Vita a Sabbione

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Vita a Sabbione
gian marco griffi
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VITA A SABBIONE
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A Paola,
e a Roby
Avvertenza
Non è intenzione dell’autore promulgare in alcun modo il suicidio, né promuoverlo.
Egli – l’autore – è profondamente convinto che la vita sia meravigliosa.
Pertanto tutto l’infernale, grottesco, fantascientifico mondo che troverete nelle pagine di questo libro non rispecchia minimamente (o in modo trascurabile) il nostro bellissimo Pianeta Terra, ma è frutto di un’immaginazione deviata o, se preferite, di una cattiva digestione prolungata.
g.m.g.
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Sarai mentre
che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone
Dante
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PREGHIERA AGLI EDITORI
Caro Editore,
ormai da dodici anni sono prigioniero di una città chiamata
Sabbione.
Di questi, gli ultimi cinque li ho trascorsi in un appartamento
ammobiliato a scrivere, ad attendere l’uomo dell’Ufficio Turistico
e a osservare il vento, ancora e ancora, mentre stimola la biancheria, i calzoni, le lenzuola; mentre solletica i bulletti del quartiere, giù
in strada, fuori dal bar per fumare; mentre inturgidisce i capezzoli
delle ragazzine quando escono dal liceo.
Sempre il vento. Mi accompagna. Di tanto in tanto mi stringe.
E sempre qui, in questa casa al quarto piano di un condominio logoro, sul copriletto che fu di mia madre, dove ho lasciato le mie
tracce; macchie perlopiù, di sperma, piscio, sudore vario.
I miei aguzzini mi trattano bene, non posso certo lamentarmi, e
talvolta mi concedono addirittura brevi incursioni oltre i confini
della città. Ma tali incursioni sono esperienze fugaci e non del tutto
piacevoli: quasi sempre mi concedono la libertà solo
per permettere che io mi occupi di bollette da pagare, del dentista da prenotare, di golfisti da far giocare per accaparrare quel tanto denaro bastevole a pagare le bollette, il dentista, il gasolio che
permette alla mia Fiat Bravo di condurmi nel luogo in cui faccio giocare i golfisti per accaparrare il denaro.
Io sto provando a fare quello che i cittadini di Sabbione mi
chiedono: essi pretendono che io li descriva, li narri, li tratteggi, li
illustri; bramano che il mondo là fuori si accorga di loro, della loro
civiltà, dei loro usi e costumi: per questo motivo mi hanno incaricato di redigere una serie di resoconti sulle loro questioni.
Nello specifico ciò è quanto mi ha imposto l’Ufficio Turistico
di Sabbione il giorno in cui mi fece prelevare all'uscita della palestra Zerottanta di Asti, in Monferrato, un giorno in cui avevo praticato un’attività conosciuta col nome di pilates.
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Racconta la nostra terra, le nostre questioni, mi dissero. Ho trascorso i primi sette anni a integrarmi con la cultura sabbionassa,
con la legge locale, con le ossessioni e le manie dei cittadini di questa terra. Non sono questioni molto diverse dalle questioni degli
abitanti di qualunque altro posto. Cionondimeno essi si arrogano
la presunzione di infrangere l’involucro di immaterialismo che, dicono, li caratterizza, e di palesarsi per quello che realmente sono.
Le questioni dei sabbionassi sono questioni per certi versi assai
buffe, per altri assai mostruose, per altri ancora assai ordinarie.
Del resto per qualcuno buffa è la vita, per altri la morte, per altri
ancora la poltrona di stoffa scozzese e la luce che barbaglia nella
stanza accanto a quella degli ospiti, eternamente scura come
l’inchiostro. Quella che mia sorella ripulirebbe da cima a fondo, se
solo non fosse morta.
La ricordo bene, mia sorella, ma non voglio indugiare su di lei.
Neppure di quando cagava sul pavimento di mattonelle grigio
chiare. E neppure del suo morsicare la gommapiuma con la dentiera nuova per testarne la consistenza.
Ho le croci su per il culo, diceva, i batacchi per il melograno a tenere su la
gonna.
Si credeva ebrea, mia sorella, chissà perché.
Al diavolo il seder, diceva, il tu-bishvat, gozzovigliate con vino e frutta
per poltrire su donnacce e animali, maiali che non siete altro.
Era cattolica, ma se ne vergognava. E sgobbava tutto il giorno
come un mulo. Io al contrario poltrisco spesso, non me ne vergogno affatto, e non ho il dorso come quello di un mulo. Ho le dita
putrefatte dal fumo, i calcagni consumati dall’immobilità, un letto
con una trapunta ispida e infeltrita come quella dei cani.
E ho questo incarico scomodo e raccapricciante: far conoscere
Sabbione al mondo intero.
Ignoro le ragioni per cui i sabbionesi abbiano deciso di affidare
a me un simile oneroso còmpito. Ho cercato di spiegargli in tutti i
modi che esistono migliaia di persone più indicate: scrittori, registi,
drammaturghi, pittori, fotografi, poeti, tragediografi, commediografi, giornalisti, musicisti, cantautori, radiocronisti. Li ho supplicati affinché cercassero di mostrarsi al mondo per mezzo di altre
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forme, o quantomeno per mezzo di altri uomini o donne più capaci di me, ma non c'è stato nulla da fare.
L’uomo dell’Ufficio Turistico ripete che il loro cronista devo necessariamente essere io.
Passa da casa due volte la settimana a ritirare il materiale.
Quando viene a farmi visita non ci salutiamo. Raramente scambiamo qualche parola. Io gli offro un caffè, fumiamo una sigaretta,
gli consegno il materiale.
Il materiale sono queste cronache, resoconti, racconti, pamphlet, volantini pubblicitari riguardanti Sabbione e i suoi cittadini.
Io dico “Chiamami Molloy”, ma lui non capisce e continua a
chiamarmi come vuole.
L’uomo dell’Ufficio Turistico non ha mai espresso un giudizio
sul materiale che gli consegno. So solo che non posso smettere di
produrlo – il materiale – fino a quando quelli dell’Ufficio Turistico
non saranno completamente appagati.
Ciò si verificherà nel momento in cui riusciranno a trovare il
modo di far leggere il materiale a quanta più gente possibile fuori
dei confini di Sabbione.
Ritengo che il loro obbiettivo sia quello di stampare un libro
contenente tutto il materiale che ho prodotto in questi anni, e che
ancora sto producendo, al fine di propagandare il loro territorio. Quando saranno riusciti in quest’impresa io sarò finalmente libero di tornare a casa da mia moglie, dai miei pochi amici, dal resto della mia famiglia.
Almeno questo è quanto mi hanno garantito.
Nel frattempo sono prigioniero a Sabbione, e ultimamente non
ho neppure più il desiderio di uscire di casa. Prendo aria sul terrazzo, fumo, bevo scotch liscio, guardo quello che succede in strada o
nel cortile interno del palazzo.
Guardo dalla finestra, a volte dallo spioncino della porta, attendendo l’uomo dell’Ufficio Turistico. La meccanica di una porta è
apparentemente semplice. Eppure nasconde ingranaggi invisibili
all’occhio umano, ruote dentate, spire e concatenamenti inammissibili per una mente non istruita. Chi mastica di carpenteria sa di
cosa sto parlando. Ma forse quello di cui sto parlando non è la
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porta. È quello che sta fuori. Case, specialmente, ed esseri umani
che si affannano e si arrabattano, discorrono gli uni con gli altri, si
sforzano in ogni modo di comunicare, esprimere, riferire.
Io, ormai, non provo alcun piacere a parlare.
L’ho fatto capire, a chi mi sta intorno, anche se nessuno vuole
darmi retta. Continuano tutti a domandare, pretendendo che
io apra bocca per comunicare con chiunque: l’idraulico,
l’elettricista, il dentista, il falegname, il vigile, il barista, ecc.
Ma io mi sono abituato talmente bene nel silenzio, coi miei
pensieri, che ormai anche quando penso sono fermamente convinto di parlare, solo più prudentemente. Ormai fatico a sopportare la
mia voce in una stanza o anche in un giardino, o in chiesa, le rare
volte che ci vado.
E così penso e scrivo. Non che faccia pensieri di chissà quale
caratura, questo è vero, tuttavia penso e scrivo. E ho cercato di
farlo capire in tutti i modi, a chi mi ronza intorno, che non voglio
più pronunciare una sola sillaba.
I miei pensieri li potrei paragonare a un bozzolo, un involucro
grezzo. Hanno le virgole, i punti. Sono sempre stato molto pignolo
su questo genere di cose. E comunque la prontezza di deduzione
non è mai stata una mia prerogativa. Ho bisogno di rimuginare sulle parole, o per meglio dire, sulle ombre delle parole che i pensieri
suscitano. Ma questo ormai non è più un problema. Non riesco
più a distinguere un aggettivo da un altro, un avverbio da una particella nominale, le preposizioni mi intralciano. Anche i verbi mi
danno qualche problema. Ma, mi sono detto, si fottano i verbi.
Questo mi sono detto. E poi, chi si dovrebbe indignare? Andate a
farvi fottere, mi sono detto. E mi ripugna essere così poco composto, così licenzioso, così poco attento a un certo savoir faire che
senza falsa modestia mi ha sempre contraddistinto. Ma ne ho il culo pieno, e la testa, di verbi, pronomi e altre diavolerie lessicali.
Alla fine si finisce sempre così, mi sono detto, a piangersi addosso e a lamentarsi di tutto, a pensare oddio sono quel genere di uomo.
Questo mi sono detto, o meglio ho pensato, subito dopo aver
consegnato il materiale all'uomo dell'Ufficio Turistico l’ultima volta.
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Cara Paola, cari mamma e papà, cari amici,
vi inserisco brevemente nella presente missiva per comunicarvi
che a Sabbione, nonostante tutto, mi trattano bene. Non dovete
preoccuparvi. Le mie facoltà mentali sono ancora piuttosto buone,
e quelli dell'Ufficio Turistico si prendono la briga di mantenere il
mio tenore di vita accettabile. Ho perso trenta chili, questo è pur
vero, ma si tratta del frutto di una dieta equilibrata e di una sana
alimentazione, e non, come qualcuno ha sostenuto, di trascuratezza o peggio ancora disagio. I capelli grigi, se non sbaglio, li avevo
già prima del sequestro, e la barba incolta è un mio vezzo. A Sabbione operano barbieri eccellenti e professionali, inoltre nei supermercati posso trovare numerose marche di rasoi, schiume, after-shave. Se porto la barba lunga e i capelli spettinati è perché mi
va di farlo.
La mia forma fisica, vedete, è ammirevole. Mi permettono anche di praticare sport.
Il mio sport preferito è gettare pietre nella grande fontana sotto
la finestra di casa. Le pietre le raccolgono per me i cittadini di Sabbione. Sono costretti a farlo, dal giorno in cui minacciai l’Ufficio
Turistico di non produrre più materiale se non mi avesse procurato le pietre in qualche modo. La pigrizia, a Sabbione come ad Asti,
è la dote che più d’ogni altra mi contraddistingue.
Ora, per tornare al mio sport preferito, ne esistono due varianti.
La prima consiste nel far guizzare le pietre a pelo d’acqua. Conquista la vittoria chi riesce a lanciare la pietra che riuscirà, mediante
uno o più guizzi, a inabissarsi nel punto più distante. Tale variante,
per quanto piuttosto celebre, è obsoleta, e mi annoia a morte.
La seconda variante consiste nel gettare una pietra in acqua affinché susciti il maggior numero di anelli. In questa variante, apparentemente meno faticosa, sono molto più bravo.
Ha regole precise, non si pensi che sia frutto della casualità: bisogna reggere in mano la pietra e tenersi a una debita distanza dalla
finestra, prima di lanciarla. La distanza non la saprei quantificare in
metri o centimetri; è data dalla graffiatura provocata dalla mia seggiola sul legno del pavimento. È molto importante, la distanza.
Gettando da più lontano, infatti, si otterrebbe una maggiore velo9
cità, così che la pietra, entrando in acqua più velocemente, susciterebbe un maggior numero di anelli.
Un’altra regola fondamentale è quella che riguarda la modalità
del lancio. Qui le regole non transigono. La pietra non può essere
scucchiaiata, trascinata o spinta, ma deve essere lanciata portando in
un primo momento il braccio all’indietro, verso l’alto, e successivamente gettandolo in avanti e rilasciando la pietra dal pugno
chiuso al momento opportuno, con un movimento che ricorda vagamente quello del giavellotto.
Comunque questo è il mio sport preferito. Mi tengo i risultati a
portata di mano, proprio qui, di fianco alla mia poltrona, segnati
sopra un taccuino dalla copertina nera. Il 27 ottobre ho suscitato
37 anelli col braccio sinistro. Un primato. Il 4 novembre, poi, un
lancio perfetto da 38 o 39 anelli almeno, da parte del braccio destro, è stato invalidato da un’infrazione alla regola più infranta,
quella della corretta modalità di lancio.
Insomma, me la spasso alla grande.
Ciononostante comincio ad accusare i primi sintomi di una
stanchezza, fisica e psichica, difficilmente riassumibile in poche parole. Una stanchezza che, mi si conceda il termine, è quasi nausea.
Pertanto, caro Editore, mi rivolgo a Lei affinché conceda all'Ufficio Turistico di Sabbione il privilegio di veder pubblicizzata la
propria terra mandando alle stampe il materiale (o parte di esso)
che sono stato costretto a compilare in questi ultimi anni di sequestro; in tal modo, tra l’altro, potrà compiere una buona azione: restituire a un povero diavolo la libertà di frequentare la propria famiglia e i propri amici in maniera completa e assidua, perlomeno
prima del prossimo, inevitabile, sequestro.
Cordialmente
gian marco griffi
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INDICE
VITA A SABBIONE
Giungendo a Sabbione
Partendo dal nostro Paese e andando tre giornate verso ponente giungemmo alle porte di Sabbione, città con sessanta torri medievali, statue in bronzo di uomini giganteschi, vie lastricate in
porfido, un palazzo ottagonale, un tacchino d’oro che urla al tramonto dalla caditoia d’un bastione.
Tutte queste bellezze il visitatore già conosce per averle viste
sui libri, o in televisione.
Ma la proprietà di avvicinarsi alla città fisicamente è che chi vi
giunge per strada in un pomeriggio inoltrato di Luglio, traversando il fiume Atanor – ch’è di colori sgargianti e fragranze smisurate – con il tramonto limpido sulle lontane Alpi, può odorare gli
aromi di vitello tonnato e fenolo aleggianti nell’aria, può lambire
alberi e siepi di plastica dura appena lucidata, può udire il vociare
della gente per i viottoli e le piazze cittadine, dove uomini e donne
s’arrabattano all’uscita dalle friggitorie, dai bar, dalle agenzie divinatorie1.
1. Citato da Italo Calvino, Le città Invisibili, minime variazioni2.
2. Ispirato da Marco Polo, Il Milione, minime variazioni3
3. Ispirato da Donald Barthelme, Paraguay, minime variazioni.
***
Svoltammo a destra seguendo lo svincolo autostradale e ci immettemmo in una strada ampia complicata dal traffico automobilistico; di fronte a noi un grande cartello bianco e sullo sfondo le
torri, la sagoma di un palazzo, un temporale distante. Sabbione era
discinta di fronte a noi, calda come un pomeriggio caldo d’estate4.
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4. Citato da Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?, minime variazioni.
Segnaletica Stradale
Il cartello riportante la scritta Sabbione ha dimensioni 234 cm.
x 177 cm., è posto all’altezza di 3,33 metri dal terreno.
La scritta Sabbione è in carattere Tahoma, maiuscola, nera su
campo bianco:
SABBIONE
Non c’è spazio per ornamenti superflui, pedanterie storiche o
altre informazioni (es. popolazione, altitudine, latitudine, tradizioni,
ecc).
È diretta ed essenziale, senza edulcorazioni o impegni (es. benvenuti a…, la città del…, gemellata con..., ecc.).
Un comitato di Benvenuto
Fui accolto da un comitato di benvenuto.
Mi pareva piuttosto strano che in una città dell’era ipertecnologica, una città in cui il tasso di criminalità è elevato almeno quanto
il tasso di criminalità delle altre città dell’emisfero boreale e il tasso
di indifferenza è più elevato che in molte delle città dell’emisfero
boreale fosse attivo un simile comitato.
Eppure c’era. Era lì, di fronte a me, poche centinaia di metri
dopo il cartello segnaletico riportante la scritta SABBIONE.
Quattro persone in uniforme portavano strumenti al collo e
stavano strimpellando una qualche musica che non riconobbi. Un
distinto signore dall’aria annoiata teneva un microfono nella mano
sinistra; un paio di ragazze erano in piedi accanto a lui.
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“Benvenuto a Sabbione!”, esclamò il signore distinto dall’aria
annoiata. La banda strimpellò qualcosa. Le due signorine avanzarono verso di me e mi porsero un pieghevole fitto di scritte e note.
“Grazie”, dissi, poi riposi il pieghevole nella tasca interna della
giacca.
“Quello è il Libro delle Prime Impressioni su Sabbione”, disse
il signore distinto indicando un grosso tomo dalla copertina marrone. “Si avvicini e scriva la sua prima impressione”.
Nell’arco di cinque minuti ero solo, sull’argine sinistro di un
fiume viola, a guardarmi intorno per cercare di trovare una prima
impressione da inscrivere per sempre sul Libro delle Prime Impressioni su Sabbione.
Estrassi la penna stilografica dal taschino e aprii il libro prudentemente; un paio di ragazzi mi stava salutando (presumibilmente)
dall’argine destro del fiume, ma io non me ne accorsi.
Com’è fatta la città di Sabbione (prima impressione)
Da un primo sguardo alla città si ricava un’alternanza irregolare
di rumori prodotta da fasci di sintagmi fonetici di forte spessore
fonico con leni a far da contrappunto.
L’estensione della città (ricavata dalle uscite autostradali, da
un’occhiata attenta all’orizzonte) corrisponde all’incirca a settecento pagine, riga più riga meno. Le suddivisioni amministrative sono
all’incirca sessanta, ognuna recante una sorta di segnaletica verticale o titolo.
Il Centro, con i negozi e le piazze, ha una struttura evidente per
i tratti forti e aspri accentuati dalla divergenza tra idioletto, lingua
aulica, esperanto e tecnicismi.
Il fatto importante che si evince dalla scalettatura in quartieri (o
racconti) è che l’organizzazione complessiva fonetico sintagmatica
ha delle cesure omologhe ai momenti principali dell’intreccio.
Vien da dire che è il fonema, o il linguaggio, a creare la città.
Non esiste una “non città” che viene abbellita con una qualche
forma eufonica. Il rapporto di continuità, sintagmaticità e in una
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parola la concatenazione (metonimia) sono il nucleo poietico della
città di Sabbione.
Altre prime impressioni
...una puzza insopportabile...
...territorio bellissimo che è stato gradualmente deturpato...
un magnifico profumo di violetta
...il parapetto pedonale del ponte non rispecchia le misure standard
previste dai requisiti di sicurezza stradale...
Non mi viene in mente niente!
Una seconda impressione
Addentrandosi in Sabbione si nota che il cittadino è inizialmente non definito, e solo dopo approfondite ricerche viene introdotto l’uomo come attore, poi ulteriormente specificato come essere
umano, che paradossalmente è anche il cittadino.
Un narratore produce resoconti senza mai intervenire a parlare
di sé, ma in modo impersonale.
A Sabbione lo scambio frequente di prospettiva che si crea tra
narratore, attore, attante, cittadino, suicida, anziché creare confusione o ambiguità, produce un’aurea duttile e vicina al narratario,
senza orpelli, descrizioni magnificenti o solipsismi a organizzare le
fila del “discorso architettonico della città”, o piano regolatore.
In alcuni luoghi deputati (per es. bar, locali, edifici pubblici) la
vicinanza tra narratore, narratario, cittadino e città stessa.
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Sabbione, pur essendo meravigliosa, o fantastica, è allo stesso
tempo misurata, sobria, talvolta paratattica. Mai due aggettivi per una
strada o una piazza, mai forzature avverbiali dei cittadini. Tutto
succede come se tutto fosse normale, usuale, già conosciuto in altre
città.
La cittadinanza è solita utilizzare registri da logica formale ma
anche volgari. Anche il macellaio o il vigile urbano.
I lavori necessari a Sabbione – ma superflui in altre città – (es.:
agenti di Nettezza Umana, Divinatori) sono comuni e nobili allo
stesso tempo.
Il Palazzo Ottagonale e la Cattedrale di San Giuda, così come
le azioni di molti cittadini sabbionesi, di forme squadrate, cubiche,
futuristiche, emergono nel cielo afoso di luglio come una licenza
poetica, eppure una licenza poetica non dotta, quanto piuttosto
un’infrazione popolaresca.
A Sabbione il tempo dei verbi avrebbe dovuto essere sempre al
presente, ma l’influsso della tecnologia, le rivendicazioni storiografiche e le esigenze urbanistiche hanno costretto i costruttori a utilizzare sovente il passato remoto, l’imperfetto, il futuro/futuro
prossimo, ecc.; in qualche rara eccezione anche il trapassato prossimo.
Una colazione in un bar di Sabbione, nei pressi del centro storico, permette al turista una forte vicinanza all’architettura globale.
Un venditore di case sabbionese
Ho conosciuto un venditore di case sabbionese di nome Averson. I suoi movimenti erano misurati, senza dar l’impressione di
invadere la prossemica dell’interlocutore.
Sembra proprio che le serva una casa dove stare, mi ha detto.
Può darsi, ho risposto io.
Si dà il caso che io abbia precisamente quello che fa al caso
suo, ha detto lui.
Conclusione sulle impressioni (prima e seconda)
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Crediamo di non sbagliarci, anzi, ci siamo fatti via via la convinzione abitando in un appartamento del centro di Sabbione, che
gli stilemi essenziali della città siano quelli del periodare realistico
o verista, e questo a disdoro dell’ambiente bizzarro del contesto
cittadino.
I procedimenti del realismo, sì son resi asettici anziché essere
applicati al mondo popolare, ma mostrano la vita di Sabbione nelle sue sfaccettature.
Il referente parzialmente favolistico, il contesto fortemente
strutturato dalle svariate marche metonimiche, un codice vulgato,
offrono alla nostra vista una città fortemente realistica, quasi verista.
Esperanto
I cittadini di Sabbione sono - congenitamente - deterministi; il
loro linguaggio e le derivazioni del loro linguaggio - religione, letteratura, metafisica - presuppongono il determinismo. La lingua,
per loro, altro non è che un concorso di parole prestabilite e immutabili; l’esperanto, secondo gli esperti, soddisfaceva tutti i requisiti necessari al determinismo esistenziale – quasi fatalismo, mi
verrebbe da dire – dei sabbionassi. Quod scripsi, scripsi (Giovanni
19,22). Pertanto fu scelta come lingua ufficiale dal Governo sin
dai primi anni ‘305.
5. Citato da Jorge Luis Borges, Tlon, Uqbar, Orbis Tertius, in Ficciones, minime
variazioni.
A Sabbione ufficialmente non esistono idiomi e dialetti, né tantomeno slang o registri linguistici diversi dall’esperanto.
I cittadini non conoscono del tutto il vocabolario della propria
lingua, di conseguenza quando hanno bisogno di esprimere un
concetto del quale non conoscono il correlativo lessicale, essi lo
inventano seduta stante.
Solitamente, l’interlocutore finge di comprendere e annuisce.
Spesso alcuni concetti semplicemente non esistono, non essendo
inclusi nel vocabolario esperanto. Anche in questi casi i cittadini
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architettano parole che per assonanza potrebbero significare il
concetto che intendono esprimere.
L’invenzione di parole è totalmente illegale e punibile con sanzioni pecuniarie o detenzione (nel caso di più parole all’interno di
una frase); ma poiché i cittadini conoscono solo una esigua porzione del vocabolario esperanto, nessuno si azzarda a denunciare
un concittadino “per aver inventato un vocabolo”, giacché ignora
se quel vocabolo esista o meno.
Le prassie verbali a carico di bocca, faringe e laringe a Sabbione
sono più stressanti rispetto a qualunque altro posto nel mondo:
per tale ragione i sabbionassi sono soliti praticare soventi risciacquature del cavo orofaringeo, esercitazioni per le corde vocali, ecc.
Per esempio: due tizi si incontrano nei pressi di una piazza.
Il primo domanda: andiamo a prendere un caffè? (Ni iru preni
kafon?).
Il secondo risponde: sì, ma prima devo passare in ferramenta
per comprare una brugola. (jes, sed unue mi devas iri al la aparataro
vendejo por ačeti Allen čosilo).
Il secondo tizio ignora i vocaboli esperanti per esprimere i concetti di ferramenta (aparataro) e di brugola (Allen čosilo), perciò inventa due parole.
È come se dicesse: sì, ma prima devo passare in chizzacheria
per comprare una curvachella.
Il primo tizio finge di aver compreso, annuisce e si appresta a
seguire il secondo tizio.
Qualcuno ha notato che questa inventiva lessicale priva di disciplina è precisamente ciò che il Governo vorrebbe evitare, nonché l’esatto opposto del determinismo, ma a Sabbione nessuno ne
se cura.
Per rendere il linguaggio più fruibile, in esperanto le questioni
complicate o spinose sono state abrogate. La manifesta inutilità
del congiuntivo è stata normata con la soppressione definitiva della forma verbale.
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Per esempio: Credevo che il treno arrivasse sul secondo binario
si dice Mi pensis, ke la trajno alvenis al la dua kanto, che letteralmente
significa Credevo che il treno arrivava sul secondo binario.
Nella forma scritta si aggiunge una virgola per caricare di rilevanza ciò che il soggetto potrà pensare.
Nella giovane letteratura esperanta sabbionese romanzi, racconti, piéces teatrali e poesie sono scritti con utilizzo frequente di
vocaboli inventati dall’autore, e pur tuttavia i cittadini di Sabbione
li comprendono perfettamente.
Quando incontrano un vocabolo oscuro/indecifrabile essi non
si curano di comprenderne il significato: semplicemente ne escogitano uno.
Lo stesso accade per le opere letterarie tradotte da altre lingue.
Il traduttore, quando non conosce l’equivalente esperanto di un
vocabolo straniero, ne concepisce uno.
Nel momento in cui il lettore non riesce a decifrare quel vocabolo escogita un significato a suo piacimento.
Per questa ragione a Sabbione ciascun lettore ha letto storie
completamente diverse pur leggendo lo stesso libro.
Per il lettore A Dante comincia il proprio viaggio dall’Inferno e
lo conclude in Paradiso, per il lettore B lo ha cominciato dal Paradiso e lo ha concluso all’Inferno, ecc.
Ecco spiegato il motivo dell’amore dei sabbionesi per Finnegans
Wake di Joyce.
Nondimeno, constatate tali questioni riferite al linguaggio esperanto, a Sabbione parlano tutti l’italiano.
Politica
Il Gerarca del Sabbionasso non sta simpatico a tutti, ma per
dio, nessuno è perfetto.
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Egli abbonda di attributi manchevoli nella quasi totalità degli
esseri umani: la sua arroganza infatti è alterigia principesca, la sua
avidità è brama impetuosa e regale, il suo sprezzo per le norme è
solenne noncuranza delle questioni popolane. I sentimenti che
nell’uomo comune risultano grossolani, volgari, inopportuni, nel
Presidente assumono connotati leggiadri e raffinati, impreziositi
dalla sua aura autoritaria.
In particolar modo il Gerarca è solito ironizzare sui propri difetti, valere a dire le orecchie dolcemente appuntite, le spalle appena appena troppo strette, il naso adunco ma armonizzato con
l’ovale del volto.
Il Gerarca del Sabbionasso è alto all’incirca centocinquantasette
centimetri alla spalla, ma grazie al suo incedere eretto (secondo i
maliziosi beneficia di qualche artifizio meccanico) i cittadini lo
percepiscono alto almeno centosessantacinque centimetri. Le sue
marcate occhiaie, di colore bluastro, sono il risultato delle sedute
di lavoro sfrenato cui si sottopone, nonostante il parere contrario
del suo Psicologo di Palazzo, il quale gli ha consigliato lunghi periodi di relax.
Ma il Gerarca abomina il relax, non tollerando la noia, e si concede soltanto una passeggiata cittadina durante i fine settimana.
Il Gerarca passeggia per le vie del centro ogni sabato pomeriggio, preceduto dal simbolo Gerarcale per eccellenza, un Grande
Fallo Priapesco in legno pregiato trasportato da quattro portatori
negri, quattro portatori rumeni, quattro portatori albanesi. La prima cosa che salta agli occhi è l’immenso codazzo, la cui lunghezza
complessiva è di tremiladuecento cubiti; esso – il seguito, il corteo,
il codazzo – comprende sei mazzieri presidenziali, tre vessilliferi
dipartimentali a cavallo condotti da palafrenieri (rappresentano il
Corpo dei Verificatori, il Corpo degli Agenti di Nettezza Umana,
il Corpo di Igiene Sociale), diciotto tamburini di palazzo, cinquanta musici da soggiorno, ventisette balestrieri di reggia, nove convogli dell’Ufficio Suicidi & Festività®, nove convogli militari, nove
roulotte attrezzate, una carrozza ristorante, un carro allegorico
rappresentante Urano che divora i propri figli.
Il Gerarca passeggia circondato da uomini in completo blu di
Persia, gli occhi allegri ma inespressivi. Il suo volto solitamente è
nascosto da una maschera rituale riproducente un bafometto cen19
troamericano. L’atteggiamento del Gerarca è grintoso, buondio,
che altro? Grintoso e determinato.
Spesso la folla scandisce a gran voce il suo nome, giacché è la
folla, il popolo, ad averlo democraticamente eletto.
Al momento della loro nomina i Gerarchi debbono ripudiare il
proprio nome e assumerne uno che sia confacente al prestigio della carica che rappresentano.
I Gerarchi si chiamano (ord. alf.):
Anassilao
Augusto
Cipselo
Dario
Fortunato
Francisco
Girolamo
Iosif
Leopoldo
Mahmud
Nicolae
Periandro
Pittaco
Policrate
Reynaldo
Serse
Sussistono numerosi altri nomi, ma questi sono i più apprezzati. I possessori di tali nomi garantiscono con il proprio carisma
l’ordine e l’uguaglianza, e giurano di sottomettersi alla legge sabbionassa sulla virilità.
***
Quotidianità.
La scrivania del Gerarca a prima vista è sobria, in legno pregiato. In un angolo una foto ingiallita dei figli e una pila di libri legali,
dall’altro una piccola scultura rappresentante Shulpae, grande diodemone della sterilità. Il Gerarca è appassionato di mitologia e
possiede duecentosedici riproduzioni di bafometti, dee-madri, di20
vinità oltretombali, demoni. Sa che un popolo appagato è un popolo che non si oppone.
Alle spalle del Gerarca una grande finestra permette alla luce
naturale di invadere lo studio, mentre di fronte alla scrivania, sopra la porta d’ingresso, domina la scena un olio su tela del ‘500,
raffigurante un imprecisato vecchiardo colto nell’atto di scudisciare un nugolo di donne gravide.
Sul lato destro dell’ufficio si trova l’ingresso alla zona massaggi
personale, dotata di thermarium e di piccola palestra portatile, una
riproduzione delle Terme di Caracalla con materiali originali
d’epoca trafugati dalle vere Terme di Caracalla e un enorme bagno.
A lato della porta d’ingresso, contro il muro, un archivio conserva trentanove volumi contenenti i nomi di tutti i dipendenti
pubblici passati e presenti (con tanto di fototessera identificativa),
ordinati secondo i seguenti impieghi:
Funzionari Ministeriali
Responsabili di Reparto
Verificatori di primo, secondo e terzo livello
Agenti semplici di Nettezza Umana
Ispettori di Nettezza Umana
Dipendenti del Ministero Suicidi & Festività®
Divinatori Pubblici
Il Gerarca sfoglia le pagine del libro nono, DI – DZ (per esempio): egli fissa attentamente le fotografie di un gruppo di dipendenti scelti a caso; è orgoglioso di compitarne i nomi ad alta voce,
poiché, sostiene, in tal modo sente di partecipare ai ben più miseri
destini dei propri sottoposti. Egli così rammenta, di tanto in tanto,
la sua vita precedente alla nomina, non senza un moto di commozione6.
6. Citato da Niccolò Morelli di Gregorio, Pasquale Panvini, Biografia degli
uomini illustri del Regno di Napoli, alcune variazioni.
“Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”
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Una cosa che si impara subito a Sabbione (è anche scritta nel
pieghevole che mi è stato consegnato nel momento in cui ho varcato le porte immaginarie della città) è che due cose debbono
riempire
l’animo
dei
cittadini
sabbionassi
di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto
più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo
stellato sopra di noi, la possibilità del suicidio dentro di noi.
Queste due cose i cittadini di Sabbione non hanno bisogno di
cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte
nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del loro orizzonte;
essi le vedono davanti a loro e le connettono immediatamente con
la coscienza della loro esistenza7.
7. Citato da Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, minime variazioni.
Ma il suicidio non deve essere un gesto brado, illecito, vergognoso; esso è regolamentato da precise norme poetiche, artistiche
e scientifiche, quali sono le norme della divinazione. Il futuro è
scritto, basta saperlo leggere. E se c’è una cosa, soltanto una, cui i
cittadini di Sabbione credono fermamente, tale cosa è che un oroscopo ben stilato, una divinazione scientificamente esposta, sono
inconfutabili.
Una passeggiata lungo il fiume
Una passeggiata lungo il fiume che taglia Sabbione può risultare un’esperienza...beh insomma...un’esperienza.
Specialmente se manchevoli di...
Con le scarpe che...
I vestiti...
Il fiume Atanor, che attraversa il Sabbionasso da nordovest a sudest, si guadagnò l’onore di entrare nel novero dei dieci fiumi più inquinati del mondo a partire dagli anni ’80, quando una fabbrica denominata AGCA (Agenzia Gerarcale Coloranti & Affini) iniziò lo scarico sistematico di tinture, metalli pesanti, sostanze chimiche e tossiche nelle sue acque, causando mutazioni dell’ecosistema e determinando il caratteristico fenomeno dell’acqua policroma fosforescente
tanto ammirato da bambini e turisti.
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Nonostante i timidi tentativi di bonificarlo, grazie a fosforo, ammoniaca, nitrati, fenoli, mercurio, contaminanti batterici scaricati
quotidianamente nelle sue acque dalla AGCA, ancora oggi, secondo le
stime dell’OMS, l’Atanor conserverebbe la quarta posizione nella
classifica dei dieci fiumi più inquinati del mondo, appena dietro il Citarum in Indonesia, il Matanza-Riachuela a Buenos Aires e il Lanzhou in Cina8.
8. Citato da Luca Prauer, Scarichi e inquinamento idrico dopo il T.U. ambientale, minime
variazioni.
Cosa si fa a Sabbione
Giro l’angolo e qualcuno sta per saltare da un palazzo di dieci
piani.
Urla: è una bellissima giornata! Una bellissima giornata!
Mi saluta come se stesse partendo per un lungo viaggio.
Morire è un lungo viaggio?
Forse è una questione di punti di vista. Probabilmente si tratta
di pochi secondi. Un breve spostamento. Come passare da una
stanza all’altra, come passeggiare in strada e incontrare un tipo che
si è dato fuoco per qualcosa.
Domando: per quale motivo ti sei dato fuoco?
Se n’è dimenticato.
Domando: come ti è venuto in mente di cospargerti di benzina,
tirare fuori dalla tasca dei jeans uno zippo e accenderti come un
minerva?
Lui non sa o non risponde. Continua a bruciare, semplicemente. I brandelli della camicia gli ondeggiano nelle vicinanze come
coriandoli, o farfalle.
Dico: parliamo un po’.
Non mi pare che abbia particolarmente voglia di fare conversazione. Tuttavia accetta di accomodarsi su una panchina. Le panchine di Sabbione hanno una consistenza ottima, e non sono infiammabili. Non prendono fuoco.
Di cosa si può parlare con un uomo che sta bruciando?
Non ne ho idea.
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Scusi tanto, dico, ma in questo momento non mi viene in mente niente. Inoltre ho un appuntamento.
Comunque gli stringo la mano vigorosamente, perché mi pare
che il suo sia un gesto di notevole profondità. Tra l’altro è anche
molto poetico.
È una giornata bellissima. Il sole illumina la città come se fossimo in una réclame, o in un romanzo che inizia con la frase “era
una bellissima giornata di primavera”.
E oggi è una bellissima giornata di primavera.
Non ci sono neanche i venditori ambulanti, sebbene il toro invisibile che sovrasta le città di mezzo mondo deve aver eiaculato
di fresco, generando centinaia di militari che avanzano lungo i
boulevard come alunni in gita scolastica. E sono anche abbastanza
ordinati.
Ah, l’ordine. C’è sempre ordine laddove ti costringono a fare
ciò che non vorresti. Il disordine è una cannonata, nel senso che è
magnifico, ma non troppo spesso.
Un uomo molto distinto attraversa sulle strisce e grida che il
disordine fa schifo, fa schifo, fa schifo!
Un altro gli risponde che ha veduto per le strade della città un
numero emozionante di stronzi di cane ordinati come in una parata militare.
Nessuna differenza tra stronzi di cane e militari quando sia i
primi che i secondi sono ben organizzati, dice.
L’uomo molto distinto torna indietro e sputa in terra.
È un atteggiamento deprecabile, specie per un uomo molto distinto.
C’è una bambina che saltella sul marciapiede e mi fa ciao con la
manina.
Dico: ciao.
Stanno giocando a campana.
Un tre cinc set!
M’incontro con Margo (è una valletta, lavora in televisione) al
bar che fa angolo da qualche parte.
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Scendo sette scalini un tre cinc set e sono al tavolo in men che
non si dica. Mi sta aspettando coi capelli sciolti, e appena arrivo se
li lega con una banda gialla.
Domando: perché?
Intendo: perché costringere capelli tanto lucidi e vivi a unirsi in
un assetto strutturato?
Lei ribatte che tutte le cose dovrebbero gioire quando si uniscono in un assetto strutturato.
Sono un po’ affranto.
Le domando se anche i nostri corpi gioiscono quando li uniamo in un assetto strutturato, e lei replica che anche i nostri corpi
gioiscono.
Penso di proporre un’unione dei nostri corpi in assetto strutturato nel mio nuovo appartamento, ma tutto sommato ritengo sia il
caso di tacere un’affermazione tanto scontata.
Un pazzo entra con una carriola ma non so dirne altro.
Cosa c’entra adesso il pazzo con la carriola?
Trasporta pezzi di pietra, macerie, qualcosa.
Si guarda intorno e parlotta col barista.
Curioso.
Cosa c’è? Non avete mai visto prima d’ora una carriola?
È una bellissima giornata come quelle delle réclame o come
quelle dei romanzi che cominciano con la frase “era una bellissima
giornata di primavera”.
Da San Giovanni il Precursore sgocciola un liquido denso che
non riesco a focalizzare. Mica facile dalla vetrata di questo bar ad
angolo. Sembra gelato al mirtillo sciolto al sole.
Margo, mi ami?
Il silenzio che segue è una cosa molto appuntita conficcata nel
mio cuore.
Nonostante i tempi sono un uomo romantico.
Dimmelo, ti prego. Sono pronto a tutto.
Margo sta ponderando la risposta.
Sarebbe troppo domandare una carezza?
Lei mi guarda e dice: sarebbe troppo.
Almeno un pizzicotto, qualcosa che dimostri il tuo affetto.
Sempre che affetto non sia una parola troppo desueta.
25
Forse l’affetto non è inesatto, ma è logoro e abusato.
Ordino una pèsca e il cameriere mi guarda storto.
Ha detto una pèsca?
Non avete pesche?
Adesso il cameriere pretende che io renda conto della mia scelta, che giustifichi in qualche modo la mia voglia di mangiare una
pèsca.
Non basta ordinare una pèsca?
Non basta, dice.
Il barista strizza gli occhi poi mi guarda e dichiara: bisogna
sempre rendere conto delle proprie azioni.
Sono un po’ confuso.
Margo ha giustificato in qualche modo il suo cappuccino?
E il tipo che trasporta la carriola carica di macerie?
L’altro giorno ho incontrato un uomo incatenato a un semaforo.
Ho detto: buongiorno.
Lui ha detto: non mi slegherò mai.
Non avevo alcuna intenzione di slegarlo, mi pareva.
Avevo soltanto salutato.
Dunque vediamo. Dovendo giustificare la mia decisione di
mangiare una pèsca da dove potrei partire?
Non è sufficiente aver appetito di qualcosa in particolare. Bisogna definire per quale motivo si ha appetito di quella cosa.
Mi pare di desiderare una pèsca giacché in questo specifico
momento storico dell’umanità considero di aver bisogno del gusto
dolce di una pèsca.
Non è ancora soddisfacente, ribadiscono.
Mentre Margo sorseggia il suo cappuccino mi domando se riuscirò ad ottenere la mia pèsca.
Magari sbucciata?
Il contatto delle labbra col pelame della buccia mi procura fastidio.
Non la ottengo.
Mi portano un bicchiere d’acqua minerale.
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Domando: perché mi avete portato un bicchiere d’acqua minerale?
Il cameriere riferisce: non siamo noi a dover fornire spiegazioni.
Il Potere si manifesta in forme bizzarre.
Sono deciso a non sfiorare il bicchiere, preferirei morire piuttosto che portarmi alle labbra quel bicchiere slavato, poi
all’improvviso cedo e con un solo sorso bevo tutta l’acqua minerale.
Questa è la natura dell’uomo.
Mi alzo in piedi e urlo: ma ci sono delle eccezioni!
Verso mezzogiorno osservo i cittadini di Sabbione che si sparano un colpo alla tempia ritmicamente, uno dopo l’altro, e crollano al suolo come tessere del domino, con autoritaria coordinazione, come bandiere abbattute.
Certe cose bisogna farle bene, o è meglio non farle affatto.
Sono disposti in fila in un piazzale del parco, e si tengono per
mano con la sinistra, mentre nella destra impugnano la rivoltella.
Gli alunni delle elementari si fermano a osservare attentamente e
con impegno: è una questione di educazione.
Una bambinetta li saluta sorridendo, e i morituri hanno appena
il tempo di ricambiare il sorriso prima di premere l’interruttore e
pum.
Sono armonizzati come le nuotatrici o le tuffatrici, come cavalli
ballerini.
Margo dice che nel mio nuovo appartamento non c’è spazio
per tenere le scope.
È una casa piccola, dice.
Mi schiarisco la voce e a pieni polmoni dico: Margo, non ti
crucciare per le scope! Vedrai che tutto si aggiusterà!
Lei mi legge l’oroscopo.
Il mio oroscopo dice che in casa mia non ci sarà mai spazio per
tenere le scope.
Non oso reagire.
Lungo il fiume è una pacchia.
Camminiamo a braccetto e i pescatori bestemmiano per via
dell’acqua inquinata.
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Oggi ha un colore perfetto.
Mi pare che sia gialla, o arancione. Si sposa a meraviglia con la
banda tra i capelli di Margo.
Margo è bellissima, e io le compero una pannocchia fritta.
Siamo allegri.
La signora che vende le pannocchie dice: signore, perché è così
allegro?
Io le domando se crede che dovrei essere un po’ più triste e
lei risponde sì, dovrebbe.
Sul piano regolatore della città
Non è un mistero che i cittadini sabbionassi adorino uccidersi
all’aria aperta, specialmente durante la bella stagione. Lo si legge
negli occhi della gente comune: uccidersi in primavera, precipitando da una torre romanica (che meravigliosa metafora della morte,
e romantica, per di più), o da un tetto prospiciente il Palazzo Presidenziale (la morte fallica, sul baratro della nullità, dirimpetto e
sull’attenti nei confronti del Potere Assoluto), impiccandosi a un
ciliegio-perennemente-in-fiore Playmobil o a una quercia secolare
in plastica aromatizzata (che profumi, che colori!) al Parco Sintetico Märklin, lasciandosi travolgere da una decappottabile rossa
fiammante lungo i boulevard del Centro Burocratico Futurista
pieno di vetrine (la moda, sempre la moda), è molto meglio che
uccidersi d’inverno, in un vecchio alloggio pieno videocassette anni ‘80, imprecando contro il senso dell’Impero, contro la Famiglia,
contro le Forze Armate, ripensando alla buffonesca ilarità di un
gesto che qualcuno filosoficamente vorrebbe messaggio indirizzato all’altro-da-sé, ma che per i sabbionassi è mera legge morale e
civile. Eppure si consideri la città di Sabbione nella sua vasta architettura simil-ventennio, come mitologema urbano sviluppatosi
tra guglie affilate, levigati portici e perigliose torri romaniche, magazzini e fabbriche dove si deteriorano capelli di donna e maschie
epidermidi, voluttuose sopraelevate che avvolgono semafori atrofizzanti, palazzi erti nello spazio come glandi priapeschi, piazze
geometriche e strade equidistanti, viali circolari, prismici boulevard, porfidi cubici e mattatoi trapezoidali. Per non parlare
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dell’architettura sacra, immersa in eventi arcaici di scapestrata bellezza, tra gargoileggianti mostri acchiappafemmine e bronzei santi
scacazzati al centro di loggiati secenteschi, e dell’architettura fiabesca, in cui baldi principi ubriachi s’addormentano nelle taverne
fuori porta mentre monotoni antagonisti penetrano innocue muraglie difensive, brecciose, stressate, pascolo dello scorpione e del
muschio, conquistando portali magniloquenti e parchi pubblici
ovali, panchine scrostate e vetrine sbeccate, autobus dal muso rincagnato e automobili fiammeggianti, agghiaccianti monumenti funebri e principesse vestite Prada e Dolce & Gabbana.
Ecco quindi che il piano regolatore della città, multiforme intrallazzo di campanili arieggiati e tetti spioventi, doveva assecondare i capricci della popolazione, contribuendo a promuovere le
attività di suicidio®, pensando spazi adatti a ogni evenienza, considerando in primis la necessità della cittadinanza di contrarre suicidio® precipitando da palazzi, ponti e torri, rivisitando barriere architettoniche quali ringhiere, parapetti e cornicioni, promulgando
la piena libertà di slancio da parte degli aspiranti suicidi®, prevedendo scivoli sui tetti, scalette per raggiungere la sommità delle
torri, passaggi pedonali – per così dire – azzardati, in corrispondenza di una curva a gomito o tra la sommità d’un palazzo e quella del palazzo dirimpetto, balaustre conformi non più alte di sessantasette centimetri.
Tra le principali varianti al piano regolatore di Sabbione (gennaio-febbraio 1967, aprile 1981, gennaio 1989, marzo-aprile 2003) poi
commutate in progetti urbanistici tutt’ora esistenti occorre menzionare: autorizzazione a costruire una barriera d’acciaio inossidabile all’incrocio tra Viale Settima Bolgia e la Quinta Cornice
(2003), subito divenuto punto di riferimento per gli automobilisti
suicidi (a loro il marketing Presidenziale indirizzò la celebre campagna pubblicitaria Ricordati di disattivare l’air-bag!). Rinforzo per alberi alla Selva del Futurismo Letterario, unico parco pubblico con
vegetazione vera, in seguito alla comprensibile protesta del Comitato
Cittadino Autoeliminazione a Emissioni Zero, che lamentava
l’indecenza di quattordici tentativi di suicidio® falliti negli ultimi
tre anni a causa di rami spezzati degli alberi del parco. Deviazione
delle linee tranviarie A e F, al fine di rendere più agevole un tipo di
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clausola 99 considerato desueto (gettarsi sotto al tram) e per qualche decennio addirittura proibito (il Censimento Suicidi Annuale
rese noto che nell’ottantatré percento dei casi il suicida falliva la
clausola 99, e nel novantaquattro percento dei casi conseguiva
fratture e mutilazioni varie), ma che oggi, dopo il varo di mezzi
con rostro anteriore e con ruote trancianti certificate dall’Ufficio
Suicidi & Festività, è tornato prepotentemente in auge.
Costruzione della variante di dislivello che prevede il sommovimento, tellurico e acquatico, del moto ondoso del fiume Atanor,
all’interno della Selva del Futurismo Letterario, in maniera ch’esso
risulti quantomeno impetuoso; troppi candidati suicidi hanno fallito l’agognata morte-per-acqua nel morbido letto del nostro fiume.
L’inserimento di rocce artificiali contribuirà inoltre a facilitare
schianti e possibili cause di decesso.
Largo Ezzelino da Romano, un tempo vagamente circolare,
oggi è a forma di quadrilatero asimmetrico per meglio esprimere il
senso degli spigoli (anche se i cittadini lo chiamano affettuosamente il cuore nero di Sabbione, tanto per la sagoma quanto per
l’enorme mole di traffico, che lo rende uno dei luoghi più inquinati della città). È in questo luogo che spesso gruppi di immigrati
orientali scelgono di porre fine ai loro disadorni giorni senza gioia
e di cercare rifugio in Un Posto Migliore.
Ancora il venditore di case
E mi dica, dice, cosa la porta a Sabbione?
Lavoro, dico.
Che tipo di lavoro? Mi domanda.
Sono un artista, dico.
Meraviglioso! Dice lui. Ho un amico artista che infila cavi elettrici nel culo di maiali vivi per accenderli.
Interessante, dico.
Le teorie umaniste prevederebbero che non si infilasse un cavo
elettrico nel culo di un maiale, dice il venditore di case, eppure dico io, ma che cazzo, è arte, bisogna fare seduta stante ciò che
l’ispirazione impone di fare.
È un punto di vista, dico io.
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Anche se mi stavo chiedendo a cosa serva accendere i maiali, dice
lui.
L’arte è arte, dico io, non serve a niente.
E lei che genere di artista è? Pittore? Scultore? Performer?
Io faccio le scenografie degli studi televisivi, dico.
Meraviglioso! Dice lui.
Fermodellismo
Il fermodellismo è un passatampo molto diffuso a Sabbione.
Anche decapitare tacchini appesi per le zampe è un passatempo
molto diffuso a Sabbione, ma è una cosa diversa.
Durante la bella stagione i cittadini escono di casa e si recano al
Parco Sintetico Märklin, dove ha sede il più grande plastico ferroviario del mondo.
Lì i cittadini di Sabbione si siedono sulle panchine di plastica,
rapiti da una sensazione di conquista: perlustrano una sfera raramente approcciata. Danno la mano al bambino interiore che li collega direttamente a Dio. Mormorano “mi dispiace, ti prego perdonami, grazie, ti amo”.
È un gradino da cui poggiando il piede, anche dolorante, i cittadini di Sabbione ricevono lo slancio per raggiungere tutti gli altri
cittadini del mondo. In questo modo essi costruiscono l’abilità di
essere artefici della propria felicità9.
9. Citato da Ihaleakala Hew Len, Ho’oponopono: ripulire il nostro mondo interiore,
minime variazioni.
Quando si alzano dalle panchine ed escono dal parco, i cittadini di Sabbione sono soliti bere un doppio scotch nel primo bar
che gli capita.
Televisione
Sono dietro le quinte del programma televisivo più famoso di
Sabbione a osservare le scenografie che ho disegnato e progettato.
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Stanno passando la reclame di una crema pelle per rendere i
polpastrelli più lisci.
Con Glysolid Super Glicerina i vostri polpastrelli sdruccioleranno sulla
griglia di Ruzzle come l’olio!
Una voce fuori campo dice: cinque, quattro, tre, due, uno, in
onda.
Uno schermo pulsa e spara la parola applausi nello studio.
Il pubblico applaude.
Il conduttore dice: Bentornati a Ruzzlemania amici telespettatori!
Lo studio è illuminato come da progetto, le truccatrici hanno
appena sistemato il fondotinta ai concorrenti.
Il conduttore dice: stiamo per assistere a un evento epocale. Sarebbe meglio storico? Memorabile?
Una voce fuori campo dice: taglia!
Il regista dice: epocale non mi pareva malaccio.
I cameramen si grattano la testa.
Il conduttore dice: non saprei.
Un cameraman dice: ma chi cazzo se ne frega.
Il regista dice: epocale va bene.
I concorrenti sono sormontati da due enormi teleschermi sui
quali vengono proiettate le griglie di Ruzzle.
I teleschermi dicono: Vocabolari Garzanti, parole quante ne volete!
Smaltomania Pupa, smalti per unghie, le vostre unghie sempre curate per le
partite a Ruzzle in compagnia!
Il presentatore dice: o forse no?
Uno schermo pulsa e spara la parola applausi nello studio.
Il pubblico applaude.
Il campione ha lo sguardo fisso al proprio monitor, dove entro
cinque minuti comparirà la griglia del terzo round.
Il presentatore dice: vi ricordo che ai fini di Ruzzlemania sono
validi tutti i vocaboli della lingua italiana contenuti nel Dizionario
della Lingua Italiana Karkoj e Figli, tutti i vocaboli della lingua esperanta – che dovrebbe essere la lingua ufficiale di Sabbione e dintorni.
Una voce fuori campo dice: taglia!
Il conduttore dice: cazzo.
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La voce fuori campo dice: dovrebbe? Sei impazzito?
Il conduttore dice: Riprendiamo.
La voce fuori campo dice: attacca!
Il conduttore dice: tutti i vocaboli della lingua esperanta che è la
lingua ufficiale del Sabbionasso, arcaismi vari, neologismi gaddiani
e manganelliani. È così meraviglioso entrare ogni sera nelle vostre
case!
Uno schermo pulsa e spara la parola applausi nello studio.
Il pubblico applaude.
Il conduttore dice: ricapitoliamo la situazione.
Le luci dello studio si abbassano, un paio di occhi di bue inquadra i concorrenti e i risultati dei primi due turni.
Inquadratura sul conduttore.
Il conduttore dice: serata complicata per il nostro campionissimo Autobhanner, ingegnere trentasettenne di Castrocozzo; dopo i primi due round è in svantaggio di quasi tremila punti contro
il giovane Skipbrinax99, che viene dalla Romania ma è originario
di qui: 6439 punti per il Campionissimo, 9370 per lo sfidante. È la
prima volta in duecentosedici puntate che il campione dovrà iniziare l’ultimo round in svantaggio. E che svantaggio!
Inquadratura sul campione.
Il Campione dice: è dura. Ma statisticamente un simile gap è già
stato recuperato nell’ultimo round nel 3 virgola 2 periodico dei casi.
Inquadratura sullo sfidante.
Lo sfidante non dice nulla.
Il conduttore dice: ma prima veniamo a voi, amici telespettatori, e ai vostri video registrati mentre giocate a Ruzzle nei luoghi
e/o nei momenti più impensabili.
Ahi ahi Missy da Eboli, il tuo video è un po’ troppo piccante, e
ohu cos’abbiamo qui? VerryGoll che gioca a Ruzzle sfrecciando ai
211 chilometri orari in autostrada, incredibile!
Diamo spazio alla pubblicità, non muovetevi dal divano!
La bambina dice: smalto unghie Jub, ideale da sfoggiare / quando
qualcuno ti osserva giocare! / A Ruzzle, ovviamente / Il gioco più intrigante!
La donna dice: Dizionari Zanichelli, imparerai tante di quelle parole
che i tuoi avversari a Ruzzle rimarranno sconcertati!
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Il libraio dice: tre libri di Gadda al prezzo di uno! La Madonna dei
Filosofi, La Cognizione del Dolore e Novelle dal Ducato in fiamme al prezzo
di un libro di Giorgio Faletti. Hilarotragedia e Nuovo Commento al prezzo
di un libro di Fabio Volo! Offerta imperdibile!
La Crema Glysolid Super Glicerina dice: spalmami sui tuoi polpastrelli, vedrai che scivolamento!
Il Professore dice: Pubblicazioni Hobby & Work, le migliori sul mercato! In uscita nelle migliori edicole “Crociera nel Mediterraneo di Gadda VS Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster
Wallace”, due modi per vivere una crociera narrativa.
Una voce fuori campo dice: cinque, quattro, tre, due, uno, in
onda.
Uno schermo pulsa e spara la parola applausi nello studio.
Il pubblico applaude.
Il conduttore dice: E va bene eccoci tornati in studio per questa appassionante sfida.
Prima del terzo e decisivo round giochiamo con voi, amici da
casa.
Ecco la griglia di oggi: NI
CO
Trovate tutte le possibili combinazioni di vocaboli e vincete un
viaggio per due persone a Maradagal Studios, il parco tematico
dedicato all’Ingegnere! Uno stato narrativo interamente ricostruito
in plastica secondo i dettami dei più esimi filologi del Sabbionasso
e dintorni! Con escursioni nel confinante Parapagal e pernottamento all’Hotel Villa Gonzalo Pirobutirro d’Eltino!
Riguardiamo la griglia in sovrimpressione: NI
CO
Pensate che sia troppo difficile? Naaa, fatevi sotto! Avete due
minuti precisi da adesso!
Uno schermo pulsa e spara la parola applausi nello studio.
Il pubblico applaude.
Io mi faccio largo tra i cameramen e me ne vado.
Fuori Sabbione mi sembra bella, ma forse non è la parola giusta.
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VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (1)
___________________
Averson si presentò al suo Aggiornamento Obbligatorio Annuale in maniche di camicia e con un cappello panama bianco con
tesa dorata. Attese trentacinque minuti camminando avanti e indietro nella minuscola sala d’aspetto dell’Agenzia Pubblica e
quando finalmente entrò nell’ufficio due divinatori squartarono un
maiale vivo di settanta chili con un coltellaccio sterilizzato per leggerci nelle interiora il suo futuro.
Il futuro di Averson, venditore di case cinquantenne.
Le operazioni di squartamento durarono all’incirca dodici minuti, durante i quali Averson osservò i divinatori armeggiare col
coltellaccio con la stessa freddezza e precisione con cui un chirurgo adopera un bisturi.
Subito dopo i divinatori procedettero alla canonica analisi fisiognomica: utilizzarono un rinoigrometro e alcuni altri strumenti
che un venditore di case non avrebbe mai potuto conoscere;
Averson rimase immobile mentre i divinatori procedevano con le
misurazioni. Gli fu detto che la forma del suo naso, unitamente alla
conformazione delle sue labbra e all’attaccatura dei suoi capelli, mostrava in modo inequivocabile che egli avrebbe affrontato un anno
di stenti economici al limite del suicidio. Pur tuttavia le interiora
del maiale, ancora calde e putrescenti di fronte alle sue narici, che
egli coprì con un fazzoletto per riuscire a sopportare il fetore, e
nello specifico la particolare conformazione e consistenza
dell’intestino, sembravano escludere la necessità di un anticipo di
morte, palesando anzi una fortunosa coincidenza astrale che
avrebbe condotto Averson in una spirale d’inattesa serenità.
E poi ci sono le sopracciglia, disse uno dei divinatori. Queste
sopracciglia le salveranno la vita, disse.
Averson non disse nulla. Ritirò il tabulato con il testo completo
della divinazione e uscì.
35
ATACAMA
Quando si accomodarono da Kirch’s lui ordinò un gulasch e
una bottiglia di vino rosso, lei manifestò la sua necessità di diventare madre.
“Prendiamo ad esempio il marito di mia cugina Sonia, il postino”, disse lei, “quello non ha un pene propriamente detto, quello
ha un mitragliatore di spermatozoi”.
Lui osservò la situazione da un altro punto di vista, sperando
che il semplice fatto di mutare prospettiva potesse rendere lui un
uomo differente e quel momento meno insopportabile.
“Tre in una botta sola, capisci”, proseguì lei. “Tre gemelli del
cazzo”.
Lui valutò brevemente le possibili alternative a una risposta
secca e concisa.
“Credevo che avessimo stabilito di non parlarne a cena”, disse.
“Non me ne frega un corno”, disse lei. “Mi guardo intorno e
non faccio altro che vedere donne che sfornano piccoli mostri avvolti da gelatina, nient’altro che mocciosi, bambini piangenti, bavosi, puzzolenti, arroganti”.
La situazione si aggravò quando il cameriere fece ritorno per
domandare se anche la signora gradisse ordinare qualcosa dal menù del giorno o se preferisse il menù alla carta.
“Come può pensare al cibo”, disse lei, “quando ha di fronte
una donna schiava di un marito che non è in grado di renderla
madre. Quei quattro spermatozoi che ha non riuscirebbero nemmeno a ingravidare una vacca gravida”.
Il cameriere porse le sue scuse e tornò sui suoi passi.
“Forse non mi sono spiegata”, berciò lei. “Stiamo parlando di
un figlio, caro il mio Ispettore. Un figlio che, se vogliamo dircela
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tutta e nonostante ripetuti tentativi alquanto pietosi, non sei in
grado di generare”.
Lui protese gli occhi verso una tavolata composta da quattro
uomini e due donne intenti a brindare per un qualche avvenimento. Gli tremava la mano destra, e anche la sinistra faticava a restare
immobile.
“Del resto io ho provato a consultare oroscopi, mi sono fatta
predire il futuro nella migliore Agenzia Divinatoria della città. Mi
sono sbattuta. Tu invece cos’hai combinato? Ti sei fatto una sega
in quella clinica sudicia e ti sei seduto ad aspettare i risultati. Io li
so già, i risultati. Sei arido, desertico, desolato, sterile”.
“Non vuoi ordinare qualcosa da mangiare?”, domandò lui.
“Vaffanculo. Sto parlando di perdite sanguigne, cristo, di cicli
mestruali, fottuti ovuli che anziché fecondarsi si frantumano dal
mio utero e scivolano attraverso i miei peli sottoforma di epistassi
fino a inondare il mio tampax. Sto parlando di una vita priva di
uno di quei cazzo di mostriciattoli simile a quello di tua sorella,
simile a quello di mia sorella, simile a quel fottuto ciccione nano
che sta urlando come un ossesso al tavolo alla tua destra. Di questo sto parlando. Non di un maledetto intingolo con uova di storione o del tuo cazzo di gulasch”.
Nonostante l’aria condizionata faceva abbastanza caldo.
“Non credo che tu mi stia ascoltando”, disse lei.
Lui fissò un punto nello spazio di fronte a sé, un punto che
soddisfacesse i requisiti fondamentali della non presenza di donne
o bambini.
“Vuoi dirmi qualcosa oppure preferisci restartene lì imbambolato come un deficiente?”, domandò ancora lei.
“Per la puttana, Sara, mi stai facendo venire voglia di rovesciare
questo cazzo di gulasch su quella tua cazzo di faccia stravolta dal
delirio mestruale da madre-in-potenza ma fottutissimamente infeconda-in-atto”, disse lui prima di inghiottire un boccone di gulasch. Si pulì gli angoli della bocca, poi bevve un sorso del suo vino
rosso.
37
“Infeconda? Fanculo. Cosa stai sproloquiando? Lo sappiamo
benissimo che il problema è quel tuo sperma amarognolo e arido
come il deserto di Atacama”, disse lei.
Cercarono di ricomporsi.
“Il problema è la tua idea ossessiva di generare un figlio”, disse
lui.
“Io sono perseguitata dall’idea di coricarmi ogni sera accanto a
un uomo improduttivo. Cristo, ma lo vuoi capire che la gente ha
bisogno di figli? Abbiamo scopato come ricci per mesi e mesi, e il
risultato di tanto sforzo qual è stato?”, domandò lei.
“Una serie niente male di orgasmi”, rispose lui.
“È stato un paio di gonne macchiate da quel tuo ridicolo sperma e lenzuola da cambiare”, disse lei.
Fece un cenno al cameriere, che arrivò sorridente.
“Vorrei ordinare qualcosa”, disse.
“Abbiamo uno splendido trancio di tonno alla griglia”, disse il
cameriere.
“Fanculo il tonno. Forse qui non hai capito la nostra situazione. Portami un brandy, o uno scotch, o un qualunque intruglio
imbevibile che mi faccia barcollare mezz’ora prima di costringermi
a vomitare anche l’anima”, disse lei.
“Come desidera, Signora”, rispose il cameriere.
La sala era piuttosto buia, illuminata da quattro lampadari simili
a quelli delle chiese. Quando il cameriere arrivò con lo scotch, lei
ne ordinò subito un altro.
“Dobbiamo trovare una soluzione”, disse.
Lui non disse nulla.
“Una soluzione che possa garantirmi una maternità in un breve
lasso di tempo”.
Lui non disse nulla. Si limitò a seguire con lo sguardo la traiettoria di un ridicolo ometto con una fisarmonica a tracolla mentre
entrava in bagno.
“Per esempio potrei farmi scopare a sangue da tutti i tuoi colleghi. A turno, da lunedì a venerdì, il sabato solo al mattino e la
domenica riposo, tanto per essere pronta a ricominciare il lunedì”.
