Le frontiere più estreme dell`autoscatto

Transcript

Le frontiere più estreme dell`autoscatto
Le frontiere più
dell'autoscatto
estreme
COME CI SI PUÒ AMMALARE O MORIRE DI SELFIE
Spiegatemi la grandezza di scalare l’Everest,
ti sforzi, muori dal freddo, arrivi in cima e non c’è niente,
neanche una rete 3G per twittare un selfie.
Anonimo
1. Dal Selfie Alphabet alla “selfite”
Non importa dove, non importa quando, non importa come.
L’importante è esserci. E per poterlo fare occorre provarlo.
L’autoscatto attesta una presenza esclusiva, testimonia
un’identità inquivoca, veicola l’unicità del proprio sé nella
rete, attribuendone un riconoscimento e determinandone
un’appartenenza. Se il selfie ha un senso in quanto postato
sui social, il mostrare se stesso non è più una
rappresentazione di ciò che si crede di essere o di ciò che si
vuole far credere di essere – secondo gli “immaginari”
individuati da Roland Barthes[1] – ma diventa altresì una
testimonianza di esistenza, quale che sia, che richiede la
diffusione in rete per essere certificata (attraverso like,
espressioni emotive, commenti verbali, condivisioni).
Naturalmente i social sono pieni
di immagini che riproducono
paesaggi, monumenti, animali,
persone, oggetti, qualsiasi
presenza che possa attestare un
proprio esserci nel mondo in
qualità
di
testimone,
attribuendo in questo modo alla
fotografia quel duplice ruolo di “possesso” e di “consumo” che
ne designa la valenza di riproduzione e di immortalità secondo
Susan Sontag[2]. Eppure la documentazione di esperienze o
avvenimenti – che siano viaggi, azioni, cerimonie, ricorrenze
– sembra perdere la propria autorevolezza se il soggetto della
“ripresa” non si fa oggetto della stessa, al punto che il
proprio sé finisce col surclassare tutto il resto, rendendo
spesso irrilevante ogni contesto o occasione che lo
giustifichi.
Esserci, dunque, sopra ogni cosa. E naturalmente farsi
apprezzare e condividere. Ma il selfie non è solo un modo per
attestare se stessi, per richiedere conferma oppure conforto a
seconda del proprio grado di autostima. Il selfie è comunque
una forma di esibizione che anziché neutralizzare un certo
narcisismo, al contrario lo potenzia. È vero, Narciso basta a
se stesso, si incanta da solo di fronte alla sua immagine
riflessa, non ha bisogno di mostrarsi, né tantomeno offrirsi
ai giudizi degli altri, la sua contemplazione è solitaria, si
consuma nel suo sguardo e si spegne nello stesso riflesso che
non riesce a catturare. Ma anche nel selfie c’è autocontemplazione. L’immagine del sé viene catturata (riprodotta)
e diffusa (immortalata) non solo per esibirsi al mondo, con i
relativi riscontri amplificati nella rete, ma anche per
continuare a specchiarvisi nelle sue molteplici risoluzioni
senza struggersi perché svanisce nell’acqua. Così anche una
scarsa autostima può generare compiacimento, anche
un’insicurezza profonda può provocare l’innamoramento del sé,
perché il social non è solo condivisione, ma anche archivio,
non è solo una vetrina collettiva, ma anche un album
singolare, cosicché ci si può sempre ammirare nella memoria
infinita dei propri selfie.
Solo che la storia non finisce
qui. Se la presenza virtuale nel
web attraverso l’autoscatto –
per esserci, per mostrarsi, per
esibirsi, per contemplarsi –
attesta comunque una dimensione
identitaria, sia pure fittizia o
truccata o alterata, la sua
evoluzione
porta
alla
frantumazione di tale identità,
messa a servizio di particolari,
situazioni, animali che ne
determinano il significato.
