Freud va all`Inferno
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Freud va all`Inferno
Mario Pigazzini FREUD VA ALL’INFERNO (Il viaggio dell’uomo da Dante a oggi passando per Freud) Vol. I Canti I-IV © 2009 Mario Pigazzini © 2013 emuse ISBN 978-88-98461-02-8 Direttore editoriale Grazia Dell'Oro Redazione Manuela Del Turco Copertina Sara Munari [email protected] www.emusebooks.com L’autore ci ha proposto di devolvere la percentuale corrispondente ai diritti sull’opera a favore del progetto “Sostegno agli studenti di Agadez-Niger”, che supporta l'istruzione qualificata per gli adolescenti della regione dell’Aïr, Niger. Il progetto è realizzato in collaborazione con l’associazione Les Cultures di Lecco (www.lescultures.it) e l’ong AFAA (Niger). Attraverso l’acquisto di questo libro contribuisci anche tu alla realizzazione di questo progetto. • NO DRM emuse ha scelto di non proteggere i suoi e-book con il DRM (Digital Rights Management) di Adobe, per facilitare la lettura su diversi dispositivi, resa faticosa dalle protezioni. Essere editori, anche editori digitali, comporta comunque uno sforzo notevole e perché il prodotto del nostro impegno sia di buona qualità è necessario parecchio lavoro. Va da sé che non assecondiamo la pirateria e chiediamo ai nostri lettori di sostenerci acquistando le nostre pubblicazioni e di non distribuirle senza il nostro esplicito consenso. • Indice Piano dell'Opera Introduzione Prendimi per mano Dante e la psicoanalisi Dante e Freud L’ Inferno Canto I Parole chiave La selva oscura e il maestro Ouverture 1. L’inferno è nel pensier 2. La paura e il fermarsi a guardare indietro 3. Le tre fiere: le tre disposizioni che divorano l’uomo 4. Virgilio e il bisogno di aiuto 5. Il nucleo centrale dell’esperienza di Dante nella Divina Commedia 6. Omaggio al maestro 7. Nuovo viaggio 8. La profezia 9. La promessa dell’incontro Exitus Canto II Parole chiave Il ripensamento di Dante Ouverture 1. Invocazione e sollecitazione 2. I dubbi di Dante 3. Ripensare, rimuginare 4. Magnanimità di Virgilio 5. Beatrice 6. I dubbi di Virgilio 7. Le tre Donne 8. La viltà 9. Il riscatto di Dante Exitus Canto III Parole chiave La porta dell’inferno Ouverture 1. Sviluppo e crescita di una relazione 2. La destrutturazione della parola 3. Gli ignavi 4. Il contrappasso 5. Una sgridatina cortese 6. Caronte 7. Livore contro gratitudine 8. Come d’autunno si levan le foglie 9. La coazione a ripetere Exitus Canto IV Parole chiave Il limbo e gli spiriti nobili Ouverture 1. La pietà: transfert e contro-transfert 2. Il duol sanza martìri 3. Il desiderio senza speranza 4. Il conflitto di Dante 5. Il dissenso di Dante 6. L’onore degli uomini in scienza e arte 7. La bella scola 8. Il nobile castello 9. La dimora dei filosofi Exitus Appendice Inferno, Canto I Inferno, Canto II Inferno, Canto III Inferno, Canto IV Paradiso, Canto XXXIII Bibliografia Biografia Piano dell'Opera F reud va all’Inferno è un’opera in sei volumi che propone la lettura dell’intera cantica dell’Inferno attraverso gli strumenti della psicoanalisi. Si possono cogliere così le analogie tra il percorso infernale di Dante e le sofferenze esistenziali dell’Uomo, individuando ricorrenze e soluzioni, mai definitive. Il primo volume raccoglie i canti I-IV, il secondo i canti V-X, il terzo i canti XI-XVI, il quarto i canti XVII-XXII, il quinto i canti XXIII-XXX e l’ultimo i canti XXXI-XXXIV. Una suddivisione non casuale, dettata piuttosto da una lettura dell’opera di Dante che individua in questa ripartizione un percorso preciso. Nei primi quattro canti Dante presenta il senso della sua autoanalisi: di fronte al trauma dell’esilio e all’impossibilità di un ritorno al passato, egli cerca di capire cosa dentro di sé debba cambiare, quali siano le resistenze e le difese, su chi e cosa possa contare e dove debba guardare. Nei sei canti seguenti (V-X) Dante ci parla delle passioni umane direttamente connesse con l’istinto, difficili da controllare (lussuria, gola). Seguono gli altri 'vizi', cioè i modi errati di rapportarsi agli altri, nei quali predominano egoismo e stereotipia; invidia e avidità ne sono i prototipi. A chiudere questo blocco di canti, un intermezzo, nel quale Dante ci ricorda il pregio del lavoro metaforico, intellettuale e artistico. I sei canti centrali (XI-XVI), permettono a Dante di affrontare il tema della violenza: la violenza fine a se stessa, tipica dei tiranni, è matta bestialità e sta tra l’incontinenza istintuale e l’uso perverso della ragione. Con i canti XVII-XXX, Dante entra nella descrizione delle dieci malebolge, luoghi che rappresentano la perversione della condizione umana, dove la qualità più sublime dell’uomo, l’intelligenza, strumento di conoscenza, viene usata non per costruire ma per distruggere. Negli ultimi quattro canti (XXXI-XXXIII) Dante affronta la fenomenologia, la dinamica e il senso del male e di come esso possa contenere in sé l’emergere di una nuova e migliore organizzazione del vivere sociale. Qui, dove ogni relazione umana sembra pietrificata dalla vendicatività dell’odio, Dante inserisce diverse contrapposizioni che ci mostrano la sua radicata fiducia nell’uomo e nella natura. L’opera completa Freud va all’Inferno è un modo di percorrere, fianco a fianco con Dante, le strade dell’uomo, delle sue passioni violente e delle sue paure. Un modo di entrare negli spazi più segreti dell’animo umano al fine di costruire una coscienza pura, ideale di ogni Io-soggetto che miri all’autenticità. Uno strumento per imparare ad apprezzare il ben fare, a non fuggire dallo sdegno di fronte alla prevaricazione, come pure la necessità della gratitudine, della fedeltà ai propri impegni, della tenerezza spontanea e della naturalità del desiderio, della concretezza della parola che cura e il senso composto della píetas, per terminare con l’intensità creativa della