Lui si mangiò la pellicina di un’unghia.
“Non mi stai minimamente ascoltando, cristo”, disse lei.
38
“No”, disse lui, “non ti sto minimamente ascoltando”.
“Vaffanculo”, disse lei, e buttò giù il suo scotch tutto d’un fiato, seppur con notevole sforzo.
In quel momento lui vide entrare nel locale un uomo distinto
in compagnia di una donna e ne seguì i movimenti con lo sguardo.
Dal modo in cui stavano discutendo intuì che non avevano una
prenotazione. Prima che il caposala li facesse accomodare fuori,
lui si alzò e andò dalla coppia.
“Volete sedervi con noi?”, gli domandò sorridendo.
Sara era già ubriaca. Dondolava la testa avanti e indietro trattenendosi a stento dal vomitare sul tavolo.
La coppia, dopo un primo momento di comprensibile sorpresa, accettò l’invito. Tutti sanno che è impossibile trovare un tavolo
da Kirch’s senza prenotazione.
Dopo che furono seduti, cominciarono a osservare Sara. La sua
condizione era alquanto preoccupante.
“Forse ci vorrebbe un po’ di caffè bollente”, disse Doroteo
Umbilk sorridendo, “ma prima un altro giro di scotch”.
Fece cenno al cameriere che si precipitò con un altro bicchiere
di scotch per Sara.
“I signori cenano con noi. Per cominciare porta altri tre bicchieri di scotch”, disse.
Passarono alle presentazioni.
“Mi chiamo Bernard. E questa è mia moglie Lulu”, disse
l’uomo.
“Piacere, ragazzi. Io sono Doroteo. E questa qui è la mia deliziosa mogliettina Sara”.
Scoppiò a ridere.
Il cameriere arrivò con gli scotch, mentre l’ometto con la fisarmonica stava iniziando a strimpellarla.
Umbilk era felice di pensare che forse avrebbe potuto cambiare
vita.
“Potrei cambiare vita”, disse.
Bernard e Lulu non furono certi di aver compreso il significato
celato in quella frase. Bernard raccontò di essere primario di onco39
logia, Lulu qualcosa del genere. Il tipo ridicolo aveva esagerato
con la sua fisarmonica, e gli scimmioni di Kirch’s l’avevano sbattuto fuori a calci.
“Questo stronzo è sterile”, bisbigliò Sara, sempre più scombinata dall’alcol.
“Mia moglie, signori. Una donna malata di allucinazioni”, disse
Doroteo.
Poi entrarono alcuni personaggi imbarazzanti, tra i quali un tizio travestito da dracula che si avvicinò al loro tavolo.
“È per caso Halloween?”, domandò Umbilk. “O forse sono
soltanto io a vedere un tizio alto un metro e novanta travestito da
dracula?”.
Lulu disse che non era Halloween, ma aggiunse che il tizio travestito da dracula lo vedeva anche lei.
“Quello è un gran bel travestimento”, disse Umbilk, “non trovi
anche tu, amore?”, domandò a Sara.
“Vaffanculo, pidocchio arido”, rispose lei.
Ordinarono un nuovo giro di scotch.
Il tizio travestito da dracula sembrava un ballerino, o qualcosa
di simile. Ondeggiava per la sala, tra i tavoli, canticchiando.
C’erano altri tizi travestiti da Zio Fester, Mostro di Frankenstein, e
un’altra specie di obbrobrio che nessuno riconobbe.
Umbilk era indeciso se desiderare che il Dracula fosse reale o
se quello che stava accadendo fosse un incubo.
Sara vivacchiava con lo sguardo perso nel vuoto e la camicetta
scompigliata.
“Stanchezza, disgusto, sono concetti superati”, disse Umbilk.
Bernard e Lulu non dicevano nulla.
“Prendete quel coglione lì, travestito da dracula. Mi ha ridato la
voglia di vivere”.
Bernard abbozzò una risposta. Doroteo lo interruppe.
40
“Preghiamo”, disse.
Ci fu un bellissimo silenzio contemplativo durante il quale Sara
emise un gorgoglio, Lulu tossì, Umbilk scoppiò a ridere e il cameriere giunse al tavolo con un altro giro di scotch.
“Mi serve un bambino”, disse poi Umbilk.
“Un bambino?”, domandò Bernard.
Doroteo tentò di spiegare a Bernard cosa intendesse con il
termine ‘bambino’.
“Un neonato”, disse Bernard.
Concordarono che sì, ciò che Umbilk intendeva era un bambino reale, un vero bambino, un essere umano appena nato in carne
e ossa, leggermente sottodimensionato rispetto a un adulto, frequentemente immerdato, sbavante, piangente.
“Insomma, un cazzo di bambino”, disse Umbilk.
A quel punto era chiaro sia per Lulu che per Bernard. Sorseggiarono il loro scotch. Concordarono che per il seguito della serata
non aveva importanza quale marca di scotch stessero bevendo.
Dracula prese sottobraccio il Mostro di Frankenstein e improvvisarono un balletto.
La gente sembrava approvare.
“Che diavoleria sarebbe, questa?”, domandò qualcuno al cameriere.
Il cameriere rispose che si trattava di uno spettacolo popolare
negli Stati Uniti, presentato da una compagnia teatrale estremamente famosa in America. In esclusiva per Kirch’s, qui, a Sabbione, un gruppo di attori e ballerini di Broadway travestiti da creature orribili stava improvvisando una serie di danze, rivisitazioni teatrali, gesti scenici. La peculiarità di Kirch’s, oltre al cibo e alla raf41
finatezza dei locali, era l’organizzazione di eventi speciali a sorpresa che potessero allietare le serate degli stimati clienti.
“Naturalmente a New York questa rappresentazione si tiene a
Halloween”, concluse il cameriere.
“Naturalmente”, disse Bernard.
Lulu aveva capito che doveva trattarsi di qualcosa molto culturale e romantico allo stesso tempo.
Umbilk estrasse dalla tasca della giacca un tubetto verde.
“Signori, vi presento la pomata e l’intruglio imbevibile Spermamax™”, scoppiò nuovamente a ridere; “la pomata credo si
spalmi, e se va bene dopo tre quarti d’ora vi ritroverete lo scroto
infiammato e ricoperto di eritemi. L’intruglio imbevibile invece
provoca solo emicranie, nausea, senso di spossatezza, perdita di
equilibrio e vertigini, ma in compenso garantisce una maggiore
motilità spermatica e un volume di spermea da capogiro”. Il
ghiaccio nello scotch si scontrò col bordo del bicchiere producendo quel caratteristico rumore che fanno i bicchieri quando è presente del ghiaccio al loro interno.
“Interessante”, disse Bernard.
“Interessante, dici tu”, disse Umbilk, “peccato che procuri sofferenze incommensurabili ed esantemi anche peggiori”. Emise una
risata isterica che terminò con un violento accesso di tosse.
Sara era cotta, praticamente addossata alla spalla di Bernard.
“Non sarebbe meglio darci un taglio con le consumazioni?”,
domandò Bernard.
“Questo deserto dell’Atacama”, disse Umbilk, “dove cazzo
sta?”.
Bernard e Lulu si guardarono.
“In Sudamerica”, disse Bernard.
“In Sudamerica”, rifletté Umbilk.
“Sta nei tuoi coglioni”, sbavò Sara.
Umbilk scoppiò a ridere.
“Che succede?”, domandò Lulu.
“Mio cugino si è impiccato”, disse Umbilk.
“Mi dispiace”, disse Lulu.
42
“Ventisei anni fa”, balbettò Sara.
“Quando l’hanno trovato aveva il cazzo duro”, disse Umbilk.
Bernard e Lulu si guardarono imbarazzati.
“Il medico legale disse che era una reazione bizzarra, ma non
inspiegabile”.
Bernard fece per dire qualcosa, ma Umbilk lo interruppe ancora.
“Il prevosto disse che era l’eccitazione per una nuova vita”.
Scoppiò di nuovo a ridere.
“Lo trova divertente?”, domandò Bernard.
“Lo trovo spassoso”, disse Umbilk.
“Perché ci sta raccontando questo?”, domandò Bernard.
“Perché mi avete annoiato a morte, maledetti ottimisti”, disse
Umbilk.
Poi si alzò e prese sottobraccio il tizio travestito da Dracula.
Finse di ballare con lui fino alla porta d’ingresso del ristorante,
effettuò una torsione del busto e abbozzando un inchino al tavolo
dove prima era seduto uscì nel buio di Sabbione, che gli sembrò
disperatamente simile alla sua esistenza, all’esistenza di tutti, disperatamente simile al deserto dell’Atacama.
43
GLI IPOCONDRIACI
OVVERO UNO STUDIO SULL’IPOCONDRISMO IN RELAZIONE
ALLA METEOPORNOGRAFIA
I nostri spassi sono finiti
Dopo pranzo c’è LEI.
I SUOI capelli leggermente mossi, lucidi.
Il SUO volto simmetrico.
Il SUO collo alto, proporzionato.
I SUOI seni morbidi.
Il SUO corpo filmico.
I SUOI costumi da sexy-mamma.
LEI è Giuditta. SUE sono le previsioni meteo. Niente altro ha
importanza.
§
Quando arriva l’inverno ci ripariamo come possiamo. Abbiamo
coperte calde, dozzine di pacchi di antivirali e una televisione in
cinque. Siamo Ruben, Dan, Gad, Efraim e Issachar. Tutte le mattine cambiamo il pannolone a Ruben e riempiamo la pera a Dan,
imbottiamo di antidolorifici Gad e parliamo del più e del meno. Io
e Dan cerchiamo di inspirare con cautela. Per via di certi disturbi
gastrointestinali causati da germi stantii nell’ossigeno in cui siamo
avvolti. In principio eravamo in dodici in una stanza con dodici
letti, un bagno e una televisione. Ma gli altri sono stati dimessi o se
ne sono andati. Per farla breve, siamo rimasti noi cinque.
44
Aspettiamo Giuditta osservando i bacilli contenuti in un raggio
di luce filtrato dalle imposte. Fuori sembra una giornata luminosa.
Un cielo terso oltre a procurare notevole fastidio alle iridi può
colmare l’animo dell’ingannevole sensazione che l’essere umano
sia perfettibile. Ma noi sappiamo che nella scala verso la perfezione non possiamo fare altro che discendere inesorabilmente. Oltre
a tutto ciò, l’insopportabile rifrangersi del sole sulle immense vetrate dell’Istituto può causare seri danni alla vista. Per questo evitiamo di alzare troppo la tapparella e cerchiamo di abituare gli occhi alla penombra, ben consci dei rischi che corre la pelle quando
subisce una sovraesposizione a qualunque fonte luminosa. Non
possiamo accettare che queste lampadine vecchie e impolverate
causino seri problemi alla nostra epidermide, impomatata ogni
giorno perché risulti profumata, ma anche, nell’eventualità, piacevole al palmo di una mano che l’accarezzasse. La mano può essere
ad esempio quella di Giuditta mentre ci prova la febbre oppure
mentre cambia la pera a Dan o aiuta Efraim a levarsi la maglietta
intima.
§
Spesso abbiamo riflettuto sul fatto che il nostro quadro clinico
possa offrire a un osservatore esterno l’ingannevole impressione
che la nostra età sia avanzata. Non è così. Il più giovane di noi,
Gad, ha quarantaquattro anni. Il più vecchio (Ruben), ne ha cinquantasette. Nondimeno siamo vessati da problemi fisici che logorano la nostra facoltà di ponderazione e ci costringono a lunghe
sedute di riabilitazione in questa Clinica da tremila euro a settimana. Il dr. Robinson sostiene che i nostri disturbi abbiano una natura psicosomatica. Il dr. Mabuse gli attribuisce una struttura ansiogena. Il dr. Ross ci ha diagnosticato una rarissima patologia i cui
prodromi sarebbero da rintracciarsi in una concatenazione di cause, la prima delle quali è l’utilizzo da parte del governo di sostanze
proibite. Sostanze dannose. Anche la dr.ssa Pompeo concorda
con questa analisi.
45
Abbiamo intentato una causa contro il Governo e riceviamo
quotidianamente l’incitamento dei nostri innumerevoli avvocati,
tra cui: l’Avv. Mason, l’Avv. McBeal, l’Avv. Lomax, l’Avv. McCoy,
l’Avv. Dixon.
§
Ruben ultimamente è preoccupato per il suo rapporto con
Giuditta.
In particolare, ogni volta che Giuditta sorride, Ruben rischia
seriamente di farsela addosso. Per questo ha bisogno di un pannolone per adulti. Riteniamo che un pannolone indossato da un
adulto possa suscitare una serie di complicanze a livello subconscio. Abbiamo discusso a lungo su quali complicanze potesse subire la psiche di Ruben. Qualcuno ha sostenuto che un evento
edipico primordiale, come il ghigno della baby-sitter a una sua
neanche tanto velata incontinenza, potesse aver ingigantito il problema. E che oggi, Ruben, soffre di una forma patologica di vergogna, un’insoddisfazione perenne e metafisica rappresentata dalla
figura sorridente di Giuditta. Gad non concorda con questa tesi.
Lo fa capire tossicchiando qualcosa e subito affrettandosi a buttare giù un cucchiaio di sciroppo.
E comunque abbiamo notato quanto Ruben sia triste. Impedire
a Giuditta di sorridere significa sopprimere buona parte della sua
propensione umoristica. Perciò Ruben è visibilmente contrariato e
depresso. Tutti siamo depressi, ma non come Ruben. Da lui non
ce lo saremmo mai aspettato. Ruben è sempre stato solito giocare
col rimescolamento del linguaggio, compiendo azioni disarticolanti rispetto al gesto quotidiano. Reputavamo impossibile da scalfire
il suo distacco ironico, la sua capacità di gelare il sorriso mentre lo
provocava, graffiando la crosta della società. Ci sbagliavamo.
§
46
Rispondiamo alle obiezioni di parenti e medici snocciolando
dati precisi sulla rilevanza delle previsioni meteorologiche sul fisico e sulla psiche dell’essere umano. Abbiamo demandato a Issachar la risposta a ogni obiezione. In lui l’intreccio tra gioco illusorio e perturbazione emotiva riesce talvolta a esecrare l’attesa della
morte. “Sto guardando fuori dalla finestra”, dice per esempio,
“non riesco a comprendere con certezza se il grigio del cielo sia
causato dalla nebbia o dalle nuvole. Quello che posso dire con
certezza è che si tratta di una giornata di merda”. Ma Issachar utilizza freddezza, indifferenza e distacco a fini difensivi. “Ci accusano di perpetrare l’erotismo a fini terapeutici, ma non è del tutto
vero”, ripete Issachar a chi ci domanda il perché della costante
presenza di Giuditta.
Abbiamo anche qualche istinto sessuale, chi lo nega, qualcosa
di eroticamente scorretto, ma la consapevolezza delle malattie veneree è tale che nessuno di noi osa perdersi in pensieri tanto turbinosi.
Tutti tranne Ruben, che ha letto qualcosa a proposito della gonorrea. La gonorrea, dice Ruben, impedisce di pisciare. Sì ma il
dolore fisico dove lo mettiamo? Domandiamo noi. Non è forse
dolore fisico impedire al mio sguardo di osservare Giuditta mentre
sorride? Non è forse dolore fisico celare la mia ironia, il mio tagliente sarcasmo nei vostri confronti?
Non lo riconoscevamo più, ed eravamo preoccupati.
§
Quando Giuditta entra nella nostra stanza ha un paio di gambe
lunghe due metri e un paio di tette da infarto. A tutto ciò siamo
abituati, lo accettiamo, anche se dobbiamo inghiottire numerose
pillole per lo stress e per la sudorazione ogni volta che la aspettiamo. Oggi però ci sembra più sexy del solito, poiché indossa un
tailleur grigio e calza un paio di tacchi alti. Porta senz’altro calze
autoreggenti, ma non riusciamo ad appurarlo con certezza. Inoltre
indossa una camicetta bianca e noi temiamo la camicetta bianca.
In una delle sue previsioni meteo-erotiche più frequenti la prota47
gonista indossa una camicetta bianca e viene sorpresa da uno
scroscio di pioggia, rifugiandosi ogni volta in un appartamento
spazioso e confortevole con un negro (talvolta il negro può essere
sostituito da uno studente di filosofia o da un attore da filmetti di
serie B), per una seduta di sesso selvaggio. Simili espressioni – sesso selvaggio – ci disturbano non poco, specialmente Issachar e
Gad che sono i più sensibili ad aritmie, arterie rimpicciolite, eccetera. Preferiremmo espressioni più delicate.
Lo facciamo notare a Giuditta. “Gradiremmo che nelle prossime previsioni meteo utilizzassi termini ed espressioni più, come
dire, cautelativi. Meno invasivi, ecco”. Giuditta ci prega di farle un
esempio. “Per esempio, anziché dire: seduta di sesso selvaggio, perché
non utilizzare l’espressione fare l’amore liberi da preconcetti ?”, dice
Dan.
Dan è il più riservato di noi. Giuditta glielo fa presente. “Smettila di rinchiuderti in gabbie intellettualistiche ed estetiche prefissate, Dan”, gli dice. “Penso dipenda dal mio essere cresciuto nella
generazione del dopoguerra”, risponde Dan. “Crescendo si è acuito lo sbilanciamento tra le prime avvisaglie del benessere e un
completo smarrimento morale”. “Come immaginavo”, dice Giuditta.
LEI ci ha completamente in pugno.
Persino Efraim sembra soffrirne la personalità. E dire che lui è
figlio di una borghesia che ha perduto nell’ozio incruento ogni valore morale. Sebbene sappiamo che per lui sia una ferita aperta,
non perdiamo occasione per ricordarglielo. “Efraim, hai perduto i
valori morali. Tocchi il bene e il male abbandonato ai capricci di
una coscienza in piena bonaccia”, gli diciamo. “Questa, io credo, è
una specie di disperazione”, dice Efraim fissando Giuditta seduta
sulla scrivania con le gambe accavallate in un atteggiamento super
sexy. “Mi sento senza strutture, senza appoggi; sto sperimentando
l’inaderenza alla realtà. Ma chissà se mi condurrà alle soglie di una
tragedia o se invece mi dirigerà verso il conforto di
un’illuminazione morale”.
È questa la tortura psichica con cui tutti noi dobbiamo fare i
conti.
48
§
In buona sostanza, e per fornire ulteriori informazioni alle
pressanti richieste di chi ci viene a far visita, spieghiamo che Giuditta ci legge previsioni meteorologiche fornite dall’Aviazione Militare corredate da favole erotiche al limite della perversione. Fa
parte del programma per il nostro pieno recupero. In particolare
le favole erotiche, dov’è che l’abbiamo letto, favoriscono la circolazione sanguigna e aumentano la produzione di endorfine, globuli
bianchi, anticorpi naturali, riducendo lo sviluppo di radicali liberi.
Giuditta è una brava ragazza. Non ha dimenticato i valori universali che regolano i rapporti tra esseri umani, né manca di puntualizzare chi è e da dove viene: è figlia di allevatori con l’unico immenso sogno di mostrare la sua avvenenza in televisione. È così
che l’abbiamo conosciuta, amata, scritturata, la prima volta: su un
canale locale. Nondimeno ELLA non ha grilli per la testa. Eppure
è in grado di travestirsi da sexy-tennista o da cat-woman con la
stessa spontaneità con cui riceve l’ostia la domenica mattina. Il
nostro costume preferito è quello da Madre Natura. O perlomeno
il preferito da me, Ruben e Dan. Efraim va pazzo per il travestimento da poliziotta. Issachar dice di sentirsi male al solo pensiero
del vestito da segretaria direzionale con tanto di auricolare. È una
brava ragazza.
“Previste precipitazioni di carattere nevoso nelle prossime ventiquattro – trentasei ore”, dice Giuditta.
Le precipitazioni nevose solitamente sono il campanello
d’allarme che indica la descrizione di un’orgia.
Ruben non riesce a trattenere una battuta. A prima vista non
sembrerebbe una battuta particolarmente divertente, ma basta a
far sorridere Giuditta. Ruben arrossisce. Nessuno di noi sa se è
riuscito a non pisciarsi addosso. “Andiamo, ragazzi”, dice Giuditta. “Non vi preoccuperete mica per qualche termine fuori posto”.
Lo dice con una purezza ottenebrata dalla sua bellezza. Come
quando descrive le impronunciabili fasi dell’accoppiamento maschio-femmina: pronuncia sempre le parole con purezza, con in49
genuità. Ha ventidue anni. “Dove hai imparato queste storie?”,
domandiamo spesso. “La natura mi ha dotata di fervida immaginazione, e della capacità di elaborare i costrutti che grazie ad essa
riesco a formulare”, risponde ogni volta.
§
Nelle accoglienti tenebre della nostra stanza ci interroghiamo
se sia possibile cambiare argomento. Vogliamo sempre le previsioni meteo, ma gradiremmo anche ascoltare qualche favola
dell’orrore, oppure qualcosa di sentimentale. Anche se siamo ben
consci del fatto che la specialità di Giuditta restano le favole erotiche. Hanno qualcosa di non so che o non so cosa. Giuditta preferirebbe continuare a raccontare le sue favole erotiche. Sappiamo
che preferirebbe continuare a travestirsi da sexy suora o da donna
delle pulizie mentre ci illustra la situazione delle isobare sul Mediterraneo.
§
E allora ci riunimmo per discuterne.
“Mi pare che qui si stia scherzando col fuoco”.
“Dobbiamo pensare a noi”.
“Come facciamo a dirglielo?”.
“La nostra salute viene prima di tutto”.
“E l’ultima favola è stata davvero troppo spinta”.
“Un dottore con una bambina!”.
“Una dodicenne non è propriamente una bambina”.
“Ah no?”.
“Sono d’accordo. A dodici anni ormai sono donne”.
“Ma stiamo scherzando?”.
“Dobbiamo dirglielo”.
“Diciamoglielo”.
50
Incontrammo Giuditta. Nonostante la temperatura interna della stanza fosse di circa ventisette gradi centigradi, faceva piuttosto
freddo.
Indossava un pesante soprabito ma si spogliò quasi subito. Sotto il soprabito era vestita da Madre Natura. Coscia in primo piano,
giarrettiera bianca, calze a rete rosse. Minigonnellino sotto il culo e
un top che mostrava il ben di dio di Giuditta. Ruben si trattenne
dal pronunciare qualcosa che l’avrebbe certamente fatta sorridere.
Disse invece qualcosa a proposito della sua devastante emicrania.
Noi non avevamo possibilità di suscitare il suo sorriso. Eravamo
antiquari, commercialisti, ragionieri. Ed eravamo letteralmente tartassati da dolori articolari che ci impedivano di pensare a qualcosa
di ironico. L’unico che riusciva a trovare la forza per costruire una
battuta di spirito era Ruben. Nonostante le emorroidi. Nonostante
l’ossessione per una leggera forma di diabete mescolata a una
strana febbre emorragica del Nilo. Qualcuno si sentì male. Non
era una novità. C’era comunque da fare una comunicazione.
Nessuno di noi ebbe il coraggio di profferire parola. Ci guardavamo l’un altro, tentennando. Scoprimmo, se ce n’era bisogno,
quali drammatici effetti ha la donna sulla salute dell’uomo.
Ruben prese la parola. “Vorremmo cambiare un po’ genere”,
disse. Non riusciva a guardare Giuditta negli occhi. “Davvero?”,
domandò lei. “Davvero”, disse Efraim, seguito da Dan e da Issachar. “Pensavo che le favole erotiche vi divertissero”, disse Giuditta. “Oh, ci divertono moltissimo”, disse Gad. “Ma sentiamo il
bisogno, come dire, di prefigurarci una scena priva di adoni e fotomodelle. Qualcosa di più terra-terra. Qualcosa di più rocambolesco, in cui i personaggi denotino una certa, come dire, tendenza
alla normalità. Qualcosa di più come viene viene”, aggiunse Ruben.
Temevamo che Giuditta potesse prenderla male. Eppure nutrivamo il desiderio di sprofondare in una banalità accogliente.
“Va bene”, disse lei. “Ma lasciate almeno che vi illustri le isobare di domani corredate da un’ultima storiella erotica”.
51
Ci consultammo. Efraim e Gad avrebbero preferito cambiare
subito genere, passando a una storia dalle tinte più lievi. Io, Dan e
Issachar concordammo sulla necessità atarassica e diuretica di
ascoltare un’ultima favola erotica. Decisi di tornare a essere il vecchio leader che tutti si aspettavano che fossi. Pur conoscendo i rischi che correvo levai il pannolone. Avrei accettato la vita in maniera più spontanea.
A chi insistentemente ci domandava quale fosse la ragione del
nostro comportamento rispondevamo che avevamo paura. Ciò
che più ci allarmava del mondo, oltre al nostro quadro clinico del
tutto deficitario, era la certezza che qualcuno ci avrebbe derubati,
avrebbe stuprato le nostre mogli, incendiato i nostri negozi di antiquariato stracolmi di dipinti e candelabri, comò Impero e divani
Luigi XIV. E quel qualcuno avrebbe tentato di impoverirci, di arraffarci i gioielli, le fedi, i soldi, le monete. E ci avrebbe confinati
in recinti buoni per i porci, torturandoci con la corrente elettrica
per ottenere la combinazione della nostra cassaforte.
“Vada per un’ultima favola erotica”, disse Ruben.
“Stavolta sarà più forte. Quasi pornografica”, disse Giuditta.
Ci consultammo di nuovo.
Decidemmo che per l’ultima volta poteva starci.
§
Giuditta si avvicinò alla lavagna. Avevamo predisposto una
splendida mappa delle isobare sulla zona di Sabbione e dintorni.
“Stiamo vivendo una tendenza a contesto barico di tipo spiccatamente invernale”, iniziò Giuditta. La sua pronuncia era priva
di inflessioni, caratteristica di chi ha frequentato un corso di dizione. Eravamo molto attenti. “Ci sono i presupposti affinché
l’attività vorticosa in sede sub-polare abbia a subire un disturbo
per opera di un sollevamento meridiano dell’Alta pressione delle
Azzorre verso le latitudini britanniche o nord Europee”, proseguì
Giuditta. Ruben sedeva sulla sua poltrona. Io e Gad eravamo in
piedi accanto alla finestra. Efraim e Issachar giacevano sui rispet52
tivi letti, ciucciando il lecca-lecca d’ordinanza. “La giornata era
dunque fredda, invernale”, disse Giuditta. I flashback, congiuntamente a notevoli oscillazioni temporali futuro-passato, erano specifici del suo metodo narrativo. “Fiona stava ultimando le spese
natalizie dalle parti dell’Hofgarten. Adorava quel periodo
dell’anno, caratterizzato dalla discesa di aria fredda lungo i meridiani centrali o centro-orientali col possibile isolamento di un vortice semistazionario proprio in area sabbionassa”.
Pensammo a quanto fosse un privilegio udire quella voce. Persino i postumi di una brutta influenza potevano mitigarsi. Qualcuno di noi dovette addirittura pensare che il sangue dalle emorroidi
fosse un dono di Dio, in quel frangente. Ma tutto sommato non
era così. Il suono di una voce, per quanto bella, se protratto lungamente, può provocare disturbi alla tromba d’Eustachio. Dan
soffriva di questi disturbi.
“Fu sorpresa da uno scroscio improvviso di pioggia mista a
neve mentre si trovava lungo le rive dello Starnbergersee. Fiona
adorava la neve, ma detestava il primeggiare della figura anticiclonica di blocco, lungo il cui bordo orientale scendono correnti polari. In altre parole detestava che d’inverno facesse caldo e d’estate
facesse freddo. Bruno la vide da lontano, scorgendola tra mille
volti senza nome. Le portò in dono un mazzo di giacinti”.
L’introduzione del personaggio femminile nei racconti erotici
d’inizio ‘900 avviene sempre secondo standard prestabiliti, i quali
tracciano un profilo spirituale della protagonista a ricalcare quello
fisico. Le favole di Giuditta erano molto più dirette.
“Una storia simile mi pare di conoscerla. Quantomeno i luoghi”, disse Gad. In lui ogni sintomo interno rifletteva la condizione di aridità del mondo esterno, in un continuo gioco di rimandi.
Poi Giuditta proseguì.
“Fiona e Bruno si ritrovarono nell’appartamento di lui, uno
splendido loft di duecento metri quadrati con un morbido letto
Queen Size ideale per incontri di questo genere. Si erano incontrati due giorni prima al Teatro dell’Opera durante una notte in cui
l’alta pressione oceanica trovava terreno abbastanza favorevole
per espansioni verso nord, a causa di un forcing sub-polare a largo
di Terranova”.
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Le previsioni meteorologiche ci danno sicurezza. Siamo cresciuti in un mondo compromesso da virus, batteri, streptococchi,
tossine, insetti e parassiti veicoli di malattie e sciagure anche peggiori. Viviamo in una società di starnuti al cinema, strette di mano,
bicchieri non lavati. In un simile luogo la meteorologia riempie il
futuro di certezza e i nostri cuori dell’ambizione di conoscere in
anticipo la sostanza degli accadimenti. È una questione di programmazione.
Giuditta proseguì con la sua pronuncia priva di intonazioni: “Si
distesero sul letto. L’appartamento di Bruno era caldo e accogliente. Un camino emanava un gustoso tepore frammisto a sapori lignei. Fuori dalla finestra uno spalmamento verso est dell’alta pressione oceanica con induzione a riassorbimento dell’onda stessa,
ma con cut-off (isolamento vortice semistazionario in quota) proprio sopra il tetto del palazzo, generava una resezione della
saccatura artica. Adesso Bruno monta su Fiona e la bacia, slinguazzandola tutta”.
Il passaggio dal passato remoto al presente indicativo è sintomatico di un repentino cambio nel registro narrativo.
Ruben alzò un sopracciglio. Gad scosse il capo. Giuditta continuò.
“Bruno bacia il collo di Fiona, il decolleté, le labbra. Nel frattempo il porco struscia il suo cazzo contro l’inguine e le cosce.
Fiona nota come sia durissimo e la sua fica inizia a bagnarsi. Né
Bruno né Fiona prestano attenzione al fatto che pur palesandosi
un taglio all’alimentazione fredda, su Sabbione è presente un’area
depressionaria isolata con caratteristiche fredde e con tempo piuttosto instabile, anche per possibili influenze atlantiche”.
Gad interruppe la narrazione per domandare che si facesse ritorno al passato remoto, o quantomeno all’imperfetto. Il presente
indicativo, disse, è troppo coinvolgente, troppo scurrile, troppo
diabolico. Concordammo tutti con l’obiezione di Gad.
Giuditta acconsentì. Poi domandò: “Come vi pare l’inizio?”.
“Troppe parole sconce”, disse Dan. Tentammo di epurare nella
nostra memoria le parole sconce secondo un meccanismo di autocensura del ricordo. Lo usavamo spesso per i dolori che ci assillavano.
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“Che parole suggerite?”, domandò Giuditta.
“Sarebbe meglio qualcosa di più figurativo”, disse Issachar.
“Più metafore, più allegorie”, aggiunse Ruben.
“Non stiamo bene per niente”, intervenne Efraim. “La sessualità manifestata tanto esplicitamente potrebbe causare problemi al
sistema nervoso”.
“Il nostro punto di vista è quello dell’indagatore, dello studioso”, disse ancora Ruben.
Giuditta comprese il nostro punto di vista e cambiò repentinamente registro narrativo.
“Fiona aveva voglia di sentire l’incursore calvo (Arbasino, A.
(1998) Paesaggio Italiano con zombi, Milano, Adelphi, pag. 107 e passim) di Bruno anche sulla sua fessurina magica, sul suo affare
(Volponi, P. (1962) Memoriale, Torino, Einaudi, passim), sul suo
campo di fiori (Poliziano, A. (1814) Rime, Firenze, Niccolò Carli,
passim), così gli allargò le cosce, avvinghiando le gambe attorno alla sua schiena, proprio mentre un’onda depressionaria più incisiva
si faceva strada sull’Atlantico. Lei gli tirò fuori l’uncino (Boccaccio, G. (1997), Ninfale Fiesolano, Milano, Mondadori, pag. 121 e passim) e lo prese in mano. Non era superdotato, superava di poco il
palmo, eppure era grosso come la testa di un gatto (Aretino, P.
(1995) Ragionamento delle Corti, Milano, Mursia, pagg. 103-104 –
(1999) Lettere, Roma, Carocci, passim, passim)…Fiona riusciva appena a prenderlo, a chiudergli le dita attorno”.
Fummo rapiti con violenza da una sensazione di sconforto.
Spesso lo sconforto è scambiato per eccitazione. In realtà si tratta
di sconforto. Lo sconforto, in certi casi, è più opportuno
dell’eccitazione.
“Fiona iniziò a masturbarlo, anche se non ce n’era bisogno
perché aveva un cavaliere purpureo (Kramsaseddinsh Virajjakam,
M. (1979) Emmanuelle, Milano, Sonzogno, passim) già molto duro, e
intanto lui le aveva abbassato la maglietta e le stava leccando avidamente i morbidi capezzoli. Sentirlo così rigido…tutto scappellato…fece venire a Fiona una voglia matta di sentirlo tutto in bocca.
Fece distendere Bruno a pancia in su e scivolò su di lui maliziosa…strofinandogli il cibo d’amore bagnato (Moravia, A. (1968)
La Noia, Milano, Bompiani, pag. 199) sul suo guerriero atomico
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(A.A. V.V. (2000) Improvvisamente ho voglia di fragola, Modena, Borelli, pag. 71, passim) e poi scendendo…massaggiandolo su tutto il
corpo che ancora era coperto. Fiona non amava spogliarsi tutta,
durante l’amore. Le piaceva scoprire solo il necessario, dava l’idea
di incontro sessuale molto più trasgressivo e porco. Un uomo vestito di tutto punto con la vanga di fuori (Maraini, D. (1963) L’età
del Malessere, Milano - 1ª ed. originale con sovraccoperta, Einaudi,
passim), la eccitava tremendamente”.
Giuditta fece una pausa. Efraim si affrettò a porgerle un bicchiere d’acqua.
“Vi sta piacendo?”, domandò Giuditta.
“Troppe immagini allusive”, disse Gad.
Ruben era messo piuttosto male. Si reggeva lo stomaco. Efraim
aveva un’espressione orribile. Cattiva digestione, disse. Dan sembrava piuttosto eccitato.
“Ci vorrebbe qualcosa di meno trascinante”, disse Ruben.
“Di più, come dire, scientifico, tecnico”, disse Gad.
“Ma le citazioni bibliografiche sono buone”, disse Dan.
“Una bibliografia ben curata è fondamentale”, disse Efraim.
“Grazie”, rispose Giuditta.
Fu un momento toccante.
Poi Giuditta riprese, ancora una volta comprendendo il nostro
stato d’animo. È una ragazza straordinaria.
“Mentre il flusso perturbato a carattere freddo si esprimeva
con maggiore vigoria sull’est del continente, in corrispondenza
delle pianure, Bruno condusse Fiona in bagno, aprì l’acqua nella
vasca, la fece appoggiare al lavandino, e all’improvviso introdusse
il suo pene in posizione eretta nell’orifizio vaginale di Fiona, fino a
raggiungere l’orifizio uretrale. Ci fu un gemito. Bruno afferrò i capelli di Fiona e cominciò a penetrarla violentemente. Questa operazione durò all’incirca tre minuti. Nel frattempo le ghiandole di
Bartolino di Fiona sprigionarono la loro tipica lubrificazione.
L’aumento di apporto di sangue arterioso ai corpi cavernosi del
pene di Bruno – per effetto della guaina fibrosa che li avvolge,
detta albuginea – era imponente e inarrestabile. Quando Bruno le
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afferrò i seni e il suo pene raggiunse lo spazio fra la parete anteriore della vagina e la parete posteriore della vescica, a una profondità di sei-otto centimetri rispetto all’ingresso del canale vaginale –
nella stessa zona dove era già nota la presenza di un tessuto ritenuto essere il residuo di una primordiale ghiandola prostatica
femminile –, la vagina di Fiona cominciò ad allungarsi velocemente di 8,5 cm (valore medio). Seguirono altri, numerosi, gemiti.
“Guardati allo specchio come mi fai godere”, disse Bruno a Fiona.
Le sue mani si issarono sui fianchi di Fiona per facilitare la penetrazione. I gemiti si fecero urla di piacere. Il pene di Bruno raggiunse la parete anteriore della vagina, nel suo terzo inferiore, laddove risiede un manicotto di tessuto erettile cingente l’uretra. A
questo punto la vagina di Fiona si gonfiò a mo’ di tenda mentre la
cervice si ritrasse. Seguì una secrezione di liquidi. Il tutto mentre
una depressione isolata proveniente da nord-ovest avanzava lentamente verso lo spazio aereo di Sabbione e la temperatura atmosferica a livello del mare rimaneva stazionaria. Fine”.
Eravamo soggiogati dalla limpidezza della pronuncia di Giuditta. La sua ingenuità era palese. La osservammo mentre ondeggiava
sensualmente di fronte alla lavagna.
Procedemmo con l’abituale dibattito. È nostra consuetudine
dibattere le previsioni meteo e le relative favole erotiche. Un modo come un altro per confrontarci.
Chiese Efraim: “Sarebbe questo che ci rimane?”
Rispose Gad: “Non ci è stato tolto”.
“Ogni cosa si autoelimina, si autoestingue, ci costringe”.
“Esiste d’essenza altra e si esprime in sé”.
“Le cose non hanno ritegno. Ci sopravvivono”.
“On-to-lo-gi-a”.
“Por-no-gra-fi-a”.
“Il bisogno metafisico dell’uomo è illimitato”.
“Stomaco, stomaco, stomaco!”
“Tutto è, in memento mori”.
“Il regno della parola per un rognone sanguinante!”
“Ein Mal ist kein Mal”.
“Tò òn. Pragmata. E poi cosa resta?”
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“Ciò che resta lo istituiscono i poeti”.
“Non ci sarà mai più un colloquio”.
“Mi fa male il gomito”.
“Quello che è possibile accadrà”.
“Sarà perché il tempo si sta guastando”.
“Quello non è il gomito”.
“Nuvole scure all’orizzonte…”
“Svaniranno presto”.
“…tempesta in arrivo”.
“Non pioverà”.
“Ma in fondo chi può dirlo?”
“Viviamo nel terrore dell’incerto”.
“Pioverà”.
“Non lo farà”.
“E perché mai?”
“Perché dovrebbe?”
“Sta già piovendo”.
“Smetterà”.
Giuditta ascoltava silenziosa i nostri dibattiti. Era solita non
domandarci nulla a proposito delle sue performance, ma quella
volta, poiché doveva trattarsi dell’ultima, fece un’eccezione.
“Allora? Non mi dite nulla? Vorrei sapere cosa ne pensate della
favola”, disse.
Ci fu un silenzio piuttosto imbarazzato.
I nostri erano pensieri vergognosi.
Seguì un altro silenzio imbarazzato.
“A domani”, disse Giuditta mentre usciva dalla stanza.
“Fermati”, disse Ruben.
Eravamo in subbuglio. I nostri organi interni non dovrebbero
mai essere costretti a subire pressioni tanto forti.
Giuditta si voltò verso di noi. Aveva occhi di un blu insuperabile.
“Hai mai frequentato un corso di dizione?”, le domandò Ruben fissandola negli occhi.
Giuditta sorrise.
Ruben si pisciò addosso.
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VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (2)
___________________
Il ventitré luglio, durante le celebrazioni per la Giornata
dell’Atletismo Assoluto Palloncino Saziante Dimagenina®, alcuni
passanti rinvennero un cadavere (che fu identificato come Hans
Rugecoj, quarant’anni, commercialista di Sabbione), banalmente
impiccato a una quercia nella centrale Via Giacomo da
Sant’Andrea. La macabra esecuzione, secondo le testimonianze
dei presenti, fu accompagnata dalla riproduzione audio del brano
musicale Brigitte Bardot, composto da Jorge Veiga, che fu trasmesso
tramite un dispositivo elettronico (che qualcuno identificò come
un I-Pod Touch collegato a un altoparlante).
Il caso fu affidato all’Ispettore di Nettezza Umana Doroteo
Umbilk, il quale constatò che doveva trattarsi di un suicidio abusivo per due motivi: in primo luogo non c’erano sulla scena i nastri
identificativi del Ministero Suicidi & Festività®; in secondo luogo il
suicida indossava una calzamaglia arancione e aveva lasciato un
messaggio piuttosto esplicito.
Si trattava del dodicesimo caso di suicidio abusivo in meno di
tre mesi, il primo a essere affidato al giovane ispettore.
Umbilk osservò l’uomo ciondolante da un robusto ramo
dell’albero: alcuni fluidi fuoriusciti dalla bocca avevano insozzato
la panchina sottostante, ma per il resto la scena era piuttosto in
ordine. Il medico legale disse che la morte era sopraggiunta per
asfissia dopo circa un paio di minuti dall’impiccagione, durante i
quali il commercialista si era dimenato e contorto, rilasciando i
fluidi (per lo più bave e schiume) che avevano imbrattato la superficie della panchina.
Quattro agenti della Nettezza Umana giunsero sul posto a bordo dei mezzi in dotazione al Dipartimento e in venticinque minuti
ripulirono e disinfettarono la panchina, aromatizzarono la corteccia della quercia con un’essenza al pino silvestre, rimossero il cadavere e lo caricarono sul cassone del loro mezzo di trasporto.
L’ispettore Umbilk coordinò le operazioni di pulizia e rimozione e analizzò attentamente la scena del suicidio. Nel biglietto, un
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cartoncino azzurro, il tizio aveva scritto in stampatello: troppi ristoranti pessimi. Gloria al Monaco Arancione.
Per tre giorni Doroteo Umbilk indagò sui ristoranti del centro
cittadino alla ricerca di una traccia che potesse fornire una spiegazione al gesto dell’abusivo. Non trovò neppure un ristorante con
quel nome.
In seguito scrisse il rapporto per il Comando.
Nel rapporto, oltre a definirsi sconcertato, Umbilk poneva alcune domande. Per quale ragione, scrisse, se questo è il migliore
dei mondi possibili, un essere umano dovrebbe suicidarsi abusivamente? La vita non è già sufficientemente precaria per sprecarla
in modo così disgustoso? Quali sono le cause insite in un gesto
tanto folle quanto criminoso e illegale?
Concluse il suo rapporto sostenendo che i celebri ristoranti
sabbionassi, tanto lodati, stessero patendo un inesorabile declino.
La risposta del Comando non si fece attendere. In una nota ufficiale, il Responsabile delle Comunicazioni Interne, Dott. Julio
Vizago, scrisse: Egregio Ispett. Umbilk, le ricordo che non è suo
compito indagare le cause materiali e psicologiche di un suicidio
abusivo; per quello paghiamo profumatamente un plotone di sociologi e psicologi, i quali forniscono statistiche aggiornate mensilmente al Ministero Suicidi & Festività®.
Il suo compito, Ispett. Umbilk, è indagare la dinamica in cui la
scena di un suicidio, abusivo o legale, s’imbratta, s’insudicia,
s’insozza; coordinare le operazioni di pulizia, sterilizzazione, rassettamento; investigare sulla setta di maniaci nota come Circolo
eccetera e fermare questa successione di eventi insignificanti e suicidi incresciosi.
Doroteo Umbilk veniva da un posto in campagna, aveva trentacinque anni ed era il più giovane ispettore del Dipartimento Nettezza Umana.
***
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UFFICIO CAUSE ELEGGIBILI DI SUICIDIO®
A Sabbione non pioveva da quattro mesi e la polvere sollevatasi dalle strade aveva insudiciato anche le vetrate ai piani più alti
degli edifici, aggravando la sensazione di claustrofobia in tutti i dipendenti del Ministero Suicidi & Festività® costretti agli straordinari per la Settimana dei Pronostici Obbligatori Annuali.
I sudici bagliori del tramonto filtravano dalle veneziane illuminando a strappi orizzontali le scrivanie di due impiegati al dodicesimo piano del Palazzo Ottagonale.
Quando i neon del Palazzo si azionarono automaticamente, i
due stavano scommettendo sul motivo che aveva spinto l’uomo
seduto in sala d’attesa a inoltrare richiesta di suicidio®.
Cosa mi dici di questo qui? Domandò l’impiegato più grasso.
Per me è stato tradito dalla moglie, disse l’impiegato magro.
Ma no, disse l’altro. Quelli che sono stati traditi dalla moglie li
riconosci subito. Hanno il volto più sommesso, la pelle più consumata. Questo mi sembra più un tipo da tracollo finanziario.
Ma finiscila, disse il magro. Non lo vedi com’è conciato? Quello i soldi non li ha mai neanche annusati da lontano.
Allungò il collo cercando di distinguerlo meglio. Magari è malato, aggiunse.
Malato quello? Domandò il grasso. Non ci pensare. Quello è
sano come un pesce.
Forse un lutto in famiglia, disse il magro.
L’uomo sembrava dover smaltire i postumi di una sbronza colossale. Era seduto sulla poltroncina di plastica della sala d’attesa
con un telefono in mano, e lo roteava nervosamente.
Il sole aveva esaurito il suo sporco lavoro e nell’ufficio erano
rimasti solo i due impiegati di livello C più una segretaria indaffarata a battere con violenza sui tasti della tastiera di un computer.
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Dalla sua posizione l’uomo riusciva a scorgere soltanto le scrivanie dei due impiegati e un distributore automatico di bevande,
una piccola parte dell’immenso scomparto dell’Ufficio Cause
Eleggibili di Suicidio®, il quale contava sessanta scrivanie disposte
in file da quattro.
L’impiegato magro sollevò la veneziana per guardare fuori e attraverso la patina di polvere umida che impregnava il vetro scorse
un ragazzo e una ragazza seduti su una panchina in fondo alla
strada.
Il ragazzo avvicinò la bocca all’orecchia della ragazza, e lei
scoppiò a ridere.
Cosa avranno tanto da ridere? Domandò l’impiegato magro,
che teneva sollevata la veneziana con un righello da trenta centimetri.
Sono giovani, disse l’altro.
Scommetto che se una guardia li pizzicasse adesso scoprirebbe
qualcosa di sospetto e gli farebbe passare un guaio, disse il magro.
E perché dovrebbe trovare qualcosa di sospetto? Domandò il
grasso.
La felicità è sempre sospetta, disse il magro.
In quel momento l’uomo si sporse dalla porta mezza aperta
della sala d’attesa e richiamò l’attenzione dei due impiegati schiarendosi leggermente la voce.
Quello più magro lasciò ricadere la veneziana di colpo e con un
cenno della testa indicò al collega l’uomo sull’uscio dello stanzone.
Desidera qualcosa? Domandò quello più grasso.
C’è da attendere ancora molto? Domandò l’uomo.
Gli impiegati si voltarono a guardare la segretaria, che intanto
aveva smesso di violentare i tasti.
La segretaria portava una gonna beige, i capelli raccolti in una
coda e le unghie curatissime; la sua postazione, più piccola rispetto
a quelle degli impiegati e rischiarata con una luce da tavolo, era
collocata qualche passo a destra rispetto alle file di scrivanie.
Sto finendo di preparare lo stampato, disse la segretaria con
tono irritato, sempre se qualcuno ha la compiacenza di lasciarmi
lavorare.
Chiedo scusa per l’interruzione, disse prontamente l’uomo.
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Il cielo sembrava ancora azzurro, ma i neon glaciali all’interno
dello stanzone stavano prendendo il sopravvento sui barlumi afosi
del crepuscolo.
Gradirebbe qualcosa da bere? Domandò l’impiegato grasso.
Quello magro scoppiò a ridere.
Cos’hai da ridere? Domandò il grasso.
Niente, disse il magro.
Il grasso scoppiò a ridere.
La felicità è sospetta, disse il magro ridendo.
Anche se questa non è felicità, disse il grasso ridendo.
L’uomo non capì. Rimase fermo in silenzio sull’uscio della porta indeciso se rispondere alla domanda che il grasso gli aveva posto finché l’impiegato magro, sghignazzando, non gli fece un cenno con la mano invitandolo a tornare nella sala d’attesa.
Volete farmi la cortesia di lasciarmi lavorare? Disse la segretaria
irritata. Ho un marito e due figli che mi aspettano per cena, e il
mio straordinario terminava nove minuti fa.
I due impiegati si zittirono, ridacchiando e nascondendo i volti
dietro il monitor dei loro computer.
L’uomo tornò a sedere sulla poltroncina rossa di plastica.
La sala d’attesa aveva i muri verniciati con un colore rilassante.
Dalle due finestre si intravedevano le guglie polverose della cattedrale di San Bertran de Born, alle pareti c’erano quattro poster raffiguranti il Gerarca in posa mentre svolgeva esercizi ginnici o
mosse di arti marziali. Il clima era reso piacevole da un paio di
condizionatori posizionati sulla facciata antistante la porta
d’ingresso.
Per una decina di minuti ci fu silenzio, rotto soltanto dal distonico picchiettio dei polpastrelli della segretaria sui tasti del computer e dai rumori tremolanti del distributore di bevande.
A un certo punto l’impiegato magro lesse qualcosa sul monitor
e trasalì.
È uno schifo, disse.
Cos’è uno schifo? Domandò l’altro.
Figurati che vogliono abolire i tacchini vivi dalla Giostra, disse
il magro.
In che senso? Domandò il grasso.
Nel senso che vogliono sostituirli con pupazzi di pezza.
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E per quale motivo?
Perché il sangue dei tacchini decapitati sarebbe inadatto a bambini e signore.
Inconcepibile.
È uno schifo.
È davvero uno schifo.
In quel momento la segretaria smise di pigiare i tasti, stampò
un documento, con camminata decisa si avvicinò alla postazione
dell’impiegato magro e lasciò cadere il foglio sulla sua scrivania.
Vi saluto, belli, disse.
Una di queste sere ti invito a cena, le disse l’impiegato grasso.
Ti piacerebbe eh? Rispose la segretaria.
Piuttosto di niente, disse il magro sghignazzando.
Il solito cafone, si stizzì la segretaria.
Mentre usciva fece cenno all’uomo in sala d’attesa che poteva
entrare. L’uomo era stempiato, sulla quarantina, la barba di un
paio di giorni, e indossava una camicia verdolina con le maniche
corte.
Quando si sedette di fronte alla scrivania dell’impiegato magro
domandò subito se dovesse firmare qualcosa.
Un momento, disse il magro alzando un dito e ispezionando il
modulo che la segretaria aveva stampato.
Ha la marca da bollo? Domandò l’impiegato grasso.
L’uomo cercò nel portafoglio, tirò fuori una marca da bollo e la
consegnò all’impiegato magro.
Molto bene, disse il magro. Poi appiccicò la marca da bollo
nell’angolo in alto del documento e appose un timbro.
Motivazione? Domandò.
Come? Disse l’uomo.
Motivazione della richiesta di suicidio, disse il grasso.
L’uomo restò in silenzio per un tempo innaturale.
Non abbiamo tutta la notte, disse il magro.
Stanchezza, disse l’uomo.
Cos’è, uno scherzo? Domandò il grasso. Che motivazione sarebbe?
Anch’io sono stanco, aggiunse il magro.
Siamo stanchi in due, disse l’uomo.
Mi sa tanto che questo qui è un dritto, disse il grasso.
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A me sembra un po’ rincitrullito, disse il magro.
Non le accorderanno mai l’avallo a suicidarsi per una motivazione così stupida, disse il grasso.
L’uomo si grattò il mento.
Mi pare una motivazione più che sufficiente, disse.
L’impiegato magro estrasse una penna stilografica dall’interno
della sua giacca d’ordinanza e scrisse sul documento la parola stanchezza nell’apposita riga corrispondente alla voce Motivazione della Richiesta.
Contento lui, disse al collega.
Contento lui, confermò l’altro.
L’uomo non disse niente.
Suicidarsi per stanchezza, disse tra sé e sé il magro. Che diavolo
di idea.
Ha qualche allegato da consegnare? Domandò il grasso.
Magari un certificato medico? Aggiunse il magro.
Il grasso scoppiò a ridere.
Anche il magro rise.
È che siamo troppo felici, disse il grasso.
L’uomo rimase impassibile.
Allora, questi allegati? Domandò il magro.
Nessuno, disse l’uomo.
Molto bene, disse il grasso.
Una firma qui per approvazione e una qui per la privacy, disse
l’impiegato magro consegnandogli il documento.
L’uomo firmò, lasciò il foglio sulla scrivania senza neppure leggerlo, si alzò, salutò e uscì.
Stanchezza, bisbigliò l’impiegato grasso, stanchezza.
Camperà ancora a lungo, disse il magro.
Fosse così semplice avremmo una fila lunga da qui a domani,
disse il grasso.
Invece gli tocca di campare, disse il magro.
Invece ci tocca di campare, confermò il grasso.
Alzandosi dalla scrivania, il magro notò una cimice che si trascinava intorpidita sul piano morbido che veniva utilizzato per
timbrare i documenti. Prese un enorme registro e la spappolò, incurante del fetore che avrebbe emanato.
Che schifo, disse il grasso.
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Ma il periodo delle cimici non dovrebbe essere l’autunno?
Domandò il magro.
Cosa sei, un entomologo? Disse il grasso.
Hai qualcosa contro gli entomologi? Domandò il magro.
E comunque con il clima chi ci capisce ancora qualcosa è bravo, sembra di essere ai tropici, disse il grasso.
Hai proprio ragione, confermò il magro.
Le cimici preferiscono il clima tropicale? Domandò il grasso.
E io che ne so, disse il magro, so soltanto che ultimamente ce
n’è una quantità industriale.
Sono animali schifosi, concluse il grasso.
Davvero schifosi, confermò il magro.
Prima di richiudere le veneziane sbirciò dalla finestra: a
quell’ora l’acqua del fiume Atanor, uno dei dieci fiumi più inquinati al mondo, era color turchese fosforescente con venature ottone
antico.
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VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (3)
___________________
Durante la Settimana dei Pronostici Obbligatori Annuali la
questione dei suicidi abusivi si aggravò ulteriormente.
Tutti i dipendenti del Ministero Suicidi & Festività® furono allertati e costretti a turni massacranti per sbrigare le pratiche ordinarie e fronteggiare l’ondata anomala di indeterminazione che investì il Paese a ridosso dei festeggiamenti per la Giostra del Peccato, la più importante festività del Sabbionasso.
L’ispettore di Nettezza Umana Doroteo Umbilk si recò
all’Agenzia Divinatoria Morgau per ottenere il suo Aggiornamento
Obbligatorio Annuale, e quando ne uscì fece una sosta in un bar
del Parco Sintetico Märklin, situato nei pressi del Centro Storico
Veramente Medievale.
Dall’ingresso notò il lungo bancone in legno, un’insegna mezza
arrugginita sopra la vetrina dei liquori e un grande ritratto del Gerarca di Sabbionasso intento a sorseggiare una birra, con tanto di
schiuma sui baffi ed espressione compiaciuta.
L’insegna diceva:
Un Posto Pulito, Illuminato Bene*
*Il nome è un richiamo letterario e non rispecchia necessariamente le condizioni
elettrico-igieniche del locale
Umbilk attraversò il pavimento d’argilla infangato a passo lento, guardandosi attorno. Il locale aveva una forma irregolare, segatura dappertutto, boccali di birra e orologi dozzinali appesi alle pareti. Il soffitto era un perlinato nauseante che dava l’impressione
di mangiarsi tutto l’ossigeno. C’erano sei o sette persone sedute a
tavolacci di finto legno decorati con uno spoglio centrotavola. Un
negro con un grembiule stava ramazzando l’acqua lercia dagli angoli, ammucchiando mozziconi di sigaretta, grumi di polvere, cartacce, maledicendo dio e il temporale della notte prima.
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Quando raggiunse il bancone, Umbilk si sedette a uno dei cinque sgabelli, il quarto partendo da sinistra. In quello centrale sedeva un tizio stempiato, vestito con una camicia frusta e un paio di
pantaloni troppo pesanti per il caldo di quei giorni; stava discutendo col barista molto animatamente, agitando le mani e alzando
il tono della voce.
Umbilk guardò la vetrata dei liquori; il barista lo salutò con un
cenno del capo e gli domandò cosa volesse bere.
C’è puzza di vomito stantìo, disse Umbilk.
Il tizio stempiato si zittì.
Il barista si guardò intorno, poi fissò Umbilk.
Hai letto il cartello no, disse.
L’ho letto, disse Umbilk.
E allora di cosa ti lamenti, domandò il barista.
Mi lamento perché questo posto fa schifo, disse Umbilk.
Cosa sei dell’Ufficio Igiene, disse il barista.
Per tua fortuna no, disse Umbilk.
Se vuoi ordinare bene, disse il barista, altrimenti smamma.
Un whisky, disse Umbilk.
Il barista guardò il tizio stempiato.
C’è qualcosa che non hai capito nell’ordinazione? Domandò
Umbilk.
Direi di no, rispose il barista.
Allora cosa aspetti, disse Umbilk.
A quel punto il barista collocò un bicchiere consumato da centinaia di scadenti lavaggi sul bancone e voltandosi afferrò una bottiglia dalla vetrina sporca di unto e disseminata di impronte digitali.
C’è qualche marca in particolare che preferisci, domandò.
Qualunque intruglio va bene.
Il barista versò del liquore nel bicchiere e si rimise a discutere
col tizio stempiato.
Sono in mezzo a noi, attaccò. Hanno quei cognomi del cazzo,
Wernikoff, Bumeroff, Krauterkraft. Si comportano quasi come noi, ma
non sono noi.
Sono ebrei, disse il tizio stempiato.
E se gli vai a riferire che loro sono peggio dei nazi ti rispondono che sei un ignorante, disse il barista.
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Proprio così, confermò il tizio stempiato, ma vallo a raccontare
ai palestinesi.
Porcaccia eva, qualunque cosa gli si dica ti rispondono che sei
ignorante, che non conosci la storia, disse il barista.
E non mangiano neppure il prosciutto, disse il tizio stempiato.
Una cosa ridicola, disse il barista.
La nostra religione è la religione di prima scelta, disse il tizio
stempiato.
Come il bianco è il colore di prima scelta per la pelle, disse il
barista.
Ci hai proprio preso, disse il tizio stempiato.
Non è vero Chopper? Urlò il barista al negro che stava ancora
ramazzando il pavimento.
Fanculo, disse il negro che stava ramazzando il pavimento.
Vedi, disse il barista, gli dai un lavoro e loro ti trattano così.
Si misero a ridere.
Umbilk ricevette una telefonata dalla moglie Sara, che gli ricordava l’appuntamento al Centro Sterilità. Spinse il bicchiere mezzo
pieno in direzione del barista.
Quanto costa questa roba, chiese.
Meriteresti che qualcuno ti insegnasse le buone maniere, disse il
barista.
Meriteresti che qualcuno ti curasse l’imbecillità, disse Umbilk.
Ma per quella non esiste cura.
Appoggiò un paio di monete sul bancone e cinque minuti dopo
era in strada, fagocitato dal traffico eccitato della città.
~
La Settimana dei Pronostici Obbligatori era la settimana più
frenetica dell’anno, a Sabbione e dintorni.
Ciononostante i preparativi per l’imminente festività coinvolgevano tutti. I cartelli fluorescenti sormontavano i muri dei palazzi. I venditori di cocomeri strillavano per le strade invase da branchi di cittadini, turisti, religiosi. Verso il tramonto questa gente affollava i portici per i cocktail con i cavalcatori e alcuni dei tacchini
selvatici scampati alla corrida impazzavano per le vie fino a quan69
do un colpo di pistola, un bastone o un coltello non li abbatteva.
Molti Danti Alighieri declamavano l’Inferno su pire artificiali soverchiate dai vessilli gerarcali, come predicatori ciechi che urlassero al mondo la loro disperazione, carne guasta buona per i corvi,
che infatti s’affollavano sulle carcasse dei ratti maciullati. In tutti i
bar risuonavano melodie estive, osanna al popolo di Sabbione, i
suonatori di strada diffondevano lodi agli eroi della Giostra. Una
vaga eccitazione gremiva strade e bar, e i contadini giunti da Pizzengo e Castrocozzo, da Scurzolengo e Altaforte, s’aggiravano col
vestito buono in cerca di puttane lungo il fiume, che in quei giorni
afosi assumeva colorazioni che oscillavano dall’ametista al celadon, dal castagno chiaro all’eliotropo fluorescente.
Umbilk si diresse in collina verso una costruzione che a molti
sarebbe parsa un villaggio turistico. Si trattava invece del Centro
Sterilità Gerarcale, luogo in cui, da un anno a questa parte, Umbilk
si recava almeno una volta a settimana.
Da tre anni lui e la moglie cercavano di avere un figlio, e ultimamente le cose si erano fatte un po’ tese, soprattutto a causa
dell’indolenza con cui Umbilk si era sottoposto al ciclo di sedute e
cure presso il Centro.
Dopo l’ennesima sequenza infruttuosa di rapporti sessuali, tutti
avvenuti secondo il metodo Ferenczi, Sara lo aveva infatti convinto a partecipare a numerosi incontri e percorsi formativi, tra i quali
l’unico corso che Doroteo amava frequentare si rivelò essere quello di transustanziazione neonatale, ogni mercoledì e giovedì (19.30
– 21.30) presso l’aula F del Centro.
La prima volta si erano ritrovati in una sala colma di persone
mentre un dottore dall’aria saccente snocciolava una serie di appuntamenti cui avrebbero dovuto partecipare nei mesi successivi.
“Benvenuti al corso di transustanziazione neonatale”, aveva
detto. “Qui vi insegneremo a odiare i poppanti in maniera talmente profonda che al termine dell’esperienza l’unico vostro desiderio
sarà quello di non averne mai”.
Il tizio si chiamava Daniel Chopra. “Il vostro desiderio di gravidanza si convertirà in disgusto, la vostra aspirazione alla paternità si tramuterà in brama di solitudine; sconfiggerete la sterilità con
70
la stessa arma della sterilità: accentuandola e amandola per quello
che è”.
Quel corso era progettato per infecondi all’ultimo stadio, gente
che aveva già svolto un programma di cure mentali e fisiche senza
alcun risultato.
Sara aveva sussurrato a Umbilk che probabilmente erano finiti
lì per sbaglio. Umbilk aveva risposto che gli sembrava il primo e
unico corso che ai suoi occhi avesse senso.
A quel punto Sara era uscita dall’aula in lacrime, lacerata da tutti i pensieri nefasti che la trafiggevano ormai da troppo tempo;
aveva tentato di avere un figlio in trentasette modi diversi, sperimentando tecniche innovative e dodici inseminazioni, l’ultima peraltro quasi riuscita: ciclo ritardato di otto giorni, nausea, voglia di
anguria con fritto misto di pesce e umore a dir poco stravolto,
prima che tutto sfumasse in un bagno di sangue, il suo, e in un
pianto a dirotto al telefono con l’amica Lorna, conosciuta sul forum del sito internet vogliadigravidanza.org e divenuta preziosa confidente.
Anche Lorna, seppure non avesse un compagno, aveva ripetutamente provato a rimanere incinta, prima utilizzando un camionista di Tonco e successivamente un pubblico ministero di Sabbione, anch’egli habitué del sito vogliadigravidanza.org, senza risultati
apprezzabili, tanto che si era iscritta al programma Supporta un Vecchio! organizzato dall’Associazione Non Riconosciuta Gerontofili
Sabbionassi, dove trascorreva stuzzicanti serate in compagnia di
vecchi semiabbandonati, pervasa da “quell’eccitante sensazione di
morte e muffa”, immensamente distante dalla gaiezza bambinesca
che ormai la terrorizzava nelle piazze del centro, nei parchi, nelle
scuole.
Sara aveva provato la stessa sensazione diverse volte; sua sorella Maribel aveva avuto due bambini nel giro di un anno e mezzo,
un maschio e una femmina, e ognuna delle gravidanze aveva palesato un diffuso senso di nausea in Sara, che, successivamente, a
ogni pianto dei piccoli, a ogni sussulto, a ogni tenerezza, sperimentava lo stesso dolore che si verifica quando una lama affilata
penetra nella carne accanto al cuore, nel midollo interno, profondamente, distruggendo quel naturale amore femminile nei confronti dei bambini. In fin dei conti perché non ammetterlo in mo71
do definitivo, Sara detestava furiosamente quei due marmocchi
sbavanti e merdosi e sempre al centro d’ogni attenzione, mentre
invidiava la sorella fino al punto di sognare che soffrisse smodatamente per i figli; desiderava che, sfuggiti al suo controllo in pieno centro, fossero investiti da un autobus, che in preda a un raptus li uccidesse entrambi a pugnalate, che fossero rapiti, sodomizzati, brutalizzati.