È possibile così declinare quasi tutto l’alfabeto per definire
i vari hashtag dedicati ai selfie, a cominciare dalle parti di
corpo. Non più allora il volto intero, semmai il profilo
migliore (#helfie, da half selfie), o solo le gambe, di solito
sdraiate in bikini (#lelfie, da leg selfie), o le unghie delle
mani dopo una manicure perfetta (#nelfie, da nail selfie), o
le acconciature dei capelli quanto mai eccentriche (#helfie,
da hair selfie), o ancora il fondoschiena, tonico o flaccido
che sia (#belfie, da b-side selfie). Ma ci sono anche i torsi
nudi maschili, non per forza muscolosi (#shirtless selfie,
senza maglietta), o i seni di donne intenti ad allattare
(#brelfie, da breast selfie), oppure certe espressioni come la
lingua di fuori (#tongue-out selfie), o le labbra a becco di
papera (#duck selfie). Sempre riguardo il corpo ci sono poi i
fashion selfie (#felfie) che mostrano capi di abbigliamento, o
i wellness selfie (#welfie) che evidenziano la cura del corpo,
o ancora i gym selfie (#gelfie) che esaltano i muscoli fatti
in palestra.
Ma la mania dell’autoscatto si estende anche alla presenza di
animali, domestici o di fattoria, persino pelouche, e gli
hashtag dedicati a loro sono molteplici (#alfie da animal,
#delfie da dog, #relfie da reindeer, renna, #pelfie da pet o
pelouche, #felfie da farm, animali di campagna). Mentre altre
tipologie di autoscatto vengono contraddistinte dai luoghi in
cui vengono fatte, eminentemente in bagno (#telfie da toilette
e #melfie da mirror), oppure davanti a dipinti o a statue
(#museum selfie), o peggio dietro a bare di parenti (#funeral
selfie), per non dire alla guida di auto o di moto in corsa
(#driving selfie). Non mancano però i selfie a letto dopo aver
fatto sesso (#aftersex) oppure appena svegli, o quelli a
tavola con il cibo nel piatto prima di mangiarlo, o quelli con
smorfie e facce varie in foto tessera, o quelli che
riproducono vecchie foto, o quelli in stile nerd, casual,
nature, coatto, meditato, sfatto, o ancora i video selfie
(#velfie), per non dire dei selfie al selfie in cui
l’autoscatto si eleva al quadrato nel riprodurre a sua volta
un autoscatto.
Dunque una vera epidemia febbrile, trasmessa per contagio o
imitazione, che raggiunge forme ossessive in base alle mode
del momento e si organizza secondo un preciso codice di
hashtag, tanto da aver fatto parlare di “selfite”, una sorta
di affezione articolata in tre fasi – iniziale, acuta e
cronica, in base a quanti selfie si fanno e si postano al
giorno – che tuttavia non sembra avere alcun fondamento
scientifico. In realtà non c’è nessuno studio che attesta una
patologia legata al selfie, seppure ci siano diverse forme di
abuso che possono condurre a dipendenza, frustrazione,
condizionamento, inadeguatezza, autoreferenzialità. Tutto
sommato più un disagio che un disturbo, più un eccesso che una
malattia… fino a quando però il gioco non si fa duro.
2. Dal Selfie Olympics al selfie estremo
Prima si sono formati sui social gruppi pubblici e privati
di selfie games. Perlopiù autoscatti di facce buffe,
espressioni divertenti, piccoli camuffamenti del volto, con
nasi o orecchie da animale, con cappelli o occhiali esagerati,
insomma una serie di varianti giocose del selfie che di rado
si estendevano a tutto il corpo o a parti di corpo. Poi però
sono subentrate le pose curiose e le situazioni azzardate che
hanno messo in scena delle vere e proprie gare di esibizioni
più o meno acrobatiche, assurde, ridicole, imbarazzanti.
