Educazione. Giornale di pedagogia critica

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Educazione. Giornale di pedagogia critica
EDUCAZIONE
Giornale di pedagogia critica
Anno I, 2 (2012)
Editoriale Anicia
2012
EDUCAZIONE
Giornale di pedagogia critica
Direttori: Francesco Mattei, Benedetto Vertecchi
Direzione e redazione: via della Madonna dei Monti, 40 00184
Roma (Italia)
Tel. (39)0657339666, e-mail: [email protected]
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Comitato di redazione: Gabriella Agrusti (redattore capo), Cinzia
Angelini, Valeria Caggiano, Cristiano Casalini, Antonella Poce, Rocco
Postiglione, Teresa Savoia, Gilberto Scaramuzzo
I contributi pubblicati sono stati sottoposti ad un procedimento di
revisione conforme alle norme ISI
II semestre 2012 - Anno I, 2
ISSN 2280-7837 (print)
ISSN 2280-9600 (online)
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Editoriale
L’aggettivo è necessario
Ci si potrebbe chiedere (e non sarebbe del tutto
fuori luogo) se fosse stato proprio necessario, nel dare
un titolo a questa rivista, aggiungere a pedagogia l’aggettivo critica. In effetti, se quello cui miriamo è un
traguardo di ricerca, di riflessione, di interpretazione e
reinterpretazione di modelli, teorici ed empirici, che
hanno segnato il cammino dell’educazione e ne distinguono le condizioni attuali, si potrebbe anche considerare l’aggettivo pleonastico.
Quando si persegue con onestà intellettuale l’incremento della conoscenza, si è necessariamente aperti
alla considerazione di nuove proposte e di sviluppi non
previsti. Cogliere contraddizioni nell’orizzonte interpretativo consueto non riduce la capacità di interpretare l’educazione, ma costituisce una condizione per
formulare nuove ipotesi. Cambiare il punto di vista è la
premessa per sfuggire alle insidie di un determinismo
dal quale non ci si può che attendere una limitazione
nella capacità di cogliere i segni del divenire. In breve,
se quella che si persegue e si è capaci di perseguire è
buona conoscenza, non può che trattarsi di una conoscenza critica.
Allora, se la pedagogia definisce l’orizzonte interpretativo dell’educazione, e se l’intento che si persegue
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 1-5.
ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Editoriale
è l’incremento della conoscenza, c’è bisogno di far riferimento a una sua dimensione critica? Se abbiamo in
mente l’apporto alla conoscenza educativa di Platone o
di Quintiliano, di Tommaso d’Aquino o di Comenio, di
Jean-Jacques Rousseau o di Maria Montessori abbiamo
bisogno di far riferimento al carattere critico dei loro
apporti? Dovremmo, se lo facessimo, spiegare per quale ragione ci occupiamo di modelli e proposte che potrebbero essere all’origine di atteggiamenti non critici.
Ma, se non abbiamo bisogno di fornire tale spiegazione quando ci riferiamo ai personaggi menzionati (e a
tanti altri non menzionati, ma che sarebbe stato giusto
comprendere nella lista, se il nostro intento non fosse
stato solo di proporre qualche esempio), si può dubitare che nel dibattito pedagogico l’impianto critico che si
riconosce a questo o quell’indirizzo di pensiero o di azione sia stato sempre onorato da quanti si sono collocati sulla scia.
È accaduto, e accade, che la tensione critica si attenui quando al vigore originario di un modello si sostituisce la sua iterazione in condizioni diverse, spaziali e
temporali. L’impegno interpretativo, invece di applicarsi al reale, si applica alla rappresentazione implicita
nel modello, senza considerare che l’educazione assume connotazioni che variano in conseguenza dei modi
in cui nel tempo si realizza l’adattamento alla vita.
Quello che ne deriva è un irrigidimento che accredita
una conoscenza pedagogica non critica, perché ignara
dei cambiamenti necessari per rispondere a nuove esigenze (o, se si pensa che sia il caso, per contrastarle).
Si potrebbe pensare che la tendenza all’irrigidimento fosse propria soprattutto di una pedagogia impegnata sul versante teorico, ma che sarebbe stata superata con l’affermarsi di interpretazioni sostenute da
riscontri empirici o da evidenze sperimentali. Non è
2
L’aggettivo è necessario
ciò che è accaduto. Al contrario, tendenze non critiche
serpeggiano negli orientamenti che si sono affermati a
partire dalla seconda metà dell’Ottocento, fino a diventare, nel corso del Novecento, largamente maggioritari
in gran parte dei paesi. Nella ricerca educativa si sono
affermati, infatti, modelli e procedure che lasciano
modesti spazi di libertà per elaborazioni originali.
Basta esaminare l’impianto di gran parte dei contributi pubblicati nelle riviste pedagogiche per individuare una sorta di canovaccio, che incomincia con il
tratteggio di uno status quaestionis, prosegue con la
dichiarazione delle ipotesi, descrive la procedura seguita per verificarle, presenta i risultati e li discute.
Completano questo indice ricorrente una breve sintesi
e i riferimenti bibliografici (che oggi, sempre più spesso, sono anche sitografici). Fin qui, niente di male. Al
contrario, un po’ di struttura semplifica il compito di
chi formula il messaggio, ma anche dei suoi destinatari, che non sono costretti a leggere testi ridondanti per
conoscere gli esiti di questa o quella ricerca.
La questione è che troppo spesso il canovaccio è
tutto ciò che il contributo presenta di positivo. Se si
passa a considerare i contributi per ciò che contengono,
è difficile sottrarsi alla sensazione che molti di essi ripropongano questioni già note, solo rinfrescate coi belletti di una certa fastosità metodologica. Peggio ancora
quando si coglie il candore che accompagna la riproposta: chi ha effettuato la ricerca è convinto che sia
proprio l’imbellettamento a garantirne la validità, e
non si rende conto che la questione affrontata ha dei
precedenti (talvolta dei trascorsi). In questi casi emerge
uno degli ostacoli più forti per l’affermazione di una
pedagogia critica, quello derivante dalla mancanza di
spessore temporale della linea argomentativa.
3
Editoriale
Negli ultimi cinquant’anni si è assistito a un cambiamento progressivo nel modus operandi della ricerca
educativa (analogo, nelle grandi linee, a quello che ha
interessato altri settori d’indagine nel campo delle scienze dell’uomo). In precedenza, all’impegno per l’attività
sul campo doveva aggiungersi un impegno anche più
consistente per l’archiviazione e l’elaborazione dei dati. Si deve allo sviluppo della tecnologia l’acquisizione
di risorse che hanno semplificato in modo sostanziale
le procedure per l’archiviazione e per l’elaborazione.
Anzi, sotto certi aspetti l’hanno semplificato troppo.
Non vorremmo essere fraintesi. Quello che si sta enunciando non è una sorta di luddismo metodologico. La
preoccupazione che si cerca di esprimere riguarda l’eccessiva facilità con la quale si passa dall’acquisizione
dei dati alla loro elaborazione, che prevede siano eseguite, senza risparmio, procedure statistiche nelle quali
un tempo si sarebbe evitato di cimentarsi se non nei
casi in cui, per qualche ragione, si era acquisita una
certa attesa circa la rilevanza degli esiti. Oggi, serie di
dati che corrispondono a variabili mal definite e peggio
rilevate sono il punto di partenza per calcoli statistici
che in altri tempi avrebbero richiesto che fossero eseguite serie interminabili di operazioni. Si sarebbe avuto
un progresso, anche nella direzione dell’incremento di
consapevolezza critica nei confronti della conoscenza
educativa, se alla rapidità con la quale si archiviano e
si elaborano i dati avesse corrisposto la consapevolezza
necessaria a comprendere che cosa si stesse facendo.
Accade, invece, che si giunga a formulare giudizi sulla
base di indici numerici che abbiano superato l’unico
vaglio critico che consiste nell’essere compresi entro
determinate soglie. Se, per uno scherzo malvagio, non
fosse più possibile eseguire i calcoli (e tutto ciò che ad
essi si collega, a cominciare dalle rappresentazioni gra4
L’aggettivo è necessario
fiche) in modo automatico, assisteremmo ad un crollo
della ricerca (e ad uno, non meno rovinoso, delle speranze di affermazione accademica dei ricercatori).
Se si considera l’enorme quantità di contributi
scientifici che si pubblicano nell’area pedagogica, è
difficile spiegare perché il quadro dell’educazione appaia così poco rassicurante. I segnali di crisi si moltiplicano e, anzi, proprio l’analisi di tali segnali costituisce
uno dei settori di ricerca che mostrano una maggiore
vitalità. Il fatto è che in troppi casi gli apporti derivano
da un uso più o meno sapiente di schemi e strumentari,
al quale si accompagnano interpretazioni di livello
modesto, che non escono dal recinto che, per abitudine, si continua a prendere in considerazione. La conoscenza educativa perde di consistenza perché confida
per crescere su risorse prese a prestito, invece di cercare nella sua cultura gli elementi che consentirebbero,
per continuità o per differenza, di avviare una migliore
comprensione dei problemi attuali dell’educazione.
In breve, fa difetto la capacità di collocare correttamente i fenomeni nel tempo e nello spazio, di stabilire relazioni sul piano diacronico e non solo su quello
sincronico, di porre in equilibrio, come avrebbe detto
Pascal, la géométrie e la finesse. Potremmo anche dire,
riassumendo, che fa difetto una pedagogia critica.
fm bv
5
Editoriale
Géométrie, finesse. – La vraie éloquence se
moque de l’éloquence, la vraie morale se moque de la morale; c’est-à-dire que la morale du
jugement se moque de la morale de l’esprit,
qui est sans règles.
Car le jugement est celui à qui appartient le
sentiment, comme les sciences appartiennent à
l’esprit. La finesse est la part du jugement, la
géométrie est celle de l’esprit.
Se moquer de la philosophie, c’est vraiment
philosopher.
[B. Pascal, Pensées, 24.]
6
Sulla natura mimesica del discorso.
Una lettura filosofico-educativa di pagine del Cratilo
Gilberto Scaramuzzo
Dipartimento di Progettazione educativa e didattica
Via Madonna dei Monti 40 - 00184 Roma
Università Roma Tre
[email protected]
0. Premessa
Il concetto di mimesis, assente nei primi scritti
platonici, trova nel Cratilo una prima compiuta applicazione1.
Taylor riassume la significatività di questa presenza con modalità sintetica ed efficace: «A chi non si interessa specificamente di fonetica apparirà molto più
interessante l’acume che Socrate dimostra insistendo
sul principio generale che il discorso può essere considerato come una specie di gestire mimetico […]»2.
Intento del presente studio è quello di esercitare una
ermeneusi filosofico-educativa sulle pagine del Cratilo a
partire dall’indicazione di Taylor.
1
Seppure esistano obiezioni a questa affermazione assumo la
posizione di Halliwell (cfr. S. Halliwell, L’estetica della mimesis. Testi antichi e problemi moderni, Palermo, Aesthetica, 2009, pp. 46; 331
nota 76).
2
A. E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera, Firenze, La Nuova Italia, 1987, p. 135. La frase interrotta termina così: «[…] e la sua chiarezza nel distinguere tale gestire vocale dalla riproduzione diretta di
rumori naturali e di gridi animali».
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 7-20.
ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Gilberto Scaramuzzo
Indagare con tale sensibilità uno dei luoghi in cui
principia in Occidente la riflessione sulla qualità del
rapportarsi del linguaggio umano all’essenzialità del
reale, costringe a interrogarsi se una riconsiderazione
del ruolo agito dalla mimesis in questo rapportarsi possa offrire nuovi paradigmi all’agire educativo, o, almeno, aiutare a prospettare nuovi scenari, in grado di ridimensionare i dinamismi disumananti che segnano
l’attualità.
Il dialogo è tra i più letti3; il procedimento che qui
si intenta è atipico, ma non privo di giustificazione:
abbracciare l’elemento corporeo per illuminare lo spirituale4.
All’elemento corporeo ricorre Platone per far entrare la mimesis in un dialogo che verte sulla questione
filosofica del rapporto tra espressione (e comprensione) umana e la realtà delle cose5.
3
«Il n’est pas un dialogue de Platon qui ait suscité chez les modernes plus de discussions que le Cratyle. Dans ses analyses parues
entre 1891 et 1901, H. Kirchner passait en revue trente-deux études
consacrées à cet ouvrage, et depuis lors ce nombre a continué de
s’accroître» (L. Méridier, Notice, in Platon, Cratyle, in Idem, Œuvres
complètes, tome V, 2e partie, Paris, Les Belles Lettres, 1950, p. 7). E questa attenzione per il Cratilo non è mai venuta meno negli anni.
4
A questa modalità di abbraccio ci esorta Stenzel al fine di
stringere la teoria pedagogica platonica in altri luoghi della sua produzione (cfr. J. Stenzel, Platone Educatore, Bari, Laterza, 1966, p. 136).
5
Per le citazioni platoniche si è scelto di operare nel seguente
modo: limitare il nostro intervento di traduzione ai passaggi essenziali
per l’ermeneusi, e in particolare ai termini composti sulla radice greca mim, e utilizzare negli altri luoghi la traduzione di Francesco Aronadio.
Si sceglie di tradurre il verbo greco mimšomai con ‘fare la mimesis di’
anziché ‘imitare’ (scelta più affermata, che segue la tradizione della
traduzione latina di m…mesij con imitatio, e del verbo corrispondente
con imitari). Questa scelta è motivata dal fatto che m…mesij non può,
se non in rari casi, essere tradotto con imitazione senza ingenerare
gravi incomprensioni e veri e propri fraintendimenti. Il vocabolo greco
m…mesij si utilizzerà nel testo senza tradurlo: operando la sola traslitte-
8
Sulla natura mimesica del discorso
1. Generiamo il mimema al fine di mostrare
SOCRATE [...] Rispondimi a questo: se non avessimo voce né lingua, ma volessimo mostrare [dhloàn] l’un l’altro le cose, non cercheremmo forse di significare [shma…nein], come ora i muti, con
le mani e la testa e il resto del corpo?
ERMOGENE E in effetti come altrimenti, Socrate?
SOCRATE Se, almeno credo, volessimo mostrare [dhloàn] ciò che è
in alto e leggero, alzeremmo verso il cielo la mano, facendo la
mimesis della natura stessa della cosa [mimoÚmenoi aÙt¾n t¾n fÚsin toà pr£gmatoj]; se, invece, le cose che sono in basso e pesanti, verso la terra. E se volessimo mostrare [dhloàn] un cavallo
che corre o un qualche altro animale, sai che renderemmo i nostri
corpi e le nostre movenze quanto più simili a quelli loro6.
razione priva di accento, analogamente si opererà per m…mhma (per una
chiara precisazione sulla distinzione di significato tra i due sostantivi
cfr. F. Aronadio, Introduzione, in Platone, Cratilo, Bari, Laterza,
2008, pp. XXXVIII-XXXIX); e si utilizzerà, inoltre, ‘mimesico/a’ in
luogo del più usato ‘imitativo/a’ e del più immediato ‘mimetico/a’, al
fine di valorizzare la relazione dell’aggettivo con il sostantivo, e di evitare le possibili precomprensioni fuorvianti che potrebbero gravare
sia su ‘imitativo/a’ sia su ‘mimetico/a’. Si è scelto di operare analogamente con gli altri vocaboli che appartengono alla stessa famiglia.
Nella modernità e nella contemporaneità i due più articolati studi filologici in cui si ritrova seriamente e radicalmente confutata l’equivalenza di m…mesij con ‘imitazione’ (Nachahmung, imitation) sono
quelli di H. Koller, Die mimesis in der antike. Nachahmung, Darstellung, Ausdruck, Berna, Francke, 1954; e di S. Halliwell, The aesthetics of mimesis. Ancient texts and modern problems, Princeton, Princeton University Press, 2002 (in precedenza citato nella traduzione
italiana); i due studi producono la loro confutazione con percorsi di ricerca e di analisi assai distinti. Sull’ampliamento del significato di m…mesij oltre quello canonico di imitazione vedi anche G. Gebauer, C.
Wulf, Mímesis. Kultur, Kunst, Gesellschaft, Reinbeck, Rowohlt, 1992.
I luoghi dove intervengo con la mia traduzione sono segnalati in corsivo e affiancati dal testo greco a cui si riferiscono.
6
Si confronti il presente passaggio con Repubblica, 393c in cui
Platone definisce cos’è fare la mimesis: «Ora, il rendere sé simile a un
altro, per quel che concerne sia (o) la voce sia (o) il gesto, non è far la
mimesis di quello a cui ci si rende simili? [OÙkoàn tÒ ge Ðmoioàn
˜autÕn ¥llJ À kat¦ fwn¾n À kat¦ scÁma mime‹sqa… ™stin
™ke‹non ú ¥n tij Ðmoio‹;]» (traduzione mia).
9
Gilberto Scaramuzzo
ERMOGENE Mi
SOCRATE Così
sembra che sia necessariamente come dici.
infatti, credo, ci sarebbe atto ostensivo di qualcosa
[d»lwm£]: quando il corpo, com’è verosimile, fa la mimesis di
[mimhsamšnou] quella cosa che vuole mostrare [dhlîsai].
ERMOGENE Sì.
SOCRATE Ma poiché vogliamo mostrare [dhloàn] con la voce e
con la lingua e con la bocca, ciò che viene da queste non darà luogo forse ad un atto ostensivo [d»lwma] di ciascuna cosa allorché
per mezzo di queste sia mimema [m…mhma] di qualche cosa?
ERMOGENE Necessariamente, mi sembra.
SOCRATE Allora il nome è, com’è verosimile, mimema [m…mhma]
con la voce di quello di cui si fa la mimesis [mime‹tai]; e colui che
con la voce fa la mimesis [mimoÚmenoj] nomina ciò di cui fa la
mimesis [mimÁtai]
7
ERMOGENE Mi sembra .
Socrate/Platone connette qui intimamente la mimesis al comunicare umano.
Egli inizia con questa pagina la rivelazione di una
semplice realtà che andrà progressivamente a ispessirsi
di problematicità: quando vogliamo esprimere qualcosa a qualcuno, sia che utilizziamo il solo corpo sia che
utilizziamo la voce, noi dobbiamo fare la mimesis di
quel che vogliamo rendere manifesto. L’uomo, dunque,
non manifesta mai direttamente quel che vuole dire ma
esprime quel che vuole dire attraverso il mimema di
quel che vuole dire, e questa comunicazione è efficace
nella misura in cui il soggetto che la produce realizza
la mimesis della natura dell’oggetto che vuole comunicare. Il nome è dunque mimema della cosa, e il parlare con i vocaboli è far la mimesis con la voce anziché
con il corpo di quello di cui si fa la mimesis. E immediatamente dopo Socrate – come vedremo – specifica
meglio di cosa deve essere mimesis il nome.
7
10
Platone, Cratilo, 422e-423b.
Sulla natura mimesica del discorso
La mimesis è dunque il perno intorno a cui ruota
tutta la comunicazione umana, sia essa verbale o non
verbale. Semplice e bella la sintesi platonica e la reductio
a un unico atto per descrivere le molteplici forme che
può assumere l’espressione umana finalizzata a manifestare agli altri le cose.
Seppure la mimesis ci appaia in questa luce quale
cuore del parlare e del comprendere umano, essa stenta
nell’attualità a trovare un ruolo di primo piano nella riflessione preoccupata dell’educabilità umana; un ruolo
almeno paragonabile a quello che, a tutt’oggi, la mimesis occupa nella riflessione estetica. E muovendo da
questa sensibilità, non è difficile individuare in questa
pagina elementi di grande rilevanza sia per la prassi sia
per la riflessione educativa.
2. Il corpo sa farsi mimesis della natura del pr©gma
che si vuole mostrare
Attraverso l’intuizione modernissima di interrelare
la dimensione non verbale della comunicazione con la
dimensione verbale, Socrate mette ben in evidenza due
aspetti:
- attraverso il proprio corpo e senza l’uso dei vocaboli è possibile mostrare [dhloàn] e significare
[shma…nein] le cose;
- è una mimesis della natura [fÚsin] della cosa, il
movimento che l’uomo attua per generare un appropriato gestire corporeo finalizzato al comunicare efficacemente agli altri.
Socrate ricorre al corpo, e in particolare alla mimesis corporea, per lo svelamento della natura mimesica del linguaggio verbale. E seppure il comunicare con
11
Gilberto Scaramuzzo
il corpo è qui utilizzato da Socrate per sviluppare l’argomento che a lui interessa – la natura dei nomi e del
nominare –, il passaggio descrive una morfologia della
comunicazione che ha una sua realtà autonoma. Il parlare con il corpo, infatti, appare come una modalità che
la comunicazione umana può assumere.
Quando Socrate vuole portare la prova che l’uomo
se vuol manifestare qualcosa a qualcuno ne fa la mimesis, ci presenta quest’agire sotto forma di mimesis
corporea. Questo agire ci appare spontaneo in chiunque non possa fare uso della voce: quasi che il cogliere
la natura del pr©gma e il volerla comunicare siano
primitivamente mimesis corporea. E, al contempo, questo cogliere la natura del pr©gma e il farne una metafora corporea descrive l’agire che realizza la mimesis.
La capacità mimesica umana ci si presenta, dunque,
come capacità di “antropomorfizzare” la natura di qualunque pr©gma (di qualunque cosa), e questa capacità
sembra manifestarsi immediatamente, primitivamente,
attraverso il corpo8.
Ma non si tratta di umanizzare quel che non è umano, cioè non si tratta di ridurre l’oggetto della mimesis alla dimensione umana, quanto piuttosto di offrirsi – in quanto uomini – come materia plasmabile in
quella forma, che per certi versi è creata e per altri è
patita dal soggetto, in quanto essa – la forma – è dettata
8
Quando nella Repubblica Platone riflette con altro respiro sulla
mimesis ne enfatizza la problematicità paideutica; lì questa “antropomorfizzazione”, che l’uomo opera realizzando in sé l’altro da sé (ma
anche patendo questa stessa realizzazione), si scoprirà avere un potere
formante (cioè si scoprirà essere per l’uomo paideia – ma non sempre
buona paideia, anzi…) che va ben oltre la contingenza espressiva. Le
riflessioni che nella Repubblica arriveranno ad una sintesi dichiaratamente paideutica, già nel Cratilo hanno però forza tale da inquietare
tanta parte dell’attuale prassi educativa, anche se questa sembra procedere profondamente incurante del misterioso dinamismo umano.
12
Sulla natura mimesica del discorso
dalla natura della cosa: la mimesis che viene a realizzarsi nel soggetto, sembra essere una sintesi superiore
al soggetto, in quanto è oltre – nel senso del tedesco
über – il soggetto stesso che la realizza.
La mimesis, così come qui ce la descrive Socrate/Platone, è infatti quella capacità che consente all’uomo di ricreare una qualsiasi realtà attraverso un processo di trasfigurazione in una forma umana che si
assume in proprio. La mimesis segnala un poter crearsi
a immagine e somiglianza di un qualunque pr©gma,
anche molto diverso – almeno per quel che si può apprezzare esteriormente – da sé. La mímesis sembra allora implicare una misteriosa intimità tra il soggetto
che la fa e il pr©gma di cui si fa la mimesis: un misterioso cogliere nel pr©gma delle qualità intrinseche – la
natura – e un misterioso ricrearsi in analogia con quelle qualità che costituiscono appunto la natura del
pr©gma stesso, e che misteriosamente quasi si impongono al soggetto. Qualità che, misteriosamente create e
patite dal soggetto, sembrano assumere una valenza
oggettiva, tale da consentire, a chi osserva il mimante,
di riconoscere in ciascun mimema manifestato proprio
quell’ente di cui il mimante sta effettivamente facendo
la mimesis, quand’anche esso – il pr©gma di cui si fa
la mimesis –, esteriormente, sia davvero molto diverso
dal soggetto che ne fa la mimesis: così come lo è “un
cavallo che corre o un qualche altro animale” (ma anche “ciò che è in alto e leggero…”) rispetto all’uomo.
Dalla lettura della pagina del Cratilo sembra legittimo porre a noi pedagogisti alcune semplici domande
che specificano quanto già in precedenza era oggetto di
perplessità: quanta attenzione si pone alla mimesis corporea nella prassi educativa? E – nuovamente – quanto
13
Gilberto Scaramuzzo
la riflessione su questa prassi l’ha posta al centro della
ricerca e del dibattito scientifico?9
Quanto rinveniamo nella pagina platonica può far intravedere nuovi scenari per la ricerca pedagogica e può,
in qualche misura, indirizzarne la sperimentazione?
3. Il mimema, se vuole mostrare la verità delle cose,
deve essere mimesis dell’oÙs…a, le arti mimesiche
non giungono a tanto
Ci sarà per noi la manifestazione dell’oggetto, di
qualunque oggetto – sembra sostenere Socrate –, soltanto quando realizziamo la mimesis della natura di
quel determinato oggetto. Ma immediatamente dopo
aver affermato questo – attraverso le parole di Socrate
– Platone passa ad analizzare le criticità connesse con
la mimesis10.
Egli ci mostra, nello sforzo di indagare per rinvenire l’origine dei nomi (o, forse, meglio, per rinvenire
il movimento necessario alla generazione del nome affinché attraverso di esso – il nome – si mostri veramente l’ente), una morfologia essenziale della mimesis.
Afferma – attraverso Socrate – che questa produzione
umana – la mimesis – può assumere due forme: in una
l’uomo guarda all’essenza (oÙs…a) come il quid su cui
esercitare la mimesis; nell’altra l’uomo non ha l’essen9
Forse si potrebbero rinvenire nei dinamismi mimesici che caratterizzano l’espressione corporea umana risposte adeguate ai ‘perché’ dell’efficacia di certe metodologie didattiche e del fallimento di
altre. ‘Perché’ che trovano nell’oggi risposte puramente empiriche o
giustificazioni che non raggiungono la radicalità del principio.
10
Criticità che saranno poi ampliamente e drammaticamente
sviscerate nella Repubblica, ma che già si mostrano qui con luce intensa.
14
Sulla natura mimesica del discorso
za come paradigma, ma si preoccupa di far la mimesis
di possessi non essenziali del pr©gma (voce, figura,
colore), rinunciando però, anche per essi, ad uno sguardo
che ne intenda l’essenza. La prima mimesis sarà quella
che avrà forza di generare i nomi, la seconda opere
musicali o pittoriche.
Platone riconosce soltanto all’arte di dare i nomi
la possibilità di concretare la prima forma che può assumere la mimesis – quella, cioè, che ha per modello
l’essenza –; le produzioni degli altri linguaggi artistici,
infatti, sarebbero sempre forme del secondo tipo – mimesis di qualcosa che non è essenziale. E ascrive soltanto a questa prima mimesis (qualora si realizzi) – e
non a quella delle altre arti – il potere di mostrare per
ciascuna cosa ciò che è11.
Socrate ha qui abbandonato la mimesis corporea
per la sua riflessione, procede senz’altro utilizzando il
mimema/nome e lo distingue dai mimemi delle altre arti. Ma anche se uscito di scena, il prodotto della mimesis corporea rimane capace di fare un movimento che
non è esplicitamente riconosciuto ai mimemi prodotti
dalla musica e dall’arte pittorica: quello di essere mimesis della natura del pr©gma.
Il principio generale che la mimesis può essere o
dell’essenza o di possessi non essenziali del pr©gma
può essere chiave per leggere tanto i fallimenti quanto i
successi delle prassi educative che concernono l’insegnare. Seppure la nostra ricerca intenda mantenersi fo11
Cfr. Platone, Cratilo, 423c-424a. Il che non vuol dire affatto
che le arti mimesiche si limitino ad essere puro rispecchiamento delle
cose, come chiaramente argomenta Halliwell, sia attraverso queste pagine del Cratilo sia attraverso l’ermeneusi di alcune pagine del libro X
della Repubblica. Per le argomentazioni relative al Cratilo cfr. Idem,
L’estetica della mimesis, cit., pp. 47-49.
15
Gilberto Scaramuzzo
calizzata su mimesis, giova alla nostra riflessione recuperare qualcosa presente nelle pagine del dialogo che
precedono l’utilizzo di questo concetto.
4. Il nome è uno strumento atto ad insegnare
A 388a Socrate chiarisce che il nome è uno strumento così come lo sono il trapano e la spola.
E conclude che «il nome è uno strumento (Ôrganon) atto a insegnare qualcosa (didaskalikÒn) e a distinguere (diacriticÕn) l’essenza, così come la spola
il tessuto»12.