Avrebbe anche desiderato ucciderli con le proprie mani, seviziarli, soffocarli nel sonno, procurare alla bambina sfregi così profondi che la sua vita sarebbe stata rovinata per sempre.
A Umbilk toccava l’ingrato compito di sostenere la moglie, di
calmarla, di spronarla a cercare nuovi metodi per aumentare la fertilità, possibilmente non invasivi (la pomata Spermamax™ Plus,
provata la prima volta durante la Giornata della PaternitàGarantita-Al-Novantaquattro-Percento Spermamax™, aveva procurato al povero Umbilk eczemi e fistole dolorosissimi).
Quando entrò nella reception del Centro Sterilità fu accolto
come al solito da una dipendente molto cordiale che lo fece accomodare nella stanza della terapia di gruppo conosciuta come
Motivazione Padri Ipotetici, la quale si svolgeva ogni venerdì pomeriggio dalle 14 alle 16; Umbilk vi partecipava ormai da tre mesi e
mezzo.
Nonostante fosse un periodo di lavoro frenetico, costellato da
suicidi e da suicidi abusivi che si susseguivano con ritmo incessante, aveva deciso di non perdere l’incontro, raccontando una balla
ai colleghi.
Il suo lavoro consisteva nel riassettare aree pubbliche (e dopo
l’ultimo decreto legge, anche private) danneggiate o insozzate dalle
conseguenze di un suicidio. Pareva un’attività squallida, come
spesso gli faceva notare Sara, ma in realtà era molto ben retribuita,
e soprattutto faceva di lui un eroe locale, acclamato e onorato da
tutta la cittadinanza. Per tali ragioni Umbilk amava il proprio lavoro. Aveva studiato duramente per ottenere una promozione a
Ispettore, e finalmente, dopo cinque anni di sforzi, era arrivata.
Sembrava che tutto procedesse per il meglio: nuova casa in
centro città, stipendio più alto, pronostici positivi, la stima di colleghi e superiori e l’ammirazione dei propri concittadini. Poi quel
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dannato figlio che non voleva arrivare, quella sensazione umiliante
di impotenza e vergogna di fronte alla natura, quella sterilità che
tre andrologi avevano scongiurato bollandola come una supposizione e nulla più, ma una supposizione che si era rivelata sufficiente a minare le sue certezze. Non era neppure sfiorato da complessi
di inferiorità maschile, tipicamente gerarcali, eppure si sentiva incompleto, incapace di cambiare il corso degli eventi, costretto a
boccheggiare in un angolo tenebroso del Continuum Temporale
Sabbionasso.
Le sedie nella sala erano disposte a cerchio imperfetto; molti
giovani uomini sedevano con l’espressione un po’ scarmigliata e
vergognosa. Umbilk sedette tra un uomo di mezz’età in giacca e
cravatta e un giovane biondiccio con cui aveva scambiato qualche
parola dopo l’incontro della settimana precedente; salutò tutti con
un cenno della mano, poi appoggiò la caviglia destra sul ginocchio
sinistro, attendendo che il relatore facesse il suo ingresso per iniziare la terapia.
Dominic Liberatore entrò nella sala dopo un paio di minuti,
accompagnato da tre assistenti.
Ripetete insieme a me, disse, senza neppure guardare in faccia
il proprio pubblico.
Ci fu un rumore di sedie spostate sul pavimento.
Ripetete: Io desidero intensamente un figlio.
Mentre pronunciava quella frase sosteneva la voce con ampi
gesti delle braccia e delle mani, quasi scandendo le sillabe una ad
una.
I padri ipotetici ripeterono.
Più forte, disse Dominic Liberatore.
I padri ipotetici ripeterono a voce più alta.
Dovete motivare il vostro corpo affinché si predisponga alla
paternità, disse Dominic Liberatore.
Ripetete insieme: voglio che il mio corpo si predisponga ad accettare la paternità.
I padri ipotetici ripeterono.
Prima che Dominic Liberatore potesse spronarli ad aumentare
il tono, i padri ipotetici ripeterono la frase a voce più alta.
73
Bravi, disse Dominic Liberatore. Solo in questo modo il vostro
corpo potrà liberarsi dalle paure che istintivamente si annidano nei
vostri cuori.
Sprigionate il potere generativo che è in voi, disse ancora.
Umbilk ripeté quelle frasi idiote un paio di volte, poi si alzò di
scatto e uscì dal Centro.
Dieci minuti dopo era in auto, dove la radio stava trasmettendo
il codice per un suicidio di gruppo®. Accese una sigaretta e pensò
che in una giornata così luminosa niente potesse essere tanto gratificante quanto ripulire l’asfalto e i muri della sua città da ripugnanti brandelli di cadavere umano. Costeggiò il fiume Atanor con
i suoi riflessi luminescenti, ammirò un paio di ragazzini che si sfidavano in equilibrio sul pontile a pelo dell’acqua e pensò che non
avere figli, a questo mondo, era una fortuna sfacciata.
***
74
TEMPO DI UCCIDERE
1.
Siedo alla mia scrivania in pino della California invasa da schizzi di disegni, cartelline gialle e ritagli di quotidiano. La mia mano
destra afferra stancamente il mouse, la sinistra lambisce la mia solita barba del lunedì.
Mi trovo in un ambiente luminoso al tredicesimo piano di un
palazzo di Sabbione, redazione della rivista di caccia esperantista
Tempo Mortigi.
Dalla finestra alla mia sinistra noto quattro giapponesi in bilico
tra il vuoto e la balaustra conforme (non più alta di 67,9 cm) sul tetto
del palazzo di fronte, intenti a simulare una caratteristica clausola
99 mentre un altro turista (dal tipo di camicia potrebbe trattarsi di
un americano, dal tipo di sandali di un tedesco) scatta loro una foto ricordo.
In strada i soliti agitatori stanno protestando con cartelli e megafoni.
Un ritratto a colori di Ludwik Lejzer Zamenhof è appeso alla
parete dietro la mia schiena, una paratia in polimetilmetacrilato mi
isola dagli strepiti del mio collega, Bernard Kranz, della Redazione
Uccelli (quaglie, beccacce, tacchini selvatici eccetera); su tutte le
pareti spiccano i trofei del nostro direttore e fondatore Truman L.
Gerk: due teste di cinghiale, una di cervo, una di capriolo.
Sto rivedendo un articolo molto raffinato, molto scrupoloso,
dal titolo Il fascino della braccata in relazione alla Provvidenza Divina.
Sono tempi di magra, e nei tempi di magra dobbiamo relazionarci ad altri mondi, ammiccando agli appassionati di culture diverse, ma soprattutto dobbiamo abbandonare l’esperanto e scrivere in italiano. “Nessuno la capisce questa lingua del cazzo. Probabilmente nessuno l’ha mai capita”. Con queste parole del nostro
direttore cinque mesi fa abbiamo messo la parola fine al progetto
romantico di una rivista interamente scritta nella lingua di Zamenhof.
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Getto fuggevolmente un’occhiata di sotto: una cinquantina di
manifestanti sta ingiuriando il buon nome del nostro direttore, altri reggono cartelli rudimentali scritti con vernice spray su tavole
di cartone. Uno dice: Se vi piace sparare agli uccelli, sparate al vostro!
Concludo l’articolo, lo invio a Emma di Impaginazione. Ho un
po’ di nausea. Bernard mi chiede di correggergli le bozze.
Correggo le bozze di Bernard. Scrive la terza persona presente
indicativo del verbo avere senza acca e con l’accento. Possino anziché possano.
Aggiungo le h, tolgo gli accenti. Sostituisco le i con le a. aggiungo qualche virgola; un paio di punti. Mando a Emma di Impaginazione.
Bernard mi ringrazia. Prendo le mie cose, scendo nell’androne.
Saluto Brange, l’usciere del palazzo, sbircio fuori dall’ingresso, vedo i manifestanti sul piede di guerra. Brange non mi rivolge neppure uno sguardo.
Esco dal retro.
2.
Gerk mi convoca nel suo ufficio.
È piuttosto su di giri.
Per la puttana, Villanova, dice, credi che i cacciatori siano tutti
glottologi del cazzo? Cosa significa allegante? Gaudio ridevole?
Paratestuale? Tomismo? Pensi che quei razzolamerda con un fucile a tracolla abbiano il tempo di andare consultare un vocabolario
del cazzo, mentre leggono gli articoli della nostra rivista?
Non so cosa dire.
Rifare, dice Gerk.
Come rifare? Domando io.
Gerk mi guarda col suo unico occhio (l’altro gli fu tranciato di
netto da un compagno durante una battuta di caccia al cinghiale).
Mi spiego meglio, dice. Riscrivi questa merda di articolo affinché i nostri lettori del cazzo capiscano quello che c’è scritto. È
chiaro?
Chiarissimo, dico.
76
Gerk prende una telefonata, io ripenso ai tempi della Scuola
per Aspiranti Scrittori più Famosa della Nazione.
Villanova, razza di scrittorucolo da strapazzo, quando pensi
d’inserire una descrizione dei personaggi? E qualcosa di più interiore, per esempio un approfondimento psicologico? È sempre
stato il suo problema, povero Villanova, alla Scuola per Aspiranti
Scrittori più Famosa della Nazione; il ragazzo adopera con raffinatezza avverbi e talvolta anche gli aggettivi, disse l’Insegnante di
Avverbi & Aggettivi. Ma non si applica nell’approfondimento psicologico dei personaggi, disse l’Insegnante di Approfondimento
Psicologico. E gli incipit sono un disastro, disse l’Insegnante di
Incipit. Quel figlio di puttana non ha idea di come cominciare una
storia.
Del resto non andava meglio con le descrizioni di persone e/o
cose e/o paesaggi. Villanova? Ha qualche speranza se non abbonda con i verbi al passivo e con i condizionali, disse l’Insegnante di
Tempi Verbali alla Scuola per Aspiranti Scrittori più Famosa della
Nazione. Ed è piuttosto bravo con le parafrasi, le parodie, le citazioni, l’insieme di tutto ciò.
Ma piuttosto bravo non significa bravo, disse l’Insegnante di Parafrasi & Parodia & Citazione.
Gerk riattacca.
Ci siamo capiti? Domanda.
Rifare, dico.
C’è tempo, dice. Mi è appena stato comunicato che per la
Giornata della Transustanziazione Sportiva Animale Playmobil si
terrà una grande battuta di caccia-con-animali-da-pelliccia
all’Azienda Faunistico Venatoria di Sabbione Est.
In pratica si tratta di celebrare la conversione spirituale di ermellini, visoni, coccodrilli, pitoni, eccetera, che in questa giornata (ma
anche in molte altre giornate) subiscono una conversione da esseri
viventi in pellicce, borsette e portafogli.
E allora? Domando.
E allora dopodomani alzi il culo e lo porti all’Azienda Faunistico Venatoria per seguire la caccia. Fai interviste, scopri che cosa
77
diavolo c’entra un’industria come la Playmobil con questa giornata, eccetera. Cristo ti devo insegnare tutto? Dice.
Certo che no, dico.
E allora sparisci, per la puttana, urla.
Quando Gerk urla il mio mal di testa raggiunge picchi inimmaginabili.
Torno nel mio ufficio per documentarmi sulla Giornata della
Transustanziazione Sportiva Animale Playmobil. Siedo alla mia
scrivania in pino della California ecc. ecc.
Domando a Bernard se durante lo scuoiamento dei visoni è
preferibile che i visoni siano ancora vivi.
Adesso no, Martin, ti prego, dice, non ho neppure il tempo per
andare a pisciare.
Il suo reportage intitolato Viva le Tortore assorbe tutte le sue
energie.
Trovo qualcosa sullo scuoiamento e sul trattamento degli animali da pelliccia su internet. Sbircio di sotto per capire se i manifestanti sono andati via. Sono ancora lì.
Per concentrarmi inserisco la mia cassetta nel mangianastri.
Metto le cuffie. Spingo play.
Una voce intonata, femminile, molto ben bilanciata e tonica,
calda e carnale, pronuncia incessantemente l’elenco governativo
delle sopravalutazioni più frequenti.
Respirare è sopravvalutato. L’amore è sopravvalutato. Siamo sospesi tra il
bene e il male, ma il bene è sopravvalutato. Svegliarsi è sopravvalutato. A
parte il corsivo Egmont chiaro e spassarsela tra le lenzuola con una bambola
bionda non c’è nulla di meglio di una conversazione brillante, ma ognuna di
queste cose è sopravvalutata. Dormire è sopravvalutato. Veder crescere i propri
figli è sopravvalutato. Dio è sopravvalutato.
Spengo il mangianastri.
Scrivo poche righe, le mando a Emma di Impaginazione. Bernard mi chiede di correggergli le bozze.
Scrive due volte stassera e tre volte superfice. Non è dotato del
commercio della punteggiatura. Mette qua con l’accento, da voce
del verbo dare senza accento. Tolgo le s di troppo, aggiungo le i.
Punteggio qua e là. Tolgo e aggiungo gli accenti. Mando a Emma
di Impaginazione.
Bernard mi ringrazia.
78
Scendo nell’androne, sbircio fuori, saluto Brange. Lui non mi
saluta.
Esco dal retro.
3.
Tutti i mercoledì mattina c’è la riunione di redazione in sala
riunioni. Al segnale dobbiamo sederci sulle poltroncine disposte a
semicerchio. Il segnale è un grugnito della durata di circa sette secondi che interrompe per sette secondi ogni attività. Andiamo in
sala riunioni e ci sediamo sulle poltroncine. Siamo io e Bernard,
Emma di Impaginazione, Zora di Ricette di Selvaggina, Cristal di
Ungulati e Cervidi, Kevin di Ippica e Corrispondenza, Ferris di
Pubblicità e Amministrazione, Beaujolais di Manifestazioni Sportive (Venatorie).
Gerk è seduto di fronte a noi, su una specie di trono.
Dice: datevi da fare coglioni, qui c’è da scrivere una rivista che
persuada i cittadini ad amare la caccia; non devono accettarla, branco di mezzeseghe, non devono gradirla, devono a-mar-la.
Mi sono spiegato, brutte teste di cazzo? Non siete stati assunti
per ingozzarvi di baghel ripieni di philadelphia e plumcake alla carota. E trovate inserzionisti, cristo, che il diagramma delle vendite
sta precipitando come una quaglia appena abbattuta da un Winchester.
Ci diamo da fare.
Discutiamo.
Quando imparerai a giustificare il testo dei tuoi articoli? Domanda Emma a Kevin. Ci perdo delle ore.
Da quando in qua gli artisti devono preoccuparsi di giustificare il
testo? Dice Kevin.
Da quando sei stato assunto in questo giornaletto di merda, fa
Cristal di Ungulati e Cervidi.
Silenzio.
Gerk non dice niente. Sappiamo tutti che se la scopa.
Si decidono gli articoli del numero in uscita fra due settimane.
Kevin propone il Massacro Equino Liturgico presso le popolazioni segrete dell’Amazzonia.
79
Sembra divertente, dice Beaujolais.
Beaujolais è il più vecchio della redazione. Ha un passato da vero cronista sportivo per una rivista di Esperantologia e Sport, per
cui conosce perfettamente l’esperanto. Molto tempo fa ha scritto
un articolo di cronaca sulla Giostra del Peccato che è divenuto
giustamente famoso in tutto il Paese. Ha scritto numerosi altri reportage di fama, premiati e ammirati.
Poi senza un motivo preciso ha iniziato a sbronzarsi e a scrivere articoli sempre più deliranti e mistici, infarciti di omicidi mai
avvenuti, sette sataniche e massoniche, religioni mostruose, miti
sanguinari.
E così eccolo qui alla riunione del mercoledì, apparentemente
sobrio, a concertare pezzi sullo scuoiamento dei visoni o sullo
sterminio delle foche.
Gli fanno schizzare le budella con una lancia imbevuta di curaro, gli strappano il cuore e se lo mangiano crudo e sanguinante,
dice Kevin.
Davvero portentoso, dice Bernard.
Uno schifo del cazzo, fa Cristal.
E dove li trovano i cavalli, in Amazzonia? Domando io.
Chissenefrega dove li trovano, dice Bernard.
Sempre il solito rompiballe, dice Emma.
Hai controllato le fonti? Domanda Gerk.
Affidabilissime, dice Kevin.
Procedi, dice Gerk.
Bernard lavora al suo reportage sulle tortore.
Sto scrivendo un gran bel pezzo, dice.
Non è male, conferma Emma.
Non vi pare che un massacro rituale di cavalli sia un po’ troppo,
come dire, forte? Domanda Ferris.
Gerk lo squadra col suo occhio perverso.
Tu pensa a trovarmi degli sponsor, dice.
Ferris tace.
Non trova uno sponsor da mesi. L’ultimo ha stracciato il contratto dopo la pubblicazione dell’articolo di Beaujolais intitolato
Morte a Sangue Caldo: perché occorre scuoiare i Cincillà vivi per ottenere un
prodotto finale migliore.
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Neppure i produttori di cartucce e armi ci concedono più
un’inserzione, da quando lo stesso Gerk ci fece scrivere l’articolo
su come Uccidere Tacchini Selvatici a Bastonate, nel quale sosteneva,
tra l’altro, che uccidere qualunque animale a mani nude denota
grande coraggio, che poi è il vero spirito della caccia.
Cristal si sta occupando di un pezzo sulla caccia ai cervi in
Romania.
Davvero notevole, dice Bernard ironicamente.
Aspettiamo tutti con impazienza il tuo servizio su quelle tortore del cazzo, dice Cristal.
Fatela finita, dice Gerk.
Beaujolais sta scrivendo un pezzo sulla storia della Giostra del
Peccato. Sarà il nostro cronista dell’evento.
A me tocca il servizio sulla battuta di caccia-con-animali-dapelliccia all’Azienda Faunistico Venatoria di Sabbione Est.
Insomma, si tratta di andare alla riserva venatoria di Sabbione
per la descrizione della battuta di caccia, che consiste nel liberare
un migliaio tra visoni, ermellini, castori, martore, moffette, procioni e tassi all’interno del Bosco Artificiale da Caccia e divertirsi
ad ammazzarli per poi ottenerci pellicce o quel che è.
È davvero disgustoso, dice Emma.
Tanto comunque sarebbero morti, dice Kevin, mi sembra giusto che se la spassino un po’.
Guardo fuori. Piove.
Torno a sedere alla mia scrivania in pino ecc. ecc.
Ascolto i megafoni degli animalisti in strada. Epiteti. Ingiurie.
Urla incomprensibili.
Poi più niente. Silenzio. Il silenzio è male, poiché in questo
modo sono costretto ad ascoltare Bernard che ripete sottovoce la
sua lezioncina. Streptopelia turtur turtur, Streptopelia turtur arenicola,
Streptopelia turtur rufescens, Streptopelia turtur hoggara, Streptopelia decaocto decaocto, Streptopelia decaocto stoliczkae, Streptopelia decaocto xanthocyclus.
La testa mi esplode, gli occhi si socchiudono, la pioggia di Sabbione invece di stimolarmi mi confonde, mi rende impotente di
fronte a una pagina di Word sulla quale non riesco a scrivere neppure una parola.
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Inserisco la cassetta nel mangianastri. Metto le cuffie. Spingo
play.
Spesso ci sentiamo invasi da una felicità incomprensibile: tale felicità è sopravvalutata. Le giornate di sole sono sopravvalutate. Trasferirsi in Costa Rica è sopravvalutato. Le trentadue sonate per pianoforte di Beethoven sono sopravvalutate. Il rumore delle foglie in un bosco a qualcuno potrà sembrare piacevole, ma è sopravvalutato. Il gusto del tabacco è sopravvalutato. Gli zucchini
impanati come preparava vostra madre sono sopravvalutati. Vostra madre è
sopravvalutata.
Bernard mi fa un segno. Spengo il mangianastri.
Mi ricorda che oggi è la Giornata degli Interrogativi Sibillini Senza
Risposta Apparente Toblerone Kraft, e quindi sono invitato/costretto a
domandarmi (e a domandare agli altri) cose totalmente idiote del
tipo Secondo te, Costantinopoli dovrebbe ancora chiamarsi così? consultando tra l’altro un Libretto di Interrogativi per Tizi Senza Fantasia.
Un novello Mendeleev ti potrebbe incasellare con precisione in una tavola
periodica delle identità, oppure ti ritroveresti un po’ in tutti gli elementi? mi
chiede Bernard.
Io gli chiedo se la Giornata degli Interrogativi Sibillini Senza
Risposta Apparente Toblerone Kraft preveda che agli interrogativi
si debba anche fornire una risposta.
Questo è un interrogativo tuo personale o fa parte degli interrogativi sibillini? Domanda lui.
Non so cosa rispondere.
Credo sia mio personale, dico.
Pensi di rispondere agli interrogativi sibillini che ti saranno posti durante la Giornata degli interrogativi sibillini, oppure pensi di
non farlo? Domanda Bernard.
Ho la nausea. Devo mandare qualcosa a Emma di Impaginazione, ma non ho scritto niente. Non mando niente.
Bernard mi chiede di correggergli le bozze. Sto per vomitare.
Non oggi, Bernard, dico.
Ci rimane male.
Ci butto un occhio. Ha scritto evitare di affliggere i manifesti. Qualcun altra senza apostrofo. Mette la d eufonica in ogni circostanza:
conto nove ad, sei ed, nientemeno che cinque od.
Lo mando affanculo. Mi implora.
Mi sforzo.
82
Tolgo la l. Aggiungo l’apostrofo. Levo almeno undici d eufoniche. Mando tutto a Emma di Impaginazione.
Bernard è davvero un coglione.
Mi ringrazia. Hai una pizza pagata, dice.
Scendo nell’androne, guardo fuori. Saluto Brange. Lui non mi
saluta. Anche con questo tempo di merda è pieno di manifestanti.
Esco dal retro.
4.
È la Giornata della Transustanziazione Sportiva Animale
Playmobil, per cui mi sveglio presto e vado all’Azienda Faunistico
Venatoria di Sabbione Est, che sorge a poche centinaia di metri
dal Parco Sintetico Märklin.
Il Bosco Artificiale misura all’incirca novanta ettari, dispone di
un laghetto artificiale, un ristorante-bar e una vegetazione sintetica
fedelmente ricostruita che emana un’invitante puzza cancerogena
di gomma andata a male.
Per l’occasione la Playmobil ha anche installato cinquecento alberi di plastica in scala uno a uno con verosimiglianza testata dal
proprio Reparto Verosimiglianze Botaniche.
Hanno la stessa verosimiglianza che potrebbe avere un pupazzo di Teddy Bear con un Orso Bruno Alpino.
Qualche albero vero comunque c’è. Un paio di magnolie. Un
gruppetto di betulle. Più le innumerevoli piante sintetiche già presenti nel Bosco che il sole ha seccato, squarciato, ingiallito.
Mi siedo nel patio del bar.
C’è una tribunetta sopraelevata per assistere alla battuta di caccia. È gremita di gente, per lo più donne e bambini, suppongo parenti dei cacciatori. I bambini hanno fucili della Playmobil, archi e
frecce della Playmobil, alcuni addetti sono travestiti da omini della
Playmobil.
Distribuiscono per lo più caramelle e zucchero filato.
Assisto alla battuta di caccia.
I cacciatori sono travestiti da uomini di Neanderthal e armati di
pugnali, asce, accette, arpioni, fionde.
Invece dell’acciaio hanno lame di pietra. Per la verosimiglianza.
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In venticinque minuti fanno fuori venti visoni, trenta martore,
diciotto cincillà.
Chiaramente non possono utilizzare proiettili, altrimenti danneggerebbero la pelliccia irrimediabilmente. Per lo stesso motivo,
mentre uccidono con le armi bianche, devono agire con estrema
attenzione per non lordare la pelliccia.
I cacciatori si aggirano nella boscaglia Playmobil (belli i cespugli
viola, le querce azzurre, le foglie gialle e rosse) impugnando l’arma
ed emettendo strani grugniti. Braccano gli animali. Qualcuno di
loro sguaina pugnali con lame d’acciaio.
Quando accoppano una bestiola, questa viene immediatamente
trasportata nell’attiguo Laboratorio da Campo Playmobil en plein
air (per permettere a tutti di osservare), dove gli operai specializzati la scuoiano, ne prelevano la pelliccia, la depongono su appositi
ganci.
A questo punto un operaio scaraventa il cadavere scuoiato della
bestiola all’interno di un macchinario (a forma di enorme cubo
Playmobil), il quale inghiotte il cadavere, lo tritura in pochi secondi ed espelle dall’altra apertura una borsetta, una pelliccia, un paio
di stivali, eccetera. Per dimostrare il processo evolutivo
dell’animale appena cacciato e scuoiato. Per mostrare, specie ai
bambini, la transustanziazione degli animali nella giornata a loro
dedicata.
Una pelliccia di visone schizza in aria e una delle due hostess
Playmobil (travestite da Jane di Tarzan, ma perché?) la afferra al
volo e la indossa, improvvisando una sfilata di fronte alla Tenda
Playmobil, sulla quale incombe la minaccia di un’enorme beccaccia di plastica.
Si divertono un mondo. La tribuna Playmobil a strisce verdi e
rosse si scuote. Gli omini Playmobil viventi incitano i bambini ad
applaudire.
Sto per vomitare.
Mi accendo una sigaretta. Prendo appunti. Del resto sono qui
per questo. Una mamma premurosa mi fa spegnere la sigaretta.
Non vede che ci sono i bambini? Dice.
Chiedo scusa.
Dopo un ermellino transustanziato in sciarpa e un castoro transustanziato in giacca c’è la pausa pranzo.
84
Ne approfitto per avvicinare un gruppetto di cacciatori.
Belli i vostri travestimenti, dico.
È una rivisitazione del periodo neanderthaliano, dice quello col
pugnale giapponese. Lo riconosco per via del manico intarsiato
con ideogrammi.
I pugnali giapponesi esistevano già ai tempi degli uomini di
Neanderthal? Gli chiedo.
Ma guarda, abbiamo un esperto di verosimiglianze preistoriche,
dice quello con la scure di pietra.
Domandavo soltanto, dico io.
Per tua informazione, questo non è un pugnale, dice il primo.
Ah no? dico io.
No, dice lui. Questo è uno stiletto thailandese a doppia lama.
Ah, dico io. E quindi esistevano già stiletti thailandesi a doppia
lama nel Paleolitico?
Suppongo di sì, dice lui.
Se ne va. Dopo un minuto ritorna con un cacciatore travestito
da sciamano di Neanderthal. Più che altro sembra un capo Navajo.
E così lei sarebbe un esperto di verosimiglianze storiche? Mi
domanda.
Veramente sono un giornalista, dico.
Mostro il tesserino.
Non poteva dirlo subito? Dice il capo indiano di Neanderthal
sprizzando cordialità.
Mi spiace, dico.
È qui per l’intervista? Domanda.
Sì, rispondo.
Non mi lascia neppure il tempo di aprire il taccuino.
Precisiamo subito, dice, che il processo di transustanziazione
può essere cruento. E chi lo nega? Noi no di certo. Ma che cazzo,
Gesù Cristo non ha forse dovuto soffrire le pene dell’inferno prima di convertirsi in pura luce, in puro spirito?
Non afferro la similitudine, ma prendo appunti.
Voglio dire, continua, le bestiole soffrono un tantino, ammettiamolo pure, ma grazie alla moda, alla tecnologia, al progresso, risorgono a nuova vita. Hanno un nuovo uso, come si dice. Lei non
sarebbe felice se da morto la sua inutile carcassa fosse utile a qual85
cuno? Magari per confezionarci una bella pelliccia che servirà per
coprire il corpo di una bella signora? Non sarebbe felice se il suo
grasso potesse essere utilizzato per produrre lucido per scarpe? O
saponette? Una deliziosa cintura di pregevole manifattura?
Non particolarmente, dico.
Andiamo, dice il capo indiano, noi tutti desidereremmo una
nuova vita, una seconda opportunità, una reincarnazione.
Il passaggio da essere vivente a pelliccia non mi pare granché
come reincarnazione, dico.
Temo che abbiano fatto un po’ di confusione per quanto riguarda la terminologia.
Cosa diavolo c’entra in tutto ciò la transustanziazione? Domando.
Basta con le domande, dice il capo indiano, adesso si rilassi e si
goda lo spettacolo.
La battuta di caccia riprende. Le hostess Playmobil mi offrono
un cocktail e mi regalano uno Spinosauro Playmobil con Tana e
Veicolo Anfibio.
Per suo figlio, dicono.
Non ho figli, rispondo.
Allora per i suoi nipoti, dice quella con gli occhi verdi.
Ha nipoti?
Prendo lo spinosauro con tana e veicolo anfibio per mia nipote.
Sento che la testa potrebbe scoppiarmi da un momento
all’altro, così mi alzo e mi avvio in direzione del laboratorio da
Campo Playmobil.
Buongiorno, dico.
Buongiorno a lei, dice l’operaio con casco protettivo giallo.
Qual è il significato di questa pagliacciata? Domando. Intendo
la battuta di caccia. Non sarebbe più semplice prenderli e scuoiarli
senza tanti preamboli?
Di solito gli ficchiamo un elettrodo in bocca e uno nel culo, dice l’operaio, ma cacciarli è più divertente. Non vede come si divertono?
In effetti si divertono tutti.
86
Mi regalano la Signora in Vacanza Playmobil. Anche il Fantasma Incappucciato e il Bambino-con-Asinello Playmobil. E poi il
più gettonato, il Cacciatore-di-Frodo Playmobil.
Nel Bosco Artificiale la caccia prosegue. Sento i grugniti dei
cacciatori e i latrati dei cani.
Un pitone è transustanziato in borsetta da passeggio.
Prendo appunti, fumo, bevo cocktail offerti dalle hostess.
5.
Decido di tornare in ufficio.
Parcheggio a distanza di sicurezza.
Camminando verso l’ufficio vedo il presidio dei manifestanti.
Stanno lanciando qualcosa, mi pare siano finte carcasse di agnello
imbevute di vernice rossa fresca, contro il muro del palazzo. Entro da retro.
Saluto Brange. Non si può andare avanti così, dice. Se continua
così il Signor Delano vi sbatterà fuori a calci in culo.
Il Signor Delano è il proprietario del palazzo.
E farebbe bene, continua Brange. Non posso neanche più far
venire mio figlio a trovarmi, per la vergogna.
La divisa blu di Brange è logora sul colletto, si nota subito.
Ti capisco, dico io.
Eh no, mi sa che non capisci, dice lui.
Guardo le carcasse animali. Si tratta di finti agnelli karakul
sgozzati.
Ho mal di testa.
Salgo nel mio ufficio, mi siedo alla scrivania ecc. ecc.
Bernard non c’è.
Batto il resoconto e lo mando a Emma.
Risponde subito: Sei pregato di utilizzare un carattere tradizionale e di non aumentare i margini della pagina. Cristo, quante volte te l’ho già detto? Emma.
Sbircio di sotto.
Rispondo a Emma: mi spiace, non accadrà più. Martin.
Risponde subito: sarà meglio, porco cazzo. Devo impaginare
sette articoli per domani sera. Emma.
87
Vado alla macchinetta del caffè e incontro Ferris. Qualche novità? Gli chiedo.
Sono in trattativa con un’industria di tosaerba, dice.
Secondo te, per quale motivo la Playmobil ha sponsorizzato la
Giornata della Transustanziazione Animale? Gli chiedo.
Pare che i cacciatori tendano ad acquistare per i figli il doppio
di giocattoli rispetto ai non cacciatori, dice. Probabilmente è il
senso di colpa.
Mi pare una spiegazione talmente idiota che potrebbe essere
vera.
Datti da fare, gli dico, senza sponsor rimaniamo tutti in mezzo
a una strada.
Mi offre un caffè. Parliamo del più e del meno. Fumiamo una
sigaretta. Mi chiede come va il lavoro alla rivista. Gli parlo delle
abitudini della lepre italica. Gli parlo della caccia di selezione per
caprioli e daini. Sembra interessato. Mi domanda del mio settore
di competenza. Gli racconto le solite cose.
Gli parlo della regina del bosco, la beccaccia.
Lui mi chiede se è buona da mangiare.
Ho la nausea.
Saluto Ferris, salgo a prendere le mie cose cercando di evitare
l’ufficio di Gerk.
Mi vede.
Com’è andata all’Azienda Faunistico Venatoria? Mi domanda.
Sono riuscito a non vomitare, dico.
Sei una vera mezzasega, dice lui.
Confermo.
Datti da fare, voglio l’articolo sulla mia scrivania entro domani
sera.
Farò il possibile, dico.
E vedi di non usare le tue solite parole incomprensibili del cazzo, aggiunge Gerk.
Poi mi squadra con l’occhio infuocato.
Ci sarebbe un’altra questione, dice.
Sono tutt’orecchi, ribatto.
Si tratta di questo coglione, come diavolo si chiama.
88
Gerk ha l’abitudine di dimenticare i nomi e di chiamare tutti coglione.
Quel coglione che va in onda per radio.
Non ho idea di cosa diavolo stia parlando.
Insomma, il nome non ha importanza, dice. Questo tizio ha
una trasmissione su Radio Sabbione in cui sostiene di poter parlare coi morti.
Non mi sembra una grande novità, dico.
Non m’interrompere, cristo, urla Gerk. Questo coglione dice di
poter parlare con gli animali morti.
Rimango attonito.
In che senso, domando?
Che cazzo ne so, Villanova, dice Gerk. Con macchinari, trance,
allucinazioni foniche, queste stronzate qui. E comunque voglio
che tu e Cristal andiate a trovarlo e ci scriviate un pezzo.
Non protesto, anche se lavorare con Cristal è l’ultima cosa che
avrei voluto in questo momento.
Vado nel mio ufficio, rifletto sul significato del termine sportiva
nella denominazione della giornata. Non mi viene in mente niente.
Scendo nell’androne. I manifestanti sono sempre lì. Non hanno
niente da fare? Non lavorano? Saluto Brange. Lui mi manda affanculo. Ordini di Delano, dice.
Esco dal retro.
6.
Quaglie alla salsiccia
Preparazione 45 min., cottura 35 min., difficoltà media
Occorrente:
8 quaglie, 200 g di salsiccia, 3 fegatini di pollo, 4 fette di pancarrè, un
pizzico di noce moscata, 1 uovo e il tuorlo, 1/2 bicchiere di brandy, 1/2 bicchiere di brodo, 100 g di burro, sale e pepe.
Preparativi:
89
per prima cosa divertitevi a cacciare le quaglie. Fatele fuori con rispetto,
poiché la quaglia è un nobile animale. Utilizzate un solo colpo per ciascuna
quaglia, e che sia mortale. Non fate soffrire inutilmente i volatili autoctoni,
che altrimenti se la spasserebbero nei nostri boschi.
Una volta che avete cacciato le quaglie e siete tornati a casa, sventratele
(tenete i fegatini), poi fiammeggiatele, lavatele, asciugatele, salatele e pepatele
internamente.
Per quanto riguarda la salsiccia, essa deve provenire da maiali ammazzati
con le vostre mani, possibilmente con un’arma bianca (ma anche un buon fucile da caccia va bene). Spellate la salsiccia e sbriciolatela. Lavate i fegatini di
pollo (naturalmente un vero cacciatore il pollo se lo accoppa da solo, alla maniera sabbionassa, decapitandolo con una sola bastonata precisa) e di quaglia,
tritateli e mescolateli alla salsiccia con la noce moscata, l’uovo, il tuorlo, sale,
pepe e 3 cucchiai di brandy.
Tenete in frigorifero per un’ora.
Farcite le quaglie con il composto di fegatini, cucite le aperture con filo da
cucina e legatele per tenerle in forma.
Fate dorare le quaglie in una padella con 50 g di burro, poi spruzzatele
con il brandy rimasto; quando sarà evaporato, salatele, pepatele, bagnatele con
il brodo caldo e fatele cuocere per circa 30 minuti.
Private della crosta le fette di pancarrè, dividetele in due rettangoli che friggerete nel burro rimasto; poi disponetele su un piatto di servizio, adagiatevi sopra le quaglie, irrorate tutto con il fondo di cottura e servite subito, ben caldo.
Di nuovo alla mia scrivania.
Bernard è fuori per il reportage sulle tortore. Cazzeggio su internet, traccio simboli massonici sul mio taccuino, leggo la ricetta
di selvaggina del prossimo numero in anteprima. Ogni settimana
Zora la copia da internet o da qualche manuale. Del resto lo sappiamo tutti che non saprebbe cucinare neppure un uovo alla coque.
Chiamo Cristal.
Abbiamo appuntamento col sensitivo questa sera, dice. Mi ha
chiesto di ascoltare la sua trasmissione che inizia tra un’ora. Puoi
farlo tu? Io trovo la radio così noiosa. Passa a prendermi prima di
uscire.
Rispondo che va bene.
90
Lavoro al mio pezzo cercando di scrivere il più semplice possibile.
A metà pomeriggio lo finisco. Sostituisco il mio solito baskerville
old face con un tradizionale times new roman. Giustifico tutto. Riporto i margini della pagina al formato A5. Mando tutto a Emma.
Risponde quasi subito: grazie. Emma.
Rispondo: prego. Martin.
Risponde: che ne dici di una pizza stasera?
Rispondo: stasera non posso.
Risponde: allora fottiti.
Ho bisogno di rilassarmi, per cui inserisco la cassetta nel mangianastri. Metto le cuffie. Spingo play.
Poi mi ricordo della trasmissione radiofonica e stacco tutto.
Accendo lo stereo di Bernard, cerco la frequenza, la trasmissione è
già cominciata. Intuisco che la rubrica si intitola Parla con gli Animali Morti. In linea telefonica c’è una donna.
Il sensitivo sta ricordando ai suoi affezionati ascoltatori come
fa a comunicare con gli animali domestici defunti.
Nel Mondo Ulteriore l’energia di tutte le cose si mescola, dice il deejay,
ogni essere vivente trasmette un segnale energetico che la mia apparecchiatura è
in grado di decodificare e convertire in linguaggio; tutti gli animali trasmettono
il segnale energetico, quindi tutti gli animali defunti possono comunicare con
noi.
Ma come so che sto parlando con il mio Lutero, Signor Wokczginskij?
Domanda la donna.
Suppongo che Lutero sia il nome di un animale domestico e
che Wokczginskij sia il nome del deejay-conduttore-sensitivo.
Mi chiami pure Wok, dice Wokczginskij. Un’altra apparecchiatura,
che ho chiamato catalizzatore, si assume il compito di stimolare il Mondo Ulteriore e di ricercare l’energia prescelta. Debbo naturalmente inserire nel catalizzatore alcuni dati relativi al suo animale domestico.
Entra Bernard.
Che cazzo è questa roba? Domanda.
Abbasso la radio, gli spiego tutto.
Quando hai finito rimetti a posto, dice.
Fa per uscire.
91
Se hai tempo puoi dare un’occhiata alle mie bozze di oggi? Aggiunge.
Assento, tanto perché si levi dalle palle.
Quando riprendo l’ascolto Wok è già collegato con Lutero. Purtroppo mi sono perso la parte in cui la donna forniva le informazioni sull’animale, per cui non ho idea di cosa si tratti (un cane?
Un pitone?).
Lutero, rendi partecipe del Mondo Ulteriore noi tutti e soprattutto la tua
proprietaria terrena, dice Wok.
Mormorio incomprensibile.
Era Lutero? Domanda la donna.
Non ancora, risponde Wok. Ma ci siamo quasi.
Rumore di sottofondo.
Sola nel mondo eterna a cui si volve ogni creata cosa in te, attacca Lutero, morte si posa nostra ignuda natura lieta no ma sicura dall’antico dolor
profonda notte nella confusa mente il pensier grave oscura alla speme al desio
l’arido spirito lena mancar si sente così d’affanno e di temenza è sciolto e l’età
vote e lente senza tedio consuma vivemmo e qual di paurosa larva e di sudato
sogno a lattante fanciullo erra nell’alma confusa ricordanza tal memoria
n’avanza del viver nostro ma da tema è lunge il rimembrar che fummo che fu
quel punto acerbo che di vita ebbe nome cosa arcana e stupenda oggi è la vita
al pensier nostro e tale qual dei vivi al pensiero l’ignota morte appar come da
morte vivendo rifuggia così rifugge dalla fiamma vitale nostra ignuda natura
lieta no ma sicura però ch’esser beato nega ai mortali e nega ai morti il fato.
La voce di Lutero è anfrattuosa, piuttosto roca, intramezzata da
ridicole modulazioni in falsetto.
Questa era la voce del mio Lutero? Domanda la donna.
Esattamente, dice Wok.
Qualche secondo di silenzio.
Non ho capito niente, dice la donna.
Le comunicazioni dal Mondo Ulteriore non sono un sussidiario per le
elementari, dice Wok seccato.
Poi Lutero ricomincia a parlare:
Una ragazza rimorchia un tizio con una fava da cinema così tutta la faccenda è una metafora sulla fava grossa o magari parla di una ragazza vulnerabile perché se la sono sbattuta di sopra e di sotto ma poi incontra un tipo
sensibile
e
no no no no mammoletta queste sono cazzate per turisti
92
non parla affatto di una ragazza sensibile che incontra un bravo ragazzo
quella è True Blue sì è così su questo non ci piove e qual è True Blue non conosci True Blue cristo è stato un successo allora non segui la Top Ten se non
sai nemmeno cos’è True Blue non vorrai mica spappolarmi il cazzo se non sono un fan di Madonna per me può anche andare a cagare ma che cazzo stavo
dicendo che True Blue parla di una ragazza sensibile che conosce un bravo ragazzo invece Like a Virgin parla di una figa che scopa come una matta a destra e a sinistra giorno e notte mattina e sera cazzocazzo cazzocazzo cazzocazzo cazzocazzo cazzo quanti cazzi fanno una marea finché un bel giorno
incontra un tipo cazzuto alla John Holmes e allora vai alla grande uno che
con l’attrezzo ci scava i tunnel lei ci dà dentro come una maiala finché sente
una roba che non sentiva da un secolo dolore le fa male le fa male non dovrebbe perché la strada è bell’e che asfaltata ormai ma quando il tipo la pompa le
fa male lo stesso dolore che sentì la prima volta il dolore fa ricordare alla scopatrice folle le sensazioni di quando era ancora vergine e quindi Like a Virgin.
La donna riattacca.
Segue un lungo silenzio sconcertante.
Avete ascoltato le comunicazioni di Lutero, un gattino tigrato investito da
un autobus cinque giorni fa, dice Wok. L’appuntamento è per domani sera
con un nuovo animale defunto che comunicherà col mondo dei vivi.
Musica di sottofondo.
Talvolta si verificano alcune, come dire, interferenze, tra il Mondo Fisico e
il Mondo Energetico. Tali interferenze, che piacciano o no, fanno parte della
vita, o della morte, o di tutte e due.
Sorprendentemente i piccoli felini domestici sono attratti da simili contaminazioni energetiche.
Buona serata a tutti voi, ascoltatori affezionati di Parla con gli Animali
Morti.
Parte la sigla: Pet Sematary dei Ramones.
Sono inquieto, ho voglia di vomitare, mi scoppia la testa.
Potrei continuare per ore l’elenco dei miei sintomi depressivi.
Sento Gerk sbraitare dal suo ufficio.
Dalla vetrata del corridoio vediamo il cadavere di Kevin spappolato sull’asfalto. Ha lasciato scritto sullo screensaver del suo
Mac Fanculo tutti, e si è buttato dalla vetrata del corridoio.
93
Cristal scoppia a piangere. Bernard tenta di consolarla. Ha
scritto centinaia di articoli prima che potessero capirlo, dice. E
non l’hanno capito.
E adesso chi cazzo me lo scrive l’articolo sul massacro rituale
dei cavalli? Domanda Gerk.
Mi offro volontario.
Bravo, dice Gerk.
È un abusivo del cazzo, dice Beaujolais, non vale neanche la
pena di frignare.
Andate affanculo, dice Emma.
Piange. Del resto i suicidi abusivi sono stati dichiarati tali proprio perché inattesi, veri, angosciosi. Per questo il governo li ha dichiarati fuorilegge.
Vediamo quelli della Nettezza Umana arrivare sul posto a sirene spiegate. Per raccogliere i pezzi e ripulire la strada ci mettono
tre quarti d’ora. Caricano quel che resta di Kevin sul mezzo di trasporto. Lo getteranno via, ma prima denigreranno il suo nome in
qualche modo. Se la prenderanno coi suoi parenti. Eccetera.
Vado nell’ufficio di Kevin. Il Mac è acceso. Apro il file sul
Massacro Rituale. Il pezzo è praticamente pronto. Non ci trovo
nulla da correggere.
Devo soltanto concluderlo.
Scrivo: la morte non è di questo mondo. Essa non è un fatto,
ma la mancanza d’un fatto.
Cionondimeno il suicidio, in quanto attesa consapevole della
morte, non è forse il fatto della morte? Non è forse l’esserci della
morte nella vita, pertanto un fatto del mondo, una negazione e un
rifiuto categorico di tutti i fatti accaduti e di tutti i fatti ancora possibili? In definitiva, non si tratta forse di un fatto non-fatto, di una
tautologia contraddittoria?
Lacerti di mondo, avanzi di sopravvivenza, resteranno incastrati tra i denti di una dea, il cui nome è Storia; il fine è perseguito, a
noi non resta che l’eterna riscrittura dell’assurdo, del grottesco,
dell’incerto.
94
Spengo tutto. Vado in ufficio a prendere le mie cose, scendo
all’ingresso. Brange mi guarda minaccioso. Non lo saluto.
Fuori i manifestanti hanno approntato cartelli su cui c’è scritto:
bastardi trucidatori - meno uno. Vorrei davvero uscire dal portone
principale, guardare in faccia i dimostranti uno a uno, dimostrare
che razza di uomo hanno di fronte, tutelare il lavoro di Kevin.
Esco dal retro.
95
UMORI
Richard stava illustrando a Claire la situazione.
“Quello che stai desiderando è molto stupido, Claire. Una cosa
incredibilmente sciocca, dico davvero. La vita è molto più di quanto non dicano oggigiorno, è un insieme di umori e di respiri, di
battiti cardiaci, di fluidi gastrici e di movimenti spastici dei muscoli.
Queste sono tutte cose che non ti sono precluse, Claire, insieme al
mestruo e a molte altre attività corporali. Vi sono anche altre attività, non lo nego, che sembrerebbero esserti precluse, ma dal nostro
punto di vista sono assolutamente sopravvalutate”, disse.
“Non credo proprio”, rispose Claire. I suoi pensieri erano trasmessi a un elaboratore e tradotti in parole da una voce robotica.
“Eppure è così. Non riesco nemmeno a pensare qualcuna delle
attività della vita a te precluse che non sia sistematicamente sopravvalutata. È tutta propaganda”.
“Forse non ti è chiara la mia posizione”.
“La tua posizione mi è chiarissima, Claire”, disse Richard, “non
hai cognizione del dolore, della gioia, non puoi provare emozioni,
non hai sensazione né del freddo né del caldo, il che se mi è permesso non è un male a prescindere”.
“Guardami”, disse Claire.
“Lo sto facendo, Claire. Ti sto guardando”, disse Richard. “Hai
un corpo come tutte le altre donne, le gambe, le braccia, un utero
perfettamente funzionante e molte altre cose in comune con qualunque altra donna. Prendi gli umori. Tu hai umori tali quali a quelli delle donne e degli uomini di tutto il mondo; non te ne devi vergognare, Claire. Certo l’infermità ha, come dire, degenerato alcune
parti del tuo corpo, eppure questo lo devi accettare, poiché è stata
la natura a importelo. L’etica impone sofferenza. È il correlativo
oggettivo dell’esistere. E dunque, Claire, per concludere con la tua
posizione, come la chiami tu, essa non è tanto diversa da quella di
molte altre persone, di molte altre donne”.
96
“Non credo che le cose stiano esattamente come dici”.
“Sto provando a farti ragionare”, disse Richard, “affinché il
dubbio e l’angoscia non s’insinuino nei cuori degli altri cittadini”.
“Io vocabolo non riconosciuto il dubbio e l’ vocabolo non riconosciuto nei
cuori dei cittadini?”, domandò Claire.
“Volevi domandarmi se tu insinui il dubbio e l’angoscia nei
cuori dei cittadini? È questo che volevi domandarmi, Claire? Precisamente. Voglio essere molto sincero con te, Claire. Sono pagato
per essere onesto e sincero con le persone come te. Tu sei un vegetale Claire, sei una donna inequivocabilmente e irrimediabilmente raccapricciante, la vista del tuo corpo può risultare ripugnante;
puzzi, Claire, hai bave che ti fuoriescono dall’angolo della bocca, la
tua fisionomia è stata pesantemente deformata e, per dirla tutta, da
un punto di vista strettamente sociale sei quasi completamente inutile. Qualcuno sostiene perfino che sei dannosa, Claire”, disse Richard, e si sfregò i dorsi delle mani, compiacendosi di quell’azione
così semplice e solenne. “Dannosa per il tuo ex marito, per i tuoi
legali, per i dottori che ti hanno in cura”. Si accostò al letto di Claire. Il letto si trovava in una stanza ammobiliata alla periferia di
Sabbione. Faceva freddo, ma il freddo era necessario per il funzionamento dei macchinari. “Tuttavia non sei ancora morta, Claire, e
perciò il tuo corpo e la tua vita non competono a te, bensì a qualcosa di superiore; in altre parole, Claire, noi non riteniamo che tu
sia dannosa, noi riteniamo che tu sia fondamentale”.
“Per l’amor del cielo, Richard”.
“È precisamente quel tipo di amore che sto cercando di porre
alla tua attenzione”, disse Richard. “quel tipo di amore, Claire, non
desidera la morte, ma la vita. Sempre e in ogni caso. Pensa a tutta
la gente che fa la fila per venire ad ascoltare le tue divinazioni. Pensaci, Claire. Lo sai perché sono qui?”.
“Per via della lettera?”.
“Brava, Claire. Sono qui perché tu hai dettato una lettera al tuo
avvocato affinché fosse pubblicata su tutti i quotidiani del nostro
Paese. E non solo, Claire. Sono qui per farti cambiare idea, affinché tu possa diventare per tutti un esempio di giustizia, non di ingiustizia. Un esempio di moralità, non di dissoluzione”.
Richard osservò l’impotenza di Claire e le alzò le palpebre. Il
bianco dei suoi occhi era costante, misero, eterno.
97
“Non voglio mentirti, Claire. Questa meravigliosa parte del tuo
volto dove nascondi gli occhi è stata completamente corrotta dalla
malattia. Ma non progredirà. Resterà tale e quale per anni, forse
per sempre”, disse.
“Vieni al dunque”, disse Claire.
“Bene, Claire. Veniamo al dunque, in altre parole alla tua, come
dire, lettera. L’abbiamo letta attentamente. Oh non ti preoccupare,
non è molto lunga, non ci ha preso molto tempo. Alla fine abbiamo convenuto che è piena zeppa di imprecisioni e inesattezze”.
“Quali sarebbero queste vocabolo non riconosciuto?”, chiese Claire.
“Hai scritto un mucchio di balle, Claire”.
La breve lettera di Claire era stata pubblicata da tutti i maggiori
quotidiani. Richard ne aprì uno di quelli che aveva portato con sé e
cominciò a leggerne alcuni passi.
“Com’è che hai fatto scrivere, Claire?”, domandò Richard.
“L’umiliazione che sono costretta a subire ogni giorno, ogni ora,
ogni secondo della mia inutile vita si sta facendo sempre più insopportabile. La lucidità dei miei pensieri si affievolisce. Non sento
nulla. Ho paura. Vorrei che il mio nome fosse dimenticato per
sempre. A tutti voi, alle autorità, a Dio, non chiedo altro che morire velocemente, in pace, senza disturbare nessuno. È questo che
hai dettato al tuo avvocato, Claire?”.
“È ciò che ho dettato”, sussurrò Claire.
“Che accozzaglia di banalità!”, disse Richard. “Hai elencato una
serie di azioni sopravvalutate. Il cielo, Claire, è sopravvalutato. E
poi questo non ti rende una difforme. Ci sono moltissime persone
che il cielo non lo vedono mai. In centro a Sabbione possono passare settimane tra un avvistamento del cielo e l’altro. E in campagna, Claire, debbono preoccuparsi di ben altre questioni; il cielo
non sanno neppure più cos’è. Parli di mare, Claire, ma non ti rendi
conto che ci sono persone che il mare non l’hanno mai visto? Non
per questo chiedono di morire. Tu credi di non avere scelta, e ciò
potrebbe essere vero, ma puoi immaginare quante persone su questa terra non hanno scelta? Loro non chiedono di morire. Pensa a
quanto ti ho detto prima, pensa che potresti addirittura generare
un figlio!”
98
“Vuoi per caso scopare?”.
“Non essere disgustosa, Claire”.
“E a cosa mi servirebbe vocabolo non riconosciuto un vocabolo non riconosciuto?”, chiese Claire dopo aver riflettuto.
“Non pensi alle donne che non hanno avuto la fortuna di poter
generare un figlio, Claire?”, disse Richard, “non ti sfiorano neppure gli interessi del tuo popolo, della tua terra? Sei un’egoista. Non
puoi parlare, ma puoi comunicare. Io sto comunicando con te,
Claire”.
“E questo lo chiami comunicare?”.
“Certo, l’apparecchio va perfezionato. So che riconosce soltanto qualche centinaia di parole. Ma che diavolo, Claire, chi usa più
parole oggigiorno?”.
“Voglio solo vocabolo non riconosciuto, niente altro. Senza disturbare nessuno”, disse Claire.
“Sei un’ingenua, Claire. Sei davvero convinta di non disturbare
nessuno, morendo? Ti garantisco che disturberesti qualcuno. Disturberesti noi, Claire. Noi che crediamo nelle infinite possibilità di
Dio e nei suoi miracoli, noi che crediamo nella Verità della Chiesa
e nell’Autorità della Legge. Non pensi a noi, Claire? Noi stiamo
pensando a te. Le massime autorità religiose e politiche, il Gerarca
in persona, sono tutti preoccupati per te, per la tua vita”.
“A loro cosa importa della mia vita?”, chiese Claire.
“Non comincerai anche tu con la storiella delle autorità politiche e religiose dipinte come persone disumane preoccupate di tutelare esclusivamente i propri interessi? Non ti sembra un tantino,
come dire, banale, Claire? È quello che i mediocri vogliono farti
credere. Tua madre e il tuo avvocato vogliono fartelo credere, Claire, perché loro sono dei mediocri. Ma le autorità, Claire, rappresentano la risposta alla mediocrità, altrimenti non starebbero lì a esercitare il loro potere, cosa che invece fanno. Le autorità sono
preoccupate per te sinceramente. Stanno curando i tuoi interessi.
Che poi i tuoi interessi, cioè tu, Claire, la tua vita, coincidano con i
loro interessi, Claire, beh, Claire, possiamo forse incolparli per questa coincidenza? Non lo pensi anche tu?”, disse Richard.
“Non lo penso”.
“Sei una testarda, Claire. Hai raccontato un mucchio di balle alla gente comune, e questo è un male. La gente comune è sugge99
stionabile ed eccitabile, Claire, si lascia trascinare dalle emozioni.
La gente comune è mediocre, Claire. A tredici anni sei finita in caserma per uno spinello, non è vero? A diciassette anni ti hanno accusata di aver rubato in una biblioteca. Ti hanno scoperta, Claire,
ma hanno chiuso un occhio. Quante volte hai barato agli esami
della Scuola di Predizione? Quante volte i professori ti hanno aiutata? Sei una bugiarda, Claire. Inoltre il vocabolo che il tuo avvocato ha tradotto dall’apparecchio, il vocabolo morire, Claire, non è riconosciuto, quindi è impossibile che tu abbia potuto dettarglielo. È
stata una sua interpretazione, Claire, una truffa”, disse Richard.
“Sono stata chiarissima”, disse Claire.
“Chiarissima, Claire? E come? Come possiamo essere certi che
tu abbia dettato il vocabolo morire?”, domandò Richard.
“Il vocabolo non riconosciuto sul mio comodino”, disse Claire.
“Intendi il libro? Quale libro? Questo libro, Claire?”, disse Richard prendendo il libro dal comodino.
“Quel vocabolo non riconosciuto”, disse Claire.
“Il Satyricon”, disse Richard sfogliando il libro, “di Petronio
Arbitro. Una lettura inconsueta. Sono stupito. Ti piacciono i latini,
Claire? Sono una cannonata, non è vero? Ma non capisco come
questo possa cambiare le cose”.
“Sono stanca di questa umiliazione”.
“L’umiliazione, Claire, è una delle peculiarità di Nostro Signore.
Sei forse atea Claire? No che non lo sei. So che non lo sei. Come
puoi pensare di esserlo, nella tua posizione?”.
“Non sono atea. È uno dei motivi per cui voglio vocabolo non riconosciuto”.
“Certo tu ti riferisci alla fantomatica vita dopo la morte, di cui si
fa un gran parlare. È questo cui ti riferisci, Claire?”.
“La possibilità di un posto migliore”.
“Ma quel tipo di posto, Claire, sarà riservato a persone che
hanno lungamente sofferto e pregato, a persone che non hanno rinunciato a vivere per un capriccio. Pensavi di scamparla così, Claire? Non sai cos’è la sofferenza? La passione? Sono cose necessarie,
Claire, per aspirare a quel posto migliore”.
“Io non posso sentire niente”.
“No, tu non puoi più provare la sofferenza. E allora perché
morire, Claire? Sai quanta gente soffre? Moltissima. Ci sono diritti
100
umani inalienabili da rispettare. La tua morte contravverrebbe inesorabilmente a questi diritti”, disse Richard.
“Non ho il diritto di vocabolo non riconosciuto?”, domandò Claire.
“No, Claire, morire non è un diritto, ma un dovere con cui ciascuno di noi dovrà confrontarsi, un giorno. Ma questo giorno non
lo possiamo decidere noi, Claire. Nessuno può deciderlo”.
“Sono così da sette anni, pensi che non abbia avuto il tempo di
decidere?”.
“Brutta mongoloide”, esclamò Richard, “ameba che non sei altro. Smetti immediatamente di comportarti in questo modo ottuso
e immorale. Hai profondamente deluso tutti gli uomini che credono nella possibilità di una grazia, tutti gli uomini che lottano ogni
giorno per tornare a casa dalle proprie famiglie, tutti gli uomini che
credono nell’autoeliminazione preventiva come a un dogma, non
come a una scelta da quattro soldi. Hai deluso tutti, Claire”.
“Non ci credo”.
“Credimi, Claire. A me puoi credere. Tu devi vivere poiché il
tuo momento non è giunto, Claire. È il tuo destino, e una divinatrice professionista come te dovrebbe saperlo meglio di chiunque
altro. Ti abbiamo letto la mano, abbiamo usato tutti i mezzi divinatori in nostro possesso. Tu credi nei nostri mezzi divinatori, Claire?
Sei una buona cittadina?”.
“Lo sono stata”.
“Devi esserlo ancora, Claire, e a maggior ragione, poiché noi
non ti abbandoneremo.
Guardami, Claire. So che non puoi vedermi, ma puoi immaginarmi. Come mi immagini, Claire? Io rappresento i buoni, Claire.
A chi ti vuole lasciare morire, importa di te davvero, Claire?”.
“Gli importa la libertà”.
“Libertà? E che libertà c’è nella morte, Claire?”
“Mi sembra che tu sia un po’ troppo superficiale, Richard”.
“Certe questioni vanno affrontate con superficialità, Claire, non
possiamo essere in ogni momento profondi”.
“Non mi pare”.
“Ti abbiamo forse abbandonato al tuo destino? Siamo qui, con
te, per aiutarti. Per curarti, Claire, poiché tu hai bisogno di noi. La
tua divinazione parla chiaro, Claire. Non c’è nulla da temere nel
tuo futuro: tutto liscio, calma piatta. Non puoi morire adesso, così.
101
Un giorno potrai morire, ma non adesso. Adesso devi vivere, Claire, poiché questa è l’unica alternativa che hai”.
“Credo che vocabolo non riconosciuto ci sia eccome, Richard”.
“Non parlarmi di alternative, Claire. Il passeggero di un treno
ha alternative. Queste alternative prevedono che lui possa andare
in una direzione o in un’altra, perché questo prevede la rete ferroviaria, Claire. C’è in ballo la ragionevolezza. Qui stiamo parlando di
vita e morte, Claire, del tuo futuro. Noi abbiamo badato a favorire
condizioni ragionevoli per la tua vita, Claire, scongiurando quelle
illogiche. In questi termini, la morte non è un’alternativa, te ne
renderai conto”.
“Mi vocabolo non riconosciuto addosso vocabolo non riconosciuto volte
al giorno”.
“Qualcuno si è mai lamentato di doverti togliere la merda di
dosso?”, disse Richard, “le infermiere sono state scortesi? Le faremo sostituire con le migliori a nostra disposizione”.
“Le vocabolo non riconosciuto vanno bene”, disse Claire.
“E allora perché lamentarsi, Claire? Forse perché le invidi? Invidi la loro vita, i loro vestiti? Invidi le loro gambe, le loro braccia,
la loro vista? Invidi le infermiere, Claire?”.
“Non le invidio”.
“Potrei portarti un vestito nuovo. Lo comprerò io stesso per te;
una gonna a fiori azzurri e gialli. Stiamo andando verso la bella stagione. Ti sentiresti meglio. Dovresti truccarti, Claire. Depilarti. Ti
crescono i peli, giacché questa è la vita: umori, flussi, peli che crescono, capelli che imbiancano”, disse Richard.
“Vorrei solo vocabolo non riconosciuto”, disse Claire.
“Morire, Claire, non ti farà stare meglio. Inoltre farà stare molto
peggio tutti noi. Pensa al tuo avvocato, ai dottori. Saranno tutti indagati, Claire. Accusati e incarcerati. Sei sicura di volerlo, Claire?”
“È per questo che ho scritto la lettera. Per cambiare le cose”.
“Cambiare le cose, Claire?”, disse Richard, “andando contro i
diritti umani? Andando contro la nostra morale, accettata ed esercitata dalla maggior parte delle brave persone? È questo che vuoi,
Claire? Cambiare le cose in peggio? Vuoi promulgare l’assassinio,
Claire? Vuoi diffondere la pratica del suicidio abusivo e selvaggio,
non regolato da un programma Gerarcale con tanto di leggi?”.
“Vocabolo non riconosciuto”, disse Claire fermamente.
102
“Sei ingiusta, Claire. Tu devi vivere poiché sei un simbolo, questo lo comprendi? I simboli stanno perdendo valore. Sono alleggeriti, insufficienti, controproducenti. Per le persone normali la vita è
solo vita. La morte, quando li coglierà, sarà solo morte. Ma per te,
Claire, la vita può ancora simboleggiare qualcosa, un’incarnazione
di significati, una metafora profonda, limpida. Tu non ti appartieni,
Claire, tu appartieni a noi. Appartieni a Dio, questo è certo, ma
appartieni anche a noi”.
Claire tentò di parlare, ma si sentiva stanca.
“Inoltre, Claire, ci sarebbe l’altra questione. Intendo quella
sciocca profezia che continui a ripetere a tutti. Com’è che dici,
Claire? Dai morti germoglierà la follia, avvocati e notai ci uccideranno tutti,
eccetera. Cosa diavolo vuoi fare, Claire? Non ti rendi conto che
stai ingenerando lo sgomento nei tuoi concittadini? È questo che
vuoi fare, Claire? Scatenare il panico tra la povera gente? Spingere i
semplici cittadini a ribellarsi contro le nostre amate caste e corporazioni?”.
Claire non reagì. Se ne stava semplicemente immobile, come
sempre.
Richard si alzò in piedi e appoggiò una mano sul macchinario.
Accarezzò il traduttore di parole con quella preziosa parte della
mano che contiene il palmo.
“Te lo toglieremo, Claire. Entro tre giorni. Abbiamo ritenuto
che tu non debba più affaticarti inutilmente. Inoltre le tue parole
sono state ritenute, come dire, inopportune. Hai bisogno di riposare,
Claire”, disse Richard. “Vorresti piangere, Claire? Puoi farlo, come
tutte le altre donne. E lo fai spesso, anche se non te ne rendi conto. Non sono proprio lacrime, Claire, sono più umori. Sono umori
giallicci che solcano quella splendida parte del tuo volto in cui hai
le gote”.