riparazione che nasce dai legami emotivi. Attraverso questa lettura è possibile esplorare la caducità, il senso dei confini, la forza della nostalgia, i sotterfugi dell’ambivalenza, la necessità di una leadership e della relazione giocosa, ma anche la distruttività e la crudeltà dell’uomo, l’odio vendicativo, la superbia arrogante, l’ira violenta e l’impietosa malizia che proietta sugli altri l’angosciosa paura del proprio fallimento esistenziale. È il tentativo di leggere Dante per svelare i grandi enigmi dell’uomo: la circolarità degli eventi, l’amore e il caos, la fortuna e il destino, il trionfo del male e la forza della natura. Introduzione Prendimi per mano H a fatto la sua comparsa, anche se silenziosamente, l’uomo cibernetico, l’ultimo dei post-moderni o il primo della specie post-umana, bionica, giunto su una terra abitata da gruppi di viventi che si accostano solo ora a conoscere e usare la scrittura virtuale e fanno ancora poco uso della logica e della rappresentazione simbolica nel loro agire quotidiano, almeno secondo i parametri dell’attuale cultura dominante. Se è facile fare del futurismo, è difficile interrogarsi sulla possibilità che la nuova specie umana – figlia primogenita dell’evoluzione tecnologica e culturale nata circa 5000 anni fa dalla confluenza delle culture e delle visioni dei popoli semiti e indoeuropei – conservi le caratteristiche, gli habitus, di cui si è dotato l’uomo dall’Umanesimo, dal Rinascimento, a oggi. Ci chiediamo fin d’ora se queste caratteristiche, che hanno fatto grande e splendente l’uomo nel suo cammino evolutivo, siano tipiche dell’uomo occidentale post-rinascimentale o se invece possano essere considerate proprie di tutta la specie umana, fino a ora e nei secoli a venire. Alla fine del nostro percorso cercheremo di dare una risposta a questo interrogativo. Nato con Dante, cresciuto con Galileo e Leonardo, studente con Erasmo, giovane impudente con Shakespeare e inquieto con Nietzsche, adulto timido con Proust o violento con Dostoevskij, finalmente approdato alla consapevolezza della sua caducità con Freud, l’uomo moderno volge ora lo sguardo alle nuove qualità di un esistere su cui la scienza proietta affascinanti panorami, domandandosi se il bagaglio di ideali di cui si è dotato nei secoli precedenti, e a cui si è ispirato in molte sue scelte, sia un inutile peso o un delicato, inalienabile supporto e sollievo. Effettivamente, l’uomo occidentale che è cresciuto nell’arco di questi sette secoli, meraviglioso ponte tra le opposte sponde dell’abisso del potere sacro, quanto arrogante, da una parte e del ritorno al predominio selvaggio dall’altra, ha cercato di sottrarre se stesso alle incertezze e alle ambigue oscillazioni che si erano sviluppate dal bisogno di sopravvivenza, per puntare diritto verso una civis/civiltà i cui fondamenti si era cominciato a scrivere, universalmente, attorno al 3000 a.C.. Ora si sta domandando quale sarà il suo futuro: si configurerà come un nuovo Umanesimo arricchito dalle acquisizioni scientifiche, grazie a un ulteriore superamento delle ambigue premesse della pre-civilizzazione e attraverso il percorso intrapreso con slancio al termine della quiete medioevale, oppure, con un falso rinnovamento radicale, idealizzerà quell’Io/Sé che, tiranno tanto assoluto quanto indifferente a tutto ciò che chiama in causa una sua diretta rinuncia e responsabilità, lo riporterà a quell’homo hominis lupus, a quell’avidità e bramosia che rifiuta ogni condivisione e molte genti fe’ già viver grame (Inferno, I, 51), come ha già sperimentato con le dittature politiche, militari ed economiche del ventesimo secolo? Non so quale sarà l’evoluzione di quest’uomo sempre più macchina e sempre meno animale o, se si vuole, sempre meno ecosistema. Mi fermo a riflettere – dopo essermi interrogato, essere stato interrogato e aver interrogato altri per più di trent’anni – con quali pietre danzanti nelle sue mani l’uomo ha costruito questo ponte tra l’onnipotente Dio del medioevo e l’onnipotente Io dell’epoca post-moderna. Nella costruzione di questo ponte l’uomo è stato sorretto da molte certezze, certezze che sono state codificate da Dante il quale, nella Divina (di Dio) Commedia (dell’uomo), con la sua poesia porta la trascendenza della cosmogonia cristiana dentro lo spazio-tempo degli eventi quotidiani, unificandoli. Originariamente trascendenti, poi immanenti, poi sempre più imprevedibili nel loro essere solo un qui e ora, gli eventi tendono oggi a essere dominati da un uomo che via via si fa geloso della sua identità, di un senso e di un perché dell’esistere, coniati dal suo Io primariamente e, spesso esclusivamente, attento al suo oggetto Sé. La fame di certezza che incontriamo oggi in ogni angolo di strada e in ogni tocco di orologio nasce proprio dalla rottura dell’unità tra l’uomo e il cosmo, con il conseguente dilatarsi delle contraddizioni spazio-temporali. Si percorrono enormi distanze in un attimo ma, una volta arrivati nello stesso luogo, il tempo di chi arriva porta con sé differenze storicamente abissali, così che un evento, condiviso nello stesso momento-spazio, è percepito interiormente dai conviventi in modo profondamente diverso. Se lo spazio ci avvicina, il tempo ci separa o travolge impietosamente e, sembra, senza possibilità alcuna di adiacenza: giacere accanto, vicinanza, prossimità, etimo dell’amore e della convivenza generante, della tolleranza e della comprensione, della fratellanza e dell’empatia. Da Dante in poi, dalla sua relazione con Virgilio, tutto nell’uomo ha cercato di essere adiacenza. E poi che la sua man alla mia pose, con lieto volto, ond’io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose. (Inferno, III, 19-21) Questo ‘prendere per mano’ che diventa un ‘sedersi accanto’, proprietà strutturante fisico-psichica dell’incontro analitico, si accompagna a un’altra