E poiché, come abbiamo abbondantemente verificato, il nome si ritroverà più avanti a essere riconosciuto come un mimema, esso è dunque uno strumento atto
a insegnare – e questo sempre e comunque, sia nel bene sia nel male, come sarà con altro respiro sostenuto
da Platone nella Repubblica – e a farci discernere
l’essenza – qualora si realizzi con il nome la mimesis
dell’essenza. Si torna così a ribadire, attraverso quel
particolare mimema che è il nome, che una certa qualità nel fare la mimesis è cruciale per la paideia – come
altrimenti considerare quel che produce qualcosa che è
atto a insegnare e a farci distinguere l’essenza?13
«Il tessitore dunque si servirà bene della spola, e
bene vuol dire da tessitore; e chi è atto ad insegnare si
servirà bene del nome, e bene vuol dire in modo da insegnare»14.
12
388b-c.
Si potrebbe qui aprire una proficua riflessione che interessa
numerosi settori dell’educativo sull’importanza da attribuire alla scelta
dei vocaboli e al rapporto che si deve instaurare con essi qualora si
voglia veramente insegnare e far discernere l’essenza.
14
388c.
13
16
Sulla natura mimesica del discorso
Mi sembra una sintesi di rara eleganza per stringere quel che dovrebbe caratterizzare l’operato di ogni
vero insegnante (ma anche educatore o formatore).
L’insegnamento (didaskalikÒn) non coincide con
l’arte di dare i nomi (così come il tessere non è l’arte di
costruire le spole), ma l’insegnante è colui che è esperto nell’uso, cioè colui che sa usare i nomi nel modo
bello. Platone non indugia sulla descrizione dell’agire
dell’insegnante perché il suo interesse è qui rivolto a
colui che assegna i nomi, e non a chi se ne serve per il
loro uso proprio. Non è però difficile trarne elementi
utili alla riflessione sull’educativo: sviluppando quanto
ci sembra implicito nelle affermazioni platoniche e
senza volerle oltremodo forzare.
Se l’insegnante, quando sceglie i mimemi con i
quali insegna, non è rivolto all’essenza che vuole significare; se esprime con le sue parole e con i suoi gesti soltanto aspetti non essenziali del qualcosa che intende comunicare; gli studenti a lui affidati riceveranno un
nutrimento non bello: assorbiranno la mimesis dell’inessenziale prodotta dall’insegnante; con il risultato di
essere male-in-segnati da un cattivo in-segnante. Se
invece l’insegnante è vero insegnante saprà utilizzare
bene i mimemi e questo sembra necessariamente chiamare in causa la capacità di discernere l’essenza che si
vuole comunicare così da scegliere il mimema che ne è
la vera mimesis.
Si può così immaginare che insegnare veramente
richieda una presenza di contatto con (un vivere intensamente) il vero che si vuole significare. Soltanto così
si potrà sperare che quello stesso discernimento, amore, incontro vivo con qualcosa di vero possa accendersi
nello studente che assiste alla lezione.
17
Gilberto Scaramuzzo
Il nome è un mimema della cosa (pr©gma): questo
può essere corretto e vero, non corretto e falso. È corretto e vero quel mimema che conviene a ciascuna cosa
e ne riproduce la somiglianza15. Se per i mimemi prodotti dalla arti mimesiche si può parlare soltanto di attribuzione corretta (o non corretta), per i nomi possiamo parlare di attribuzione vera oltre che corretta16. Ma le
immagini (e„kÒnej) che un uomo può generare non saranno mai perfetta riproduzione dell’oggetto di cui sono immagine17.
Sin qui la mimesis supporta Socrate nella sua riflessione.
Quando, nel finale dell’opera, Platone rivela, attraverso le parole di Socrate, l’esserci di una modalità
per apprendere (maqe‹n) le cose che si può realizzare
senza l’apporto dei nomi, fino a giungere ad affermare
che «esse stesse da loro stesse», più che da una qualunque loro immagine, le cose sono da imparare e da
ricercare (se si ha per fine la verità)18, nulla sembra togliere al corretto utilizzo didascalico della parola, ma,
piuttosto, nel mostrarne la misura, intensifica la ricerca
filosofica e didattica di ogni bravo insegnante.
15
Poiché non si dà mai uguaglianza: «altro è il nome – afferma
Socrate – altro ciò di cui è nome» (430a).
16
Cfr. 430a-431c.
17
Cfr. 432b-d.
18
Cfr. 438e sgg.
18
Sulla natura mimesica del discorso
5. Conclusione
Se riconosciamo come dinamismi disumananti tutti quelli che allontanano il singolo e l’umanità da un
vivere bello, buono e giusto e, quindi, da una felicità
che è per il singolo e per la convivenza; e come umananti quelli di segno opposto; l’attualità ci si presenta
sotto una luce piuttosto fosca.
E non tanto, a mio parere, per l’abbondanza dei
primi (l’umanità ha una storia di atrocità che possiamo
riconoscere più gravi di quelle pur gravi che vediamo
nell’oggi), quanto per la grave assenza dei secondi.
Si è autorevolmente affermato che interrogarsi sul
rapportarsi del lÒgoj all’e¯nai è filosofare, e che è in
questo interrogarsi che deve misurarsi la riflessione
sull’educativo per svolgere il compito che le è proprio:
curare la parola nell’uomo19. Forse proprio ciò, qui,
abbiamo fatto: indagando in un luogo principe.
Se il girarsi con tutta l’anima (logistikÒn e
¢lÒgiston) verso l’Essere/Bene e vederlo, come poteva fare Platone, chiede un’ingenuità che più non abbiamo, non è perciò stesso precluso profittare del suo
scandaglio per approfondire e sperimentare dinamismi
umani che non richiedono accettazioni a priori di densità ontologiche, ma che neppure, però, ne escludono
l’impatto esistenziale.
Abbiamo verificato quanto il concetto di mimesis,
per Platone, sia centrale e problematico per il parlare
umano; e come da un’intensificazione della riflessione
su di esso si aprano molteplici prospettive per la rifles-
19
Cfr. Mattei, F., Sfibrata Paideia. Bulimia della formazione
Anoressia dell’Educazione, Roma, Anicia, 2009.
19
Gilberto Scaramuzzo
sione sulla prassi educativa, e forse, quel che più conta,
per la prassi stessa20.
Paradossale a questo punto dello sviluppo del lÒgoj proporre di investigare e di sperimentare (non certo senza di esso) la mimesis? E spingersi al segno di rivalutare la mimesis fatta con il corpo, avendo come fine dichiarato quello di alimentare il parlare umano?
Sì, una proposta paradossale. Ma certo necessaria
se ci ritrovassimo muti e volessimo manifestare.
Allora forse, umilmente, non ci resterebbe che indagare seriamente questa possibilità.
Riferimenti bibliografici
Gebauer, G., - Wulf, C., Mímesis. Kultur, Kunst, Gesellschaft, Reinbeck, Rowohlt, 1992.
Halliwell, S., The aesthetics of mimesis. Ancient texts and modern
problems, Princeton University Press, Princeton, 2002 (trad. it.
Idem, L’estetica della mimesis. Testi antichi e problemi moderni, Palermo, Aesthetica, 2009).
Koller, H., Die mimesis in der antike. Nachahmung, Darstellung,
Ausdruck, Berna, Francke, 1954.
Mattei, F., Sfibrata paideia. Bulimia della formazione Anoressia
dell’educazione, Roma, Anicia, 2009.
Méridier, L., Notice, in Platon, Cratyle, in Idem, Œuvres complètes, tome V, 2e partie, Paris, Les Belles Lettres, 1950.
Platone, Cratilo, trad. e introd. di F. Aronadio, Bari, Laterza, 2008.
Stenzel, J., Platone educatore, Bari, Laterza, 1966.
Taylor, A. E., Platone. L’uomo e l’opera, Firenze, La Nuova Italia, 1987.
Wulf, C., Mimesis. L’arte e i suoi modelli, trad. it. a cura di Paolo Costa, Milano, Mimesis, 1995.
20
In questo senso è netta la posizione di Wulf: «Secondo la sua
concezione [quella di Platone] la mímesis è una conditio humana, che
comporta la possibilità dell’educazione e con l’aiuto della quale l’educazione ha luogo» (C. Wulf, Mimesis. L’arte e i suoi modelli, trad.
it. a cura di Paolo Costa, Milano, Mimesis, 1995, p. 23).
20
Adamo magister.
Il canone educativo del Cursus Conimbricensis
Cristiano Casalini
Dipartimento A.L.E.F.
Università di Parma
Borgo Carissimi, 10 - 43121 Parma
[email protected]
Cordi, non chartae, credas, quae noveris arte,
Quod si charta cadat, sapientia secum vadat.
Il canone occidentale non coincide col Testo, o col
corpus di testi, che una sterminata letteratura offre oggi assieme alla sua Wirkungsgeschichte. Né l’incarnazione storica di un logos, né la fenomenologia del suo
sviluppo esauriscono la forma attuale dello spirito europeo. Il canone occidentale è anche, forse innanzitutto, procedura della sua trasmissione, che storicamente
tende a fissarsi nella forma di canone educativo. Dunque, l’educazione. Dunque, i dispositivi didattici, le
tecniche, l’organizzazione di questa tradizione. Questo
corpus educativo è altrettanto produttivo del canone
quanto il Testo della procedura della sua trasmissione.
In taluni casi, questo fenomeno è più evidente. Ed
accade storicamente quando la consunzione del paradigma dominante apre uno spazio inusitato entro il
quale scatti improvvisi, puntate verso il nuovo, ritirate
difensive o meticciamenti prudenziali offuscano il senso di una direzionalità storica, mescolandosi e rendendo tutto legittimo e possibile. O viceversa, rendendo
tutto eretico e scomunicabile. Sono i tempi dell’aperEDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 21-42.
ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Cristiano Casalini
tura e del conflitto, i tempi che una storiografia debole
non riesce a definire se non ricorrendo alla categoria
della cucitura, della cerniera, del passaggio, della transizione. Come se non avessero consistenza autonoma,
come se l’anarchia o il troppo rumore del dibattito fossero, anziché salute, un disturbo sintomatico, una malattia dello spirito.
In tali frangenti, può accadere che la struttura
dell’educare sopravanzi il testo, e la prassi appaia in se
stessa come fine, producendo di conseguenza una legittimazione teorica e una costruzione ideologica che
ne giustifica il perpetuarsi. Considerare questo genere
di produzione letteratura secondaria o minore, oppure
confinarla nelle paludi ermeneutiche dell’improduttivo
o del banalmente riproduttivo, è un errore – di nuovo –
metodologico, su cui già Foucault ha espresso il proprio giudizio. Qualsiasi valore la contemporaneità attribuisca alla sua qualità letteraria, qualsiasi collocazione morale questa produzione riceva nel panorama
costitutivo di ciò che oggi riteniamo «il canone occidentale», essa è – a vario grado – produttiva e sintomatica di un tempo e, soprattutto, rappresenta una delle
due ganasce della tenaglia educativa (l’altra è l’organizzazione didattica) che forma, o contro cui si forma,
il pensiero della generazione successiva, il nuovo paradigma.
Il Cursus Conimbricensis appare in questa prospettiva come un segnavia esemplare. È il commento a
stampa in otto volumi di quasi tutte le opere di Aristotele, apparentemente fondato sulla tradizionale struttura del commentario medievale, edito dal Collegio gesuita di Arti a Coimbra tra il 1592 e il 1606. Testo,
explanatio e quaestiones vi si alternano copiosamente
con moto non sempre regolare, dando vita ad un cor22
Adamo magister
pus in cui molte delle ferite aperte di un secolo teologico-filosofico sanguinoso vengono medicate col balsamo di un periodare anodino e orgogliosamente scolastico. Dal punto di vista delle dottrina e della fortuna,
questo Cursus – come altri del suo genere – non ha ottenuto il riconoscimento storico che ha invece arriso ad
opere del suo tempo, da Bruno, a Bacone, a Cartesio,
finite nei manuali di filosofia e nel canone come (non a
caso) punti di svolta nella storia del pensiero occidentale. Dovremo perciò abbandonarla all’interesse di una
micragnosa storia antiquaria?1
1. La procedura che origina il Cursus è educativa,
e attiene all’organizzazione scolastica che i primi gesuiti diedero ai loro collegi di Arti, nel quadro della varietà e libertà di una sperimentazione didattica che precede e, in qualche misura, determina la codificazione
della Ratio Studiorum (1599): quest’ultima non è produttiva di un modo di educare più di quanto non ne sia
sintomatica, non esaurendone tuttavia le possibilità.
Molti studi hanno ormai illustrato questo processo
costruttivo, lungo trent’anni. Il Cursus nasce come
progetto già nel 1561, in virtù di una visita di Nadal alla Provincia lusitana, dalla quale il visitatore trasse
un’ottima impressione della potenza culturale dei maestri del Collegio di Coimbra, allora da pochissimo in
mano alla Compagnia. Erano gli anni in cui a Coimbra
insegnavano Clavio, Cypriano Soares, Manuel Álvares,
Pedro Fonseca: nomi che avrebbero segnato un’epoca.
Nadal scrisse al provinciale portoghese che, così come
Soares aveva realizzato un mirabile manuale di Retori1
Domanda retorica, certo, che tuttavia non vuole indurre al vizio tipico proprio della storia antiquaria, che vede valore ovunque e
retrodata ai predecessori l’intero pensiero dei grandi.
23
Cristiano Casalini
ca, che poteva con gran giovamento degli studenti essere adottato in tutti i collegi della Compagnia, così i
conimbricensi avrebbero dovuto impegnarsi a stendere
un intero corso filosofico che ambisse a eguale diffusione.
Il Cursus rappresentò il frutto più maturo di una
procedura educativa ben precisa, legata alla tradizione
universitaria e medievale, e passata in storiografia con
un nome: il modus parisiensis. Alcuni studi hanno già
dimostrato il debito della cultura educativa gesuita nei
confronti della prassi didattica parigina, ma quasi sempre si sono limitati a studiarne l’influenza sulle strutture, sulle pratiche, sulla irreggimentazione della vita di
collegio e sulle questioni disciplinari che accompagnano le regole della Ratio studiorum. Non ci si è invece
concentrati sul fatto che questo modus abbia anche generato contenuti, prodotto testi, realizzato un corpus
dottrinale che ad esso corrispondesse isomorficamente.
Altrove ho sostenuto che la prassi didattica del Collegio di
Coimbra deriva essenzialmente da un trasferimento in
Portogallo della cultura educativa del Collegio parigino di
Santa Barbara, per mezzo dello spostamento del principale di quel Collegio, André de Gouveia, prima a
Bordeaux, poi a Coimbra. André non era gesuita, ma il
suo modo di reggere il collegio lasciò una traccia indelebile che i gesuiti, una volta sostituito il Gouveia nella
gestione del Collegio, non modificarono.
2. Occorre risalire ad una pratica antica del legere
parigino, per scoprire l’origine del corso conimbricense. Uno statuto del 1355 interveniva infatti per vietare
la lettura de verbo ad verbum, a cui ricorrevano i maestri che non si curavano già più della predisposizione
personale della lezione. In tal modo, l’aula (si pensi al24
Adamo magister
le affollate strutture della Rue du Fouarre, dismesse
solo nel XVI secolo) risuonava della voce del maestro,
ieraticamente intento alla dettatura tractim di un testo
che non era né dell’Autore da commentare né redatto
di proprio pugno. Il corpo studentesco, chino sulla
charta per tenere bene a mente l’umiltà del discere,
aveva ben presto anche compreso l’efficacia dell’ufficio
della delega, e molto spesso infatti delegava umili
scrivani a mercede onde evitarsi la noia del sedere a
terra e udire la litania magistrale del tractim. Ma il collegio dei maestri di Arti intervenne per autoregolarsi, e
nel 1355 stabilì che le parole del maestro dovessero
correre raptim dalla sua bocca, prevedendo sanzioni
funeste per coloro che non vi si fossero adeguati.
Tentatis duobus modis legendi libros Artium liberalium,
primis quidem Philosophiae Magistris in Cathedra raptim
proferentibus verba sua, ut ea mens Auditoris valeret capere,
manus vero non sufficeret exarare. Posterioribus autem
tractim nominantibus, donec Auditores cum penna possent
scribere coram eis. Diligenti examine his invicem collatis,
prior modus melior reperitur, propter quod communis animi
conceptio nos admonet ut ipsum in nostris lectionibus
imitemur2.
Qui, nella funzione didattica, il cuore pulsante del
modus parisiensis. Il maestro ha il dovere di costruire
il proprio corso, e l’obbligo di farlo avendo bene a
mente l’orecchio e lo spirito del discente. Maxima debetur puero reverentia: i maestri parigini fecero del
detto di Quintiliano la cornice del sapere, consistente
per loro in null’altro che una efficace trasmissione
(transfusio, per dirla con Tommaso d’Aquino). La costante attenzione per la struttura dell’insegnamento se2
C. E. Du Boulay, Historia Universitatis Parisiensis, t. IV, Parigi, 1670, p. 332.
25
Cristiano Casalini
gna la storia degli statuti dell’università principale
d’Europa: il sapere deve imprimersi nelle funzioni cognitive dell’anima, aristotelicamente concepite come
tabulae, il cui atto creativo succede – raramente, precede
– l’impressione del contenuto. Per attribuire all’inventio infatti una primazia rispetto alla passività di una
comunicazione riuscita, occorrerà attendere i maestri
umanisti, sulla scia di quel platonismo mediceo che
contagerà la Francia di Francesco I e, ancora più in là,
quegli oxoniensi che furono precipitosamente antibruniani.
La funzione didattica, invece, organizza il modo
del docere in direzione del discente. Di qui il raggiungimento della forma classica del modus parisiensis,
con l’invenzione delle decurie di livello (nei collegi
cinquecenteschi trasformate in «classi»), con il perfezionamento di un sistema di esami di profitto, fino ad
allora relegati al momento simbolico dell’ottenimento
dei gradi (con tutti i corollari goliardici dell’universitas
delle origini), con la regolazione temporale della giornata di studio: lectio, disputa, repetitio. Un tale modus
esigeva il coinvolgimento del maestro nella funzione
didattica, e il suo impegno nei confronti della formazione dello studente. È questo il nodo centrale che porta gli Artisti a condannare l’esercizio ritmico e meccanico della dettatura.
La complicazione del trascrivere in velocità non
dovette scoraggiare né l’uso della dettatura, né il mercato degli amanuensi lungo tutto il Cinquecento3; a
3
La riforma del Cardinal d’Estouteville, di un secolo più tarda,
solo apparentemente modificò i termini della questione. Certo, la concessione della possibilità di dettare la lezione evidenzia l’inefficacia
del decreto precedente, ma tale concessione non può essere relegata al
rango delle banali prese d’atto. Il decreto, infatti, recita: «Prefatis Regentibus [in Artium Facultate] inhibemus, ne legant de verbo ad ver-
26
Adamo magister
farne le spese, proprio il frutto educativo di quel modus
parisiensis che tuttavia continuò a fungere da paradigma per la gestione dei migliori collegi in Europa. Il
gesuita Antonio Possevino, considerando il danno della dettatura e, viceversa, l’energia nascosta della parola viva (Habet nescio quid latentis energiae vivae vocis
actus, & in aures discipuli de authoris ore transfusa
fortius sonat, diceva San Girolamo), additava ancora la
nominatio ad pennam come un corpo estraneo a quel
modus, e un male da evitare nella coltura degl’ingegni:
ciò che doveva essere corso di studio, diviene zoppicamento
di vita, e gittamento di tempo, molesti’altrui, e perdita di danari, e disaiuto delle anime. Segue anco, che a’ Maestri, e a’
Lettori si toglie l’occasione di trattare delle materie accuratamente, laonde qual’è il fonte, tale conviene poi l’acqua che
ne deriva4.
bum in quaestionibus alienis, sed intendant labori & studio taliter
quod per seispsos sciant & valeant lectionem facere, & discipulis tradere sufficientem, sive legant ad pennam sive non, nonobstante antiquo Statuto de non legendo ad pennam, super quo dispensamus;
dummodo ita suas componant lectiones, quod ex eorum scientia & labore per exquisitionem librorum procedere videantur» [C.E. Du Boulay, Historia Universitatis Parisiensis, t. V, Parigi, 1670, p. 572]. Come si può vedere, il Cardinale d’Estouteville si disinteressa della
pratica della dettatura, ma non transige sull’obbligo del docente di preparare un proprio corso.
4
A. Possevino, Coltura degl’ingegni, a cura di C. Casalini e L.
Salvarani, Anicia, Roma 2008, p. 168. Altri (più noti) maestri esprimevano tuttavia un parere differente dal Possevino: «Qué pensar del
dictado, como método pedagógico? Vitoria lo defendía, según hemos
visto. Suárez también abogó por él, no tanto de discípulo, cuanto de
maestro. No así el P. Mariana ni Domingo de Soto. Maldonado no lo
reprobaba en absoluto, pero veía sus inconvenientes, pues además de
neutralizarse con él la misteriosa virtualidad de la palabra hablada
[…]» [R. G. Villoslada, La universidad de Paris durante los estudios
de Francisco de Vitoria, Analecta Gregoriana, Roma, 1938, p. 317].
27
Cristiano Casalini
La polemica del Possevino era una difesa della
frequenza, e la didattica a distanza – per lui – non funzionava. Era cioè una difesa del cuore didattico del
modello parigino, che coincideva con l’esercizio sul
testo e che, nei fatti, trasformava la parola dell’Auctor
in un pretesto per allenare le arti (molto) pratiche della
dialettica e della retorica:
di più molti si rallentano non solo dallo studio de’ migliori
interpreti, e (quel che più importa) dalla consideratione del
testo, ma al fine lasciate le scuole, basta loro mandare uno
che copi le lettioni, le quali anco, o non veggono mai, o se
pur danno un’occhiata, restano senza il frutto delle ripetitioni, delle dispute, delle conferenze; e in somma giace il seme
nel granaio sopra la superficie del terreno, il quale non essendo né arato, né dapoi coperto, quale ricolta potrà sperarsene?5
L’immagine dell’università di un’istituzione imbrigliata nelle sofisticherie dialettiche e capzioserie logiche abbondantemente promossa dagli umanisti (uomini di corte, non di aula), ha offuscato nella storiografia successiva la capacità di tenere ben presente il
fine educativo dell’esercizio della disputa: la costruzione di un sapere pratico, spendibile nella «scuola del
mondo», dove parola e persuasione erano (sono) armi
e strumenti adattabili alle più diverse situazioni del vivere sociale e professionale. Tutt’altro che astratto, un
programmato e costante esercizio pubblico del disputare forma lo studente al possesso plastico della capacità
di convincere e vincere nella competizione delle piazze, dei mercati, delle corti. In qualche modo, Possevino
coglie l’essenza dell’organizzazione collegiale nella
strutturazione delle arti liberali come practical wisdom, una forma di sapere che si rafforza nel contrasto
5
28
Ibidem.
Adamo magister
con l’umanesimo assorbendolo e torcendolo in direzione della prassi6. A questo fine, la disputa – centro
dell’educare medievale – anziché essere dismessa viene riaffermata nella sua valenza educativa. Questa riaffermazione, tuttavia, non è priva di conseguenze dal
punto di vista dottrinale, dato che la trasformazione
dell’esercizio in fine ne produce una formalizzazione
in cui tutti i contenuti possono essere a piacimento
ammessi o declinati: si produce necessariamente uno
spazio di libertà ermeneutica a cui il paravento delle
Costituzioni ignaziane (che vincolavano la Compagnia
alla sicura dottrina di Tommaso e Aristotele) non poteva bastare per passare inosservato.
L’educazione gesuita, dietro il paravento, doveva
dunque ereditare il meglio del modus parisiensis, e – di
questo – il tempo della disputa in particolare. La dettatura sottraeva tempo all’esercizio, da cui la necessità di
un suo confinamento. L’irruzione della stampa a caratteri mobili aveva prodotto un’accelerazione in questo
senso e costituì per i Gesuiti l’occasione di riaffermare
la cornice entro la quale andava concepito didatticamente il ruolo del testo:
A’ nostri certo, a’ quali qualche continua professione de’
studi ha apportato alcuna notitia di questo fatto, comincia di
giorno in giorno più a mostrarsi la necessità di temperamento
di tale fatica: e i Portughesi nostri, che sono nelle principali
università di Portogallo, sì come Dio loro ha conceduto molta
diligenza nelle buone arti e discipline, e in instituir gli Auditori, così hanno con molto merito in gloria di chi somministra ogni vera sapienza fatto grande parte del corso di filoso6
È ciò che indicano Grafton e Yardine in From Humanism to
the Humanities. The Institutionalizing of the Liberal Arts in Fifteenthand Sixteenth-century Europe, Harvard University Press, 1987. La
torsione della cultura umanistica verso un sapere spendibile nel mondo è, d’altronde, già avvertibile in Juan Luis Vives, che nel suo De
tradendis disciplinis dedica un capitolo alla sapientia pratica.
29
Cristiano Casalini
fia, et istampato per togliere la fatica dello scrivere; sopra
il quale corso però resta agl’ingegni diligenti larga materia per aguzzarsi, e per essercitarsi7.
Che il punto di vista di Possevino fosse acuto,
come spesso accade nella sua Coltura degl’ingegni, lo
testimoniano due documenti che riguardano direttamente i protagonisti della redazione del Cursus. Il primo è di Pedro Fonseca: si tratta di una pagina della
prefazione alle sue Institutiones Dialecticae che comparvero nel 1567, dopo che lo stesso era stato incaricato da Nadal di occuparsi in prima persona della redazione di un corso filosofico conimbricense. In questa
pagina, Fonseca critica la pratica della dettatura per
giustificare la stampa della sua Dialettica:
Veramente questo modo di insegnare, sebbene fosse di gran
lunga migliore e più utile di quello che si teneva prima, tuttavia, a causa del continuo scrivere, comportava incredibile
molestia e difficoltà allo studente (per non dire dei docenti).
Infatti il tempo, che avrebbe potuto essere più utilmente impiegato nell’insegnare e disputare, non senza grande incomodo andava perso dettando8.
Il secondo documento è più antico, ed è la lettera
con cui Nadal richiedeva al provinciale lusitano che i
maestri di Coimbra redigessero un Cursus filosofico:
«Para se evitar o trabalho de escrever-se tanto como se
7
A. Possevino, Coltura degl’ingegni, cit., p. 170.
«Verum haec docendi ratio, etsi longe melior, & utilior, quam
illa superior habebatur, tamen ob assiduum scribendi laborem, incredibilem discipulis (ut de praeceptoribus taceam) molestiam, difficultatemque afferebat. Tempus etiam, quod in docendo ac disputando utilius
poni potuisset, non sine magno incommodo in dictando consumebatur» [Institutionum Dialecticarum Libri Octo, auctore Petro Afonseca
ex Societate Iesu, apud Mathernum Cholinum, Coloniae MDLXVII,
Prefatio].
8
30
Adamo magister
escreve, se procure que um curso de escritos se imprima e nisto se ocupe o Padre Afonseca principalmente»9.
L’ansia di sfuggire alla perdita di tempo e al dispendio di energie nella fatica dello scrivere meccanico è d’altra parte resa nuovamente esplicita nella dichiarazione di apertura dell’impresa del Cursus, dove
ancora Fonseca, nel concedere per conto del Generale
Acquaviva l’imprimatur, legittima la funzione dei volumi da pubblicare proprio con l’utilità della razionalizzazione didattica10.
3. La veste che assume il Cursus rivela la sua funzione, e una descrizione della sua struttura aiuta a collocarlo più precisamente nel quadro della produzione
letteraria accademica del tempo. La forma del commentario medievale era infatti giunta a consunzione.
Poco più avanti, si sarebbe spalancato il secolo del trattato, e l’università ne avrebbe lentamente acquisito
l’abito. Centrale, in questo passaggio, è naturalmente il
valore veritativo che la comunità dei maestri attribuiva
al testo e all’autore, di cui i moderni non potevano che
essere glossatori. Una ormai lunga, consolidata, forse
sfibrata tradizione scolastica aveva arricchito e come
placcato il ramo originario con le smaglianti argomentazioni di Commentatori che, all’altezza del Cinquecento, apparivano passaggi obbligati per il maestro
contemporaneo. La galassia del commento gravitava però
9
Monumenta Historica Societatis Iesu, I, p. 600.
«Quod iam pridem optabant multi, ut communes Philosophiae
commentarij manuscripti, qui in Conimbricensi liberalium artium Academia Societati nostrae commissa quotidiano excipientium labore
dictabantur, reconoscerentur, auctique & locupletati mandarentur
typis; id ut fieret, aliquot ante annos a Reverendo admodum Patre Nostro Generali Claudio Acquaviva constitutum erat» [Commentarii Collegii Conimbricensis Societatis Jesu in octo libros Physicorum Aristotelis Stagyritae, Coimbra, A. Mariz, 1592].