La condivisione in rete è diventata
competizione virale e sono sorti i selfie
olympics organizzati anch’essi in pagine
e in hashtag di facebook, twitter e
instagram. Il luogo privilegiato per
queste gare olimpioniche si è rivelato
proprio il bagno di casa (soprattutto
perché c’è lo specchio che permette anche
i selfie riflessi), con le varianti della
cucina, della camera da letto o dello
sgabuzzino. Nell’ambito delle diverse
prestazioni si sono poi evidenziati veri
e propri generi: i selfie koala arrampicati sulla porta, in
equilibrio sui pomelli, in bilico sull’anta; i selfie nudi
sospesi nel vuoto sopra la vasca o sopra il letto; i selfie
rannicchiati dentro il forno o il camino o il frigorifero; i
selfie acrobatici su tricicli, skateboard, sedie impilate,
oppure rovesciati sottosopra, puntellati sulle pareti, a
penzoloni dalla finestra; i selfie con oggetti ingombranti in
spazi ristretti come una canoa o un tagliaerba o un’automobile
a pedali; i selfie in cui si cucina con le piastre sul lavello
o vi si mangiano dentro gli spaghetti; i selfie in cui si
celebrano messe o funerali in bagno travestiti da monaci o
santoni; i selfie con parodie di allenamenti e prestazioni
ginniche sempre dentro la toilette; i selfie con effetti
ottici di specchi all’infinito e di piani prospettici che
rimandano a più scene; i selfie mascherati da supereroi con
simulazioni di prodezze ridicolizzate.
Insomma una casistica infinita di posizioni, prestazioni,
effetti speciali, combinazioni, simulazioni, messinscena
dissacranti, sfide, provocazioni, eccessi, parodie. Il tutto
dentro l’intimità della propria abitazione, che si trasforma
tuttavia in un habitat surreale in cui ogni cosa è possibile,
proprio nell’intento non solo di esibirsi per quello che si è
ma soprattutto di stupire per quello che si è in grado di fare
attraverso soluzioni sempre più audaci, ridicole, assurde.
Così da un piano di autoreferenzialità realistica, che rimanda
appunto a una propria identità “corretta” semmai da apposite
applicazioni per risultare ancora più “ideale” secondo
determinati modelli, si passa a un piano di performance
esibizionistica che rinvia a un’identità alterata da una serie
di prove che piuttosto dissacrano la realtà, ne rovesciano le
funzioni, la spingono verso una deriva di nonsenso e
paradosso.
Cosicché il riprodursi e il diffondersi in rete attraverso
competizioni “olimpioniche” non è più un atto per cercare
conferme del proprio sé o per compiacersi dei propri ritratti,
non è nemmeno una smania di imitazione che porta a emulare
altri modelli, o un’ossessione compulsiva che induce a
rappresentarsi in varie forme; diventa piuttosto una spirale
contagiosa che porta a sfidare nuove frontiere performative,
in cui non conta tanto l’esserci ma il fare, non la propria
identità ma la propria prestanza, non il proprio volto anonimo
ma la propria prodezza personalizzata.
Eppure ci si può spingere ancora più oltre. Basta fare un
salto dall’interno all’esterno, lasciando gli spazi asfittici
delle toilette o quelli ancora più restrittivi dei forni per
quelli vertiginosi dei grattacieli o per quelli adrenalinici
delle rotaie e il gioco è fatto: si approda all’universo
pericolosissimo del selfie estremo.
I pionieri
sono
stati
gli
scalatori di grattacieli, torri,
ponti, statue, tralicci e
quant’altro potesse dare il
senso di verticalità vertiginosa
che si era raggiunto. Tutti
autoscatti con lo sfondo del
vuoto che si ha sotto i piedi per siglare una prodezza che non
appaga per la vista che si può godere dall’alto, ma per la
vista di sé che si può dare sull’orlo del nulla. Le varianti
dei selfie “aerei” sono poi quelle scattate in caduta libera
col paracadute, o da diversi velivoli sporgendosi fuori dalla
cabina, o sospesi nel vuoto attaccati a funi o a cavi, o
quando non addirittura nello spazio.
Ma non c’è solo il cielo da sfidare, anche in mare si possono
fare selfie estremi con balene e pescecani, o quando si è
travolti da un’onda con il surf, o buttandosi a precipizio da
una cascata o semplicemente stringendosi addosso un
coccodrillo. Seppure le fiere predilette da abbracciare per un
wild selfie rimangono i leoni, le tigri, gli elefanti come
fossero animali domestici, quando invece non ci si vuole
immortalare mentre si scappa rincorsi da tori o da orsi
inferociti.