caratteristica del macrocosmo dantesco e del microcosmo freudiano: la luce e l’insight, lo sguardo che penetra e guida, che rompe il buio della selva oscura e della coazione a ripetere per arrivare alla luce della verità cosmologica e/o intrapsichica. Soltanto stando accanto è possibile vedere, ci suggerisce Dante lasciandosi prendere per mano da Virgilio; lo conferma poi Freud, fondando sul setting, anche nella sua configurazione spaziale, l’esclusività di quell’intima e vitale relazione, l’essere con o l’esserci dei fenomenologi, che libera dalla coercizione ripetitiva originata durante l’infanzia sofferta. È cosa condivisa da tutti che la Divina Commedia è il paradigma del cammino che deve percorrere l’uomo adulto, cioè saggio e responsabile. Prima con l’Umanesimo di Dante e in seguito durante il Rinascimento, l’uomo occidentale s’incammina verso quella identificazione frattale tra microcosmo e macrocosmo che pone l’identità soggettiva – la commedia umana del visibile – sullo stesso piano dell’universalità cosmologica – il divino sacro e invisibile – scorgendone e specificandone le essenziali corrispondenze. Se l’uomo di Dante guarda ancora a Dio come suprema realizzazione e termine ultimo di ogni pellegrinaggio esistenziale, il viaggio che Dante, uomo proto-moderno, intraprende non è altro che quel viaggio che Freud descriverà con modalità differenti e sostanziali similarità. Vero è che Freud non guarda a Dante, ma a Nietzsche e Dostoevskij – facendo di tutto per non vedere il passaggio obbligato per Shakespeare – i quali solo in apparenza si allontanano dal viandante dantesco descrivendo l’uomo alle prese con le angosce della sua soggettività ormai conquistata. I moderni, infatti, che da Shakespeare in poi non amano più le mete divine e guardano all’irreparabilità quotidiana, all’astuzia e alla brutalità, all’inganno e alla passione, all’eros e al thanatos del Sé emergente dal potere (papale o imperiale che sia), con Freud restituiscono a Dante il valore inalienabile della parità tra macrocosmo e microcosmo. Voi sarete come dei titola un testo meno fortunato dell’autore di L’Arte di amare, Erich Fromm. L’Io è sovrano solo dentro un microcosmo che si muove ineluttabilmente all’interno di una pluralità di mondi, essendo la chiusura narcisistica null’altro che l’annullamento del macrocosmo. La morte dell’Io è la morte del macrocosmo stesso. Freud non ne ha alcun dubbio e vuole restituire all’uomo una libertà autentica attraverso la ricerca della verità, proprio come lo voleva Dante, anche se per questi la verità era eterna, mentre per Freud, come per l’uomo dell’era quantica, è soltanto nel qui e ora, nella bellezza delle sue simmetrie, nella certezza di una sostanziale imperturbabilità delle sue leggi naturali. La visione di Dante è il macrocosmo; Paolo e Francesca o Amleto o l’Uomo senza qualità sono il microcosmo. Per quanto Nietzsche cerchi disperatamente, quanto illusoriamente, di ricostruire una visione moderna del macrocosmo dantesco, è Freud che genialmente ne intuisce la portata. Il divino è diventato la mente creatrice. La commedia non si svolge più all’interno di una cosmologia teocentrica universale, ma dentro le tre istanze della mente, l’Io, l’Es e il Super-Io, perfetta similitudine delle tre cantiche. La guida non è un uomo che appartiene al mondo delle divinità, ma un pari che prima di noi si è aggirato a lungo tra le (i)stanze della mente, dell’arte e della scienza. Virgilio è maestro di poesia e di scienza, non meno di Dante; i fisici d’oggi gli attribuiscono ben oltre trenta corrette osservazioni scientifiche delle leggi della natura. L’intento di Dante, che si è perso nel mezzo del cammin di nostra vita, è didattico: insegnare all’uomo nuovo il cammino che deve percorrere per raggiungere questo nuovo stile di vita, il dolce stil novo che fa di grazia e appropriatezza, del controllo interiore e della finezza intellettiva, le sue virtù. Dolce, in contrapposizione ad asprezza, rugosità e volgarità, durezza e malvagità della vita pre-umanistica, ultima eco delle evoluzioni sociali e culturali iniziate venticinque secoli a la impresa. Ulisse, Paolo e Francesca, il conte Ugolino, Farinata e i loro compagni di sventura non sono che le componenti di quel grande macrocosmo che è la condizione umana per come l’ha descritta Malreaux. Se lo sguardo si ferma su di loro è per un momento, il tempo di chiederci se stiamo percorrendo lo stesso ingannevole cammino, per ritrovare la pietà naturale che alberga in noi verso ogni abitante della condizione umana; la misericordia divina è in primis la nostra comprensione/compassione per i concittadini di questa umana, molto umana, realtà che ci accomuna. Per Freud le parti del Sé sono i microcosmi che giocano la loro partita nel grande macrocosmo dell’Io, ma la domanda è: come sono fatto io? Freud guarda al Tempio di Delfi, Dante volge il suo sguardo al Tempio di Gerusalemme: entrambi alla fine se ne discostano per fermarsi a contemplare l’animo umano smarrito e disperato. Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita. (Inferno, I, 1-3) Né Freud né Dante vogliono riportare indietro l’uomo, entrambi vogliono condurlo verso qualcosa di nuovo, il dolce stil novo. É ancora quell’aggettivo, dolce, che caratterizza l’uomo nuovo. L’uomo moderno e postmoderno, nella sua tensione verso il post-umano ancora lontano, sembra però volere – e forse vuole potere – ignorare sia la densità paradigmatica dell’uomo rinascimentale e dantesco – che ha la sua epifania nella Divina Commedia – sia l’intimità drammatica dell’uomo freudiano. Per quale motivo l’uomo d’oggi, che è sempre più perso nel mezzo del cammin, vuole allontanarsi da quella saggezza che tanta speme adduce, se l’intimità del microcosmo freudiano si fonde perfettamente nel paradigma del macrocosmo dantesco? Scrive Maria Corti nel commento al lavoro di Eugenio Montale Esposizione sopra Dante: «…l’oggi nel contesto montaliano significa un’epoca conturbante, soglie di un nuovo Medioevo di cui non possiamo ancora intravedere i caratteri, civiltà soggettivistica e fondamentalmente irrazionale, dove la voce dell’oggettivismo e razionalismo poetico dantesco compare come compaiono i miracoli.». Non è quindi solo mia la convinzione che, grazie alla intuizione di Freud – la soggettività umana fatta di razionale e irrazionale – l’uomo d’oggi sia in una posizione privilegiata di consapevolezza del proprio esistere. Scrive invece Montale «…la voce di Dante oggi può giungere a tutti come mai forse avvenne in altri tempi e come forse non sarà più possibile nel futuro […] Perciò la Commedia è, e resterà, l’ultimo miracolo della poesia mondiale, donde il suo carattere di dono al mondo, un dono che presuppone la dignità di chi lo riceve». Come recuperare questo dono? Freud fatica a scendere dal divano e a incamminarsi per le strade del mondo, Dante resta ancorato ai banchi di scuola: il loro tentativo di riproporre il paradigma cosmico con le parole dell’intimità del qui e ora sembra non avere eco. Il paradosso dell’uomo post-moderno è che conosce bene l’enigma della Sfinge, e sa rispondere, ma poi resta inerte, accasciato ai suoi piedi, nella contemplazione auto-consolatoria della propria risposta. Il rischio è di essere divorato dal mito dell’auto-interrogarsi che non è altro che il mito della Sfinge, creatura di se stessa. Dante e Freud sanno che l’uomo ha bisogno di una guida per non perdersi nell’auto-inganno, in un auto-interrogarsi senza fine. Dante lungo tutto il suo viaggio allegorico non si è mai perso, e non è mai stato perso di vista dalla sua guida; Freud ha cominciato il suo viaggio esplorativo dell’inconscio all’ombra dei suoi maestri, proseguendo con tanta angoscia da solo, ben cosciente della fatica dell’essere in solitaria ascesa. Entrambi hanno però focalizzato tutto il loro contributo geniale, scientifico e culturale, sulla costruzione delle immagini ineguagliabili della guida e dell’adiacenza, quello che io ho chiamato con le parole semplici della nostra infanzia: ‘prendimi per mano’. Purtroppo, spesso, molti che si sono atteggiati a guide si sono persi, essi stessi, nell’onfalocinesi delle loro amenità, continuando a girare attorno al proprio ombelico. In trent’anni di lavoro clinico ho sentito crescere sempre più la richiesta di aiuto a pensare e trovare il senso – la direzione – del proprio cammino. Nel contempo il mio girovagare per altri lidi mi ha permesso di constatare l’universale inadeguatezza, numerica e strutturale, delle risposte e dei rispondenti. Riportare perciò Dante nei pensieri, e tra le mani – fare cioè della Divina Commedia un manuale di vita quotidiana – dell’uomo d’oggi mi è sembrato un modo semplice e concreto per aiutare chi cerca una guida schietta, affidabile e sicura. Credo che sia possibile trovarla dentro le parole nodali che possono sciogliere con destrezza le congruenze e le incongruenze della nostra cultura occidentale. Il pensare riflessivo e introspettivo che nasce da un testo di sapienza universale può e deve aiutare a sfuggire ai tranelli dell’auto-inganno, della contemplazione auto-consolatoria, dell’auto-referenzialità, i tranelli di quella sublime rappresentazione mitologica che è la Sfinge. Il pericolo era però quello di perdermi io stesso nell’onfalocinesi delle mie conoscenze auto-confirmatorie, esercizio questo in cui molti ‘psi’ brillano per incomparabile acriticità. Ho così sentito il bisogno di avere anch’io una guida che mi evitasse le paludi del tecnicismo, i circoli viziosi quanto noiosi delle ripetizioni e delle spiegazioni, i manierismi gergali un poco stantii e alquanto incomprensibili, le presunzioni educative nonché le prediche salvifiche. Ho perciò chiesto a Beatrice, anche lei ha voglia di capire e di conoscere, di darmi una mano, di ri-prendermi per mano. Mi conosce come analista, quindi attento all’uomo interiore; mi conosce come curioso dei luoghi della scienza e della conoscenza, dove vengono messi a confronto oriente e occidente, il sapere sull’uomo e il sapere sulla natura, l’aborigeno e l’uomo dell’era quantica. È curiosa e sincera; fa proprie ‘le cose’ prima di rispondere, interrogando se stessa prima di dare risposte agli altri, ascoltando il cuore quanto la mente. Anche lei cerca una guida, per seguir virtute e conoscenza, qualcuno che offra cibo per la sua mente avida di sapere, ma vuole anche uno scambio: dare e ricevere allo stesso tempo apertamente e schiettamente. La sua mente è tesa a guardare in alto, ma vive la vita di ogni giorno. Vive le categorie mentali e le vicissitudini della natura con la stessa passione con cui legge ogni pagina che parla della conoscenza interiore, della psiche nel senso freudiano del termine, cioè dell’anima, ma la legge attraverso il cuore e le passioni della sua anima. Insieme abbiamo deciso di costruire qualcosa da condividere con tutti. Abbiamo così intrapreso questo lavoro in cui io interpreto Dante con gli occhi di Freud, delle mie esperienze di formazione, del lavoro clinico quotidiano con chi si è perso nei gironi infernali dell’esistenza, della ricerca empirica e audace, mentre lei legge Dante con gli occhi di chi ama il sapere su di sé, di chi cerca la verità, di chi è spaventato dal tempo lungo dell’ignoto ma sa aspettare per capire. In due, così diversi, abbiamo voluto sortire – e speriamo di esserci riusciti – uno stile sobrio e denso, ma al tempo stesso scorrevole, chiaro e semplice, capace di scendere all’interno di quel tempio, sia esso di Delfi o di Gerusalemme, che ciascuno di noi si porta dentro. Dante e la psicoanalisi I l presente lavoro non vuole essere né una rivisitazione critico-letteraria o psicologica, né un’esposizione edulcorata della Divina Commedia, né tanto