10
31
Cristiano Casalini
attorno alla presunzione di un isomorfismo tra parola
dell’Autore (per come era stata ricevuta, ossia tradotta
o attribuita) e realtà: la discussione si apriva piuttosto
nell’interpretazione. Tale presunzione fu naturalmente
scossa, durante il periodo della prima scolastica, dall’acquisizione del corpus aristotelico (si aprì così la
strada all’averroismo), le quali fecero tremare e in parte crollare l’interpretazione “agostiniana” del reale11.
Ciononostante, la cristianizzazione di Aristotele, operata nelle forme meno contestate di Alberto e Tommaso, non fece che sostituire un isomorfismo con un altro. È questo ciò che fece di Aristotele il Filosofo, e di
Averroè il Commentatore.
Sollevato dal problema del testo in quanto tale, il
fulcro del commento scolastico divenne così la quaestio, ovvero il problema sollevato dall’ermeneutica del
testo, o – per meglio dire – l’interrogazione del reale a
partire dal testo dato. È noto come l’umanesimo sia poi
intervenuto sulle fondamenta di questa struttura, portando il dubbio sul piano filologico del discorso e minando così l’affidabilità della fonte. In un primo, lungo,
tempo, questo dubbio non portò tanto alla dismissione
del testo, quanto alla ricerca della «vera» parola dell’autore: del vero Aristotele, del vero Platone, e perfino
del vero Averroè. Ne sarebbero seguite operazioni editoriali straordinarie, griffate dai più insigni umanisti o
dai più ricchi editori, alla ricerca di una traduzione finalmente affidabile del testo originario. Il Liber de
Causis, a lungo attribuito allo Stagirita, miseramente
finì tra le scartoffie neoplatoniche di Proclo. La lingua
11
Essa sopravvisse, com’è noto, nella pur fiorente tradizione
francescana o nelle mediazioni di quello che Gilson definì “agostinismo avicennizante”. Cfr. É. Gilson, Tommaso contro Agostino, Milano, Medusa, 2009.
32
Adamo magister
greca fece la sua comparsa tra gli insegnamenti impartiti nei collegi, anche se occorrerà attendere la metà del
XVI secolo per vederla realmente impartita nei corsi
pubblici (ovvero aperti a tutti, non curricolari) di alcuni tra i collegi peraltro più à la page, com’è il caso del
Collège Royal fondato dal solito Francesco I. A Padova ci si diede ad Alessandro d’Afrodisia e a rinnovare
Averroè, grazie alle finanze dei tipografi veneziani.
Quanto alle lande germaniche, il problema filologico
puntò dritto al problema dei problemi, al Testo paradigmatico, alla fonte del canone occidentale. Ne uscì
una Riforma e la lingua tedesca moderna, una nuova
Bibbia e la prima campagna di alfabetizzazione di
massa.
L’onda umanistico-filologica non causò, tuttavia,
immediatamente il collasso del meccanismo che reggeva il Commentario come forma-testo paradigmatica.
Si sostituirono traduzioni con traduzioni, a volte inventandosi la pratica del testo a fronte, e si continuò a
commentare questionando, aprendosi potenzialmente
uno spazio nuovo e pressoché illimitato di riscrittura
del reale, grazie allo spostamento di una sillaba, o
all’inversione di un giro di frase. Il Commentario ne risentì semmai nella sua struttura compositiva: la spiegazione del testo, ciò che un tempo aveva costituito il
nucleo della praelectio, vide crescere la propria rilevanza editoriale, e cominciò ad occupare spazi maggiori rispetto alla glossa o alla questione. Tale spazio è
quello proprio della explanatio, talvolta explicatio, nella redazione della quale vediamo lentamente spostarsi
durante il XVI secolo gli interessi del maestro in direzione della discussione etimologica o sintattica del testo.
Di questa spinta umanistica risente il Cursus. Ma,
pur presentandosi come opera unitaria, al modo di al33
Cristiano Casalini
cuni esempi rinascimentali, la sua struttura varia nei
diversi volumi in modo molto significativo. I conimbricensi scelgono, per i loro studenti, di evitare il testo
in lingua greca e di affidarsi ad alcune delle traduzioni
umanistiche di maggior fama (come quelle dell’Argiropulo). Nelle prime edizioni estere dell’opera verranno operate invece scelte differenti da parte dei tipografi, tra le quali quella di inserire l’originale greco con
traduzione a fronte nell’edizione tedesca: segno evidente di una diversa fascia di lettori, certamente più
ricca, ma anche già familiare con la lingua greca. Oltre
alla scelta della lingua, ciò che colpisce maggiormente
è la varietà dello schema utilizzato dai conimbricensi
per i loro volumi: le opere principali della filosofia naturale di Aristotele si presentano infatti con textus/explanatio/quaestiones; in altri casi il testo viene omesso; e, infine, opere come l’Etica si presentano come
raccolta di un certo numero di questioni, senz’altro
supporto di commento al testo originale.
L’analisi di questa varietà ci riporta, di nuovo, alla
determinazione didattica come origine del Cursus:
mentre Fisica e De Coelo occupavano larga parte dell’anno scolastico, l’Etica (le cui edizioni cinquecentesche furono infatti opera di umanisti non universitari)
veniva toccata alla fine del secondo semestre, con poche note di passaggio. Sulla base della differenza strutturale tra i volumi è inevitabile, perciò, pensare che
l’occupazione preferita nell’insegnamento di Arti fosse
la filosofia naturale, con l’eccezione (o la propaggine,
se vogliamo) della psicologia, il cui volume nell’opera
conimbricense non solo riproduce l’intero schema di
textus/explanatio/quaestiones, ma – complice la morte
di Manuel de Goís proprio al momento della sua pubblicazione – presenta anche l’aggiunta di due trattati,
in questo caso firmati da due maestri, uno sui cinque
34
Adamo magister
sensi (Cosme de Magalhães) e uno sull’immortalità
dell’anima (Baltazar Álvarez).
Ci si trova così di fronte ad un voluminoso commentario all’opera aristotelica, strutturato a partire da
una esigenza universitaria, ma con spiccate sensibilità
umanistiche. La questione, presentata talvolta in una
raccolta di disputationes, è ancora l’elemento centrale
del commento, ma è importante notare come nel
Cursus non se ne ricerchi l’esaustività, al modo delle
più note Summae duecentesche, quanto piuttosto si utilizzi la quaestio come indicatore sperimentale di un
modo di fare/operare didattico, utile al maestro in Arti
per lanciare l’esercitazione libera in classe.
Le questioni del Cursus trattano molto spesso i
temi principali o le più scottanti tesi discusse al tempo,
ma altrettanto spesso si fermano ad elencare le ragioni
in utram partem senza concludere, oppure si insinuano
in vicoli ciechi rimandando ad altri luoghi o ad opere
di contemporanei non riprodotte nel testo conimbricense. Con ciò non si vuol naturalmente affermare che il
Cursus non presenti un organico corpo dottrinale e una
linea filosofica ben definita nei confronti delle scuole
del proprio tempo. La presenza tuttavia di questioni rispondenti allo stile dialettico e partitivo privo di conclusioni sembra però confermare che l’apparato di
commento del testo conimbricense fungesse da schema
operativo per l’esercizio scolastico libero dalle opinioni ivi argomentate. Per questo il commento, anziché
costruire un edificio sistematico, sembra seguire le sinuosità del discutere reale – di nuovo, di quella parola
viva che è l’elemento pedagogico essenziale del collegio gesuita12.
12
Diversa l’opinione del Lohr, ripresa anche da Alison Simmons, secondo cui i libri di testo gesuiti (non solo quelli di Coimbra)
35
Cristiano Casalini
Il rimando all’altro da sé, e l’importanza che assume per il Cursus ciò che gli è essenziale ma che non
vi compare (l’esercizio della disputa reale, che il testo
suggerisce, lancia, ma non esaurisce), colloca l’opera
in un panorama letterario insolito e molto raro all’epoca. Essa diviene il “manuale” di filosofia in un
gran numero di collegi non solo gesuitici, e la storia
delle sue edizioni (pur concentrate nell’arco di un trentennio) ne dimostra la straordinaria diffusione. Ciononostante, la sua forma, concepita come modernizzazione ad uso scolastico del commentario medievale, sarà
anche il motivo del suo rapido declino, cambiando
proprio nei trent’anni di inizio Seicento un paradigma
epistemologico, un modo di fare scienza, ma soprattutto il modo di organizzarne la trasmissione. Dicevamo
prima: comincia l’era del trattato. E l’università, che
pur manterrà la sua funzione selettiva, lentamente si
adatterà alla nuova forma, dismettendo di volta in volta
i simboli dell’insegnare cinquecentesco. Tra questi
simboli, il Cursus conimbricensis, di cui Descartes, allievo un tempo del collège de la Flêche, lamenterà
all’amico Mersenne il retrogusto stantio e superato:
I’ay veu la Philosophie de Monsieur de Raconis, mais elle
est bien moins proprie à mon dessein que celle du Pere Eustache; & pour les Conimbres, ils sont trop longs; mais ie
siano unusually systematic and philosophical, in contrasto con i commentari scolastici dei secoli precedenti, o con opere come la Summa di
Tommaso, a topically but not philosophically systematic text [cfr. A.
Simmons, «Jesuit Aristotelian Education: De Anima Commentaries»,
in J. W. O’Malley - G. A. Bailey - S. J. Harris - T. F. Kennedy (eds.),
The Jesuits. Cultures, Sciences, and the Arts, 1540-1773, Toronto,
University of Toronto Press, 1999, pp. 522-537; e C.H. Lohr, «Jesuit
Aristotelianism and the Sixteenth-Century Metaphysics», in H.G.
Fletcher III - M.B. Schulte (eds.), Paradosis: Studies in Memory of
Edwin A. Quain, New York, Fordham University Press, 1976, pp.
203-220].
36
Adamo magister
souhaiterois bien de bon coeur, qu’ils eussent écrit aussi
brièvement que l’autre, & i’aimerois bien mieux auoir affaire
à la grande Societé, qu’à un particulier i’espere, auec l’aide
de Dieu, que mes raisons seront aussi bien à l’épreuve de
leurs argumens que de ceux des autres13.
4. La realtà del Cursus non consiste esclusivamente
nell’altro da sé (l’esercizio didattico come causa e fine). La procedura – come dicevamo – produce il testo:
dunque, l’Aristotele uscito dal Cursus deve avere
un’impronta ed un carattere conimbricense. Carattere
che ritroveremo non nelle ambiguità, nelle antinomie a
cui le questioni talvolta paiono arrestarsi, lasciando intendere una indecisione di fondo che può esser frutto
acerbo dell’operare di un gruppo di autori, e non di un
uomo solo; o di una finalità esemplare per l’esercizio
scolastico, ma non di una dottrina in sé. Il commento
conimbricense dà invece vita ad un profilo coerente,
tanto nell’interesse per le tematiche della filosofia naturale – anche l’anima presenta un interesse di questa
natura disciplinare –, quanto in alcune teorie che ven13
R. Descartes, Œuvres, Paris, éd. Adam et Tannery, 1899, III,
p. 251 [manteniamo la trascrizione diplomatica dell’edizione]. La testimonianza di Descartes si completa con una lettera precedente (30
settembre 1640), in cui torna, oltre all’importanza del Cursus nel panorama culturale e scientifico della Compagnia di Gesù, anche il problema della inaccessibilità della sua mole: «Ie ne seray point encore
mon voyasge pour cet hyuer; car, puisque ie doy receuoir les obiections des Iesuites dans 4 ou 5 mois, ie croy qu’il faut que ie me tiene
en posture pour les attendre. Et cependant i’ay enuie de relire un peu
leur Philosophie, ce que ie n’ay pas fait depuis 20 ans, affin de voir si
elle me semblera maintenant meilleure qu’elle ne faisoit autrefois. Et
pour cet effect, ie vous prie de me mander les noms des autheurs qui
ont escrit des cours de Philosophie & qui sont le plus suiuis par eux, &
s’ils en ont quelques nouueaux depuis 20 ans; ie ne me souuiens plus
que des Conimbres, Toletus & Rubius. Ie voudrois bien aussy sçavoir
s’il y a quelqu’vn qui ait fait vn abregé de toute la Philosophie de
l’Eschole, & qui soit suiui; car cela m’espargneroit le tems de lire
leurs gros liures» [Ibid., p. 185].
37
Cristiano Casalini
gono adottate per superare, con gergo aristotelico,
l’impasse scientifica della tarda scolastica14. Profilo determinato dal particolare contorno che assume nel
Cursus la teoria della conoscenza aristotelica in riferimento alla necessità della sua trasmissione. Ovvero, il
modo con cui i conimbricensi rispondono alla provocazione platonica della reminiscenza.
Nel dare risposta al problema dell’origine della
conoscenza, infatti, il commentatore si trova di fronte al vicolo cieco dell’affermazione aristotelica: omnis doctrina et disciplina ex antecedente cognitione fit.
Il rifiuto radicale della reminiscenza proposto dai conimbricensi pone l’atto trasmissivo del maestro a fondamento della conoscenza individuale. A monte, l’interesse dei conimbricensi non va allo stato sovrannaturale di Adamo che dà i nomi alle cose, ma all’Adamo magister che, dopo la caduta, inaugura una
catena di trasmissione del sapere che giunge, dall’origine della storia umana, fino a ciascuno studente di
collegio. La tradizione scolastica contemplava poi non
solo la presenza di princìpi primi nell’intelletto, ma
anche la possibilità di infusione di habitus innati nell’uomo ad attivare il ragionamento su di essi. Molto
spesso cioè si ricorreva ad una spiegazione innatistica
del processo di avviamento della conoscenza che sembrava tuttavia contraddire la coerenza di una gnoseologia a carattere esperienziale o empirico.
14
Non mi dilungherò qui sul concetto di causa esemplare, che i
conimbricensi recuperano dalla speculazione di Pedro Fonseca (più in
là guardando al platonismo di Enrico di Gand) per reagire alla crisi
della quaterna causale aristotelica, prossima al colpo di grazia baconiano; né sulla specifica dottrina del segno esposta da Couto nel tardivo volume della Dialettica, sul quale vanno speculando gli storici contemporanei della logica, alla ricerca dell’origine della teoria abduttiva
di Peirce.
38
Adamo magister
I conimbricensi fanno propria questa coerenza, e
coerentemente negano l’esistenza di habitus innati o di
princìpi primi che non vengano attivati dall’esterno.
L’acquisizione diviene in questo modo la dimensione
principale del conoscere, a scapito di quella inventio a
cui Tommaso d’Aquino aveva al contrario attribuito
tanta importanza, ma che sembrava interdire l’attuarsi
della relazione didattica come processo conoscitivo.
Educazione, dunque; che per i conimbricensi equivale
a conoscenza. La procedura ha prodotto, attraverso il
testo, il proprio canone.
Sia dunque la conclusione di questo articolo, che l’animo
umano è ad un tempo creato da Dio ed infuso nel corpo, ed è
alla sua prima origine quasi una nuda tavola, priva d’ogni abito e specie. Poi col passare del tempo acquisisce gli abiti
delle scienze, soprattutto per quella via che ci ha indicato Aristotele in quest’opera, ovvero dapprima accogliendo i princìpi, che hanno maggiore affinità col lume dell’intelletto, e
poi deducendo da essi delle conclusioni, sia da solo e per
proprio esperimento, sia per opera e impegno del maestro15.
Riferimenti bibliografici
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Portugal, Its Empire, and Beyond, 1540-1750, Stanford, Stanford
University Press, 1996.
15
«Conclusio ergo huius articuli sit, animum humanum simul a
Deo creari, & in corpus infundi, esseque a prima origine quasi nudam
tabulam, omni habitu, specieque destitutum. Deinde vero progressu
temporis acquirere scientiarum habitus, ea potissimum via, quam tradidit Aristoteles in hoc opere, videlicet percipiendo prius principia,
quae maiorem habent cum lumine intellectus cognationem, & ex illis
deducendo conclusiones aut per se, & proprio experimento, aut opera,
industriaque magistri» [Commentarii Collegii Conimbricensis S. I. in
universam Dialecticam Aristotelis, Coimbra, D. G. Loureiro, 1606].
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41
Cristiano Casalini
Eodem modo debet procedere in docendo discipulum: primo principia prima per se nota
proponendo ei; deinde ea per immediata,
quantum potest, applicando ad determinatas
conclusiones et ab illis in ulteriores consimiliter usque ad ultima, explicando hunc discursum discipulo per signa verborum vel quaecumque alia, ut melius poterit, significantia
illos conceptus quos ratio naturalis interius ordinaret, si in suo discursu errare non posset. Et
sic illos conceptus sic per signa propositos
format in se discipulus admonitus per signa.
[Enrico di Gand, Quaestiones ordinariae (Summa), Quaest. VI, Art. I, Sol.]
42
«We have only one story».
Fedeltà al Testo e creazione narrativa
nelle Sunday Schools americane
Luana Salvarani
Dipartimento A.L.E.F.
Università di Parma
Borgo Carissimi, 10 - 43121 Parma
[email protected]
Come nasce una grande cultura nazionale? Anche
solo porsi la domanda potrebbe sembrare un atto di
imperdonabile ingenuità storica, e innescare un fallimentare meccanismo di rimandi all’indietro, di risalita
verso radici troppo lontane per essere efficacemente
studiate, o verso i vari, multiformi miti della creazione.
Ma ci sono casi in cui una società umana si percepisce,
nonostante tutto, come un nuovo inizio, e attua consapevolmente dei riti di palingenesi culturale. Forgia i
propri strumenti con entusiasmi e illusioni prometeici
e, sistematicamente, realizza i dispositivi per trasmetterne l’uso, crea istituzioni per formare e rafforzare tali
strumenti e valori, e l’immagine di sé che ne deriva.
È così che, nella storia dell’educazione, si fanno
incontri sorprendenti. Avviene quando ci si imbatte in
contesti e situazioni che non si limitano a modulare,
discutere, comunque riprodurre un sistema culturale
che loro preesiste e li determina; ma diventano luoghi
di elaborazione di una propria, specifica cultura, a volte propositiva o divergente rispetto a quella da cui derivano. È il caso di tanti momenti dell’educazione anEDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 43-64.
ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Luana Salvarani
cien régime, diffratta com’era in mille microcosmi diversi, riflesso di altrettanti centri di potere, sempre
pronti a caratterizzarsi e a porsi in concorrenza tra loro.
Diviene più raro nell’Europa borghese, ansiosa di uniformità e protocolli, e tende inevitabilmente a sparire
in quella «democratica» della scolarizzazione di massa,
dove la produzione di culture autonome da parte di
contesti educativi assume non di rado i caratteri della
semiclandestinità, e di fatto si sottrae, con abili artifici
retorici, alla mano uniformante della programmazione.
Pare che, in cerca di queste avventure intellettuali, si
debba navigare sempre più all’indietro, sempre più
lontano, verso remote periferie cronologiche e geografiche. Invece, il caso forse più fertile di questo fenomeno è relativamente a portata di mano. Le Sunday
Schools, autonome istituzioni per l’istruzione religiosa
e il controllo sociale del proletariato britannico, furono
reinventate in America negli anni della Frontiera e del
consolidamento del Paese, venendo così a costituire,
per decenni, la forma educativa pressoché unica per i
pionieri e gli agricoltori che fondarono la nuova nazione. In questo processo, non solo le Schools riuscirono
a darsi un volto culturale autonomo e ben delineato,
ma produssero un vasto corpus di testi letterari e non
letterari, canti, riflessioni e commenti biblici che costituisce la base dell’identità americana nel suo complesso e, nel loro carattere di testi d’uso, la vigorosa, originalissima radice della letteratura statunitense, che, pur
con tutti i crismi di un’arte consapevole e raffinata,
mantiene ancora le capacità comunicative e l’autosufficienza di fondo trasmessa proprio dalla narrativa edificante delle Schools. Siamo quindi di fronte al caso,
forse unico, di un contesto educativo che non solo ha
saputo elaborare una propria proposta, ma fu origine e
non conseguenza di un sistema culturale.
44
We have only one story
Le Sunday Schools, nella loro forma più semplice
e diffusa nell’America rurale dell’Ottocento, erano istituzioni autogestite da un gruppo di docenti volontari,
di ambo i sessi e di età variabile (sia adolescenti che
uomini anziani potevano farsi carico di questo compito), sotto la direzione di un sovrintendente per lo più
facente capo a una denomination religiosa. Esistevano
Sunday Schools di ogni confessione, ma le più comuni
erano di ispirazione protestante, soprattutto metodista,
e il modello metodista si affermò su base interdenominational quando la Sunday School Union tentò a fine
secolo di organizzare e uniformare le diverse prassi ed
esperienze. Aperte a bambini, giovani e adulti un paio
d’ore la domenica mattina prima della funzione religiosa, le Schools basavano la propria didattica sulla
Bibbia (in genere, come vedremo, nel testo della King
James Version), che fungeva contemporaneamente da
supporto per l’alfabetizzazione e da regolamento morale, da enciclopedia popolare di geografia, storia, astronomia e botanica, e da serbatoio cui attingere storie epiche e avventurose. Letta a passi scelti dall’esperienza
del docente o secondo i consigli di una pubblicistica
specializzata prima artigianale e poi sempre più florida, ipostatizzata nei Golden Texts e parafrasata nei libri
per i più piccoli, la Bibbia pareva bastare e avanzare
come Testo Unico di quella essenziale didattica delle
praterie.
Invece, accanto alla Bibbia e senza mai metterne
in discussione il primato, nasce e fiorisce una letteratura specifica, una vasta gamma di racconti e romanzi
che propongono i messaggi etici – in particolare i più
semplici e utili, come il richiamo alla laboriosità e alla
vita frugale – in più o meno elaborate finzioni narrative. Non è chiaro se queste opere venissero direttamente lette in classe; sappiamo che venivano date in dono
45
Luana Salvarani
agli studenti migliori; che erano oggetto di letture domestiche ed esercitazioni, e progressivamente, quando
si passa dal villaggio alla città, divennero il prodotto
principale di una florida editoria economica per ragazzi, forse non appassionante come quella clandestina
delle dime novels che si trovavano nelle edicole, ma
diffusissima e socialmente accettata, e proprio per questo determinante nel proprio impatto culturale sulla
gioventù americana. Certo è che l’esigenza principale
di questa letteratura è attualizzare, proporre precetti ed
esempi biblici in contesti che i lettori potevano conoscere in prima persona. In una cultura fortemente marcata dal senso di una rinascita in una terra vergine lontana dall’affollamento, dalla corruzione e dai vincoli
delle mature società urbane europee, non bastava richiamarsi al sacro, remoto esempio dei profeti e dei re
d’Israele, alle vicende di un Cristo palestinese tra soldati romani e sacerdoti del Tempio. Ci penserà, più avanti, un’ondata di fiction biblica a rilanciare questo
immaginario esotico e a fondare il gusto peplumkolossal ancora oggi ben radicato nell’immaginario cinematografico; all’epoca della frontiera, l’interesse era
verso il popolo americano qui e ora. Storie di ragazzini
cresciuti in orfanotrofio che raggiungono il successo
con il lavoro, di floridi agricoltori tutti ranch e preghiera, di schiavi neri in grado di affrancarsi con il coraggio e l’onestà, di solide amicizie virili; e, a specchio, di
padri di famiglia distrutti dall’alcool, di giovani che finiscono impiccati per aver ceduto al gioco d’azzardo e
alla rissa, di businessmen disonesti che terminano i loro giorni nel disonore e nella mendicità. Le narrazioni
che ne risultano sono apertamente edificanti e inevitabilmente schematiche, ma non del tutto prevedibili nella psicologia né nei dialoghi e con una capacità propria
e nativa, totalmente diversa da quella della letteratura
46
We have only one story
britannica (a cui devono molto meno di quanto non facesse la letteratura “alta” di un Melville), di rendere le
atmosfere, i paesaggi, le relazioni sociali del nuovo
Paese.
Opera per lo più di autori anonimi od oscuri evidentemente privi dei più smaliziati strumenti della
scrittura critica, ma dotati di un vigore e di una sicurezza stupefacente nel forgiarsi una propria lingua, la
Sunday School literature può legittimamente rivendicare l’appartenenza all’epica collettiva, non meno dei
poemi omerici o delle grandi saghe, che presentano la
sua stessa discontinuità qualitativa e incongruenze
strutturali, senza che nessuno si sogni di giudicarle
scadenti o indegne d’interesse. Tuttavia, pur essendo
epica di un popolo, essa mantiene sempre la caratteristica di una somma di epiche individuali: nessun fato o
volontà dall’alto può scalfire o piegare la determinazione dei tanti self-made men che popolano queste storie. La sua peculiarità sta nel ricodificare la morale
protestante in una forma di self-enarration dove ciascun lettore può avere la sensazione che venga narrata
proprio la sua storia; che l’insegnamento biblico sia diretto a lui, specificamente, come risposta a dubbi e
problemi particolari e non a interrogativi di ordine generale, privi di senso e applicabilità pratica, quando
non indici di una pericolosa propensione al dubbio.
«Then, my children, we must diligently seek in the Bible for
what will so strengthen our faith, and assure our hearts; always praying that we be not forgetful hearers, but doers of
the word. […] We may take up the Bible, to be interested by
its histories, and delighted by the beautiful language in which
they are written, yet seek no real profit from it. […] It is
when we look into the Bible as if it was a letter written to us,
47
Luana Salvarani
and every word of it meant for our instruction, that it becomes a light to our feet, showing us the path to heaven»1.
L’esigenza della costruzione di un’epica soggettiva, tagliata sul proprio destino individuale e nell’ambito di un rapporto diretto con la parola di Dio (tratto
distintivo e radicato della sensibilità protestante), diviene più chiara quando la si mette in relazione con
l’insistenza sulla veridicità storica della Bibbia e sul
fatto che in essa, a differenza che nei libri «pagani» o
comunque non rivelati, non esiste alcuna amplificazione epica o letteraria. La diffidenza verso tutto ciò che
non sia verosimile o «tratto dal vero» è costantemente
coltivata dalla precettistica delle Sunday Schools, e non
trova alcuna contraddizione nel dettato biblico, che diviene invece, nei suoi aspetti magici e miracolistici,
conferma dell’onnipotenza divina (del resto la parola
God è piuttosto rara in questa letteratura, e le è di gran
lunga preferita la locuzione The Almighty). Ma il punto
fondante di tutta l’educazione delle Sunday Schools è
che la lettera della Bibbia è verità. Lo sostiene anche
il commento biblico più diffuso nell’America di fine
Ottocento, il Jameson-Fausset-Brown (1871, ed. americana 1880):
The peculiarity of the Hebrew poetical age is, that is was always historical and true, not mythical, as the early poetical
ages of all other nations. […] Epic poetry, as having its
proper sphere in a mythical heroic age, has no place among
the Hebrews of the Old Testament Scripture age. For in their
earliest ages, viz., the patriarchal, not fable as in Greece,
Rome, Egypt, and all heathen nations, but truth and historic
reality reigned; so much so, that the poetic element, which is
the offspring of the imagination, is less found in those ear1
C. Elizabeth, The Bible The Best Book, New York, American
Tract Society, s.d.
48
We have only one story
lier, than in the later ages. The Pentateuch is almost throughout historic prose. In the subsequent uninspired age, in Tobit
we have some approach to the Epos2.
Il problema posto dai tre commentatori scozzesi
non è né pretestuoso né di poco conto: la più seria filologia biblica continua a confrontarsi con la difficile
sfida di ricostruire/ipotizzare i generi di scrittura, letterari e non letterari, all’interno dei quali si collocavano i
diversi libri del Testo sacro, e che ne determinavano
stile, immagini, precetti, convenzioni, sottintesi, senza
i quali nessun testo, neppure ispirato, può essere compreso. Jamieson, Fausset e Brown si chiedono quali
fossero le caratteristiche dell’antico poema ebraico (situato in una generica, remota «poetical age» di tipo vichiano), per determinare la proporzione tra verità e
immaginazione nella Bibbia e, in questo caso, nel Pentateuco.
La risposta, dal momento che il Commentary era
destinato a un’utenza non accademica, è quella più rassicurante: nell’antico poema ebraico non si raccontavano favole. Non solo: non esisteva neppure la poesia
epica nel senso dei poemi omerici (o del Mahābhārata), e quindi non ci è consentito considerare gli eroi
dell’Antico Testamento come incarnazioni simboliche
di certi ideali delle tribù di Israele, e le loro gesta come
creazioni poetiche atte ad illustrare allegoricamente
certi precetti culturali, sociali o di fede (meccanismo
che, viceversa, non impedisce affatto al Bhagavadgītā
di essere considerato testo sacro dell’induismo, pur
tracciando le imprese di Arjuna, un eroe del Mahābhā2
R. Jamieson, A. R. Fausset, D. Brown, A Commentary: Critical, Practical and Explanatory on the Old and New Testament, with a
Bible Dictionary, Fleming H. Revell Company, NY-Chicago-Toronto,
1880, Introduction.