Eppure la vera sfida del pericolo nel ritrarsi in situazioni
temerarie si misura soprattutto attraverso atti sconsiderati,
come restare sulle rotaie fino a poco prima che il treno
sopraggiunga, o arrampicarsi sui piloni dei cavi ad alta
tensione, o usare per scherzo armi da fuoco o bombe a mano, o
semplicemente mettersi in posa quando si corre alla guida di
auto o di moto, o ancora in circostanze catastrofiche come
incendi, esplosioni, naufragi, attentati, ecc.
Quando però il mostrarsi per esistere si fa anche a rischio
della vita allora i tratti comportamentali di oggettificazione
del sé possono assumere tendenze psicotiche, laddove non si ha
più la percezione di un reale pericolo e si è posseduti dal
bisogno di superare se stessi. Nel suo testo La vita
quotidiana come rappresentazione[3] Erving Goffman mette ben
in luce la tesi secondo cui si diventa se stessi solo
mettendosi in scena per gli altri, tanto che per potersi
affermare occorre mostrarsi a un pubblico che valuti cosa si è
capaci di fare. E il selfie estremo sembra proprio avvalorare
questa necessità di certificazione a qualsiasi costo, anche a
quello della vita. Nell’inalienabile dimensione virtuale del
social in cui tutto si può simulare, morire davvero appare
così l’unico modo autentico per rendere reale la propria
rappresentazione, perché nulla come la morte può attestare la
propria esistenza.
3. Dal “selficidio” al Safe Selfie
In India tre ventenni di Nuova Delhi sono morti tra le
rotaie mentre cercavano di farsi un selfie sui binari con un
treno in arrivo, senza riuscire a salvarsi in tempo per via
della velocità del convoglio. In Russia un adolescente è morto
nella regione del Ryazan per aver toccato i fili dell’alta
tensione mentre cercava di farsi un selfie arrampicandosi sul
ponte di una ferrovia. Altri due ragazzi russi sono saltati in
aria sui monti Urali mentre si facevano un selfie tenendo in
mano una granata nell’atto di innescarla. Una ragazza
moscovita si è sparata un colpo in testa per errore mentre si
faceva un selfie puntandosi la pistola alla tempia. In una
stazione di Barcellona un quindicenne è morto per una scossa
elettrica alla testa dopo essersi fatto un selfie con
l’asticella sul tetto di un treno merci. Un altro cittadino
spagnolo è morto brutalmente incornato mentre tentava di farsi
un selfie rincorso dai tori. Un turista giapponese è
precipitato mentre era intento a scattarsi un selfie in cima
al tempio indiano Taj Mahal. Una sedicenne italiana è
scivolata per lo stesso motivo dalla rotonda di Taranto
schiantandosi sulla scogliera sottostante. Anche una coppia di
turisti polacchi è volata giù da un dirupo per farsi un selfie
panoramico in Portogallo.
Alle decine e decine di morti
fulminati, travolti, esplosi,
precipitati, sempre nell’intento
di immortalarsi in condizioni
estreme, si aggiungono poi le
numerose vittime dei driving
selfie, scattati alla guida di
veicoli in corsa non badando
alla strada. Gli incidenti
provocati per sbandamento di auto e di moto a seguito di
distrazioni da selfie hanno raggiunto anche in Italia,
soprattutto nella zona del napoletano, un’incidenza tale da
annoverare il selfie alla guida come un pericolo stradale alla
stessa stregua della droga e dell’alcol.