meno un nuovo commento; diamo anzi per scontato che Dante sia già stato letto, almeno per sommi capi, che la sua opera sia nota. Seguendo passo passo la Divina Commedia, l’intento è quello di rileggere Dante con gli occhi, i desideri, le paure, le ansie, le vicissitudini e le inquietudini del lettore di oggi. L’occhio psicoanalitico consiste, infatti, nel saper scorgere quegli elementi universali, tanto al di là del tempo e dello spazio, quanto ben presenti nell’hic et nunc, dell’animo umano come Freud ci ha insegnato a leggerli, nei dettagli che si annodano e snodano nell’agire e nel parlare quotidiano. Non vuole essere nemmeno un trattato di psicoanalisi a portata di mano, una banalizzazione di quella che è, anche se non appare e spesso proprio per colpa dei suoi adepti, invece una scienza solida e densa, pur non avendo ancora mostrato la reale ricchezza metodologica ed epistemologica che porta in sé. Se qualche termine ci sfuggirà senza che avremo dato una spiegazione in ‘volgare’, alla Dante, cioè accessibile a tutti, abbiate pazienza, ma non faremo un glossario. Ci piace l’immediatezza di un’intuizione, la presa di contatto vivo con il testo e con le emozioni che suscita (la testa sollevò dal fero pasto ci deve far sentire subito la brama distruttiva fatta di rabbia, odio, vendetta senza fine che lega il persecutore e il perseguitato annodati dalla bestialità), il sentire senza remore che spinge verso il capire, lo stare accanto al testo fin che sentiamo diluirsi in noi, come nella catarsi dei drammi greci o delle danze cerimoniali degli aborigeni australi, i sentimenti che corrodono l’anima. Questa vuole essere la nostra lettura del testo dantesco: un’immersione fisico-emotiva nell’immaginario poetico che eleva, ma non soffoca, la concretezza delle volgarità della sopravvivenza; una comprensione empatica dell’Io verso il suo Sé peregrinante tra le grandezze e le miserie della condizione umana; una visione disincantata quanto tragica e ironica delle mostruosità dell’animo umano che stempera la crudeltà della sopraffazione nella speranza della condivisione. “Prendimi per mano, ti prego”, sembra essere il richiamo dell’uomo d’oggi, richiamo tanto più acuto quanto più fragile è la sua natura. Nella letteratura psicoanalitica non sono mancati autori che hanno dato una loro lettura del testo dantesco, lettura che nasce dalla loro esperienza clinica. Dante e il suo viaggio con la sua visione del reale quotidiano immerso nel macrocosmo socio-teocratico, è un momento di riflessione che corre parallelo alla ricerca e alla comprensione dell’uomo, alla tecnica terapeutica, come alla costruzione teorica. Dante sembra porsi per loro, così come si è posto per me, come un supervisore semplice e spontaneo, patriarcale e a-temporale del nostro interagire con le sofferenze dell’umanità distratta o dimenticata, rifiutata o soffocata, persa o violentata nel suo bisogno di libertà. Chessick (2001) vede in Dante il poeta della pietà e della compassione, del razionale e dell’irrazionale, dell’empatia e della comprensione per chi ha violato le leggi divine. Chessick compara questa dimensione dantesca, altamente umana, con certe rigidità tecniche degli psicoanalisti d’oggi che impediscono di accostarsi all’uomo individuo, che non è l’uomo delle leggi o l’uomo delle teorie. Sobel (1996) enfatizza il concetto del ‘ruolo di Virgilio’ che deve avere chi si prende cura del paziente nel suo viaggio attraverso l’inferno personale della malattia. Szajnberg (1996) rapporta il concetto di alleanza terapeutica con le esitazioni che Dante ha percepito in Virgilio e lo connette con l’idea di processo maturativo di Winnicott e di funzione autonoma di Hartmann. De Monticelli (2000) sostiene che l’esperienza dell’ira, per come è vissuta nell’inferno dantesco, sia una giusta espressione dell’indignazione e quindi una passione dinamica, capace di rispondere a molti interrogativi dell’umana avventura nel male del mondo. Hatcher (1990) sottolinea le rassomiglianze tra la polisemia dantesca, come tecnica di ritrovamento e attribuzione di significati, e la polisemia psicoanalitica come tecnica interpretativa; sottolinea anche il valore autobiografico della Divina Commedia come auto-riflessione e auto-realizzazione. Dante e Freud P rima di entrare nell’esplorazione del testo dantesco per ripercorrere il cammino dell’uomo nella sua faticosa ricerca di ciò che ha smarrito, sia come individuo che come membro di una comunità storico-culturale, intratteniamoci su alcune corrispondenze che stanno a fondamento sia della visione umanistica di Dante, sia della concezione della vita psichica di Freud. Passiamone in rassegna solo alcune, quelle che sembrano presenti in tutta la Divina Commedia come nella prassi della relazione analitica, allo scopo di caratterizzare elementi sempre presenti e che di volta in volta verranno ripresi e ampliati. La pìetas dantesca, l’amorevolezza analitica Una delle caratteristiche dell’atteggiamento di Dante, specie verso i dannati, è la pìetas, la capacità di accostarsi con compassione, oggi diremmo con empatia, ai sentimenti delle persone per quello che sono, al di là delle rispettive etiche. Paolo e Francesca o il conte Ugolino vengono presentati nella perpetrazione della loro colpa, ma senza condanna, senza spregio o derisione. L’uomo rinascimentale è l’erede del mistico medioevale che vive nell’unione uomo-Dio il senso di tutte le cose, del bene e del male, della vita e della morte. Il mistico sta al di sopra dell’etica, della politica, della storia che si snoda nella concretezza quotidiana. Egli osserva ciò che si muove sulla terra come pura e inappellabile espressione della simbiosi uomo-Dio, scevro da ogni contaminazione. La pìetas dantesca porta in sé questa visione medioevale, ma la fa propria dell’uomo, la spoglia cioè della fusionalità percettiva che