Ci fu un lungo silenzio.
“Arrivederci, Claire”, disse Richard.
Claire non disse nulla.
Richard la guardò distrattamente negli occhi (nei bulbi oculari),
quella splendida parte del volto (dell’occhio) in cui alle altre donne
crescono le iridi.
103
UN POSTO IDEALE PER LE FOTOGRAFIE
Nella hall della galleria d’arte c’erano quarantanove espositori e
una folla di costruttori, professori, ingegneri, tutti in attesa del celebre architetto Benjamin Staloj, tutti rimpinzati di tartine e prosciutti, champagne e cocktail rossi gialli e blu al curacao che è
ideale per le donne ma può essere perfetto in tutte le circostanze.
Stanislao Juroj, detto Stan, inviato della rivista Arte, rimase in
attesa paziente osservando i lavori dei nuovi artisti provenienti da
ogni parte d’Europa, bevendo e discorrendo amabilmente con le
signore Haveno e Betrojn, due ricche amanti dell’arte contemporanea, e con altri giornalisti e fotografi invitati per l’occasione.
Quando sentì il telefono vibrare nella tasca sinistra dei pantaloni,
un paio di pantaloni grigi in frescolana, era impegnato in una conversazione eccellente sull’utilizzo dei materiali di recupero nell’arte
contemporanea e la signora Haveno aveva appena riferito una battuta divertente su un certo Klonn Kurmoj, uno scalpellista famoso
per il recupero delle biciclette arrugginite, che nelle sue mani, sosteneva la signora Haveno, si trasformavano in veri e propri oggetti artistici; l’ultimo di questi piccoli capolavori era un assemblaggio di quattro o cinque biciclette intitolato atto sessuale, sul quale la signora Haveno fantasticò non poco, osservando minuziosamente le natiche del giovane artista poco più in là.
Stan rise di gusto e i doppi sensi si sprecarono, mentre il telefono smise di vibrare. La festa d’inaugurazione proseguì tutta la
notte, specie dopo l’arrivo di Benjamin Staloj, il quale tagliò il nastro della nuova ala dedicata agli schizzi, ai disegni preliminari e ai
progetti di realizzazione del celebre Palazzo Ottagonale, nella quale si conservavano gli schemi originali di numerosi passaggi segreti
(ubicati nei sotterranei del Palazzo) destinati alle fughe del Gerarca
in caso di sommossa o pericolo, tutti firmati Marcello Piacentini.
104
L’attenzione di Stan fu immediatamente rapita dalla cosiddetta
Mappa Piacentini, un passaggio sottostante l’ala sud-est che attraverso l’attuale rete fognaria avrebbe condotto il Gerarca nelle cantine di un altro celebre palazzo degli anni ’30, il Metradòr Building
,
all’interno
del
quale
oggi
sorgeva
un
hotel.
Domandò il permesso (che gli fu accordato) di scattare alcune fotografie per il suo articolo. Prima di andarsene ne scattò dodici,
tutte della Mappa Piacentini.
~
Quando entrò in casa trovò la figlia Julie addormentata sul divano con la televisione accesa. Cercò di sollevarla delicatamente
senza svegliarla ma il progetto fallì e Julie con uno scatto aprì gli
occhi.
“Ciao”, disse rabbuiata.
“Che ci fai sul divano a quest’ora di notte?”, chiese Stan.
“Ti aspettavo”, rispose Julie, “ti ho chiamato al telefono ma
non mi hai risposto”.
“Ti ho chiamata due volte prima di entrare alla galleria”.
“Sì ma poi quando ti ho chiamato io non hai risposto”, mugugnò Julie.
“C’era molto rumore ed ero impegnato a osservare le opere
d’arte, c’erano la signora Haveno e la signora Betrojn”.
“Quelle due non le sopporto, non fanno altro che ronzarti attorno e sono noiose, non è vero?”.
“La signora Haveno ha raccontato una barzelletta”.
“Ti ha fatto ridere?”, chiese Julie apprensivamente.
“Sì, mi ha fatto ridere. E la signora Betrojn a un certo punto si
è messa anche a ballare. Era completamente ubriaca”.
“Allora ti sei divertito”.
“Abbastanza”, disse Stan, e guardò il volto della piccola Julie
turbarsi; “che c’è?” chiese.
“Sono triste”, disse Julie.
“E perché mai dovresti essere triste?”.
“Perché hai riso tutta la sera”.
“Ma lo sai che ero là per lavoro. E comunque c’era gente interessante, le opere erano piuttosto buone, lo champagne e le tartine
erano ottimi, è stato gradevole”.
105
“Sì ma non mi avrai pensato neppure un minuto, perché ridevi”.
“Al contrario, mi sono divertito perché pensavo a te, e ogni volta
che qualcuno diceva qualcosa di divertente pensavo a come
l’avresti detta tu, ed ero felice, perché era come se tu fossi sempre
con me”.
“Anche con la Signora Haveno?”, chiese Julie un po’ seccata.
“Quando la signora Haveno diceva qualcosa immaginavo quella cosa detta da te”.
“E la Signora Betrojn?”
“Mentre ballava ho immaginato te intenta a imitarla, facendo
ridere tutti, e ho riso di gusto”.
Julie non disse nulla e si limitò a sbuffare.
“Lo so quanto sei brava nelle imitazioni, cosa credi. Ti ho vista
l’altro giorno, mentre mi prendevi in giro facendomi il verso. Eri
molto simpatica”.
Julie s’imbronciò ma non riuscì a celare un leggero sorriso.
“Domani è la vigilia della Giostra del Peccato, e in centro c’è la
Corrida dei Tacchini Scartati ”, disse Stan, “non ti ci porto da anni”.
“Non me lo ricordo”, disse Julie mentendo.
“Eppure sembravi così felice di vedere i tacchini correre e affannarsi per le vie della città”, disse Stan.
“Non me lo ricordo”, disse ancora Julie, “e poi che cos’è la
Corrida dei Tacchini Scartati?”
“È la giornata in cui i tacchini scartati dalla Giostra del Peccato
vengono liberati per le strade della città e hanno l’occasione di trascorrere il resto dei loro giorni liberi e felici”, disse Stan, “se riescono a sfuggire ai tentativi dei cittadini, i quali tentano in tutti i
modi di acchiapparne uno”.
“E perché dovrebbero acchiapparne uno?”, chiese Julie.
“Perché è tradizione che sia così”.
Julie sbuffò.
“E che cos’è una tradizione?”
“Quasi sempre una cosa stupida, ma piuttosto divertente”.
“E perché mi porti a vedere una cosa stupida?”
“Te l’ho detto, perché è divertente”.
“Che cos’è una cosa divertente?”, domandò Julie.
106
“Adesso è ora di andare a dormire”, disse Stan. “Allora, vuoi
andare alla corrida di domani?”
“Va bene”.
“E sia. Però adesso a nanna”.
Era notte fonda, e le luci distanti di Sabbione scintillavano
nell’oscurità.
“Non devi più ridere quando non ci sono io”, disse Julie, “soprattutto con la Signora Haveno”.
Stan sorrise.
“Promettimelo”.
“Te lo prometto Julie”, disse Stan, e la prese in braccio per portarla a letto.
~
Sabato diciannove luglio la pioggia cessò e un sole meraviglioso, fresco, sputacchiò i suoi bagliori su Sabbione. Non sembrava
un evento strano, poiché era già successo in passato, ma a Stan
sembrò diverso da tutte le altre volte.
Nonostante fosse una mattina secca e luminosa, di quelle rare
da queste parti, nell’appartamento c’era un’oscurità quasi totale.
Stan si era svegliato presto e aveva preparato una colazione a base
di biscotti e caffèlatte per Julie facendo attenzione a non svegliarla.
In strada c’erano rumori e suoni confusi, risate e urla di ragazze, trombe e fisarmoniche.
Stan bevve il caffè e fumò una sigaretta seduto alla sua scrivania, nello studio illuminato da una debole lampada.
La giornata era stupenda, lo notò appena sveglio dalla finestra
della sua stanza, e si promise di essere allegro, almeno per un
giorno, di riporre la cognizione delle sue inquietudini e godersi la
festa con Julie. Prima di svegliarla passò in rassegna tutti i suoi libri, le sue fotografie, i suoi ricordi.
“Sei pronta, signorina?”, chiese Stan a Julie quando la vide entrare in cucina ancora mezza addormentata.
“Pronta”, disse Julie sbadigliando, e bevve il caffèlatte inzuppandovi numerosi biscotti.
~
107
Libera di correre per le strade di Sabbione, Julie finì insieme a
Stan nel Centro Storico, dove il gloglottìo dei tacchini era più violento, dalle parti dei vecchi vicoli.
Correndo e meravigliandosi Julie si trovò nel cuore della città
medievale, dove il reticolo di piccoli cammini e stretti viottoli è
simile a un labirinto, pochi istanti prima della liberazione dei tacchini, che come tradizione sarebbe iniziata alle undici di mattina.
Vide le enormi gabbie, trecento o quattrocento, forse più, ricolme
di tacchini, vide gli addetti pronti ad aprirle al suono del campanile
di San Bertran de Born, vide centinaia di persone vestite da contadini, perché questo vuole la tradizione, pronte allo spasso. Nelle
stie gli uccelli erano compressi l’uno sull’altro e schiamazzavano
tentando di scrollare le piume; le caruncole rosse vibravano
all’unisono come diapason o bambini febbricitanti.
“Perché non li liberano?”, chiese Julie.
“Stanno per farlo”, rispose Stan.
“E quando li liberano cosa succede?”
“Succede che si riversano per le strade, tra la gente, e tentano
di volare. Ma non ci riescono”.
“E perché non ci riescono?”
“Perché sono troppi. Inoltre perché hanno ali del tutto inadatte
al volo. In realtà potrebbero volare, ma hanno bisogno di condizioni particolari. Per esempio possono volare quando si trovano in
un grande prato e non hanno impedimenti”.
“E qui in città?”
“Qui in città è quasi impossibile Julie”.
“E allora cosa succederà?”
“Quando usciranno dalle gabbie cominceranno a correre
all’impazzata per i viottoli e i vicoli, per le piazze e le strade, e la
gente tenterà di afferrarli per le ali, le zampe, il becco”.
In quel momento la campana rintoccò le undici e le gabbie si
spalancarono. Un’ondata di piena di tacchini si rovesciò nelle strade.
“Tienimi forte adesso”, disse tremante Julie, “stringimi e non lasciarmi andare”.
Stan la strinse a sé. I tacchini filavano dappertutto sbatacchiando le ali, correvano fino a spaccarsi i polmoni, correvano come ladri di autoradio, correvano come qualcuno che corre per soprav108
vivere all’insensatezza degli esseri umani; alcuni sfiorarono il volto
di Julie, che ora urlava e rideva, senza panico ma con una grande
eccitazione sbigottita.
“Ma dove vanno a finire?”, chiese.
“Cercano di uscire dalla città per raggiungere le campagne senza farsi afferrare dalla gente e conquistare la libertà”, rispose Stan.
Quando la prima ondata si disperse Julie restò immobile e incantata.
“Che cos’è la libertà?”, domandò.
“Correre più veloce di quello che ti insegue, Julie”, disse Stan.
Non appena fu liberata la seconda ondata Stan prese Julie sulle
spalle, per farle vedere meglio lo spettacolo.
“Posso provare a prenderne uno?”, chiese Julie.
“Provaci”, disse Stan.
Julie mulinò le braccia e si sporse quanto più poteva ridendo e
urlando di felicità.
“Sono riuscita a toccare una zampa!”, urlò soddisfatta.
Stan sorrideva e teneva Julie ben salda per le gambe.
“Ti stai divertendo?”
“Moltissimo”.
“Come con la signora Haveno?”
“Molto di più”.
Quando Stan la fece scendere, Julie si ritrovò in mezzo alla folla, non spaventata ma estasiata.
“Vieni”, disse Stan.
“Dove andiamo?”, chiese Julie.
“Ti voglio portare in un posto”.
Prese Julie per mano mentre i tacchini si arrabattavano in ogni
vicolo e la gente cercava in tutti i modi di afferrarne uno.
La seconda ondata di tacchini fu uno spettacolo incredibile di
suoni e colori, gli uccelli si dispersero per tutta la città scalpitando
e cercando di prendere il volo, era tutto un volare di piume e i cittadini, come da usanza, ne catturarono una grande quantità afferrandoli per le zampe o per le ali, a mani nude o con immensi paretai, li infilarono nelle stie attrezzate o anche solo in borse della
spesa e li portarono a casa, dove era preparata un’uccelliera sul
caminetto o un coltellaccio per cucinarli.
109
Stan e Julie s’addentrarono per le vie di Sabbione. Centomila
occhi scrutavano dalle inferriate delle finestre, spaventati dal gusto
di libertà che si riversava nelle strade: follia oscena, risate, suoni di
tromba e oboe e lamenti funambolici, uomini con un occhio solo
e su trampoli alti sette metri, mangiatori di fuoco, chiodi, arnesi di
vario tipo.
“Non facevo un giro così da tanto tempo”, disse Julie.
“Anch’io”, disse Stan.
“Da quando la mamma mi portò alla fiera. Quella volta abbiamo fatto un sacco di fotografie”.
“Ne faremo molte anche questa volta”, disse Stan.
Dopo quasi tre ore di passeggiate e fotografie, durante le quali
Julie sembrava davvero felice, salirono sul 67 barrato che fa capolinea nel quartiere alto della città e scesero in una piazzetta circolare dalle parti del castello di Sabbione, celebre per essere stato il set
di numerosi film e pubblicità.
“Ti va un gelato?”, chiese Stan.
“Moltissimo”, rispose Julie, “ne ho proprio voglia”.
Si avvicinarono al chiosco e comprarono due coni gelato, menta e amarena per Stan, vaniglia e nutella per Julie.
“Che bello il tuo braccialetto”, disse Julie, “non te l’eri mai
messo, è nuovo?”.
“È un regalo”, rispose Stan.
“Sarà mica un regalo della Signora Betrojn?”, chiese Julie.
“No Julie, stai tranquilla, è di un amico che non conosci”.
“Dovrei fare una telefonata”, disse Stan.
“Non alla signora Haveno, vero?”, chiese Julie. Aveva notato
che venti minuti prima, sull’autobus, dopo aver risposto al telefono, aveva immediatamente riattaccato.
“No Julie, non alla signora Haveno. Resta qui cinque minuti”,
disse Stan, e si alzò per spostarsi di qualche metro, prese il telefono e dopo qualche secondo cominciò a parlare, mentre Julie, leccando il suo gelato, osservò i piccioni contendersi un pezzetto di
pane ripensando ai tacchini.
C’era un’aria estiva fantastica, e per un momento le sembrò di
sentire il profumo del mare risalire le valli e le colline per andarle
ad accarezzare il viso.
110
La piazzetta di San Paragorio fu costruita intorno all’anno milleduecento e dal grande terrazzo posto a circa trecentocinquanta
metri sul livello del mare, cento metri più in su del centro abitato,
si poteva godere di una magnifica vista sulla città. Il sole filtrava
dagli alberi rischiarando il porfido e la facciata della chiesetta romanica. Accanto alla ringhiera dipinta di verde c’era una targa con
la scritta Un posto ideale per le fotografie al tramonto.
Quando ebbe finito la telefonata Stan tornò da Julie col volto
corrucciato. Julie lo fece posizionare accanto alla ringhiera poco
distante dal chiosco dei gelati.
“Non ti muovere, mi raccomando”, disse, e lo inquadrò con la
sua macchina fotografica.
“Aspetta lì”, disse, poi andò a cercare qualcuno che potesse
scattare la foto.
Stan accese una sigaretta e si voltò per guardare Sabbione
dall’alto, i tetti rossicci e il cielo al tramonto, già travolto da mille
pensieri. Julie tornò con una ragazza per mano, fornì le istruzioni
necessarie e corse a posizionarsi accanto a Stan, stringendosi a lui.
Stan sospirò e cercò di non pensare a nulla, ma in quel momento uno stormo di pensieri lo trafisse con tutta la sua potenza e
fu tentato di urlare o imprecare, trascinando Julie nel suo abisso
di paradossi e inconcludenze. Guardò fisso di fronte a lui e vide la
giovane ragazza dai capelli raccolti armeggiare con la macchina fotografica.
Quando la ragazza pronunciò la parola sorridete, Stan ebbe una
chiara visione della sua fine, o del suo inizio, e pensò che se una
fotografia può mostrare l’anima delle persone il suo volto digitale
avrebbe assunto i tratti deformi della brutalità e della barbarie.
C’era lì vicino un’indicazione turistica riportante la scritta Benvenuti a Sabbione, vi trovate a 349 mt sul livello del mare.
Julie corse incontro alla ragazza e prese la macchina fotografica, poi tornò da Stan, lesse l’indicazione e lo guardò stranita.
“Perché Sabbione si chiama così?”, domandò.
“Non lo so, Julie, non ne ho proprio idea”, rispose Stan.
111
SULL’ORIGINE DEL NOME DELLA CITTÀ DI SABBIONE E
DELLA RELATIVA INSEGNA POSTA ALL’INGRESSO DEL CENTRO
ABITATO
Il quattordici aprile 1154 gli esploratori svevi che cavalcavano
lungo l’attuale provinciale 24, che da Sabbione conduce a Castrocozzo, si ritrovarono in una terra inospitale, paludosa e accidentata, così lontani da casa che un nero presagio li travolse. Si accamparono in un piccolo villaggio, il cui nome ignoravano, con casupole dal tetto di paglia e una grande quercia sulla cima di un’altura.
Verso il tramonto, mentre i suoi compagni si ristoravano, Gerard
da Thuile, giovane cronista alsaziano al seguito della missione, uscì
dalla capanna che lo ospitava per cercare acqua e cibo, voltò
l’angolo e si trovò di fronte agli occhi uno spettacolo raccapricciante: un uomo, all’incirca sui trent’anni, oscillava impiccato al
ramo di un grosso tiglio più o meno a mezzo metro da terra. Doveva essere morto da qualche giorno poiché emanava un fetore
terribile e centinaia di mosche ronzavano intorno al suo volto ormai sfigurato. Decise di perlustrare a fondo il villaggio e con grande sgomento appurò che altri corpi oscillavano appesi ai rami di
diversi alberi, querce e betulle, tigli e magnolie, ciliegi e pruni.
Inorridito si precipitò nell’abitazione e avvertì i compagni, che
esterrefatti verificarono di persona il racconto. Qualcuno di loro
fu colto da spasmi, qualcun altro notò la dimestichezza e la naturalezza con la quale i cittadini del villaggio s’accostavano all’orrore
degli impiccati. Videro un ometto passare accanto al cadavere di
un uomo, poteva esserne il figlio o il fratello, il cugino o un amico,
così come si cammina accanto a un passante il sabato pomeriggio
in centro, guardando le vetrine in compagnia della fidanzata smaniosa di far compere, epperò neppure con la stanca inquietudine
di chi è costretto a bivaccare interi quarti d’ora al cospetto di lingerie, pentolini, vestiti e profumi, ma addirittura con totale e ata112
rassica indifferenza. Come vennero a sapere più tardi, quei poveri
corpi un tempo alti e belli come loro ed ora sfatti dai mosconi e
dall’intemperie, erano suicidi. Gerard e il suo amico e collega
Gotfred Hohenstaufen parevano sconvolti, e le informazioni che
appresero in seguito, dopo aver interrogato i residenti, li lasciarono ancora più perplessi: tutti ammisero che il suicidio presso la loro comunità era pratica abituale. Una donnetta magra e smunta,
pallida come la morte quando la morte si manifesta col suo velo
bianco fantasmagorico, sembrò nientemeno scocciata e sorpresa
da tutte quelle domande, masticate in una lingua a metà strada tra
l’austro-ungarico a venire e il latino (che nessuno degli abitanti
conosceva); questi mezzi selvaggi (i nostri beneamati progenitori),
ai quali gli unni avrebbero potuto offrire lezioni di bon-ton e linguistica, o almeno così dissero gli svevi con una disdicevole punta
di sarcasmo, preparavano il suicidio come si prepara il paniere per
un picnic la domenica pomeriggio, e giunti alla fatal ora, trovato
un albero dai rami robusti, con la stessa nonchalance con cui la
madre imburra il pane per le figliolette, vi gettavano un cappio altrettanto robusto, salivano su di un trespolo opportunamente fabbricato dal falegname locale e giù, si lasciavano cadere verso un
mondo di ectoplasmi, druidi e fate malefiche. Senza una causa
precisa, senza una ratio o una forza sconosciuta, gli abitanti di quel
luogo si toglievano la vita uno dopo l’altro, donne incluse, dopo
aver generato un numero di figli non inferiore a due. Era la legge,
ripetevano, ma una legge che non avrebbe retto una settimana
neppure tra i vichinghi. L’ultimo morto per cause accidentali
(schiacciato da un carretto) risaliva a tre anni prima, l’ultimo per
vecchiaia addirittura a trentanove anni prima. In quanto al fetore e
all’assalto de’ coprofagi, una volta la settimana due necrofori giungevano dal vicino villaggio con un carro trainato da muli per far
pulizia e posto sugli alberi. Incuriosito quanto agghiacciato Hohenstaufen decise di restare nel villaggio per studiare il caso; congedò i suoi compagni diretti a sud e scrisse una lettera
all’Imperatore nella quale narrava con dovizia di particolari “gli orrori infiniti dell’orribil sabbione”. Quando Federico Barbarossa
giunse nel villaggio, mesi dopo, alla domanda con la quale esigeva
conoscere in quale luogo fosse capitato il suo primo ministro rispose con queste parole, qui rese nella nostra lingua per conven113
zione e pigrizia dell’autore: “Questo è il villaggio in cui i nostri
esploratori giunsero in aprile, quello in cui si pratica il suicidio
come regola e costume, l’orribil sabbione, come lo denominarono”. Al che l’Imperatore rispose: “metteteci un cartello e passiamo
oltre”. Ancora oggi (sebbene gli abitanti si siano inciviliti e non
pratichino più la brada uccisione di sé stessi smodata e priva di
controllo, ma si limitino alla ruberia, all’omicidio e alla bestemmia,
com’è d’uso in ogni altra città moderna, e la frequenza dei suicidi®
sia stata regolamentata da una legge Gerarcale) all’ingresso della
città una targa ricorda l’origine del nome: “Benvenuti a Sabbione,
il cui glorioso nome debasi al volere dell’Imperatore Federico I di
Svevia detto il Barbarossa”. Per i più curiosi ricordiamo che
Gotfred Hohenstaufen, cugino di terzo grado dell’Imperatore,
morì suicida nel 1157, dopo aver preso moglie e generato due figli.
≈
Postilla storico-antropologica
Intorno al dieci d’agosto (stando ai documenti ufficiali
dell’esercito svevo, ritrovati e tradotti da Guillome Samuchard1),
in una notte senza luna soffocata dalla ridda dell’afa e bersagliata
dal ghigno delle streghe, una milizia di Svevi che lo storico Ibn alAthīr nel suo al-Kāmil fī ta‘̉ rīkh2 vuole composta da tre centinaia
1
2
Uno dei maggiori storici sabbionassi.
La perfezione della storia, cap. XV
114
di uomini e proveniente dalla città di Milano, giunse nell’inospitale
terra appena scoperta dagli esploratori inviati dall’Imperatore. Attraversarono un ponte di fortuna sul fiume Atanor e galopparono
veloci su sentieri battuti dal gracidio dei rospi e dalle diavolerie
dell’oscurità (ritmi di tamburi, fuochi e odori sconosciuti, uccelli
non catalogati dalla scienza), fiancheggiarono torbiere e burroni
che non mancarono di rivelare la loro minaccia (Ibn al-Athīr parla
di ventisette decessi tra i soldati nel solo viaggio di andata). Dovevano portare a termine una missione di vitale importanza e nonostante ciò nessuno di loro era a conoscenza delle reali motivazioni
che spinsero l’Imperatore a decretare l’ordine. Superate le colline
bivaccarono presso una radura (corrispondente all’attuale Pizzengo), dove gozzovigliarono con selvaggina e si ubriacarono con vini
rossi, furono allietati da numerosi Minnesänger3 austriaci, si trastullarono con giochi d’armi (e non mancarono neppure in questo
caso i decessi, enumerabili, secondo Ibn al-Athīr, in cinque o sei al
massimo, tutti imputabili all’ebbrezza) e non si curarono del tuono
della campagna, che pareva presagire il loro ignobile incarico.
Nacquero amori e sbocciarono tenere amicizie, cullate da canti
armoniosi e per nulla di guerra. Scrive al-Athīr che i soldati adoravano sussurrare le strofe dei più celebri Minnesänger del loro
tempo. Slâfest du, friedel ziere? era la più gettonata4. Poi la terra
echeggiò tre volte, presaga dei futuri accadimenti come un gigante
furioso, percotendo alberi e fiumi, cavalli e uomini. Nessuno degli
svevi, ubriachi fino al midollo, alcuni già colti da profondo sonno,
altri barcollanti accanto al fuoco, s’accorse di nulla. L’indomani,
quando le luci dell’alba trafissero la terra mentre sette esili pennacchi di fumo si levavano nel cielo azzurro, tutti gli uomini erano
addormentati, chi in ginocchio, chi in piedi, chi scompostamente
disteso sulla terra umida; un suono lieve s’alzò profondo nell’aria:
pare che fosse così melodioso che se qualcuno dei soldati l’avesse
Der von Kürenberg fu quasi certamente tra i numerosi minnesänger
presenti alla missione. Alcune cronache dell’epoca rivelerebbero che in
quell’occasione compose La canzone del falcone e altre arie molto note,
scatenando una sorta di ebbrezza omosessuale all’interno della milizia.
4 Dietmar von Aist non prese parte alla spedizione ma le sue opere fecero comunque clamore.
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udito sarebbe rimontato a cavallo per tornare da dove era venuto,
rinunciando all’infausto compito, o peggio si sarebbe gettato in un
abisso, sconvolto dalla bellezza inattesa (è noto infatti che la bellezza inattesa percuote l’essere umano come e più d’una verga,
gettandolo in abissi che l’animo ignora). Il naturalista Maccio, vissuto intorno all’anno 50 a.c., scriveva nel suo Naturalia Rerum:
“esiste un uccello, al nord, capace di ammansire le belve scrollando le piume della coda…proviene dalla Trinacria, da dove migrò
in massa qualche decennio fa”. Sfortunatamente nessuno dei beoni svevi potette udire quel suono armonioso, euritmico ed eufonico (che alcuni descrissero come la vera partitura per l’armonia
prestabilita, altri come un’infernale e ipnotica danza di suoni) e
quando il primo di loro si svegliò, avvertendo i compagni del tragico ritardo (avevano infatti progettato di muoversi all’alba), il più
anziano della milizia, e quindi per legge capitano, convocò in fretta
e furia una dieta presso l’albero più grande e ombroso del territorio, che pare fosse un faggio. Ignari della sorte benevola, per quanto sgorgata dalla stoltezza, cominciarono a scagliarsi accuse reciproche, coinvolgendo molti in mischie e risse (anche in questo caso pare che i decessi siano enumerabili in due o tre uomini).
Gli svevi, storditi dalle risse e irritati per l’inospitalità della terra, decisero di agire quella notte stessa. Erano rimasti in duecentocinquantatre, un numero più che sufficiente per portare a termine
il compito e soprattutto dispari5; verso il tramonto si misero in
marcia. Giunsero prima di sera in uno spoglio villaggio e videro
una gran folla in coda presso una grotta naturale nella collina tufacea. Al calare della notte entrarono nel villaggio che portava il cartello col nome affidatogli dai loro commilitoni esploratori: GranIl cabalista Musharraf Heimakel giunse alla corte del Barbarossa nel
1137, fortemente voluto dall’imperatore. In pochi mesi si guadagnò la
fiducia delle alte sfere sveve, tanto che lo stesso imperatore, poco prima
della battaglia di Pavia, quando il contabile gli comunicò che Klaus
Munst, un soldato semplice, era deceduto cadendo da cavallo e perciò il
numero degli uomini era pari, ordinò che si uccidesse uno dei tredici
portavessilli affinché il numero del suo esercito tornasse a essere dispari.
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vollsand6 (che divenne poi Sablon in sabbionese e Sabbione in italiano). Furono percorsi da un brivido: per la prima volta poterono
osservare gli strani frutti pencolanti sull’orrido dai folti alberi della
rigogliosa terra sabbionese. Si trattava dei suicidi, in gran numero,
che ornavano l’ambiente scorbutico del villaggio. La luna sorse,
incandescente. Tentando di tenersi lontani dall’orrore si diressero
verso le abitazioni che erano loro state indicate nella bolla imperiale, dividendosi in gruppi dispari (il cui numero di soldati per gruppo era, ancora, dispari) e fecero il lavoro per cui erano stati scelti
fra tutti i migliori soldati. I primi a cadere sotto i colpi degli assalitori furono i dodici Anziani, depositari dell’antica sapienza della
finzione esistenziale, che vivevano in una sorta di comunità; furono sorpresi intenti in un povero ma lauto pasto, furono spogliati e
trucidati, le loro barbe furono tagliate insieme al loro scalpo. Poi
furono uccisi. Nel frattempo anche gli altri gruppi avevano raggiunto le abitazioni di altri vecchi, che uccisero senza incontrare
resistenze. In due ore i corpi di tutti gli uomini a conoscenza
dell’antica arte della finzione furono esposti al publico ludibrio,
ammassati nella piazza centrale di Sabbione e bruciati; il fumo salì
alto per tre giorni, e quando la cenere ridiscese le strade di Sabbione erano come il letto d’un falò. Nel giro di una settimana o
due altri svevi giunsero, s’accamparono, costruirono case e presero in moglie donne locali; i suicidi, dichiarati contrari allo spirito
cristiano e imperiale, diminuirono fino quasi a scomparire. Ogni
notte, per trecento notti, i sabbionesi si scatenarono in orge, baA proposito del nome Granvollsand si legga il brano di Magnus Echtofle intitolato Trattatello angustiato sulle manifestazioni terricole, celebre nel
‘700, in cui viene brevemente tracciata l’origine dei nomi Sabbione e
Sabbionasso: “E fu così che nacqui e vissi a Sabbione, la Granvollsand
dei miei avi, il cui nome significa propriamente Orribile Grande Sabbia,
capitale di un territorio che in origine prese il nome di Tullgranvollsand,
Cattiva Orribile Grande Sabbia, divenuta prima spregiativamente Sabbionaccio e successivamente Sabbionasso”. Letteralmente il termine
granvoll sarebbe grauenvoll, ma gli stessi svevi erano coscienti di parlare un tedesco particolare; il loro celebre motto infatti è: Wir können alles - außer Hochdeutsch (Sappiamo fare tutto – tranne parlare il tedesco tradizionale).
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gordi, guazzabugli, intrallazzi, intrighi, feste e parate, per cui ancor
oggi sono famosi. Ripresero a lavorare al trecentunesimo giorno, e
dal trecentodecimo tornarono a sorridere, a parlare, a provare
l’orgasmo, ad approntare trimalcionici banchetti, a fingere di recitare, a cantare, urlare, gioire, maritarsi per amore, copulare anche
tre volte al giorno, pregare, eccetera.
Nessuno seppe dire con certezza se fu un bene o un male7.
Successivamente, pur mantenendo vivo lo spirito festajolo, e venendo
meno lo spirito religioso, l’usanza del suicidio sistematico fu reintrodotta e divenne una legge Gerarcale, nota col nome di clausola 99.
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IL PROGRAMMA
Davvero premuroso il Governo a varare un Programma Autoeliminazione Esseri Umani. È stato il Gerarca a omologarlo
(non quello di adesso, un vecchio Gerarca), per far rivivere i fastosi tempi della fondazione originaria del nostro glorioso Paese,
prima che gli Svevi rivoltassero tutto e imponessero il loro stile di
vita. Almeno questa è una delle motivazioni. Un’altra potrebbe essere quella secondo cui gli uomini sabbionassi sarebbero i migliori
tra gli uomini e le donne sabbionasse sarebbero le migliori tra le
donne. Discorso che vale anche per i bambini, gli animali, gli storpi, eccetera. L’ultima motivazione risulta da documenti dichiarati
top secret dai servizi segreti Gerarcali, secondo cui troppa gente
influisce negativamente sullo sviluppo dei cittadini sabbionassi,
che naturalmente sono i migliori cittadini tra tutti i cittadini. E allora ecco che è stato varato questo Programma Gerarcale (non
adesso, molti anni fa, quando la gente poteva ancora pensare in
grande), spiccatamente popolare ed eroicamente democratico. Che
cos’era il Sabbionasso! Il Gerarca passeggiava per le strade senza
scorta e canticchiava strofe occitane di poeti provenzali. Poi usciva dal terrazzo del suo Palazzo e leggeva ad alta voce i provvedimenti all’ordine del giorno.
“Aumenteremo la tassa sulle seconde case, ma ne beneficeremo tutti”. Oppure: “L’uomo sabbionasso è chiamato a contrastare
l’essere gettato nel mondo (atto involontario) con un atto volontario che vada a definire la sua esistenza come una voluntas suprema”. Leggeva i comunicati con voce stentorea. La gente ascoltava
a tutt’orecchi (erano altri tempi, i microfoni non li usavano). Infine il Gerarca deliberava (sempre con voce stentorea). “Solo la Voluntas Suprema è degna d’essere sabbionassa, perciocché si decreta con effetto immediato che – a questo punto la voce si faceva
roboante – : tutti i cittadini sabbionassi che abbiano superato il diciottesimo
anno d’età dovranno anticipare la morte mediante autoeliminazione del dasein
(o esserci) allorché sentano sopraggiungere fattori che possano minare la volontarietà della morte stessa, quali si ritengono essere vecchiaia, malattia, pericolo
119
estremo, eccetera. A chi anticiperà la morte sarà riservato un biglietto di sola
andata verso Un Posto Migliore”. Che cos’era il Sabbionasso! Poteva
essere il ’32, o il ’338.
Ma come si potevano conoscere in anticipo questi fattori minanti la volontarietà della morte? E soprattutto, com’era fatto questo Posto Migliore? Era davvero Migliore, o volevano solo farci
credere che lo sarebbe stato? Ci si poneva molte domande. Erano
domande fondate sull’eccitazione. In altri termini, come si poteva
conoscere il proprio futuro? A questi e ad altri interrogativi diede
risposta il Responsabile del Gabinetto Igiene Sociale (non quello
di adesso, uno di quei tempi). Per prima cosa, abbiamo registrato
il marchio dell’unità lessicale e di tutti i suoi derivati, poiché il nostro suicidio® è diverso dal semplice suicidio, selvaggio e abusivo,
frutto di impulsi inferiori e mediocri debolezze. Vi abbiamo costruito delle Agenzie di Divinazione in tutta la città, disse. Altre
sorgeranno nelle campagne molto presto. In questi posti, luminosi
e puliti, dal vago profumo di terra fresca e limoni, una moltitudine
di specialisti seri e competenti reclutati dal nostro Gabinetto di
Collocamento leggeranno la mano, scruteranno i fondi del caffè,
squarteranno animali per leggerci nelle interiora, analizzeranno il
volo degli uccelli e le loro migrazioni, proveranno stati ipnotici
subcoscienti e insomma faranno tutto quello che c’è da fare per
predirvi il futuro. Il loro motto è “NECESSITANT, NON INDICANT”.
Voi crederete a ogni loro parola perché questo è il senso della legge.
Se non crederete ai nostri specialisti non crederete nel Gerarcato
di Sabbionasso e nelle sue leggi, per cui sarete punibili con reclusioni e/o fucilazioni. In fondo non abbiamo inventato nulla, proseguì; c’è un istinto profondo che fa parte del bagaglio genetico
dell’umanità, e del popolo sabbionasso in particolare: è l’istinto a
uccidersi. Cercatelo nel profondo della vostra coscienza, lo troverete senz’altro. Quest’istinto è presente e vivo, anche se assopito;
il compito del nostro Programma è di risvegliarlo e codificarlo.
Avete bisogno di qualcuno che regoli l’istinto, non vogliamo che
diventiate dei selvaggi. Per questo c’è il Gerarca e tutti i suoi GaIl discorso ivi riportato fu pronunciato dal Gerarca di Sabbionasso
Leone Marziano Prunèt il 13 maggio 1933. Il Programma Autoeliminazione Esseri Umani entrò in vigore il 27 maggio di quello stesso anno.
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120
binetti, per gestire gli impulsi naturali e incanalarli nei condotti
della legge9.
Che cos’era il Sabbionasso! Un luogo in cui c’era una risposta a
tutto. E infatti a quelli che chiesero se i sogni premonitori fossero
buoni fu risposto di sì, a quelli che chiesero se i presentimenti della moglie fossero buoni fu risposto di no. Non fate i furbi, minacciò il Responsabile del Gabinetto Igiene Sociale. La macchina organizzativa è in movimento da prima che voi nasceste; due uomini
qualificati e altamente addestrati verificheranno l’attendibilità della
vostra Autoeliminazione Preventiva e controlleranno che ognuno
degli articoli del Programma sia rispettato. Riporteranno tutto in
un modulo azzurro che consegneranno a chi compete. E giacché
vogliamo alleggerire la burocrazia, non appesantirla, abbiamo pensato di non aggiungere un Ministero Ufficiale ma di integrarne
uno pre-esistente: per questo il Ministero delle Festività, il nostro
organo più inutile, si accorperà al nascente ministero e prenderà il
nome di Ministero Suicidi & Festività®. Gli uomini preposti al
controllo si chiameranno Verificatori. Ne abbiamo già reclutati più
di cinquecento; un numero comunque destinato ad aumentare.
Restava da dirimere la questione del Posto Migliore. Andrete in
Un Posto Migliore, disse ancora il Responsabile del Gabinetto
Igiene Sociale, statene pur certi. Lo hanno decretato anni fa la
Chiesa Cattolica, la Chiesa Ortodossa, la religione Mussulmana,
quella Ebraica, quella Induista. Hanno aderito all’idea che dopo
l’autoeliminazione preventiva si finisca in Un Posto Migliore i Battisti di Betlemme, gli Avventisti del Settimo Giorno, la Chiesa della Rivelazione Oscura, la Chiesa dei Santi Apostoli e degli Amici
degli Apostoli, la Chiesa di Tutte le Anime, di Nostra Regina Vittoriosa, di Nostra Regina Misericordiosa, gli episcopali, quelli di
San Paolo e di Scientology. Chi siete voi per dubitare ancora? Nel
Scrive l’antropologo Max Liederkreutz: “Per il popolo sabbionasso il
suicidio non è più una costrizione imposta dalla legge. Esso si è evoluto
nel corso dell’ultimo secolo, divenendo, propriamente, un atto morale di
autocostrizione insito nella natura umana, una massima per la quale ogni
cittadino può e vuole che assurga a legge universale”, Max Liederkreutz,
Freitod und Stimmung, Berlino - 1999.
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giro di qualche telefonata aderiranno anche i Testimoni di Geova
e i filo-buddhisti. Poi non avrete più scuse.
Il Programma Autoeliminazione Esseri Umani partì alla grande. Era un programma profondamente romantico e fortemente
coinvolgente, nonché, come fece notare qualcuno, straordinariamente democratico. Entrò a far parte del bagaglio culturale della
gente e nel giro di pochi anni ogni cittadino sabbionasso fu trascinato ad eseguirlo spontaneamente, senza bisogno di costrizioni,
allo stesso modo in cui gli animali hanno l’istinto di procreare.
D’altronde l’esempio dei progenitori non era l’unico.
Non esisteva forse una pratica simile tra gli antichi popoli della
Siberia? Cacciatori che in vecchiaia sarebbero stati un intralcio per
i giovani e null’altro. Meglio allora uccidersi, sommamente e gloriosamente, per il bene proprio e della popolazione. E non era
forse una pratica comune tra i culti iscariotici del milletrecento che
dedicavano la loro esistenza all’Unico Vero Dio Giuda Iscariota,
presso i quali era usanza imprescindibile quella di terminare la
propria vita similmente all’Unico Vero Dio?
Che cos’era il Sabbionasso, quando le leggi venivano rispettate,
quando non ci si trovava di fronte a un branco di dissidenti a ogni
angolo, quando non si manifestava per il diritto alla vecchiaia a
ogni trepperdue.
Il Programma si estese a macchia d’olio. Se n’ammazzarono più
a Sabbione negli anni ’30 che nella Divina Commedia. Poi la frequenza dei suicidi® s’attestò su cifre più ragionevoli. Il Codice delle
Norme Gerarcali, la bibbia costituzionale e spirituale dei sabbionassi,
riportò un’aggiunta rilevante alle 98 clausole canoniche.
L’Autoeliminazione Esseri Umani divenne la novantanovesima
clausola canonica e finì che presero tutti a chiamarla Clausola 99. I
cittadini lo trovavano un nomignolo affettuoso.
Erano anni strepitanti. Certo non mancarono i dissidenti e chi
si schierò apertamente contro il Programma (almeno all’inizio,
quando l’istinto non era ancora stato del tutto risvegliato). I soliti
cattolici, soprattutto. Il Portavoce dei cattolici parlò alla gente.
Aveva un’aria opulenta e il viso abbronzato, era appena tornato da
una settimana in montagna. Questo nuovo programma è uno
scandalo contro l’umanità. La vecchiaia è sofferenza e pentimento,
disse, e tutti hanno il diritto di soffrire e pentirsi prima di andare
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in Un Posto Migliore, altrimenti, aggiunse, non sarà Un Posto Migliore, ma Un Posto Molto Peggiore. Sofferenza e pentimento sono due cardini della religione cattolica. Il Gerarca tagliò i fondi destinati alla chiesa cattolica e nel giro di tre giorni il Portavoce cambiò registro. È tutto nelle Scritture, disse. Da qualche parte. Cercate il Programma di Autoeliminazione Esseri Umani nelle Scritture
e leggetene tutti. Vi sarà molto utile. Naturalmente a quei tempi
non lo chiamavano così. Ma statene certi che lo troverete. Il Posto
Molto Peggiore era solo una favoletta per bambini cattolici, non ci
avrete per caso creduto. Poi tornò in montagna per un mese di relax. Che cos’era il Sabbionasso! Stamparono decine di migliaia di
copie di un opuscolo intitolato Compendio Tascabile sulla Clausola 99,
che divenne un best-seller. Conteneva gli articoli più importanti
del Programma. Registrarono una casistica minuziosa e una serie
di norme ben precise. Emanarono trentatré articoli che disciplinavano il Programma.
La gente fece altre domande. La gente è solita domandare moltissimo. Che succede se ci rifiutiamo di ammazzarci? Che succede
se moriamo naturalmente, in un incidente o cadendo dalle scale?
Se non troveremo alcun Posto Migliore, potremo tornare indietro?
Saremo tutelati?10 In men che non si dica formarono un Sindacato
a tutela dei diritti dei suicidi® in potenza, ma durò poco. Il Dipartimento Igiene Sociale sciolse il sindacato dopo due mesi. A cosa
vi serve un sindacato? Domandò l’Addetto Stampa del nuovo Ministero dal terrazzo Gerarcale. Avete l’Amministrassione. Vi abbiamo mai deluso? Non mi pare proprio. La nostra organissasione
funsiona a meraviglia. Risponderemo a tutte le vostre domande.
Aveva qualche lieve difetto di pronuncia. Ci sarà un periodo di
prova, durante il quale l’attuassione della clausola 99 sarà facoltatiEcco alcune delle domande più frequenti, un tempo inviate via posta
ordinaria e oggi raccolte nel sito internet ufficiale del Programma Autoeliminazione Esseri Umani (www.clausola99.gs):
Se una divinazione prevede la mia morte nei prossimi tre anni, ho comunque tre mesi
di tempo per espletare la clausola 99? Come faccio a riconoscere un divinatore ufficiale? Qual è la percentuale di errore valutata in una divinazione? Perché sia valida,
una clausola 99 necessita della volontarietà assoluta dell’esecutore? Posso praticare
l’autoeliminazione preventiva anche se non ho ricevuto una divinazione di morte?
10
123
va; tenete presente che se sceglierete di non attuarla sarete marchiati come dei dispressabili, dei contro natura, alla pari, che so,
degli omosessuali. Al termine del periodo di prova cambierà tutto:
se rifiuterete di adattarvi al Programma sarete incarcerati. Se tenterete di fuggire vi troveremo e vi incarcereremo. Se avrete delle
contestassioni vi incarcereremo. È la legge. Se morirete
all’improvviso vi incarcereremo, poiché avrete mancato di rivolgervi a un ufficio divinatorio autorissato, cosa che secondo la legge dovrete fare una volta all’anno. Comunque vada finirà che sarete incarcerati. Se morirete accidentalmente nello spazio di tempo
tra una divinassione e l’altra (caso improbabile, dato che avrete ricevuto una divinassione) avrete altre opsioni, tutte riportate
nell’opuscolo esplicativo del Programma.
Stabiliremo una settimana particolare al termine di quello che
chiameremo Anno Previsionale. In questa settimana, che verosimilmente collocheremo nel mese di luglio, tutti coloro che non si
saranno sottoposti a divinassione (o Aggiornamento Annuale)
avranno modo di farlo: la chiameremo Settimana dei Pronostici
Obbligatori Annuali.
Gli scienziati e gli imprenditori (tra cui si inserivano a pieno titolo commercianti, banchieri, padri di famiglia disillusi, politici,
economisti, docenti, eccetera) protestarono. Non abbiamo tempo
da perdere con queste idiozie, dissero. Dobbiamo occuparci
dell’economia e del futuro della nostra terra. Furono presi da parte
e gli fu fatto un discorso. Gli emissari del Gerarca sono piuttosto
bravi coi discorsi (anche quelli di allora, ma quelli di oggi anche di
più). Lasciate che del futuro della nostra terra si occupi chi di dovere, comunicarono nel discorsetto. Gli scienziati e gli imprenditori non accettarono le visite di divinazione. Questi materialisti
sono una vera rottura di coglioni, si lamentò il Gerarca. Bandì il
materialismo. Convocò una conferenza stampa (già allora si usava
convocare conferenze stampa) e di fronte ai giornalisti di tutto il
Sabbionasso dichiarò: Siate pure cinici, feroci, boriosi, superbi, alteri, vanagloriosi, mettetela in culo a chi vi pare, siate egoisti e avidi, sprezzanti e arroganti, guadagnate montagne di soldi nei modi
che desiderate, non sarete puniti per questo. La nostra società non
punisce questo genere di crimini, ammesso che di crimini si tratti.
Occupatevi di fisica, chimica, economia, elettronica, politica spic124
ciola, filosofia, commerciate in sigarette, alcolici, plastica, tirate su
fabbriche e fabbrichette, fate quel che vi pare.
Ma il Programma Autoeliminazione Esseri Umani non si tocca.
Provate a contestarlo e vi tolgo tutto, dai laboratori agli uffici ai
fondi, dichiaro il cinismo fuori legge e bandisco le sigarette e gli
alcolici, vi rovino, vi paralizzo l’economia, scateno una recessione.
In altri termini quando un mio Gabinetto, uno qualunque, delibera
qualcosa, qualsivoglia cosa, voialtri non rompete i coglioni.
A proposito, vi ricordo che dal prossimo mese l’esperanto sarà
la nostra lingua ufficiale. Naturalmente il nostro esperanto si distinguerà leggermente dall’esperanto canonico. [...] Cominceremo la
traduzione completa del vocabolario nei prossimi giorni. [...] Accorperemo talune espressioni, taluni vocaboli, in maniera da alleggerire il compito ai cittadini: compresi i tecnicismi, l’italiano conta
circa
duecentocinquantamila
lemmi.
Mi
sembrano
un’esagerazione. A cosa servono tutte queste parole? Faremo un
po’ di piazza pulita. Le parole giudicate volgari, sconce, inappropriate, saranno tradotte in maniera elegante, pudica, appropriata.
[...] Le parole che non troveranno corrispondenza nel passaggio
dall’italiano all’esperanto ce le inventeremo di sana pianta; stiamo
già pagando una marea di glottologi per questo. [...] Il nostro esperanto sarà una lingua immutevole, statica, inalterabile. [...]
L’utilizzo forzato della nuova lingua sabbionassa entrerà in vigore
a partire dal primo gennaio millenovecentoventotto. [...]
Avrete tempo tre mesi per tradurre i vostri banalissimi cognomi in esperanto, servendovi della traduzione letterale quando praticabile, di una parola simile per assonanza quando impraticabile.
Al termine dei tre mesi sarà l’Ufficio Anagrafe a sostituire il vostro
cognome con un improperio esperanto. A quel punto non lamentatevi se vi tocca un cognome come mezzasega o cazzomoscio.
Così è deciso per volere del Gerarca, Evviva Noi!
Che cos’era il Sabbionasso. Era un qualche giorno di settembre, il Programma raccolse il favore di tutta la popolazione e noi
fummo mandati a spiegare la questione dei suicidi® in tutte le
scuole della città. Avevano varato un programma-scuole parallelo,
una specie di informativa per bambini e ragazzi. Cominciammo da
una scuola elementare, dove incontrammo i bambini in una gran125
de aula piena di disegni. Disegni che rappresentavano case, giardini, fiori. Erano bambini fortunati.
Mi piazzai di fronte a loro, nei pressi della cattedra, per iniziare
a spiegare ciò che ero venuto a spiegare.
I bambini sembravano impazienti. Notai che la classe era molto
ordinata e composta di sei file da quattro banchi. Nessun assente.
Dissi che non avrebbero dovuto dar retta a ciò che si sentiva in televisione. Dissi che in televisione – la televisione nazionale –
avrebbero ascoltato le solite, convenzionali, prese di posizione
contrarie al suicidio®. Dissi che le tradizioni sono importanti almeno quanto la vita stessa, e che per una consuetudine si può e si
deve morire. Dissi che un giorno sarebbero andati in Un Posto
Migliore, ma non ora.
Domandarono, perché non possiamo andare in Un Posto Migliore da bambini? Dissi, perché adesso il vostro posto è qui, coi
vostri genitori e con la vostra insegnante. Domandarono, e perché
i grandi non decidono di andare tutti in un Posto Migliore, se davvero credono che ci sia un Posto Migliore? Risposi, perché i grandi devono sacrificarsi per i bambini, restare qui e contribuire a
rendere questo posto un po’ più simile a Un Posto Migliore. I
bambini cominciarono a infastidirsi reciprocamente in un modo
all’apparenza tradizionale, lanciandosi foglietti accartocciati e imbevuti di saliva, colpendo nelle reni il vicino di banco, ecc. Domandarono: ma cosa spinge un uomo a suicidarsi? Risposi: oltre al
fatto che è un istinto irrinunciabile? Dissero: al di là della favoletta
dell’istinto. Risposi: come recita la campagna pubblicitaria del
Programma, più segreti degli angeli sono i suicidi®.
Non parvero molto convinti.
Dissi, so che alla vostra età può sembrare difficile da accettare,
ma un giorno lo comprenderete e lo accetterete.
A quel punto una bambina dai capelli rossi con una bellissima
t-shirt azzurra di Hello Kitty alzò la mano e disse: la politica pretende l’attuazione di un tale Programma al fine di esplicitare surrettiziamente una formidabile arma di controllo di massa, non è
vero?
Risposi che la politica, come altre cose, deve fare il suo corso,
ma per farlo è necessario che ogni ingranaggio funzioni a meraviglia, e modestamente la nostra politica funziona davvero bene.
126
Un altro bambino dall’espressione quasi stizzosa intervenne e
disse: bene, parliamo di questa nostra politica che funziona davvero bene.
Dissi, una politica che funziona davvero bene è un vantaggio
per tutti.
Qualcuno sostenne che forse la nostra politica che funziona
davvero bene ultimamente ha preso qualche decisione sbagliata,
ma per fortuna una tale opinione non accolse il favore della classe.
Dissi, avanti, bambini, non potete negare che le cose procedono per il meglio: i vostri padri hanno auto di lusso, le vostre madri
possono permettersi la parrucchiera una o due volte la settimana.
Domandarono, anche papà e mamma si suicideranno? Risposi:
naturalmente, bambini, come tutti; ma quando ciò accadrà andranno in Un Posto Migliore, inoltre molti di voi non avranno più
bisogno di loro. La classe prese nuovamente a rumoreggiare. Poi
uno dei bambini domandò: il suicidio in genere è un atto contro
natura? Risposi: vivere senza un significato è un atto contro natura, ed è il suicidio® che dà significato alla vita. Domandarono: ma
togliersi la vita non è un atto di estrema vigliaccheria? Replicai: no
bambini, togliersi la vita è un atto di estremo coraggio.
Alle pareti c’era un gran numero di disegni, molti dei quali rappresentavano il Gerarca in un prato, con fiori e animali. I bambini
cominciarono a eccitarsi. I loro sguardi e le loro parole si caricarono di eccitazione. Ci fu un silenzio seguito da un altro silenzio, più
breve, durante il quale una leggera brezza fece vibrare i fogli appesi alle pareti.
Domandarono: anche Ramona (la loro insegnante di disegno)
si suiciderà? Risposi: sì bambini, Ramona un giorno si suiciderà;
ma non temete, quando ciò accadrà probabilmente non sarà più la
vostra insegnante di disegno. La classe rumoreggiò ancora. Poi
qualcuno disse: noi vorremmo assistere al suicidio® di Ramona
adesso. Ramona guardò in direzione della finestra, sfilandosi un
braccialetto dal polso. Dissi ma come, non volete bene alla vostra
insegnante di disegno? Rispose uno dei bambini: Ramona ha già
provato a suicidarsi tre volte con una calibro 22 che porta sempre
con sé, ce l’ha raccontato lei. Aggiunse un altro: aveva un bambino piccolo. Un altro ancora: in altri termini, perché impedirle di
127
andare in Un Posto Migliore subito, se lo desidera tanto? Ramona
si accarezzò il vestito, una gonna scura con fiori azzurri e abbozzò
un’occhiata alla classe. Dissi: il suicidio® è una questione terribilmente intima, bambini, e non dovrebbe usarsi mai, o quasi mai, a
scopo dimostrativo o come un’esibizione di morte. Ramona guardò la sua borsetta. I bambini dissero andiamo, Ramona, fallo ora.
Lei infilò una mano dentro la borsetta ed estrasse un rossetto lucido e succoso. Mi avvicinai fino a sfiorarle il vestito, poi dissi:
bambini, in qualche circostanza anche non suicidarsi è un atto di
estremo coraggio. Ramona si passò il rossetto sulle labbra e un
con un bel sorriso sensuale chiarì ai suoi alunni il valore della vita.
128
VITA FELICE DI BUTIRRO CIAROFF
Lo chiamavano ebete, patatucco, ‘sto scimunito, e addirittura la
madre nana, il padre beota (ma ebreo), tanto che all’età di dodici
anni gli era stato chiamato il Rabbino Rosterlig “affinché gli togliesse la sciocchezza”. Ma quello per tutta risposta sentenziò le
seguenti parole (riportate con scrupolo dalla cugina Lea): “non c’è
niente da fare. In nome di Dio nessuno può essere venuto al
mondo tanto felice, neppure il Mashìach in persona”. Gli rimase
così la sciocchezza.
Biografia spicciola – S’ingobbì, il Butirro, verso i sedici. E si ritrovò con una scalogna che gli rendeva le mani simili a quelle di un
cadavere rimasto a mollo per tre mesi in uno stagno. Ma appariva
ai più, e a chi lo aveva sempre tra piedi, specie agli amici e ai cugini, avvolto da un’aura di serenità imperforabile, un acciaio inox
che lo teneva al riparo da quel senso di profondo malessere che un
ben vigliacco dio ci ha donato in quanto razza superiore (sic). Una
malattia che lo rendeva inviso a tutti i Polipettoj e a tutti i Korumoj di questo lurido mondo, abituati a smignottare dalla mattina
alla sera per guadagnarsi un gruzzolo degno di questo nome, talmente ossessionati dai soldi, questi figli di nomenclature retrostampate o di errate corrige, da schifarsi per ogni forma di felicità
improvvida (specie se derivante da sentimenti puri come nel caso
del Butirro). Cercavano di vivere, i miserabili, con la goccia di felicità che cade insieme alla rugiada di dio una o due volte l’anno, riservandosi di gustarla solo nelle feste più importanti, quelle che
consentivano la sveglia alle dieci del mattino e un pranzo con la
migliore bottiglia di vino. Ma il Butirro. Lui era il male. Così infernale, condannato a provare gioia per un cielo stellato, per le nubi
temporalesche, per cirri e cumulonembi, per gli animali da fattoria
e da grondaia, amante degli insetti dei coleotteri degli scarafoni e
persino dei raffreddori (che ti fanno restare a casa di fronte al camino a pregare, a guardare i film dell’orrore e a giocare a rubamazzo). E patatuccava avanti e indietro mangiandosi le unghie,
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con lo sguardo da patarasso per cui tutti ormai lo conoscevano (e i
più lo evitavano come la peste, tanto che fu difficile trovargli un
lavoro che gli permettesse di campare).
Ma Butirro Ciaroff era davvero un ragazzo d’oro, talmente
buono e disponibile che a venticinque anni si era già convertito
sette volte: lui, ebreo per nascita, era stato due volte cattolico, due
volte iscariotico, due volte testimone di Geova e una volta, anche
se per due sole settimane, ateo. Possedeva la tessera di otto partiti
politici e pregava cinque volte al giorno, non solo banali tefillòth,
vigorosi modè anì lefanèkha al mattino o stanchi hashkivènu la sera, ma padri nostri a ripetizione, atti di dolore ed eterni riposi infiniti, uno per ciascuna delle persone passate a miglior vita che aveva avuto la fortuna di conoscere. E santificava tutte le feste, il Natale, San Bertran de Born Conquistatore e il Rosh Hashanà Lailanòt, celebrato specialmente dai contadini ebrei insediatisi nei dintorni di Pizzengo. Insomma magnificava la grandezza del Creato,
il Ciaroff, in tutte le sue manifestazioni. Ma più che altro celebrava
e rispettava lo zio, il rabbino di Pizzengo Carlo Josef Ciaroff, l’uomo che lo aveva fatto circoncidere a quattro anni, l’uomo
che era rimasto zoppo nella sala del teatro di Scurzolengo (adibita
a sinagoga) quando il 10 di Tishrì del ’77 un castrocozzese non
gradì un suo sermone e gli spappolò un ginocchio con un shofàr.
Erano anni che Padre Ciaroff soggiogava al suo volere il malcapitato nipote, umile e costernato per ogni volta che aveva commesso peccato, lui che si aspettava dal regno dei cieli pace e bene
per tutti gli uomini di buona volontà, imponendogli digiuni che lo
avevano reso più secco di una ramazza e costringendolo a privazioni che avrebbero incarognito il più santo degli uomini. Povero
Butirro, e dire che era provvisto d’un ottimismo illimitato, aveva
una fede salda e irreprensibile. Anche il giorno in cui il Dottor
Calcoj gli trovò una colonia di piattole disseminata tra i peli del
pube e sotto le ascelle: a guardarlo c’era da non crederci, così innamorato della natura e delle sue creature da non dar peso ai pruriti che lo costringevano a raschiarsi la pelle, alla vergogna cui fu
sottoposto, all’ostracismo delle ragazze, alle maldicenze dei giovani di Castrocozzo, peraltro più luridi di lui, che non si facevano
pregare per deriderlo. Era stata quella puttana della Carla, si mormorava, ad attaccargliele, lei che di piattole ne gestiva un alleva130
mento. Ma il Butirro niente. Neppure un leggero moto di ribellione, una smorfia. Neppure un capello fuori posto o un nervo scosso. Aveva preso a prestito una piccola lima dal Vanni poiché le
unghie ormai non gli bastavano più, e passava il tempo a grattarsi,
scrostandosi la pelle e lodando la magnificenza della terra. Amava
i temporali, il Butirro, e sovente fuggiva sulla collina più alta della
zona, dove si sentiva libero, per lunghe camminate o ripide discese
da far impallidire gli scalatori professionisti. E a quelli che gli
chiedevano sempre cosa detestasse lui rispondeva Amo i recinti e i
boschi, le darsene e i mattugi, i pastori e i libri, amo mormorii notturni e bisbigli che mi destano nel cuore della notte e amo gli
alambicchi e le mattonelle di casa mia, i crogioli gli essiccatoi e le
cannelle dardifiamma, amo la carta sì ho molta carta, telata oleata
pergamenata filigranata vergata e zigrinata e amo i cappelli le reclame e i necrologi davvero tantissimo mi fanno impazzire e amo
la goffratrice l’offset e la policilindrica sì amo anche Fortran Cobol Ada e Pascal come farei senza di loro e m’innamoro di tutti gli
artropodi che conosco sì conosco migliaia, milioni, di odonati megalotteri e dermatteri e miliardi di planipenni e lepidotteri e anopluri e strepsitteri, che grande compagnia mi fanno, almeno credo,
e amo gli alberi piegati dal vento, il vento, gli alberi da frutta e i loro frutti e per ciascuno di questi le singole parti, ‘al ha’etz we’al
borè perì ha’etz, almeno quelle che conosco vediamo amo molto il
pericarpio la polpa borè perì ha’etz la scorza il mallo e il picciolo e
amo i verbi imbozzacchire bacchiare e imbacare e mi piacciono i
vasi cribosi e legnosi e il felloderma e l’alburno e senza dubbio
apprezzo moltissimo il gettamento l’esserci e la vecchiezza, si proprio la senescenza e stravedo per i denti i denti i denti e ho perfino
fotografie di appendiabiti palloni orpelli perché amo anche loro e
godo dell’odore del refrigerio e dell’ombra, ripulisco caldaie tegghie pentole e piattelli perché amo tutti questi oggetti e onoro mio
padre e mia madre specie quando li sento mugolare nella stanza a
notte fonda se pensano che stia dormendo, e amo dormire, svegliarmi, andar dal dentista, ho la collezione completa di Tex, Dylan Dog e Martin Mystère perché amo i fumetti specie della Bonelli ma in fondo li amo tutti, perché amo anche templi e pagode e
le cattedrali delle quali poi amo pèrgamo sacello lunetta e cappella
e non potrei non amare i campanili e ancora pinnacoli ventarole e
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campane di montagna soprattutto dove ci sono il ranuncolo la potentilla e il mirtillo orecchia d’orso insieme al maggiociondolo al
non-ti-scordar-di-me o miosotide che-dir-si-voglia e all’achillea
borsa di pastore eccetera eccetera.
Insomma fin da quando era bambino era stato costretto a subire l’onta del culto, le privazioni della religione e le angherie di uno
zio tanghero e rabbino. Poi aveva aiutato nel podere degli Umbilk,
dopo la morte di tutti i suoi famigliari, tra tacchini e trattori.
Ma adesso tutto era cambiato. Ora che si era trasferito a Sabbione e aveva un lavoro coi fiocchi al Ministero Suicidi & Festività®, viveva di un panteismo superiore che lo ergeva al di sopra di
ogni meschinità umana. Sospirava per le nascite e le morti, passava
le giornate a spedire verificatori sulla scena di un suicidio® e le
notti a caccia di temporali. Ah il superiore potere della natura! I
lampi, i tuoni, la grandine che sfracella al suolo squarciando
l’asfalto, generando pozze cui la primavera donerà vita! Questa è
la nostra terra, la nostra religione! Che m’importa della libertà, se
dio è in ogni cosa? Quando mi viene da piangere rido! Perché mi
resteranno da vivere cento, centoventanni al massimo, e voglio viverli alla grande, con lo sciroppo per la tosse nella tasca dietro.