49
Luana Salvarani
rata, che il lettore è esplicitamente invitato a considerare di natura allegorica).
Nella prospettiva formativa europea, fortemente
determinata dall’eredità (e dal mito) della cultura classica, il meccanismo allegorico è considerato tra i più
efficaci per la trasmissione di valori: la battaglia tra Riforma e Controriforma si combatté, sul suo vero terreno – le città e i mercati, le campagne, le adunanze pubbliche – a suon di allegorie contrapposte, di immagini
e di rappresentazioni. Si fatica, a prima vista, a mettere
a fuoco l’irresistibile fastidio dei Padri Fondatori americani per tutto ciò che sa di traslato, simbolo e metafora. Vi ha certo gran parte l’attitudine distintiva (e
all’occorrenza di protesta) rispetto alla madrepatria britannica, e ha certo contribuito il bisogno di comunicare
con cittadini di etnie e provenienze diverse, sensibili a
immagini differenti e che era possibile far incontrare
solo sul terreno comune della dura, incontrovertibile
realtà dei fatti (ammesso che sia possibile definirla).
Ma la causa forse principale è il bisogno di porre con
forza la Bibbia non tanto come testo sacro ma come
reference book, come guida nella vita di ogni giorno,
come compagno di strada, rafforzando ed estremizzando la ricetta luterana: non più una comunità (preesistente) che si riconosce nella Bibbia riformata, ma una
galassia di individui-atomi gelosissimi della propria libertà ed indipendenza che tuttavia ricorrono allo stesso
Libro come Codice delle leggi, sostegno morale e guida pratica nel momento del bisogno. God is our refuge
and strength, intonava una comune traduzione del corale luterano Ein feste Burg ist unser Gott. «Il nostro
Dio è una fortezza ben salda», cantano i tedeschi; «Dio
è il nostro rifugio, la nostra forza» interpretano, trasportando nell’ambito dell’esperienza personale, gli
americani. E non di rado l’inno diviene God is my re50
We have only one story
fuge, evidenziando la dimensione individuale di quello
che era un momento di appartenenza collettiva.
In questi termini, è evidente che la veridicità del
testo biblico trasmesso era un pilastro psicologico irrinunciabile, e sosteneva una rete sociale che, al di fuori
delle grandi città, per tutto l’Ottocento americano era
ancora autoregolata e priva di istituzioni di riferimento.
Le Sunday Schools si proponevano di trasmettere, oltre
alle competenze fondamentali di lettura e scrittura
d’uso, un sistema di valori che facesse appunto da collante e principio ordinatore di tale galassia sociale, e la
minaccia al testo biblico tradizionalmente trasmesso ne
minava lo strumento pedagogico fondamentale.
Di conseguenza, per quasi tutto l’Ottocento, la
storia educativa delle Schools – e la loro produzione di
testi narrativi – bordeggia senza particolari problemi
quella delle edizioni americane della Bibbia, una storia
ricca, immaginosa, punteggiata da eroiche imprese di
revisione e traduzione integrale che tendono inevitabilmente a sfociare in fallimenti editoriali,3 mentre il
Testo tradizionalmente trasmesso, la King James Version col suo inglese elisabettiano divenuto ormai un
gergo formulare, continuava a trionfare incontrastato.
Non è dubbio che le Schools stesse abbiano contribuito
a rafforzare, con i Golden Texts da imparare a memoria
e la pratica collettiva della riflessione su versetti della
KJV, la presenza di quel testo nella memoria identitaria del popolo americano, esattamente con quella lingua e quel repertorio di immagini e lessico. Del resto è
altamente probabile che la stragrande maggioranza dei
Sunday School Workers dei villaggi e delle piccole città, per non parlare di quelli degli avamposti di frontie3
P. C. Gutjahr, An American Bible. A History of the Good Book
in the United States, 1777-1880, Stanford University Press, 1999.
51
Luana Salvarani
ra, non avesse alcuna consapevolezza del fatto che esistesse la filologia biblica o che le edizioni americane
più diffuse della KJV, copiate e ricopiate e stampate a
migliaia in edizioni a basso costo da tipografie itineranti, fossero considerate del tutto inaffidabili dagli
specialisti.
Il dibattito diviene caldo, e sempre più visibile,
man mano che le Sunday Schools passano da forme
educative pionieristiche a istituzioni urbane, con docenti più preparati e che legittimamente si pongono il
problema se e in quale misura le nozioni apprese nell’istruzione teologica formale debbano filtrare nella didattica di base delle Schools. Ma la trasformazione della società circostante non ha mutato il fondamentale
carattere di «scuola di vita» delle Schools, che devono
instillare sicurezza e indicare punti di riferimento, non
formare all’esercizio del dubbio:
George Adam Smith, when he was once asked at Chautauqua
what place biblical criticism had in the pulpit, replied: «I
want to go into the pulpit with a clean face, but I prefer not
to leave any soapsuds in my hair». The Sunday school is not
the place for a discussion of processes nor for the statement
of negations, nor for the presentation of merely technical scientific results, however well assured. It is a school, not merely or chiefly for the acquirement of technical knowledge, but
for the building of character and the development of holy
impulses to right living [c.n.]4.
Come residui di sapone e di schiuma da barba dimenticati al mattino su un volto pulito e rasato, i metodi della critica testuale paiono allo Smith (da parte sua,
4
C. M. Cobern (St. James Methodist Episcopal Church, Chicago), in The Place of Biblical Criticism in the Sunday School. A Symposium, «The Biblical World», Vol. 19, No. 5 (May, 1902), pp. 333-4.
52
We have only one story
tra i massimi esperti di Antico Testamento del suo
tempo) come uno strumento che sarebbe inutile e fastidioso esibire e mostrare; sono i risultati che contano.
E, forse paradossalmente, i risultati della critica biblica
sono utili nelle Schools proprio per ribadire il carattere
di mero contenuto del Testo, sul quale l’operato della
filologia non può che accentuare il carattere transitorio
e accidentale di immagini, stile e lingua:
The chief use of critical knowledge in the Sunday school is
protective. It preserves the child from the impression that
Christianity is founded on the backbone of Jonah’s whale,
and that the value of the Bible as God’s Book of Salvation
hinges upon the quality of Hebrew spoken by Balaam’s ass,
or upon the absolute inerrancy of the chirography or of the
memory of the Bible writers, or their miraculous knowledge
of universal history or twentieth-century science5.
Già il commento Jamieson-Fausset-Brown proponeva esplicitamente il tema della traducibilità della
Bibbia, proprio sulla base della «indifferenza stilistica»
di un ebraico che, ritenevano in buona fede i nostri
commentatori, era concepito dall’infinita sapienza di
Dio per veicolare il contenuto nella maniera più chiara
e per poter essere agevolmente tradotto in ogni lingua.
The great excellence of the Hebrew principle of versification, viz., parallelism, or «thought rhythm» [Ewald], is that,
while the poetry of every other language, whose versification
depends on the regular recurrences of certain sounds, suffer
considerably by translation, Hebrew poetry, whose rhythm
depends on the parallel correspondence of similar thoughts,
loses almost nothing in being translated – the Holy Spirit
having thus presciently provided for its ultimate translation
into every language, without loss to the sense. […] It accords
with the divine inspiration of Scripture poetry that the
5
Ibidem.
53
Luana Salvarani
thought is more prominent than the form, the kernel than the
shell6.
La pratica educativa delle Schools americane radicò così profondamente questo concetto che, quando nel
1907 la International Sunday School Committee si riunì a Londra per mettere a punto – tentazione perniciosa
e ricorrente d’ogni tempo e paese – una riforma didattica unificante, il punto di rottura, inconciliabile, tra le
due delegazioni fu proprio quello della critica biblica.
Rispetto alle proposte “umanistiche” dei delegati inglesi, gli americani ribadivano la necessità di rimanere
fedeli al testo tràdito, a quella KJV saldamente fissata
nella memoria di tutti: il ricorso, per esempio, alle
nuove conoscenze sugli strati redazionali della Bibbia
avrebbe instillato inutile confusione senza giovare alla
conoscenza dei contenuti, che rimangono saldi, unici e
rivelati dall’inizio dei tempi. Come sintetizzava, qualche anno prima, Willis J. Beecher:
In my judgment, the most profitable study of the Bible, for
most Sunday schools, is that which mainly confines itself to
the contents and the practical bearings of those parts of the
Scriptures which directly illustrate the problems of life and
duty7.
Con questa modalità di accostamento al Testo, tutto ciò che si perde in ricchezza testuale, penetrazione
storica, sottigliezza e significatività della lettura biblica, si guadagna in pregnanza e originalità pedagogica.
Le letture vanno, volta per volta, individualizzate («individualism in teaching is the secret of all true tea6
R. Jamieson, A. R. Fausset, D. Brown, A Commentary, cit., Introduction.
7
W. J. Beecher, in The Place of Biblical Criticism in the Sunday
School. A Symposium, cit., p. 332.
54
We have only one story
ching» ammoniva, con l’assertività che è il talento del
vero educatore, il reverendo Hamill nel classico manuale The Sunday School Teacher). E l’individualizzazione passa anche attraverso l’attualizzazione, lo
sforzo immaginativo di riportare situazioni e temi del
Testo nella realtà locale e sociale, quotidiana e specifica, dei propri allievi:
Begin by thinking over the lesson, putting everything aside
but the open Bible. Take the lesson and read it over and over,
and think your way through it, verse by verse. Think and
pray together for light. Turn the verses about, put them into
the language of your class, strip the lessons of its idioms and
peculiarities, and try to make it conform to your everyday
life. Bring it down to date as far as you can, and make it a
living spiritual message for the present needs of yourself and
scholars8.
Ci troviamo di fronte a un modello di lettura che,
ben lungi dalle impersonali e mnemoniche recitazioni
che ci verrebbe spontaneo associare a un’istruzione religiosa di base, preme l’acceleratore della rielaborazione e reinterpretazione vitale del Testo. Read it over ad
over, and think your way through it: non è forse l’unico modo con cui si può afferrare un testo, conoscerlo
a fondo, viverlo fino a quella digestione che Montaigne indicava come necessaria precondizione di ogni
vera conoscenza? Certo, qui l’esito non è la diffrazione
del reale negli infiniti possibili, bensì la costruzione
del proprio individuale percorso verso una stabile verità. Tuttavia, la trasmissione del precetto (religioso ed
etico) non doveva deprimere l’iniziativa e la creatività
individuale, né la propensione al rischio, tutte doti indispensabili in una nazione in espansione, che andava
8
H. M. Hamill, D.D., The Sunday School Teacher, ChicagoNew York-Toronto, 1911, pp. 31-32.
55
Luana Salvarani
conquistando e piegando un territorio inesplorato. Per
questo il versetto biblico andava voltato e rivoltato, riformulato nel linguaggio della classe che si aveva davanti – con i suoi gerghi, con le sue specifiche etniche
e sociali – ridotto all’essenza con l’eliminazione delle
metafore originarie e delle peculiarità storiche, e adattato alla vita di ogni giorno: bring it down to date as
far as you can. La lezione passa così dalla lettura alla
riscrittura, e la Sunday School diventa il luogo dove si
forgia e si allena un particolare meccanismo mitopoietico, una disciplina creativa. Non sorprende allora che
essa sia in grado di produrre, autonomamente e quasi
al di là del talento individuale degli autori, una propria
letteratura.
I moduli narrativi della Sunday School Literature
sono molteplici: il principio dell’adattamento porta a
stilemi diversi per le diverse comunità di riferimento
(nere, bianche o asiatiche, agrarie od urbane, del Nord
o del Sud), oltre al principio, sobriamente osservato,
della differenziazione per fasce d’età, dai racconti più
brevi per i piccolissimi fino a un genere specifico di
Sunday School Stories per giovani adulti. Tutto un lavoro a parte dovrebbe essere dedicato allo studio del
lessico, caparbiamente mantenuto attorno a un basic
english di facile comprensione eppure increspato dalla
lingua arcaica della Bibbia, dai giri di frase vittoriani
imitati dalla letteratura edificante britannica e dalla
possente infusione di gergalismi, neologismi e slang
tratti dal mondo del lavoro o della strada.
Per dare un quadro d’insieme, i tratti distintivi della Sunday School Literature possono essere riassunti
nel principio della costruzione dimostrativa del plot.
Nient’affatto una banalità, rispetto a una letteratura anglosassone di provenienza che aveva tra i propri stru56
We have only one story
menti principali i capovolgimenti repentini del paradosso e del comico, il doppio taglio dell’ironia, la fuga
nel magico e nel fiabesco, la sorpresa e il wit. Qui bisogna costruire storie in cui, inesorabilmente e con logica adamantina, tutto si tiene; e che tuttavia avvincano e non annoino il lettore, un lettore inesperto e che
deve sottrarre tempo ad altre e più necessarie occupazioni. Per questo racconti e romanzi iniziano quasi
sempre “in situazione”, senza inutili tortuosità o prologhi, fornendo, entro le prime pagine, tutti i dati necessari per inquadrare la vicenda.
JAMES STEVENS'S feet were bare and sore. He had travelled more than twenty miles, and was now just in sight of
the city. He sat down on a large stone on the roadside and
burst into tears9.
In questo splendido incipit, tratto da un breve romanzo anonimo che si propone di illustrare il comportamento ideale per i ragazzini che vogliono tentare la
fortuna in città, veniamo immediatamente rapiti, calamitati dalla solitudine e dalla sofferenza di James Stevens. Non sappiamo se James ha fatto qualcosa di male, se è in fuga o se sta compiendo un’azione virtuosa.
Un romanzo classico, un Balzac o un Tolstoj, manterrebbe la suspense per capitoli e capitoli, partendo ora
con un flashback e risalendo magari alla prima infanzia
del protagonista. Qui il flashback c’è, ma si limita a informarci che James, figlio quattordicenne di una pove-
9
Bosses and their Boys; or, the duties of Masters and Apprentices illustrated and enforced. Philadelphia-New York, American
Sunday-School Union, 1853, p. 5.
57
Luana Salvarani
ra famiglia di villaggio, è partito per sua matura riflessione a cercare miglior sorte in città:
Probably James felt as little of sadness as any of the family.
He knew that he was doing what was right; he thought it was
brave and noble to go out into the world to do for himself
and those he loved, and so he nerved himself up to the work
that was before him, as a good, strong heart will. That was
the day when James Stevens began the world10.
Nessuna inquietudine giovanile o romantica Sehnsucht spinge il giovane verso la città tentacolare; il
protagonista è ben conscio dei motivi della propria impresa, incisi profondamente nel suo strong heart. Così
dichiarata, la nobiltà di tali motivi non lascia dubbi al
lettore, a poche pagine dall’inizio: l’impresa andrà a
finire bene. E per rafforzare l’abitudine del lettore alla
ferrea catena di causa-conseguenza tra azione morale e
beneficio personale, ecco che arriva la dimostrazione,
sotto forma di una casa di campagna dove, a pochi
passi dalla città, James viene accolto e rifocillato spontaneamente con amore. Come allora dubitare che tutte
le tappe successive della storia non volgano alla riuscita finale?
Qui si innesta la sfida più difficile della Sunday
School Literature, catturare l’attenzione ed evitare rozzezza e ripetitività in un tessuto narrativo che ha già
deciso ed esplicitato buoni e cattivi, fortune e cadute,
senza lasciare alcuno spazio alla fertile ambiguità delle
umane cose. Semplificazioni brutali e, non di rado, uno
schematismo psicologico estremo sono il sintomo di
questa difficoltà, che solo scrittori estremamente dotati
e consapevoli sarebbero in grado di evitare. Ma spesso
il meccanismo funziona: a subentrare è la curiosità sul10
58
Ivi, p. 18.
We have only one story
la tenuta etica dei personaggi, sulla capacità del protagonista “buono” di continuare a far fronte al proprio
difficile ruolo di virtuoso, o alla pervicacia, veramente
futurista, del “cattivo” nel resistere ai così evidenti doni di fortuna e di piacere che arridono a chi ha scelto la
strada giusta. Così James farà fortuna in città e si trasformerà in un adulto di successo e rispettato, perché è
riuscito per tutte le oltre cento pagine che seguono alla
sua partenza dal villaggio, a mantenere zelo, interesse,
devozione nel lavoro:
Mr. Stone found in James what he had long been looking for
– «one who would make his employer's interest his own» – a
young man who would labour and watch with the same zeal
and fidelity for the interest of his employer that he would if
the establishment belonged to him. This is the secret of securing the favorable regard of one who «owns the concern».
[…] and though merit is sometimes suffered to lie unobserved in this world, it is generally appreciated; and success
that is not built on merit is not worth having11.
Per i self-made men e i cani sciolti della Frontiera
bastano talento, volontà e spirito di adattamento; ma
per l’aspirante cittadino è necessario fare gli incontri
giusti, dote da non dimenticare nel quadro formativo di
una società urbana in rapida evoluzione. Così il successo di James è come la conclusione di uno stringente
sillogismo, la cui premessa minore è l’incontro con un
businessman rigoroso, generoso e di sani princìpi (tra
cui la disponibilità a concedere un credito in conto capitale):
Mr. Stone was a fair sample of manufacturers and merchants
and capitalists generally. He was willing to do well by those
who were disposed to do well by him. When he saw that a
11
Ivi, p. 138.
59
Luana Salvarani
young man would do no more than just enough to keep his
place and get his wages, working as if he grudged every minute and every blow, Mr. Stone set him down as a lazy and
indifferent fellow, not worthy of his regard. But he saw Stevens and Munson always ready for anything that would promote the efficiency of the business. Early and late, in season
and out of season, they were always ready; and if they had
owned the shop, and were making fortunes out of the business, they could not have more faithfully laboured in it. [...]
He had taken a fancy to these young men, and he advised
them to go into business on their own account. They urged
the want of capital as a fatal objection; but he removed that
difficulty by telling them that he would put them in the way
of beginning a small concern, and they might come to him
for help whenever they were in need. They could not refuse
so favorable an opening, and, taking a building of moderate
dimensions, they set up business for themselves under the
firm of
STEVENS & MUNSON,
COACH AND CARRIAGE MANUFACTURERS12
Da lettori smaliziati della Grande Letteratura è facile sorridere della linearità con cui l’anonimo autore
di Bosses and their Boys dà per scontato che la migliore delle sorti possibili sia fondare, con anni di duro lavoro, una compagnia per la costruzione di mezzi di trasporto, a cui dedicare il resto della propria vita e in cui
impiegare i propri figli (a meno che non siano, a loro
volta, in grado di tentare la grande avventura degli affari). Osservando però con onestà intellettuale questa
letteratura, sorge immediatamente un’osservazione di
segno opposto: quanto è più facile costruire un tessuto
narrativo, quando si è liberi di intrecciare le complessità della psiche umana con i contorti percorsi della For12
60
Ivi, pp. 139-40.
We have only one story
tuna, e mettere in opera le ambiguità della scrittura e i
molteplici suggerimenti del simbolo per descrivere la
ricchezza di un comportamento paradossale, o l’energia nera e travolgente della pulsione verso il male.
Sono capaci non tutti, ma molti, di fare buona letteratura con il bizzarro, il variamente patologico, l’inaspettato e in generale con tutto ciò che è creativo in sé.
Ma fare letteratura con la norma, la regola, il certo e il
prevedibile? Fare narrativa, o fare addirittura poesia rinunciando al figurato della retorica e mantenendosi aderenti alla lettera del testo? Non è impresa da poco, né
intellettualmente povera. Del resto lo esigeva una proposta educativa che mirava, prima di tutto, a forgiare
un’identità nazionale, a rafforzare l’identità americana
comprendendo l’immensa varietà delle tradizioni culturali e valoriali che la costituiva. Si rinunciava a qualche strato e a molte sottigliezze, ma si proponeva a una
vasta popolazione, che rischiava di rimanere tutta la vita piegata acriticamente sul proprio duro lavoro e sulla
propria sorte particolare, una prima mappa per collocarsi socialmente e per autorappresentarsi come soggetti portatori di idee, valori e simboli di riferimento.
Da questo punto di vista la più vasta e complessa esperienza delle scuole pubbliche e private dell’America
del Novecento, e la realtà urbana dell’alfabetizzazione
di massa, deve molto all’esperimento delle Schools,
che ancora oggi – trasformate in istituzioni educative
complementari – catalizzano e ribadiscono i capisaldi
culturali del Paese.
The central questions of American history – Is there such a
thing as an American identity? What kind of society does the
United States have? What are American values? What position does the United States occupy in the world? – are disputed territory for them, as they were not for the predecessors. Of course, the question of national identity is not the
easiest of subjects to deal with, but, since the American Rev-
61
Luana Salvarani
olution, text writers, unlike most historians and novelists,
have always succeeded in painting a fairly simple picture of
America. Even while the country was changing radically in
shape, in population, and even in looks, they had definite answers to the questions about who and what we were. These
answers changed over time, but at any given moment they
were remarkably uniform and remarkably simple13.
Questa compattezza del racconto storiografico,
passata nei libri di storia per la gioventù americana, è
stata resa possibile dal fatto che quella cultura aveva,
pur nella complessità dovuta alla sua origine coloniale,
un Testo di riferimento ben definito e un unico asse di
temi e problemi, attorno a cui orbitavano le questioni
dell’educazione e i miti nazionali, i sogni e gli angoli
oscuri del popolo americano; temi e problemi sentiti
collettivamente come propri, non come gravosa eredità
di un passato storico più o meno remoto. «We have
only one story», scriveva John Steinbeck in East of
Eden, alludendo all’eterno conflitto tra bene e male.
Non è solo il segreto del successo e della tenuta della
letteratura americana, oggi che le letterature europee
segnano il passo, tra intellettualismi salottieri e goffi
tentativi di avvicinamento a un «grande pubblico» ben
in grado di autoformarsi e tuttavia guardato con supercilio dall’establishment intellettuale. È il segreto di una
civiltà che, nonostante i punti di crisi e le inevitabili efferatezze compiute, rinuncia alla tentazione di avvitarsi
nelle domande fino ad autodelegittimarsi, e mantiene
salda la sicurezza di una propria identità.
13
F. FitzGerald, America Revised: History Schoolbooks in the
Tweintieth Century, Boston, Little, Brown & Company, 1979, p. 73.
62
We have only one story
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63
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64
Colonie, imperi e migrazioni.
Un inquadramento postcoloniale dell’Europa
multiculturale
Giuseppe Burgio
Università degli Studi di Palermo
Viale delle Scienze, E. 15 - 90146 Palermo
[email protected]
L’incontro del Noi con l’Altro, il contatto con lo
Straniero ha, in Europa, una genealogia culturale complessa, sotto certi aspetti contraddittoria1. Obiettivo di
queste pagine è tracciare alcune linee di questa storia
attraverso l’analisi di quattro temi – colonialismo, imperialismo, migrazioni, postcolonialismo – che descrivano i modelli storici e quelli attuali della relazione
con gli stranieri.
1. Il colonialismo
Nell’antica Grecia, è noto, lo straniero aveva due
nomi: lo xènos era lo straniero domestico, lo straniero
comunque greco, leggermente diverso dal punto di vista etnico, legislativo, artistico... ma comune dal punto
di vista linguistico, l’Altro con cui si poteva dialogare,
con cui ci si capiva nonostante le differenze. Totalmen1
Sul tema cfr. M. Bettini (a cura di), Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Roma-Bari, Laterza, 2005.
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 65-88.
ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Giuseppe Burgio
te altro era invece il bàrbaros, quello con cui non ci si
poteva intendere perché non parlava il greco, anzi perché non parlava proprio, ma al massimo balbettava il
lògos, la parola-pensiero. Con gli xènoi si facevano anche le guerre, ma si era sostanzialmente tra pari, con i
bàrbaroi la distanza era invece incolmabile2.
Un primo modello che il rapporto tra Greci e barbari ha storicamente preso è quello della colonia. Il
termine greco è apoikìa, letteralmente «l’insediamento
lontano da casa», una sorta di dépendance della residenza principale3, le cui strutture socioeconomiche e
politiche erano di norma analoghe a quelle della metropoli4. Le colonie greche del VIII, VII e VI secolo
prima dell’era volgare5 furono infatti, fin dal principio,
città-stato indipendenti dalla madrepatria6 (anche se da
questa promosse e organizzate7). A tal punto erano indipendenti che, con l’apoikìa, il trasferimento era per
lo più irreversibile e gli apoìkoi potevano addirittura
2
Del tutto simile l’accezione romana tra hostis, straniero con
diritti uguali, e peregrinus, straniero proveniente dal “fuori” del territorio (V. Segreto, La correzione dell’altro. L’impossibilità statuale
dell’incontro interculturale nella polis greca, in A. Palumbo - V. Segreto (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali, Milano-Udine, Mimesis, 2011, p. 196).
3
Uno dei termini usati in inglese per indicare la colonia è dependency, che significa contemporaneamente dipendenza, possedimento e, appunto, dépendance.
4
M. Lombardo, Introduzione, in M. I. Finley, E. Lepore, Le
colonie degli antichi e dei moderni, Roma, Donzelli, 2000, p. XIV.
5
D’ora in poi si userà p.e.v. (prima dell’era volgare, al posto
di avanti Cristo) ed e.v. (era volgare, al posto di dopo Cristo), in un
tentativo di concreta presa di distanza del ricercatore dal proprio posizionamento eurocentrico.
6
M. I. Finley, Le colonie: un tentativo di tipologia, in M. I.
Finley, E. Lepore, Le colonie degli antichi e dei moderni, cit., p. 11.
7
M. Lombardo, Introduzione, cit., p. XIV.
66
Colonie, imperi e migrazioni
essere respinti con le armi se tentavano di rientrare nella città madre8.
L’ideologia sottesa al poderoso processo di colonizzazione ellenica del Mediterraneo era quella espressa dal concetto di èremos chora, terra vuota, territorio
deserto9. I Greci potevano colonizzare altre terre perché erano vuote, prive di abitanti. Evidentemente, queste terre non erano deserte ma abitate da popolazioni
che dovettero essere convinte con le armi a cedere il
loro posto ai Greci. Questi territori erano deserti solo
secondo una concezione greca: perché la terra non era
divisa in lotti di proprietà privata, perché il modo di produzione agricola autoctono era differente da quello conosciuto dai Greci. La sperequazione nella distribuzione dei
redditi agrari nella madrepatria ellenica – rappresentata
come stenochorìa, come scarsità di terra – viene allora risolta con la colonizzazione10. E quest’ultima comincia
proprio con l’isomoirìa, con la divisione in parti uguali
della nuova terra, con una lottizzazione11.
La colonizzazione ellenica origina cioè da un insieme di spinte culturali, religiose, demografiche, politiche ma anche economiche: i colonizzatori ritenevano
di saper utilizzare meglio le risorse presenti in un territorio che – solo dal punto di vista dello sfruttamento
economico – appariva ancora deserto. È un modello
non molto distante da quello della bolla papale Inter
Coetera che, nel 1492 e.v., accorda a Ferdinando e Isabella il dominio di tutte le terre del Nuovo Mondo
8
E. Lepore, I greci in Italia, in M. I. Finley - E. Lepore, Le
colonie degli antichi e dei moderni, cit., p. 32.
9
M. Lombardo, Introduzione, cit., p. X.
10
E. Lepore, I greci in Italia, cit., p. 43.
11
Ibid., p. 73.
67
Giuseppe Burgio
che non fossero già proprietà di un re cristiano12. Le
Americhe erano deserte per gli europei come molti secoli prima lo era il sud d’Italia per i Greci.
Inoltre – tanto nella divisione greca della terra in
parti uguali quanto nell’evitare i conflitti tra i re cristiani – si attua una sorta di giustizia, di equità e di riconoscimento reciproco tra i membri del Noi, tra i colonizzatori che fondano la loro eguaglianza a spese
degli autoctoni che rimangono al di fuori del riconoscimento reciproco tra esseri umani. L’eguaglianza tra
i colonizzatori si fonda sul non riconoscimento della
differenza costituita dagli autoctoni. L’uguaglianza del
Noi poggia sul disconoscimento dell’Alterità.