caratterizza il mistico offrendo all’uomo la possibilità di essere il libero artefice, la rappresentazione e la magnificazione della divina sapienza. Dante intuisce che ora il compito dell’uomo è l’umanizzazione di Dio, il silenzio di Dio è vissuto come assenso; tocca quindi all’uomo farsi carico della compassione divina, portare sulla terra il suo sguardo misericordioso. Giustizia e misericordia sono complementari: convivono ma non si sovrappongono. Dante si accosta all’uomo in pena come uomo di comprensione, proprio come l’analista si accosta al suo paziente, colpevole e sofferente per i suoi crimini reali o più spesso ideali, solo con lo sguardo della sollecitudine e della benevolenza, con atteggiamento di amorevolezza. L’atteggiamento neutrale dell’analista non è affatto una forma di distacco emozionale, come spesso si crede, bensì quella capacità di astenersi empaticamente da ogni valutazione etica personale per immedesimarsi nella gioia e nel dolore, nel piacere e nella disperazione, nell’angoscia e nella pace di chi ha deciso di lasciarsi prendere per mano. “Figliol mio, – dice l’analista/ Virgilio – io ci sono, sono qui: le cose ti fier conte quando… sarà il momento.”. Questo sguardo che si astiene dalla superficialità dell’esteriore e del visibile, ma che si immerge nelle acque profonde dell’inconscio invisibile, oscuro e torbido, non può essere uno sguardo assente. Negli abissi dell’anima, secondo l’eredità dei mistici, solo lo sguardo amorevole, partecipe e incondizionatamente presente, può scorgere ciò che nessun altro vede. Ma questo è appunto il compito dell’analista. Per vedere l’uomo ha bisogno della pìetas-amorevolezza. Senza di essa Dante non avrebbe regalato all’umanità quelle dense pagine di poesia sull’amore tenero e ingenuo di Paolo e Francesca, sull’impeto ribelle di Ulisse, il Galileo della Grecia antica, sulla terrificante vendicatività di Ugolino di fronte a cui non si può non sentire i fremiti, spesso soffocati, che si agitano dentro chi legge. Senza pìetas-amorevolezza un analista non raggiungerebbe mai quell’intimità, oserei dire – sull’onda dei mistici – divina, che gli permette di far sentire al suo paziente che lui è lì, nel luogo segreto della vergogna e dell’ignominia, della paura e del dolore, della violenza e della malvagità, del desiderio e del piacere proibito o perverso, dell’auto-soppressione e della morte. Il libero arbitrio e la fuga dalla libertà Tutta la costruzione dantesca è basata sulla teologia della libertà: l’uomo è libero nelle sue scelte, è artefice del suo futuro e della sua salvezza. Può accettare o rifiutare il dono divino, come può usare o disdegnare la ragione (Virgilio), la grazia (Beatrice) o la contemplazione (San Bernardo), le tre idee guida di ogni avventura umana, di chi vuol seguir virtute e conoscenza. Per Dante l’idea che l’uomo ha bisogno, necessita di una guida significa che l’uomo deve saper riconoscere la propria insufficienza, proprio come per Freud l’uomo deve saper riconoscere i propri limiti, la propria caducità, la conflittualità tra le istanze istintuali e le richieste sociali, tra l’immediata soddisfazione del desiderio e la sua procrastinazione per realizzazioni più elevate. Senza libertà non c’è salvezza, come non c’è la dignità propria dell’uomo, quella sua piena realizzazione che lo fa simile agli dei (Voi sarete come dei, E. Fromm). Ma questa libertà è anche la sua più grande fatica. La fatica della dignità si evita con la fuga dalla libertà (sempre E. Fromm); rifugi psichici o sociali, regressioni infantili o fusionali, fughe in avanti o voli megalomanici, tutto un bagaglio di mezzi che l’uomo si procura per sfuggire al difficile, e a volte duro, compito di esistere. L’ Inferno I nferno è parola a volte usata per descrivere la vita. ‘Vita d’inferno’ si dice di un momento o di un lungo periodo di angoscia, disperazione, rabbia, impotenza; il destino sembra abbattersi sulla persona in modo assurdo e catastrofico, ma, soprattutto, senza un apparente motivo. Le cose vanno male, senza una reale corrispondenza o, più spesso invece, si sa da dove e da quando la sventura ha iniziato ad accanirsi contro l’individuo. Ma tutto ciò è un inferno in apparenza. Coscienti della propria fatica di vivere, si può essere stanchi di una particolare situazione o di un evento che ci ha costretti a cambiare i nostri piani, a uscire da una situazione di comodità o di spensieratezza, nel senso letterale del termine, essere senza pensieri, che nel linguaggio comune vuol dire non avere preoccupazioni. Ma l’essere senza pensieri, nel senso di non riuscire a metter la testa, a stare con la testa nelle cose di tutti i giorni, è in realtà il vero inferno. Più o meno arduo può essere per un individuo cogliere il senso del proprio cammino, più o meno carico di paure e ansie il pellegrinaggio, il passaggio, l’esodo su questa terra; più o meno soggetto a perdite, traumi o imprevisti di ogni sorta lo stare e l’andare con gli altri: in ogni caso l’inferno è il non riuscire ad avere coscienza di dove, come e con chi stiamo condividendo la fatica del cammin di nostra vita per cui dobbiamo tornare indietro nel tempo per trovare dove e il momento in cui la diritta via è stata smarrita. L’inferno è quindi sia un cammino a ritroso nel nostro Io-Sé, per cercare di scoprire dove abbiamo cominciato a rinunciare alla nostra libertà, sia l’essere in questo stato di non-presente dove il passato condiziona ogni nostro agire impedendoci di pensare il nostro qui e ora. Che cosa abbiamo commesso nell’Eden della nostra infanzia da pagare tanto cara la nostra prerogativa di soggetti liberi e costruttori del nostro avvenire? Questa retroattività, questo tornare indietro nel ripetersi incessante di eventi sostanzialmente immutabili, è una caratteristica della civiltà ebraico-cristiana. Canto I Parole chiave Canto I La selva oscura