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“TUTTI SAPEVAMO COME ANDAVA A FINIRE”
Ovvero della vicenda (Kafkiana? Orwelliana? Borgesiana? Altri suggerimenti?) che travolse Butirro – Una mattina Butirro Ciaroff, impiegato
presso il Reparto Immagazzinamento e Notifica Clausole 99 del
Ministero Suicidi & Festività®, ricevette una busta inviata da una
ricca vedova di nome Catherine, la quale per ringraziarlo della sua
premura (organizzò una splendida clausola 99 al marito) gli fece
dono di un biglietto per la Giostra del Peccato del mese successivo. Butirro, manco a dirlo, adorava i cavalli, i cavalcatori, il gusto
del terriccio lordato di sangue; ma adorava anche i tacchini selvatici, i contestatori, i rappresentanti e addirittura gli informatori farmaceutici, coi quali peraltro non ebbe mai nulla a che fare. Non fu
dunque turbato quando il suo diretto superiore del Reparto Ispezione Immagazzinamento e Notifica Clausole 99, tale Hubertus,
gli confiscò il biglietto adducendo diritti di anzianità e preminenza
nella scala gerarchica dell’Ufficio. Hubertus Liveroj, caporeparto
di cinquantasette anni, tenne il biglietto nel taschino della sua camicia d’ordinanza all’incirca un quarto d’ora, fino a quando il suo
diretto superiore del Reparto Controllo sui Regali a Dipendenti
non minacciò d’intentare un procedimento per corruzione nei suoi
confronti. Il meschino Hubertus consegnò senza indugio il biglietto e si giustificò facendo il nome di Butirro Ciaroff, il quale fu
convocato d’urgenza dallo staff interrogatori del Reparto Controllo sui Regali. Uscito dal suo gabinetto (uno stambugio tre metri
per due con vista sul cortile interno), Butirro dovette salire otto
rampe di scale, percorrere nove corridoi e quattro disimpegni prima di giungere a destinazione. Nonostante gli piacessero l’attività
fisica, il sudore, la spossatezza dei muscoli, non poté fare a meno
di notare l’enormità del palazzo: la Torre Ottagonale (che altri
chiamano Palazzo del Ministero Suicidi & Festività®) si compone
infatti d’un numero indefinito, e forse infinito, di piani esagonali,
con vasti ballatoi di ventilazione nel mezzo, orlati di ringhiere intarsiate a mano. Da qualsiasi piano si possono soltanto immaginare i piani superiori e inferiori, accessibili mediante ascensori ma133
novrati da addetti specializzati (essi manovrano non soltanto verticalmente, ma anche obliquamente e orizzontalmente). La distribuzione dei dipartimenti, dei reparti e dei settori nei piani è variabile. Nella maggior parte dei piani novantanove gabinetti, in ragione di quindici per lato tranne quello più a nord, che ne conta
nove, coprono tutti i lati meno uno; ogni piano, pur mantenendo
fede alla propria geometria, ha una disposizione particolare e caratteristica, variando rispetto agli altri per altezza e decorazioni. Il
lato libero dà su una serie innumerabile di corridoi che portano a
un altro piano, identico e invariabilmente diverso da tutti gli altri.
A destra e a sinistra di ogni corridoio vi sono due stanzini. Uno
è lo stanzino dei moduli; l’altro è quello dei timbri.
Allo stesso modo per ogni piano i ballatoi variano di numero, e
le scale di forma architettonica, risultando a spirale in un piano e a
rampe elicoidali in un altro, in altri ancora a chiocciola oppure a
gradoni sfalsati, ecc.
In quel luogo caotico Butirro faticò non poco a trovare l’ufficio
nel quale doveva recarsi, ma alla fine ci riuscì: era l’ufficio del Capo del Reparto Controllo sui Regali a Dipendenti, tale Norbertus
Walser. Questi lo fece accomodare su una sedia in finta pelle e
parlando con voce monotona dall’altra parte di una scrivania, sopra la quale si stagliava un ritratto del Gerarca, disse: “Mi dica,
Ciaroff, stiamo parlando di corruzione?”. “No, signor Caporeparto”, rispose Butirro. “E di cosa stiamo parlando?”. “Un semplice
dono per la gentilezza con cui è stato trattato un cliente, Signore”.
“Si spieghi meglio, Ciaroff”.
“La signora aveva fatto alcune richieste particolari e io ho fatto
in modo di accoglierle”. Il caporeparto Norbertus sfregò una mano sull’altra, con tono solenne. “Che genere di richieste?”, domandò. Butirro rispose prontamente: “Una poesia. Una poesia di
Ezra Pound con accompagnamento di contrabbasso”.
“Ma bene. E per quanto riguarda i costi?”, domandò il caporeparto.
“Ho inviato il verificatore Jonah Bumeroff, musicista a tempo
perso, buon contrabbassista, per risparmiare sulla diaria di un musicista esterno. Ho procurato io stesso il libro di Ezra Pound contenente la poesia richiesta”, disse Butirro.
134
Il caporeparto Walser prese una lunga boccata d’aria e iniziò a
scuotere il capo.
“Dipendente Ciaroff, contrassegno ottomilaventinove, le ricordo che il suo compito è quello di inviare numero due verificatori laddove è richiesta la loro presenza per la verifica di una clausola 99. Il suo compito non è quello di accogliere richieste particolari. Cosa sono queste stronzate? Poesie e contrabbassi? Per queste scemenze è attivo il Reparto Richieste Eccezionali, e a quanto
mi pare di capire non è stato interpellato. Il collega ne sarà piuttosto seccato, poiché a loro piace organizzare quel genere di spettacolini in punto di morte, mentre agli altri reparti, a quanto mi risulta, non piace affatto. E allora per quale ragione lei si è preso la
briga di organizzare uno spettacolino per dementi in punto di
morte? Forse allo scopo di ottenere un biglietto di tribuna per la
Giostra del Peccato, Ciaroff? Forse perché un pezzente come lei
non potrebbe altrimenti permetterselo? Non risponda, Ciaroff.
Non aggravi la sua posizione, la prego. Ricapitoliamo, Ciaroff: la
sua mansione al Ministero Suicidi & Festività®, Reparto Smistamento Verificatori e Notifica Clausole 99, è quella di inviare numero due verificatori laddove è richiesta la loro presenza per la verifica di una clausola 99. Quando il lavoro è stato fatto, lei deve
accertare che tutti i documenti siano in regola, con tanto di firme,
timbri e quant’altro, e redigere un rapporto che girerà al reparto
superiore al suo, che è il Reparto Ispezione Notifica Clausole 99.
Lei non deve assolutamente preoccuparsi della soddisfazione del
cliente, non deve assolutamente dimostrare di fare o di poter fare
neppure un grammo di lavoro in più di quello che è pagato per fare. Ci siamo capiti, Ciaroff?”.
“Ci siamo capiti, caporeparto Walser”, disse Butirro.
In quel momento un buffo addetto al recapito comunicazioni
consegnò un foglio di carta al caporeparto. Norbertus impiegò un
tempo innaturale per leggerlo, e alla fine alzò lo sguardo verso Butirro. “Ci sono tutte le peculiarità per un’accusa di corruzione”,
disse. Butirro non sembrò capire. “Ad ogni modo qui dice che
questo biglietto dev’essere immediatamente consegnato al reparto
Controllo Ispezioni Interne”. Il buffo addetto prelevò il biglietto
con una pinzetta, lo introdusse in una busta bianca e uscì dalla
stanza. “E anche lei, Ciaroff”, proseguì il caporeparto. “Deve pre135
senziare istantaneamente al reparto Controllo Ispezioni Interne,
settore interrogatori, gabinetto quattordici”. Butirro tentennò,
come non sapesse di preciso cosa fare. “Istantaneamente è già
passato, Ciaroff”, disse il caporeparto indicando la porta a Butirro,
il quale si alzò dalla comoda sedia e si ritrovò sbatacchiato nel
gorgo di corridoi e ballatoi del Palazzo Suicidi & Festività®. Adorava il viavai dei dipendenti che fuoriuscivano dagli uffici per riversarsi negli ascensori, nei corridoi, negli androni. Era una sensazione di velocità che rispecchiava magnificamente la filosofia futurista del Gerarcato. L’androne nel quale si fermò brulicava responsabilità, ergonomia, efficienza. Lì vide uno che conosceva e dopo
averlo cerimoniosamente salutato gli disse: “Devo salire al reparto
Controllo Ispezioni Interne, settore interrogatori, stanza quattordici, sai dove si trova?”. L’uomo non sembrò riconoscere Butirro,
inoltre sembrava molto indaffarato, ma decise comunque di perdere qualche minuto per fornirgli l’informazione. “Il piano dei
Gabinetti Gerarcali delle Comunicazioni si trova dalla parte opposta del ballatoio nove, proprio laggiù, dietro l’angolo. A ovest c’è il
Gabinetto delle Decisioni, il quale risulta attiguo al Gabinetto dei
Risarcimenti, costituito dal Gabinetto dei Reclami e dal Gabinetto
dei Legali. Salendo al piano superiore si incrocia il Gabinetto
dell’Economia e proseguendo per otto corridoi ti ritroverai di
fronte al Reparto Cause Eleggibili di Suicidio®. Quattro piani a est
si trova l’ascensore numero trecentoquarantaquattro: prendendo
quello e scendendo di sette piani sarai sparato direttamente nel culo del Reparto Controllo Ispezioni”, disse. “Grazie”, disse Butirro.
Ma in quel momento un tizio pelato con bretelle rosse e verdi intervenne dicendo: “Siete pazzi! Intanto il ballatoio laggiù è il diciannove, non il nove. Inoltre la via migliore per il Reparto Controllo Ispezioni è passando per il Gabinetto Spedizioni! Si prende
l’ascensore e si esce al dodicesimo piano di fronte al Distaccamento del Dipartimento Nettezza Umana, si percorrono cinque corridoi in direzione sud sud-est e si svolta a sinistra seguendo le indicazioni per il Reparto Igiene Morale. A questo punto si trova
l’ascensore trecentoventuno, lo si prende, si scende di due piani
obliquamente e ci si ritrova proprio di fronte al Reparto Controllo
Ispezioni!”.
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Butirro era piuttosto confuso. Lasciò il suo conoscente e
l’uomo dalle bretelle a discutere e cominciò a percorrere il corridoio, finché raggiunse il ballatoio diciannove. Lì voltò a sinistra e
si ritrovò di fronte a un Banchetto Informazioni Clienti. Era affascinato dalla bellezza delle hostess e dal profumo che proveniva
dalle loro divise. Credette di riconoscere fragranze di violetta e lavanda, ma forse si trattava di lavanda e basta. Non domandò la via
migliore per raggiungere l’ufficio nel quale lo stavano attendendo
poiché vide le giovani donne indaffarate a laccarsi le unghie; decise così di non disturbarle.
Quando infine raggiunse il Reparto Controllo Ispezioni le nuvole si erano prese il cielo, e una giornata che era iniziata con un
sole luminoso prometteva un temporale straordinario. Nel frattempo il suo orario di lavoro era terminato da qualche minuto, ma
non se ne curò. Il lavoro prima di tutto! Si disse. Fu accolto da
due giganteschi uomini in completo scuro. Entrò nell’enorme gabinetto e notò la raffinatezza degli arredi: quadri fiamminghi alle
pareti, poltrone foderate in tessuto pregiato, pavimento di legno,
ecc. Ciononostante non lo fecero accomodare in quel piccolo paradiso. Dal lato ovest del gabinetto si aprì una piccola porta, che
attraverso un’angusta galleria conduceva in una stanza attigua,
molto spaziosa e interamente vuota. Gli uomini in completo scuro
richiusero l’entrata e Butirro rimase solo; era davvero rapito dalla
solitudine che quelle pareti trasmettevano, si meravigliò di quanto
un locale vuoto possa sembrare vuoto quando è davvero vuoto,
ovvero spoglio di ogni cosa. Si interrogò se almeno l’ossigeno e gli
acari della polvere, i microbi o i virus avrebbero potuto colonizzarlo, ma non seppe rispondersi. Tutte le pareti della stanza, compresi il pavimento e il soffitto, erano di un colore che non seppe
distinguere. Aveva qualcosa del grigio o del bianco sporco. Era felice di essere lì, poiché pensò che l’oppressione è ciò di cui un essere umano ha bisogno per sperimentare la libertà.
Dopo un quarto d’ora circa, durante il quale Butirro pensò alla
bellezza del nulla come un utero pronto a essere fecondato, entrarono nella stanza due uomini. Il primo, sulla cinquantina, portava
la giacca del Reparto Controllo Ispezioni; il secondo aveva un
aspetto duro e indossava guanti di pelle, un particolare che Butirro
notò subito (era infatti giugno).
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“Vuole sedersi?”, domandò quest’ultimo a Butirro. “Ne sarei
molto felice”, rispose Butirro. “Del resto anche restare in piedi
non mi dispiace affatto”. Fecero portare una sedia.
“Ciò che noi facciamo”, disse l’uomo del Reparto Controllo
Ispezioni, “è controllare le ispezioni che i reparti a noi inferiori effettuano sui reparti a loro inferiori. Qualcuno a noi superiore si
occupa di controllare le nostre ispezioni, ma questo a lei non interessa”.
“In questo caso”, disse l’altro uomo, “abbiamo scoperto che lei
ha ricevuto un bene privato in cambio di un servizio pubblico”.
“In realtà”, disse Butirro, “ho fornito un servizio pubblico e successivamente ho ricevuto un bene privato a titolo di riconoscenza”. I
due si consultarono. “Non ti pare che sia la stessa cosa, Jeff?”.
“Mi pare davvero la stessa cosa, Monk”. Butirro cercò di intervenire ma uno dei due uomini gli intimò di tacere. “Tra l’altro mi pare, Jeff, contraddicimi se sbaglio, che, essendo la stessa, anzi la
stessissima cosa, l’imputato abbia confermato pienamente di aver
ricevuto il bene privato in cambio di un servizio pubblico”. “In
pratica confermando le accuse, Monk”. Fecero ancora cenno a
Butirro di tacere. “Nello stesso tempo è chiaro che questo biglietto”, disse l’uomo dallo sguardo duro estraendo coi guanti il biglietto dalla busta, “trascende la nostra giurisdizione e autorità”. “Sono
perfettamente d’accordo con te, Monk”, disse l’altro.
“Dal momento che l’imputato conferma l’accaduto non ci rimane che passare la pratica al Reparto Questioni Delicate”.
A quel punto entrò di nuovo l’uomo buffo con la pinzetta, prese il biglietto, lo introdusse nella busta e uscì dalla stanza. “Buona
giornata, Signor Ciaroff”, disse il tizio con l’espressione dura.
“Buona giornata a voi”, rispose Butirro piuttosto confusamente.
“Al Reparto Questioni Delicate la stanno aspettando”, disse
l’altro tizio.
“Scusatemi per tutto”, disse Butirro. Questa semplice affermazione procurò nei due uomini uno sconvolgimento impensabile.
Fecero cenno a Butirro di non uscire dalla stanza e iniziarono a
confabulare tra loro. Si domandarono se fosse il caso di chiamare
un religioso, o almeno un filosofo, per comprendere il significato
profondo di quell’asserzione apparentemente banale. “La sua affermazione cambia le cose”, disse uno dei due uomini. “Ma il re138
parto di competenza rimane lo stesso”, disse l’altro. “Penseremo
noi a comunicare questa nuova informazione all’ufficio competente”. “Vada pure”, conclusero. Butirro uscì dalla stanza vuota e fu
risputato nel caos dei corridoi. Il temporale si stava avvicinando.
Poteva scorgere gli alberi frustati dal vento attraverso le trentatré
finestre (una ogni tre gabinetti) del piano ottagonale in cui si trovava. Sperò di concludere la questione in tempo per correre in cima a qualche collina e ammirare i fulmini.
Impiegò circa un’ora a trovare il Reparto Questioni Delicate.
I soliti due uomini in completo scuro (non gli stessi di prima,
altri due), lo fecero entrare nel Gabinetto Centrale Questioni Delicate e accomodare su una pratica poltroncina rossa. Ad attenderlo
c’era un uomo distinto, sulla quarantina, capelli brizzolati, vestito
elegantemente.
“Il problema è che lei, Signor Ciaroff, si è assentato dal lavoro
per quasi cinque ore”, disse subito, senza neppure guardarlo.
“Quattro ore e cinquantadue minuti”, disse la segretaria dell’uomo
distinto, una bella ragazza in tailleur blu e camicetta bianca. “Bene,
Corinne”, disse l’uomo distinto; “comunque il suo diretto superiore Robertus, Dagobertus, Herbertus…”. “Hubertus”, intervenne
la segretaria. “Hubertus. Bene, Corinne”, disse l’uomo distinto,
“come diavolo si chiama non ha importanza; ciò che importa, eccome, è che questo Heribertus, il suo diretto superiore, nel rapporto di metà pomeriggio ha comunicato al Reparto Competenza
Orari Lavorativi, il quale lo ha comunicato a Corinne, la quale lo
ha appena comunicato a me, che lei oggi ha lavorato soltanto
quattro ore”. Butirro cercò di parlare, ma l’uomo distinto gli fece
cenno di tacere. “Non dica niente, Signor Ciaroff. Il problema è
che questo biglietto, che lei ha ricevuto in cambio di una prestazione lavorativa non di sua competenza e oltretutto non autorizzata, adesso è qui, sulla mia scrivania. Mi sembra una questione abbastanza delicata, e perciò è di competenza di questo reparto, accentuata dal fatto che lei ha ammesso, in presenza dei colleghi del
Reparto Controllo Ispezioni, la sua presunta colpevolezza”. Ancora Butirro cercò di parlare e ancora l’uomo distinto gli fece cenno
di tacere. “Siamo in un bel guaio”, disse. “Un guaio consistente
nel fatto che la presenza di questo biglietto è una grave trasgressione al codice del nostro Ufficio. Sa cosa dovrò fare? Dovrò in139
viare il biglietto al Gabinetto Annulli, il quale lo girerà al Gabinetto Valutazioni, il quale lo manderà al Gabinetto Incenerimenti, il
quale finalmente lo distruggerà sotto gli occhi dei Commissari
Speciali e del Magnifico Rettore, i quali sono gli unici al di sopra di
ogni sospetto, a parte il Magnifico Gerarca, s’intende. Sa quanto
tempo ci vorrà? All’incirca tre mesi”. Butirro tradì un’espressione
di stupore. “Si stupisce, Ciaroff? Stiamo parlando di un provvedimento d’urgenza”, disse l’uomo distinto. Poi comunicò per mezzo
di un computer con la segretaria, e di lì a un minuto entrò ancora
il buffo uomo delle comunicazioni, che afferrò il biglietto con la
solita pinzetta, lo introdusse nella solita busta e lasciò la stanza.
“Ma in fondo, quello che più ci sta a cuore”, proseguì l’uomo
distinto, “non è tanto il biglietto, quanto la sua posizione, signor
Ciaroff”. “Beh…”, disse Butirro. “Oh, non si deve assolutamente
preoccupare”, intervenne l’uomo distinto; “del resto la pratica di
mia competenza si è già risolta nel momento in cui ho preso
l’unica decisione possibile riguardo al biglietto (distruggerlo, naturellement). La pratica inerente alla sua posizione non mi riguarda
minimamente. Il Reparto Orari Lavorativi avrà già aperto un fascicolo a suo nome per l’assenza ingiustificata dall’ufficio, mentre
il Reparto Gestione Comportamenti avrà senz’altro aperto un fascicolo a suo nome per l’appropriazione del biglietto e per la sua
indebita richiesta di perdono, la quale è una strepitosa aggravante
al suddetto reato”.
La segretaria intervenne e disse: “Signor Ciaroff, è atteso al Reparto Gestione Comportamenti per un processo immediato. Ecco
la ratificazione”, porse un modulo a Butirro. “Che ci devo fare?”,
domandò Butirro. “Una firmetta qui e una sul retro, qui”, rispose
la segretaria. “Buona giornata, signor Ciaroff”, disse l’uomo distinto. “Buona giornata”, disse Butirro; poi fu accompagnato in corridoio dai soliti tizi in completo scuro. Il temporale era già finito.
Dalle finestre vide squarci d’azzurro e alcuni mezzi del Dipartimento Nettezza Umana sfrecciare in strada. Provò un moto di
grande ammirazione per gli agenti della pulizia umana, che con il
loro duro lavoro contribuivano a rendere luminosa e profumata la
città.
Salì un paio di rampe, prese tre ascensori e dopo qualche imbarazzo riuscì a trovare il Reparto Gestione Comportamenti. Quan140
do entrò nel gabinetto-tribunale si trovò di fronte nove pretori in
altissima toga cerimoniale e parrucca ufficiale. Un usciere sciancato gli spiegò che le operazioni di giustizia interna richiedevano il
supporto di almeno nove pretori. Lo stesso usciere lo fece sedere
di fronte al banco dei pretori, e per qualche istante la sala fu invasa
da un silenzio carico di immaginazione. Butirro immaginò molte
cose, tra cui le splendide sere di mezza estate trascorse sulle mura
del castello di Sabbione in compagnia dell’amica Eileen.
Poi il fragore di un martello sbattuto sul legno del banco interruppe ogni immagine e annunciò l’inizio dell’arringa dei pretori.
“Per quanto riguarda l’assenza dal posto di lavoro”, disse il
primo giudice, “riteniamo che essa sia del tutto ingiustificata”. La
sua voce era piuttosto esile, quasi bianca, e avrebbe suscitato
l’ilarità di chiunque. Ciononostante Butirro pensò che con una voce simile avrebbe potuto senz’altro fare il cantante.
“Per quanto riguarda la richiesta di perdono avanzata”, disse il
secondo pretore, “riteniamo che essa sia stata inidonea ai dettami
dei codici del Ministero Suicidi & Festività®. Siamo stati costretti a
interpellare un esponente della Dottrina Cattolica sul Perdono per
avere ragguagli sul suo esatto significato, che noi non conosciamo.
Poiché il chiarimento dell’esponente cattolico ci è sembrato insufficiente siamo stati costretti a convocare d’urgenza un esponente
dell’esistenzialismo contemporaneo. Questi ha tirato in ballo dottrine che non ci sentiamo di condividere. In tutta franchezza, Signor Ciaroff, noi di questo perdono non ci abbiamo capito nulla;
ma il fatto di non averci capito nulla è sufficiente a farci considerare l’ipotesi che si tratti di una cosa contraria alla condotta protocollare del collegio da noi presieduto e di conseguenza contraria
alla legge morale, civile e sociale del Gerarcato di Sabbionasso”.
I nove giudici restarono in silenzio per qualche attimo.
“Per quanto riguarda la questione dell’appropriazione di un bene privato in cambio di un servizio pubblico”, disse il terzo pretore, “riteniamo che il fatto sia di rilevanza massima, di gravità superiore, di interesse giudiziario”.
“Pertanto”, disse il quarto pretore, “deliberiamo quanto segue”.
141
“Il dipendente Butirro Ciaroff”, disse il quinto pretore, “sarà
soggetto a Ostracizzazione Ufficiale per condotta contraria allo
spirito del Gerarcato di Sabbionasso”.
“Ora può tornare a casa”, disse il sesto pretore. “Dovrà presenziare tra nove giorni alla lettura pubblica della bolla
d’ostracizzazione, la quale verrà redatta dai nostri compilatori ufficiali di documenti”.
“Nel frattempo potrà continuare a lavorare”, disse il settimo
pretore.
“Naturalmente rinunciando al salario”, disse l’ottavo pretore.
“Buona giornata”, disse il nono pretore.
“Buona giornata a voi”, disse Butirro.
“Tutti sapevamo come andava a finire”, disse l’usciere sciancato a Butirro, “ma bisogna pur concedere qualcosa al protocollo. Il
protocollo, alle volte, è uno spasso”.
Butirro lo guardò, sorrise e fece per uscire.
“Non dimentichi la copia della sentenza”, disse la dattilografa.
Butirro prese una copia della sentenza e fu un’altra volta risucchiato dai corridoi del Palazzo, tra gente che procedeva spedita,
telefoni che squillavano, uomini in soprabito, ecc.
Rovistando nella tasca della giacca trovò il cartoncino colorato
che accompagnava il biglietto per la Giostra.
C’era scritto:
“Gentile Signor Ciaroff, ha mai assistito dal vivo alla Giostra del
Peccato? È deliziosa! Tacchini decapitati da nobili cavalcatori, una
sontuosa parata con carri allegorici e magnifici costumi. E poi il
Gerarca in persona a inaugurare le celebrazioni! Sono certa che
gradirà questo piccolo omaggio: è il biglietto di tribuna centrale
numerata (a pochi metri di distanza dalle autorità e dai divi della
televisione!) che la Massoneria Rotariana Sabbionassa dona ogni
anno a mio marito per la sua lunga militanza nell’associazione. A
lui, evidentemente, non serve più.
Sua, Catherine Julie Chamach de Nouveau Chateaux”.
142
Notifica d’Ostracizzazione11
Oggi, Giornata delle Esperienze Superflue IPhone 4G, alla presenza del Sostituto Gerarca ovvero Magnifico Reggente,
dell’Arcivescovo di Sabbione (essendosi l’imputato dichiarato in
un’ultima battuta cattolico, nonostante il cognome chiaramente ebreo),
del Notaio, di numero sette miliziani Gerarcali, del procrastinatore, del dottore, del traduttore, dell’ostracizzando Butirro Ciaroff di
anni quarantaquattro, residente a Sabbione in Viale della Terza
Cerchia, impiegato presso il Ministero Suicidi & Festività®, Dipartimento Accertamenti, Settore Inoltri, Reparto Smistamento Verificatori e Notifica Clausole 99, del di lui avvocato d’ufficio e di un
numero imprecisato di parenti del suddetto, tra i quali si contano
un padre, uno zio e alcuni cugini, procedo alla lettura e alla notifica della Bolla Gerarcale d’Ostracizzazione numero 777636/67 nei
confronti del suddetto Butirro Ciaroff di età già menzionata, residente a eccetera, nato a Castrocozzo, giudicato reo di essersi illegittimamente impossessato di un bene privato (individuato dalla
Giuria in un biglietto di tribuna centrale per la Giostra del Peccato) abusando del proprio incarico pubblico, risultando tale fatto di
gravità massima secondo l’inappellabile e insindacabile Collegio
Penale del Gerarca:
–
Por la aŭtoritato da Eldonejo Extremissimum en la
persono unu kaj unu sole da Super Imponega Hierarko da Sablàs,
Mantengo qui per completezza d’informazione la notifica di ostracizzazione nell’originale in esperanto, dacché naturalmente tutte le notifiche
d’una certa rilevanza effettuate nel Gerarcato di Sabbionasso hanno
mantenuto la dicitura esperanta – tenendo presente che l’esperanto sabbionese varia in alcuni vocaboli e costruzioni fraseologiche rispetto
all’esperanto canonico. I corsivi si riferiscono agli Atti Ufficiali del processo sommario per ostracizzazione avvenuto alla presenza
dell’ostracizzando e di altre figure.
11
143
« Per l’autorità dell’Editore Ultimissimo nella persona una e sola del Magnificentissimo Gerarca del Sabbionasso, »
–
de la princoj, de la baronoj, de la grottoj, de la ĉampionoj, de la dukoj kaj la ĉefdukoj, de la episkopoj, de la ataŝea al la
krizo, ministroj, ĉevalo preparoj, cantonoj, kancelieroj, de ĉiuj cheruboj kaj la anĝeloj, de la preĝantoj de Kopros, de la rabenoj kaj
multaj aliaĵoj produkte, ne kre, de la sama substanco de la Patro,
« dei principi, dei baroni, dei grottaferrati, dei paladini, dei duchi e degli arciduchi, dei vescovi, degli addetti alla sicurezza, ministri, palafrenieri, cantonieri, cancellieri, di tutti i cherubini e gli angeli, degli adoratori di Kopros, dei rabbini e di molte altre cose
generate, non create, della stessa sostanza del Padre, »
« Un momento », disse l’avvocato, « E i conti dove li mettiamo?»
« I conti », disse il notaio, « sono stati usurpati nell’anno millenovecentosettantanove dal nostro Beneamatissimo Gerarca, insieme ai re, agli industriali e ai sindacati, indi per cui – i conti – non hanno diritto ad alcuna forma di
autorità ». Sembrava molto seccato per l’interruzione – il notaio – ma senza battere ciglio riprese a declamare la bolla.
« Per l’autorità di tutti quanti aventi diritto » proseguì il notaio,
–
ven pren li de la gorgo de ĉiu patologio sciata kaj klasifik
en la Sablàs Enciklopedio de la malsanoj infektaj, ne infekta, de la
sama substanco de la morb.
« venga egli preso dal gorgo di ogni patologia conosciuta e classificata nell’Enciclopedia Sabbionassa delle Malattie infettive, non
infettive, della stessa sostanza del flagello. »
–
Ni ĝi dejectumus kaj de la sojlo de la Oktagono Palaco
tuj kiam restarig en ĝia antikva grandiozeco la ostrakamus de ĉiu
domo, vojeto kaj palaco, de ĉiu malplenaĵo, truo kaj naĝejo, de ĉiu
keletaĝo, arbo kaj rivero,
144
« Noi lo deimmunizziamo e dalla soglia del Palazzo Ottagonale
appena restaurato nel suo antico splendore lo ostracizziamo da
ogni casa, vicolo e palazzo, da ogni interstizio, buco e pozza, da
ogni sotterraneo, albero e fiume, »
–
de ĉiu publika kvadrata, vojo kaj vinberujo, de ĉiu condominio, duĉambro kaj monolocal, de ĉiu kontraŭleĝa subtegmento, kabano kaj streĉ Kanada, de ĉiu pliiĝ, monteton kaj inund, de
ĉiu slargo, arbovico avenuo kaj bulvardo,
« da ogni piazza, strada e vigna, da ogni condominio, bilocale e
monolocale, da ogni sottotetto abusivo, capanna e tenda canadese,
da ogni monte, collina e palude, da ogni slargo, viale e boulevard,
»
–
de ĉiu drinkejo, botego kaj kino, de ĉiu biblioteko, publika ĝardeno kaj vendejo, de ĉiu ofico, stacio kaj loko de sekto de
la Teritorio Hierarkio da Sablàs, ĉar li povas suferi turmentojn de
la eterna kaj konstanta ekzilo.
« da ogni locale, bottega e cinema, da ogni biblioteca, pubblico
giardino e negozio, da ogni ufficio, stazione e luogo di culto del
Territorio Gerarcale di Sabbionasso, perché possa patire i tormenti dell’esilio eterno e perenne. »
« Quindi », disse l’avvocato, « una cuccia per cani non sarebbe proibita. »
« Assolutamente proibita, » disse il notaio, « in quanto compresa nel novero dei monolocali. »
« Un marciapiede? »
« Proibito in quanto compreso nel novero delle strade, o dei vicoli.»
« Una cantina? »
« Proibita in quanto compresa nel novero dei sotterranei. »
« Una tomba? Una bara? Un sarcofago? »
« Proibito tutto, in quanto compreso nel novero dei buchi. »
« Una bara non è un buco. E neppure un sarcofago. »
« Proibito in quanto compreso nel novero delle costruzioni giacenti su terreno sabbionasso, al pari delle latrine Gerarcali, le discariche Gerarcali, i loculi Gerarcali, le tane di citello, salamandra, talpa o grillotalpa, e ancora tutte
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le torri, le palafitte, le grotte, i pied a terre, i boudoir, i bordelli, i manicomi, i
nosocomi, gli ospedali, i canili, i gattili, le stie, le aie, le gabbie, gli zoo, i caravanserragli e qualunque forma di ristorante, osteria, bar tavola calda, bar tavola fredda (già peraltro abbondantemente compresi nel novero dei locali), di
locanda, albergo, ostello, rifugio, riparo, pensione, meublè, hotel, cascina, cascinale, agriturismo. »
E una casa colonica?
Compresa nel novero delle abitazioni.
Una villetta schiera?
Compresa.
Un trilocale? Un quadrilocale?
Compresi.
Un cottage?
Compreso.
È tutto compreso?
Tutto.
E una dispensa?
Compresa, compresa! È compreso tutto!
A questo punto intervenne il Sostituto Gerarca ovvero Magnifico Reggente,
che intimò di proseguire. Il notaio riprese a leggere con tono solenne.
–
Ni ĝi la ostrakamus de ĉiu de ĉiu drinkejo, botego kaj
kino, de ĉiu biblioteko, publika ĝardeno kaj vendejo, de ĉiu ofico,
stacio kaj loko de sekto de la Teritorio Hierarkio da Sablàs, ĉar li
povas suferi turmentojn de la eterna kaj konstanta ekzilo.
« Noi lo ostracizziamo da ogni locale, bottega e cinema, da
ogni biblioteca, pubblico giardino e negozio, da ogni ufficio, stazione e luogo di culto del Territorio Gerarcale di Sabbionasso,
perché possa patire i tormenti dell’esilio eterno e perenne. »
–
Kaj ekde la Tero rotacir sur si kun senĉesa moviĝo,
sekve ĝi vol dev esti senĉesa ĉiame vaganta por la abismoj de la
mondo ĉiame kaj por, krom se ili ĉiuj mortigas la tridekok meleagroj de la Tago de Peko, estanta li restebla kulpo de la unio de ĉiuj
kaj tridekokjara la mortigaj pekoj establis de Nia Super imponega
Hierarko kaj ankaŭ Eldonejo Extremissimum por la aktuala jaro,
146
« E come la terra ruota su se stessa con moto incessante, così
avrà d’essere incessante il suo peregrinare per gli abissi del mondo
sempre e per sempre, a meno che non vengano decapitati tutti e
trentotto i tacchini votivi della Giostra del Peccato, essendo la sua
colpa passibile dell’unione di tutti e trentotto i peccati capitali stabiliti dal Nostro Magnificentissimo Gerarca nonché Editore Ultimissimo per l’anno in corso, »
–
ducenti duodecimus fasti Hierarkio, bis-millesimus tertium fasti gregorianorum, bis-millesimus tertium et menses quattuor fasti iscarioticorum, ter-millesimus quadrigentesimus fasti
judaeorum, sescenti septuaginta duo milies ducenti vigenti septimus et menses novem fasti coproliticii, sexes milies centina milia
quadringenti centies miles quingenti quinquaginta quartus praeter
plerique menses fasti qui deos esse negat, ne en uzi de quinquaginta jaroj sed teno en todos officiala dokumentoj da pariigiton de nia
Superbenamatejo Hierarko.
« dugentoduodecimo del calendario Gerarcale, duemilaterzo
del calendario gregoriano, duemilaterzo e mesi quattro del calendario iscariotico, tremilaquattrocentesimo e mesi sei del calendario ebraico, seicentosettantaduemiladuecentoventisettesimo e mesi
nove del calendario coprolitico, sei miliardi quattrocento milioni
ottocentosettantanove mila e cinquecentocinquantaquattresimo
più svariati mesi del calendario Ateo, non in vigore da settantadue
anni eppure mantenuto in ogni Bolla Ufficiale d’Ostracizzazione
per volere del nostro Beneamatissimo Gerarca. »
–
Meti en ekzilo ĉiuj malbonokazoj eldiris de ĉiuj magiistoj, ĉiuj profeta iuj, la fattukioj, la klarvidkapabla, la divinatoj, la
rava iuj kaj la negromantoj, ĉiuj transmet, la mallards, la harpies
kaj la ammaliioj, ĉiuj stregoni, la legantoj de mano kaj la evocatori
de morto, kun la kondiĉo ke ili ekzerc almenaŭ blanka, ruĝa, nigra
magio, ritoj voodoo, satanismaj ritoj kaj vario malbenojn,
« Si porti appresso in esilio tutte le iatture proferite da tutti i
maghi, tutti gli indovini, i fattucchieri, i veggenti e i chiaroveggenti,
147
i divinatori, gli incantatori e i negromanti, tutte le streghe, le maliarde, le arpie e le ammaliatrici, tutti gli stregoni, i lettori di mano
e gli evocatori di morte, a patto che esercitino almeno magia bianca, rossa, nera, riti voodoo, riti satanici e maledizioni varie, »
–
kaj al met poste la mikroboj kaj la parazitoj tio, ke multiĝ sur la Teritorio Ke mi ne dezir mi povas nomon pli en ĉeesto
de la pariigita; estas infekt de la tuta rondo de la venereal malsanoj,
ĉiuj lebbronoj de Marituba, ĉiuj formoj de malvarma, sinusito, laringito por ke povus pripens lia malmodera peko.
« e si porti appresso i germi e i parassiti che proliferano nel
Territorio ch’io non nomino in presenza dell’ostracizzato; lo contagino tutta la cerchia delle malattie veneree, tutti i lebbrosi di Marituba, tutte le forme di raffreddore, sinusite, laringite e faringite
affinché possa riflettere sul suo smodato peccato. »
–
Gi forgesas la turojn de Sablòn, Sankta Bertran de Born
kvadrata kaj la vojoj tio, ke tie ili renkont, ĉiuj pelvoj de la rivero
Atanor, ĉiuj montetoj, la kornicoj, la porcelano, kaj forges la virinoj kaj la viroj, la infanoj, la hundoj kaj la katoj kaj la bekamortoj
sablàs,
« Dimentichi per sempre le torri di Sabbione, Piazza San Bertran de Born e le vie che ivi confluiscono, tutti i bacini del fiume
Atanor, tutte le colline, i cornicioni, le porcellane, e dimentichi le
donne e gli uomini, i bambini, i cani e i gatti e i beccamorti sabbionassi, »
–
ĝi forges la koloroj kaj la gustoj, la odoroj, la radiado
produktita de sepdek naŭdekdu ripetiloj, la voĉoj, la sonoj, kaj
forges la tramoj, la trejnistoj, la aŭtoj, la ĉaroj de la frukto, kaj ĝi
forges la akvomelonoj, la melonoj, la tomatoj, la zukinoj, la florbrasikoj, la karotoj kaj ĉiu alia speco de legomoj tio, ke kresk sur la
fekunda kaj plej riĉa teritorio de Sablàs.
« dimentichi i colori e i sapori, gli odori, le radiazioni prodotte
dai settecentonovantadue ripetitori, le voci, i suoni, e dimentichi i
148
tram, gli autobus, le automobili, i carri della frutta, e dimentichi i
cocomeri, i meloni, i pomidori, gli zucchini, le verze, i cavolfiori,
le carote e ogni altro tipo di verdura che cresca sul fertile e ricchissimo territorio di Sabbionasso. »
–
Ĝi forgesas la nomojn de la vojoj kaj landoj, la nomo de
la ĉefurbo ke mi ne estos citi prefer la forgeso ĝis de ĉi tiu momento, la nomoj de la preĝejoj, de la diino, hospitaloj, kaj ĝi forgesas la flowerbeds, la floroj, la fagoj kaj la sloes kaj la magnolias kaj
la oak arboj kaj ĉiuj aliaj arboj tio, ke trov nutranta sink la propraj
radikoj sur la teritorio super menci, kio Mi vol evit de ĉi tiu momento menci al prefer la forgeso ĝi flanken de la de la pariigita.
« Dimentichi i nomi delle vie e dei paesi, il nome della capitale
ch’io non citerò più per favorirne l’oblio fin da ora, i nomi delle
chiese, degli dei, degli ospedali, e dimentichi le aiuole, i fiori, i faggi e i pruni e le magnolie e le querce e tutti gli altri alberi che trovino nutrimento affondando le proprie radici nel territorio sopra
menzionato, ch’io eviterò da ora di menzionare per favorirne
l’oblio da parte dell’ostracizzato. »
–
Kio estas li infektis de la influo birdejo kaj de la herpes
zoster, la poliomjelito kaj kun la epatite A, B kaj C.
« Che sia egli contagiato dall’influenza aviaria e dall’herpes zoster, dalla poliomielite e dall’epatite A, B e C. »
–
Estas okupita de la fajro de Sankta Antonio, severe de
gorĝo, kun la apendicito, kun la brucio da stomo kaj kun la malbona al ĉiuj dentoj, muela dento kaj caninoj, incisoroj kaj de la
juĝo, kun agarikoj de la haŭto, ĉagrenoj, angino kaj ischema.
« Venga preso dal fuoco di Sant’Antonio, dal mal di gola,
dall’appendicite, dal bruciore di stomaco e dal male a tutti i denti,
molari e canini, incisivi e del giudizio, da funghi della pelle, irritazioni, angina e ischemia. »
149
Estas okupita de tricomonio, sifilizon, clamidio, blen–
norrhoea, gonorrhoea, gastrito kaj devas, kaj estas infekt de insomnia, senpoveco, rosilio, reŭmatismoj, sulkoj, scabio kaj sarso,
scolio, stitiero, diarrea kaj gastrito, alopeco, astmo, bronka kataro
kaj dermatito.
« Venga preso da tricomoniasi, sifilide, clamidia, blenorragia,
gonorrea, gastrite e gotta, e sia contagiato da insonnia, impotenza,
rosolia, reumatismi, rughe, scabbia e sars, scoliosi, stitichezza,
diarrea e gastrite, alopecia, asma, bronchite e dermatite. »
–
Estas okupita kun emorruoj, sciatico, neurosis, obezecon, ortika, Parkinson, Alzheimer kaj Gaerig, mitochondria, miopeco kaj menstruoj.
« Venga preso da fortuna (questo termine fu in principio tradotto malamente, poiché in esperanto sabbionese fortuna si può anche dire emorroj, ma
fu subito corretto dal traduttore), volevo dire venga preso da emorroidi,
e venga preso da sciatica, nevrosi, obesità, orticaria, paranoia, Parkinson, Alzheimer e Gaerig, ipocondria, miopia e mestruazioni »
–
Estas okupita de aphtha epizooica, nodular dermatosi,
pesto bovoj, ovinoj, equinoj kaj malsano de Fendiĝo Valo, fiuloj
brucello, fiuloj cysticerco, encefalomielo, atropo rhinito, blua malsano, trichinello, bonamiaso, aplosporidio, marteilio, mikrocyto,
perkinso.
« Venga preso da afta epizooica, dermatosi nodulare, peste bovina, ovina, equina e malattia della Rift Valley, brucellosi suina, cisticercosi, encefalomielite, rinite atrofica, morbo blu, trichinellosi,
bonamiasi, aplosporidiosi, marteiliosi, mikrocytosi, perkinsosi. »
–
Kaj estas okupita, ole, kun acido putran, antracno,
origitan flavescenzo, filosso kaj infekta muskolaro, rusto kaj fumaggo, apopleco, griza muldilo, induratio peniso, balanopostite.
« E venga preso, anche, da marciume acido, antracnosi, flavescenza dorata, filossera e maculatura infettiva, ruggine e fumaggi150
ne, apoplessia, muffa grigia, scabbia, induratio penis e balanopostite. »
– Povas la malbonon de nia amata Hierarkio kaj ĉiuj ĝiaj
nenombreblaj dioj eterna ellasi ĉiuj ĉi tiuj malbonokazoj kaj multaj
aliaj ne kovrita en ĉi tiu veziko por la bonfarto de mallongeco. Do
ĝi estas decidita, Hurao la Hierarko, Hurao Ni, ĝi estas, faris la volon de la Hierarko! Hurao Ni! Hurau Ni!
« Possa la ferocia del nostro amato Gerarcato e di tutti i suoi innumerevoli numi imperituri scatenargli contro tutte queste sventure e molte altre non contemplate nella presente bolla per amor di
brevità. Così è deciso, evviva il Gerarca, Evviva Noi, così sia, sia
fatta la volontà del Gerarca! Evviva Noi! Evviva Noi! ».
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MICHEL PETRUCCIANI CONTRARIO ALLA NATURA
Pioppi. E tamerici, peri, meli, ciliegi.
Quando la sterile nube gonfia d’elettricità si dissolse il reverendo Kok appoggiò la valigia sull’erba secca della bordura. Aveva
una foglia aggrappata alla giacca. Guardò la corriera allontanarsi
sulla camionale determinando il balbettio ferramentoso di una ringhiera arrugginita.
Si voltò verso il vialone che per gli indigeni significava
l’arditezza della gioventù e la baldoria delle serate spensierate.
I detestati pioppi.
Squadrò il boschetto che vietava la vista della vallata. I pioppi
erano dappertutto. A file, a schiere, a drappelli, da ornamento per
le vigne, l’uno pareva sorreggere l’altro, come i soldati d’una truppa che fossero stati chiamati sull’attenti. Pioppi a perdita d’occhio,
insomma. E le libagioni che si facevano, all’ombra di quei pioppi!
E le divinità prevaricatrici che s’erano ammansite alla vista di quei
pasciuti villanzoni ricoperti di pelame e privi dell’idea di Dio! Diede ancora uno sguardo abbattuto all’insieme del cortile, al boschetto, alle vigne, ai campi marci d’acqua. Si fermò a fissare il
trogolo. Poi si diresse verso la piazzetta con passo svelto.
Ed eccola, la chiesa, barocca come un incisione del Piranesi o
una veduta del Canaletto, stagliarsi nel cielo ozonizzato del Sabbionasso; la canonica gli sorgeva addossata, dimessa. Ora sembrava implorare una rinascita, una nuova linfa. Ma prima c’era da rimetterlo a nuovo, quel parrucchino di casa, posticcio e maleodorante, simile a un’armatura cinquecentesca, pesante e disperante.
Era stato il celebre reverendo Kokloj, barocchista ed emerito
teologo, a disegnarne gli interni, in combutta con qualche demoniaco architetto.
152
Kok passeggiava, lento, nel grande parco. Un vento vigoroso
dalle montagne gli sferzava il volto e costringeva gli occhi alle lacrime. Vicino al pozzo, tra il passadizzo e lo stagno, poco distante
dal porcile, una folla di parrocchiani s’era accalcata all’esterno della
palizzata, fremente di conoscere il nuovo sacerdote.
Scrutò il muro di cinta come se fosse un corazziere di ritorno
dal fronte arabo: un tempo robusto e impenetrabile, armato di fili
spinati e tensione elettrica da incenerire un cinghiale, oggi non era
altro che un muro mezzo sbreccato, più che altro un bastione da
passeggio per lucertole, le quali gorgogliando silenziose uscivano
dai buchi incicciati d’erba per zigzagare obliose e ruvide come carta vetro tra i cocci di bottiglia al colmo del muro, quasi smussati,
logori, che ormai non servivano a repellere manco il più fesso dei
ladri.
Si diresse velocemente verso la cappella che conteneva i poveri
resti dei sacerdoti che lo avevano preceduto, nove in tutto, e si
fermò in preghiera: ora la struttura giaceva a meno di tre metri da
lui, circondata da gramigna e ortiche. Il rinzaffo del di dentro aveva generato un microcosmo d’insetti, vermi e formiche. Più in alto, sopra il marciume della porta, il crocifisso di ferro battuto pareva arrugginito, storpio come il ramo di un albero in cancrena.
Sotto, tra l’erbacce, una bisciotta di campagna strascicava tra i
ciottoli dipinti a mano, in tutto felice dell’appoggio artistico, gioiosa di sbavare sui resti d’un’antica gloria.
S’indignò scalpicciando in direzione della canonica, dove si
produsse in tonanti lamentele col sacrestano, un tizio zoppo e
sdentato che sembrava completamente privo del commercio della
parola. Infatti non disse nulla.
Il reverendo fu colto da un tuffo al cuore.
Com’era stato possibile, si chiese. Come, Gesù Santo. Finire
nell’immondezzaio della religione, nell’inferno della periferia, in
quel ruvido paesucolo di allevatori da quattro soldi che avrebbero
scambiato la trinità per un forcone arrugginito. E tutto per
quell’innocente vezzo di intrattenersi con bambinetti e bambinette. Tutto un malinteso, un sottile tranello che il demonio gli aveva
teso con l’inganno e l’astuzia. Lui che aveva studiato duramente,
153
che era stato a un passo dalla tonaca vescovile, che amava la bibbia. E dopo tutto Gesù Cristo non aveva forse detto lasciate che i
bambini vengano a me? Luca, 18, 16. Le stesse parole che anche
lui aveva pronunciato al solo scopo di proteggere quelle innocue
creature dagli orrori della vita adulta.
E non era forse una pena sufficiente l’attrazione sessuale che si
costringeva a reprimere nei confronti delle bambine? Era un tormento insopportabile. E se magari anche Gesù dovette convivere
con quel cruccio? Del resto era un uomo come tutti, pisciava e cacava come gli altri uomini, giacché quello era il senso
dell’incarnazione: la tremenda prova dei bisogni e delle passioni.
La necessità di mangiare e bere, quella di dormire, l’urgenza di
emettere rumori imbarazzanti dalle chiappe. E seppure il peto di
Gesù Cristo doveva essere un peto sacro, era pur sempre un peto!
Pensò alla piccola che lo aveva sedotto pochi mesi prima del
suo trasferimento forzato. Non era successo nulla. Nemmeno
un’innocente carezza. Eppure al vescovo era bastato scrutare nei
suoi pensieri impuri per sancire il suo immediato allontanamento.
Per quale ragione nessuno riusciva a capire che il demonio lo aveva messo alla prova, e lui era riuscito a divincolarsi?
Aveva sentito l’urgenza di masturbarsi per allontanare Satana,
non per provare piacere!
Successivamente aveva provato a comporre una melodia per
pianoforte, ma non era riuscito a cavarci granché. L’aveva intitolata L’urgenza della tentazione.
La perpetua entrò nella sua stanza col caffè senza bussare. Signore, pensò, in questo posto non c’è la benché minima privacy.
Scese dal letto in punta di piedi, infreddolito. Durante la notte non
aveva chiuso occhio, e appena riuscito a trovare un po’ di pace
quella squallida donnaccia era furtivamente penetrata nella sua intimità per servirgli quella brodaglia schifosa.
Non disse messa per dodici giorni. Durante quel periodo il sagrestano non batté le campane perché, disse, non aveva ricevuto
istruzioni.
154
Che diavolo ci va a suonare una campana, domandò il reverendo quando la perpetua gli presentò le lamentele dei cittadini. Il
tempo è sempre quello da cento milioni di anni.
Anche di più, disse la perpetua.
Il sagrestano non diceva niente.
Kok lo percosse. Poi diede istruzioni dettagliate affinché allo
scoccare di ogni ora il sagrestano si adoperasse per battere le campane. Allo scadere di ogni singola ora avrebbe dovuto afferrare la
corda che pendeva dal culmine del campanile, e allo scadere di
ogni singola ora avrebbe dovuto tirarla, e sempre allo scadere di
ogni singola ora avrebbe dovuto verificare che l’ora fosse corretta,
cioè avrebbe dovuto tirare la corda tante volte quante erano le ore
trascorse dall’inizio del giorno.
I giorni iniziano a mezzanotte anche quaggiù? Domandò.
Non ebbe risposta.
Gesù, sono tornato al medioevo, si disse. Santo Signore ti prego, mi scarnificherò, porterò il cilicio un mese intero esclusi i lunedì se mi allontanerai da questo posto immondo dove non esiste
neppure un meccanismo automatizzato per le campane. Pregò
dodici ore filate guardando il cielo, bellissimo, pieno di scorie e altri ammennicoli, elaborando mentalmente una sonata che intitolò
Cielo distante di periferia.
Non disse messa per altri nove giorni. Li trascorse invece ad
ascoltare Live at the Village Vanguard (vol. 1 e vol. 2) di Michel Petrucciani.
Quando la perpetua gli domandava cosa stesse ascoltando rispondeva che il sublime non ha forma, e anche il più storpio e
immorale degli esseri viventi può essere dotato da Dio di grazia e
armonia. Che ascoltasse Petrucciani, per la miseria! Aveva pensato
di diffondere Le Bricoleur de Big Sur tramite gli altoparlanti della
cappella.
Tuttavia la perpetua non era interessata al jazz. Gli comunicò
che il sindaco di quel lurido paese desiderava conferire con lui.
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Signor Reverendo, signore, disse il sindaco. Ricordi che questo
è il paese del celebre poeta Pavlo Eugheno Zuberoj! Morto impiccato al campanile di questa stessa chiesa ed esposto alla carezza
delle intemperie per tutto un inverno. Pavlo Eugheno Zuberoj.
Scandì ogni singola sillaba del nome e del cognome.
E chi diavolo è? Pensò Kok. L’ennesimo barbaro imbastardito
villoso e prepotente. E per di più impiccato.
Ciononostante, anche se il solo pensiero gli procurava emicranie e tremori, decise che era giunto il momento di conoscere i parrocchiani.
Lasciò che la perpetua gli servisse la consueta tazza di caffè, poi
imboccò uno dei vicoli che dalla chiesa conducevano verso il centro del paese.
Le file di case seguivano percorsi casuali lungo le strade rattoppate e regnava un silenzio quasi perfetto, interrotto solo dallo
sgocciolio di alcuni vasi sistemati sui balconi più alti. Tuttavia a
Kok quello parve un rumore fastidioso, quasi insopportabile. Osservò le persiane: il sole tagliava le case in due metà oblique.
Il primo individuo che incrociò era un tizio sporco che si portava appresso la moglie come si portano a spasso i buoi.
L’individuo vide Kok ed esclamò: Questo è il paese del grande
Pavlo Eugheno Zuberoj! Poi rifilò un colpetto alla chiappa della
moglie e la condusse lontano dallo sguardo di Kok.
Si trovavano in una piazzetta semicircolare invasa dalle mosche. Qualcuno aveva conficcato nel terreno un uomo di pietra
con baionetta in spalla e un soldato ferito in groppa: il tempo aveva provveduto a trasformarlo in un mostro deforme e sporco come un metalmeccanico.
Della baionetta non restava che una flebile traccia da ricostruire
filologicamente, e il tizio ferito che l’uomo di pietra stava trasportando si era raggrumato sulla schiena, tanto che pareva una gobba
obbrobriosa. Kok pensò alla mostruosità di Petrucciani e si convinse a odiarlo.
156
Un branco di bambinetti si rincorreva schiamazzando attorno a
un pozzo al centro della piazza.
Kok camminò cogitabondo per centinaia di metri senza che il
suo sguardo incontrasse anima viva, e infine notò un drappello di
immondi indigeni accalcati attorno a una primitiva costruzione di
pietra grezza. Decise di avvicinarsi.
In questo luogo sono morte generazioni di piccioni, gli disse un
tizio.
Per qualche motivo tutti i piccioni del posto si recavano proprio tra i muri pericolanti di quel cubicolo per morire.
In quel momento c’era un piccione moribondo che si arrabattava nel guano, e quaranta uomini ne stavano scrutando ogni singolo movimento.
Si può sapere cosa succede? Domandò Kok.
Studiamo la morte, disse un agricolo col muso impiastricciato
di grasso.
I dettagli sono importanti.
Passò un trattore con rimorchio carico di carcasse maleodoranti. Qualcuno gli spiegò che si recava a spargere resti animali sui
campi.
Non pioveva da dieci mesi, dissero. Ogni settimana nubi grandi
come tre giornate di vendemmia avvolgono il paese, spiegò un tizio, il cielo tuona che pare la fine del mondo, ruggisce, scorreggia
fulmini e lampi. E alla fine non piscia neppure una goccia d’acqua.
Niente di niente. I campi hanno bisogno di concime.
Non poteva credere alle sue orecchie, ai suoi occhi. Quei rozzi
si esprimevano come scimmie, e la sua patria era divenuta un luogo di feroci depravazioni. Dov’era adesso quel dio benevolo che si
era costretto a pregare? Dov’erano la moralità e la saggezza?
Il trattore cambiò marcia, e uno sbuffo di gasolio lo stordì.
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Una donna scheletrita gli si avvicinò e utilizzando una voce lacerante come una sirena disse: Quando pensa di dire messa, reverendo?
Kok montò su tutte le furie.
Si rivolse ai bravacci che stavano ancora ammirando inebetiti il
piccione moribondo e tuonò il primo sermone da quando aveva
messo piede in quell’inferno:
Tremate zoticoni! Lui arriva! L’ombra della notte cade su di
voi! Voialtri fittavoli e voialtre arpie cattoliche da quattro soldi,
non pensiate che basti farfugliare una preghiera o sbrodolare rettitudine ciondolando la vostra zucca vuota verso un tempio per ingannare il Mashìach. Non vi basterà far tintinnare i vostri rosari o
intonare canti d’eterno riposo quando si tratterà di entrare nel
Malkhùth Shaddài. Egli sa tutto. Egli sta arrivando per giudicarvi!
Egli Arriva! Arriva! Arriva! E voi, miserabili pezzenti, contadinacci
e braccianti, miserevoli tutti, impomatati e brillantinati, voi spiantati che vi sciogliete per un alito di vento e siete pronti a ricacciare
la testa nel peccato appena girato l’angolo, voi laggiù in coda per
un posto sul banco del pianto, voi che frignate per uno stramaledetto piccione, proprio per voi laggiù Egli ha già pronta una lezione coi fiocchi: sarete i primi a essere spediti in villeggiatura tra le
sabbie dell’Inferno, quando si accorgerà dell’errore che ha commesso il giorno in cui vi accordò il privilegio della vita!
Gli abitanti rimasero immobili. Qualcuno nonostante tutto perseverava nel gettare l’occhio in direzione del piccione moribondo,
che nel frattempo era stramazzato sul cadavere di un altro piccione.
Malkhùth Shaddài? Domandò qualcuno.
Quando gli montava la rabbia, Kok era solito tirare fuori termini ebraici. Nei periodi di serenità si esprimeva in cattolicese, nei
periodi di frustrazione in ebraico. Altre volte, quando si sentiva
particolarmente giù, gli saltavano fuori termini propri dei Testimoni di Geova, o addirittura dei bruti musulmani.
158
Regno di Dio, specie di sozzi ignoranti, disse.
Poi prese a camminare velocemente in direzione del torrente
che tagliava in due il paese. Desiderò che il suo Dio fosse un Dio
tremendo e vendicatore, che fosse il Dio di Sodoma e Gomorra.
Ma no.
Il suo era un Dio mansueto, era il Dio del Perdono e della
Comprensione. Era quello stesso Dio che aveva concesso il dono
del sublime a Michel Petrucciani, quello stesso Dio che gli aveva
infuso una passione erotica irresistibile per le seienni con le guanciotte e le trecce ai capelli. Un Dio impostore!
Mi farei schiacciare da cento meteoriti infuocate, pur di poter
ridere sulle macerie di questo luogo, pensò.
Quando giunse in riva al torrente, lungo la passeggiata logora,
due pescatori tentarono di attaccare bottone, ma Kok non li degnò neppure di uno sguardo; camminava a passo spedito cercando
di modulare Three forgotten magic words, e si imbestialiva per il fatto
di non riuscirci.
Un vecchio fissava il vetro sbreccato di una pensilina, roteando
la testa e gli occhi dal centro della ragnatela fino ai bracci, ripetendo il movimento incessantemente.
Kok dovette trattenere l’impulso di schiaffeggiarlo.
Capitò nel cortile di una casa diroccata. Un cartello indicava
che quella era stata la casa natale di Pavlo Eugheno Zuberoj. Udì
battere le quattro. Subito guardò il suo antico orologio da taschino, dono di suo nonno a suo padre e di suo padre a lui. Le undici.
Pensò che quel luogo avrebbe dovuto sprofondare nelle forre degli inferi il prima possibile.
Una vecchia sbirciò dalla finestra della casa, poi richiuse le tende.
Kok non se ne curò; lesse l’iscrizione sulla lapide intirizzita e
scheggiata al centro della corte:
Nella stagione morta
nessuna certezza
o morire
come poeti di ferro arrugginito
159
o vivere
come uomini di cartapesta.
Sulle rovine
di questo impero
di fiori e di lune
ho seminato la mia sterile anima.
Pavlo Eugheno Zuberoj
Questi poeti da quattro soldi, pensò.
Tornò sui suoi passi per la stessa stradaccia. Il vecchio stava
dondolando, o barcollando, di fronte al vetro della pensilina. Kok
superò i due pescatori che di nuovo tentarono di attaccare bottone
e di nuovo non furono degnati di uno sguardo. Fece una sosta per
scrutare l’orizzonte, i campi brulli, le tartufaie infinite.
Vide un trifolao mentre camminava accompagnato dal proprio
cane.
Tumori degli alberi! Esclamò. Questo sono i tartufi. Maledetti
mangiatori di tartufi!
Immediatamente dopo una violenta nausea procurata dalla lontananza dei palazzi di Sabbione, delle automobili, del traffico, gli
salì fino alla bocca. Dovette chinarsi per vomitare.
Superò il luogo dove andavano a morire i piccioni. Era deserto.
C’erano due o tre piccioni freschi e mucchietti di ossa, piume
amalgamate col guano, ali spezzate e minuscole biglie nere che un
tempo erano occhi.
I piccioni hanno più dignità nella morte di questi vigliacchi
paesani, pensò. Abbozzò un improvvisazione per pianoforte intitolata La morte del piccione, e cercò di immaginare come l’avrebbe
composta Petrucciani, ma non ci riuscì.
Quando entrò in chiesa si gettò ai piedi di un crocifisso e pregò
che Dio Padre Onnipotente allungasse una mano e disfacesse tutto. Che un peto celeste spazzasse via case e campi. Che un angelo
sterminatore si facesse largo tra i campagnoli seminando zoppie e
ascessi.
160
Dopo cinquanta minuti di preghiere si alzò. Tirò fuori
l’orologio dal taschino, si avvicinò alla fune campanaria, la afferrò
con entrambe le mani e cominciò a tirarla con tutta la forza che
aveva. Sentì la schiena crocchiare, i muscoli indolenziti.
La perpetua entrò in chiesa.
Per l’amor del cielo, disse, cosa sta facendo?
Chiamo a raccolta i cittadini, rispose Kok.
Ma oggi? A quest’ora?
In questo momento.
Si avvicinò all’altare, aprì il tabernacolo, afferrò un’ostia, la
spezzò e la lanciò tra i banchi vuoti.
Quando tornò in canonica la ditta di traslochi aveva consegnato il suo Steinway. Si guardò le mani. Dio mio, mi hai donato dita
robuste come radici di quercia, eppure il pianoforte pretende dita
fragili, ossa che si spezzano quando patiscono il confronto coi
suoi denti; esso è un dio greco eretico e lascivo, angelesco, ma di
un’angelologia infernale.
Guardò lo Steinway. Ora pareva che ridesse. E rideva di lui!
Lo spolverò minuziosamente, fece come per incominciare a
suonarlo, poi decise di no. Accese il concerto al Village Vanguard,
si distese sul letto.
Non disse messa per altri ventuno giorni.
161
EIACULAZIONE GADDIANA
Dopo un quarto d’ora il regista urla di aumentare la velocità e
io ci provo, ad aumentarla, anche se c’ho la minchia che mi va in
fiamme.
Il regista si chiama Ron Auard (è un nome d’arte).
Tieni, urla Ron Auard, tieni, tieni, cazzo, tieni, mi incita, e io ci
provo a tenere, penso alla mia vicina di casa senza tre denti davanti e a mia nonna con le gambe gonfie. Penso alle guerre nel mondo. Penso ai cimiteri, alla morte, ai lutti. Penso alle cosce devastate
dalla cellulite della mia vicina di ombrellone al mare. Sto tenendo.
Aumenta la velocità, urla Ron Auard, tieni, tieni, e io ci provo, ci
provo davvero. Studio mentalmente la griglia di Ruzzle nella partita Gokhan contro Easy77. Tosante, cretosa, presto, isotera, toserai, osterai, tosata, cretosi. Sto tenendo. Tasterai, cisterna, tastiera,
citiso. Poi non ce la faccio più. Apro gli occhi e vedo i reggicalze
di Sandra Sbullok (è un nome d’arte) e non ce la faccio più. Vengo
all’istante.
Porcozio! Urla Ron Auard. Porcozio! È la terza volta in tre
scene, cristo.
Sandra Sbullok sembra perplessa. Tom Cruiser (è un nome
d’arte), conosciuto anche col nome di Labrador, se la ride. Ron
Auard urla porcozio. I tecnici delle luci scuotono le loro teste di
cazzo. Uno dice: se avessi io una nerchia come quello lì ste troiette
me le ingropperei quattro ore di fila. Un altro gli risponde: chi ha
il pane non ha i denti. Un uomo distinto dice: state muti voi due,
andate a farvi un giro. Vanno a farsi un giro. Bambi Love (è un
nome d’arte) in un angolo scuote la testa.
Questo giro sono venuto dopo novantasette secondi. Al primo
tentativo ero venuto dopo trentuno. Al secondo dopo quarantanove. Tra la prima e la seconda eiaculata sei minuti e mezzo. Tra
la seconda e la terza nove minuti e cinquantasette secondi, con
162
l’aiuto di un paio di succhiatrici. Totale, anche stavolta una figura
di merda, Labrador che se la ride, Ron Auard che si smarrona,
Bambi Love che corre a rifarsi il trucco, Sandra Sbullok che si lamenta dello sperma sulla schiena.
Il produttore, poi, è tutto un porcozio di qui una vaccaboia di
là.
Mi accendo una sigaretta.
Ci riproviamo? Chiedo.
Ci riproviamo un cazzo, risponde Ron Auard. Ho le succhiatrici che mi hanno perso sensibilità alla lingua. La rumena scoglionata, la bielorussa depressa. Io sono depresso. In sostanza vaffanculo, fuori tutti dai coglioni, dice, ci vediamo domani.
Labrador se la ride. Ha una nerchia che sarà la metà della mia,
ma dura dieci volte.
E tu vedi di spalmarti il gel ritardante, cristo, che l’ho fatto arrivare dall’America apposta, o domani sei fuori.