Il nostro termine colonia è però, come si sa, di origine latina e viene dal verbo colĕre, coltivare. Come
già per i Greci, anche per i Romani la colonizzazione
aveva a che fare con la conquista di terra dove inviare
le proprie genti. Così fu per le colonie della Roma repubblicana. E così, molto dopo, anche per il colonialismo di età moderna: la colonia era un posto dove gli
uomini emigravano e si insediavano13. Basti pensare all’Algeria dove un terzo dell’intero Paese fu espropriato
e concesso a coloni francesi. O alla Rhodesia del Sud
dove 219.500 «bianchi» possedevano 35,7 milioni di
acri a fronte di 44,4 acri riservati ai ben 4.070.000 africani residenti. O ancora al Mozambico dove, addirittura, 97.300 europei possedevano più di 4 milioni di acri
contro i 7 milioni che dovevano dividersi i 6.431.000
africani. Queste cifre, già impressionanti, sottostimano
però l’accaduto, perché non tengono conto della produttività relativa delle terre, dell’accesso alle ferrovie e
12
13
68
M. I. Finley, Le colonie: un tentativo di tipologia, cit., p. 17.
Ibid., p. 8.
Colonie, imperi e migrazioni
di altri fattori che favorivano ulteriormente gli europei14.
Per questi motivi, a Finley la terra – e il suo uso
produttivo – pare elemento fondamentale nella definizione del colonialismo stricto sensu. Nella tipologizzazione che adotta, cioè, la colonizzazione implica sempre l’espropriazione e l’occupazione della terra15. Il
colonialismo nasce come agricolonialismo e si presenta come una forma violenta di territorializzazione, in
realtà di riterritorializzazione, attuata attraverso lo spostamento dei propri emigranti.
Anche se, come si è detto, il legame con l’agricoltura e con l’invio di coloni costituisce per Finley il significato proprio di colonia, questo ultimo termine (tanto nei
documenti amministrativi coloniali, quanto nel linguaggio quotidiano) è stato usato con varie oscillazioni di significato e, verso la fine del XIX secolo, esso ha preso a
indicare genericamente ogni tipo di possedimento16. Per
chiarire occorre allora introdurre un altro termine.
2. L’imperialismo
La seconda configurazione che descrive il rapporto tra il Noi europeo e l’Altro è l’impero. Finley distingue tra il colonialismo e l’imperialismo, modello
nel quale a spostarsi nelle colonie è solo l’esercito e il
ceto dirigente, che si sostituisce a quello preesistente.
A questo secondo modello apparteneva in Grecia la
kleroukìa, nella quale i coloni conservavano la cittadi14
15
16
Ibid., pp. 18-21.
Ibid., pp. 15-6.
Ibid., p. 6.
69
Giuseppe Burgio
nanza della città-madre17. Così come la colonia romana
di epoca imperiale, che prevedeva l’immediata e formale
incorporazione dei territori conquistati nell’organizzazione di Roma18. Pure i regni ellenistici orientali videro solo
lo spostamento di un’élite governante, non una migrazione di contadini19. E così accadde nei possedimenti veneziani a Corfù, a Creta, in Eubea e in varie isole dell’Egeo,
dove l’agricoltura rimase in mani autoctone, o ancora nelle colonie genovesi20.
Rispetto al colonialismo, il modello dell’impero
permette di determinare il carattere dello sfruttamento
economico in maniera molto più efficace21. Si tratta di
una macchina di dominio che, a partire dal XIX secolo,
si diffonde rapidamente, tanto che – nota Said – nel
1914 l’imperialismo europeo controllava circa l’85%
della superficie terrestre sotto varie forme (protettorati,
possedimenti, domini, commonwealth, etc.22). L’India
Britannica è l’esempio più citato di imperialismo, così
come la spartizione europea del continente africano.
Tuttavia, neanche dopo le lotte anticoloniali l’imperialismo è scomparso del tutto: Beck e Grande definiscono la stessa Unione Europea come un odierno impero.
L’Europa non è infatti uno Stato, né una federazione,
né una confederazione. Secondo i due autori, è un impero, dato che «lo Stato tenta di risolvere i problemi
che attengono alla sicurezza e al benessere stabilendo
confini fissi, mentre l’Impero li affronta precisamente
17
Ibid., p. 4.
Ibid., p. 26.
19
Ibid., p. 23.
20
Ibid., pp. 14-5.
21
Ibid., p. 12.
22
E. W. Said, Culture and Imperialism, London, Vintage,
1993, pp. 33-4.
18
70
Colonie, imperi e migrazioni
attraverso la variabilità e la mobilità dei suoi confini, attraverso l’espansione verso l’esterno»23, come facevano
la talassocrazia ateniese24 e l’Impero romano25. E come
accade nella nostra Europa, organismo politico complesso che prevede livelli di integrazione diversi: grazie a una
pluralità di accordi, i confini sono articolati e mobili e
abbiamo, quindi, un’area di piena integrazione, un’area di
cooperazione approfondita, un’area di cooperazione limitata e una di influenza esterna. Basti pensare alla flessibilizzazione dei confini tra Italia e Tunisia, Libia e Albania,
ai controlli nelle acque internazionali, agli accordi con la
Libia per la riammissione dei migranti illegali, agli accordi che la Spagna ha stipulato con Marocco, Mauritania
e Senegal per il controllo dei flussi migranti26. Se a questa
flessibilizzazione “estroversa” accostiamo anche quella
“introversa”, costituita da luoghi extraterritoriali come i
campi di detenzione per migranti27, appare chiaro come i
confini politici dell’Europa disegnino ambiti differenziati
di cittadinanza, influenza politica, sfruttamento economico, dominio militare, che disegnano un sistema imperiale
a geometria variabile28.
Tornando ai modelli storici, la distinzione di Finley tra colonialismo e imperialismo (che ricalca quella
23
Cit. in S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e
politica nel presente globale, Verona, Ombre Corte, 2008, p. 91.
24
D. Lanza - M. Vegetti, L’ideologia della città, in M. Vegetti
(a cura di), Marxismo e società antica, Milano, Feltrinelli, 1977.
25
G. Cosenza, La transizione. Analisi del processo di transizione a una società postindustriale ecocompatibile, Milano, Feltrinelli, 2008.
26
G. de Spuches, La città cosmopolita. Altre narrazioni, Palermo, Palumbo, 2011, pp. 113-4.
27
P. Cuttitta, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione
nel mondo-frontiera, Milano, Mimesis, 2007, p. 59.
28
S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., p. 84.
71
Giuseppe Burgio
utilizzata in letteratura tra «colonie di popolamento» e
«colonie di sfruttamento») va a mio avviso relativizzata. Innanzi tutto, non è sempre agevole distinguerne la
finalità (di popolamento o di sfruttamento). Inoltre, in
storiografia il termine imperialismo indica la fase finale del colonialismo moderno e si riferisce al colonialismo di Stato che, a partire dal XIX secolo e.v., rappresenta un’evoluzione del colonialismo.
Secondo Said, al contrario, l’imperialismo indica in
generale «la pratica, la teoria e le attitudini di un centro
metropolitano dominante che agisce in un territorio distante»29. In quanto tale, è certo distinto dal colonialismo, costituendo un processo più vasto, che ingloba il
colonialismo stesso. All’interno dell’interpretazione
che del colonialismo/imperialismo dà oggi la corrente
degli studi postcoloniali30, utilizzerò il più antico colonialismo come termine-ombrello per indicare, nelle sue
varie espressioni storiche, il generale processo di dominio e sfruttamento economico del territorio dell’Altro. All’interno di questo quadro teorico, molti studiosi
inseriscono però anche le migrazioni31.
3. Le migrazioni
Le migrazioni esistono fin dalla preistoria, ma parlare della contemporaneità «come dell’“età delle migrazioni” è corretto non solo per l’elevata portata degli
29
E. W. Said, Culture and Imperialism, cit., p. 8 (trad. mia).
D. Zoletto, Pedagogia e studi culturali. La formazione tra
critica postcoloniale e flussi culturali transnazionali, Pisa, ETS, 2011.
31
Ibid., p. 84; S. Marchetti, Le ragazze di Asmara. Lavoro
domestico e migrazione postcoloniale, Roma, Ediesse, 2011, pp. 24,
105.
30
72
Colonie, imperi e migrazioni
spostamenti di popolazione, ma anche e soprattutto per
la rilevanza della questione in tutti i paesi, sia in quelli
di partenza che in quelli di arrivo»32. Oggi si percepisce infatti una sorta di “accelerazione” delle migrazioni, soprattutto di quelle internazionali33.
In realtà, dal punto di vista statistico, sul totale
della popolazione mondiale, la percentuale di persone
che oggi migrano si è ridotta sempre più negli ultimi
secoli ma, essendo enormemente cresciuta la popolazione mondiale, il loro numero in termini assoluti è
aumentato. Come nota Rifkin, «fra il 1970 e il 2000 la popolazione migrante internazionale è aumentata da 82 milioni a 175 milioni, più che raddoppiando in trent’anni.
Attualmente, nel mondo una persona su trentacinque è
un migrante internazionale. La maggior parte dei migranti si stabilisce nei paesi più ricchi del mondo sviluppato»34. Un risultato delle trasformazioni economiche e demografiche dell’attuale fase di globalizzazione
appare infatti la polarizzazione Sud → Nord delle migrazioni internazionali, effetto di una concentrazione
dello sviluppo economico nel Nord del mondo e di
quello demografico nei paesi del Sud del mondo35. Va
inoltre segnalato che negli ultimi decenni si è di molto
allargata l’area dei paesi toccati dai movimenti migratori, sia come paesi di partenza sia di destinazione, e
cospicui flussi migratori si sono diretti anche verso i
32
M. I. Macioti - E. Pugliese, L’esperienza migratoria. Immigrati
e rifugiati in Italia, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 3-4.
33
Ibid., p. 4.
34
J. Rifkin, La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi, Mondadori, Milano 2010, p. 400.
35
M. I. Macioti - E. Pugliese, L’esperienza migratoria, cit., p. 12.
73
Giuseppe Burgio
paesi europei con un notevole tasso di disoccupazione,
l’Italia tra questi36.
Le attuali migrazioni internazionali sono effetto
del processo di sviluppo economico globale e delle sue
sperequazioni. Tuttavia, l’ipotesi che individua solo
nelle motivazioni economiche la causa delle migrazioni va ampliata, tenendo conto del fatto che, come nota
Terray, ad esempio «quasi i due terzi della migrazione
africana in Francia vengono dai bacini superiori dei
fiumi Senegal e Niger, ai confini di Senegal, Mauritania, Guinea e Mali. Si tratta certo di una regione povera,
ma non più di altre regioni d’Africa che contribuiscono
poco, o niente, alla migrazione. Allo stesso modo, fino
a una data recente, la grande maggioranza dei migranti
originari della Cina continentale venivano non da una
sola provincia ma addirittura da un solo distretto di
questa provincia, il celebre distretto di Wenzhou. Lungi dall’essere sfavorito, esso figura tra le prime zone
che sono state aperte agli investimenti stranieri dopo la
morte di Mao»37.
Esistono insomma altre cause delle migrazioni oltre a quelle di natura economica. Tra queste va annoverata la contraddizione, in molti paesi del Sud del mondo,
fra aumento della scolarizzazione e scarsità di opportunità occupazionali per una forza lavoro dotata di elevato capitale umano38. Ciò spiega l’esistenza di flussi
di emigrazione anche da paesi interessati da un certo
36
P. Basso, Dalle periferie al centro, ieri e oggi, in P. Basso F. Perocco (a cura di), Immigrazione e trasformazione della società,
Milano, Franco Angeli, 2000, p. 36.
37
E. Terray, Pourquoi partent-ils?, in C. Rodier - E. Terray
(dir.), Immigration: fantasmes er réalités. Pour une alternative à la
fermeture des frontières, Paris, La Découverte, 2008, p. 22 (trad. mia).
38
M. I. Macioti - E. Pugliese, L’esperienza migratoria, cit., p. 8.
74
Colonie, imperi e migrazioni
sviluppo e da elevati livelli di scolarizzazione (e quindi
di aspettative)39. Secondo Appadurai, ulteriori nuove
dimensioni che caratterizzano oggi la migrazione sono
la velocità degli spostamenti e il ruolo che i massmedia svolgono nel diffondere e pubblicizzare gli stili
di vita occidentali40.
Le migrazioni hanno cioè cessato di essere esclusivamente “economiche” e sono diventate un più ampio fenomeno “socio-culturale”41. Esse, infatti, risultano
oggi inscritte oggettivamente nel meccanismo mondiale della globalizzazione neoliberista e soggettivamente
nell’aspirazione all’emancipazione individuale e a vivere in condizioni socioeconomiche che siano all’altezza dei bisogni e delle aspettative che la scolarizzazione, i massmedia e la globalizzazione hanno prodotto. I migranti esprimono insomma un’implicita
critica politica dell’esistente. Ormai centinaia di migliaia di uomini e donne rivendicano concretamente il
diritto di fuga: «rifiutano di sottostare al regime salariale da fame dei loro paesi (in cui le nostre società recintate scaricano le produzioni meno qualificate), rifiutano regimi sociali e politici tirannici (che l’occidente
democratico legittima di fatto con una trama di accordi
sottobanco); rivendicano il diritto al consumo in un
mondo che li vorrebbe relegati al ruolo di produttori, di
macchine umane di infimo ordine»42. Il migrante, cioè,
è anche un soggetto che pratica la propria libertà43.
39
Ibid., p. 9.
A. Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della
globalizzazione, Roma, Meltemi, 2001, p. 18.
41
C. Sirna Terranova, Pedagogia interculturale. Concetti, problemi, proposte, Milano, Guerini e Associati, 1997, p. 178.
42
A. Dal Lago, Giovani, stranieri & criminali, Roma, Manifestolibri, 2001, p. 58.
43
Ibid., pp. 68-9.
40
75
Giuseppe Burgio
Per tutti questi motivi, assistiamo oggi a «una differenziazione delle migrazioni, vale a dire una sempre
più complessa composizione dei flussi dal punto di vista demografico e sociale, dal punto di vista delle motivazioni e delle migrazioni […], e ancora riguardo al
modello migratorio che caratterizza i protagonisti dell’esperienza»44.
A unificare tale poliedricità contribuisce però un
elemento che appare costante in tutte le società europee di destinazione. Il nostro rapporto col fenomeno
migratorio appare infatti improntato a paura, diffidenza
e xenofobia che si esprimono come richiesta di politiche securitarie45. Il migrante costituisce così il simbolo
dell’Alterità da respingere o almeno da controllare, e
acquista centralità sociale la regolamentazione sempre
più stringente dei flussi migratori attraverso le politiche istituzionali dei paesi d’arrivo46. A seguito di questa normazione, si è sviluppata in Europa una forma di
inclusione selettiva e differenziale dei migranti, cui
corrisponde un pluralità di status giuridici. Con il progressivo, laborioso consolidarsi di una cittadinanza europea, sono infatti nate difformità riguardo allo status
di straniero ed esistono persino – come accadeva nell’Impero romano – varie gradazioni di alterità che rendono, ad esempio, i migranti algerini in Francia, anche se di seconda generazione (e quindi nati e sempre
vissuti in Francia), più “stranieri” di un romeno che –
anche se totalmente alieno dalla lingua, dai costumi e
44
M. I. Macioti - E. Pugliese, L’esperienza migratoria, cit., pp. 4-5.
A. Burgio, Senza democrazia. Un’analisi della crisi, Roma,
Derive Approdi, 2009, pp. 228-9.
46
M. I. Macioti - E. Pugliese, L’esperienza migratoria, cit., p. 5.
45
76
Colonie, imperi e migrazioni
dalla storia della Francia – è cittadino comunitario47.
Un romeno d’altro canto non è europeo quanto un
francese, così come c’era differenza tra gli abitanti di
una colonia “latina” e quelli di una colonia “romana”48...
A inquadrare cioè le attuali migrazioni internazionali è una cornice concettuale di gradazione dei diritti,
di inferiorizzazione dell’Altro e, di conseguenza, di
sfruttamento (legale o illegale). Tale cornice di differenziazione della cittadinanza, di controllo e gerarchizzazione socioculturale, di sfruttamento è, sostanzialmente,
quella inventata ieri dal colonialismo e dall’imperialismo
storico, e oggi applicata alla violenza (economica e
non più militare) del neocolonialismo ai danni delle
ex-colonie e, anche, alle migrazioni internazionali. Per
questo, le migrazioni attuali vanno inserite all’interno
dello schema concettuale coloniale e dei rapporti di potere che lo esprimevano.
Tra il colonialismo storico e le attuali migrazioni
internazionali, inoltre, sembra essersi realizzata anche
una continuità costituita dallo sfruttamento economico:
si osservi ad esempio «come nel gruppo dei paesi [oggi
economicamente] dominanti ci siano tutti i paesi “ex”possessori di colonie e che tutti i paesi che hanno potuto
beneficiare delle migrazioni internazionali (nel mondo
primeggiano gli Stati Uniti, paese di immigrazione per
eccellenza, e in Europa la Germania [...]), mentre in quello dei paesi dominati si assembrano le ex-colonie e i paesi storicamente penalizzati dalle migrazioni internazionali
[come, ad esempio, Italia, Grecia, Polonia, Irlanda...], esportatori di braccia e sempre più anche di cervelli, e
47
S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, Bologna, il Mulino, 2005, p. 207.
48
M. I. Finley, Le colonie: un tentativo di tipologia, cit., p. 4.
77
Giuseppe Burgio
importatori di capitali e di scienza e tecnologia»49. La
contrapposizione tra Paese d’origine e Paese di destinazione delle migrazioni internazionali appare cioè sovrapporsi più o meno a quella che esisteva tra metropoli e colonie, segnando il confine tra Paesi economicamente dominanti e quelli dominati.
Questa ipotesi spinge a riconsiderare il termineombrello colonialismo, intendendolo come il processo
di dominio e sfruttamento non solo del territorio dell’Altro ma, direttamente, dell’Altro. Se il colonialismo
prevedeva lo spostamento di europei in territori lontani, per sfruttarne la terra, le ricchezze e le genti, le migrazioni attuali rappresentano il processo inverso: lo
spostamento di giovani popolazioni dai loro territori in
Europa, ma sempre all’interno di una cornice di sfruttamento economico e di inferiorizzazione dell’Altro
che favorisce noi europei. Le migrazioni vanno cioè
inserite all’interno della cornice economica del capitalismo industrialista che ha presieduto al passaggio storico dal colonialismo all’imperialismo e che oggi presiede alle dinamiche migratorie internazionali oltre che
allo sfruttamento neocoloniale.
4. La condizione postcoloniale
Rileggendo criticamente la lunga storia europea di
colonialismo, imperialismo e, oggi, di migrazioni internazionali, possiamo dire che essa appare intenzionata da un fil rouge costituito da un’intima strutturazione
colonialista, che ci riguarda tutti direttamente.
Possiamo infatti sicuramente dire che il colonialismo è un’invenzione del vecchio continente e che solo
49
78
P. Basso, Dalle periferie al centro, ieri e oggi, cit., p. 31.
Colonie, imperi e migrazioni
dopo l’occupazione statunitense delle Filippine smette
di essere un fenomeno europeo (pur mantenendo un
carattere “occidentale”)50. Inoltre, lo sfruttamento delle
altre genti (nel loro o nel nostro territorio) e della loro
terra, delle loro ricchezze, della loro forza-lavoro, delle
loro conoscenze, etc., non è solo qualcosa che abbiamo
fatto (e che ancora facciamo) ma qualcosa che siamo
stati. Il colonialismo costituisce la nostra storia e, quindi,
anche la nostra «identità», ciò che ancora siamo.
Dal momento che l’immagine del Noi e della nostra civiltà, fin dall’Antichità ma soprattutto dal XVI
secolo in poi, ha preso forma entro un movimento di
costante comparazione con le immagini dei bàrbaroi,
dei “selvaggi” che abbiamo sottomesso, queste genti
non si limitano a marcare il limite esterno dell’Europa,
il confine del Noi. Secondo Mezzadra, gli “altri” sono
piuttosto fin dal principio implicati nel lavorìo teorico
e pratico che ha prodotto l’Europa, nonché i concetti
attraverso cui essa ha trovato (e trova) articolazione identitaria51. Callari Galli addirittura fissa una data di
nascita simbolica di questo nostro rapporto con l’alterità: «nel momento in cui l’Occidente, con la scoperta
del continente americano, ebbe la consapevolezza dell’esistenza di mondi totalmente “altri” rispetto al proprio
cammino culturale, si ritrasse da ogni rapporto con le
differenze, cercando di scacciare da sé quelle con le
quali per secoli aveva, sia pure con mille contraddizioni, avuto relazioni profonde e molteplici scambi: il
1492 così diviene l’anno in cui si respinge ogni rapporto non solo con il variegato mosaico culturale del continente americano ma in cui si espellono dalla penisola
50
51
S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., p. 47.
Ibid., p. 75.
79
Giuseppe Burgio
iberica i musulmani e gli ebrei»52. A partire da questa
data, cifra dell’identità europea diventa progressivamente il dominio sull’Altro e, contemporaneamente, il
suo disconoscimento attraverso la cancellazione del ricordo dei prestiti e degli scambi attraverso cui il Noi si
era costituito.
Le radici simboliche dell’Europa affondano poi
nel colonialismo anche per un altro motivo: le colonie
hanno funzionato come laboratorio di sperimentazione.
Elementi costitutivi della recente storia europea si mostrano infatti come l’applicazione alla popolazione continentale di dispositivi precedentemente inventati, testati e
validati in ambito coloniale. Se i campi di concentramento nazisti costituiscono uno snodo storico, simbolico e culturale di cui non possiamo non tenere conto53,
bisogna però ricordare che fu durante la guerra boera
che i britannici crearono i primi campi di concentramento della storia54 e che il primo genocidio del ‘900
fu compiuto dalla Germania guglielmina in Namibia,
ai danni del popolo herero55. E secondo Simone Weil,
in fondo «la natura dell’hitlerismo consiste proprio
nell’applicazione, da parte della Germania, dei metodi
della conquista e della dominazione coloniali al continen-
52
M. Callari Galli, Trasversalità culturale e processi educativi: osservando il Mediterraneo, in D. Demetrio (a cura di), Nel tempo
della pluralità. Educazione interculturale in discussione e ricerca,
Scandicci (Fi), La Nuova Italia, 1997, pp. 87-8.
53
Cfr. R. Mantegazza, Pedagogia della resistenza. Tracce utopiche, Troina (EN), Città Aperta, 2003.
54
Per il colonialismo italiano e le sue colpe cfr. S. Bellassai,
L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia
contemporanea, Roma, Carocci, 2011, p. 40.
55
Ibid., pp. 30-1.
80
Colonie, imperi e migrazioni
te europeo»56. Il ’900 ha cioè “semplicemente” segnato la
mostruosa applicazione sulla pelle degli europei di dispositivi di controllo, disconoscimento e annientamento che erano stati sperimentati in ambito coloniale. E
tali dispositivi – in parte – appaiono ancora oggi in azione. Basti solo pensare che – prima di venire in mente ai politici nostrani come mezzo per censire i Rom –
l’uso a fini di controllo delle impronte digitali ha origine nel Bengala coloniale57.
Al di là dei conti che non abbiamo mai fatto con il
colonialismo moderno, l’attuale aspetto dell’Europa è
cioè postcoloniale perché siamo (inevitabilmente o inconsapevolmente) segnati culturalmente da questa storia: è l’esperienza coloniale, il confronto con l’alterità
del colonizzato (che sia ex-, neo- o post-) ad aver costituito e a costituire il senso di un’appartenenza europea.
La nostra è una realtà in cui, contemporaneamente, l’esperienza coloniale appare consegnata al passato e,
proprio per le modalità con cui il suo superamento si è
realizzato (o meglio, non si è realizzato), si installa occultamente al centro dell’esperienza sociale contemporanea58. Le colonie sono lo specchio attraverso cui si riflette un senso dell’identità europea e, per questo
motivo, tutti noi viviamo una condizione postcoloniale.
Il post- non si riferisce quindi a un superamento, a un
dopo rispetto a un’archiviazione, a un cambio di orientamento prassico, piuttosto a un’età che appare segnata, marchiata da un’esperienza coloniale mai conclusa.
Possiamo cioè dire che la nostra condizione postcoloniale è costituita da relazioni (economiche, politiche,
56
S. Weil, Sul colonialismo. Verso un incontro tra Occidente e
Oriente, Milano, Medusa, 2003, p. 36.
57
S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., p. 27.
58
Ibid., p. 25.
81
Giuseppe Burgio
sociali, sessuali, simboliche…) di dominio/subordinazione che affondano le radici nella storia del colonialismo e dell’imperialismo europeo e che, nell’attuale epoca di neocolonialismo globalizzato, continuano a essere ancora attive59 e costantemente riprodotte
all’interno del vecchio continente attraverso le politiche migratorie.
La dinamica coloniale che prima contrapponeva i
cittadini-colonizzatori-autoctoni della madrepatria agli
stranieri colonizzati che stavano fuori dei confini (e
che si è riprodotta all’interno del vecchio continente
durante la tragedia nazifascista, sulla falsariga del confine tra la razza pura e quelle impure) continua a fornire purtroppo il senso alla segregazione dello Straniero
che oggi si trovi dentro i nostri confini. Il lager nazista,
il C.I.E. (Centro di Identificazione ed Espulsione degli
immigrati irregolari) e il “campo nomadi” per i rom
costituiscono esempi di una extraterritorialità, di una
sospensione della democrazia, di una normale eccezionalità che si pone in continuità con l’esperienza coloniale60.
La condizione postcoloniale si (ri)costituisce così
ogni giorno, rafforzata dall’esempio che l’Impero Europeo fornisce come spazio differenziale e neocoloniale, tanto all’esterno (con il controllo proiettato su Paesi
come il Marocco o l’Ucraina), quanto all’interno (con i
centri di detenzione amministrativa per migranti), sia
con i “campi nomadi” per i rom (in realtà campi di reclusione per gente che, in stragrande maggioranza,
59
B. Moore-Gilbert, Postcolonial Theory. Contexts, Practices,
Politics, London-New York, Verso, 1997, p. 12.
60
S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., pp. 84-6.
82
Colonie, imperi e migrazioni
nomade non è affatto61), sia attraverso le dinamiche
con cui si è realizzato il processo di allargamento dell’U.E., che hanno posto le basi per un colonialismo interno, per lo sfruttamento degli europei dell’Est62. Già
da tempo, infatti, la differenziazione della popolazione, la
frammentazione sociale e la precarizzazione dei diritti (elementi storicamente caratterizzanti la politica coloniale) si è applicata a quote sempre crescenti di popolazione, autoctona o immigrata in Europa. Ciò è stato
possibile perché il dispositivo coloniale stesso si è trasformato: il dominio si dispiega oggi tanto all’interno
dei paesi ex colonizzati quanto nelle ex potenze imperialiste. È lo sfruttamento di élites ormai transnazionali
su genti inferiorizzate e marginalizzate. Proprio questa
nuova dimensione del dispositivo coloniale ci permette
di interpretare le migrazioni internazionali e il contatto
interculturale all’interno di una cornice postcoloniale.
L’Europa multiculturale
L’Europa Unita ha adottato come sua piattaforma
ideologica il multiculturalismo, concezione che convive però con le concrete politiche migratorie della Fortezza Europa, basate sulla chiusura, l’internamento, il
controllo, la marginalizzazione63. La mia tesi è che la
mancata problematizzazione del nostro passato colonialista ha portato a interpretare il multiculturalismo
come giustapposizione di culture ipostatizzate, in una
61
Cfr. M. Mannoia, Zingari, che strano popolo! Storia e problemi di una minoranza esclusa, Roma, XL, 2007.
62
S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit., p. 100.
63
A. Sciurba, Campi di Forza. Percorsi confinati di migranti
in Europa, Verona, ombre corte, 2009.
83
Giuseppe Burgio
maniera fintamente neutrale che occulta le relazioni di
dominio che esistono tra e dentro le “culture”. In questo modo, col multiculturalismo si è riprodotto (e moltiplicato) all’interno dell’Europa quel dominio sull’Altro che si annida già nelle viscere del culturalismo,
quella concezione che interpreta i processi di cambiamento, acculturazione, evoluzione – che seguono ai
contatti tra i popoli – in termini puramente «culturali»,
senza tenere conto delle forze economico-politiche all’opera64. Anche la nostra concezione di cultura va allora riletta attraverso una prospettiva postcoloniale.
Non solo infatti la cultura e la colonizzazione sono
spesso state alleate in passato (si pensi solo ad antropologi e geografi) ma, come colonia, anche il termine
cultura ha origine nel verbo latino colĕre. L’etimologia
suggerisce cioè che il colonialismo si annidi nel senso
stesso della nostra concezione della cultura.