Naturalmente considerare questi episodi di decesso per selfie
estremo solo come un risultato di prodezze avventate significa
banalizzare il fenomeno. Anche perché non si tratta di casi
isolati, negli ultimi anni si parla di più di un centinaio di
morti e feriti per la pratica dell’autoscatto in condizioni
pericolose e la cosa non può essere ascrivibile solo ad
atteggiamenti comportamentali. Non rendersi conto di correre
il rischio di morire, o peggio ancora sfidare volutamente quel
rischio anche solo per rendere “straordinaria” un’esperienza
banale come una vacanza denuncia una pulsione psicotica ad
andare oltre se stessi, facendo qualcosa di eccezionale che
possa diventare memorabile, proprio per evadere dalla finzione
o dalla routine. Insomma una tendenza inconscia di superare
l’alienazione quotidiana o di infrangere la dimensione
virtuale anche a costo della propria vita che alcuni psicologi
hanno definito col termine di “selficidio”.
Al punto che in Russia, dove il fenomeno ha raggiunto una
rilevanza statistica data la pratica particolarmente diffusa
di performance pericolose per autocelebrarsi, il Ministero
dell’Interno ha lanciato una campagna contro i selfie
temerari, divulgando una guida intitolata Safe Selfies per
orientare all’autoscatto sicuro. Oltre a moniti come “un
selfie con un’arma può uccidere” o “una foto estrema rischia
di essere l’ultima” o “un selfie figo può costarvi la vita”,
la campagna di sensibilizzazione si basa anche su volantini,
video, suggerimenti, cartelloni ispirati alla segnaletica
stradale che raffigurano divieti di autoscatto con arma da
fuoco, in prossimità dei binari, vicino a belve feroci,
arrampicati su ponti o tralicci, alla guida di autoveicoli,
ecc.[4]
Anche in Italia la Polstrada
insieme alle Asl Napoli 1 e
Napoli 2 ha tenuto una serie di
seminari per sensibilizzare i
giovani a non fare selfie mentre
si guida tanto quanto non far
uso di droga o di alcol, con una
campagna “no selfie – no drink –
no drug” che mette appunto sullo stesso piano di pericolosità
l’autoscatto con le sostanze psicotrope, soprattutto dopo la
diffusione del «Periscope», l’applicazione di video-live
collegata a twitter che permette di mandare in diretta tramite
cellulare qualsiasi filmato ovunque ci si trovi.
Insomma il selfie trattato come una sostanza che può dare
dipendenza, tolleranza o assuefazione, che può alterare
l’attività mentale, lo stato di coscienza o il comportamento,
che può spingere a simulare atti estremi (come puntarsi
addosso una pistola o fingere di innescare una bomba) o a
affrontare prove rischiosissime (come scalare tralicci di cavi
ad alta tensione o sostare sui binari al sopraggiungere di un
treno), tanto da essere combattuto attraverso politiche di
controllo e di sicurezza a livello nazionale.
Ma il risvolto più paradossale di tutti, in questo gioco di
messinscena con la morte, è che per contrastare incidenti e
decessi sono state studiate anche nuove applicazioni per
simulare la condizione da
effettuarlo senza viverlo,
selfie estremo, in modo da
attraverso sfondi fittizi o
circostanze ricostruite che possano restituire l’audace
impresa senza aver corso alcun rischio. Così la situazione
estrema che si cercava per rendere ancora più “vera” la
propria rappresentazione viene risolta in modo “virtuale”,
tornando a quella finzione di partenza che si voleva tanto
scongiurare.
È il circolo vizioso del selfie perfetto: più si cerca di
farlo veritiero più diventa innaturale, più si cerca di
rappresentare se stessi più ci si mostra altro da sé. E forse
è proprio in questo gioco di rimandi interni che si annida la
vera ossessione per l’autoscatto: Narciso muore struggendosi
perché non riesce a riconoscere che l’immagine riflessa di cui
si è innamorato è la propria (non essendosi mai visto), il
“selfista” invece si danna, quando non muore, perché non
riesce a far riconoscere agli altri l’immagine ideale di sé
(pur essendosi mostrato all’infinito).
[1] R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia,
Einaudi, Torino, 2003.
[2] S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella
nostra società, Einaudi, Torino, 2004.
[3] E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il
Mulino, Bologna, 1970.
[4]
Si
vedano
i
siti
www.travelblog.it
o
www.blitzquotidiano.it, campagna russa e guida contro il
selfie estremo.