Ma mi procura bruciori insopportabili, dico.
Per me potrebbe anche incenerirtelo, cazzo, dice Ron Auard.
Non m’interessa se ti diventa viola o blu, m’interessa avere un attore che non mi spruzzi dopo dieci secondi.
Temo sia colpa della mia educazione cattolica, dico. Ha presente la paura del peccato?
Ma vaffanculo te e il peccato, dice Ron Auard. Non me ne frega un cazzo che sei andato a catichismo o che ti hanno inculato i
preti, dice. Me ne frego se la tua maestra dell’esilo ti faceva venire
nelle mutande leggendoti cappuccetto rosso, dice.
Si dice asilo, dico io.
Togliti dai coglioni entro tre secondi, dice Ron Auard. Ti sembra grammaticalmente comprensibile toglierti dai coglioni in tre
secondi, che poi è il tempo che ci metti solitamente a sborrare?
Mi tolgo dai coglioni.
E spalmati quel gel del cazzo sul cazzo, urla Ron Auard mentre
esco.
Se non fosse per il mio pene sovradimensionato mi avrebbero
già preso a calci da tempo. Faccio l’attore porno da un anno e
mezzo, da quando cioè mi sono presentato a un provino in città e
mi hanno immediatamente scritturato appena ho abbassato le mu163
tande. Mai vista una vanga del genere, è stato il commento del selezionatore.
Ci sarebbe da essere soddisfatti. Solo che il mio sogno non è
certo quello di trascorrere le giornate con il pene infilato nei pertugi di estoni e bielorusse.
Il mio sogno è partecipare al raduno per Epigoni di Gadda che
si tiene durante la Giornata dell’Incestasti Isola del Pneumatico (a
giugno) presso il Centro Polivalente Culturale Ruzzlemania, ed entrare a far parte della prestigiosa Accademia Mondiale Gaddiana
Ruzzlemania, costola della celebre Associazione Epigoni Gaddiani
di Sabbione.
Durante la Giornata dell’Incestasti non si deve possedere la sorella o la madre sessualmente, come molti erroneamente credono,
ma si deve giocare a Ruzzle fino a quando non si sia riusciti a
compilare la parola incestasti, dopo di che occorre ripeterla a voce
alta fino a caricarla di nuovi e più pregnanti significati, oppure fino
a destituirla di ogni significato (ipotesi più plausibile).
Che Gadda sarebbe stato un fenomenale giocatore di Ruzzle
non vi sono dubbi, come recita una targa posta all’ingresso
dell’Associazione: “Carlo Emilio Gadda, scrittore brianzolo, a
Ruzzle avrebbe stracciato tutti”.
Tornando alla Scuola di Scrittura Gaddiana*: ho quasi finito il
testo necessario per l’ammissione, e dopo che lo avranno valutato
sono certo che riceverò una bella lettera con su scritto Benvenuto a
bordo! o qualcosa del genere, magari in una forma più gaddiana.
* La Scuola di Scrittura Gaddiana, voluta da un gruppo di membri
dell’Edinburgh Journal Of Gaddian Studies per allacciare un ponte tra la
sterilità della nostra lingua ufficiale esperanta e la ricchezza della vecchia lingua italiana, comprende, ma non si limita a, le seguenti lezioni:
terminologia gaddiana;
scelte lessicali manzoniane stravolte;
aggettivaziòne fisiognomico-descrittiva dei personaggi;
tecnica dell’assenza di trama;
brianzolità;
comica malinconia;
164
ironica tristezza;
scapigliata sgrammaticatura;
ingegneria applicata alle lettere;
neologismi;
collage, pastiche e (rudimenti di francese);
dialettologia;
caoticità universale;
tecnica del guazzabuglio.
Insomma, un giorno o l’altro saluto tutti e me ne vado a stare
da solo, vicino alla sede della Scuola di Scrittura Gaddiana, in un
bell’appartamento col parquet, la televisione satellitare e una libreria con i controcazzi. Ma per adesso devo inculare a sangue estoni,
rumene e bielorusse, sperando di tenere, e condividere una casa di
merda con mia madre, mia zia, mio fratello, mia cugina e mio
nonno.
Quando arrivo a casa è prima del solito per cui trovo mia cugina Tere che si spacca la testa ascoltando Cesare Cremonini. Mia
madre è in cucina che sfornella. Mia zia, in sala ad ascoltare Cesare
Cremonini mentre legge una rivista di gossip. Mio fratello in bagno ad ammazzarsi di seghe.
Mio nonno sul divano rincoglionito sta provando a capirci
qualcosa, è magro come una scopa e ha tutti i capelli sparati a destra.
Sei già a casa? Chiede mia madre.
Sono già a casa, dico.
Ciao tesoro, dice mia zia.
Poi mia madre comincia a piangere, come ogni giorno da
quando ha scoperto il mestiere che faccio.
Che palle mamma, dico.
Ma quella continua a piangere.
Mio nonno non capisce un cazzo, mi allunga la mano per presentarsi.
Sono tuo nipote, dico.
Buonasera, dice lui.
Ma vaffanculo, dico io.
Non trattare così il nonno! Urla mia madre.
165
E non urlare, dice mia zia.
Un figlio zozzo, mi è capitato, dice mia madre.
Un figlio che almeno porta a casa qualche quattrino, dice mia
zia. Non come quella debosciata di mia figlia che sta chiusa in casa
tutto il giorno a fare un cazzo.
Ti sembra il caso di usare quella parola? Dice mia madre.
Quale parola? Dice mia zia.
Quella parola, dice mia mamma.
Intendi dire Cazzo? Chiede mia zia.
Ci risiamo.
Dovresti vergognarti, con quasi settant’anni, dice mia madre.
Quasi settant’anni un cazzo! Urla mia zia. Brutta vecchia rinsecchita. Per tua info: io non ho quasi settant’anni. Ne ho sessantotto a novembre, cazzo. Ho detto: cazzo, dice mia zia.
Mia madre piange.
Un figlio zozzo, dice. E pensare che sei andato al catechismo.
Ah perché i preti non sono zozzoni? Dice mia zia.
Lascia stare i preti, dice mia madre.
Ma se sono i primi a far le zozzerie, dice mia zia.
Non ti osare, urla mia madre.
Mia cugina emerge da uno stato catatonico e mi saluta. Complimenti, dice, una mia amica mi ha fatto vedere un tuo film.
Grazie, dico.
Hai una minchia notevole, dice mia cugina.
Tere! Urla mia madre. Ma come ti salta in mente?
Mia zia se la ride.
Che ho detto? Chiede mia cugina.
È quella svergognata di tua madre che ti insegna queste parole?
Chiede mia madre.
Con venticinque anni non ha certo bisogno che gliele insegni
io, certe parole, dice mia zia.
Oh Signore Santo, dice mia madre.
Cosa fai bestemmi? Dice mia zia.
Stai scherzando, dice mia madre.
Secondo me hai bestemmiato, dice mia zia. Vero che ha bestemmiato? Chiede.
Mi sa di sì, dice Tere.
166
Cosa state farneticando? Dice mia madre. Signore Santo ti pare
una bestemmia?
Mi pare una bestemmia, dice mia zia.
Vado in bagno e mentre ci vado incontro mio fratello che mi
dà un cinque e dice come vorrei essere al tuo posto, le sfonderei
quelle topolone.
Sei ancora troppo giovane, gli dico.
Ma ho una voglia di scopare pazzesca, dice lui. A volte mi viene persino voglia di scopare Tere.
Che cazzo ti salta in testa? Vuoi far morire tua madre di crepacuore? Gli dico.
Mi dai una sigaretta? Chiede. Gli do una sigaretta.
In bagno è uno schifo senza senso, capelli grigi ammucchiati in
un angolo e assorbenti dappertutto, il cerchione del water sporco
di piscio.
Torno in cucina. Tere ha un provino da parrucchiera o qualcosa del genere e sta martoriando i capelli di mio nonno.
Andiamo a casa? Chiede il nonno.
Ma sei già a casa, nonno, dico.
I pasticcini? Dice lui.
Che pasticcini? Dico io.
Voglio tornare a casa, dice lui.
Sei già a casa, cazzo, dico io.
Non rivolgerti così al nonno, urla mia madre.
Mamma guarda che il nonno non capisce più niente, dico io.
Poveretto, dice Tere, mi ricorda i mongoloidi.
Cosa c’entrano adesso i mongoloidi, dice mia madre.
Volevo dire i deficienti, dice Tere.
Ma non ti vergogni di quello che dici? Dice mia madre.
E cosa ho detto? Chiede Tere.
Mia zia se la ride.
Tere mette i bigodini a mio nonno. Ha ancora un sacco di capelli.
È proprio necessario? Chiedo io.
Domani ho il provino, dice Tere.
Mio nonno allunga la mano per presentarsi.
Buonasera, mi dice.
Che cazzo, dico io.
167
Mia zia se la ride.
Come parrucchiera fai davvero schifo, dice a sua figlia.
Vaffanculo mamma, dice mia cugina.
Che cosa ho fatto di male, dice mia madre.
Poi è l’ora della preghiera quotidiana di ringraziamento per cui
mia madre ci fa mettere seduti e attacca col suo Padre Nostro
quotidiano.
Dobbiamo farlo tutti i giorni? Si lamenta mio fratello.
Dio va ringraziato tutti i giorni, dice mia madre.
E per cosa? Dice mia zia.
Zitti tutti! Urla mia cugina. Sullo sfondo la voce di Cesare
Cremonini. Mamma quanto m’intrippa sta canzone! Una figata
pazzesca!
La voce di Cesare Cremonini investe la casa. Mia cugina canta.
Mia zia se la ride. Aaaaah da quando Senna non corre piùùù. Mia
madre mi guarda e pensa a suo figlio che è uno zozzone. Oooooh
da quando Baggio non gioca piùùù. Mio nonno ha due occhi
grandi come due palle da tennis.
Chi sono io? Gli domanda mia zia.
Andiamo a casa? Dice mio nonno.
Mia zia se la ride. Chi sono io?
Una stronza, dice mia madre.
Ma sentila, la suora, dice mia zia.
Allora, questa preghiera, dico.
Veloce, dice mio fratello.
Momento! Urla mia cugina. Non è più domenicaaaaa.
Abbozziamo un padre nostro sul tavolo della cucina con colonna sonora di Cesare Cremonini. Quando è tutto finito filo in
camera vedo il gel ritardante e decido di non spalmarlo. Mi metto
al lavoro per limare il testo da presentare all’Associazione Epigoni
Gaddiani. Lo rileggo ad alta voce, senza pause, come
un’eiaculazione liberatoria, gaddiana, per sentire l’effetto che fa:
“Non prendeva sonno. E i mobili, vecchi e muffiti, parevano impallidire al
suo passaggio, quasi come se fosse uno spettro o altra oscura figura a strascicare gli zoccoli sull’ammattonato; una candela ammollata giaceva sullo scrittoio
del marito, presaga d’un futuro d’ansie e dolorî che le pizie avevano già iscritto
sul brogliaccio della sua vita. Un tempo era la guerra. Ma dopo un anno, a
168
Castrocozzo, i sibili erano cessati, cessate le ostilità e i ribelli tutti perseguitati;
le rimanevano poche fotografie archiviate nella credenza e un marito con un
moncherino invece d’una gamba, la sinistra, presa attanagliata dallo scoppio
d’una granata. Non prendeva sonno: quella mattina s’era scordata dell’esame
del figliolo, un bravaccio cialtrone da du soldi, e l’aveva lasciato uscire senza
caffè, il caffè che con amorevole cura gli preparava da vent’anni, vent’anni!
L’agonia si faceva lancinante mentre la notte, fuori, prillava i suoi strepiti con
un tremito di labbri, mentre la luna e i pianeti tutti davano sfogo a la lor girazione, con gran furore d’andare e rivolvere, ch’ella conosceva bene. Guardò
dalla finestra: il frugnolar de’ grilli e lo sbrillantar delle lucciole, le coppie
d’innamorati capovolti nelle vetture tra le forre e i cespugli, di lontano, come
lumicini di pescherecci a largo, nel giallore alfine di quella tremula campagna
c’agli occhî si mostrava come prossima alla tenebra, non fosse stato per uno
spiraglio lunare ridisceso e rifranto dalla tettoia della rimessa. Il cortile, deserto e arso, cigolava nell’austero auspicio d’un prossimo temporale, ne’ fasti de’
vecchi flagelli tumultuosi e piovosi, regno del vuoto desolante c’altri chiama solitudine del mondo. E lei era, per l’appunto, sola. E l’invidioso sgomento per
la sciatteria del marito, che mariteggiàndo dormiva profondamente, aumentava
il suo malanimo, imbarbarito dalla mestizia del paesaggio. Il sabbionasso.
Alti tremolanti cipressi e pioppi dirancati dal vento, ville e villette di svizzeri e
milanesi, tombe efferate e trombe di scale vertiginose proiettate sul terreno bruciato; le vigne, pasto degli evi ormai dilapidati, mortificati dal tempo che tutto
sotterra, parevan biancastre in controluce, spettrali fulgori ringalluzzivano i
gatti, gongolanti sul balcone accanto ai gerani fioriti. Un tempo aveva mansioni, giù ne’ vasti campi che conducono alla città, e per un po’ il ripulir sangue e
il rattoppar gambe e fronti, il cambiar garze e bende, il curare, il cucire e il ricucire la tennero occupata. Ma ora più alti e ombrosi sagrìn l’accaneggiàvano,
straziandola e dimettendola dalla gioia che mai l’investì per intero; e sì ch’era
stata donna e madre, sposa e infermiera, e di notti n’aveva passate più di mille, ad aggrottarsi sui tormenti dell’esistere. Più alti oltraggi s’accumulavano,
come chicchi l’uno sull’altro, nel suo senno malato, e il suo animo prendeva a
violentarsi, cavillando su tutte cose, fossanche l’acqua nel bacile o ‘l foco che
talvolta appariva come fatuo sul crinale ovest, financo l’abbrillantar de’ trattori nell’umida valle, in lontananza; il suo respiro si faceva affannoso, ogni zuffo d’aria ch’emetteva come un tonfo di rimbombo signoreggiava nel vuoto della
camera, echeggiando sui muri: e via di seguito con singhiozzi, convulsioni e
borborigmi rauchi e strazianti eppur composti, ovvero esalati senza mutar di
tono, affinché potessero confondersi col panorama degli attigui accordi campe169
stri. E comunque bastavano a ottenebrare la debole spemuccia che di tanto in
tanto tendeva a insinuarsi sottoforma d’effluvi melanzananti, caroteggianti,
tomaticheggianti, rievocanti cioè il cuore de’ suoi amati pasti, semplici com le
piaceva di farli, in compagnia de’ figli. N’aveva messi al mondo due, e un terzo le era nato morto. Ma quei disgraziati! Trattava i momenti della loro fanciullezza come cimeli, e ora? Dov’erano, i suoi due tesori, mentre lei agonizzava, sola, in quella stanza che mai, in passato, le era parsa tanto squallida?
Intanto sul colle qualcuno aveva acceso un focherello, e il suo timido bagliore si
faceva sempre più vicino; credette perfino di sentire il tepore della fiamma sulla
pelle, mentre crepitando sprizzava spari di faville sulla terra; quei figli farabutti, prole meschina e traditrice, impegnati a gozzovigliare in qualche localaccio fuoribordo, un si sarebbero ricordati della madre nemmanco si fosse stata lì
lì per crepare. Questo era solo uno de’ tanti malevoli pensieri ch’ella ricoglieva
e rivoltava e rimuginava come frutto di una inesausta centrifuga. Non prendeva sonno, e il cielo, così adombrato sulle rare nuvole, la travolgeva come un fiato d’orrore all’udir fantasmi di fastose risatine: s’era fatta festa, in città, e i
rimasugli del bagordo ristagnavano nel vento notturno come rinzaffi svaporati
e risbuffati dagli aliti della gente festante. Il marito, col moncherino appoggiato
sulla sedia, l’orinatoio svuotato da poco, cominciò a russare. L’osservò con reticenza, mentre rimovendo il ciuffo di capegli dal viso ammirava il riverbero
della campagna, la forra punteggiata d’esuli cumuli di vita, ridondando chiarità ormai dissolte nella notte buia. I varî profumi della sua terra l’assalivano
teneramente, gelsi e violette, creme e olii, anco vinacce e piumaggi d’oche, anitre
e gallinacce. Un clacson dalla camionale la fece sobbalzare, come presa d’un
improvviso guizzo d’energia, mentre camminava avanti e indietro sminuzzando pensieri come ceneri d’un falò. Poi un altro rumore, monotono, dalla cascina: un ometto la cui figura si stagliava, fumosa, nello strale della notte, inazzurrita, ordiva quietamente un quinale, torreggiando sulle cime degli alberi e
sulla dentatura de’ monti. Ma questo è il Sabbionasso: bagliori lontanissimi
moruscavano i cirri fibrillando l’aria, e tutti i rumori della stanza moltiplicavano la sua ansia e la predestinazione al dolore che fin da piccola l’avevano
seguita. Una policroma intensità d’emozioni la sconquassava, infamando i
suoi tentativi di prender sonno; il precipitare della notte la rendeva stizzosa e
il vento, penetrato dalla finestra, gelava la sua bianca vestaglia, quasi una gellàba con tanto di merletti e pizzetti ricamati a mano. Poi il silenzio, come se
tutto il Sabbionasso si fosse svuotato di vita, la colse colla sua lama tagliente,
prepotente persuasore d’ogni spirito. Perfino i gatti, sfiniti, avevano smesso di
miaulare, e anche il lungo ronzio della caldaia finì per arrestarsi. Faceva caldo
170
in campagna, e le strade del centro erano deserte, screpolate come labbra
d’asino. Immaginava i tetti dei palazzoni e un sipario color vermiglio che
frangeva la tenue brezza del tramonto. Immaginava la sera lucida come la pavimentazione d’una chiesa, le giovani donne sculettavano tremando come cigli e
saltabeccando eccitavano i balordi. Si coricò, attenta a non svegliare il marito,
delicata e rapinosa come ai tempi de’ fasti guerrafondai, quando la limpidezza
della sua pelle era specchio dei barbagli più diversi e le dita, or incavatici di
vecchiezza, lungheggiavano smaltate a fendere l’aria turbinosa degli aprili rivoltosi. Si sentiva senza scampo, perduta nei gorghi dell’infinita uggia, irreparabilmente votata all’inadeguatezza, alla moribonda delusione. Or la stagione
fiorifera pareva stanca, allungata nel suo romitaggio, e le sue palpebre a pampineddra parevano lentamente dischiudersi come l’hangar d’un aeroporto. Intanto l’immenso fuori aveva ripreso a essere e le cime degli alberi più alti sembravano rapite dalla vasta ellissi del sole. Finanche lo stagno assumeva un
aspetto gradevole, circoscritto da licheni e fogliame sparso, aggraziato dal chiaror dei fuochi accesi dai ragazzotti, e si diceva, in notti come quella anche gli
orchi facevano all’amore. Si lasciò dileggiare ancora un poco dallo strimpellìo
degli uccelli notturni, del resto avrebbe voluto soffrire ancora delle guerre, delle
prigionie, delle ingiustizie…avrebbe voluto gridare a perdifiato libertà! libertà!…avrebbe voluto e voluto e voluto…ma il sonno sopraggiunse, e quel
ch’erano i suoi dolori, i pallori della sua negazione, s’acquietarono nel nulla
del mattino sommersi da un amarulènto brividìo.
Meglio che continui a chiavare le bielorusse, dice mio fratello
sulla porta della mia camera.
Vaffanculo, gli dico io, che cazzo entri senza bussare. E non
usare quelle parole.
Poi mi spalmo il gel ritardante Eiaculatio Longer Pleasure
e fumo una sigaretta sul balcone.
171
QUALCHE ATTIMO D’INCOMPRENSIONE E DUBBIO
L’odore di plastica andata a male del Parco Sintetico Märklin
Inc., il più grande spazio pubblico di Sabbione, gravava come
l’inquietudine che ci accompagnò durante il passaggio
dall’adolescenza alla maturità.
Quando la sua automobile si fermò per un guasto lungo le mura gommose del Parco, Gad capì immediatamente dove si trovava.
Era a pochi metri dall’ingresso sud del Parco Sintetico Märklin
Inc., afoso, molecolare, gremito di betulle in poliuretano espanso
e di minuscoli uccelli azzurri e verdi appoggiati sui rami petroliferi
di querce artificiali scolorite dal sole. Rammentò le volte che sua
madre lo aveva accompagnato lungo i sentieri plastici del Parco
per distendersi sull’erba di polipropilene trattata con raggi ultravioletti.
“Che meraviglia accarezzare le fibre di polipropilene dipinte di
verde!”, esclamò.
Al culmine del risentimento per la madre gli tornarono in mente le domeniche trascorse al Lago Artificiale Policarbonato Perennemente Pattinabile e l’inquietudine cessò.
I cittadini di Sabbione, dopo otto ore trascorse in uffici e fabbriche, si riversavano tra le siepi in resina poliuretanica gialla e
rossa, si avvolgevano in sgraziate posizioni amorose sulla soffice
consistenza delle aree attrezzate in polietilene monofilo bicolore,
conducevano passeggini contenenti nuove creature in carne e ossa
lungo i sentieri in pvc, osservavano animali dalla pelle in nitrato di
cellulosa mentre abbozzavano falsi grugniti d’approvazione e
gioia.
Stupendo Parco Sintetico! Con i tuoi boschi policarbonici, coi
tuoi acidi polilattici, ti ho amato dal primo giorno che calpestai la
tua resina acrilica arancione in compagnia della mia compagna di
classe Annabel Ross, all’uscita dal cinema! Trentacinque anni fa!
Non ricordo il film. Anche se forse l’attore era quel tizio col naso
grosso, il cui nome mi sfugge.
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La prima persona che Gad incontrò fu un simpatico signore in
livrea, che si presentò come rappresentante dell’Organizzazione
del Parco Sintetico Märklin.
“Benvenuto! Uomo maturo in giacca a righe e cravatta abbinata ai pantaloni beige! Benvenuto nel Regno della Plastica per Famiglie! Parla la mia lingua?”.
“La parlo”.
“Stupendo! Un inizio di conversazione stupendo! E non è stupendo festeggiare la Giornata dell’Amicizia Quadratica Bridgestone in compagnia dei suoi concittadini? Proprio qui, al Parco Sintetico Märklin? Ha già avuto modo di sperimentare alcuni esempi
calzanti di amicizia quadratica?”.
“Sono appena entrato”.
“Ma non le è bastato respirare l’odore della plastica bruciata dal
sole e marcita dalla pioggia per provare una sensazione di stupore
nei confronti del mondo che la circonda? Si guardi intorno! Ammiri i banchetti Bridgestone e Mattel, dove le nostre ragazze - abbigliate come la famosa Barbie Assistente di Volo - stanno consegnando palloncini e piccoli pezzi di plastica grezzi modellabili.
Non è eccezionale?”
Gad percorse i resistenti sentieri del Parco Sintetico Märklin, il
più grande parco pubblico di Sabbione, la sua città!
Aveva la testa piena di idee contrastanti riguardo la sua terra e
la plastica.
Uno sterminato plastico Märklin occupava lo spazio di duemilaseicento metri quadrati; convogli ferroviari militari, merci, passeggeri, transitavano senza sosta su ventidue chilometri di rotaie.
“Noto delle rugosità sul suo volto”, gli disse il Rappresentante
dell’Organizzazione vedendolo titubante. “Se il suo amore per la
plastica comincia a subire i prodromi di una flessione, le consiglio
di rivolgersi al Centro Consultazioni sull’Amore per la Plastica”,
“Niente di più falso”, disse Gad. “Adoro la plastica in ogni sua
manifestazione! Tranne forse quando assume la forma di quei
dannati involucri che rivestono i compact disc o i libri; non mi riesce mai di aprirli. Ma il mio amore nei confronti della plastica resta
immutato!”
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“Sbalorditivo!” Esclamò il rappresentante. “Un uomo che ama
la plastica incondizionatamente è un uomo degno di amicizia quadratica!” Gli strinse la mano e lo abbracciò.
“Si goda questa splendida giornata in compagnia dei suoi concittadini”, gli disse salutandolo affettuosamente.
Gad ricambiò il saluto e si avviò lungo i sentieri osservando
con crescente stupore le effigi umanoidi siliconiche rappresentanti
Barbie®, Ken®, Bitty Baby™, Max Steel®, eccetera.
La vegetazione di plastica emanava aromi naturali ogni venticinque minuti. Gad si avvicinò a un cactus di plastica per odorarne
l’aroma. Fu investito da una violenta zaffata di acacia mista al sapore di plastica usurata.
D’improvviso notò tre giovani sporgersi dalla sommità della
verosimile Torretta d’Avvistamento Mattel, fedele riproduzione di
una torretta d’avvistamento della guerra civile americana. Li guardò mentre si lasciarono precipitare di testa, mano nella mano, da
un altezza approssimativa di diciotto metri, e si schiantarono sulla
superficie sottostante, appositamente costruita in polietilene lavorato affinché potesse definirsi dura come l’acciaio.
La plastica! Pensò Gad mentre osservava un verificatore prendere nota del sopraggiunto decesso di tutti e tre i suicidandi®, questo è certo un paese che ama la plastica! Il Sabbionasso!
Per un momento fu molto orgoglioso della sua Terra e
dell’efficienza dei dipendenti pubblici. Si avvicinò a un chiosco e
ordinò due pannocchie ben abbrustolite e una Pepsi in lattina.
Scherzò qualche minuto con la commessa, una giovane sabbionassa come lui, una giovane e bella commessa sabbionassa dagli
occhi verdi e il sorriso delizioso.
Poi la salutò e rimase qualche attimo ad ammirare gli agenti
della Nettezza Umana al lavoro, mentre ripulivano la plastica.
Tra tutte le superfici imbrattate da fluidi umani, pensò, la plastica è senz’altro la più facile da ripulire.
Mentre constatava la relativa facilità nella pulizia delle superfici
in plastica udì alcuni colpi d’arma da fuoco.
“Da dove provengono questi spari?”, domandò a un cittadino
impegnato in una corsa lungo i sentieri alberati del parco. “Suppongo sia l’Azienda Faunistico Venatoria Playmobil”, gli rispose il
174
cittadino sbuffando per la fatica del footing. “È attigua al Parco
Sintetico Märklin”.
“Bene, cittadino”, disse Gad, “grazie per l’informazione!”.
“Non c’è di che”.
Poiché si celebrava la giornata dell’amicizia quadratica, Gad ricevette un caloroso abbraccio da parte dell’atleta.
Mentre si allontanava costeggiò gli argini del Lago Artificiale
Policarbonato Perennemente Pattinabile e si arrestò per ammirare
i pattinatori e le pattinatrici.
“Che splendida giornata!”, pensò esclamativamente stringendo
la mano a un signore sulla settantina e a una ragazzina in bicicletta.
Sulla superficie del lago c’erano alcune barchette di plastica e
molti giovani operai che stavano procedendo alla manutenzione
ordinaria degli argini in plexiglass e del suolo, rigato dai solchi dei
pattini da ghiaccio.
“Buona giornata!”, urlò agli operai, i quali risposero al saluto
con un cenno del braccio.
Sulle rive del lago c’erano quattro soldati in licenza che bighellonavano sgranocchiando qualcosa e si gustavano lo spettacolo
delle pattinatrici.
“Buongiorno soldati!”, esclamò Gad avvicinandosi a loro.
“Buongiorno a lei, signore”, rispose uno dei soldati. Avrà avuto
venticinque anni.
“Come ci si sente a servire eroicamente il proprio Paese?”,
domandò Gad. Una pattinatrice gli sfrecciò accanto con muscoli
da pattinatrice.
“È una faticaccia”, rispose quello che sembrava il più anziano
dei quattro. “Specialmente per la noia”.
“Non vi sentite virili a sufficienza coi vostri mitragliatori e i vostri cappelli militari?”, gli domandò Gad.
“Naturalmente morire in guerra è considerato da tutti un eroico surrogato della Clausola 99”, disse il soldato. “Ma si guardi un
po’ intorno: guerre ce n’è sempre meno, i pacifisti dilagano, diritti
umani a go go, le missioni di pace si contano sulle dita di una mano, le occasioni per crepare valorosamente si sono ridotte
all’osso”.
175
“Capisco”, sussurrò Gad. Un’altra pattinatrice si fermò nei
pressi dei soldati e uno di loro fece un apprezzamento piuttosto
appropriato.
“Un tempo era facile anticipare la morte in modo glorioso,
combattendo per nobili ideali, ma oggi”, proseguì il soldato. “Oggi
non ne parliamo che mi viene da piangere”.
“Su con la vita, soldato!”, esclamò Gad.
“Per questo ritengo che il Programma sia più attuale che mai;
dà la possibilità a qualunque smidollato di fottere la morte anticipandola eroicamente in un epoca in cui eroismo, onore e gloria
sono concetti superati. Vuole provare una sigaretta da uomini veri?”.
“Grazie, soldato, non ho mai fumato in vita mia, ma per
l’amicizia che mi sento di volerle dimostrare accetterò volentieri”.
Il soldato estrasse una sigaretta da un pacchetto mezzo accartocciato e la porse a Gad.
“Normalmente non offrirei le mie sigarette a uno sconosciuto”, disse, “ma visto che stiamo celebrando la Giornata
dell’Amicizia Quadratica faccio un’eccezione”.
“Bene”, disse Gad aspirando il fumo della sigaretta militare e
tossichiando, “buona giornata!”
“Buona giornata a lei, signore”.
Dal Centro Accoglienza provenivano gli strepiti dei numerosi
cittadini impegnati in un corso di Trasformazione della Plastica
Grezza.
Gad si avvicinò al banchetto posto all’ingresso, dove tre magnifiche hostess lo attendevano con splendidi sorrisi sabbionassi.
Ammirò l’imponenza del plastico Märklin in tutta la sua fluorescenza: 370.000 led, 15.000 vagoni, 4.000 scambi, 1.900 segnali,
oltre 1.300 treni, 300.000 figurini e più di mezzo milione di luci
colmarono Gad d’orgoglio patriottico.
“Dove posso trovare la Foresta Vergine Mattel?”, domandò.
Le hostess, dai corpi suadenti, plasticosi, erano impegnate a distribuire piccoli portachiavi di plastica e a far compilare moduli azzurri della Bridgestone.
“Vuole partecipare al grande concorso Bridgestone?” gli domandò la hostess. “In palio c’è una scorta decennale di pneumatici
da neve”.
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“Volentieri!” esclamò Gad, e compilò il modulo.
“Stasera durante la Festa dell’Amicizia Quadratica si procederà
al sorteggio”.
“Grazie, stupenda hostess. Ora può amichevolmente indicarmi
in quale direzione si trova la Foresta Vergine Mattel?”.
“Mi rincresce dirle che la Foresta Vergine non è più tale da
quando, nel millenovecentonovantanove, il Governo decise di installarvi un complesso residenziale, le cui ultime unità abitative
sono state consegnate l’anno scorso. Il nuovo nome della Foresta
Vergine Mattel è Foresta Abitabile Edison, e si trova in quella direzione”.
Gad la ringraziò e pensò che era trascorso davvero molto tempo dall’ultima volta che aveva messo piede al parco.
Nella Foresta Abitabile Edison, che era goffa e imponente,
Gad intravide numerose ville costruite in Moplen nascoste nella
vegetazione di plastica, che comprendeva numerose specie tropicali rivisitate, serpenti artificiali movibili, scimmie sintetiche, eccetera.
Alcune case erano state costruite in cima a gigantesche sequoie
in metacrilato.
L’aria era difficilmente respirabile. Il gusto era acre, una leggera
polvere bianchiccia svolazzava da tutte le parti. Si faceva davvero
fatica a respirare.
S’imbatté in numerosi cittadini in giacca e cravatta che rientravano rapidamente nelle loro casette dopo la giornata di lavoro.
“Buonasera, cittadino!”, esclamò a uno di questi.
Il cittadino lo osservò brevemente, poi s’infilò nella vegetazione, oltre la quale c’era la porta d’ingresso della sua dimora.
Com’è possibile che un cittadino non risponda a un garbato saluto? Pensò Gad. Proprio qui, nel Regno della Plastica. Proprio
oggi, nel pieno svolgimento della Giornata dell’Amicizia Quadratica.
Vide numerosi altri cittadini rientrare nelle proprie villette residenziali in tutta fretta. Tentò ripetutamente di parlare con qualcuno. “Voglio comunicare con qualcuno!”, gridò.
Infine riuscì a comunicare con uno dei residenti frettolosi.
177
“Che succede?”, gli domandò Gad. “Intendo dire, perché tutta
questa fretta? Non è magnifico passeggiare nel cuore della Foresta
Abitabile Edison dopo una giornata di lavoro?”.
“Non del tutto”, disse il cittadino; “non da quando un gruppo
di ambientalisti ha intrapreso una violenta protesta nei confronti
della riconversione dell’ex Foresta Vergine Mattel”.
Mentre rifletteva, Gad fu raggiunto da alcune frecce di plastica
scagliate da un gruppetto di uomini appostati sul ramo di un gigantesco bagolaro in moplen. Il residente fuggì.
“Per quale ragione state maleducatamente lamentando il vostro
disagio esistenziale mediante comportamenti deplorevoli e gesti
selvaggi?”, domandò Gad.
“Esprimiamo la nostra rabbia per questi nuovi edifici che hanno corrotto l’aspetto della foresta vergine”, disse uno degli uomini.
“Spiegatevi meglio”, disse Gad.
“Per sopportare l’aria opprimente della Foresta di Plastica hanno installato centinaia di climatizzatori. I loro scarichi scoloriscono la plastica degli alberi e delle foglie”.
“Mi pare un problema più che comprensibile”, disse Gad.
“Qui l’unico problema è che l’insediamento umano sta usurando il polipropilene con cui fu originariamente costruito il terreno;
in questo modo nel giro di pochi anni il degrado sarà totale. Molti
alberi hanno raggiunto una percentuale di crepe a dir poco intollerabile. Per non parlare degli animali artificiali con riproduzione
temporizzata del verso: più della metà è andata a farsi friggere.
Siamo certi che i residenti abbiano disattivato la funzione vocale
per dormire indisturbati. Un tempo la notte era tutto un gracidìo e
un gridìo, ora non resta che un impercettibile gorgheggio”.
“E guardi quella zona laggiù, tra i rami del baobab: hanno addirittura seminato una pianta vera. Le radici squarceranno la plastica,
sarà la fine”.
“Credevo fosse proibito installare piante vere all’interno del
Parco Sintetico Märklin”, disse Gad.
“La speculazione immobiliare ha cambiato tutto; per tali ragioni affrontiamo i residenti con le armi della rabbia e dell’odio, anche nella giornata dell’amicizia quadratica. Poiché tutti sappiano
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che a un’amicizia quadratica può corrispondere una rabbia simmetrica”.
“A proposito, lei è un residente?”.
“No, sono solo di passaggio”.
“Meglio così”.
Al culmine della tensione un manipolo di hostess si presentò
nella foresta reggendo tra le dita palloncini reclamistici dei nuovi
pneumatici invernali Bridgestone.
“Una sfilza di gambe femminili del genere dovrebbe placare
ogni sintomo di rabbia simmetrica”, disse Gad agli ambientalisti.
“Non per noi”, disse uno di loro.
Scagliarono banchi di frecce che distrussero i palloncini e costrinsero le hostess a fuggire.
Gad pensò che era davvero un peccato aver riconvertito una
Foresta Vergine di Plastica in una Foresta Abitabile, ma ancor di
più essersi lasciati sfuggire sei hostess in tailleur nero, graziose e
disponibili. Si addentrò nella brughiera di cactus fosforescenti
(prima di sera brillavano di azzurro, viola, giallo, in un multicolorato tramonto plastico).
Circumnavigando il Lago si ritrovò dalla parte opposta, dove
molti cittadini erano distesi sulla Spiaggia Sinterizzata. I polimeri
di polistirene espanso sbriciolati, induriti e lavorati, riproducevano
meravigliosamente i granelli di sabbia.
Da qualche anno il Gerarca aveva anche acconsentito
all’installazione di una piscina con acqua vera.
Gad si entusiasmò. Notò alcuni banchetti Bridgestone sui quali
erano presenti numerosi poster del Gerarca. Sebbene il suo spirito
lo guidasse verso una profonda anarchia, non poté fare a meno di
sentirsi fiero di essere Sabbionasso.
Poi, dalle parti dell’uscita nord-ovest, mentre telefonava al carro attrezzi, si trovò di fronte all’ingresso di un bar il cui nome lo
incuriosì: l’insegna riportava la dicitura Un Posto Pulito e Illuminato
Bene* (*Il nome è un richiamo letterario e non rispecchia necessariamente le
condizioni elettrico-igieniche del locale).
Quando entrò si sentì invaso da un’ondata d’incomprensione e
dubbio, ma durò soltanto il tempo di sedersi al bancone, ordinare
un cuba libre con rum Botrán Añejo e mettersi comodo per gu179
starsi uno dei tanti diverbi tra avventori, scatenati dall’imminente
Giostra del Peccato.
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VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (4)
___________________
Thorveld era seduto al tavolo del Postoristoro al quarantacinquesimo piano del Grattacielo e stava fissando con disgusto la calzamaglia arancione che avrebbe dovuto indossare per lanciarsi di
sotto nell’ora di punta della fiera.
La cameriera servì tre panini, due birre e un’acqua naturale.
Thorveld alzò lo sguardo, incontrò quello di Gad.
Perché con te deve sempre essere tutto così grottesco? Domandò.
Gad addentò il suo panino, bevve un sorso di birra.
Definisci grottesco, disse.
Anabel si guardò in giro per controllare che nessuno stesse ficcando il becco nei fatti loro.
Insolitamente deforme e innaturale, disse Thorveld.
Gad diede un altro morso al panino, bevve un altro sorso di
birra.
Abbiamo un glottologo fatto e finito, disse.
Vaffanculo, disse Thorveld.
Quattro anni prima era stato congedato con disonore dal corpo
dei Vigili del Fuoco per aver scelto di salvare le proprie chiappe
piuttosto che quelle di un dodicenne divorato dalle fiamme.
Qual è il problema? Domandò Anabel. Ne abbiamo già discusso decine di volte. Thorveld.
Ne discutiamo ancora, disse Thorveld.
Abbiamo tutto il tempo, disse Gad.
Allora rispondi alla domanda, disse Thorveld.
Gad ordinò un’altra birra.
Guardati intorno, disse. Il deforme, l’innaturale, sono l’unica
arma che ci rimane.
Che stai dicendo, disse Thorveld.
Sto dicendo, disse Gad, che se avessi un bel mongoloide da far
saltare giù da un tetto indossando una calzamaglia arancione sarebbe un colpo da cinema.
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Un mongoloide che si suicida gettandosi dal quarantacinquesimo piano di un grattacielo indossando una calzamaglia arancione
ti sembra grottesco? Domandò Thorveld.
Estremamente grottesco, rispose Gad.
Tu sei malato, disse Thorveld.
È una questione di punti di vista, disse Gad.
Thorveld bevve un sorso di birra.
Non credo di volerlo fare, disse.
È fuori discussione, disse Gad.
Che ti succede, disse Anabel. Thorveld.
Io, disse Thorveld. Io mi sono innamorato, disse.
Oh cristo santo, disse Gad.
Thorveld, disse Anabel.
Thorveld non disse niente. Si alzò, si diresse verso la scala antincendio, percorse le due rampe di scale che conducevano al belvedere del grattacielo e rimase lì a guardare la propria immagine riflessa nella vetrata.
***
182
I VERIFICATORI
Il tabaccaio guardò fuori dalla serranda mezza chiusa e vide
un’auto parcheggiare nella piazza di fronte alla sua drogheria. Scesero due tizi in soprabito scuro, entrambi con una sigaretta accesa
in mano. Il paese era sovrastato da centinaia di forbici tridimensionali proiettate in cielo. I due parlottarono fra loro e osservarono i
numeri civici delle case attorno alla piazza, poi telefonarono a
qualcuno, parlottarono ancora fra loro e si diressero verso il vecchio edificio su tre piani in tardo stile imperiale. Entrarono nella
drogheria uno dopo l’altro, alzando con un braccio la serranda.
“Stavo chiudendo”, disse il tabaccaio.
“Abbiamo riaperto”, disse Mack.
Il tabaccaio guardò le scarpe dei due individui: erano nere, innaturalmente lucide, con tacco e punta rinforzati. “Cosa desiderate?”,
domandò.
I due si guardarono.
“Sigarette”, disse Nagg.
“Sigarette”, disse Mack.
“Che marca?”, chiese tabaccaio.
“Che marca?”, chiese Mack a Nagg.
“Molli”, disse Nagg.
Una lampada azzurra illuminava il negozio. Un ragazzino spuntò dalla dispensa e salutò cortesemente gli avventori.
“Marlboro rosse molli”, disse Mack.
Il ragazzino salì su una scaletta, prese le sigarette e le porse cortesemente a Mack.
“Quattro e dieci”, disse.
“Siamo ufficiali Gerarcali”, disse Nagg.
Mostrò una tessera del Ministero Suicidi & Festività® del Gerarcato di Sabbionasso. Uno dei due portava una valigetta di pelle.
“Siete Verificatori?”, chiese il tabaccaio.
183
“Un tabacchino davvero sveglio”, disse Nagg a Mack.
“Che cosa fa un verificatore?”, chiese il ragazzino.
“Un verificatore accerta che una clausola 99 sia rispettata e portata a compimento secondo le dovute procedure”, disse Mack.
“Cos’è una clausola 99?”, chiese il ragazzino.
“Di che t’impicci?”, disse Nagg.
“Come diavolo sono sistemati i numeri civici in questo posto?
Sapete dove si trova il numero 37?”, chiese Mack.
“Poco più avanti, dopo la ferramenta”, disse il tabaccaio. “Si
tratta di Albert Nordhal?”, continuò.
“Che il diavolo ti porti vecchio, fatti gli affari tuoi”, disse Nagg.
“E poi si chiama Albert Stanislaus Nordhal”, disse Mack.
“Per tutti è Albert”, affermò il tabaccaio.
“Non per noi”, dichiarò Nagg.
“Talvolta la sera riceve amici o conoscenti”, disse il tabaccaio.
“Stasera no”, disse Mack.
“È un artista, ha spesso ospiti”.
“Non sono problemi nostri”, disse Nagg.
“E comunque non stasera”, disse Mack. “Stasera è a casa solo”.
“Problemi con una divinazione?”
“Di cosa t’impicci, vecchio?”, rispose Nagg.
“I problemi dei nostri clienti non ti riguardano”, aggiunse Mack.
“Ma come”, iniziò a dire il tabaccaio.
“Basta”, lo interruppe Nagg.
“Facciamola finita”, continuò Mack.
Entrò una signora.
“Buongiorno signora Kovjala”, disse il ragazzino, “desidera?”.
“Ho visto la luce ancora accesa e mi sono permessa di entrare.
Ci sono le mie riviste?”, chiese la signora.
Il ragazzino salì sulla scaletta, prese tre riviste e le porse alla signora.
“Sette e cinquanta”, disse il ragazzino.
La signora prese le riviste, fece quello che doveva fare e uscì.
“Che schifo di posto”, disse Mack.
“Com’è che si chiama?”, chiese Nagg.
“Nosarengo vicino al Fiume”, disse il ragazzino.
“Che razza di nome sarebbe?”, disse Nagg.
“C’è il fiume, signore”, disse il ragazzino.
184
“E’ ancora più schifoso di quanto l’avessi immaginato”, disse
Mack.
“L’acqua del fiume ha un colore diverso ogni due o tre ore”,
disse ancora il ragazzino.
“Ma la puzza di morto è sempre la stessa”, disse Mack.
“State all’occhio”, disse Nagg sul punto di andarsene.
I due Verificatori uscirono e camminarono fino al numero 37,
oltre il negozio di ferramenta, finché si trovarono in faccia una
porta massiccia di un buon legno scuro. Suonarono il campanello.
Albert Nordhal aprì la porta e li fece entrare. I lampioni dell’antica
piazza di Nosarengo vicino al Fiume illuminavano delicatamente il
soggiorno penetrando dalle finestre. Albert Nordhal aveva preparato una fune agganciata al soffitto. Era un ragazzotto magro e
smunto coi capelli corti ma scapigliati che ricadevano senza trama
sulla fronte; il suo viso era pallido, liscio, senza un filo di barba.
Avrà avuto venticinque anni.
“Sono quasi pronto”, disse Albert Nordhal, e filò in bagno.
“Impiccamento”, disse Nagg tra sé e sé, e lo segnò sul taccuino.
“Se non altro sembra un tipo veloce”, disse Mack.
“Se non altro”, disse Nagg.
“Negli ultimi tempi sono stati veloci”, disse Mack.
“L’ultimo non ci ha dato neppure il tempo di misurare l’altezza
della finestra. Per sua fortuna rientrava nelle misure”, disse Nagg.
“Per pochi centimetri”, disse Mack.
“Come si chiamava quel posto?”, chiese Nagg.
“Era uno schifo di posto come questo, ma senza il fiume”, disse Mack.
Dalla camionale giunse un fragore di foglie; un trattore fece
tremare i vetri.
“Controlla la corda”, disse Nagg. Mack controllò la corda.
“E’ robusta”, disse Mack. Nagg si accese una sigaretta. Albert
Nordhal era ancora chiuso in bagno. Nagg aspirò profondamente.
Mack guardò le fotografie alle pareti; alla televisione c’era un fermo
immagine d’un musicista di strada dall’aspetto trasandato mentre
imbracciava una fisarmonica seduto su una cassetta per la frutta;
alle sue spalle un muro scalcinato e bombole del gas, cassonetti,
cartacce. Un vecchio giradischi saltava in continuazione
nell’angolo, sopra un mobiletto. Udirono dei mugugni.
185
“Non comincerà mica a frignare eh?”, chiese Nagg.
“L’ultimo ci ha fatto perdere tre ore, coi sensi di colpa, ma questo mi sembra deciso”, rispose Mack.
“Ma poi cos’avranno da lamentarsi?”, disse Nagg.
“E chi lo sa”, disse Mack.
“Controlla il gancio”, disse Nagg. Mack controllò il gancio.
“Buono”, disse Mack.
“Modello?”, chiese Nagg.
“Gancio occhiello in acciaio forgiato”, disse Mack. Nagg annotò i dati sul suo taccuino.
Poi passeggiò per la stanza, infilò una mano nel cappio e lo tirò
bruscamente, ci si appese con le braccia facendosi reggere con tutto il peso del corpo.
“Quanto peserà?”, chiese Nagg.
“Settanta sì e no”, disse Mack.
“Settanta più o meno, sì”, disse Nagg. Anche Mack si fece reggere alla corda con tutto il corpo e la tirò bruscamente.
“Vuoi pesarlo?”, chiese Mack.
“È così magro che basterebbe un filo di spago”, disse Nagg.
“Comunque il soffitto mi sembra buono. Mica come all’ultimo,
che ci è venuto giù in testa”, disse Mack.
“Controlla la sedia”, disse Nagg. Mack controllò la sedia minuziosamente. Era una stupida sedia di legno con uno schienale foderato piuttosto spesso e molto alto, ideale per questo genere di cose.
“La sedia è a posto”, disse Mack. La stanza era pulita; di solito
le case di chi sta per procedere secondo clausola 99 sono sempre
pulite. Ci tengono a lasciare tutto in ordine; ma questa era davvero
pulita a fondo. Luccicante.
“Mai vista una casa così pulita”, disse Mack.
“Ognuno ha i suoi tormenti”, disse Nagg.
“Perché dovrà uccidersi, questo?”, chiese Mack.
“Non ci riguarda”, rispose Nagg.
Mack passò un dito su una mensola.
“Neppure un grano di polvere”, disse.
Albert Nordhal uscì dal bagno in pigiama. C’era profumo di
mandarini, o di arance.
“Posso vedere i vostri tesserini?”, chiese.
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Nagg e Mack mostrarono i tesserini. C’era scritto “Ministero Suicidi & Festività del Gerarcato di Sabbionasso® – Verificatore”; il tesserino
da verificatore è plastificato e porta il nome del verificatore e una
sua fotografia.
“Volete da bere?”, chiese Albert Nordhal.
“Che hai?”, chiese Mack.
“Gazzosa, chinotto, orzata”, disse Albert Nordhal.
“Che schifo di posto”, disse Mack.
“Com’è che si chiama?”, chiese Nagg.
“Nosarengo vicino al Fiume”, disse Albert Nordhal.
“Che schifo di nome”, disse Mack.
“Una gazzosa”, disse Nagg.
“Non ho né birra né rhum, mi dispiace”, disse Albert Nordhal,
giustificandosi, quasi scusandosi.
Albert Nordhal prese due gazzose dal frigorifero e le porse ai
Verificatori, poi si avvicinò a un angolo della stanza e si inginocchiò.
“Il tipo religioso”, disse Nagg.
“Quelli religiosi non li sopporto”, disse Mack.
“I materialisti neppure”, disse Nagg.
“Neppure i materialisti”, disse Mack.
“In fondo sono tutti uguali”, disse Nagg.
Albert Nordhal cominciò a gesticolare, pregando più forte.
“Hei cocco, non abbiamo tutta la sera”, disse Nagg a voce alta.
“Abbiamo altro lavoro. Lavoro da uomini”, disse Mack.
Albert Nordhal s’interruppe. Osservò il soffitto, poi riprese a
pregare. Erano preghiere strane, quasi sembravano poesie, o canzoni.
“Qui facciamo notte. Vogliamo darci una mossa?”, disse Nagg.
“C’è una donna che mi aspetta a casa”, disse Mack.
Albert Nordhal era ancora accovacciato rivolto al muro e mormorava frasi senza senso.
“Il mio universo di discorso è diverso dal vostro universo di discorso”, disse Albert Nordhal.
“Il mio…cosa sono queste cazzate?”, chiese Nagg.
“Forse intende dire che il suo universo è l’universo dei bastardi
che stanno morendo e il nostro universo è l’universo dei bastardi
che non stanno morendo”, disse Mack.
187
“Falla finita”, disse Nagg.
I due Verificatori bevvero parte della loro gazzosa.
“Sono pronto”, disse Albert Nordhal alzandosi.
“Era ora”, disse Mack.
“C’è qualche formula particolare?”, chiese Albert Nordhal.
“Niente che debba preoccuparla”, rispose Nagg.
“Non volete sapere qualcosa di me?”, chiese Albert Nordhal.
“Non era precisato nel modulo di richiesta. Molti prima di procedere alla clausola 99 vogliono parlare o fumare, ridere o piangere, fare ginnastica, altri vogliono raccontare fatti generalmente
ignobili oppure pratiche del tutto impronunciabili della loro vita. È
consentito, purché si inoltri una richiesta nelle dovute modalità. In
questo caso non ci è pervenuta alcuna richiesta. Nessun racconto o
pratica innaturale o confessione. Niente. Se avesse voluto raccontarci chi è stato o che lavoro ha fatto e dove lo ha fatto, se ha ucciso qualcuno e perché, se avesse voluto confessare le sue fantasie
erotiche represse, svelare segreti di stato, oppure se avesse voluto
semplicemente dirci “io sono un povero cristo cui le interiora di un
putrido maiale hanno predetto una morte violenta entro i prossimi
tre giorni”, avrebbe dovuto inoltrare una richiesta secondo le modalità, che di certo il call center del Ministero Suicidi & Festività® le
avrà ricordato. Senza richiesta lei non è tenuto a parlare, noi non
siamo tenuti ad ascoltare. Se avesse inoltrato la richiesta probabilmente non avrebbero mandato noi. A noi non piace ascoltare”,
disse Nagg.
Albert Nordhal avrebbe voluto fumare, recitare antichi versi
d’addio, volteggiare al centro della stanza consumando gli ultimi
attimi in preda al delirio. Ma rimase immobile, simulando una preghiera, con gli occhi socchiusi e le gambe rigide come l’ombra di
un morto.
“Allora, è tutto chiaro?”, chiese Mack.
“Chiaro”, rispose Albert Nordhal.
Mack aprì la valigetta ed estrasse il modulo bianco e verde da
utilizzarsi nei casi di impiccamento.
“Lei ha scelto di procedere alla clausola 99 per mezzo impiccamento, è esatto?”, chiese ufficialmente Nagg.
“E’ esatto”, rispose Albert Nordhal.
188
“Questo è il modulo clausola 99 barra 7, dove il 7 sta per impiccamento”, disse Mack.
“Che ci devo fare?”, chiese Albert Nordhal.
“Una firma qui e qui”, disse Nagg.
Albert Nordhal firmò.
“Quando avremo concluso apporrò un timbro qui, dopo di che
io e il mio collega ce ne potremo tornare a casa. Nel giro di tre o
quattro ore passeranno i becchini assegnati a questo buco di posto
e sarà tutto finito. Lasceranno la casa in ordine e pulita, il suo corpo sarà messo a disposizione dei famigliari per qualunque tipo di
rito funebre loro abbiano scelto, iscariotico, ebraico, musulmano o
cristiano”, disse Nagg.
“Il dossier afferma che lei è stato inserito nei nominativi da verificare in seguito a una segnalazione dell’Ufficio Divinatorio di
Sabbione Centro, Agenzia dodici, che l’ha spinta a inoltrare richiesta”, disse Mack.
“E’ corretto?”, chiese Nagg.
“Corretto”, rispose Albert Nordhal. “Volete sapere cosa mi ha
pronosticato l’Ufficio Divinatorio?”, chiese.
“Se è una cosa breve”, rispose Mack.
“Taci. Non è stato inserito nelle richieste”, disse Nagg. “Se
avesse voluto dichiarare la causa del suo procedimento di clausola
99 avrebbe dovuto inserirlo nelle richieste. È chiaro?”, disse Nagg.
“Chiaro”, rispose Albert Nordhal.
“Benissimo. Poiché non sono state avanzate richieste di alcun
genere quali per esempio musica o declamazione di versi direi che
siamo a posto”, disse Nagg.
“Potrei richiedere la declamazione di un verso?”, chiese Albert
Nordhal.
“Non è stato richiesto”, disse Mack.
“Ma per dimostrare la nostra flessibilità la accontenteremo”,
aggiunse Nagg.
“In effetti l’articolo trentasette del manuale autorizza una certa
flessibilità al verificatore. Uno spazio entro cui muoversi, capisce?”, disse Mack.
“Conoscete Dylan Thomas?”, chiese Albert Nordhal.
“Non esageriamo”, rispose Nagg. “Abbiamo una trentina di
versi standard per casi come questo; se lei avesse inoltrato richiesta
189
potrebbe sceglierne uno di suo gradimento. In questo caso, poiché
è uno strappo ai regolamenti, sarà la sorte a decidere”, concluse
Nagg.
Mack estrasse dalla valigetta un libro con la copertina marrone,
simile a una bibbia, lo aprì a caso e iniziò a leggere: “Viviamo in
tempi infami dove il matrimonio delle anime deve suggellare
l’unione dei cuori; in quest’ora di orribili tempeste non è troppo
aver coraggio in due per vivere sotto tali eccetera eccetera”.
“Che significa?”, chiese Albert Nordhal.
“Che viviamo in tempi da cani”, rispose Nagg.
“Vorrei rifletterci un po’ su”, disse Albert Nordhal.
“Cos’è questa storia? Muoviamoci”, disse Mack.
Albert Nordhal si passò una mano fra i capelli.
“Allora, ci siamo?”, chiese Nagg.
“Cominciamo”, disse Albert Nordhal.
“Era ora”, disse Nagg.
“Mani legate o libere?”, chiese Mack.
Albert Nordhal non capì.
“E’ provato che nel settantasei per cento dei casi
d’impiccamento con mani libere il soggetto esegue un tentativo di
aggrapparsi con le mani alla corda”, disse Nagg. “Per salvarsi”, aggiunse Mack.
“Lo chiamano istinto di sopravvivenza”, disse Nagg.
Albert Nordhal rifletté.
“Allora, legate o libere? Facciamo una cosa veloce”, disse Mack.
“Libere”, disse Albert Nordhal.
“Libere”, confermò Mack.
“Procediamo”, disse Nagg.
“Potete aiutarmi?”, chiese Albert Nordhal.
“Impossibile”, disse Nagg.
“Secondo le disposizioni in merito alla clausola 99 il verificatore
è tenuto a non interferire in alcun modo con la procedura, pena
l’annullamento della procedura stessa e il licenziamento del verificatore”, disse Mack.
“E radiazione dall’albo dei Verificatori”, aggiunse Nagg.
“Se avesse scelto l’impiccamento con mani legate uno di noi
avrebbe potuto stringerle il cappio. Con mani libere no”, disse
Mack.
190
I due sedettero sul divano della stanza, un bel divano comodo
foderato in tessuto scozzese, sorseggiando la loro gazzosa. Albert
Nordhal si tolse le calze e salì sul robusto schienale della stupida
sedia, infilò la testa nel cappio e strinse il nodo.
“Controlla il nodo”, disse Nagg. Mack controllò che il nodo
fosse stretto al punto giusto e che avvolgesse il collo di Albert
Nordhal in maniera valida secondo le disposizioni regolamentari
della clausola 99.
“Il nodo è a posto”, disse Mack, e tornò a sedersi sul divano
foderato in tessuto scozzese sorseggiando la sua gazzosa.
“Avrei solo voluto morire da solo”, disse Albert Nordhal. Poi
iniziò a piangere. Impercettibilmente, ma profondamente.
“Cosa gli passerà per la testa prima di farsi secchi?”, domandò
Mack. “Ma le solite stronzate banali”, rispose Nagg. “Respirano e
pensano che è l’ultima boccata d’aria. Guardano la cucina e pensano che è l’ultima volta che sentono il lamento del frigorifero, ricordano l’ultimo pranzo, rivivono l’ultima volta che hanno bevuto,
dormito, giocato a carte. Robe così. Si è tutti tremendamente banali poco prima di tirare le cuoia”.
Albert Nordhal non disse nulla.
Trascorsero sette o otto secondi di silenzio. Sentirono voci dalla
strada. Ragazzini. Albert Nordhal rovesciò con i piedi lo schienale
della sedia e piombò verso il pavimento, un bel parquet chiaro sfavillante. I due Verificatori restarono in silenzio e immobili tre minuti e diciotto secondi. Nagg cronometrò il tempo. È il tempo stabilito nelle disposizioni regolamentari della clausola 99 per i casi di
impiccamento. Se la morte sopraggiunge per soffocamento il corpo si contorce e può continuare a farlo per tre minuti circa. Il corpo di Albert Nordhal non si contorse, ma il regolamento va rispettato rigorosamente.
“Controlla il corpo”, disse Nagg allo scadere del tempo. Mack si
avvicinò a Albert Nordhal e controllò che fosse andato.
“E’ andato”, disse Mack.
“Soffocamento o rottura del collo?”, chiese Nagg.
“Rottura del collo”, disse Mack. Nagg annotò i particolari della
procedura sul taccuino.
“Ho fame”, disse Nagg.
“Mai vista una casa così pulita”, disse Mack.
191
C’erano voci in strada. Nagg compilò il modulo clausola 99 e vi
appose il timbro del Ministero Suicidi & Festività®, oltre alla sua
firma in qualità di controllore. Mack passeggiò per la stanza pensieroso, fumando. Nagg collocò due biglietti accanto al corpo di
Albert Nordhal e li siglò.
“Cos’hai, problemi con l’igiene domestica?”, chiese Nagg.
“No, è che”, chiese Mack.
“Muoviamoci”, lo interruppe Nagg aprendo la porta e infilando
nella propria valigetta ventiquattrore l’ultimo modello di notebook
della Apple.
“Non sono mai riuscito a tirare il pavimento così a lucido”, disse Mack rovistando tra i dischi di Albert Nordhal e raccattandone
un paio da regalare a sua figlia.
“Prova a chiedere al prossimo”, disse Nagg.
“Perché lasceranno sempre la casa così pulita?”, si chiese Mack
passando ancora il dito ai bordi della libreria.
“La sporcizia è dentro”, disse Nagg gettando la sigaretta sul pavimento brillante della casa di Albert Nordhal e calpestando il
mozzicone. “Schifosi maniaci”.
E uscirono.
192
VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (5)
___________________
Davvero uno spasso trovarsi nella sala d’aspetto del Centro
Sterilità Prometeo durante la Giornata della Geometria Sessuale
Procreativa BoingBoing Gadgets.
In particolare: magnifico sedere su una poltrona bianca confortevole, circondato da uomini di mezza età e donne dall’aspetto genericamente procace.
Stimolante stare seduti di fronte a un esperto d’infecondità nel
Reparto Deficit Spermatozoico rimuginando sulla parola Arido.
Molto creativo partecipare all’esperimento proposto, che consiste nel ripetere per quarantacinque minuti la parola Arido, al fine
di prosciugarne ogni contenuto, al fine di renderla vuota, vacua,
priva di significato.
Arido arido arido arido arido arido arido arido arido arido arido
eccetera.
Istruttivo ricopiare la parola su un quaderno a quadretti, rimarcandone le possibili accezioni:
Arido: che ha mancanza d’umore. Lat. aridus.
Dan. Inf. c. 14. Lo spazzo era una rena arida, e spessa.
Per conseguenza STERILE. Lat. sterilis, infoecundus.
Pet. Son. 49. Che gentil pianta in arido terreno Par, che si disconvenga.
G. V. 1. 61. 3. E quivi ridotti in arido luogo, e non provveduti
di vettovaglia.
Per iscarso. Lat. tenuis, mediocris.
M. V. 2. 44. Dove s’aspettava ricolta fertile, e ubertosa, fu generalmente, per tutta Italia, arida, e cattiva.
Per metaf.
193
Pass. c. 81. Tanto bea la mente lagrime di compunzione, quanto
ella conosce d’esser divenuta arida, e partita da Dio, per la colpa.
Sterile: Che non genera, non fruttifica; contrario di fecondo, e
di fertile. Lat. sterilis.
G. V. 10. 122. 6. Egli è di natura sterile, e ‘l segno del lione sterile.
Collaz. S. Pad. Tutte le cose divengono infruttuose, e sterili.
Espos. Vang. Il sesto mese della sua gravidezza, di quella, che è
stata chiamata sterile.
E appresso: E non aveano figliuoli perché Lisabetta era sterile.
C’è un ventaglio di possibilità, mi si dice:
Inseminazione Intrauterina (I.U.I);
fertilizzazione in vitro con trasferimento dell’embrione
(FIVET);
iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo (ICSI);
composti cremosi-gelatinosi, pillole, supposte, per aumentare la
motilità degli spermatozoi;
rapporti sessuali mirati.
Impagabile tornare a casa dalla propria moglie con una soluzione ai nostri problemi, cospargere il pene con una crema bianchiccia al profumo di cocco e mandorla (Spermamax Plus Ver. 7.3),
spassarsela a letto consultando Time Cube Creator, l’orologio da
polso che illustra le figure geometriche più adatte alla procreazione, sagomare un trapezio isoscele, un semicerchio, un triangolo
rettangolo, e poi fare l’amore, fare l’amore, fare l’amore
***
194
STETSON! TU CHE ERI CON ME SULLE NAVI A MILAZZO
I primi a germogliare furono i cadaveri più giovani, di sei o sette mesi.
Il fenomeno si verificò nei pressi del cimitero cattolico di Sabbione un giovedì mattina di aprile intorno alle undici; circa settanta cadaveri sepolti nella terra cominciarono a buttare, producendo
fiori di numerose varietà tra le quali orchidee e tulipani, papaveri e
fiori di campo azzurri e gialli.
Alcuni dei presenti raccontarono che i fiori germogliarono e
fiorirono rigogliosi in meno di dodici minuti, accompagnati dallo
stupore della folla silenziosa. Dopo circa quindici minuti si verificarono i primi casi d’isterismo: un bambino scoppiò a piangere e
un’anziana signora a urlare tenendosi il capo tra le mani. Gli addetti alle tombe, sconcertati, alzarono i telefoni e chiamarono chi
di dovere; nel giro di un’ora arrivarono i primi medici, la polizia, le
guardie Gerarcali.
Fecero venire dei botanici. I botanici osservarono il fenomeno
e stesero un rapporto di diciotto pagine che finì su tutti i giornali.
In breve, termini come sporangio, gametofito e ciclo diponte
entrarono nel vocabolario dei cittadini sabbionassi. Scoprirono
che i gas rilasciati al momento dell’autolisi e della decomposizione
erano alla base della formazione dei vegetali, i quali attecchivano
nelle ossa e da lì si generavano secondo un processo cleistogamo.