e l’incontro con Virgilio Dedica A chi si è smarrito tra le insidie dell’esistenza Il canto dell’uomo Alla ricerca della conoscenza del senso della propria vita Atmosfera Cupa, a tratti luminosa Parole centrali Movimento, dire, deserto Sentimenti Paura, solitudine Contenuto primario Smarrimento Contenuto consequenziale Le tre fiere che impediscono la ricerca della verità e della bellezza Stato mentale Confusione Contrapposizioni Smarrimento / Ritrovamento Le tre fiere / Le tre donne Oscurità /Luce Collegamenti Ma per trattar del ben ch’i vi trovai (Inferno, I, 8) Ch’io perdei la speranza dell’altezza (Inferno, I, 54) Note particolari L’avidità, la bramosia e la cupidigia del potere come matrice della sofferenza esistenziale La selva oscura e il maestro I l primo è il canto dello smarrimento, il canto che ci parla del nostro inesorabile destino di uomini finiti, delle nostre paure e ansie, dei pericoli che si annidano dentro di noi prima che fuori di noi. Non per nulla questo canto è al di fuori delle trentatré cantiche che ci raccontano il viaggio di Dante, pellegrino lungo i sentieri della cosmologia interiore cristiana. Esso è il canto dell’interiorità umana pre-cristiana, dell’interiorità universale propria dell’uomo creato a immagine e somiglianza di un dio che gli ha dato la libertà, ma non la pre-conoscenza, non l’onniscienza. La morte può arrivare in ogni momento, irreparabile evento senza ritorno o ripensamenti che getta l’uomo nelle braccia immense e imprevedibili dell’ignoto, prerogativa cui nemmeno gli dei sembrano sottrarsi. Nel corso della sua evoluzione mentale e culturale, l’uomo ha imparato a costruire una divinità non a sua immagine e somiglianza, ma a immagine e somiglianza dei suoi desideri e dei suoi bisogni, di ciò che più lo tormenta e lo angoscia: l’oscurità del non sapere. Le caratteristiche del dio o degli dei che l’uomo si è costruito sono lo specchio dei suoi sogni illusori: il conoscere il bene e il male, conoscere le conseguenze delle proprie azioni, conoscere il proprio destino, conoscere la propria interiorità; non a caso l’albero della tentazione è l’albero della conoscenza e l’albero, nelle culture, ha sempre rappresentato la conoscenza. Vivere in questa dimensione ontologica unica richiede quel coraggio che Ulisse, i tanti Ulisse da Omero in poi, impersona. Il coraggio di andare oltre, di non fermarsi, di cercare e di affrontare ogni giorno quest’ignoto, è la causa prima dell’angoscia umana. In questa continua incessante quotidiana opzione tra il non pensare e il porci di fronte all’ignoto, la mente può trovarsi spaventata, confusa, persa, annichilita, incapace di risollevarsi se si ferma, rallenta o cade. Questo è il canto dell’intimità ferita, della consapevolezza annebbiata, della solitudine vacillante sull’orlo del baratro, del vuoto senza apparente via d’uscita. Qualsiasi uomo che ha messo al centro della propria esistenza la conoscenza di se stesso si è trovato, prima o poi, in questo spaventoso, angosciante silenzio del pensiero. Questo è anche il canto della perdita, perdita ripetuta, dell’angoscia e della disperazione di chi teme, non avendo più nulla, di dover perdere oltre al lavoro, la famiglia, la patria, gli onori, anche la propria identità; è l’angoscia di Dante in esilio, evento che spoglia l’uomo di ogni sua dignità. È il canto della paura, dell’impotenza, della solitudine, del silenzio di Dio e del prossimo, il canto dell’uomo moderno sempre più perso nell’apatia di chi lo circonda, nella rinuncia di chi lo dovrebbe aiutare. Ma chi può in realtà aiutare se tutti siamo ontologicamente simili? Si chiede aiuto quando, come bambini, ci si è persi nel bosco dei sentimenti e degli affetti, nei meandri del narcisismo di massa o dell’inutilità malamente nascosta dietro la falsa solidarietà; si chiede aiuto per la caduta in basso causata dall’auto-inganno perpetrato oltre misura, per la speranza che il rifiuto percepito non sia reale: “Ci sarà qualcuno a questo mondo disposto a darmi una mano!”. Ouverture Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita. (Inferno, I, 1-3) V ersi che conosciamo fin dai banchi delle scuole elementari, che abbiamo recitato magari con dileggio o saccenteria, ma che ci troviamo ad apprezzare solo quando ne comprendiamo l’intensità emotiva attraverso la nostra personale esperienza. Ci si ritrova a un punto senza uscita, spesso davanti alla sponda di un fiume, in cima a una scala, sull’orlo di un precipizio, con la pallottola in canna o la corda al collo; ma anche con la casa vuota, gli amici scomparsi, l’ansia che prende alla gola, il cuore che corre forte e sembra impazzito o, ancor più drammaticamente, non sai più chi sei, che cosa c’è dentro di te, chi ti circonda. È questo l’essere nel mezzo del cammin, in una selva oscura dove non si sa dove andare. Il buio è la rappresentazione di questo momento di sconforto e di scoraggiamento, a cui si contrappone la luce delle stelle alla fine del XXXIV canto dell’Inferno e la luce dell’ultimo canto del Paradiso. Il cammino della vita, quindi, è il passaggio dal buio, dall’incertezza e dall’oscurità della mente fino al ritrovamento della luce; il presupposto è il coraggio di riconoscere i propri limiti e le difficoltà in cui ci troviamo. A ciò si contrappone infatti spesso la presunzione di saper far da soli, pensare che nessuno ci possa aiutare, che tanto prima o poi ce la faremo, che tanto gli altri non ci possono capire, che tanto non serve a niente far tanta fatica. Ancora, alla soggettività di Dante, mi ritrovai, spesso si contrappone un’oggettività generica: è capitato a tanti, tutti fanno così, sono cose che capitano e così via. Dante ci richiama subito a questa dimensione dell’onestà soggettiva, al riconoscimento di essere in difficoltà e, implicitamente, al bisogno di qualcuno che ci dia una mano o, addirittura, ci prenda per mano, come vedremo nel canto III, dedicato al rapporto tra Dante e Virgilio, tra il paziente e il suo terapeuta. 