L’origine del termine cultura contrappone infatti
immediatamente l’ordine del giardino coltivato al disordine della silva, il dentro al fuori. Cicerone per primo usa nelle Tusculanae l’espressione cultura animi o,
come suo sinonimo, humanitas: coltivare il proprio animo corrispondeva per lui al diventare pienamente
umani. Non deve stupire, quindi, il rapporto che il
mondo antico manteneva con l’alterità, con i bàrbaroi:
se la cultura è rappresentata dalla raffinatezza intellettuale – dal coltivarsi – è possibile ritenerne privo un altro popolo, che sarà quindi incolto e incivile. In questo
quadro, le differenze tra i popoli non sono qualitative e
incommensurabili, ma misurabili in quanto variazioni
quantitative, gradazioni di maggiore o minore umanità.
Il concetto di cultura contiene cioè il modello (per altri
64
V. Lanternari, Antropologia e imperialismo, Torino, Einaudi, 1974, p. 371.
84
Colonie, imperi e migrazioni
versi teoricamente utile e progressista) dell’antropopoiesi.
Secondo Remotti, mentre le altre specie animali
sarebbero caratterizzate da una loro intrinseca completezza, l’uomo sarebbe segnato da un’incompletezza di
fondo: «alla determinatezza degli altri esseri si oppone
la relativa indeterminatezza dell’essere umano»65. Per
completarsi, l’essere umano ha bisogno di un processo
di socializzazione, di educazione, insomma di vera e
propria antropizzazione che si costituisce come «passaggio da una forma di umanità vicina all’animalità a
una forma di umanità che se ne distacca per dare luogo
a una socialità tipicamente umana»66. Comparato agli
animali, l’uomo differisce cioè perché “si addomestica” grazie all’educazione67. L’essere umano che (come
i bàrbaroi) non affronti questo passaggio rimane semplicemente ciò che era in partenza: animale. Abbandonato alla sua incompletezza e alla sua indeterminatezza
di base, un umano non arriva a essere tale pienamente.
A segnare infatti la differenza tra gli uomini greci e i
non-greci non-uomini era la paidèia, termine che significa tanto cultura quanto educazione. Chiaramente, la
concezione della cultura come differenziale tra i popoli
appare necessaria al dispositivo coloniale tanto che, ricorda Weil, non per caso il colonialismo moderno ha
significato anche la privazione del loro passato e delle
loro tradizioni per i popoli conquistati, resi così senza
65
F. Remotti, Sull’incompletezza, in Affergan, F. et alii, Figure dell’umano. Le rappresentazioni dell’antropologia, Roma, Meltemi, 2005, p. 31.
66
Ibid., p. 20.
67
C. Calame, Modalità rituali di fabbricazione dell’uomo:
l’iniziazione tribale, in Affergan, F. et alii, Figure dell’umano, cit., p.
199.
85
Giuseppe Burgio
radici, ridotti allo stato di semplice “materia umana”,
privi di “cultura”68.
Il rimando etimologico al verbo colĕre spinge inoltre a riflettere sul legame semantico che il termine
cultura ha con la coltivazione di piante in vista del loro
miglioramento, del loro benessere, della loro “resa” in
termini di produttività delle loro potenzialità: questo
campo metaforico lega ancora una volta la cultura al
concetto di educazione, che nell’antica Grecia nasce
come ortopedìa, come volontà di raddrizzare una pianta che abbisogna di sostegno69. Successivamente, nella
storia europea anche la Bildung ha trovato nella crescita biologica il primo riferimento educativo per lo sviluppo dell’individuo-persona70. All’interno di questo
paradigma agricolo, l’educazione si è così tradizionalmente costituita come il processo attivo di coltivazione
di cui la cultura è il risultato ipostatizzato.
Il concetto dell’antropopoiesi che ha informato di
sé la concezione europea tanto della cultura quanto
dell’educazione esprime insomma una gradazione di
perfezionamento dell’umanità, pensata su una scala valoriale unica. Avere consapevolezza di queste valenze
simboliche appare di grande importanza perché il temine cultura, e le sue interpretazioni differenzialiste, si
collocano oggi al centro di ogni discorso sulla definizione del Noi71. Ancora oggi infatti la “cultura” come
68
S. Weil, Sul colonialismo, cit., pp. 37-9.
Cfr. V. Andò, La relazione pedagogica nella Grecia classica tra
violenza e cura, in «Studi sulla formazione», XI (2008), n. 1, pp. 73-86.
70
F. Cambi, La formazione nel disincanto. Quale neo-Bildung?,
in «Paideutika. Quaderni di formazione e cultura», nuova serie, V
(2009), n. 9, pp. 91-102.
71
R. Borghi - M. Camuffo, Differencity: postcolonialismo e
costruzione delle identità urbane, in P. Barbieri (a cura di), È successo
69
86
Colonie, imperi e migrazioni
gradazione di perfezionamento educativo contribuisce
all’esclusione dell’Altro, come risulta evidente se pensiamo, ad esempio, che le credenziali educative dei
migranti stentano ancora molto a trovare riconoscimento e valorizzazione, e che «secondo l’Istat, oltre la
metà degli occupati stranieri possiede il diploma o la
laurea (54,1% contro il 62,3% degli autoctoni), ma circa i tre quarti svolgono una professione operaia o non
qualificata (73,4% a fronte del 32,9% degli italiani)»72.
Il nesso cultura-educazione è a pieno titolo parte di un
dispositivo di differenziazione (post)coloniale.
La storia genealogica del nostro concetto di cultura – e, per tramite della paidèia greca, di educazione –
rende insomma difficile per noi europei pensare allo
Straniero fuori da quella cornice di inferiorizzazione
dell’Altro, di gerarchizzazione delle varie forme di
umanità, di disimpegno etico e di attitudine allo sfruttamento disumanizzante che abbiamo descritto come
coloniale. È allora quanto mai necessario, contro la retorica culturalista e multiculturalista delle istituzioni
europee, esplicitare il vincolo genealogico che ci spinge implicitamente a pensare il contatto interculturale
nelle forme del dominio/sfruttamento/disconoscimento
dell’Altro.
qualcosa alla città. Manuale di antropologia urbana, Roma, Donzelli,
2010, p. 138.
72
M. Ambrosini, Richiesti e respinti. L’immigrazione in Italia.
Come e perché, Milano, il Saggiatore, 2010, p. 65.
87
Giuseppe Burgio
Riferimenti bibliografici
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Roma, Donzelli, 2000.
Lanternari, V., Antropologia e imperialismo, Torino, Einaudi, 1974.
Palumbo, A., - V., Segreto (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali, Milano-Udine, Mimesis, 2011.
Said, E.W., Culture and Imperialism, London, Vintage, 1993.
88
Roger Garaudy: mon tour du siècle
Francesco Mattei
Dipartimento di Scienze dell’Educazione
Via dei Mille, 23 - 00185 Roma
Università Roma Tre - [email protected]
1. Mon tour du siècle en solitaire1
Il 13 giugno di quest’anno, a Chennevières-surMarne, si è spento Roger Garaudy. Era nato a Marsiglia il 17 luglio 1913. Scrittore, filosofo, politico, esponente di spicco, per lunghi decenni, del mondo politicofilosofico francese, per altri lunghi decenni era scivolato
nell’oblio, ma era tornato sulle prime pagine grazie alle
polemiche sorte attorno alle sue ultime posizioni radicalmente negazioniste e molto critiche verso la politica di Israele. E così, lo scenario politico-culturale internazionale, che lo aveva visto protagonista dalla grande visibilità,
lo riscopriva, inaspettatamente, come elemento di spicco
di posizioni esecrabili e quasi unanimemente esecrate.
Era questa l’ultima svolta2, una delle tante, della sua
lunga biografia politica e intellettuale. Delle svolte e delle
conversioni egli era in effetti frequentatore assiduo, e mai
1
R. Garaudy, Mon tour du siècle en solitaire: mémoires, Paris,
R. Laffont, 1989 (trad. it., Fiesole, Cultura della pace, 1991). È
l’autobiografia intellettuale di Garaudy.
2
Cfr. R. Garaudy, La grande svolta del socialismo, Milano, Feltrinelli, 1970 (ed. or., Paris, Gallimard, 1969). Non era questa la prima
“svolta”. Altre ne aveva operate: filosofiche, religiose, politiche.
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 89-108.
ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Francesco Mattei
era stato prudente nell’uso manifesto ed esibito di conversioni e rotture spesso brusche e radicali.
È stato detto, e credo a ragione, che Garaudy ha
sempre ricercato un suo Dio e una sua fede. E ciò che
egli tenne desto, nel lungo peregrinare per partiti, fedi
e religioni, fu una sostanziale fedeltà all’uomo e ad una
idea di Dio non nemico dell’uomo e della Terra3. Un
Dio dai molti volti e un uomo in continuo movimento
di trascendenza, ma in direzione di un assoluto che già
egli scorgeva essere in sé. Anche lui, insomma, aveva
fatto del Deus manet in nobis (I Gv, 4,12) – espressione
antica nel pensiero filosofico della dizione dell’immanenza – un suo punto fermo. E quel convincimento si
era configurato in lui, che proveniva dalla più pura e
dura tradizione marxista, come una sostanziale adesione
all’esigenza di trascendenza presente (per alcuni) nell’uomo e nella storia. Un’esigenza, a suo parere, di marcata
ascendenza religiosa: protestante e cattolica insieme.
Come dire, ci troviamo ancora una volta, con Garaudy,
nel lungo e conflittuale capitolo ermeneutico di immanenza e trascendenza. Ma ciò non va letto, credo, come
una novità nella narrazione dei trascendentismi e degli
immanentismi.
A questa tradizione di polemica alta, spesso raffinata
e spesso aspra, che ha scritto pagine significative e laceranti nella storia del pensiero filosofico, egli ha però
offerto un suo apporto specifico. Ha fatto dei tre monoteismi un sincretismo prima diacronico, poi sincronico.
Ma esula, e molto, questo suo sincretismo, dalle posizioni
tradizionali che hanno attraversato il XX secolo. E il volto del Dio biblico gli è apparso spesso, nonostante gli
3
Ho sottolineato questo aspetto del suo umanesimo in anni lontani: cfr. F. Mattei, Roger Garaudy: in nome dell’uomo, in «I problemi della pedagogia», XXVII (1981), n. 1-2, ora in F. Mattei, Scienza
Religione Filosofia, Roma, Anicia, 2002, pp. 117-132.
90
Roger Garaudy: mon tour du siècle
appelli alla pace e alla comprensione, “sfigurato” dalla
politica aggressiva del popolo e del governo di Israele.
Queste le ultime posizioni. Posizioni azzardate, credo, almeno nella sovrapposizione eccessiva che egli opera fra mondo religioso-culturale e mondo politico. Ed è
sovrapposizione che mai egli aveva spinto così in avanti,
nemmeno quando si riconosceva nel marxismo ortodosso
o in quello critico. Ma, forse, è un altro dei segni evidenti
dell’inquietudine e dell’insoddisfazione che hanno accompagnato la sua lunga e mai pacificata esistenza.
Nato in una famiglia atea, egli fu dapprima giovane
protestante, convinto e affascinato da Schopenhauer e
da Barth, nei circoli di Strasburgo4; poi fu neofita marxista (1933), intellettuale, militante e politico di primo
piano, fino a diventare deputato, senatore e infine segretario – poi espulso – del Partito comunista francese
(1970). In seguito fu cristiano preso dal dialogo e nel
dialogo marxismo-cristianesimo sorto attorno al fervore teologico-culturale inaugurato dalla Pacem in terris
(1962) e dal concilio Vaticano II (1962-65), un dialogo
che aveva visto tra i suoi protagonisti teologi e filosofi
cristiani come Metz, Moltmann, Cottier, K. Rahner,
Carré, Chenu, Gonzalez Ruiz, Girardi, Balducci5.
Partecipò a quel dialogo con passione vera. Ne
maturò un’adesione convinta al cristianesimo, ma pari
convinzione egli mise, presto, nell’adesione all’Islam
(1982), fino ad assumere il nome di Ragaa e a formalizzare un’altra sua esplicita conversione. Una conversione che prese dapprima la forma di un’accettazione
convinta, poi quella di una critica radicale ad ogni in4
Fu presidente, in gioventù, della Unione universitaria degli
studenti ugonotti.
5
Cfr. R. Garaudy, Dall’anatema al dialogo, Brescia, Queriniana, 1969, pp. 23-114 (ed. or., Paris, 1965), con risposta di J. Metz.
91
Francesco Mattei
tegrismo e integralismo religioso e politico (compreso
quello islamico)6.
Fu proprio in questo clima di dialettica politico-religiosa – lui sempre attento alle ragioni antioccidentali e
filoarabe – che maturò la sua avversione sfrenata nei
confronti della politica israeliana e la sua esplicita professione negazionista7. E si trovò così, di nuovo, in
contrasto con i suoi appelli alla pace e alla tolleranza
(presenti anche nella tradizione islamica)8, al centro del
dibattito internazionale, creando sconcerto e confusione
tra coloro che avevano seguito con simpatia o critica non
preconcetta la sua parabola politico-filosofica. La sua figura di intellettuale, che aveva attraversato con originalità la seconda metà del XIX secolo, uscì da quella
vicenda fortemente sfigurata e ridimensionata. E a poco valse, data l’indifendibile radicalità, la difesa appassionata dell’antico amico, l’abbé Pierre: la sua condanna,
da parte della magistratura francese (1998), non potè
suscitare, in definitiva, dibattiti significativi in nome
della sempre invocata libertà di pensiero.
6
Per le vicende concernenti il fenomeno Islam, culminato nel
2002 con l’assegnazione a Garaudy del Premio Gheddafi per i diritti
umani, cfr. R. Garaudy, Promesses de l’islam, Paris, Seuil, 1981; Id.,
Pour un islam du XX siècle, Paris, Tougui, 1985; Id., La Palestine,
terre des messages divins, Albatros, 1986; Id., Où allons-nous? Paris,
Ed. Messidor, 1990; Id., L’Islam en Occident. Cordoue capitale de
l’esprit, Paris, L’Harmattan, 2000; Id., Intégrismes Paris, Belfond,
1990; Id., L’Islam et l’intégrisme, Le Temps des cerises, Pantin, 1996.
7
R. Garaudy, Les mythes fondateurs de la politique israélienne,
Paris, la Vieille Taupe, 1995 (trad. it., Genova, Graphos, 1999). I tre
capp. del saggio (I miti teologici; I miti del ventesimo secolo; L’utilizzazione politica del mito) non fugano il sospetto di un’opera militante,
storicamente debole, molto segnata da un antisionismo ormai in lui
conclamato e poco solido dal punto di vista storico.
8
A questo scopo, dopo la sua conversione all’Islam, istituì una
Fondazione Garaudy a Cordova, nella Torre di Calahorra, proprio per
ricordare lo splendore di un tempo islamico non più aggressivo.
92
Roger Garaudy: mon tour du siècle
Questi i veloci passaggi del quasi secolo di vita di
Garaudy. Passaggi non scontati. Che provocano nell’osservatore un senso di disorientamento. Il che dovrebbe consigliare, credo, una cautela di giudizio e un
bilancio critico non troppo segmentato: pur dovendo
sfidare, e con qualche forzato pudore, la stringente e inesorabile dialettica hegeliana «della radice e del frutto».
Mi sembra insomma che sia poco generoso, e poco intellettualmente onesto, costringere una vita così lunga e
così proteiforme nella camicia di forza di una esecrabile
sconfitta di un’ideologia-filosofia (marxista) di cui Garaudy sarebbe stato, insieme, profeta e alfiere dal superamento “nefasto”. E dico ciò perché i ricordi che di lui
sono stati tracciati, sulle pagine culturali della stampa
nazionale e internazionale, sono stati improntati, in genere, a smaccata sottovalutazione o a derisione e insignificanza: tanto della sua pagina hegelo-marxista quanto di
quella dialogica marxismo-cristianesimo9. Perciò mi sembra giusto restituire Garaudy ad una dimensione culturale e ad una evoluzione (o involuzione) filosofico-politica che non si arresti alle cadute acerbe e sconcertanti di una lunga e fragile vecchiezza oscurata da sentimenti radicalmente antisionisti.
Non mi sembra il caso, perciò, di cedere il passo a
spiegazioni dalle venature psicoanalitiche aventi come
sfondo ermeneutico le dinamiche tipiche del fenomeno
religioso: anche se Garaudy, dopo il giovanile fervore
protestante, ha abbracciato il marxismo (1933) o l’islamismo con una adesione degna di fedi e di speranze
assolute. E anche se di quel marxismo integro e tetragono
egli ha condiviso la fedeltà totale alla “causa”: causa
9
Cfr., ad es., M. Flores, Garaudy, l’ideologia che acceca, in «Il
Corriere della sera», 16.06.2012; L. Rolandi, L’involuzione tragica di Roger Garaudy, in «La Stampa», 15.06.2012; L. Cédelle, Roger Garaudy,
figure du négationnisme, est mort, in «Le Monde», 15.06.2012.
93
Francesco Mattei
filosofico-politica e causa storico-sociale. Basta leggere,
in proposito, due tra i suoi primi scritti: Le communisme et
la morale o La théorie matérialiste de la connaissance10.
Una summa perfetta, questi primi lavori, di ciò che egli
avrebbe poi radicalmente rinnegato. Ma lì seguiva, il
giovane convertito e militante di partito, la vulgata del
canone marxista allora imperante. Si può così scorgere,
in quelle pagine, una tale difesa (concettualmente armata) della teoria gnoseologica del “rispecchiamento”
oggetto-soggetto che avrebbe fatto poi rabbrividire il
Garaudy maturo. Un Garaudy che inclinerà sempre più,
una volta allentati i legami con il corpo politico e dottrinale del partito, verso quello che si è soliti chiamare soggettivismo, idealismo, trascendenza, libertà: l’atto spirituale e poietico, insomma, dell’individuo (occidentale).
Alludo a queste posizioni iniziali perché ciò può
spiegare, in parte, alcune delle sue inaudite contraddizioni. Egli polemizzò infatti, e duramente, con Sartre e con
Ricoeur. Polemizzò con Mounier e con il personalismo
comunitario. Polemizzò, pur fra qualche distinguo, con
ogni declinazione possibile dell’esistenzialismo. Giacché
vedeva nel marxismo, e soprattutto in quello di stampo
stalinista sovietico, una guida sicura e una risposta efficace ai molti problemi sociali e storici della Francia e della
classe operaia. Ma presto vennero la disillusione, come
10
Le communisme et la morale, Paris, Éd. Sociales, 1945; La
théorie matérialiste de la connaissance, Paris, PUF, 1953. Questo studio, che è la rielaborazione della sua tesi dottorale discussa con Bachelard alla Sorbona (La théorie de la connaissance d’Helvétius), è
un’espressione tipica dello stigma positivistico che affliggeva allora il
marxismo ortodosso, una costruzione ben confezionata sulla teoria
oggettiva e oggettivistica del “riflesso”. Perciò Garaudy ne vieterà la
ristampa. Ma più interessante, dal punto di vista pedagogico, è la confessione che gli farà Bachelard qualche anno dopo: «Je n’étais pas du
tout d’accord avec votre thèse, mais je voulais vous aider et non vous
influencer» (R. Garaudy, Mon tour du siècle…, cit., p. 142). E giustamente chiosa Garaudy: «Grande leçon…!» (ibidem).
94
Roger Garaudy: mon tour du siècle
egli ricorda, e lo sconforto della destalinizzazione, a seguito della relazione di Khruščёv al XX Congresso del
PCUS. E si aprì per lui un’altra stagione. Dal marxismo
dogmatico passò, o dovette passare, ad un marxismo “critico-attivistico” erede della tradizione tedesca e segnatamente dell’atto fichtiano. E di questa fase sono testimonianza gli studi su Fichte, Hegel e Lenin e un periodo di
rinnovata riflessione filosofica più attenta alla tradizione
culturale dell’Occidente e alla sua curvatura politica interprete di una soggettività non deterministica11.
2. Il legame Fichte-Hegel e l’interpretazione del marxismo
Da qui il nuovo riposizionamento di Garaudy. D'ora
in poi egli penserà al marxismo come ad una radicale
posizione etica e ad uno strumento metodologico per
realizzarne concretamente le indicazioni. Queste le caratteristiche principali della sua posizione. Aggiungo
che il primo elemento, quello storico-critico, è senza
dubbio teoreticamente prioritario, e che il confronto dialettico con l'esistenzialismo, la tematizzazione della libertà, dell'umanesimo marxista e della soggettività, in lui così preminenti, ne discenderanno come luoghi obbligati di
riflessione teorica vincolante per la prassi politica.
Tale lavoro di reinterpretazione non può avvenire
senza uno studio accurato delle fonti classiche del marxismo. E a ciò egli si applica, dopo il risveglio dal cosiddetto sonno dogmatico. D’altronde, in ciò l’aveva preceduto
Engels, secondo il quale, senza la filosofia classica dei
11
Per quanto concerne Fichte, cfr. R. Garaudy, La méthode antithétique de Fichte, in Dieu est mort, Paris, P.U.F., 1962, pp. 140-141; Id.,
L’héritage fichtéen et l’hérésie de Prométhée, in Karl Marx, Paris, Seghers, 1965, pp. 39-55; Id., Per una discussione sul fondamento della
morale, in AA.VV., Morale e società, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 9-30.
95
Francesco Mattei
grandi idealisti tedeschi il socialismo non sarebbe mai
sorto12. Ma il fatto interessante, in questa reinterpretazione, è che egli mette fra gli antenati del marxismo
anche Fichte, solitamente ospite non gradito nella galleria dei padri fondatori. E questi gli serve proprio per
ripensare il contributo che egli ha offerto all'elaborazione del metodo dialettico e al superamento che ne ha
fatto Hegel. Così un perentorio Garaudy: occorre finirla «con il dogmatismo, sottolineando che il marxismo
non è una filosofia pre-critica, che non è possibile pensare da marxista pensando come se Kant e Fichte non
fossero mai esistiti. Non bisogna quindi ridurre l’eredità della filosofia classica tedesca, nel marxismo, a
Hegel e a Feuerbach e occorre rivalutare l'eredità di
Kant e di Fichte, rimettendola a reggersi sui piedi, ossia
dimostrando che una concezione materialista dialettica
della pratica ci permette di sviluppare una filosofia critica
senza cadere nell’illusione idealistica che la nostra attività generi la realtà sulla quale si esercita»13.
Dell’eredità fichtiana egli rivendica tre apporti: la
teoria della libertà, la teoria della soggettività, la teoria
della pratica. Un’eredità preziosa, dunque, anche se
molto re-interpretata. Giacché tramite Fichte, nonostante
le molte controversie con Sartre, egli tenta di portare
nel marxismo la forte corrente vitale che opera nell’esistenzialismo. E Fichte doveva essere, di necessità,
l’autore galeotto. Dice infatti Garaudy: «In una parola,
troviamo in Fichte tutti i temi chiave della filosofia esistenzialista, ma all'interno di una filosofia razionalista»14. E ancora: «Ho insistito su Fichte perché possiamo forse, marxisti ed esistenzialisti, trovare in lui il
12
Cfr. Id., Pour un modèle français du socialisme, Paris, Gallimard, 1968, p. 105.
13
Id., Per una discussione sul fondamento della morale, cit., pp. 9-10.
14
Ibid., p. 17.
96
Roger Garaudy: mon tour du siècle
nostro comune antenato. Ci può aiutare ad afferrare le
due estremità della catena, anche a costo di esserne dilaniati. È sul terreno della filosofia di Fichte che il nostro dialogo sulla morale può essere più fecondo: se i
marxisti riapprendono a integrare la teoria della soggettività del pensiero esistenziale di Fichte e se gli esistenzialisti attuali non mutilano l'esistenzialismo fichtiano di due dimensioni fondamentali: la dimensione
razionale e quella sociale»15.
Come a dire: nel nome di Fichte si può operare
una reinterpretazione del legame morale-società e ricostruire un diverso legame sociale (un aspetto non proprio
secondario nella costruzione teorica del marxismo). O,
almeno, in quello che si è soliti chiamare marxismo
umanistico, che ha visto Garaudy (insieme a Schaff o a
Gramsci) tra i suoi più arditi corifei e Althusser tra i
più accaniti detrattori. Perciò Fichte è padre nobile.
Perché la sua concezione dell’«io come atto» può essere lo strumento prezioso per una diversa interpretazione del marxismo. E tramite lui si può dare un addio
non nostalgico al marxismo dogmatico-positivistico,
perché l’io è attività. Dice Garaudy: «La soggettività è
prima di tutto l'affermazione dell'impossibilità, per la coscienza, di adeguarsi a se stessa. Se la coscienza può, a
volte, adeguarsi all’essere, renderselo trasparente, essa
non può adeguarsi al suo atto, per mezzo del quale necessariamente essa si trascende e si crea. La soggettività non è dunque nell'ordine dell'essere, ma nell'ordine
dell'atto»16. E dall’atto alla trascendenza il passo è
davvero breve. Basta che il legame pensiero-essere non
si limiti, per stabilire la verità, ad un rispecchiamento
mente-realtà, ma che tale verità si trovi nella realizzazione-trasformazione di un progetto critico sul reale. E
15
16
Ibidem.
Ibid., p.15.
97
Francesco Mattei
una tale soggettività, non legata esclusivamente al rapporto pensiero-essere, può trovare un posto degno «in
un razionalismo critico come quello di Kant, Fichte,
Marx, qualora non ci si accontenti di scoprire l'idea
marxista immanente all'essere e di ridurvela, ma ci si
serva dell'idea per trasformare l'esistenza»17.
Il salto di Garaudy credo sia ormai tutto qui consumato. Il primo Garaudy, quello cui sopra accennavo,
è davvero lontano. E si stenta a credere che, nel clima
culturale che allora si respirava, Garaudy potesse pensare che questo marxismo “idealistico” potesse trovare
tranquillamente dimora nel contesto politico-filosofico.
I fatti lo dimostreranno: la sua espulsione dal partito,
legata alla sua critica aspra dopo i fatti di Praga, non sarà che la presa d’atto di un legame già sciolto. Il deviazionismo di destra, di cui sarà accusato, non sarà che la
traduzione canonico-partitica di una scissione già avvenuta nella elaborazione teorica di un mutato Garaudy.
Così infatti un Garaudy ora fichtiano: «Il marxismo
è una filosofia dell'atto, ossia una filosofia che fa della
coscienza e della pratica umana che la genera e l'arricchisce senza posa una realtà vera, radicata nell'attività anteriore e nel reale, che li riflette, ma superando costantemente il dato e aggiungendo senza posa alla realtà
con un atto creatore, che non è dato dalla natura e per il
quale nulla garantisce il successo in anticipo»18. Non
resta allora che allinearsi ai padri fondatori. E Garaudy lo
fa legando Fichte a Marx, soprattutto al Marx dei Manoscritti e dell’Ideologia tedesca, il cosiddetto giovane
Marx e il Marx teorico dell’alienazione19. Quanto al
17
Ibidem.
Ibid., p. 17 (c.m.).
19
Per le diverse interpretazioni del concetto di «alienazione» in
cui si muove Garaudy e parte dell’hegelo-marxismo, cfr. Id., Prospettive
dell’uomo, Torino, Borla, 1972, p. 406 e sgg.
18
98
Roger Garaudy: mon tour du siècle
Marx maturo, quello dei Grundrisse e de Il Capitale,
che accentuerà radicalmente il tema della struttura, sarà sotto il segno di Althusser e della sua scuola. E dunque, pochi saranno i motivi plausibili di una riconciliazione Garaudy-Althusser. La loro conflittualità teorica
e personale non troverà più quiete. Il clima sarà sempre
conflittuale. E, nella polemica, le due posizioni si radicalizzeranno: Garaudy si attesterà su movenze “fichtiane”; Althusser approderà ad uno strutturalismo tanto rigido da riconoscerne poi lui stesso i limiti in Elementi
di autocritica20, e parlandone come di una «deviazione
teoreticistica».
Ad un’altra interpretazione voglio ancora accennare. Garaudy non esita a prendere in prestito da Fichte
anche la concezione della prassi. E ne scorge un superamento nel marxismo storico-materialistico. Giacché l’io,
per non rimanere chiuso nel dover essere, necessita di
una realtà (storica) da modificare e da superare. Perciò
la ragion pratica fichtiana, a suo parere, supera quella
kantiana: non più conflitto tra il dovere della coscienza
e il “limite” della natura, ma «attività creatrice dell'uomo». «La ragione è teorica – egli scrive – allorché si dà
una rappresentazione delle cose; è pratica quando sottomette le cose ai suoi concetti, quando le forma o le
crea secondo la propria legge. C'è dunque in germe, in
Fichte, sotto forma astratta, l’idea dell'unità della teoria
e della pratica e l'idea della libertà come necessità cosciente»21. E conclude: «In definitiva, la pratica, in Fichte, nonostante il suo vocabolario kantiano e il suo
idealismo, è l'impegno dell'uomo, di tutto l'uomo, nello
20
L. Althusser, Elementi di autocritica, Milano, Feltrinelli, 1976.
Per una ricostruzione di questa lunga polemica rinvio a F. Mattei,
«Problematicità del fondamento etico in A. Schaff», in Id., Scienza
Religione Filosofia, cit., pp. 89-115.