Dopo il primo caso ne seguirono molti altri. Alcuni cadaveri
buttarono piante come magnolie e betulle. Le piante squarciarono
bare e loculi ed emersero in superficie dal terreno riesumando i
cadaveri da cui si erano generati.
Qualcuno riconobbe un parente o un amico. “Il vecchio
Kreskajoj ha buttato una magnolia, un pesco e quattordici papave195
ri da oppio”, diceva qualcuno al bar. “Mia zia Ester ha germogliato uno splendido bouquet di tulipani gialli e orchidee selvatiche
del Brasile”, diceva qualcun altro dal barbiere.
Dopo qualche tempo si giunse persino a premiare il cadavere
germogliato più bello. La Deutsche Orchideen Gesellschaft consegnò i suoi ambitissimi riconoscimenti a tre cadaveri di ventidue
anni circa. Eravamo allibiti.
Nel giro di una settimana più di cinquantamila cadaveri germogliarono, originando un vero e proprio groviglio botanico di
spermatofiti, boccioli, fiori e piante ornamentali. All’inizio il fenomeno si manifestò solo in prossimità dei cimiteri, ormai ridotti
a invalicabili giungle; in seguito, per via della particolare conformazione di Sabbione, costruita su decine di necropoli, si estese a
tutta la città. Le piante iniziarono a farsi luce attraverso i condotti
fognari e fuoriuscendo dai tombini spaccarono il bitume delle
strade e il cemento dei palazzi, stringendo in una morsa imperiosa
perfino il palazzo Gerarcale, avvolto da liane ed edere rampicanti.
Non mancarono le ripercussioni. I cattolici, che inizialmente
presero le distanze dai fatti, arrivarono a sostenere una sorta di
predeterminazione nella fioritura dei cadaveri; una costola del culto cristiano fondò una sorta di teologia botanica, della quale pubblicò un breviario; in sintesi il testo emanato sosteneva che le
azioni compiute in vita avrebbero generato un determinato tipo di
fiore da cadavere.
Ma ben presto la popolazione cominciò a subire le conseguenze di quella fioritura: i fiori puzzavano tremendamente e la puzza
col passare dei giorni si fece insopportabile.
Tornammo a casa dopo il lavoro e c’incontrammo in cucina,
come spesso accadeva. Insegnavo metodi innovativi e sicuri di
smaltimento delle carcasse animali a un gruppo di lavoratori extracomunitari; erano marocchini, egiziani, un paio di turchi.
“Potremmo seppellire mio padre in giardino”, disse Laura.
Suo padre era morto pochi giorni prima.
Io non dissi nulla e accesi la televisione. Le telecamere inquadravano il cimitero monumentale ventiquattrore su ventiquattro
per documentare la crescita delle piante in tempo reale.
196
Il Governo fornì delle maschere anti-gas a parte della popolazione. Ma le maschere non bastavano per tutti. C’erano circa millecinquecento, duemila maschere, buone per il due percento della
popolazione.
Dopo un mese Sabbione era avvolta da fiori di ogni varietà, più
simile a un giardino botanico tropicale che all’informe massa di
palazzine e tetti rossi che ci eravamo abituati a vivere. La puzza
dei fiori era tremenda, e il fenomeno tanto eccezionale da dar luogo a curiose manifestazioni. Enrichetta Brumoj, un vecchio cadavere femmina di quarantasette anni, buttò alcune piante carnivore
giganti delle montagne Tepui che terrificarono un intero quartiere
e, si dice, inghiottirono alcuni barboni.
Laura avrebbe tanto desiderato una fioritura di suo padre e
cominciò a pregare. Teneva sul comodino il breviario di teologia
botanica e ogni notte lo leggeva e rileggeva.
“Pensi che mio padre butterà un rododendro? O forse un nonti-scordar-di-me? Il non-ti-scordar-di-me non mi dispiacerebbe.
Neppure a mamma credo. Anche un semplice mazzo di margherite andrebbe bene. Ho sempre adorato le margherite”, disse.
“Com’è potuto succedere?”, domandai io.
“La bocca di leone”, disse lei. “Secondo la teologia botanica
germoglia solo dai cadaveri che hanno avuto una vita esemplare”.
Mi accesi una sigaretta.
“Credi che mio padre butterà una bocca di leone?”, chiese.
“Non ho dubbi”, risposi.
Prima di andare a letto mi masturbai. L’odore di fiori mi stordiva e io ribadii il mio odio nei confronti del mondo vegetale, confermando la mia instabilità emotiva. Mi scagliai contro le due piante del mio soggiorno, insultandole, schernendole, sputando sulle
loro foglie morenti e sul loro fusto rinsecchito. Presi l’annaffiatoio
e versai qualche goccia d’acqua nella terra. Volevo che soffrissero,
quelle figlie di puttana, e le dileggiai ancora con oltraggi e sputi.
Molte persone patirono disturbi intestinali, nausee, conati. La
protezione civile distribuì tonnellate di scopolamina; furono approntati dei punti di distribuzione nelle vie e nelle piazze di Sab197
bione e dei maggiori paesi sabbionassi, ma ben presto le scorte di
scopolamina si esaurirono.
Quando esaurimmo le scorte di scopolamina si scatenò una lotta selvaggia per procacciarsi le poche confezioni rimaste.
La scopolamina è un farmaco alcaloide allucinogeno ottenuto
da piante della famiglia delle Solanaceae. Ha un effetto anti vomito e agisce come anti-spastico sulla muscolatura gastrointestinale.
Fu un dottore di Pizzengo a consigliarla attraverso un programma
televisivo assai noto. Dapprima fu prescritta e consigliata da tutti i
medici ma poi, quando l’uso divenne smodato, la situazione sfuggì
di mano. Le grandi case farmaceutiche fecero di tutto per inviare
sempre nuove scorte di medicinale, ma le ultime derrate furono
bloccate e confiscate dal Governo.
Ottenemmo i permessi necessari e seppellimmo il padre di
Laura in giardino un mercoledì di fine giugno. La notte prima era
piovuto come in tutto il cenozoico, e adesso si stava come
nell’hararet di un hammam; il caldo nebbioso acuiva la percezione
di un lento strangolamento e l’oppressione vegetale si stava facendo sempre più gravosa. La pioggia nefritica contribuì ad accelerare
la germogliazione dei cadaveri e a poco servirono i tentativi di
bloccarla dalla nascita, estirpando prima i boccioli e poi, ancora
più radicalmente, i cadaveri. Qualcuno propose di approntare
un’enorme pira nel mezzo della piazza più grande di Sabbione, ma
tutti i cadaveri, o quasi tutti, avevano parenti e amici che si opposero con fermezza a questa soluzione.
Laura cominciò a recitare una preghiera per suo padre. Io scavai un fosso profondo due metri e gettai il corpo nella terra avvolto da un sacco di plastica. Mentre ricoprivo la fossa ascoltavo la
radio, non faceva altro che ripetere notizie sui cadaveri germogliati. A Scurzolengo, nelle colline sabbionasse, l’intero cimitero aveva
germogliato un’unica, immensa, vigna, i cui pampini e acini emanavano un violento lezzo acidulo e cadaverico.
In breve ci isolarono. Le televisioni non ne vollero più sapere.
Un’intera città era allo sbando, la sua popolazione era ridotta alla
stessa stregua di un gruppo di universitari dopo una colossale
198
sbronza; i miasmi, i conati, le allucinazioni, i barcollii della gente
che non si reggeva in piedi, le splendide donne sabbionasse ridotte
a femminucce anoressiche, erano tutti fattori che tenevano lontana l’attenzione della gente.
Accompagnai Laura nella zona alta della città, in collina, dove
l’aria era più respirabile e il lezzo meno nauseante.
Mi chiese di portarla al Luna Park.
Ci fermammo ad ammirare i neon impolverati, le luci rosse,
l’immenso clown dalla bocca spalancata che pareva sbadigliare
nella noia d’estate. Il luna park era deserto; sebbene alcune giostre
fossero funzionanti nessuno ci veniva da settimane. La accompagnai sulle montagne russe e per un momento credetti che si stesse
divertendo, l’aria fresca ci accarezzava il viso e le alte velocità coprivano il fetore della vegetazione.
“Mio padre mi portava spesso sulle montagne russe”, disse.
“Ne ero terrorizzata. Gli chiedevo di tenermi stretta, ma lui diceva
che dovevo crescere, che un giorno non avrei avuto nessuno a cui
stringermi, che avrei dovuto sbrigarmela da sola”.
Del grande Luna Park di Sabbione restavano quattro o cinque
giostre funzionanti e un solo chiosco di mais abbrustolito, peraltro
deserti, oltre alla tenda della Maga Vulshok, una novantenne moribonda mascherata da fattucchiera.
Laura volle entrare. La maga mi sembrò in uno stato di ipnosi,
o catalessi, e tuttavia non pareva particolarmente turbata dagli
eventi. Indossava una vestaglia scura sulla quale spiccavano motivi
celesti e sedeva su uno sgabello marcio che faticava a reggerne il
peso.
“Vogliamo conoscere il futuro”, disse Laura.
“Il futuro di chi?”, chiese la fattucchiera mostrando il suo unico dente brillante al centro della bocca.
“Il futuro di tutti”, replicò Laura.
La vecchia era ridotta piuttosto male. Aveva una specie di barba sul viso pallido, traballava sullo sgabello, ciocche di capelli le si
staccavano dalla testa e cadevano sul pavimento ricoperto di giacinti.
“Questi giacinti sono tutti i miei morti” disse con un filo di voce, “osservate i giacinti che sono i miei morti”; scostò la tenda
199
scura che aveva alle spalle, strappò un giacinto e lo porse a Laura,
poi tornò nel suo stato di trance, quasi in coma.
Tornammo a casa con le braccia pesanti e gli occhi annebbiati,
e Laura mi sembrò bellissima con il giacinto infilato tra i capelli
madidi. Le strade di Sabbione erano avvolte da una nebbia misteriosa e l’asfalto era ricoperto di terriccio scuro, humus, fanghiglia.
Le radici delle piante più grandi squarciavano le strade ovunque,
arrampicandosi sui palazzi, attorcigliandosi ai semafori e ai lampioni. Macerie di pietra avvolte da erbe infestanti ingombravano le
vie d’accesso agli ospedali e alle scuole.
I pesticidi furono inutili. I cadaveri continuavano a germogliare
più rigogliosi che mai. Ci fecero notare che i cadaveri ebrei e musulmani, così come quelli di altri culti, non attecchivano. Gli unici
ad attecchire erano i cattolici.
Nessuno seppe spiegare di preciso perché, ma dal momento
che la gente non sembrava interessata a questo aspetto della vicenda nessuno se ne preoccupò.
Al quinto mese l’Osservatorio Medico Legale del Sabbionasso
giudicò il fenomeno insolito e stilò un rapporto di trecentoquaranta
pagine, consultabile presso l’Archivio cittadino.
Pensammo di andarcene, ma nessuno voleva lasciare la città, io
ero così attratto e tormentato dalle piante che un pomeriggio trascorsi diverse ore a odorarne le emanazioni. Tiravo avanti a scopolamina tagliata e a esalazioni fetide. Di notte vagavo per bar e
locali cercando persone, gente che come me si aggirava per la città
a caccia di una nuova specie tropicale, di un germoglio appena
sorto, ossessionata dalle esalazioni fetide ed equipaggiata di scopolamina. Nei bar ormai si servivano siringhe anziché bibite.
I pochi locali chiudevano presto, rigettando nelle strade invase
dai vegetali tutti gli intossicati ormai strafatti di esalazioni e scopolamina. Vagabondai lungo il fiume in cerca di piante migliori, più
grandi, dal gusto diverso e mostruoso. Le prostitute avevano lasciato quei luoghi ormai da tempo: la chiatta era invasa da potentille e un numero imprecisato di piante da spezia, pimenta racemosa, cinnamomum zeylanicum, camellia sinensis.
200
Ormai mi spostavo sempre con un grosso manuale illustrato di
botanica nello zaino. Lo avevo studiato minuziosamente.
Il fiume trascinava materiale di ogni genere, ma lungo le sue rive non c’erano più pescatori, né i soliti adolescenti notturni in vena di sballi, non c’era nessuno. Mi fermai presso il terrapieno che
segnava l’argine, ora ricoperto da una gigantesca Bougainvillea
Spectabilis; la teologia botanica spendeva parole dure per i cadaveri che buttavano quel genere di arbusto.
Odorai a lungo e profondamente, sentendomi vibrare il più interno midollo delle ossa. Le mie narici, ridotte a una sottile cartilagine, erano lacerate, le ginocchia mi sorreggevano a fatica.
Pensai di gettarmi nelle acque sudice e sconvolte del fiume e
subito dopo svenni.
Laura volle tornare in collina. Dall’alto il panorama della città
era incantevole. Fiori multicolore addobbavano i palazzi e le strade, i lampioni, le panchine. E poi boccioli, gemme, alberi ad alto
fusto, alberi da frutto.
Mi sedetti rivolto alle montagne e piansi.
Poi venne Shiv Wiratchant.
Shiv Wiratchant era un biologo ipovedente originario
dell’India, o della Thailandia, che produsse e coltivò un particolare
parassita in grado di eliminare l’odore. Un parassita che si nutriva
di esalazioni fetide. In sostanza incrociò una forma di lepidottero
tropicale con comuni afidi succhia linfa e li bombardò con radiazioni ionizzanti.
Ne produsse a milioni, forse a miliardi, e li rilasciò in città.
Nel giro di due settimane, disse, avremmo ottenuto dei risultati.
Tutti attendemmo i risultati.
Solo che fu un fallimento. I parassiti assimilarono le esalazioni
dei fiori ma non bloccarono la crescita delle piante. A quel punto
la città sembrò esplodere in una bolla di qualunquismo. Qualcuno
non riuscì a ritrarsi dalla dipendenza alla scopolamina e fu immediatamente alienato, ma alcune persone ne uscirono.
Prima di andarsene Wiratchant ripeté centinaia di volte una sola frase nella sua lingua, soltanto una, ma nessuno la comprese.
201
Poi successe qualcosa. Qualcosa che era già successo in passato, quando ci battezzarono, quando ci costrinsero a combattere,
quando scoprimmo la morte.
La gente ricominciò pigramente a rubare, rompere, uccidere,
fare l’amore.
Tornai alla sardigna municipale e qualcuno dei miei apprendisti
mi spronò a discutere con loro della questione.
Mi chiesero, che significato hanno? Le piante, i fiori, i morti, le
radici. Risposi, nessuno può saperlo. Dissero, eppure qualcuno
dovrà saperlo. Risposi no, non necessariamente. Domandarono,
non stiamo forse soggiornando nel bel mezzo di un profondo atto
simbolico? Risposi probabilmente sì, ma il simbolo presuppone
un’acquisizione dell’essenza del significato. Dissero, eppure se significato e significante coincidessero, non staremmo parlando di
un atto di Dio? Risposi, qui non si tratta di un mero atto singolo,
ma di un processo costantemente progredente di determinazione
che dà la sua impronta all’intero sviluppo della coscienza. Domandarono, non sei convinto che sia stato Dio a fare questo? Abbozzai una risposta, ma a quel punto ci consegnarono una partita
di cani randagi morti e fummo costretti a riprendere il lavoro.
Dissero, spesso la morte manifesta la vita.
Risposi, può darsi.
Dissero, ci sembri provato, prenditi una vacanza.
Dissi, ci rifletterò.
Venne l’inverno e i fiori cominciarono ad appassire. I cittadini
usarono i cadaveri germogliati per abbellire i palazzi; li misero sui
terrazzi, sui tetti, nei parchi, costruirono orti e giardini pensili. I
parassiti andarono in letargo, o comunque sparirono dalla circolazione. La neve ricoprì la città. Portai Laura in montagna e fabbricammo uno splendido palazzo di ghiaccio. Era un palazzo molto
grande.
“Quassù mi sento libera”, disse Laura distendendo i suoi capelli
lunghi e neri.
Abitammo qualche settimana nel nostro palazzo, scrivendo
canzoni e poesie, facendo l’amore e traducendo antichi libri san202
scriti, cibandoci di bacche e carne, pregando un po’. Laura pregò
molto e cantò diverse canzoni.
Suo padre non germogliò mai.
Disse, perché è successo? Risposi, nessuno lo sa.
Disse, perché mio padre non è germogliato? Risposi, non lo so
Laura, nessuno può saperlo.
Disse ancora, eppure qualcuno dovrà saperlo. Risposi no, non
necessariamente.
Quando tornammo in città i fiori erano avvizziti e le strade
profumavano di disinfettante industriale.
203
È TUTTO ASCIUTTO
Averson, poiché era all’incirca disoccupato, per raggranellare
qualche soldo decise di sfruttare la sua particolarità presentandosi
a una selezione per cavie di uno studio sull’emotività umana seguìto ventiquattrore su ventiquattro da un’equipe medica altamente
qualificata.
La particolarità di Averson, cinquantenne venditore di case fallito, era quella di non riuscire, o meglio di non potere, piangere,
avendo presumibilmente l’apparato lacrimale poco o per nulla sviluppato (o almeno così credeva).
Rispose a un annuncio che diceva: “stiamo cercando persone la cui
emotività non riesca a esprimersi mediante lacrimazione per studiare scientificamente le conseguenze dell’incapacità umana di manifestare le emozioni
nell’era della collettività virtuale e della solitudine reale. Lo studio sarà condotto da un’equipe medica all’interno del Laboratorio Analisi sulla Sensibilità Umana di Sabbione Centro e in ogni altro luogo in cui gli esperti riterranno opportuno condurre analisi o osservazioni. Durata cinque giorni, pagamento in contanti, metà subito l’altra metà a lavoro ultimato”.
Averson si presentò al laboratorio un mercoledì pomeriggio,
attese un’ora in una sala profumata dopo di che fu accolto da una
certa dott.ssa Hansen, la quale gli strinse la mano, gli mise sotto al
naso un piatto pieno di cipolla appena tagliata e gli domandò: “da
quanto tempo non palesa il fenomeno secretomotore caratterizzato dall’effusione di lacrime da parte dell’apparato lacrimale senza
alcuna irritazione per le strutture oculari?”
Averson non disse nulla.
“Insomma, da quanto tempo non piange, signor Averson?”.
“Più o meno da quarantacinque anni”, rispose Averson. Poi
cominciò a piangere, per via della cipolla.
“Meraviglioso”, disse la Dott.ssa Hansen.
204
“Sono scartato?”, domandò Averson.
“Per nulla!”, esclamò la dottoressa Hansen, “il fatto che lei abbia pianto a causa della cipolla dimostra che il suo non è un problema fisico, ed è precisamente ciò che cerchiamo”.
Lo scritturò immediatamente per i test.
“Ero l’unico candidato?”, domandò Averson.
“Ce n’era un altro, ma lo abbiamo scartato dopo dieci minuti,
non ha superato il test della cipolla”, disse la dott.ssa Hansen.
“Come procediamo?”, domandò Averson.
“Cominciamo domani. Deve trasferirsi qui in laboratorio per
cinque giorni”, disse la dott.ssa Hansen. “Porti solo lo stretto necessario, uno spazzolino e tre o quattro paia di slip. Per il resto le
forniremo noi gli abiti adatti”.
Il giorno dopo Averson si ritrovò seduto di fronte a tre professori e cinque telecamere indossando una tuta bianca recante
un’etichetta con la scritta cavia.
“Negli ultimi quarantacinque anni ci sono state occasioni per
cui, secondo il pensiero comune, avrebbe dovuto manifestare la
sua emotività mediante lacrimazione?”, gli domandò la dott.ssa
Hansen.
“A parte qualche lutto, un paio di incidenti domestici, cinque o
sei cani morti, ho perso quasi tutti i capelli e non vendo una casa
da quindici mesi; sono pieno di debiti e mia moglie si è portata via
le mie due figlie adottive, che amavo come figlie naturali. Non volevo figli, ma ammetto che quelle due bambine…”.
Ci fu una pausa durante la quale la dott.ssa Hansen temette che
Averson potesse cominciare a piangere, invece non lo fece. “Inoltre l’altra mattina camminando scalzo ho sbattuto il mignolo del
piede destro contro lo spigolo del letto”, disse.
“E non ha lacrimato?”, domandò il dr. Pompoj.
“No”, disse Averson fermamente.
“Stupefacente”, disse il dr. Krug.
“Signor Averson, risponda a una domanda”, disse la dott.ssa
Hansen. “Lei è triste?”.
“Moltissimo”, rispose Averson.
“Questo è un bel modo per cominciare”, intervenne il dr.
Krug.
205
“E si sente alienato?”, chiese il dr. Pompoj.
Averson osservò brevemente le sue scarpe, poi cercò di trovare
una risposta adatta alla domanda.
“Insomma”, lo anticipò la Dott.ssa Hansen, “trova che il suo
modo di manifestare le emozioni sia in qualche modo, come dire,
una diretta conseguenza dei tempi che stiamo vivendo? In altri
termini, la virtualità opprimente cui siamo sottoposti può condurre un uomo a essere completamente incapace di piangere? O, per
dirla ancora in un altro modo, si sente arido?”.
Averson non capì completamente la domanda, cionondimeno
annuì.
“Nei prossimi giorni la sottoporremo ad alcuni esperimenti
scientifici approfonditi”, disse uno degli studiosi. “Naturalmente
se lei è d’accordo”.
Averson si disse d’accordo e ricevette un assegno di cinquecento euro. Inoltre gli applicarono decine di sensori per monitorare il
battito cardiaco, la frequenza elettromagnetica, la pressione arteriosa, ecc.
“L’assenza di lacrimazione le ha procurato o le procura disturbi
fisici, Signor Averson?”
“Ho la pressione bassa e il colesterolo alto”.
“Molto bene”, disse la dott.ssa Hansen, “le piace il cinema?”.
“Sì”, rispose Averson, “anche se è da quasi tre anni che non ci
vado”.
Prima di cominciare la dott.ssa Hansen informò Averson che
durante il periodo degli esperimenti avrebbe dovuto inghiottire
una dozzina di pastiglie al giorno, a orari prestabiliti.
“Di che si tratta?” domandò Averson.
“Niente di cui preoccuparsi”, disse la dott.ssa Hansen, “più che
altro ansiolitici o antidepressivi sperimentali”.
“Non si era parlato di farmaci”, si lamentò Averson.
La dott.ssa Hansen lo convinse aumentando la paga del doppio, inoltre gli comunicò che aveva diritto a una telefonata al giorno, subito prima di cena.
Averson chiamò il suo commercialista.
“C’è qualche novità?”
“Nessuna”.
206
“Per quanto riguarda quell’alloggio in centro…”
“Non lo venderai mai. Dove ti trovi?”.
“Ho deciso di fare la cavia per un esperimento scientifico”.
“Che vergogna”, rispose il suo commercialista, “era proprio
necessario sminuirsi in questo modo?”.
“Assolutamente necessario”, rispose Averson.
“Ti faranno male?”, chiese il commercialista.
“Ho bisogno di soldi”, rispose Averson, “se voglio mangiare”.
“Finirai per farti avvelenare il sangue”, disse il commercialista,
e riattaccò.
Poiché gli restavano ancora quaranta minuti prima di cena,
Averson poté dedicarsi al suo secondo hobby preferito (dopo il
modellismo ferroviario): comporre sciocchi esercizi di stile privi di
vita e passione da indirizzare alla propria ex moglie mediante raccomandata postale; ne aveva scritti circa centoventi, tutti riferiti alle proprie caratteristiche somatiche (per es. caviglie, attaccatura dei
capelli, polsi, sopracciglia, mento, ecc). Quel giorno si osservò allo
specchio, osservò le sue sopracciglia abbastanza dense, ne misurò
la distanza con uno strumento di fortuna e compose un esercizio
di stile freddo e caustico a cui diede il titolo “Sopracciglia”.
Il cinema era completamente deserto. Averson fu lasciato libero di scegliere il posto che preferiva, e quando si fu accomodato
una voce gli domandò se era perfettamente a suo agio e se desiderasse qualcosa, come per esempio una coca-cola o un bicchiere di
popcorn.
“Sono a posto così”, rispose Averson, e inghiottì il primo farmaco, una pasticca gialla di forma trapezoidale.
Il primo film che proiettarono suscitò alcune chiose da parte
degli studiosi. In particolare essi non riuscivano a concordare su
una questione centrale, cioè se i film trascelti potessero effettivamente procurare un’emozione manifestabile attraverso la lacrimazione, oppure no.
Il film in corso era Philadelphia, con Tom Hanks.
“Non capisco per quale ragione un tizio malato di AIDS dovrebbe suscitare un’emozione manifestabile attraverso il pianto”,
disse il dr. Pompoj piuttosto commosso.
207
“Un tizio malato di AIDS suscita lacrimazione nel cinquantanove percento dei tester, un tizio licenziato dal lavoro in quanto
malato di AIDS suscita emozioni manifestabili mediante lacrimazione nel novantasette percento dei tester”, disse il dr. Krug asciugandosi le lacrime con un fazzoletto di carta e spulciando una cartellina rossa.
Avevano stilato un elenco di film lacrimosi sottoponendo un
campione di centoquaranta maschi adulti alla visione solitaria di
quarantanove film, e Philadelphia era in cima alla lista, seguìto da
Qualcuno volò sul nido del cuculo, Titanic e Braveheart.
Ciononostante, anche nelle scene classificate come strappalacrime, Averson (che aveva una telecamera puntata addosso in modo
che gli studiosi potessero controllare in tempo reale le sue reazioni), non pianse neppure un po’. Il suo volto traspariva una certa
afflizione, o contrizione, pur tuttavia il suo apparato lacrimale non
produsse una sola lacrima.
“Proviamo con Titanic?”, domandò la dott.ssa Hansen terribilmente commossa dalla morte di Tom Hanks.
“Che ne dite invece di Fuga per la vittoria, o della finale dei
mondiali di calcio 1982?”, suggerì il dr. Krug.
Alla fine decisero di abbandonare il cinema e sottoporre Averson a un nuovo test.
“Signor Averson, lei è cattolico?” domandò la dott.ssa Hansen.
“Non propriamente”, rispose Averson.
“Ma la sua cultura è cattolica?”.
“Sono andato a catechismo”.
“E perché ci è andato, signor Averson?”
“Mi costringevano a farlo”.
“Non avrebbe preferito andarsene in giro per i prati, oppure a
fumare con i suoi amici?”
“Può darsi”.
“Nonostante ciò è andato a catechismo lo stesso”.
“L’ho fatto”.
“E durante gli anni del catechismo non ha maturato coscienza
del suo cattolicesimo?”.
“Direi proprio di no”.
“È davvero sicuro di non essere cattolico?”
208
“Sicurissimo”.
“Inghiotta il farmaco”.
Averson inghiottì una pasticca rossa e blu di forma ovoidale.
“Lei è cattolico, signor Averson. Non adesso, forse. Non ancora. Ma lo è stato, e lo sarà ancora. Siamo tutti cattolici”.
“Io non lo sono”, tagliò corto Averson.
Cionondimeno, visto che il programma dei test lo prevedeva,
decisero di procedere ugualmente con l’esperimento religioso, che
consisteva nel rinchiudere Averson in uno stanzino completamente vuoto a eccezione di un crocifisso appeso alla parete. Del resto
uno studio dell’università di Harvard aveva dimostrato che alcuni
soggetti, definiti cattolici sopiti, anche dopo aver giurato di non ritenersi cattolici, manifestavano violente reazioni lacrimali se sottoposti, in solitudine, alla visione prolungata di un crocifisso.
Dopo tre ore Averson si addormentò, e l’esperimento fu interrotto.
Il terzo giorno fu svegliato da una musica che non riconobbe,
gli fu servita un’ottima colazione, inghiottì una pasticca marrone
chiaro di forma tondeggiante, fu accompagnato nell’ufficio della
dott.ssa Hansen.
“Signor Averson, lei a cosa tiene?” gli domandò la dott.ssa
Hansen. “Voglio dire, c’è qualcosa a cui tiene particolarmente?”.
“Tutto ciò che mi rimane è un gatto”, rispose Averson.
“Un gatto?”
“Un gatto a cui tra non molto mancheranno il latte e i croccantini”.
“Niente altro?”
Averson osservò la scrivania della dott.ssa Hansen.
“Una cosa ci sarebbe”, disse poi.
“Si confidi con me”, disse la dott.ssa Hansen.
“Il mio plastico ferroviario, ci ho lavorato trentacinque anni”.
“Stupendo, signor Averson, non deve vergognarsi di avere un
hobby, avere un hobby è meraviglioso”.
“Trova che sia meraviglioso?”, domandò Averson.
“Trovo che sia una cosa molto dolce”, confermò la dott.ssa
Hansen.
209
Immediatamente dopo condussero Averson in una sala illuminata a giorno per sottoporlo all’esperimento dell’umiliazione.
Questa volta non fu fatto sedere. Restò in piedi al centro della
stanza, trafitto da una luce abbagliante che per quanto ne sapeva
avrebbe potuto procurargli un’ustione agli occhi.
“Signor Averson, non sente di aver sbagliato tutto?”, gli domandò improvvisamente una voce che riconobbe, era quella della
dott.ssa Hansen.
“Beh..”
“La sua situazione non le ha spalancato le porte
dell’insensatezza e dell’angoscia? Non si sente inadeguato?”
“Insomma..”
“Lei è inadeguato, signor Averson. Lei è un mediocre venditore
di case, un mediocre marito, un mediocre padre. Non è neppure
in grado di badare a un gatto”.
“Ci ho provato, mi creda.”
“Ma non ci è riuscito. Il suo gatto attende una ciotola di croccantini che lei non può permettersi di procurargli”.
“Mi sento mortificato”.
“Fa bene a esserlo. Non è riuscito neppure a vendere un misero alloggio”
“Sono tempi di crisi..”
“Sciocchezze. Lei non riesce a vendere case semplicemente
perché è un venditore incapace. Questa è la verità, Signor Averson”.
“Il mercato è fermo..”
“Pensi al suo gatto, signor Averson; non sarebbe meglio lasciare che di lui si occupi qualcun altro? Magari una clinica per gatti?
Magari qualcuno con un reddito fisso, che possa permettersi di
acquistargli una scatola di biscotti?”.
“Ci sono affezionato”.
“Ma lui è affezionato a lei?”
“Sembra di sì..”
“Lo lasci andare, signor Averson. Deve ammettere che per il
bene del suo gatto sarebbe meglio che una vera famiglia lo accogliesse”.
210
“È un gatto terribilmente affettuoso..”
“Lei, signor Averson, non è una famiglia”.
“Sto benissimo anche da solo”.
“Parla così solo perché è stato abbandonato dalla sua famiglia”.
“Non dica così”.
“Sta per piangere, signor Averson?”
“Probabilmente vorrei, ma non ci riesco”.
“Inghiotta la pasticca viola”.
Quando si spense la luce Averson notò una televisione appesa
alla parete di fronte a lui. Il poveraccio rimase in silenzio, indeciso
su cosa fare; la sua espressione era contrita, quasi disperata. Pensò
brevemente al suo gatto, poi cominciò a mangiarsi le unghie.
Dopo circa quindici minuti sullo schermo apparvero le immagini di un luogo che Averson conosceva bene, essendo l’interno
del suo seminterrato, dove egli custodiva il suo plastico ferroviario.
Le inquadrature in diretta spaziavano su numerosi treni Märklin, sulle colline fedelmente ricreate, sui ponti, sulle strade e sui
dettagli curatissimi delle stazioni ferroviarie, del porto, della cremagliera.
Osservando quello spettacolo Averson ebbe un moto
d’orgoglio.
“Qualcosa di buono l’ho fatto”, disse; “questo plastico è indubbiamente l’opera di un uomo che possiede delle qualità”.
Mentre Averson fissava il monitor riflettendo sul frutto del
proprio lavoro, cinque uomini travestiti da pompieri fecero irruzione nel suo seminterrato e cominciarono a distruggere il plastico
utilizzando quelle che apparentemente sembravano mazze da baseball, giacché erano, mazze da baseball.
Averson soffocò un grido.
Il primo colpo sfasciò la riproduzione di una stazione ferroviaria di montagna che gli era costata un mese e mezzo di lavoro nel
millenovecentonovantuno. I binari si frantumarono e la polvere si
levò fino al soffitto.
Averson rimase paralizzato.
211
“Fermi!”, urlò.
Il secondo e il terzo colpo raggiunsero il porto e la cabinovia
del Monte Bianco, che Averson aveva edificato nel maggio millenovecentosettantanove.
“Cosa vi ho fatto di male?”
Un altro colpo distrusse la centralina per lo smistamento dei
convogli, che egli progettò a più riprese dal settantasette in poi.
“Fermatevi!”, urlò ancora Averson.
Il colpo più tremendo fu inferto alla riproduzione di un condominio con meccanismo temporizzato per l’emissione di piccoli
gemiti, rumori di stoviglie, luci accese/spente, sciacquoni del water, ecc., che Averson riteneva giustamente il fiore all’occhiello del
suo plastico, l’esempio concreto della sua meticolosità nel definire
anche e soprattutto i dettagli più insignificanti.
“Questa deve essere la punizione per aver accettato una cosa
umiliante come far da cavia in un esperimento scientifico, la punizione per essere stato un pessimo padre e un pessimo marito, la
punizione per non essere stato un buon cattolico”, disse tra sé e
sé, farfugliando e urlando.
Altri colpi frantumarono la riproduzione di una ferrovia del far
west con treno a carbone e quella di un Minuetto delle Ferrovie
dello Stato che Averson aveva ricevuto in dono dalla figlia più
grande tre Natali prima.
“Il Minuetto no!”, gridò Averson.
Con altri, innumerevoli, colpi, gli uomini travestiti da pompieri
frantumarono il plastico ferroviario di Averson. Egli rimase impietrito a osservare lo scempio per un tempo innaturale, con il volto a
cinque centimetri dallo schermo. Provò a toccare i resti del suo lavoro, ma i polpastrelli non potevano oltrepassare il vetro dello
schermo. Se ne rese conto e chinò il capo, ma non versò neppure
una lacrima.
Rimase fermo e in silenzio per venti minuti.
“Lei è un uomo buono, signor Averson”, gli disse tramite interfono la dott.ssa Hansen.
“Il mio plastico..”, sussurrò Averson.
“Quella che ha appena visto è finzione, una ricostruzione renderizzata della distruzione del suo plastico, se mi passa il gioco di
212
parole. Stia tranquillo, quando tornerà a casa lo troverà perfettamente integro”.
Averson si sentì investire da un’ondata di benessere e gioia.
Gli portarono un whisky e una pasticca grigia di forma quadrata, e quando si fu calmato un’infermiera lo accompagnò alla biblioteca del laboratorio, dove lo fece accomodare presso una postazione ben illuminata.
Dopo qualche minuto la dott.ssa Hansen si scusò per la faccenda del plastico, offrì ad Averson un caffè e gli porse un quotidiano.
“Credevo di prendere un infarto”, disse Averson.
“La sua frequenza cardiaca è sempre stata sotto controllo”, disse la dott.ssa Hansen. “Riteniamo tuttavia che la sua disfunzionalità lacrimale possa maturare una propensione a stati depressivi anche gravi”
“Lo crede davvero?”.
“Signor Averson, apra il quotidiano alla pagina che preferisce e
cominci a leggere le notizie”.
Averson lesse la notizia di una strage da qualche parte, dodici
morti. Lesse di una bambina di sette anni stuprata da un ministro
di dio. Lesse di un cinese morto ammazzato per questioni politiche. Lesse della crisi immobiliare. Lesse di undici uomini che si
erano fatti saltare il cervello per qualche forma di protesta che non
gli riuscì di chiarire. Lesse di uno stato dell’Africa in cui ogni giorno muoiono tredicimila bambini (ma forse l’articolo si riferiva
all’intero continente) e intraprese una serie di conti per scoprire
quanti bambini morissero al mese, al giorno, al minuto, al secondo.
Si domandò quanti litri di inutili lacrime versavano ogni minuto
i genitori di questi bimbi, poi pensò che gli sarebbe piaciuto, per
una volta, provare a piangere, tanto per scoprire l’effetto che fa.
Lesse di una fabbrica che inquinava un fiume e una valle, di
migliaia di persone malate, poi richiuse il quotidiano.
Tali notizie, per quanto lo disgustassero, o lo ripugnassero,
sebbene i due impulsi fossero praticamente equivalenti, non produssero in lui alcuna reazione corrispondente alla lacrimazione.
213
Tutt’al più una forte nausea, che lo costrinse a interrompere la lettura e a rifugiarsi in bagno.
“Lei è incapace di piangere”, disse la dott.ssa Hansen prima di
consegnare nelle mani di Averson la seconda metà del compenso
pattuito.
“Ve l’avevo detto”, disse Averson con una punta di amarezza.
“Inghiotta l’ultima pasticca e se ne torni a casa dal suo gatto,
signor Averson”, disse la dott.ssa Hansen, “lei rappresenta l’uomo
di oggi. La sua aridità lacrimale è un simbolo, solo non sappiamo
ancora di cosa. Ma siamo pagati per scoprirlo, e lo scopriremo”.
Averson, annuì, inghiottì l’ultima pasticca, ringraziò e mise
l’assegno nel taschino della camicia.
“Potete spedirmi questa?”, domandò Averson porgendo il suo
esercizio di stile intitolato “Sopracciglia” alla dottoressa Hansen.
“Naturalmente”, disse la Dott.ssa Hansen.
“Se ci mettete il vostro timbro può darsi che mia moglie la ritiri
e la apra, ho il sospetto che getti via le mie lettere senza neppure
aprirle”.
“Addio, Signor Averson”.
“Addio, dottoressa”.
A casa Averson rovesciò un’abbondante quantità di croccantini
nella ciotola del gatto e quando aprì la porta del seminterrato trovò il suo plastico ferroviario completamente distrutto, raso al suolo, sbriciolato. I treni deragliati e spezzati a metà, l’impianto elettrico fracassato, la casa del doganiere crollata. Trentacinque anni
di lavoro massacrati.
Prese in mano i resti di un ponte sospeso perfettamente in scala, si mise in ginocchio e guardò l’immagine del suo volto riflessa
nei cocci dello specchio frantumato che aveva utilizzato per rendere l’ambiente più luminoso.
Averson rimase in quella posizione per quattro ore, durante le
quali da un certo punto di vista non piangeva affatto, sebbene da
un altro punto di vista piangesse quanto mille genitori africani.
214
IL CIRCOLO PARENTI & AMICI DELLA VEDOVA APOSTOLO
La Vedova Apostolo è davvero arzilla: fuma Gauloises e beve
rhum scuro invecchiato trent’anni. Ha fondato un club nella sua
tenuta di Castrocozzo e ogni giovedì ospita parenti e amici (gli
amici sono le personalità più rilevanti del Sabbionasso, dice mia
madre) per giocare a scacchi, backgammon e bridge. Al club parlano di politica e cultura, leggono Giovenale, Marziale e Catullo,
recitano Plauto e Terenzio, discutono di Plotino, Aristotele e
Marc’Aurelio (la Vedova Apostolo ha una predilezione per gli antichi greci & latini), ma soprattutto si dibatte sul mercato dei sexy
toys, prima attività dell’Azienda Famiglia Apostolo, fondata dal
Commendatore Apostolo, che con vibratori e manette di peluche
fece soldi a palate.
La Vedova Apostolo ha centoquattro anni, ma li porta magnificamente.
Quel giovedì il maggiordomo ricevette l’ordine di accompagnare gli ospiti in stanza da letto. “Cosa avrà in mente la Vedova
Apostolo?”, si chiesero tutti. La trovarono mezza nuda sul letto,
con un rosario in mano e le calze strappate, mentre rivolta al soffitto farfugliava ingiurie cosmiche. (Ah Vedova Apostolo, che visione desolata). C’erano sul cuscino un grumo di capelli morti e
una chiazza di sangue (si trattava di un’emorragia al naso, come si
dice, una epistassi). Eppure le riunioni del circolo si tenevano solitamente dopo cena, nell’enorme sala del camino, dove si sorseggiava brandy e si fumavano sigari, sigarette e pipe. Ma eccoci al
cospetto della Vedova Apostolo: la guardiamo tutti come se fosse
una povera moribonda emaciata e sporca, consumata
dall’ambascia. Stasera ha un diavolo per capello, la vecchia, come
suggerisce il bisnipote Henry, e lei allora attacca: “Qui bisogna decidersi”, dice, “e se non lo fa nessuno devo decidere io per tutti”,
e continua a biascicare l’aria nella penombra, distesa come un de215
funto (epperò ancora sopra il lenzuolo, non ancora sotto), dice:
“come il mio povero Alfredo, che Dio lo abbia in custodia…e il
porco demonio se lo prenda, lui e il suo culo secco”.
Che la Vedova Apostolo pronunciasse il vocabolo “culo” era
evento inimmaginabile, epocale. D’accordo l’asettico “deretano”.
D’accordo il più scientifico “parte basso-posteriore del corpo
umano”. D’accordo anche il popolare “didietro”, il raffinato “loco
ove non batte il sole” o il gentile “fondoschiena”. Ma CULO! Culo
mai e poi mai, neppure nei momenti di sconforto, di dubbio mistico, di agnosticismo galoppante. “È un misunderstanding!”,
s’affretta a precisare il figlio maggiore, Damon.
“Ma quale misunderstanding, ho detto CULO!”, grida la Vedova
Apostolo. Mrs Hendrik ha un mancamento. Frank la sorregge,
aiutato dal barone Volt. Il vecchio Bold si fa un bicchierino; ce n’è
bisogno, ve lo dico io, e infatti anche Frank si versa da bere.
Io sono Frank, e ho davvero un bell’aspetto. Non lo dico per
mancanza di modestia, me lo dicono tutti, compresi i maschi. È
dai tempi della scuola che le femmine fanno la coda per conquistarmi: mi chiamano Frank il Bello o Frank il Fusto, specie nei
giorni in cui decido di uscire con il mio bandana rosso porpora sui
capelli umidi e i muscoli delle braccia in bella vista, con un tatuaggio grosso così sull’avambraccio destro: rappresenta una corona di
spine, in onore di nostro signore Gesù Cristo. Siamo sempre stati
molto cattolici. E molto ricchi. Non l’ho detto ma la mia famiglia
è proprietaria della Tecnopellet, che esporta gli alberi dalla foresta
pluviale amazzonica per ricavarci bancali e mobili, ed è una delle
industrie più floride della nazione.
Ora la Vedova Apostolo si vuole sollevare un po’. “Cosa diavolo fate? Mi alzate oppure volete stare lì a mugugnare per tutta la
sera?”, chiede. Lottano per prenderle il cuscino e appoggiarlo al
muro, la aiutano a sollevarsi; lei tira una scoreggia sconcertante.
“Eh che Cristo, Vedova Apostolo”, fa il maggiordomo, “un po’ di
contegno”.
(Qui siamo nell’alta società, mi capite, e sono presenti alla cena
grosse individualità: industriali, commendatori, politici, alte sfere
pubbliche, notai e avvocati, molti accompagnati da signore in pai216
lettes e brillantini come si usa negli anni ’80 e tutti alla ricerca di
un posto in prima fila agli occhi della Vedova Apostolo).
La Vedova Apostolo è magra e discinta, sporca e con la calza
destra strappata, sputa sul pavimento e completa l’opera con un
nuovo roboante peto che ci fa sobbalzare. La vedova Nurse quasi
crolla a terra. Ron Kock, dell’alta finanza, abbozza un parere:
quest’anno il mercato dei vibratori schizzerà in cielo come il tappo
di uno champagne a capodanno, dice. Stronzate, risponde la Vedova Apostolo, mentre il maggiordomo strabuzza gli occhi.
Non tutti sanno che il manto vegetale della foresta amazzonica
si dispone a strati sovrapposti come se a una foresta se ne sovrapponessero altre. Lo strato più basso è formato da un fitto sottobosco, fatto di arbusti intricatissimi, di felci giganti, di piante carnivore, tra cui i raggi del sole penetrano a stento: tutte queste specie
fanno a gara per uscire dalla penombra e conquistarsi un po’ di luce preziosa. Intorno alle radici contorte degli alberi e intorno ai
tronchi pendono e si avvolgono liane, piante rampicanti e un numero infinito di piante parassite o semplici epifite, che si appoggiano ad altre piante per vivere, formando un groviglio inestricabile. Interessante digressione, no?
Dapprima si pensa ai deliri della febbre. Eppure era fredda, gelata. Carla Holms (una qualche nipote o figliastra, ma più nipote,
essendo figlia di una figlia della Vedova Apostolo, che di figli in
tutto ne ha sette) le prese una mano, John Blanchard accese una
sigaretta. Ma ecco una specie di improvvisata: tra gli invitati c’è un
famoso medico, uno che conosce bene la Vedova Apostolo, uno
che sa quanti soldi ha donato alla ricerca, quanti alla politica, quanti all’università, quanti al Governo. Il dottor Swanson cammina
avanti e indietro e si arrabatta nella stanza con affanno, tra gli
strumenti – “servirebbe qualcosa, che so, un infuso alle erbe, una
radice terapeutica” – e ausculta il cuore della Vedova Apostolo
preoccupato, tenendole aperte le palpebre, la palpeggia, la tocca.
La Vedova Apostolo lo lascia fare: “Vuoi scopare, cocco?”, chiede, e ciò scatena l’immediata reazione del maggiordomo: ma che
diamine, Vedova Apostolo, con centoquattro anni!
Il maggiordomo è un bravo cristo di settantanove anni, lavora
con la Vedova Apostolo da cinquantacinque e qualche volta l’ha
anche scopata, infatti c’è chi prontamente maligna: “uno dei sette
217
figli della Vedova Apostolo è praticamente uguale al maggiordomo!” : è quasi un urlo sottovoce, tanto che il presunto figlio del
maggiordomo (Jerry) sente tutto e interviene: “Se fossi figlio di un
maggiordomo pensa che questa sera sarei invitato qui, madamoiselle? Avec la crème de la crème? Ma guardi il mio doppiopetto,
non è magnifico? Très magnifique, oui. E specie vorrei far notare
l’eleganza con cui lo indosso. È forse l’eleganza del figlio di un
maggiordomo? Oh no, no di certo”. Si trattava davvero del figlio
del maggiordomo?
Ma guarda la Vedova Apostolo, adesso sembra fare le fusa in
direzione di Antony Landon, suo bis bis nipote, che avrà sì e no
vent’anni. L’ha chiamato a sé, gli mormora qualcosa nell’orecchio;
una dice: “sta facendo la troia!”, ed è proprio quello che sta facendo. “E con suo nipote!”, dice un’altra. “Col suo bis, bis nipote!”,
dice un’altra ancora. Gli deve aver chiesto di metterla in piedi, la
simpatica vecchina, perché Antony la prende in braccio e la solleva. Antony è davvero un bravo ragazzo, è uno studente modello
di architettura ed è nella squadra di nuoto della scuola, aiuta i negri
e gli albanesi in campagna, lui che è bis bis nipote della più grande
possidente terriera del Sabbionasso e forse dell’intero Paese, coi
suoi centottantamila acri di terra, le sue mandrie, i suoi cavalli e
soprattutto le sue fabbriche di organi sessuali maschili riprodotti
in lattice e automatizzati. A proposito, in braccio al giovane nipote
come una ragazzina innamorata, come una sposina che non vede
l’ora di fare l’amore, la Vedova Apostolo grida: “il mercato dei vibratori è in vacca!”, e il Signor Togg, economista di grande fama,
s’affretta a contraddirla: “ma no cara Vedova, il mercato dei giocattoli sessuali va alla grande, dildo e vibratori che non immaginate neppure”. Ma adesso alla Vedova Apostolo i sexy toys non interessano più e appoggia il capo alla spalla di Antony. Poi lo solleva
di quel tanto che basta per invitare i commensali a seguirla in sala
da pranzo. Dice: “sedetevi tutti”, e tutti si siedono. Il tavolo è di
puro rovere, sapete? Settantanove posti, neppure una regina ne
possiede uno così grande. Tutti si sedettero. Silenzio. Si guardarono tutti. Ma che bello vedere la famiglia riunita. Sette figli (tre maschi e quattro femmine) con rispettivi consorti e rispettiva prole
(in tutto una quarantina di persone, più le alte sfere, economisti e
notai e avvocati e medici e politici e insomma quelli che abbiamo
218
già menzionato). Che silenzio. La Vedova Apostolo (che si è seduta accanto al marito della terza figlia, Luis, e se lo mangia con gli
occhi) ammicca, e un’altra vecchietta sembra essere particolarmente su di giri: si chiama Metilde Umbilk ed è amica della Vedova
Apostolo da settant’anni. Continua a ridere e urlare e ancora ridere, ma di gusto, proprio con quella risata grassa o cachinno o cosa
che la rende insopportabile. È una vicina di casa povera in canna,
con lo sguardo perso nel vuoto e un podere in rovina. Abbandonata dai figli, vedova anche lei da tempo immemore, vive con la
Vedova Apostolo da cinque anni.
Io mi sono seduto accanto alle figlie della zia Sandra, che son
mie cugine. Io sono Frank e ho istinti indomabili, paurosi. Ciascuno di loro è come un ratto che rode infaticabile le fibre della ragione e strascica ripugnante nello sporco del mio recondito seminterrato, fondale di una preistoria riemersa. Insieme a loro stanno le
mie vergogne, nascoste tra le bottiglie di vino e i circoli viziosi della mente, le indoli e gli sragionamenti. Si popola di creature mitiche, questa landa: accanto alle cassandre, nella polvere arcadica
giacciono gli archetipi della mia razza replicante, l’orribile attitudine al vizio, la materia che assume una forma e tiranneggia: e la mia
voluntas è un automa precipitato dal tessuto della sua umanità. Io
sono Frank e sono un gran bel ragazzo. Le donne fanno la fila per
venire al cinema con me.
Frank si voltò lentamente e cominciò a piangere, prestando attenzione a non essere visto.
Arrivano gli antipasti, e via col banchetto. Eh che cristo, Vedova Apostolo, aspetti almeno che tutti siano pronti. E poi non dimentica la preghiera? “Che sbadati, stavamo dimenticando la cosa
più importante. Dobbiamo pregare!”, urla qualcuno. “Affanculo la
preghiera”, dice la Vedova Apostolo, e tutti quelli che avevano già
le mani giunte le disgiungono e si avventano sul cibo. C’è un certo
abisso che ci inghiotte tutti, quando s’avvicina la morte. Questo lo
dice qualcuno dall’altra parte del tavolo, e Frank non poté stabilire
chi fosse.
219
“Mr Bregend, ci reciti una poesia”, fa la Vedova Apostolo
all’improvviso, mentre l’amica Metilde Umbilk continua la sua risata (Mr Bregend fa il poeta, dice); ecco Mr Bregend: “Tutto fa
scempio di me / in questo pomeriggio allegorico / di miti squassati dal vento / nella carta del bosco. / Nel fosso delle immagini /
solo la pietra a forma di pietra / sembra essere solo una pietra”.
“È una merda, Mr Bregend”, dice impassibile la Vedova Apostolo, mentre i primi applausi erano già partiti, ora strozzati. “Ma
Vedova!”, urla il maggiordomo, “Mr Bregend è uno dei massimi
poeti della nostra epoca”. “Non è colpa mia se la nostra epoca
produce solo merda”, dice la Vedova Apostolo. “Cristo Santo”, fa
il maggiordomo. Poi la Vedova Apostolo dice di affrettarsi perché
ci aspetta il clou della serata, che è una sorpresa, e poi via, tutti affanculo, ognuno a casa propria. “Oh Gesù, ma chiamate un prete!” dice il dottor Swanson, riferendosi probabilmente a quel reverendo negro esperto in esorcismi. Teresa Gattoni prova a esibire
la sua cultura medica: questo è un caso di Alzheimer bell’e buono,
dice. Ma stia zitta, fa il barone Meich, lei non capisce niente. Meno
di niente, aggiunge il dottor Swanson. Per me è un caso di demenza chiaro e lampante, fa la Teresa Gattoni. Demenza! Cosa mi
tocca sentire! Sogghigna il dottore. Lasci che le diagnosi le facciano i laureati in medicina, gli iscritti all’albo dei medici, gli abbonati
alla Medical Review! Io mi rifaccio solennemente e ufficialmente
all’autorità del Committee of Geriatrics del Royal College of Physicians britannico, il quale tra l’altro afferma che (cito testualmente) la demenza consiste nella compromissione globale delle funzioni cosiddette corticali (o nervose) superiori, ivi compresa la
memoria, la capacità di far fronte alle richieste del quotidiano e di
svolgere le prestazioni percettive e motorie già acquisite in precedenza, di mantenere un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive: tutto ciò in
assenza di compromissione dello stato di vigilanza. La condizione
è spesso irreversibile e progressiva (fine della citazione testuale).
Le sembra questo il caso? Ma suvvia, amici cari, questo è un comportamento, per così dire, stravagante, quello sì, ma che diamine,
da questo alla demenza ce ne passa! Si scalda, il dottore. E per di
più mancano i sintomi classici della malattia, prosegue, come am220
nesia, aprassia, anomia, agnosia, disorientamento, acalculia e agrafia. Tutti concordano.
Ma la Vedova Apostolo zittisce tutti, ancora una volta: “è vivere la morte. C’est a dire, il y a pas de courage, only l’ennui. È la sacra speme, il paretaio preso nel becco dal pettirosso, l’urna vuota
che Dio non può vedere. Ah miei barbari spettatori, miei profughi
dell’anima, giovani bastardi voi sarete i miei persecutori, i miei soli
figli e nipoti. Mi chiamerete Medea, Agave. Pretenderete il mio
sangue, percuoterete il mio corpo e lo nasconderete senza sepoltura, voi senza dio, figli dell’uomo”. Si guardarono a lungo. Metilde
aveva preso a tossire a forza di ridere.
E poi andiamo, che c’è il clou. Il clou è l’evocazione del povero
marito della Vedova Apostolo, il Commendator Alfredo Apostolo, padrone di tutto prima che un bell’infarto unito a un tumore e
a un aneurisma lo togliessero di mezzo. Ci mise quasi tre anni a
crepare, ma fece un bel botto, perché si lanciò dal tetto del fienile,
aiutato a salirci da chissà chi.
Entra la Maga, è davvero uno spettacolo: comincia a sussultare
ma non succede niente, e la Vedova Apostolo è infastidita. “Vacca
boia”, dice, “non succede niente”. “Ma Vedova!”, fa il maggiordomo, e lei continua urlando “Alfredo! Alfredo! Era così bello e in
forze che me lo scoperei anche da spirito”. “Ma cosa dite, Vedova, con centoquattro anni!”, fa il maggiordomo, mentre la maga
sussulta ancora, ma niente succede. “Taci Sigurd”, fa la Vedova
Apostolo, “non è che essere il padre di mio figlio ti autorizza a
rompermi i coglioni”. Tutti si voltano verso Jerry, che gettato il
tovagliolo sul tavolo esce indemoniato, seguito dal padre maggiordomo. La situazione comincia a farsi un po’ tesa, nella sala da
pranzo della Vedova Apostolo; ora la maga sussulta, caccia un urlo, le esce la voce del Commendator Apostolo. “Porca troia!”, grida uno; e “Cielo, il commendatore!”, fa un altro. “Papà!”, dice la
figlia più piccola della Vedova Apostolo e del Commendatore
Apostolo (che avrà settant’anni e ha già due figli e quattro nipoti).
Ma silenzio, che diavolo, fatelo parlare. Il notaio Heblos ha portato una bottiglia di scotch e la offre alla maga. “È di prima qualità”,
dice.
“È questo che intendo, fatelo sapere al vostro dio”, dice. “È
venuto giù scarnificato, pestato in volto, lardellato per bene, una
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volta che la vita mi stava morendo tra le mani come fosse acqua,
(il piccolo nano barbuto dei condotti). E adesso lo vedi, una grama volta che avevate portato il bere, stronzetti umanisti (fuori si
mettevano nudi come pittori d’idee – il movimento era la noia,
l’inerzia – e parlavano di filosofia orientale, di cose da trovare* – ),
[*che poi, molte cose meglio perderle che trovarle, ad es. la filosofia orientale]
mi ricaccia in gola il fiato mentre piscio nei pantaloni per queste
luride pustole di cancro, mi taglia in due la camicia un rivolo di
sangue marcio, lo stesso di mio nonno e di suo nonno prima di
lui. E rimango lì spolpato o annullato a brusire, bramare un respiro aggrovigliato a quei corpuscoli di vita, quasi coriandoli invisibili
che l’aria soffia tra me e me, insensati come animali. Poi se n’è andato, il vostro dio, con l’onda calda del niente che l’ha portato via
dal mio schifo di corpo, suppurato, addormentato. E adesso chi la
toglie la puzza, chi pulisce il piscio sul pavimento?”. Ecco che ha
parlato.
Ma il mercato dei vibratori? È in ribasso o in rialzo? Chiede
l’economista. “In ribasso, idiota”, risponde il Commendatore. Ma
lasciamolo parlare, santo cielo, uno arriva dal regno dei morti avrà
il diritto di parlare. Frank è spaventato. Si voltò ancora e si mise a
piangere. “Brutto stronzo”, fa la Vedova Apostolo riferita al marito, “mi hai tradita”.
“L’ho fatto”, afferma il commendatore, che ora ha un paio di
tette grosse come cocomeri e un gargarozzo da maga cicciona di
nome Iris. “Ma è un ricordo tramontato. Soffocato da una presenza ingombrante - la sua - volto occhi e tutto insieme anche il seno
e il culo, che meraviglia di notte agitata. Quando glielo misi sembrava piangesse perché era sposata da due anni e venne ripetutamente tanto che mi fece uscire due volte per i suoi sobbalzi. In
fondo. Fu una notte di lotta senza alcuna poesia; pensai alla regola
di Goethe “oziare quando non si presenta nessun tema o uno che
non si possa degnamente trattare”. Mi rifeci alla sua alta parola
pur odiando la sua razza. Caldo soffocante, ero sudato marcio e
stranamente non ricordo più. Il profumo delle lenzuola lo sbattere
del ventilatore il vento dalla finestra che inondava la stanza la percezione dei quadri che sospendeva l’aria nel cervello vuoto. Neppure un nome un numero in rubrica un tratteggio nel chiaroscuro
delle sensazioni una voce nell’orecchia sporca del rimorso. Solo le
222
particelle del mio cervello a confondersi con quelle del gin e al triste blaterare di Schopenhauer.”
Ancora silenzio. La Vedova Apostolo tira un rutto cavernoso.
Il maggiordomo non c’è più. Com’è arzilla la vecchia centenaria:
con una specie di balzo si scaraventa contro la maga Iris e tenta di
strozzarla, mentre alcuni la trattengono. Il dottor Swanson pensò
alla morfina, alla stricnina, all’endorfina, all’eroina. “Una volta sì
che avrebbero saputo cosa fare. Un bell’elettroshock e via”, disse
uno. Il commendatore c’era ancora, nell’involucro della maga, e
disse: “Il mercato dei vibratori è in malora, brutte teste di cazzo!
Inventatevi qualcos’altro”. “Dev’essere colpa dei musulmani, che
ci stanno col fiato sul collo”, mormorò qualcuno. “Ma io l’amavo,
quel figlio di puttana”, dice la Vedova Apostolo, “e l’ho aiutato a
togliersi di mezzo, quando ha voluto”. Manda tutti al diavolo, la
Vedova Apostolo: “andate tutti al diavolo!”.
Qualcuno le fa presente che ci sono due divinatori inviati da
una delle migliori Agenzie di Sabbione pronti per
l’Aggiornamento Obbligatorio Annuale, e lei si surriscalda. “Fuori
dalle palle. Per oggi ne ho abbastanza di buffonate”, dice, e lo dice
con un tono definitivo, ultimo.
Quando è sola riflette, pensa ancora mi muovo, merda, inaspettatamente, come le zampe di un ragno schiacciato, poiché muovo
un’ombra senza corpo verso un posto che non m’importa; comincia a biascicare le sue ingiurie cosmiche contro il Gerarca Eletto, il
Governo, il Calendario, si sbronza con una bottiglia di gin, accende lo stereo, balla e stramazza al suolo, abusivamente, sorridente e
goduta, verso un posto che davvero non le importa, con un vibratore grosso come una zucca infilato tra le gambe. E che cristo, Vedova Apostolo, con centoquattro anni!
223
IL MOMENTO PIÙ BELLO DELLA VITA DI KATIA
Per come lo ricordo io il giorno che siamo andati all’Outlet della Sposa è finito a schifìo ancor prima di cominciare, quando facendo la retro col Fiorino di mio padre investiamo un tacchino e
mio padre s’incazza come una biscia. Ma il problema del Fiorino,
dice zio cancro, è che non vedi un cazzo di niente quando fai la
retro, e gli specchietti quella volta erano pure posizionati male. E
così facciamo la retro e schiacciamo un tacchino e partiamo per
l’Outlet della Sposa a vedere se riusciamo a trovare un vestito da
sposa per me che devo sposarmi tra un mese esatto, e non un vestito qualunque, che minchia, ma un vestito coi controcazzi come
quelli delle serie televisive americane sul canale 31 del digitale terrestre.
Il mio futuro marito ha una mascella fantastica e io si può dire
mi sono innamorata della sua mascella, se fossi capace ve la descriverei ma mi sa che non sono capace, così vi dovete fidare del
mio giudizio quando dico che il mio futuro marito ha una mascella
da paura, e non solo del mio giudizio ma anche di quello delle mie
amiche Tessa, Ronda e Patti, che sbavano tutte le volte che vedono la sua mascella, per non parlare del Dodi, che è un frocio fatto
e finito e si masturba pensando alla quella stessa mascella che invece è solo e soltanto mia, anche se a zio cancro gli fa schifo, il
mio futuro marito, e non lo dice così tanto per dire ma gli fa proprio schifo come uomo, dice zio cancro, da quella volta che è rimasto senza soldi e mi ha chiesto un piccolo aiuto economico e io
ho pianto tre giorni di fila per chiedere i soldi a mio padre e gli ho
detto pà, ma cosa vuoi che siano tre milioni per te che c’hai i milioni in banca.
E così io e lo zio cancro siamo partiti per l’Outlet della Sposa
per comprare un vestito da favola e ho dato appuntamento a Tes224
sa, Ronda, Debora e al Dodi, che in fatto di vestiti da nozze c’ha
un gusto meraviglioso.
Il Dodi si chiama Giorgio e non ho mai capito perché lo chiamano Dodi, che mi è sempre sembrato un nome di merda, ma se
provi a chiamare Giorgio il Dodi quello neppure si gira, e allora se
l’è voluto lui, penso, e lo chiamo con quel nome da deficiente
anch’io.
Zio cancro invece lo chiamiamo così perché ha un cancro dalle
parti della prostata, dice, e deve morire o ammazzarsi da quindici
anni, solo che non muore e non si ammazza mai, e abita con noi e
mangia come un lupo e sembra che sta benissimo, tanto che non
lo so mica se il cancro ce l’ha veramente.
Comunque sia l’abito della sposa, io credo, è importantissimo
per un matrimonio. E voglio sceglierlo con i controcazzi, davvero
figo, dato che sarà l’unico abito bianco da nozze che indosserò in
vita mia, e lo indosserò precisamente tra un mese esatto da oggi,
sempre che il nonno si decida a crepare entro domani sera, perché
se non crepa entro domani sera finisce che mia madre mi costringe a un mese di lutto e mi fa saltare la data del matrimonio, che ho
già prenotato la chiesa da un anno e mezzo, cribbio, mandato gli
inviti e le partecipazioni, prenotato la Sala Azzurra del Ristorante
Ukulele, dove hanno sette sale per sette ricevimenti in contemporanea, roba da professionisti veri, e se mi salta la data prenotata mi
tocca spostare tutto di un anno o anche più.
E allora il nonno dovrebbe crepare entro domani sera. Cioè,
fermi tutti, non vorrei che crepasse, mi dispiace che crepa, sia
chiaro, solo che da un mese si sa che deve crepare perché non ne
può più, è malato come una merda d’uomo, col cuore mezzo andato eccetera eccetera, i tubi e l’ossigeno eccetera eccetera, e allora
dico io, se deve crepare, perché tanto deve crepare, e sia chiaro,
mi dispiace, mi piacerebbe se crepa entro domani sera, in modo da
avere il mese di lutto che mia madre pretende e poi sposarmi due
giorni dopo contenta e beata come ho sempre desiderato fare.