1. L’inferno è nel pensier Ah quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! (Inferno, I, 4-6) L a matrice di ogni richiesta di aiuto è l’esperienza del dolore. Dante sembra averne una conoscenza diretta e personale: dura, aspra, forte che solo a pensarci ti viene la paura. Freud dirà che è talmente dura che viene rimossa. Ovviamente non ci si aspetta che Dante anticipi così palesemente Freud; dicendoci che è nel pensiero che sta la durezza, l’asprezza, il buio, la paura di vivere, ci dice che l’inferno è dentro il nostro pensiero e dentro la nostra mente, che l’inferno sta dentro quel ‘noi’ che chiamiamo ‘il nostro mondo interno’. Questa è una delle grandi metafore della Divina Commedia. È l’esperienza interiore fatta da Dante in conseguenza dell’esilio, della perdita traumatica di ogni bene e avere, dagli affetti famigliari ai beni materiali, anche primari, ma soprattutto di quelli culturali. È abbastanza certo che se non ci fosse stata l’esperienza dell’esilio di Dante non ci sarebbe stata la Divina Commedia, in quanto, pur utilizzando e esperienze concrete e storiche della sua vita e del suo tempo, ciò che lui in realtà racconta è la rappresentazione di come queste situazioni esterne risuonino nel suo pensare, nella sua anima/mente, quella che i greci chiamavano psiche. È il vissuto interiore, con le sue paure, le sue angosce, i suoi slanci, i suoi desideri, le sue passioni e le sue frustrazioni, la vera trama del cammin di nostra vita. Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’io vi trovai, dirò dell’altre cose ch’i’ v’ho scorte. (Inferno, I, 7-9) È un cammino così amaro che addirittura fa pensare alla morte, fa pensare a quello che spesso si sente dire da un depresso: è meglio morire che vivere così. Ma ecco subito il tocco positivo, la contrapposizione che accompagnerà sempre, anche nei momenti più bui, l’esperienza umana e poetica – gli ultimi canti dell’Inferno – di Dante: nonostante tutto, ci dice, io ti racconterò del bene che ho incontrato, che ne ho tratto. L’insegnamento secondario è che, nonostante l’asprezza e la fatica del cammino, o forse proprio grazie a esse, ogni sofferenza è fonte di un bene, che è ciò che ci porta lentamente alla luce, a riveder le stelle. Ecco come finiscono le tre cantiche. E quindi uscimmo a riveder le stelle. (Inferno, XXXIV, 139) puro e disposto a salire alle stelle. (Purgatorio, XXXIII, 145) l’amor che muove il sol e l’altre stelle. (Paradiso, XXXIII, 145) Ho voluto aggiungere, in appendice, perché lo abbiate a portata di mano in modo da poter conoscere i confini di questa esperienza, il Paradiso, Canto XXXIII, ultimo della Divina Commedia, esaltazione e rappresentazione della luce, come bene/ bello, fonte di ogni speranza. Il tema della buona speranza sarà un altro grande tema, specialmente dell’Inferno, che ci indica il valore interiore più semplice e di più immediata e facile percezione. Ma vediamo subito che cosa intende Dante per bene riportando due terzine di questo canto. La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate. (Paradiso, XXXIII, 16-21) Ecco che cos’è il bene irradiato dalla bellezza di psiche: è la dimensione della premurosità materna che liberamente al dimandar precorre ed è composto da misericordia (non giudicare ma capire), da pietate (che è il patire insieme, l’empatia) e dalla magnificenza, che è il senso della delicatezza, del non far pesare le proprie modalità di vita e di pensiero. Queste sono le peculiarità della bontate presente in ciascuno di noi. Dante, che è passato accanto alle eresie medioevali, certamente ne ha subito l’influsso e penso ne abbia interiorizzato le implicazioni più importanti. È un laico che porta dentro di sé l’esperienza della paternità; assieme alla premurosità materna essa ci addestra alla capacità di anticipare il senso dei bisogni. Questa dimensione prettamente umana ci porta a pensare a un Dante che vede in Dio un dio misericordioso, un dio che non condanna mai drasticamente, tant’è che nel profondo dell’inferno c’è un pertugio da cui si può salire alla salvezza e attraverso cui passa dell’acqua fresca, simbolo di vita. Anche nella brutalità oscura e gelida più profonda dell’inferno, come vedremo, Dante trova il senso della bontà dell’universo. Io non so ben ridir com’io v’entrai, tant’era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai. (Inferno, I, 10-12) Un altro aspetto che Dante mette in evidenza è il sentimento di confusione che spesso proviamo quando abbiamo smarrito il senso della nostra vita, dei nostri desideri, dei nostri bisogni; non solo, sottolinea anche la presenza di quel lasciarci prendere dall’autoinganno che ci porta ad abbandonare la verace via. Dante ci ricorda subito che spesso preferiamo non vedere; non vedendo oggi, non vedendo domani, è ovvio che prima o poi ci si trovi nella confusione della selva oscura, pronti a difendere il proprio irresponsabile agire, dicendo che eravamo pieni di sonno, ossia incapaci di intendere. In realtà il nostro comportamento era la scelta deliberata di non vedere la fatica del cambiamento, di non attuare quel capovolgimento di vedute di cui sentiamo il bisogno. In quattro terzine (Inferno, I, 4-12) Dante ci ha già dato un quadro semplice, sintetico e preciso dello stato d’animo in cui ci sentiamo quando siamo finiti in uno stato d’impasse, a seguito di scelte non fatte, di cose non dette, di opzioni rinviate; insomma, quando abbiamo preferito starcene comodi e placidi sul nostro sofà invece che affrontare i duri sentieri del vivere. Avremo occasione di vedere e rivedere queste cose, per ora buon viaggio. FINE ANTEPRIMA Segui emuse www.facebook.com/emusebooks Twitter.com@emusebooks www.emusebooks.com Per parlare con noi: [email protected]