRD and PDSD. The parameter REA shows a sensible variation with an average value of 40.2° in W-Type, 38.8° in U-Type and 36.4° in V-Type. From an overall analysis of data obtained into these studies we can assume that differences among population exist and could have clinical resonance. Our analysis is endorsed by a sample that was previously classified into three catagories. This lead us to the assumption that our results are more accurate than the ones that are inferred without considering the differences among the pedicles. This classification could help the surgeons to apply interpedicular screws, this could imply the decrease of surgical risk. From a strickly surgical point of view, our measurements show that V-type Lumbar Vertabrae is linked to greater incidence FBSS. Unfortunately we can only suppose a possible relation between cause and effect because our sample studied in this papers is based on patients that came in our ambulatory for hip, knee or back disorders. It would be better to have the opportunity of evaluate morphometry of the lumbar region in healthy subjects, following our classification. Once this point is achieved it would be easier to establish a possible predisposition to Lumbar spine pathologies (Low back pain, Scholiosis) thus would enhance prevention. Similar data can be referred also to L4 but we think that its relevance is not worth an extended discussion. On the endorsement of epidemiological studies we assume that lumbar region pathologies have a significant social impact. A wide range of studies in literature confirm that almost 80% of all people experienced back pain during one’s own life. Back pain in its mildest way has an annual incidence in the adult population of 10-15%; the percentage increases in older subjects. A study con-ducted by Rossignol et Al. on a large sample of 2341 patiens establish that is way more probable for the lumbar symptoms than thoracic symptoms to become cronic. In the USA, back pain is even the main reason of activity limitation in people younger than 45 years and one of the most common causes for people to be hospitalized. Data from other western countries are similar. Data coming from the surveys conducted by Praemer et Al assess that, from 1985-1988, back and spine disorders led to 185 million days of restricted activity (21x0 imparment) which included 83 million days con-fined to bed. Several studies made an attempt to link low back pain with psychological factors in-cuding (anxiety, depression, somatisation, negative body image). The expericence of stress, anxiety and expecially depression follows sometimes low back pain. However more studies are needed to demonstrate a connection between low back pain and various psychological factors. Volinn et al examined the US national hospital discharge survey from time trends to investigate the rate of surgical operations from 1979 to 1987. Taylor and collegues later extended the study to including data up through 1990. During the 11 years considered operations among adults increased by 55%. The Perspective for Conditions of patients that recover over three months while for individuals who did not recover within this time the recovery process is slower, and – 128 – Volume n. 38 - Anno 2015 ther treatment is more difficult. These data suggest that a better knowledge of the anatomical structure of the pedicles is necessary to improve both surgical techniques and health care system for patients with spine disorders. Tab. 1 Recent findings in concerning vertebrae morphometry Study Number of Patients/Cadavers Parameters Karabekir et al. (2011) 21 Pedicle Width, Pedicle Height, Vertebral Body a/p and lateral diameters Shiu Bi Lien (2007) 6 Pedicle Height, safe zone width, sagittal and trasversal pedicle’s angle, root exit angle Muhammad M Alam (2014)49 Morphometry of Laminae, Morphometry of pedicles, canal diameters, Morphometry of vertebral Bodies Wolf (1976) 51 Pedicle entry point, Morphometry of Vertebral Body, Morphometry of Pedicles, Disc Entry points Tab. 2 Patients demographics. BMI: body mass index Parameters Nº / %º Number of patient 325 Age 62 y.o. +/- 12 (from 34 to 72) Male166/51,7% Female159/49,3% BMI (kg/m2) 29.4 +/- 6.2 Tab. 3 Orientation of L5 (3a) and L4 (3b) lateral tilt in the three categories (W-Type, V-Type, U-Type). L5: (WT mean value 37.3°, VT mean value 33.3°, UT mean value 28.6°). – 129 – Volume n. 38 - Anno 2015 Tab. 4 Morphometric Features of the pedicles of L5 in the three categories L5 PW: 18.5mm in WT, 17.2mm in VT, 15.8mm UT L5 PH: 13.4 mm in WT, 12.8mm in VT, 11.2mm UT L5 IPD: 29.2mm in WT, 27,3 mm in VT, 25,8 mm UT L4 PW: 13,6mm (WT), 12,6mm (VT), 11,8 mm (UT) L4 PH: 13,3mm (WT), 12,6mm (VT), 11mm (UT) L4 IPD: 27,2mm (WT), 26,6mm (VT) and 25,6 (UT) Tab. 5a Distance between the pedicles of L5 and the adjacent nervous structures (PSRD, PDSD, PIRD, NRD) L5: PSRD (WT mean value of 4.9 mm, VT mean 4.6 mm, mean value UT 4.4 mm) PDSD (WT mean value of 1.9 mm,VT mean value 1,5 mm, UT mean value 1.3 mm) PIRD (mean value of 1.5 mm) NRD (mean value of 4 mm) – 130 – Volume n. 38 - Anno 2015 Tab. 5b Distance between the pedicles of L4 and the adjacent nervous structures L4: PSRD (WT mean value of 5,0 mm, VT mean 5,0 mm, UT mean 42 mm) PDSD (WT mean 20 mm, VT mean value 18 mm, UT mean 16 mm) PIRD (WT mean 18 mm, VT mean value 18 mm, UT mean 17 mm) NRD (WT mean 38 mm, VT mean 38 mm, UT mean 38 mm) Tab. 5c Measurements of REA for L5 and L4 in the three different categories L5: Root exit angle (WT mean value 43°, VT mean value 40.2°, UT 37.8° mean value). L4: Root exit angle (WT mean value 40.2°, VT mean value 38.8°, UT mean value 36.4°). – 131 – Volume n. 38 - Anno 2015 IMAGES Fig. 1 - Mean value of pedicle lateral tilt at L5 in the three categories. Fig. 2 - Mean value of pedicle lateral tilt at L4 in the three categories. Fig. 3 - Mean value of morphometric values of L5 pedicle. – 132 – Volume n. 38 - Anno 2015 Fig. 4 - Mean value of morphometric values of L4 pedicle. Fig. 5 - Instruments orientation during pedicle screw fixation. – 133 – Volume n. 38 - Anno 2015 REFERENCES 1. Benzel E. C. “Spine Surgery, techniques, complication, avoidance and management”. 2. Karabekir H. S., Gocmen-Mas N., Edizer M. “Lumbar vertebra morphometry and stereological assesment of intervertebral space volumetry: A methodological study”. Annals of anatomy, 2011. 3. Lien S.-B., Liou N.-H., Wu S.-S. “Analysis of anatomic morphometry of the pedicles and the safe zone for through-pedicle procedures in the thoracic and lumbar spine”. Eur Spine J, 2007 4. 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