21
Ibid., p. 50.
99
Francesco Mattei
sforzo collettivo per fare la storia, per trasformare la
natura e costruire la società»22.
Cos’altro chiedere a Fichte? La sua annessione in
partibus fidelium è ormai compiuta. E compiuta credo
sia anche la trasformazione di un Garaudy totalmente
umanistico. Come pure, quella del suo marxismo. A Garaudy, Fichte lascia in eredità un profondo attaccamento
al soggetto e una radicale esigenza morale che tempererà
oltre misura l'aspetto scientifico. E a Fichte egli si richiamerà, quando difenderà la totalità del soggetto contro i riduzionismi del razionalismo cartesiano, del positivismo e dello strutturalismo althusseriano23.
Altro passaggio obbligato del recupero teorico-storiografico del patrimonio classico concerne Hegel, l’annoso problema-Hegel. Ma con ciò siamo alla tradizione.
Il saggio su Hegel, Dieu est mort, è del 1962. Ed è
inutile ricordare che Garaudy è giunto tardi, e per motivi comprensibili, al dibattito sull'hegelismo, giacché i
fermenti innovativi legati all’interpretazione su Hegel
si svolgevano su altre sponde, ed erano perciò guardati
con sospetto dall'ufficialità cui Garaudy apparteneva.
La vitalità e la validità dell’hegelismo si è innestata,
come noto, sulla riscoperta della Fenomenologia. Il celebre saggio di J. Wahl sull'infelicità della coscienza
nella filosofia di Hegel (1929)24 e gli studi sul giovane
Hegel hanno offerto potenza interrogante e strumentazione categoriale alla sensibilità esistenzialista. E la
riflessione sull'esistenza ha rinnovato l'antica rivalità
dialettica (ed etico-politica) tra storia e individuo. In
22
Ibid., p. 51.
Cfr. R. Garaudy, Parola di uomo, Assisi, Cittadella, 1975, p.
97 e sgg. (ed. or., Paris, Laffont, 1975).
24
J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, Milano,
ILI, 1971.
23
100
Roger Garaudy: mon tour du siècle
pari tempo, l'empirismo logico e l'interesse per le dimensioni logico-filosofiche della scienza hanno visto
rinascere, accanto alle proprie pretese riduzionistiche dell'oggetto formale della filosofia, spazi di riflessione che
erano appartenuti alla ricerca filosofica tradizionale.
Accanto agli studi di logica ed epistemologia, gli
anni Trenta avevano infatti visto nascere quel complesso fenomeno, genericamente denominato “esistenzialismo”, che conoscerà più tardi fortune non trascurabili.
E così, esigenze kierkegaardiane troveranno radici in
pagine hegeliane. E perciò si parlerà di hegelismo esistenzialista. È in questo clima che si affronterà, in seno
al marxismo, il complesso dibattito del rapporto HegelMarx. In Francia vi partecipano Lefebvre, Kojève, Hyppolite. Nel confronto aspro fra dialettica e struttura, Hegel sarà il “libro” dei dialettici e costituirà un passaggio
obbligato: nel rifiuto o nell'accettazione. Sempre, comunque, le influenze hegeliane saranno filtrate attraverso
connotazioni kierkegaardiane. E ambedue saranno chiamati a contestare Marx. Kojève, Wahl, Hyppolite saranno i rappresentanti principali di tale corrente. Del resto,
Posizione analoga assumeranno i collaboratori della rivista “Critique”, che vedranno nel marxismo uno degli
esiti dell'hegelismo e ridurranno il discorso di Marx allo sforzo di realizzazione pratica della libertà. Qui sarà
privilegiata l'attività creatrice e libera dell'uomo, dalla
quale deriveranno le situazioni, le condizioni e le cose, e
saranno poste in ombra le condizioni oggettive entro le
quali si opera il processo di oggettivazione, alienazione
e disalienazione. Sarà il prevalere della coscienza sulla
struttura.
Le due figure principali dell'hegelismo francese
sono, come noto, Hyppolite e Lefebvre. Per Hyppolite
il distacco di Marx da Hegel è essenzialmente filosofico: deriva da un’interpretazione critica, spesso infedele,
101
Francesco Mattei
dei temi del maestro. La tesi di un Marx filosofico si
lega a quella di un Marx umanista. Al centro delle sue
preoccupazioni risiede la realizzazione di un’idea dell’uomo, di un’essenza umana di cui Hegel non è stato
in grado di garantire la realizzazione pratica. In questo
senso, si può dire che, per Marx, il proletariato è «lo
strumento grazie al quale l’umanità, l’uomo generico
di Feuerbach, potrà superare ogni alienazione, divenendo padrone del proprio destino»25. Ed è, questa, una
tendenza dell'hegelismo, quella che lo riduce ad una filosofia della storia e a radicale umanismo. Indaga sui
temi della coscienza infelice e della negatività dell'esistenza e rilegge la Fenomenologia.
L'altra tendenza ha invece come meta il sapere assoluto, che costituisce una filosofia interna dell'universale
immanenza. Riconduce quella stessa negatività al cammino dell'Essere, al movimento dell'Assoluto. E per
questa via polemizza con le varie interpretazioni del
reale che, riducendo l’Essere a prodotto dell'uomo, cadono in un soggettivismo radicale e mutilano la realtà
dei suoi termini essenziali. Testo cardine di questa interpretazione è la Logica hegeliana.
La conciliazione delle due posizioni costituisce il
problema centrale della filosofia moderna. Hyppolite
lo assume con particolare chiarezza. «Come si può conciliare la filosofia hegeliana della storia (che è una filosofia della storia umana) col sapere assoluto della logica?»26. Come può l’autocoscienza inserirsi nella corrente della storia senza interromperla? «La caratteristica
dell’autocoscienza consisterebbe nella sua capacità di
strappare l’uomo dalla vita istintiva, immediata, e di e25
J. Hyppolite, L’aliénation hégelienne et la critique, in Atti del
Congresso internazionale di filosofia promosso dall’Istituto di Studi
filosofici. Roma 15-20 novembre 1946, Milano, Castellani, p. 53.
26
Id., Études sur Marx et Hegel, Paris, Marcel Rivière, 1955, p. 203.
102
Roger Garaudy: mon tour du siècle
levarlo al di sopra delle strutture statiche dell’essere»27.
Il soggetto «contiene in sé la storia umana futura, e non si
riduce alla mera storicità di un qualsiasi esistente»28.
Da una parte, dunque, si fa largo la tendenza a ridurre la trascendenza a immanenza, con il pericolo per
«l’uomo di perdersi ogni volta che si riduce a se stesso». Dall'altra, la concezione del continuo superamento
e dell'uomo come essere per sé che continuamente si
oppone e si adegua all'essere in sé, con la conseguente
perdita della libertà. Il contrasto storia-pensiero assoluto,
passaggio da Fenomenologia a Logica, è dunque sintesi difficile e ambigua, e tale ambiguità sarà causa delle
diverse interpretazioni. Nemmeno Marx, secondo Hyppolite, è riuscito a superare tale difficoltà: ponendosi al
centro della storia reale, quella dell'uomo, e dando una
dimensione storica all’umanesimo di Feuerbach, egli è
caduto nello storicismo assoluto e ha trasformato l'uomo
in un fenomeno della natura. Marx non indaga, come
Hegel, sulle condizioni dell’autocoscienza, benché questa
sia l'esistenza stessa dell'uomo. A parere di Hyppolite, solo una coscienza soprastorica può fondare la storia.
Non sarà inutile, allora, evidenziare come Garaudy
finisca con lo scorgere una identità di posizione tra il
“suo” Fichte e “questo” Hyppolite. Nelle due prospettive si enfatizza infatti la soggettività e la razionalità.
Ma in Fichte essa era idealista e metafisica, in Hyppolite
si colora di esistenzialismo dagli esiti mistici. Sostiene
del resto Garaudy che chi non incorpora nel divenire
storico, come secondo termine, gli elementi razionali
derivanti dalle strutture umane, sociali e naturali, rimane vittima di una soggettività esasperata che si esprime
come tensione assoluta tra il singolo e l'universale, tra
27
28
Ibid., p. 33.
Ibid., p. 40.
103
Francesco Mattei
l'individuo e la storia. Non rimarrebbe, come alternativa, che l'invocazione alla trascendenza.
Tanto basta, credo, per lumeggiare la posizione di
Garaudy in questa fase del suo pensiero. L'apporto hegeliano al marxismo sembra identificarsi in lui con i motivi
più profondi dell’esistenzialismo. E l’esistenzialismo,
come già rilevato, gli appare insufficiente, quanto a
posizione autonoma, per la difesa dell’individuo. Esso
è intravisto come tensione esasperata del soggetto che
non riesce a trovare in sé consistenza teorica. Per questo esso deve imboccare, logicamente, o la strada della
trascendenza (e si risolve in filosofia cristiana), o quella dell'avvenire e della storia umana (e si risolve nella
dialettica razionale marxista). Le riserve di Sartre da
qui deriveranno. E da qui deriveranno le critiche di Garaudy a Sartre. Come pure, le sue posizioni si differenzieranno da quelle di Kojève o di Lefebvre.
In definitiva, mi sembra che Dieu est mort, nonostante qualche positiva recezione, sia stato fondamentalmente un’occasione mancata: Garaudy non ha saputo
cogliere per tempo la ricchezza provocatoria degli esponenti dell’hegelismo e dell'hegelo-marxismo. Presto un
futuro per lui aspro l’obbligherà a trarre conseguenze
secche. Per ora, a questo studio su Hegel fa seguire uno
studio su Marx (1965) e uno su Lenin (1968)29.
Il lavoro su Lenin si compone di due parti: un saggio introduttivo alla sua filosofia, in cui Garaudy esamina le posizioni di Lenin nelle tre fasi canoniche (dal
1894 al 1905, dal 1905 al 1914, dal 1914 al 1923), e
una seconda sezione dedicata agli estratti delle opere.
La prima costituisce una discussione di Garaudy sulle
tesi principali di Lenin, la seconda una selezione quasi
29
R. Garaudy, Karl Marx, Paris, Seghers, 1965 (trad. it., Milano, 1974); Id., Lénine, Paris, P.U.F., 1968 (trad. it., Roma, 1970).
104
Roger Garaudy: mon tour du siècle
garaudiana di brani di (suo) evidente interesse. Basterà
citare i titoli dati ai passi per comprenderne il criterio di
lettura: Sociologia di Lenin, Sul ruolo della coscienza,
Materialismo e dialettica, L'iniziativa storica, Lenin e la
dialettica hegeliana, Lenin contro il dogmatismo, Il testamento di Lenin. Come a dire: Lenin secundum Garaudy. Il che non suona travisamento del pensiero leninista, ma lettura eccessivamente mirata. Al punto tale
da non evidenziare le diverse “vocazioni” della teoresi
di Lenin e da non scorgervi contraddizioni interne e
germi di future filiazioni non proprio armoniche con la
lettura del marxismo esecrato da Garaudy. Ma del testo, se si dovesse coglierne l’aspetto più interessante, è
proprio la lettura che Lenin fa della Logica hegeliana.
E Garaudy giustamente valorizza le annotazioni di Lenin apposte sulla sua copia della Logica30.
Siamo così, però, alle ultime distrazioni storiografiche. Perché stavano salendo nella società venti di rivolta e di radicale contestazione. Il ’68 bussava alle
porte. I carri armati sovietici stavano entrando a Praga. E
Garaudy vivrà il ’68 con una duplice preoccupazione:
capire le motivazioni profonde del disagio studentesco
e manifestare pubblica esecrazione nei confronti dell'URSS per i fatti di Praga, come testimonia in Prague
1968... La liberté en sursis. Sono i prodromi della ma-
30
A Lenin interessava superare l’estrinsecità del meccanicismo
empirista e la dualità della gnoseologia kantiana. «La cosa in sé di
Kant è una vuota astrazione, Hegel esige invece astrazioni che corrispondono alla cosa: “il concetto oggettivo delle cose costituisce la loro natura stessa”; esige che – per dirla materialmente – esse corrispondano al reale approfondimento della nostra conoscenza del
mondo» (Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 80).
«...1) in Kant la conoscenza separa (esclude) natura e uomo; in realtà
essa li congiunge; 2) in Kant, la “vuota astrazione” della cosa-in-sé,
invece del processo vivente, del movimento della nostra conoscenza
che va sempre più nel profondo delle cose» (Ibidem).
105
Francesco Mattei
tura svolta politica, culminante in Le grand tournant
du socialisme e in Toute la vérité31.
3. L’addio al marxismo
Dirà Garaudy nel 1986, ricevendo a Ryad il premio Faysal: «Je suis venu à l’Islam avec la Bible sous
un bras, et le Capital de Marx sous l’autre. Je suis décidé à n’abandonner aucun des deux»32. Ma erano passati sedici anni dalla sua espulsione dal PCF. Si erano
consumati i rapporti con il partito e con il vincente strutturalismo althusseriano, e si era aperta per lui una fase
politico-culturale connotata da tematiche legate ad una
più generale dimensione umana e ai fermenti che andavano maturando. Le parole che connotano questo passaggio, allora, così suonano: pace, questione femminile,
speranza, amore, dialogo delle civiltà, dimensione umana. Il tutto, secondo lui, alla luce di un islamismo
meno incrostato e asfittico dell’Occidente, ormai preda
di un piccolo razionalismo asfissiante e di una tecnica
tesa alla produzione e allo sfruttamento esasperato di
risorse e persone. Un vero, deserto Abendland!
Ma come era avvenuta questa svolta? Sotto il segno di una ennesima interpretazione dei testi marxiani
e delle sue personali (allora perdenti) ermeneutiche, giacché egli avvertiva lo scivolamento inesorabile dell’eredità fichtiano-hegeliana del marxismo verso una razionalità positivistica: «Marx – egli scrive – è uno dei
giganti del pensiero occidentale, proprio in quello che
esso ha di più occidentale. Ed è stata la sua concezione
31
Id., Prague 1968... La liberté en sursis, Paris, Fayard, 1968;
Le grand tournant du socialisme, Paris, Gallimard, 1969; Toute la vérité, Paris, Grasset, 1970.
32
R. Garaudy, Mon tour du siècle…, cit., p. 337.
106
Roger Garaudy: mon tour du siècle
del razionalismo a facilitare, nei discepoli, una deviazione e una falsificazione del marxismo. Karl Marx dà alla parola “scienza” il senso di un sapere fondato, alla
stessa maniera in cui Hegel intende la “scienza della
logica” o Fichte la “dottrina della scienza”. I suoi discepoli hanno interpretato le sue idee in maniera molto
positivistica»33.
Poco altro resta da aggiungere. Mi limito perciò a ricordare, insieme alla svolta islamista, le sue pubblicazioni più significative e meno politicamente orientate. E mi
sembra di poter dire che il marxismo appaia in esse ormai (silenziosamente) “superato” (Reconquête de l'espoir, L'Alternative, Danser sa vie, Parole d'homme, Le
projet espérance, Pour un dialogue des civilisations,
Comment l'homme devint humain, Appel aux vivants,
Pour l'avènement de la femme). Nuclei interessanti, mi
pare. Che aprono strade non banali alla riflessione sull’educazione34. Perciò in altri tempi mi ci sono cimentato.
E a quei tempi dunque rinvio35. Confessando apertamente che allora, quando vidi Garaudy incamminarsi
per sentieri a me poco simpatetici, smisi di seguire i
suoi tortuosi percorsi ed espressi giudizi severi su quelle posizioni filosofiche. Ma forse Garaudy vedeva con
qualche anno di anticipo, prima di me e di molti altri,
l’orizzonte politico-religioso e filosofico-economico che
andava mutando. Una mutazione in cui siamo ancora
vorticosamente immersi. E nel suo sfondo politico-culturale e in quello educativo.
Che egli appartenga, allora, ai nietzschiani Genossen?
33
R. Garaudy, Per un dialogo delle civiltà, Assisi, Cittadella,
1977, p. 183.
34
Cfr. F. Mattei, Prospettiva culturale e istanza educativa in R.
Garaudy, in G. Sforza (a cura di), Vitam impendere pulchro, Roma,
Anicia, 2007, pp. 51-95.
35
Cfr. F. Mattei, Ragione e antiragione in R. Garaudy. Educazione alla prospettiva, Roma, Bulzoni, 1987.
107
Francesco Mattei
Riferimenti bibliografici
Scritti di Roger Garaudy
Grammaire de la liberté, Paris, Éditions Sociales, 1950.
La théorie matérialiste de la connaissance, Paris, P.U.F., 1953.
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Du surréalisme au monde réel: l'itinéraire d'Aragon, Paris, Gallimard, 1961.
Dieu est mort, Paris, P.U.F., 1962.
De l'anathème au dialogue, Paris, Plon, 19653 (trad. it., Brescia,
1969, pp. 23-114).
Karl Marx, Paris, Seghers, 1965 (trad. it., Milano, 1974).
Marxisme du XXe siècle, Paris, La Palatine, 1966.
Lénine, Paris, P.U.F., 1968 (trad. it., Roma, 1970).
Pour un modèle français du socialisme, Paris, Gallimard, 1968.
La liberté en surcis: Prague 1968, Paris, Fayard, 1968.
Peut-on être communiste aujourd'hui?, Paris, Grasset, 1968.
Perspectives de l'homme, Paris, P.U.F., 19694 (trad. it., Torino, 1972).
Le grand tournant du socialisme, Paris, Gallimard, 1969 (trad. it.,
Milano, 1970).
Pour vous qui est Jésus Christ?, Paris, Éd. du Cerf, 1970).
Toute la vérité, Paris, Grasset, 1971 (trad. it., Milano 1970).
Reconquête de l'espoir, Paris, Grasset, 1971 (trad. it., Torino, 1971).
L'Alternative, Paris, Laffont, 1972 (trad. it., Assisi, 1972).
Danser sa vie, Paris, Seuil, 1973 (trad. it., Assisi, 1973).
Parole d'homme, Paris, Laffont, 1975 (trad. it., Assisi, 1975).
Le projet espérance, Paris, Laffont, 1976 (trad. it., Assisi, 1976).
Pour un dialogue des civilisations, Paris, Éditions de Noël, 1977
(trad. it., Assisi, 1977).
Appel aux vivants, Paris, Seuil, 1979.
Pour l'avènement de la femme, Paris, Albin Michel, 1981.
Biographie du XXe siècle: le testament philosophique de Roger
Garaudy, Paris, Tougui, 1985.
Mon tour du siècle en solitaire: mémoires, Paris, R. Laffont, 1989
(trad. it., Fiesole, 1991).
Les mythes fondateurs de la politique israélienne, Paris, la Vieille
Taupe, 1995 (trad. it., Genova, 1999).
Sartre, J.P., R., Garaudy, J., Hyppolite, Marxisme et existentialisme. Controverse sur la dialectique, Paris, Plon, 1962.
108
La dispersione inapparente*
Benedetto Vertecchi
Dipartimento di Progettazione educativa e didattica
Via Madonna dei Monti 40 - 00184 Roma
Università Roma Tre
[email protected]
Il prevalere nel dibattito educativo, e più ancora nella riflessione scientifica, di elementi che riflettono, o quanto meno
si riferiscono in modo prevalente, alle aree favorite del mondo,
e in misura del tutto soverchiante a quella anglofona, impedisce
di cogliere aspetti specifici che distinguono l’evoluzione dei sistemi educativi nei diversi paesi. L’egemonia culturale, che
talvolta trova giustificazioni nella priorità temporale che ha distinto il presentarsi di questo o quel fenomeno, si manifesta
come ideologia, perché impone il medesimo schema interpretativo e valoriale nella considerazione di situazioni spazialmente
distanti, sincrone solo se si accetta una nozione del tempo che
prescinda dalla storia.
Un esempio della parzialità di molte interpretazioni (potremmo anche chiamarle pregiudizi, nel significato originale
della parola, ossia giudizi espressi prima) dei fenomeni educa*
Nell’articolo ho ripreso gli argomenti esposti in una relazione
tenuta il 25 settembre 2012 a Città del Messico, nell’ambito dell’incontro promosso dalla Secretaría de Educación Pública su Perspectivas y Tratamiento de la Permanencia Escolar en el Bachillerato: la
Experiencia de Europa. Si è trattato di una relazione che ha tenuto
conto delle caratteristiche del pubblico, costituito, oltre che da messicani, da dirigenti e amministratori scolastici di altri paesi latinoamericani. Ciò spiega il tono un po’ didascalico di alcuni passaggi,
utili oltre l’Atlantico, ma abbastanza scontati al di qua.
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 109-120.
ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Benedetto Vertecchi
tivi è offerto dai significati che assume il termine dispersione.
È un termine che designa aspetti di grande rilievo nell’evoluzione dei sistemi educativi contemporanei, tali da suscitare
allarme circa l’adeguatezza delle politiche per l’educazione a
corrispondere alle esigenze che si manifestano nella società.
All’allarme si associa generalmente un alone negativo, riducendo tuttavia l’analisi della dispersione alla costatazione della
perdita di popolazione che si riscontra all’interno dei percorsi
scolastici. È importante osservare che l’alone negativo dà luogo a una sineddoche interpretativa, che limita il significato di
dispersione alle sole accezioni sgradite. Se si rinunciasse alla
sineddoche, e si considerasse, senza ipocrisie, l’intera estensione del fenomeno, giungeremmo a conclusioni diverse, e cioè
che non è infrequente che certe manifestazioni siano consapevolmente perseguite, come modi per liberare la scuola da quanti non possiedono le caratteristiche necessarie per conformarsi
ai livelli di qualità attesi negli apprendimenti: in questo secondo caso si preferisce parlare di scelta, di orientamento (è come
dire di selezione positiva), di merito (se si segue un approccio
moralistico) o di attitudine (se si preferisce dare l’impressione del
riscontro obiettivo dei tratti degli allievi). È evidente che il ribaltamento, da negativo a positivo, della polarità del significato segue
lo spostamento della linea causale dal piano sociale, comprensivo
della pluralità dei fattori umani e delle condizioni materiali nelle
quali si pratica l’educazione, a quello che fa ricadere la responsabilità degli insuccessi educativi soprattutto su chi li subisce
(e non si tratta solo degli allievi, ma anche delle famiglie e degli insegnanti).
Nel seguito di queste riflessioni la dispersione sarà considerata entro un quadro di sistema, alterabile intervenendo su
una qualunque delle molte condizioni che lo caratterizzano. È
un quadro che assume maggiore evidenza nella fase di snodo
del percorso educativo formale, che oggi – per lo più – si colloca al livello secondario superiore. Proprio la differenza che si
osserva nel modo in cui si verifica il fenomeno della dispersione nelle scuole secondarie superiori dei diversi paesi costituisce
uno degli aspetti della realtà educativa che richiede una considerazione più attenta, perché tale fenomeno non può essere
spiegato né solo dal punto di vista del funzionamento delle
scuole, né solo da quello del condizionamento esercitato sull’educazione da fattori sociali. La dispersione è, infatti, un sintomo
110
La dispersione inapparente
complesso, che cambia nel tempo in concomitanza con le variazioni che intervengono nelle condizioni di vita, negli atteggiamenti, nella percezione del valore sociale della cultura. Non c’è quindi
un solo tipo di dispersione, ma più tipi, in relazione ai diversi
contesti temporali e spaziali.
Quel che rimane, e che consente di riconoscere il fenomeno nonostante la diversità delle caratteristiche che assume, è che
da esso derivano alterazioni nei percorsi di studio cui fanno riferimento le regole che disciplinano il funzionamento dei singoli sistemi scolastici. Sotto quest’aspetto, la dispersione si presenta
come la manifestazione di una patologia, che indebolisce la capacità di perseguire gli intenti che erano stati dichiarati, rende più
difficili le condizioni di funzionamento e richiede un uso improprio delle risorse a disposizione.
Occorre, per le ragioni alle quali ho fatto riferimento,
considerare la dispersione all’interno della pluralità dei fenomeni che nel complesso distinguono il quadro dell’educazione,
E, poiché l’educazione è soggetta a processi di trasformazione
che avvengono sugli assi del tempo e dello spazio, non sarà inutile richiamare alcune fasi essenziali che hanno segnato il divenire della scuola in Europa.
Alle origini della tradizione educativa europea ci sono la cultura, le concezioni dei ruoli sociali e le interpretazioni dell’infanzia
e dell’adolescenza nel mondo antico, in Grecia e soprattutto a
Roma. In Grecia ai bambini si rivolgeva un’attenzione specifica
in senso educativo solo dopo i primi anni di vita, nei quali ci si limitava a provvedere alle loro esigenze fisiologiche. Non a caso, la
parola greca che indicava l’intervento rivolto ai bambini fin verso i cinque anni di età era trof» (trophè), che significa nutrizione. A Roma i bambini entravano a far parte della complessa
organizzazione della famiglia: la loro educazione era soprattutto modellata sulla figura del pater familias. Ovviamente, mi sto
riferendo ai bambini e ai ragazzi di condizione libera, che in
molti casi ricevevano anche un’educazione formale, in famiglia
se questa era di condizioni agiate, o per opera di maestri che
insegnavano a un certo numero di allievi, se la famiglia era di
condizione modesta. Le caratteristiche di quelli che ora si indicano come studi secondari incominciarono ad apparire nella fase terminale della storia della repubblica e si precisarono in età
imperiale.
111
Benedetto Vertecchi
Con la fine della dominazione romana si dissolsero anche
le forme organizzative, peraltro piuttosto incerte e variabili, che
l’educazione aveva assunto nel mondo antico. Sotto questo aspetto, l’organizzazione degli studi che si è venuta progressivamente configurando nel secondo millennio è apparsa, fin dagli
inizi, del tutto diversa: allo sviluppo delle scuole ha corrisposto
la distinzione fra i livelli educativi (scuola primaria, scuola secondaria, università). Le caratteristiche assunte da ciascun livello si collegano alla storia sociale e politica dei paesi d’Europa.
La rilevanza che gli studi stavano riprendendo dopo secoli
d’instabilità politica, durante i quali una certa continuità nella
trasmissione delle conoscenze era stata assicurata solo presso le
sedi episcopali e monastiche, spiega perché le università siano
state le prime scuole ad assumere caratteristiche definite, fin
dagli inizi del secondo millennio (Bologna, Parigi, Oxford eccetera). Alla nascita delle università corrispondeva, infatti, il
fiorire, o il rifiorire, di professioni necessarie per assecondare i
nuovi stili di vita.
Le istituzioni per l’educazione secondaria sono nate in concomitanza con le riforme religiose della metà del secondo millennio: il Gymnasium di Sturm nell’Europa protestante, i collegi (a cominciare da quelli della Compagnia di Gesù, ai quali si
affiancarono istituzioni analoghe promosse da altri ordini e congregazioni religiose) in quella cattolica. Con l’affermarsi dell’educazione secondaria (anche se gli allievi che ne fruivano erano
solo una piccola minoranza della popolazione dei singoli paesi)
le scuole incominciavano ad assumere molte delle caratteristiche che ancora è possibile osservare. Ne elenco le principali:
-
112
ogni scuola provvede all’educazione di un numero consistente di allievi;
l’attività è scandita secondo piani che sono preventivamente definiti e noti alle famiglie;
il lavoro educativo è organizzato e diviso, in relazione alle
competenze di chi insegna, ai compiti che gli sono affidati
e al livello delle responsabilità da assumere;
il tempo è scandito secondo modelli che prevedono attività formali collettive, impegno individuale nello studio, attività ricreative;
La dispersione inapparente
-
l’educazione riguarda sia l’apprendimento, sia l’acquisizione di valori e stili di comportamento;
ai comportamenti non conformi corrispondono sanzioni,
proporzionali alla gravità delle infrazioni commesse.
Le condizioni per il verificarsi dei fenomeni di dispersione incominciarono a esistere solo quando le frazioni di popolazione scolarizzata assunsero una certa consistenza. Condizione
per tale crescita è stata la diffusione dell’educazione al livello
primario, che ha provvisto quote crescenti di popolazione di
cultura alfabetica.
La diffusione dell’educazione primaria ha avuto in Europa tempi e finalità diversi nei paesi di religione riformata e in
quelli cattolici. Tra i principi della riforma religiosa avviata da
Lutero nel 1517 c’era, infatti, l’affermazione del libero esame,
ossia del diritto dei cristiani di leggere e interpretare liberamente i testi sacri, prescindendo dalla mediazione del clero. A questo principio della dottrina luterana corrispondeva una condizione, per così dire, strumentale: il libero esame poteva essere
effettivamente praticato a condizione di saper leggere. Ciò
spiega l’eccezionale moltiplicazione delle iniziative volte a
promuovere l’acquisizione della capacità di lettura in popolazioni che nella grande maggioranza ne erano prive. Nei paesi
dell’Europa non riformata gli inizi della diffusione delle competenze alfabetiche si sono avuti due-tre secoli dopo, in concomitanza con la trasformazione dei sistemi produttivi (si pensi
alle conseguenze della rivoluzione industriale in Inghilterra) o
di cambiamenti radicali nei rapporti tra le classi sociali (in Francia,
il principio dell’istruzione obbligatoria fu enunciato nell’ambito
della Rivoluzione).
Se si eccettuano i paesi di religione riformata, dove
l’avvio della scolarizzazione deve essere riferito a ragioni immateriali, negli altri paesi il progresso dell’educazione formale
(quella impartita nelle scuole) si è soprattutto collegato ad aspettative circa il miglioramento delle condizioni di vita. Anche la crescita della popolazione scolastica è stata più lenta, sia
perché la consapevolezza relativa all’utilità dell’educazione
non si è diffusa contemporaneamente in tutte le classi sociali,
sia per i filtri selettivi (in gran parte di tipo economico) che
hanno avuto come effetto quello di tener lontane dalle scuole
frazioni più o meno consistenti della popolazione. Col crescere
113
Benedetto Vertecchi
dei sistemi scolastici ai filtri destinati a limitare il numero degli
allievi si sono quindi aggiunti filtri mirati a favorire la perdita
di una parte di popolazione. Si è trattato di filtri ancora una
volta di tipo economico, oppure (senza escludere combinazioni
tra le due possibilità) almeno apparentemente tesi alla conservazione di un livello desiderato di qualità degli studi. La dispersione scolastica si è manifestata quindi come una pratica
selettiva: la perdita di popolazione, almeno se si accolgono interpretazioni del merito dei singoli allievi conformi alle concezioni educative delle classi dominanti, assumeva implicazioni
educative, presentandosi come un messaggio che il sistema
scolastico indirizzava alla società per legittimarsi. Quel che è
stato subito evidente è che si trattava di un messaggio rivolto
solo alla quota di popolazione che premeva alle porte delle
scuole o che era appena riuscita a superarle. La differenza tra
gli allievi appartenenti a classi sociali più o meno favorite era
che in un caso all’apparire di difficoltà nell’apprendimento o al
manifestarsi di una scarsa motivazione allo studio erano disponibili percorsi integrativi e talvolta sostitutivi, mente nell’altro
la sola via percorribile era l’abbandono degli studi.
Si può dire che la spinta alla dispersione abbia accompagnato la crescita dei sistemi scolastici e il prolungarsi del numero di anni mediamente dedicati all’istruzione sequenziale.
Nella storia sociale dell’educazione si ritrovano aspetti ricorrenti e,
al prevalere dell’uno o dell’altro, ha fatto riscontro l’affermarsi
delle diverse linee di politica scolastica. In particolare:
-
-
-
114
tranne rare eccezioni, per fruire di educazione secondaria
e, a maggior ragione, universitaria occorreva disporre di
risorse adeguate. In un’interpretazione storico-sociale
questa condizione si è presentata come un dispositivo di
moderazione del numero degli allievi;
la crescita del numero di allievi ai diversi livelli è stata
parallela al miglioramento delle condizioni di vita. Ciò
vale in generale per l’insieme della popolazione e, ancora
di più, per la possibilità di fruire dell’educazione da parte
delle bambine e delle ragazze;
solo in un tempo relativamente recente si è affermato il
concetto del diritto all’istruzione come condizione per la
piena partecipazione alla vita sociale e politica. All’affermazione di tale principio ha corrisposto l’enunciazione,
La dispersione inapparente
spesso negli stessi ordinamenti costituzionali, del principio del diritto allo studio come parte dei diritti di cittadinanza.
Lo sviluppo del sistema scolastico italiano esemplifica
quanto finora è stato rilevato. Nel 1861, l’anno del raggiungimento dell’Unità nazionale, solo una parte limitata della popolazione (con sensibili differenze tra le diverse aree del paese,
che in precedenza facevano parte di stati diversi e nelle quali,
di conseguenza, i sistemi d’istruzione erano diversamente regolati) aveva ricevuto un minimo di educazione nella scuola. Ovviamente, ciò valeva per la grande maggioranza della popolazione, costituita essenzialmente da contadini, mentre esisteva
già, per la parte più favorita della popolazione, la possibilità di
accedere alle scuole secondarie degli ordini religiosi (Gesuiti,
Barnabiti, Scolopi, Orsoline eccetera) e alle università. Il nuovo Stato nazionale, pur tra grandi difficoltà (non solo di tipo
economico: per esempio, mancavano gli insegnanti) promosse
l’alfabetizzazione, riducendo rapidamente la percentuale della
popolazione analfabeta.
La crescita della scolarizzazione, che ha proceduto in parallelo con altre importanti innovazioni nella vita economica e
sociale, ha incontrato atteggiamenti non favorevoli, quando
non del tutto ostili, nella parte più favorita della popolazione.
Se in un primo momento la diffusione dell’istruzione primaria
è stata interpretata, nel mezzo secolo successivo al raggiungimento dell’unità nazionale, come l’affermazione di un’idea di
progresso, il conflitto sociale si è manifestato quando la spinta
alla scolarizzazione ha incominciato a investire, agli inizi del
Novecento, il livello secondario. In altre parole: si accettava
che l’istruzione primaria fosse generalizzata, ma chi già fruiva
d’istruzione secondaria e universitaria rifiutava di dividere con
altri questo beneficio. Una concezione elitaria degli studi secondari era evidente nella riforma scolastica del 1923, nota
come riforma Gentile, dal nome del ministro che ne promosse
l’approvazione. E, in effetti, per quanto l’incremento del numero
degli allievi, dopo qualche anno di contenuta diminuzione o di
stasi, sia stato maggiore di quello desiderato da Gentile, si arrestò la dinamica virtuosa che in precedenza aveva ridotto l’intervallo fra la scuola italiana e quella di altri paesi europei.
115
Benedetto Vertecchi
La via all’espansione della scolarizzazione secondaria è
stata aperta nel 1962 dalla legge di riforma della scuola media
(secondaria di primo grado). Scopo della legge era dare concreta attuazione al principio del diritto allo studio sancito dalla
Costituzione della Repubblica Italiana. Si trattava di porre le
condizioni per assicurare a tutti 8 anni di istruzione di base (5
di scuola primaria e 3 di secondaria inferiore). L’obiettivo era
molto ambizioso, se si considera che in precedenza solo un
quarto degli allievi proseguiva lo studio dopo la scuola elementare e meno di un decimo frequentava le scuole secondarie superiori.
Nonostante le difficoltà, la legge del 1962 ha avuto rapidi
effetti sia sull’istruzione secondaria inferiore, sia su quella superiore. Già alla fine degli anni ’70 la quasi totalità della popolazione interessata all’istruzione per 8 anni frequentava effettivamente la scuola. Una percentuale crescente di allievi
proseguiva gli studi a livello secondario superiore (secondo i
tipi di scuole, dal IX al XII o al XIII anno di studio). Di conseguenza, cresceva rapidamente anche il numero degli studenti
che, una volta conseguito il diploma di scuola secondaria, decideva di proseguire ulteriormente gli studi all’università.
Oggi la grande maggioranza dei bambini e dei ragazzi,
dopo aver fruito del periodo d’istruzione obbligatoria, prosegue
lo studio nelle scuole secondarie superiori. Sono circa quattro
quinti della popolazione interessata gli allievi che giungono a
conseguire un diploma di studi secondari. Gran parte di loro si
iscrive a un corso di studi universitari o di livello analogo (accademie, istruzione tecnica superiore eccetera).
Quello rapidamente tratteggiato è un bilancio che può far
pensare ad una situazione sostanzialmente positiva. Invece, non
è così. Infatti:
-
116
specialmente nelle scuole secondarie superiori sono ancora
frequenti fenomeni di dispersione scolastica. Tali fenomeni
si verificano in particolare nelle scuole frequentate da allievi di condizione sociale modesta, se non dal punto di vista
economico, certamente da quello culturale. Spesso le scuole in cui è maggiore la dispersione sono indirizzate a fornire
competenze professionali per un rapido inserimento nel
mondo del lavoro;
La dispersione inapparente
-
-
a una dispersione esplicita (abbandono della scuola) se ne
è gradualmente affiancata una inapparente, costituita da
un livello scadente degli apprendimenti conseguiti da parte degli allievi. È accaduto, e continua ad accadere, che
l’abbandono che in precedenza seguiva il manifestarsi di
difficoltà nello studio a un determinato livello dell’istruzione, sia slittata al livello successivo (dalla scuola
primaria alla secondaria inferiore, dalla secondaria inferiore a quella superiore, dalla secondaria superiore all’università);
continua a essere molto forte l’effetto del condizionamento sociale sul successo negli studi (non sul successo formale, ma su quello sostanziale). Gli allievi appartenenti a
strati favoriti della popolazione possono accedere a un vero e proprio curricolo parallelo (apprendimento delle lingue, fruizione del patrimonio storico-artistico, esperienze
di studio in contesti diversi da quello consueto, pratica di
attività sportive eccetera), che consente di contenere
l’effetto della diminuita capacità delle scuole di modificare secondo progetti impegnativi il loro profilo culturale.
Per chiarezza, conviene distinguere in Italia (ma si tratta
di tendenze che si riscontrano anche altrove) due tipi di fenomeni di dispersione esplicita, il primo derivante da insuccesso
nell’apprendimento, l’altro da fattori sociali. Si ha il primo tipo
di dispersione quando un allievo che ha accumulato più insuccessi (sempre che non disponga di opportunità alternative offerte dalla famiglia) decide di abbandonare la scuola. Si verifica una dispersione per fattori sociali quando la decisione di
abbandonare la scuola è dovuta a difficoltà economiche o alla
volontà delle famiglie, o anche degli adolescenti, di disporre di
maggior reddito. Quest’ultimo atteggiamento si rinforza quando diminuisce la fiducia nella capacità della scuola di porre le
condizioni per migliori condizioni di vita, o – come non è raro
avvenga nelle società industrializzate – la spinta allo studio è
solo collegata a motivazioni esterne.
Per analizzare i fenomeni di dispersione è opportuno riferirsi a modelli descrittivi del flusso della popolazione attraverso
i cicli di studio. La semplice visione sincronica dei fenomeni
non ne consente la comprensione, mentre è proprio dalla considerazione del modo in cui determinati cambiamenti investono i
117
Benedetto Vertecchi
sistemi educativi che si possono trarre indicazioni utili per la
definizione di nuove linee di politica scolastica.
Un modello che tiene conto del passaggio di una leva di
allievi attraverso uno o più cicli scolastici è quello messo a
punto dall’Ufficio Statistico dell’Unesco. Gli elementi essenziali sono rappresentati nella tavola seguente:
I a1
iscritti al primo
anno nell’anno a
sequenza regolare
insuccesso
iscritti al primo
anno nell’anno a+1
2
I a+1
1
Ra+1
iscritti al secondo
anno nell’anno a+1
È evidente che non c’è dispersione se
2
I a+1
+
1
Ra+1
=
I a1
<
I a1
C’è, invece, dispersione, se
2
I a+1
+
1
Ra+1
In particolare:
-
118
se il valore di I diminuisce più di quanto si possa giustificare da quello di R, la dispersione è causata soprattutto da ragioni sociali;
La dispersione inapparente
-
se sono elevati i valori di R si può ritenere che la dispersione sia causata soprattutto da insuccesso nell’apprendimento.
Di per sé la dispersione inapparente non produce immediatamente variazioni di rilievo nella consistenza della
popolazione scolastica:
2
3
I a1 ≈ I a+1
≈ I a+2
eccetera
Le differenze che segnalano fenomeni di dispersione
inapparente riguardano pertanto non il numero degli allievi,
ma i risultati che essi conseguono negli studi, che sono evidenziati sia da dati nazionali, sia dalla comparazione con i
risultati di altri paesi. Al fenomeno della dispersione inapparente corrispondono, infatti, medie basse e varianze elevate
nella distribuzione dei punteggi conseguiti.
Sono segni dell’operare della dispersione inapparente:
-
il rinvio del momento in cui gli studi sono formalmente
abbandonati;
lo spostamento degli effetti formali degli insuccessi conseguiti in un ciclo scolastico al livello successivo;
la diffusione di atteggiamenti sociali negativi verso
l’educazione scolastica;
l’aumento della distanza tra le aspettative che si collegano a un certo titolo di studio e il credito sociale che
ad esso effettivamente si riconosce;
la riduzione della motivazione allo studio.
In conclusione, il quadro della dispersione nel sistema
scolastico italiano al momento si caratterizza:
-
per una forte diminuzione della dispersione esplicita,
anche per effetto della critica sociale nei confronti di
modelli educativi elitari;
per una crescita elevata della dispersione inapparente,
come si ricava dall’analisi dei dati ottenuti nell’ambito
di rilevazioni internazionali. In particolare al livello se-
119
Benedetto Vertecchi
condario è molto alta la varianza fra le scuole e fra indirizzi di studio ai quali si rivolgono in prevalenza allievi appartenenti a strati della popolazione più o meno
favoriti.
Probabilmente, l’aspetto più denso di implicazioni negative per il manifestarsi dei fenomeni descritti è la caduta
della motivazione ad apprendere. A prima vista può sembrare che si tratti di un problema essenzialmente psicologico o
di una conseguenza del mancato adeguamento delle procedure d’insegnamento alle nuove esigenze degli allievi. In realtà, le implicazioni che si ricavano dalla caduta della motivazione sono prioritariamente di carattere sociale e politico.
In particolare:
-
alla frequenza della scuola secondaria non si associa,
se non debolmente, l’attesa di un miglioramento delle
condizioni di vita (motivazione esterna);
molti giovani ritengono che al successo nell’apprendimento sia preferibile quello che assicura un rapido e
consistente ritorno di denaro;
la cultura ha perso progressivamente posizioni nella
gerarchia dei valori sociali;
la debolezza, o l’improprietà, della motivazione allo
studio spingono ad abbandonare la scuola.
La caduta della motivazione è anche incoraggiata dall’affermarsi di modelli di successo sociale che prescindono
dal profilo culturale acquisito attraverso lo studio. Sono tipi
di successo fortemente enfatizzati dai mezzi di comunicazione di massa. È questa una ragione di più per considerare la dispersione un problema non limitato alla scuola, ma che attraversa l’intera società.
120
Abstracts
Editoriale
When an adjective is needed
Educational research theories should be based on a critical perspective, in order to avoid determinism and grasp changes and
anomalies of contemporary age. Contrary to what is generally believed, banal and scarcely innovative conclusions derive from empirical and experimental research, rather than from theories and
speculative contributions. Indeed, methodology and rules of scientific communication seem the only condition to be met, to the detriment of originality and critical awareness.
Keywords: critical pedagogy, interpretative models, innovation,
originality, methodology.
Se necesita el adjetivo
La investigación educativa debe basar su interpretaciónes en una
dimensión crítica, lo que implica el escapar del determinismo, y la
capacidad de comprender los elementos de cambio junto con las
posibles discrepancias de hoy en día. Contrariamente a lo que se
podría pensar, más que en los aportes teóricos y especulativos, es en
los empíricos o experimental que se encuentran las conclusiones
menos innovadoras y rígidas. En este contribuciones, la metodología y
el enfoque formal de la comunicación científica parece la única
condición que debe cumplirse a expensas de la originalidad y la
conciencia crítica.
Palabras clave: pedagogía crítica, modelos interpretativos,
innovación, originalidad, metodología.
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, I, 2 (2012), pp. 121-126.
ISSN 2280-7837 © 2012 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
Abstracts
Gilberto Scaramuzzo
On mimetic nature of speech.
A philosophical-educational reading of few pages of Cratylus.
Starting from Taylor’s observation on Plato’s Cratylus: «What is of
real interest to others than specialists in phonetics is the discernment
shown by the insistence on the general principle that speech is to be
regarded as a species of mimetic gesture», the issue analyzes 422e ss.
to re-consider, in the light of the dialogue between Socrates and Hermogenes, the rule to be assigned to mimesis in educational reflection
and praxis, with a particular emphasis on nonverbal communication as
a paradoxical way to show the nature of things.
Keywords: Mimesis, Plato, Cratylus, nonverbal communication,
education.
Sobre la naturaleza mimética del diálogo.
Una lectura filosófica-educativa de algunas páginas del Crátilo
A partir de la observación de Taylor en el Crátilo de Platón: «Lo
qué es de verdadero interés para otros, además de los especialistas
en fonética, es el discernimiento mostrado por la insistencia en el
principio general que el diálogo debe ser considerado como
especie de gesto mimético», el tema analiza 422 y ss. para
reconsiderar, a la luz del diálogo entre Sócrates y Hermógenes, la
regla que se asignará a la mímesis en la reflexión educativa y la
praxis, con un énfasis particular en la comunicación no verbal
como una forma paradójica de mostrar la naturaleza de las cosas.
Palabras clave: Mimesis, Platón, Crátilo, la comunicación no
verbal, educación.
Cristiano Casalini
Adamo magister.
The educational code of Cursus Conimbricensis
The Cursus conimbricensis is one of the most relevant works edited by the teachers of the Jesuit College of Arts of Coimbra during the 16th century. The importance of these long and heavy eight
commentaries on Aristotle has been neglected by the history of
122
Abstracts
education until some Portuguese and American scholars showed a
scientific interest on the subject. This paper aims at presenting the
Cursus as an educational product, with which the Coimbrans responded to specific didactic purposes and as a recognition of the
state-of-the-art on many key philosophical questions of the early
modern era. In doing so, the Coimbrans’ work stands for us as a
unusual example of a culture built by and for education.
Keywords: Cursus conimbricensis, Jesuit education, History of 16th
Century Education, College of Coimbra, Aristotelian commentaries.
Adamo magister.
El Código de Educación de Cursus Conimbricensis
El Cursus Conimbricensis es una de las obras más relevantes,
editada por los profesores del Colegio de los Jesuitas de las Artes
de Coimbra durante el siglo 16. La importancia de estes largos y
pesados ocho comentarios de Aristóteles ha sido ignorado por la
historia de la educación hasta que algunos académicos de Portugal
y America hayan recientemente mostrado el interés científico
sobre el tema. Este trabajo tiene como objetivo presentar el Cursus
como un producto educativo con la que los de Coimbra respondieron
a determinados fines didácticos y como un reconocimiento del
Estado-de-arte en muchas cuestiones filosóficas fundamentales de la
era moderna. De este modo, el trabajo de los de Coimbra es para
nosotros como un ejemplo excepcional de una cultura construida por
y para la educación.
Palabras clave: Cursus conimbricenses, educación jesuítica,
Historia de la educación del siglo 16, Colegio de Coimbra,
comentarios of Aristóteles.
Luana Salvarani
«We have only one story».
Faithfulness to Text and narrative fiction in American Sunday
Schools
Sunday Schools, Bible-based classes for children and illiterate
adults, were created in the late 18th century against crime and
drunkenness in British factory towns. In the growing America of
the 19th century, they became the main educational institutions in
123
Abstracts
rural areas, the only ones along the Frontier, and a strong counterpoint to public schooling in the cities. With their daily practice of
Bible reading and their belief in the historical truth of the Text,
they developed a shared web of myths and memories; but also, in
their pedagogical strive to feed the imagination of youngsters, the
Schools moulded a unique fictional literature that stands at the
foundation of American culture and identity.
Keywords: Sunday Schools, 19th century America, religious education, children’s literature, Bible criticism.
«Tenemos solo una historia».
La fidelidad al texto y la ficción narrativa en escuelas
Dominicales de America.
Escuelas Dominicales, clases basadas en la Biblia para niños y adultos
iletrados, se crearon en el siglo 18 contra la delincuencia y la
embriaguez en ciudades industriales británicas. En creciente América
del siglo 19, se convirtieron en los principales centros de enseñanza en
las zonas rurales, los únicos a lo largo de la Frontera, y un fuerte
contrapunto a la educación pública en las ciudades. Con su práctica
diaria de la lectura de la Biblia y su creencia en la verdad histórica del
Texto, desarrollaron una compartida red de mitos y recuerdos, sino
también, en su pedagógico ezfuerzo a alimentar la imaginación de los
jóvenes, las Escuelas han formado la única literatura ficcional que está
en el fundamento de la cultura y la identidad americana.
Palabras clave: Escuelas dominicales, America de 19 siglo,
educación religiosa, literatura infantil, a crítica de Biblia.
Giuseppe Burgio
Colonies, empires and migrations.
A postcolonial framework of multicultural Europe
The article considers the multicultural roots of the European Union from
a postcolonial perspective. Therefore, European history is outlined from
colonialism to imperialism, concluding with recent regulations on international migration. The etymology of the terms colony and culture, both
derived from the Latin verb colĕre (to cultivate), is the link that connects
these themes, highlighting a conception of the relationship between
Europeans and the otherness based on exploitation and domination.
124
Abstracts
Through this view, differential colonialism merges with social self representation (antropopoiesi) inherent in the concepts of culture and education and already disclosed by the Greek paideia.
Keywords: multicultural education, Greek paideia, colonialism,
migration, cultural identity.
Colonias, imperios y migraciones.
Un marco postcolonial de Europa multicultural
El artículo analiza, desde el punto de vista postcolonial, la plataforma
multicultural de la UE. Por lo tanto, la historia europea es bosquejado
del periodo de colonialismo hasta el imperialismo, concluyendo con
las normas recientes de la migración internacional. La etimología de
los términos colonia y la cultura, ambos derivados del verbo latino
colĕre (cultivar), es el enlace que conecta estos temas subrayando una
concepción de la relación entre los europeos y la alteridad basada en la
explotación y la dominación. Según este punto de vista, el colonismo
diferencial se fusiona con autorepresentación social (antropopoiesi)
inherente a los conceptos de cultura y educación y ya revelada por la
paideía griega.
Palabras clave: educación multicultural, griego paideía, el colonialismo, la migración, la identidad cultural.
Francesco Mattei
Roger Garaudy: mon tour du siècle
A brief review of the works of Garaudy, who died a few months ago,
is outlined in this article. His philosophical and political positions are
illustrated, from his initial sympathy for Protestantism in Strasbourg
circles to the adherence to Marxism, from Marxism-Christianity to his
abandon-expulsion from the French Communist Party, up to his conversion to Islam and to the conviction imposed by the French courts
for his negationism. A philosophical and political journey that had
many implications in education.
Keywords: Garaudy, Marxism-Christianity, Hegelianism, Marxism,
Islamism.
125
Abstracts
Roger Garaudy: mon tour du siècle
En el año de la muerte de Garaudy se hace una breve valoración de su
obra. Destacamos las distintas posiciones que había tomado en el
campo de la filosofía y de la política, las primeras alianzas con
círculos protestantes en Estrasburgo para su adhesión al marxismo,
desde el cristianismo marxista a su salida y expulsión del Partido
Comunista Francés, hasta su conversión al Islam y la condena
impuesta por la justicia francesa por este abandono. Un viaje
filosófico y político que tuvo algunas implicaciones en educación.
Palabras clave: Garaudy, el cristianismo-marxista, el hegelianismo, el
marxismo, el islamismo.
Benedetto Vertecchi
The invisible drop out
Interpretations arising from educational debate are too often partial
due to the expression of prejudice, i.e. a partial judgment concerning
phenomena that are not duly considered, as school drop out. Instead,
diachronic research describing the flows of the population over time
should be appropriately and accurately studied. In this sense, the article offers an in-depth historical perspective considering how such
changes can affect educational systems in industrialized societies.
Keywords: school drop out, selection, social co-optation, secondary school, motivation to study.
La dispersión asintomática
La parcialidad de muchas interpretaciones que surgen en el debate
educativo puede ejemplificarse a través de la expresión del
prejuicio, es decir, juicios parciales realizados acerca de los
fenómenos que no se consideran cuidadosamente, como el de
abandono escolar prematuro. Sería conveniente referirse a los modelos
descriptivos de la poblaciòn a través de investigaciones diacrónicas.
En este sentido, el artículo ofrece una perspectiva histórica, teniendo
en cuenta de cómo ciertos cambios puedan pertenecer a los sistemas
educativos en las sociedades industrializadas.
Palabras clave: abandono escolar, selección, cooptación social,
escuela secundaria, motivación para estudiar.
126
Indice
Editoriale
L’aggettivo è necessario
Sulla natura mimesica del discorso.
Una lettura filosofico-educativa di pagine del Cratilo
Gilberto Scaramuzzo
Adamo magister.
Il canone educativo del Cursus Conimbricensis
Cristiano Casalini
«We have only one story».
Fedeltà al Testo e creazione narrativa
nelle Sunday Schools americane
Luana Salvarani
Colonie, imperi e migrazioni.
Un inquadramento postcoloniale dell'Europa
multiculturale
Giuseppe Burgio
Roger Garaudy: mon tour du siècle
Francesco Mattei
1
7
21
43
65
89
La dispersione inapparente
Benedetto Vertecchi
109
Abstracts
121
Finito di stampare
nel mese di dicembre 2012
per conto di Editoriale Anicia
da Finsol S.r.l. - www.finsol.it
EDIZIONI ANICIA
Collana Teoria e storia dell’educazione
130. F. MATTEI, La formazione dell’ánthropos téleios. Parresia e responsabilità in
D. Bonhoeffer
131. M. D’ARCANGELI, Nuovo Welfare e società multiculturale
132. A. CAGNOLATI, Madri sociali
133. A. NACCARI, Pedagogia dei cicli di vita
134. R.M. POSTIGLIONE, Formazione e lavoro (1861-2007)
135. R.M. POSTIGLIONE, La formazione professionale
136. P. MULÈ, La formazione del docente in Spagna dal 1945 ad oggi
137. F. MATTEI, La figura e l’opera di Juan Huarte de San Juan
138. M. de MONTAIGNE, L’Educazione. Essais 25-29, tr. di Girolamo Canini
(1633), a cura di C. Casalini e L. Salvarani
139. M. MUZI (ed.), Cultura e formazione nella società laica: realtà o utopia?
140. G. SCARAMUZZO (ed.), Mimopaideia. Buone pratiche per una pedagogia
dell’espressione
141. E. MANNESE (ed.), Mezzogiorno coscienza civile processi formativi, Scritti
di N. Mancino, F. Mattei, G. Minichiello, F. Tessitore
142. M. GIOSI, Come in uno specchio. Teatro e formazione dell’io. Figure e
percorsi del Novecento
143. A. PORCHEDDU, Didattica e comunicazione
144. M. MANNO, Lettere a Francesco, Responsio (nunc) brevis di F. MATTEI
145. C. COSTA, L’umano riuscito. Una ermeneusi dei Ricordi di Marco Aurelio
146. F. MATTEI (ed.), La formazione professionale. Scorci storici e problemi aperti
147. F. MATTEI, ANIMI. Il contributo dell’A.N.I.M.I. alla storia dell’educazione (1910-1945)
148. V. CAGGIANO, Educazione imprenditoriale
149. L. VANNI (ed.), Iconografie d’infanzia
150. R. NESTI (ed.), Didattica nella “primaria”
151. F. MATTEI, Tracce di paideia
152. M. MUZI (ed.), Eventi formativi e modelli epistemologici del narrare
153. E. MADRUSSAN, Briciole di pedagogia
154. E. LASTRUCCI, Formare il cittadino europeo
155. C. CASALINI, Aristotele a Coimbra. Il Cursus Conimbricensis
156. L. SALVARANI, Sunday School Literature
157. L. PUGLIELLI, Olindo Giacobbe scrittore per l’infanzia
158. C. LEUZZI, Alfabetizzazione nazionale e identità civile
159. F. MATTEI (ed.), Sul paradigma dell’efficacia in educazione
160. R.M. POSTIGLIONE, Differenze di paideia. Culture lingue migrazioni
161. M.E. ALBERTI, La casa, la villa, il palazzo
162. C. CASALINI et alii, Misurare l’informale. Vinepac: un progetto europeo
163. R. M. POSTIGLIONE, Per una pedagogia strutturale
164. I. MESSURI, La comunicazione pedagogica. Per un nuovo modello formativo