Perché se invece metti che crepa tra una settimana, ed è un cazzo
di lunghissimo mese che i medici dicono domani crepa, domani
crepa, e lui non crepa mai perché, dice zio cancro, c’ha la pellaccia
225
tipica della nostra famiglia, dicevo metti che crepa tra una settimana/dieci giorni, allora non ci stiamo dentro neanche per il cazzo,
alla data di nozze, dato che la mamma non transige con questo
benedetto mese di lutto e rompe i coglioni che non vi dico; che
poi chissenefrega, dico io, se mi sposo una settimana dopo che il
nonno è crepato, dico, si fa una festa dopo un lutto, ma la mamma
dice che non si può e comincia a piangere e mi urla addosso cose
bruttissime tipo che a me non frega niente di suo padre (che è mio
nonno) eccetera eccetera, mentre le altre cose ve le lascio immaginare perché non mi va di spiattellarvi le continue lagne di mia
mamma, come per esempio una è quella volta che voleva accompagnassi a Lourdes zio cancro e ci rompeva l’anima con questa
storia della Madonna che fa i miracoli e che una sua amica con le
gambe gonfie come un pallone è tornata da Lourdes con le gambe
che sembrava Kate Moss e allora andiamoci, abbiamo detto, anche se poi non ci siamo mai andati, perché alla fine basta dirle sì, a
mia mamma, poi ci andiamo, poi lo facciamo, che lei è contenta è
non scassa più la minchia, e tu hai un po’ di pace e tranquillità, che
se invece le dici no mamma, che palle mamma, eccetera eccetera,
poi finisce che ti stressa all’inverosimile, ti si attacca come una
cozza e non ti molla più con le sue raccomandazioni, commissioni, consigli, eccetera, eccetera, che poi ma che cazzo se ne fa zio
cancro di andare a Lourdes che son quindici anni che ci tira dietro
con sto cancro delle palle, e sta meglio di tutti noi messi insieme.
Vabbè allora partiamo per l’Outlet della Sposa e non siamo ancora partiti che lo zio si accende una sigaretta sul Fiorino, dove
mio padre si era raccomandato di non fumare perché il puzzo di
fumo stantio gli fa venire il vomito, tanto che me ne accendo una
anch’io e ci facciamo una bella fumata sul Fiorino di mio padre
che rompe sempre le palle di non fumare ma il viaggio è lungo, dice lo zio, e uno col cancro mica si può fermare ogni dieci chilometri per fumare una sigaretta, dice, e non ha mica tutti i torti, penso.
Comunque partiamo per l’Outlet che lo zio mi sembra già un
po’ brillo e arriviamo neanche a metà strada che è praticamente
sbronzo, secondo me, per via di dodici soste in dodici bar, che a
me infatti son sembrate un po’ troppe ma allo zio no, perché dice
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che col cancro si deve fermare spesso per pisciare e assumere liquidi. Col cancro che c’ha addosso, dice, gli tocca pisciare spesso,
dice, anche se poi non piscia mica mai, e poi cos’è sta storia, dice,
uno col cancro deve poter farsi un bicchierino quando vuole un
bicchierino, non sono d’accordo? dice, e io dico certo zio, sono
perfettamente d’accordo, perché rifletto e dico se uno ha il cancro,
dico, deve poter bere un bicchierino quando ha voglia di un bicchierino.
Ma zio cancro è così, sempre a stressare tutti, come quando
siamo andati in campeggio l’anno scorso e tutte le sere guardiamo
le stelle perché lo zio c’ha questa ossessione per le stelle che non
so perché vuol sempre vedere le stelle, e dagli con ste stelle, guardiamo le stelle dice, e no, cazzo, dice, fanculo alla luna piena, dice,
uno col cancro non può nemmeno più guardare le stelle che ti arriva addosso questa luce di luna di merda che non basta averci un
cancro, dice, non basta mica, dice, ci vuole anche questa fottuta
luna che ti impedisce di guardare le stelle, oltre al cancro, che se ci
pensi è un’ingiustizia, dice, non è un ingiustizia? penso sia una bella ingiustizia zio, dico, eh puoi dirlo, dice lo zio, non bastava neppure un cancro addosso perché mi potessi concedere un po’ di
buio per guardare le stelle.
In autostrada zio cancro fuma come una ciminiera che io gli dico zio, porca troia, va bene una sigaretta ogni tanto ma tu fumi da
far schifo, cazzo, poi il papà chi lo sente, ma lui se ne frega perché
ha il cancro, dice, e uno col cancro ha diritto di fumare dove cazzo
vuole, dice, e quanto cazzo vuole, dice, non trovi? dice, e io dico
sì, mi pare, zio, dico, uno col cancro può fumare dove vuole, dico,
ecco brava, dice lui, può fumare dove vuole quindi anche sul merdoso Fiorino di tuo padre, dice, e vergognati per come parli, dice,
che parli come in una latrina di Scurzolengo.
Poi mi fa guidare perché uno col cancro non può mica guidare
per sempre, dice, e io dico sì, zio, ma non ho la patente, dico, e lui
se ne frega che non ho la patente, e dice che se ci fermano raccontiamo che lo sto portando all’ospedale perché uno col cancro, dice, mica ci faranno la multa a uno col cancro, cazzo, quei fottuti
227
carabinieri, e così mi metto a guidare quello schifoso Fiorino impuzzato dalle sigarette e lo zio dice di non rompere le palle per un
po’, dice, che vuole dormire eccetera eccetera, solo che c’è troppa
luce e sbraita che minchia, sbraita, non è mica possibile che sto sole non ti faccia dormire, sbraita, e che minchia, sbraita, uno col
cancro non può nemmeno farsi una dormita, uno c’ha il cancro
ma no, col cancro non ti fanno dormire, dice, perché c’è sto minchia di sole, non pensi, dice, ma, zio, dico, il sole è il sole, dico, mi
sa che se ne frega del tuo cancro, zio, dico, ah è così che la pensi,
dice, sì è così che la penso, dico, zio, e allora vaffanculo te e il sole, dice, e poi guidi da far pena, dice, mi viene da vomitare tanto
guidi da far pena, dice, e io gli dico sì zio, ma vedi anche un po’ di
andare affanculo tu, zio, dico, e lui s’incazza come una biscia e
comincia a menarla è questo il modo di rivolgerti a tuo zio, chi ti
ha insegnato l’educazione, cristo, ti dovresti vergognare a mandare
affanculo uno zio col cancro, brutta stronza, dice, e allora mi fa
accostare e si rimette alla guida che mancano ancora centoventi
chilometri e non ne posso già più, di questo viaggio sul Fiorino di
mio padre con zio cancro che rompe le palle come mia madre
moltiplicata per sette.
Dopo un po’ chiedo quanto manca e mi dice ci siamo quasi,
ma poi si ferma a una stazione di servizio e io dico che palle, cazzo, ci siamo già fermati cento volte, dico, e lui per tutta risposta
s’incazza di nuovo e comincia a urlare che le macchine vanno a
benzina, se non lo so, e che mica ci possiamo pisciare dentro per
farle andare avanti, cristo, eccetera eccetera, così finisco per farmi
una pisciata anch’io, in quel cesso profumato dell’autogrill, e compro un salame da portare a casa per il mio futuro marito, che diventa pazzo per il salame.
E comunque alla fine arriviamo all’Outlet che non mi ricordo
che ore sono ma è già buio e giriamo un’ora per trovare l’albergo,
che è davvero un albergo di merda, dice lo zio, e uno che sta crepando di cancro dovrebbe aver diritto a un albergo non dico a
cinque stelle, dice, ma almeno a tre o quattro non ti pare, dice. Dico di sì, zio, mi pare che uno col cancro ha diritto almeno a un albergo a tre stelle, dico. Quattro, dice lui. Quattro dico io, infatti.
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Così siamo all’Outlet e ci infiliamo dentro un bar per farci un
bicchiere di qualcosa; eh dice lo zio, guarda questi caproni, dice,
loro mica hanno il cancro, dice. Magari ce l’hanno, zio, dico. Ma
quale cancro e cancro, dice.
Dopo un’ora è già fritto dal gin e attacca bottone con una coppia di signori per bene seduti al bar, lei sulla sedia a rotelle, che io
dico zio, andiamo a letto, dico, ma non rompere le palle, dice lo
zio, uno col cancro deve vivere ogni attimo che il merdoso cancro
gli concede, dice, concordi? chiede, sì che concordo zio, dico, e lo
guardo mentre offre un giro di gin alla coppia seduta al bar, solo
che poi sono sfinita e me ne vado per i fatti miei, chissenefrega di
zio cancro, me ne vado in stanza e m’attacco al telefono col mio
futuro marito e ci diciamo un po’ di porcate, che mi tocco anche
nelle parti intime pensando alla sua mascella da sesso che quasi
vengo, e fumo una quantità industriale di sigarette e bevo una
quantità imbarazzante di mignon di whisky pensando al mio vestito del giorno dopo, che alla fine crollo sul letto e mi sveglio alla
mattina con la testa che mi esplode.
Incontro Tessa, Ronda, Debora e il Dodi a colazione e ci facciamo qualche urlettino, oh mio dio Katia si sposa con quel pezzo
di figo, cinguettano, quel pezzo di figo, starnazzano, che io mi
scaldo e dico datevi una calmata o lascerete una pozzanghera di
bave sul pavimento, dico, mentre zio cancro ci raggiunge ancora
mezzo sbronzo dalla notte prima, secondo me, tanto che quando
vede il Dodi gli stringe perfino la mano, cosa che lui i finocchi li
brucerebbe tutti, come anche gli ebrei, dice, soprattutto i vicini di
casa, dice sempre guardali lì, gli ebrei, sono felici perché hanno patito la scioà, dice, felici come delle pasque, dice, e io dico sempre
zio ma che cazzo dici, e lui dice sempre muta tu, che senza Hitler
gli ebrei cosa sarebbero, dice, eh? Cosa sarebbero? non sei convinta, dice sempre, no zio, dico sempre, non sono mica convinta, dico, e dice sempre che l’unica cosa che invidia agli ebrei è questa
scioà e che per quel che ne sa lui potrebbero andare tutti affanculo, gli ebrei, perché i nostri vicini sono ebrei e sa di cosa parla, dice, quei fottuti, sempre a piagnucolare e a scrivere dei forni crematori e dice me l’hanno fatto a fette con queste storie, mi hanno
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rotto i coglioni, hai capito, dice sempre, e dico sempre sì, zio, ho
capito, anche se devo ancora capire bene cos’è sta scioà.
E allora siamo dentro al negozio, io le mie amiche con zio cancro e fa un caldo porco, dice lo zio, uno col cancro non ha neppure diritto a un po’ d’aria condizionata, cristo, e la commessa dice
spiacente l’impianto è guasto, dice, e lo zio dà di matto ed esce
subito in strada che non lo vedo più fino a sera, e meno male, però fa un caldo porco veramente, dico, eh, dice la commessa, eh,
dico io, e mi provo il mio primo abito da sposa della mia vita, che
però è davvero una merda, penso, e così ne provo altri nove finché il decimo è perfetto, cazzo, che costerebbe settemila euro ma
mi fanno duemilacento per via di una bruciatura di sigaretta sulla
coda che manco si vede, penso, ma l’abito è davvero una figata
pazzesca, non trovate anche voi, chiedo quando esco per farmi
vedere dalle mie amiche e aspetto gli urlettini, anche se quelle
quattro stronze non urlano mica, cristo, che infatti chiedo com’è
sta storia che non fate gli urlettini, chiedo, e loro sempre zitte, cristo, che alla fine m’incazzo di brutto e loro sputano l’osso facendo
parlare il Dodi, che da buona checca non ha peli sulla lingua, e così vengo a scoprire che secondo loro l’abito perfetto non mi sta
bene, cazzo, così mando tutti affanculo e chiedo alla commessa un
altro abito, poi un altro e un altro ancora che alla fine ci stiamo
sette ore, merdaccia, e zio cancro sarà già cotto fino agli occhi in
qualche bar, e in più sto in apprensione per il nonno che se crepa
bene, altrimenti sono cazzi acidi, penso, e così è quasi buio che finalmente esco con un abito da seimilacinquecento euro che mi
fanno millenovecento per una macchia di vernice che ci metto poi
su qualcosa, tipo un fiore e che ne so, e quelle quattro stronze finalmente cominciano a urlettare, ad abbracciarmi, a dare fuori, eccetera eccetera fino a quando qualcuno dice s’è fatto tardi, cazzo,
ed è tardi davvero, così mi sbrigo a cercare zio cancro tra i bar
dell’Outlet e lo trovo dopo mezz’ora che si sgola una pinta di birra, cotto come una pera mentre spara minchiate a raffica con dei
tipi grassi e puzzolenti che appena arrivo uno fa per toccarmi il
culo, merda, e io gli rifilo una pizza col dorso della mano dove
tengo l’anello di fidanzamento, non ti azzardare, dico, testa di un
cazzo, dico, e zio cancro mi guarda con una faccia che mi viene
230
voglia di prendere a schiaffi anche lui, poi ricomincia a blaterare di
guerra e militari e che cazzo ne so, e dopo un quarto d’ora sono
stufa marcia e gli dico andiamo, zio, che è tardi, porca troia, ma lui
niente devo finire il concetto, dice, che uno col cancro deve finirli
i concetti, prima che sia troppo tardi, dice, e poi vomita anche
l’anima sul pavimento del bar, tanto che il barista ci fa smammare
e io lo ringrazio, porco giuda, anche se al ritorno mi tocca guidare;
ci mettiamo sul Fiorino e zio cancro ricomincia a rompere le palle
che guido da far pena e gli torna il vomito eccetera eccetera, e infatti mi fermo tremila volte per farlo sboccare a bordo strada, e lui
è lì che si lamenta perfino mentre sbocca, cazzo, sputa e si lamenta che non c’è la corsia d’emergenza perché quelli col cancro, dice,
dovrebbero sempre avere una corsia d’emergenza, sputa e si lamenta che le donne non dovrebbero dargli la patente, dice mentre
sputacchia, e dice che tanto il nonno non crepa mica, dice, che il
matrimonio col testa di cazzo me lo devo scordare proprio, dice,
che a me mi prende una depressione da paura, vi giuro, sono in
paranoia totale pensando di dover rimandare il matrimonio e mi
prende un groppo in gola che mi accendo una sigaretta dietro
l’altra, merda, almeno fin quando non ricevo la telefonata della
mamma disperata perché il nonno è morto da cinque minuti, e
quello è il momento più bello della mia vita.
231
VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (6)
___________________
Il dodici giugno, Giornata della Paternità-Garantita-AlNovantaquattro-Percento Spermamax™, alle ore diciassette e
trentanove minuti, un tizio alto con una calzamaglia arancione si
lanciò di corsa sotto il tram venticinque all’angolo tra Corso Lano
da Siena e Piazza dei Gerarchi, determinando un immenso ingorgo automobilistico nel quale si contarono dodici auto tamponate,
un paio di pedoni feriti, nove automobilisti ammaccati, l’orologio
della Farmacia Braun semidistrutto.
Si occupò del caso l’Ispettore di Nettezza Umana Sigfrid
Traumerei, che giunse sul posto accompagnato da un amico non
appartenente al Dipartimento, un osservatore interessato alle dinamiche lavorative degli ispettori di Nettezza Umana e appassionato
di pulizia e bonifica.
Il cadavere fu riconosciuto come Aldous W. Fulloj, trentasette
anni, idraulico di Brindellamonte, abbandonato dalla moglie pochi
mesi prima, che nella tasca del gilet conservava un paio di ricevute
e un biglietto in cartoncino azzurro, sul quale era annotata la frase:
l’amore ci strazierà. Gloria al Monaco Arancione.
Quando giunsero sulla scena del suicidio, Traumerei e l’amico
si resero immediatamente conto che doveva trattarsi di un suicidio
abusivo. Intanto perché non trovarono i caratteristici biglietti del
Ministero Suicidi & Festività®. Inoltre, come fece notare Traumerei sfogliando un libro con gli orari dei tram, i suicidi contro o sotto mezzi pubblici erano consentiti soltanto in determinate ore della giornata, proprio per non causare disagi agli automobilisti.
Per il resto, la scena del suicidio era un disastro: l’elevata velocità del tram in quel punto aveva fatto sì che l’idraulico fosse travolto e trascinato per molti metri, rimanendo peraltro decapitato dal
rostro anteriore del mezzo pubblico.
Il medico legale disse che la morte era sopraggiunta per decapitazione.
Sul posto furono inviate due squadre di Nettezza Umana, che
arrivarono a sirene spiegate facendosi largo con grande fatica tra le
altre automobili e impiegarono più di un’ora e mezza a rassettare
la scena.
232
Era la terza volta in pochi mesi che Traumerei indagava su un
suicidio abusivo, e la cosa gli parve preoccupante.
Questo Monaco Arancione, disse buttando giù un sorso di
whisky, sta notevolmente rompendo i coglioni.
L’amico di Traumerei annuì, e l’ispettore tornò in ufficio per
stendere un rapporto dettagliato.
***
233
IL FIUME
Il fiume è sporco e morto e cancheroso ma ci dà da mangiare,
porco mondo, provate a chiederlo a Neto Sherpoj, che da quando
l’acqua è pitturata ha perso i quattro pescatori rammolliti che venivano a lordare gli argini ma ci ha guadagnato nove turisti al
giorno che scattano fotografie a mitraglia.
E nove turisti al giorno per l’agriturismo pidocchioso del Neto
voglion dire sigarette ogni sera per lui, denti nuovi per sua moglie
e una bicicletta per quei poveri diavoli di figli che si ritrova.
E allora chi vorrebbe barattare i turisti che vengono per l’acqua
che la fabbrica ci pittura di tutti i colori che Iddio ha messo in terra con quattro pesci denutriti manco buoni per venderli al mercato
di Pizzengo? Noi no di certo, porco mondo, noi vogliamo tenèrci
il fiume pitturato dalla fabbrica anche se ci svegliamo col mal di
testa e ci addormentiamo con la puzza di marcio che ti sfonda le
narici e col fenolo che dicono ti buca il cervèllo. Ma tanto, dico io,
qui di cervelluti non ce ne sono mica, e un buco in più o in meno
nella materia grigia non può far più danni che una mano a briscola
persa la sera al bar, quando ti giochi mezza vigna, porco mondo.
Ce l’ho detto ai tizi che son venuti con megafoni e cartelli ad
abbaiare per l’inquinamento, sempre pronti a latrare come cani bastonati, c’ho detto fatevi gli affari vostri, porco mondo, che ai nostri ci pensiamo noi, e il nostro fiume che ci ha cresciuti con le
piene e le secche ce lo guardiamo da noi, senza bisogno che se ne
interessano i forestieri, porco mondo, ho aggiunto un porco mondo e ho sputato nella sabbia dell’argine, porco mondo, e quelli per
tutta risposta mi han guardato e mi han detto che non sapevo cosa
stavo dicendo e si sono accampati per fare i prelievi.
Cristo santo, ho detto a mia moglie, adèsso i prelievi li fanno
anche al fiume, e lei mi ha dato dell’ignorante, capite? mia moglie
234
mi ha dato dell’ignorante perchè sette pivelli di città son venuti a
fare i prelièvi al fiume, manco fosse un malato; così mia moglie ha
detto che più che malato il fiume è morto e io mi sono imbestialito, porco mondo, perchè in drogheria non si vendeva tanta roba
dai tempi della guerra, le ho detto, porco mondo, e se ai turisti
piace guardare il fiume pitturato e se i turisti vengono in negozio
per comprare sigarette e assorbenti, spazzolini e lampade, allora
anche a noi piace che il fiume sia giallo e verde e rosso e viola, anche se non ci possiamo fare il bagno, che tanto erano dodici anni
che non toccavate l’acqua, le dico, e adesso vi lamentate che non
ci potete fare il bagno, e allora mia moglie mi ha dato
dell’ignorante e io questa cosa che mia moglie mi dà dell’ignorante
per colpa di quei pivelli di città mica la faccio passare liscia così,
porco mondo, perchè va bene che mi si dà dell’ignorante quando
bisogna far di conto o quando si tratta di misurare un terreno o
quando mi deridono per la mia pronuncia apèrta da campagnolo,
ma sfido chiunque a sostenere che sono ignorante quando si parla
del nostro fiume, porco mondo, che ci son praticamente nato, in
quelle acque, ci sono nato come son nati i miei figli e come son
nati i figli dei miei figli e tutti gli infami di questo porco paese.
Ma prendete Garaboj, il pescatore, sempre deprèsso e magro
come una lisca ingobbita, che da quando la fabbrica butta la poltiglia colorata nel fiume lascia a casa quelle canne da due soldi e accompagna ciccioni tedeschi nelle anse per scattare fotografie,
prendete il mio figlio più piccolo, che si è guadagnato un trenino
rosso fuoco solo conducendo al vecchio ponte quattro svizzeri
con cappelli che sembravano usciti da un altro mondo, porco
mondo. E mi si viene a dire che il fiume è cancheroso ma che cosa ci possiamo fare contro i cancheri che la vita ci tira addosso
come piètre, dico io, anche se sputo arancione e starnutisco vèrde,
porco mondo, anche se l’acqua potabile è una brodaglia mèlmosa
e puzzolente, son cose che si devono accogliere se il negozio è
pieno di clienti che comprano mascherine per respirare e batterie
per le macchine fotografiche, perchè è il Signore che ci ha mandato quelli della fabbrica di colori a darci lavoro come se ci avesse
mandato la cuccagna, cristo santo, e il Signore non si sbaglia se
decide di mandarti un dono impacchettato con le ciminiere e il
cemento e tutto il resto, dico io, ma quelli di città mica lo capisco235
no, e neppure mia moglie, perchè ormai nessuno riesce a scorgere
i doni del Signore neppure se il Signore glieli scaraventa sotto al
naso, porco mondo.
Per questo ho messo su un gruppo di gente per bene che insomma può lottare per una giusta causa, voglio dire, finalmente
può far sentire la voce senza usarla sempre solo per bestemmiare
al bar, e siamo andati a far sentire le nostre ragioni a quelli che abbaiano contro la fabbrica, che se ci penso mi viene un nervoso
nèro, porco mondo, ma quei cani niente, sempre lì a picchettare e
a ululare come lupi accanto all’argine, proprio a tre metri
dall’acqua pitturata dalla fabbrica che ci porta i turisti e tutto il resto, tanto che hanno già messo in guardia le persone di non avvicinarsi e le persone son stupide e non si avvicinano, in maniera
che i turisti ci scappano come topi per paura di prendersi un mal
di pancia o un canchero, e sì che ho messo in vendita le mascherine da respirare a un prezzo più che onesto.
Me lo diceva sempre, mio nonno, che il fiume è come una fornace che ci fa nascere e crescere e se è il caso ci fa anche crepare,
ma io non lo so mica cosa voleva dire quando diceva che il fiume
è come una fornace, perchè per me il fiume è solo un fosso pièno
d’acqua che scorre verso il mare e niente più, e se la gente vuol
vederlo scorrere dipinto di tutti i colori che il Signore ci ha voluto
regalare, allora tanto vale farglielo vedere, porco mondo, senza
contestare le scelte che il Signore ha fatto per noi.
È per questo, dico io, che abbiam cercato di far sloggiare quei
cani cittadini coi cartelli e le tende e i sacchi a pelo e per un po’ ci
siamo anche riusciti, solo che mia moglie ha continuato a darmi
dell’ignorante, del rozzo, e porco mondo quanto è vero che il Signore ci ha concesso la donna, io quella donna l’avrei strozzata
con le mie nude mani, cristo santo, perchè le donne dovrebbero
parlare solo quando interpellate invèce di starnazzare ai quattro
venti i loro giudizi da donne. E così le ho urlato che il trenino per
nostro figlio senza i turisti ce lo potevamo scordare e che la moglie di Sherpoj a quest’ora sarebbe ancora senza quattro denti davanti, e lei mi ha risposto che per quello che gliene fregava la moglie di Sherpoj poteva anche restare senza neppure un dente in
bocca, e che il trenino di nostro figlio era meglio lasciarlo dov’era
236
piuttosto che far giocare il proprio figlio in cortile e lasciarlo lì a
inalare i vapori cancherosi del nostro fiume.
Porco mondo.
Abbiam fatto la riunione su in parrocchia e c’eravamo tutti, i
commercianti e gli operai della fabbrica più il prete e il sacrestano
e perfino qualche donna, che quelle vogliono sempre mettere il
bècco nelle faccende degli uomini ma che diavolo, mica si possono chiudere fuori come bèstie; e abbiamo discusso due ore, porco
mondo, coi pivelli cittadini e con gli espèrti, così si son presentati,
gli espèrti, che ci hanno messo in guardia sui cancheri al culo e ai
polmoni che dopo dico io, se poi non muori per un canchero ti
devi far saltare il cervello o impiccarti a un ramo buono, porco
mondo, quindi tanto vale prenderti un canchero e farti saltare il
cervello col canchero addosso e i turisti che vengono nel tuo negozio così almeno tiri su un gruzzoletto, come ha fatto quel dritto
del Faust quando il fiume non era ancora pitturato ma il canchero
se l’è beccato lo stesso, che vomitava un’ora sì e un’ora no, e l’ha
fatta finita con una corda e un albero su al podere degli Umbilk,
anche se i maligni raccontano che non avrebbe potuto, che è stato
un atto illegale, che non dovevano neppure seppellirlo.
Totale si è deciso di tenerci il fiume pitturato e di tenerci la
fabbrica che lo pittura e di tenerci i turisti che danno da mangiare
all’agriturismo di Sherpoj e al bar di Tungoj e perfino al prevosto
che domenica scorsa ha dovuto fissare gli altoparlanti fuori dalla
chiesa perchè oltre ai soliti dieci c’erano trenta turisti che volevano
sentir messa, porco mondo, che quaranta persone a messa non si
vedevano dalla guerra. E quel dannato prevosto ha grugnito nella
sua lingua oscura qualcosa sul pescatore che non ha più pesci da
pescare; ha detto proprio così: non ci sono più pesci nelle nostre acque,
ormai il Pescatore è un vecchio pensionato moribondo, e io ho provato a riflettere sul senso di quelle parole, porco mondo, anche per dimostrare a mia moglie che non sono tanto ignorante quanto dice, e
così ho pensato che il prevosto si riferiva al fatto che se Gesù capitasse oggi in questo mondo non avrebbe più neppure un cristiano che lo seguirebbe, non riuscirebbe nemmeno più a lanciare
l’amo, porco mondo, perchè questi schifosi atei pensano solo al
loro rendiconto, invece di pregare affinchè dio li salvi tutti.
237
E comunque siamo andati al fiume e abbiamo preso a calci nelle chiappe i pivèlli cittadini perchè è così che vanno trattati quelli
che vogliono mettersi in mezzo tra te e i doni che ti fa il Signore, e
oggi io e mio figlio abbiamo guidato quattro norvegesi con le mascherine per respirare tra arbusti fogliame e forre fino al vecchio
ponte per mostrargli le scintille che fanno i colori quando il sole
trafigge il pelo dell’acqua, e a mia moglie ho detto che quando il
canchero mi sotterra i soldi dei turisti lei se li sogna, che smètta di
aprir bocca e si prepari a sgobbare come un mulo, così mi faccio
una risata che non la finisco più.
238
COPPIA DI FIDANZATI E DONNA DOWN ASSASSINATI IN
TANGENZIALE PER UN GRATTA E VINCI
Ovvero
L’IMPORTANZA DI SCEGLIERE IL BAR GIUSTO
(O QUANTOMENO NON QUELLO SBAGLIATO)
Ana Rosa stringeva il biglietto nella mano destra, prestando attenzione a non stropicciarlo. Stava seduta dietro nell’auto di suo
cugino Peter, una Fiat Brava blu del millenovecentonovantotto.
Non sarebbe meglio darlo a me, disse Peter guardandola nello
specchietto retrovisore, sarà più al sicuro se lo terrò io.
Ana Rosa fece un cenno che non significava niente, ma poteva
essere inteso come un no.
Se me lo dai lo teniamo nel cruscotto, disse Priscilla, la fidanzata di Peter, che stava davanti.
Ana Rosa osservò la strada fuori dall’abitacolo dell’auto, poi
decise di ficcarsi il biglietto nelle mutande, sotto il pannolone per
deficienti, proprio in mezzo alle chiappe, perché la mamma le
aveva detto che era una cosa preziosa, e le cose preziose andavano
conservate al sicuro. Uno dei posti più sicuri al mondo, diceva la
mamma, era sotto il pannolone per deficienti, in mezzo alle sue
chiappe mongoloidi.
Questa figlia di puttana si è ficcata il biglietto nel culo, disse
Priscilla.
Cristo, disse Peter.
***
Due giorni prima la mamma aveva mandato Ana Rosa in tabaccheria per comprare le sigarette e il Gratta e Vinci. Lì Ana Rosa aveva comprato un pacchetto di marlboro rosse e il biglietto di
una lotteria istantanea che la madre la spronava ad acquistare ogni
volta che le rimaneva qualche spicciolo a fine mese. Ana Rosa
239
aveva imparato a grattare la superficie dei biglietti e dopo anni di
pratica ormai era un’esperta grattatrice di lotterie istantanee.
Aveva appena compiuto trentanove anni, aveva il corpo basso
e tozzo e il collo grosso, ipotonia marcata, una discromia cutanea
sulla parte bassa della schiena, un’anomalia degli occhi e il cranio
particolarmente piccolo, tipico delle persone affette da sindrome
di Down. A causa della riduzione delle dimensioni della cavità orale non riusciva a mettere insieme quattro parole in fila e sovente si
pisciava o cagava addosso, ma riusciva a grattare la superficie argentata di un Gratta e Vinci con una cura davvero insuperabile.
Quella volta prese una moneta e grattò con delicatezza, prestando attenzione agli angoli, e alla fine, quando come al solito
porse il biglietto al tabaccaio, lui le comunicò che aveva vinto duecentocinquantamila euro.
***
Peter smontò dal lavoro alla stazione di servizio e prima ancora
di salire in auto ricevette la telefonata della zia.
Peter, disse la zia.
Peter abitava con sua zia da quando i suoi genitori erano morti.
Dimmi zia, disse Peter.
Il resto della telefonata fu piuttosto confuso, ma quando Peter
passò a prendere la sua ragazza glielo lo raccontò più o meno in
questo modo:
praticamente quella mongoloide di mia cugina ha comprato un
Gratta e Vinci e ha vinto duecentocinquantamila euro.
Sticazzi.
Appunto.
E tu che c’entri.
C’entro perché mia zia ha un cancro in gola grosso come un
melone e mia cugina è completamente deficiente.
E quindi.
Quindi mi ha chiesto di accompagnare Ana Rosa a incassare la
vincita, assicurarmi che non la freghino, portare tutto in banca,
cose così. Mi ha chiesto di aprire un conto a suo nome. Per quando sarà rinchiusa in qualche istituto, ha detto.
240
E a noi che ce ne viene.
Che cazzo ce ne deve venire, è una questione di famiglia, non ti
basta?
***
Quando arrivarono a casa si accomodarono in salotto.
Volete un caffè, disse la zia a Priscilla.
Perché no, disse Priscilla.
La zia andò in cucina a preparare il caffè. Ana Rosa era appollaiata in un angolo del divano a scaccolarsi e a giocherellare con
una bambola sudicia.
Non pensavo fosse così rincoglionita, disse Priscilla.
Sta’ zitta, che cazzo, disse Peter.
Poi la zia spiegò che in pratica bisognava portare il biglietto alla
tesoreria generale della lotteria, in centro a Sabbione.
Si potrebbe incassare anche in tabaccheria, mi hanno detto, ma
non mi fido, disse.
E quindi? Domandò Peter.
Quindi dovete prendere Ana Rosa e andare a Sabbione, alla tesoreria generale; arrivati lì incassate i soldi, vi infilate nella prima
banca e aprite un conto a nome suo. La banca che sia la Cassa di
Risparmio, non una banca qualsiasi.
È tutto chiaro?
Tutto chiarissimo, zia, disse Peter.
***
Il giorno dopo partirono per Sabbione a metà mattina. Solitamente dal posto in cui abitavano ci voleva un’ora e mezza, tuttavia
quel giorno Peter decise di fermarsi in un bar che conosceva.
Ma che cazzo ti salta in testa, domandò Priscilla.
Devo pisciare.
Ma non potevi pisciare a casa?
Cristo se devo pisciare adesso devo pisciare adesso.
241
Il bar era abbastanza lurido, pieno di operai che smontavano
dal turno di notte e qualche camionista di passaggio.
Che bevi, disse il barista.
Una birra, disse Peter.
Che minchia non dovevi pisciare, domandò Priscilla.
Prima fammi bere, disse Peter.
Il barista guardò di traverso Priscilla.
E la mongoloide che prende, disse il barista.
Che tatto, disse Priscilla.
Ana Rosa si stava gingillando con la salopette di jeans che indossava.
Bel vestitino, disse uno degli operai vestiti di arancione.
Gli altri iniziarono a ridere.
Ridete pure, disse Peter. Ma questa mongoloide ha più soldi di
tutti voi teste di cazzo messi insieme.
Sì come no, disse uno dei tizi.
Stai zitto, disse Priscilla.
Non rompere sempre i coglioni, disse Peter.
Priscilla si diresse verso il frigorifero, prese un cono gelato, lo
scartò e lo mise in mano ad Ana Rosa, che subito cominciò a leccarlo e a sbrodolarsi come una bambina.
Davvero un bel quadretto, disse il barista.
Questa è piena di soldi, disse Peter.
Anche piena di merda, disse un operaio vestito di arancione.
Gli altri risero.
Che puzza schifosa, disse il barista.
Si dà il caso che la sto accompagnando in città per incassare
una grossa vincita, disse Peter.
Sei un cazzone, disse Priscilla, gli strappò dalle mani le chiavi
dell’automobile e uscì.
Ma non mi dire, disse il barista.
E a quanto ammonterebbe questa grossa vincita? Domandò
uno degli operai.
Duecentocinquantamila, disse Peter.
Il barista scoppiò a ridere. Qualcuno fece una pernacchia.
Ana Rosa aveva la faccia completamente sporca di gelato.
Qualcuno le si avvicinò e le sfiorò i capelli.
Non la toccare, disse Peter.
242
Balla? Domandò uno dei tizi.
Gli altri si misero a ridere.
Facciamola ballare, disse un altro.
Peter tentò di sferrare un colpo a uno degli operai, ma altri due
lo trattennero.
Non ti scaldare, mezzasega, gli dissero.
Nel pieno del parapiglia un tizio distinto con un panama bianco appoggiò una tazza da cappuccino su ripiano del suo tavolino,
si alzò dalla sedia, si avvicinò ad Ana Rosa, tirò fuori dalla tasca
dei pantaloni un fazzoletto di stoffa e iniziò a ripulire il mento e la
bocca della donna.
Dovreste vergognarvi, disse.
Che cazzo te ne frega, disse Peter, spingendolo a distanza da
Ana Rosa.
Prese per mano Ana Rosa e la trascinò fuori dal bar.
Quando risalirono in automobile Priscilla si accese una sigaretta e disse tu sei il re dei coglioni.
Peter la guardò e disse ma vaffanculo.
Dopo qualche chilometro di silenzio Priscilla disse duecentocinquanta mila sono una bella somma.
Lo puoi dire, disse Peter.
Cosa saresti disposto a fare per duecentocinquanta mila euro?
Domandò Priscilla.
Non saprei, disse Peter.
Dopo quarantacinque minuti di strada decisero di intascarsi
una piccola parte della somma, ma non subito. Avrebbero fatto in
modo che Peter risultasse il tutore legale di Ana Rosa, per poter
gestire la somma quando la zia fosse passata a miglior vita.
Potresti sposarla, disse Priscilla.
Cosa farnetichi, disse Peter.
Se te la sposi potrai gestire tutti i soldi.
Non sposo questa mongolide neanche da morto, disse Peter.
Ma devi sposarla per finta, cretino, disse Priscilla.
E ti pare che possa sposare mia cugina così, disse Peter.
Sei troppo una mezzasega, disse Priscilla.
Fanculo il matrimonio, disse Peter.
Portiamola a incassare i soldi e ce ne teniamo una parte, disse.
243
Per il disturbo.
Priscilla accese una sigaretta. Ana Rosa si era addormentata.
E quanto sarebbe, secondo te, il disturbo, disse Priscilla.
Non saprei, disse Peter.
Secondo me almeno cinquantamila, disse Priscilla. Duecentomila le basteranno per fare un vita più che dignitosa.
E poi quanto vivono i mongoloidi? Domandò Peter.
Non lo so, ma mica tanto, disse Priscilla.
Diciamo cinquant’anni?
Avrei detto meno, comunque diciamo cinquanta.
Totale, sempre che non debba ammazzarsi prima, le mancheranno all’incirca dieci anni da vivere, disse Peter.
Più o meno, confermò Priscilla.
Se calcoliamo diecimila all’anno, ma fai anche quindicimila, se
campa dieci anni, fa centocinquantamila.
Così il nostro disturbo aumenta a centomila, disse Priscilla. Lo
disse lanciando la sigaretta dal finestrino.
***
Dopo altri quarantacinque minuti arrivarono di fronte al Palazzo della Tesoreria; era mezzogiorno inoltrato, e le strade della città
erano screpolate come labbra d’asino.
Mangiamo qualcosa? Domandò Peter.
Come fai a pensare a mangiare, disse Priscilla.
Perché, chiese Peter.
Andiamo a prendere questi cazzo di soldi, disse Priscilla.
Salirono i sette scalini di marmo del Palazzo e cercarono
l’ufficio riscossione vincite. Quando si trovarono di fronte
all’impiegato cercarono di estrarre il biglietto dalle chiappe di Ana
Rosa, ma non ci fu verso.
Cristo, disse Peter.
Priscilla provò con le buone, tentando di convincerla a porgere
il biglietto all’impiegato.
Tira fuori quel biglietto di merda, urlò Peter.
L’impiegato stava per chiamare la sicurezza, così decisero di
uscire, cercare un locale per pranzo e far ragionare Ana Rosa.
244
Benissimo Ana Rosa, disse Peter a tavola. Ora è assolutamente
necessario che tu ti levi quel biglietto dalle chiappe e lo appoggi su
questo tavolo.
Ana Rosa stava fissando il vuoto.
Mi capisci, disse Peter.
Questa non capisce un cazzo di niente, disse Priscilla.
Portiamola in bagno, disse Peter.
Trascinarono Ana Rosa in bagno. Quando entrarono Ana Rosa
cominciò a urlare.
Fai la brava, cazzo, disse Peter.
Tienila ferma, cazzo! Gridò Priscilla.
Peter immobilizzò Ana Rosa e nel farlo probabilmente le ruppe
un braccio, perché Ana Rosa attaccò a urlare ancora più forte.
Cos’hai combinato, disse Priscilla.
Ma se non l’ho praticamente toccata, disse Peter.
Le hai rotto un braccio, coglione, disse Priscilla.
Oh porca puttana, disse Peter.
Mentre Ana Rosa urlava come un’indemoniata, un cameriere entrò in bagno.
Va tutto bene qui, domandò.
Va tutto bene, disse Peter.
Meravigliosamente, disse Priscilla.
Che state facendo, chiese il cameriere.
Secondo te? Disse Priscilla.
Stiamo cercando di far cagare la nostra cuginetta mongoloide,
disse Peter.
Vuoi darci una mano tu? Domandò Priscilla.
Il cameriere si avvicinò ai pisciatoi, fece una lunga pisciata e
uscì senza lavarsi le mani.
Che schifo, disse Priscilla.
Prendiamo sto cazzo di biglietto, disse Peter.
Dovresti rovistare tu nel culo di tua cugina, cristo, disse Priscilla.
Fanculo, disse Peter.
Priscilla tirò giù la salopette di Ana Rosa, poi le abbassò le mutande.
Oddio che puzza, gridò indietreggiando.
245
Ana Rosa stava urlando sempre più forte.
Falla stare zitta o la strozzo, urlò Priscilla.
Poi tolse il pannolone pieno di merda e tra la merda ci trovò il
biglietto.
Cristo, sussurrò Peter.
Cercarono di ripulire il biglietto come meglio potevano, poi si
diressero alla tesoreria.
Non dovremmo portarla in ospedale, domandò Peter.
Prima i soldi, disse Priscilla.
Ce li daranno in contanti? Domandò Peter.
Ma sei imbecille? Disse Priscilla, ma ti pare che ci danno duecentocinquantamila euro in contanti. Ce li facciamo mettere sul
conto, scemo di guerra.
Ana Rosa urlava per il dolore al braccio.
Portiamo Ana Rosa in ospedale, disse Peter.
Porca troia prima i soldi, disse Priscilla.
Cristo io la porto in ospedale, disse Peter.
Salirono in auto, imboccarono la circonvallazione.
Sei un coglione, disse Priscilla.
Tanto i soldi non scappano, disse Peter.
Dovettero fermarsi alla prima area di sosta perché Peter doveva pisciare.
Ma quanto sei coglione, ripeté Priscilla.
Smettila porca puttana, disse Peter, devo pisciare.
Ma che cazzo hai la prostata, disse Priscilla.
Fanculo sono agitato, disse Peter.
Un’auto grigia entrò nell’area di sosta mentre Peter e Priscilla
discutevano.
Il tizio distinto col Panama scese dall’automobile e si avvicinò
al finestrino di Peter. Bussò.
Che cazzo vuoi, disse Peter.
Scendi, disse il tizio distinto.
Ma guarda questo stronzo, disse Priscilla.
Non scendo neanche per il cazzo, disse Peter.
L’uomo distinto guardò Ana Rosa sul sedile dietro, le sorrise.
Che le è successo? Domandò.
Ana Rosa aveva appena smesso di piangere. Era gonfia e rossa.
Fatti i cazzi tuoi, disse Peter.
246
Poi scese dall’automobile.
Il tizio distinto si scostò di qualche metro. L’area di sosta era
deserta e disseminata di ghiaia e pietre. C’era un sole abbagliante.
Sono sceso perché devo pisciare, non certo perché me lo hai
detto tu, disse Peter al tizio distinto.
Gli handicappati dovrebbero avere un posto privilegiato, in
questo mondo, attaccò il tizio distinto.
Ma che cazzo farnetichi, gli abbaiò in faccia Peter.
Ma vaffanculo, disse Priscilla, che nel frattempo era uscita
dall’automobile.
Questo mondo insensato, disse il tizio distinto, si fonda sulla
possibilità che due idioti come voi possano fregare una povera
donna handicappata. Il nostro mondo si fonda sulla possibilità che
due idioti come voi entrino in un bar, una mattina qualunque, e
urlino ai quattro venti che sono in possesso di un biglietto vincente di una stupida lotteria. Il nostro mondo si fonda sulla cattiveria,
sull’opportunismo, sull’immoralità.
Ma che cosa stracazzo stai blaterando, disse Peter.
Ana Rosa cominciò a ridere.
Rispondi, disse il tizio distinto: questo è un luogo pietroso?
Ma fottiti, disse Peter.
È o non è un luogo pietroso, ripeté il tizio distinto.
Non me ne frega un cazzo se è un luogo pietroso, gridò Peter,
chi cazzo se ne frega.
Sì, disse Priscilla, è un cazzo di luogo pietroso.
Dopo la luce rossa delle torce sui volti sudati, disse il tizio, e
dopo il silenzio gelido nei giardini, viene l’angoscia nei luoghi pietrosi.
Peter non riusciva a capirci niente. Ana Rosa rideva sempre più
forte.
Che cazzo ridi, urlò Peter ad Ana Rosa.
Fanculo ai luoghi pietrosi, disse Priscilla.
Del resto la passione travolge anche le piccole vite, proseguì il
tizio distinto, fiori e insetti non ne sono immuni, ricalcitrando
s’accoppiano nascosti dagli scarponi, dall’asfalto, dalle pietre, dai
battistrada; inanimate s’intrecciano fra loro, brulicando nei cortili
delle case, negli stabbi, nei mercati. Non si amano, non si parlano,
si guardano di sfuggita e di sfuggita vanno.
247
Questo è completamente suonato, disse Peter a Priscilla.
Ana Rosa sembrava divertirsi un sacco ad ascoltare la litania del
tizio.
Fu in quel momento che il tizio distinto estrasse una pistola
dalla tasca destra della giacca.
Che figlio di puttana, disse Peter.
Vaffanculo, disse Priscilla.
Che cazzo vuoi, domandò Peter.
L’intelletto fa il suo corso, disse il tizio con la pistola, coltivando radici di follia al mattino quando il sole picchia sul vetro e si riflette sul crocifisso della parete, eccitando la mente dopo mezzogiorno, quando le nuvole portano buio e pioggia e il crocifisso è
caduto sul marmo duro, rubando amore e odio la sera, quando le
stelle affogano nel fiume e gli uomini s’incontrano a meditare
chiusi nelle stanze delle cascine.
Di scintilla in scintilla, come goccia nel lago che genera anelli, si
tende come corda di arco, scagliando frecce finché la forza lo sostiene, degenera in follia, stanca elucubrazione, vecchiezza malata
e sola, oppure travolge la potenza giovane, la inerme maturità, denuda grasse vite fino a spogliarle come rami invernali, le brucia
come carne guasta.
Priscilla e Peter si guardavano immobili, mentre Ana Rosa continuava a ridere come una pazza.
Falla stare zitta porca puttana o l’ammazzo, disse Priscilla.
Peter non mosse un dito. Aveva la canna di una pistola con silenziatore puntata al naso.
Se veniste quaggiù, riprese il tizio, scavando nel sottosuolo, o
ritornando di sopra, trovereste piccole vite colme di passione e
null’altro, la bacca selvatica, il verme strisciante nello sporco, i ratti
sguscianti nelle fogne, piccole vite agitate, contorte, inutilizzabili
per risolvere algebra o sistemi comparati, incapaci di pregare o
comprendere dio, piccole vite tenute al caldo d’inverno dalla legna
umida e dalla terra smossa che brulicano senza degnare di sguardi
il mondo cinguettante. Se veniste quaggiù, dove mi trovo io, ci sarebbero lunghe angosce striscianti su luoghi pietrosi.
Vaffanculo, disse Priscilla.
E cosa viene dopo l’angoscia in luoghi pietrosi? Domandò il tizio.
248
Peter non rispose.
E di’ qualcosa, cristo, urlò Priscilla.
Per esempio, riprese il tizio, viene la paura di una mezzasega
come te. Oppure l’isterismo di una gallina snervante come la tua
fidanzatina, qui. Mi viene da ridere, continuò il tizio distinto, a
pensare che ho già visto tutta la faccenda che state vivendo, l’ho
già presofferta e gustata, sapevo come sarebbe andata a finire appena vi ho incontrati. E se iniziassi a raccontare la storia di voialtri
imbecilli a cento persone, tutte e cento saprebbero dirmi come
andrà a finire prima della metà. Bella scena: c’è il ragazzo idiota, la
sua fidanzata ignorante e avida, c’è la purezza, che è Ana Rosa, e
ci sono i soldi, forse la sola cosa per cui vale la pena di ammazzare
qualcuno. E poi ci sono io.
E chi cazzo saresti tu, disse Peter.
Priscilla si era messa a piangere.
Io sono quello che racconta la storia, disse il tizio distinto.
Poi sparò tre colpi; i primi due proiettili raggiunsero la fronte e
il petto di Peter, il terzo la fronte di Priscilla. Rovistò brevemente
nelle tasche dei due, trovò il biglietto senza difficoltà.
Si avvicinò ad Ana Rosa.
Va tutto bene, le disse.
Spinse l’auto di Peter nella boscaglia a lato dell’area di sosta.
Va tutto bene, disse il tizio distinto ad Ana Rosa. Prese il fazzoletto, le ripulì la bava dall’angolo della bocca. Sei una brava ragazza. Svitò il tappo del carburante, riuscì a impregnare il fazzoletto
di benzina, lo incendiò.
Vai nel posto migliore che ti sia mai capitato di visitare, disse il
tizio distinto ad Ana Rosa.
E se ne andò.
249
LE REGOLE DEL GIOCO
Le mosche ronzavano intorno a noi insistenti e rabbiose,
ogni tanto lo schiocco molle e fioco di un driver
contro una palla giungeva da un lontano tee
(C. Malaparte, Kaputt)
Il giorno in cui i nemici bombardarono il capanno attrezzi a
poche centinaia di metri dalla club house, Osmond Blikfitter fece
il primo birdie della sua vita alla buca 7, un terribile dog-leg a destra
buono per i mancini dal draw naturale ma disastroso per i destrorsi, specie se handicap diciannove come Blikfitter.
Jakob Avejagro stava camminando lungo il confine del campo,
accanto al vecchio steccato, ora rimpiazzato con una trincea dozzinale adornata da un filo spinato rugginoso e tetanico, su cui i
gelsomini erano fritti e i piselli odorosi stavano marcendo, quando
notò i soci del Golf Club dirigersi verso l’area di partenza della
buca 8, un lungo par 4 in salita protetto da un paio di bunker sul
primo colpo e da un ostacolo d’acqua attorno al putting green.
Oltre a Blikfitter, pezzo grosso del Governo, vide suo figlio
Jerry con la sacca di Blikfitter in spalla, il maestro di golf Gallardo
panciuto come un divano, e un altro socio del club che gli parve di
riconoscere, tale Eric Tromoj, anch’esso funzionario dell’Ufficio
Suicidi & Festività®.
Il primo colpo di Blikfitter dall’area di partenza della buca 8 fu
uno slice tra le piante che costeggiavano il fairway su entrambi i lati.
Blikfitter osservò la sua palla addentrarsi in una zona di rough
ricca di piante.
250
Cristo, disse.
Lanciò il drive in direzione di Jerry, che lo afferrò al volo e lo
ripose nella sacca.
Dopo di lui giocarono il loro primo colpo il maestro Gallardo e
Tromoj.
Tromoj piazzò la palla sul tee, si preparò a colpirla, fece un
paio di prove, si allontanò dalla palla e si riposizionò. In quel momento sentirono un rumore che era identificabile come uno scoppio, un’esplosione violenta la cui distanza poteva essere stimata
all’incirca in cinquecento metri, massimo settecento, secondo gli
approssimativi calcoli di Gallardo.
Ha sentito? Domandò Tromoj a Blikfitter.
Ho sentito, disse Blikfitter.
La guerra durava da un paio d’anni, e l’esercito nemico era alle
porte della città.
I tre giocatori e Jerry si avviarono verso le loro palle. Cercarono brevemente la palla di Blikfitter e alla fine la trovarono tra il
labbro squassato e il naso sanguinante di un cadavere disteso tra
gli alberi, proprio a pochi centimetri dal tronco di un pino marittimo scarnificato, mezzo moribondo per l’approssimarsi della stagione fredda e per l’assenza del vento umido marino.
Che diavolo ci fa questo qui, domandò Tromoj.
Non ne ho idea, disse Gallardo.
Il tizio era stato freddato con un colpo di fucile alla fronte,
aveva sangue raggrumato su tutto il volto; aveva sì e no vent’anni,
indossava abiti militari e qualcuno si era già portato via gli scarponi.
È la sua palla? Domandò Gallardo a Blikfitter.
Tromoj fece per avvicinarsi al cadavere.
Non lo tocchi, cristo, disse Blikfitter, o finirà per muovermi la
palla.
Tromoj non osò fare un altro passo.
Jerry si accostò al volto del soldato facendo attenzione a non
rimuovere troppe pigne o aghi di pino e quando fu a pochi centimetri dalla palla, tappandosi il naso, confermò che quella era la sicuramente la palla di Blikfitter.
Titleist tre rossa con tre puntini verdi, disse.
È la mia, disse Blikfitter.
251
Cristo di un dio, disse Tromoj.
Sarà morto? Domandò Gallardo.
A te che sembra, disse Jerry.
È morto che più morto non si può, disse Tromoj.
Questi insopportabili soldati del cazzo, si lamentò Blikfitter;
proprio qui doveva venire a farsi ammazzare.
E soprattutto mi domando per quale motivo nessuno l’abbia
ancora rimosso, si lamentò Tromoj.
Probabilmente nessuno lo ha visto, disse Jerry.
Hey, caddie, tu parla quando sei interpellato, disse Tromoj.
E lei veda di non rivolgersi in quel modo al mio caddie, disse
Blikfitter. Sono stato chiaro?
Chiarissimo, Signor Blikfitter.
Piuttosto preoccupiamoci del mio prossimo colpo, disse
Blikfitter.
Può spostare la palla, disse subito Gallardo; deve trovare il
punto più vicino in cui cessa l’interferenza col cadavere, e da quel
punto ha ancora un bastone di buono per dropparla.
Ne sei sicuro, domandò Blikfitter.
Credo proprio di sì, disse Gallardo.
Spostando la palla in quel modo, Blikfitter si sarebbe tolto di
mezzo un paio di querce e una betulla, e avrebbe avuto una visuale perfetta dell’asta della bandiera posizionata corta a sinistra del
putting green.
Ma nemmeno per sogno, intervenne Tromoj. Non può assolutamente spostare la palla, disse.
Cosa sta farneticando, sussurrò Jerry.
Si spieghi meglio, disse Blikfitter.
In quel preciso momento udirono uno scoppio.
Dobbiamo domandarci che cos’è quest’uomo morto, disse
Tromoj.
Cosa vuole che sia, disse Gallardo.
È un povero cristo a cui un soldato nemico ha fatto saltare il
cervello, disse Jerry.
O magari se l’è fatto saltare da solo, aggiunse Gallardo; ho sentito dire che qualcuno tra i nostri soldati preferisce farla finita abusivamente piuttosto che lasciarsi ammazzare dal nemico.
Starai scherzando, disse Blikfitter.
252
Non sto scherzando neanche un po’, disse Gallardo.
Mi pare una questione che non si possa affrontare in questo
momento, disse Tromoj.
Invece la affrontiamo eccome, disse Blikfitter. Il coraggio dei
nostri soldati non deve mai essere messo in discussione.
E chi lo mette in discussione, disse Gallardo. Ho soltanto detto
che qualcuno preferisce farla finita col fai-da-te piuttosto che
aspettare che lo faccia qualcun altro.
È più eroico morire con una pallottola di casa piuttosto che
con una pallottola forestiera? Domandò Jerry.
Non vorrei mai farmi ammazzare da una schifosa pallottola forestiera! Tuonò Blikfitter. Tuttavia non potrei neppure ammazzarmi quando la legge non lo consente.
Un bel dilemma, disse Gallardo.
Comunque nessuno ha risposto alla mia domanda, disse Tromoj.
E quale sarebbe la domanda, disse Jerry.
La domanda era che cos’è quest’uomo morto, disse Tromoj.
Mi pareva d’aver già risposto, disse Jerry.
È la guerra, disse Gallardo.
Intendevo dire, disse Tromoj, che cos’è quest’uomo morto per
le regole del golf.
Ah intendeva quello, disse Blikfitter.
Che diavolo ne so, un soldato morto è un soldato morto, disse
Gallardo.
Se pensa che lascerò che si sposti una palla senza avere il diritto
di spostarla si sbaglia di grosso, dichiarò Tromoj; il golf è il golf.
E la guerra è la guerra, disse Jerry.
Quando si fa la guerra si fa la guerra, quando si gioca a golf si
gioca a golf, disse Tromoj.
E allora, disse Blikfitter, non vorrei stare qui fino a stasera.
Credo proprio che un cadavere umano sia da considerarsi un
impedimento sciolto, disse Tromoj.
Questa è proprio bella, disse Jerry.
Come sarebbe un impedimento sciolto, domandò Blikfitter.
Un impedimento sciolto è un impedimento sciolto, disse Tromoj.
Cristo, disse Blikfitter.
253
Come diavolo si deve procedere in caso di impedimento sciolto, domandò Gallardo.
Proprio un bel maestro di golf, disse Jerry.
Gallardo, mi sta dicendo che non conosce le regole del gioco?
domandò Blikfitter.
Sto solo dicendo che sarebbe meglio consultare il libretto, disse
Gallardo; per maggiore sicurezza.
Jerry rovistò nella sacca di Blikfitter ed estrasse un vecchio libretto azzurro spiegazzato e sporco di fango rappreso.
Da’ qua, disse Gallardo strappandoglielo di mano.
È capace perfino di leggere? Domandò Tromoj.
Gallardo iniziò a consultare il libretto, apparentemente senza
risultati. Blikfitter sembrava piuttosto scocciato e spazientito.
Un altro scoppio, stavolta più lontano, echeggiò sul prato del
campo, scuotendo un poco le foglie degli alberi.
Pensi di potercela fare? Domandò Jerry a Gallardo.
Ecco qui, disse lui. “Sono impedimenti sciolti”, attaccò a leggere, “oggetti naturali, inclusi: pietre; foglie; ramoscelli; rami e simili;
sterco; vermi; insetti e simili e il terreno espulso o ammucchiato da
loro, sempre che essi non siano: fissi o vegetanti; solidamente infossati oppure aderenti alla palla”. Fine.
Tutto lì? domandò Blikfitter.
Tutto qui, disse Gallardo.
E come dovremmo intendere il cadavere di un soldato, equiparandolo a un verme? Disse Blikfitter.
O allo sterco, disse Tromoj.
Fosse il cadavere di un soldato nemico...disse Gallardo.
Tromoj rise.
Cosa c’è da ridere, disse Blikfitter. La mia palla è tra il labbro e
il naso di uno stupido soldato che ha deciso di farsi ammazzare
nel nostro golf club e la cosa la fa ridere?
Ridevo per la faccenda dello sterco e del soldato nemico, disse
Tromoj.
L’avevo capito, cristo, disse Blikfitter.
Forse dovremmo chiamare Korpoff, disse Jerry, lui è
un’autorità in quanto a regole del golf.
E tuttavia, disse Tromoj, credo proprio che un soldato morto
sia quantomeno un oggetto naturale.
254
Ma in questo caso la palla aderisce all’oggetto naturale? Domandò Gallardo.
Non aderisce un bel niente, disse Jerry.
Gli sta solo sopra, confermò Tromoj.
E va bene, disse Blikfitter; ammettiamo che sia uno stramaledetto impedimento sciolto, come dovrei comportarmi?
Gallardo riprese il libretto azzurro e lo aprì.
“Ovviare per un impedimento sciolto:” lesse, “eccetto quando
sia l’impedimento sciolto sia la palla si trovano dentro o toccano il
medesimo ostacolo”, e non mi pare sia questo il caso, disse, “qualsiasi impedimento sciolto”, riprese a leggere, “può essere rimosso
senza penalità”.
Per cui siamo a posto, disse Blikfitter. Rimuovo la zavorra e
gioco la mia maledetta palla Titleist 3 rossa.
Aspettate, disse Jerry riprendendosi il libretto.
Che c’è ancora, domandò Blikfitter.
La regola mica è finita, disse Jerry.
Mi pareva, disse Tromoj.
Leggi il seguito, disse Blikfitter.
“In qualsiasi posto si trovi la palla”, lesse Jerry, “se il giocatore
rimuovendo l’impedimento sciolto provoca il movimento della
palla, si applica la regola 18-2a”.
Per la puttana Jerry, disse Blikfitter, di cosa diavolo stai parlando?
Qualcuno può farci la cortesia di leggere la regola 18-2a, disse
Tromoj.
Regola 18-2a, disse Jerry: “quando una palla di un giocatore è
in gioco, se: il giocatore (o il suo caddie) provoca il movimento
della palla, egli incorre in un colpo di penalità”.
Ah! Esclamò Tromoj, mi pareva!
Quindi, disse Blikfitter, se rimuovendo il soldato morto la mia
palla si muovesse, e dio solo sa come stradannazione potrebbe
non muoversi, incorrerei in un colpo di penalità.
Proprio così, disse Gallardo.
Tu stai muto, disse Blikfitter.
Ciò non toglie che non credo lei abbia molte alternative, disse
Tromoj.
255
Non prenderò mai un colpo di penalità, disse Blikfitter. Né
tantomeno le concederò questo vantaggio.
Cristo Signor Blikfitter, non penserà di giocare la palla dal volto
massacrato di quel tizio, disse Gallardo.
Falla finita, disse Blikfitter. Poi si rivolse a Jerry e gli chiese se
fosse sicuro, in conclusione, che il soldato morto fosse un impedimento sciolto.
Qui il libretto dice, disse Jerry, che un vitello vivo è un agente
estraneo, mentre un vitello morto è un impedimento sciolto. È
una distinzione introdotta quando le truppe nemiche hanno cominciato a mitragliare a tappeto e ci siamo trovati con le mandrie
di bestiame mezze bucherellate.
E ti sembra che questo stupido imbecille di un soldato morto
possa essere equiparabile a un vitello morto, domandò Blikfitter.
Per analogia sembrerebbe proprio di sì, rispose Jerry.
Nessuna differenza, confermò Tromoj.
Andiamo, signor Blikfitter, prenda un maledetto colpo di penalità e sposti quella palla da lì, disse Gallardo.
Mai! Urlò Blikfitter. Piuttosto ti ammazzo con la mia rivoltella
d’ordinanza.
Gallardo zittì.
Blikfitter osservò la posizione della palla sul volto tumido del
soldato morto. Sembrava perfettamente incastrata tra il labbro superiore e la punta del naso. Qualcosa ne aveva sporcato il biancore, ma Blikfitter non sapeva dire se fosse stato il sangue del soldato morto o chissà cos’altro.
Jakob Avejagro nel frattempo era riuscito a penetrare
all’interno del perimetro del golf club, tra la vegetazione, sfruttando un cedimento nel filo spinato della trincea, e si trovava ormai a
poche decine di metri da Blikfitter e gli altri. Aveva raccolto una
trentina di palle perse nel profondo rough, dalle parti del fuori limite rappresentato dalla trincea, palle che avrebbe poi rivenduto al
negozio del club per racimolare un po’ di grana. Guardò suo figlio
Jerry tentando di attirarne l’attenzione; avrebbe voluto farlo tornare a casa immediatamente o che si trovasse in qualunque altro posto al mondo, lontano da quella guerra che stava devastando la loro terra.
256
Un rapidissimo fischio squarciò le orecchie dei giocatori, e pochi attimi dopo ci fu un fragore.
Ferro cinque, disse Blikfitter.
Ferro cinque? Domandò Tromoj.
Che cosa t’importa del ferro che ho deciso di giocare, disse
Blikfitter.
Jerry prese dalla sacca il ferro cinque e lo consegnò nelle mani
di Blikfitter.
Gallardo stava osservando la scena a qualche metro di distanza.
Ci fu un altro scoppio, più sordo, seguìto da un pennacchio di
fumo nerissimo che cominciò a sollevarsi dietro il capannone degli
attrezzi.
Frattanto le nuvole avevano preso il sopravvento sull’azzurro, e
una giornata iniziata con un bel sole ora minacciava pioggia.
Signor Blikfitter, disse Gallardo.
Taci, disse Blikfitter mentre cercava di individuare un punto tra
gli alberi per farci passare la palla. Che c’è?
Il ferro cinque è una pessima scelta, Signore, disse Gallardo; se
mi posso permettere le consiglierei un ferro con un loft maggiore.
Blikfitter si schermì. Afferrò un ciuffo d’erba e lo scagliò in aria
per effettuare le considerazioni del caso sul vento. Conoscere
l’intensità e la direzione del vento è fondamentale, per fare un
buon colpo di golf.
Si chinò sulla palla arrivando a trenta centimetri dalla bocca del
soldato morto, osservò ancora gli alberi.
Ferro otto, disse restituendo a Jerry il ferro cinque.
Jerry prese il ferro cinque, lo infilò nella sacca, prese il ferro otto e lo consegnò a Blikfitter.
Si udì un nuovo scoppio, e anche se pareva a una distanza
maggiore dai precedenti, Avejagro si spaventò e lasciò cadere a
terra una decina delle palle che aveva trovato.
Maledetti siano i soldati, si disse mentre provvedeva a raccogliere nuovamente le palle.
Blikfitter si posizionò con i piedi accanto al fianco sinistro del
soldato morto, fece alcune prove del colpo nell’aria, poi effettuò il
backswing e riscendendo col ferro colpì la palla. Staccò di netto
un pezzo di labbro, un paio di denti davanti e un frammento del
naso, che deflagrarono nella calma piatta del golf club; la pallina si
257
incuneò tra un paio di alberi e procedette la sua corsa fino a un
punto al centro del fairway, con un magnifico lie per il colpo successivo verso l’asta della bandiera.
Colpo perfetto, disse Gallardo.
Può ancora sperare nel par, gli fece eco Tromoj.
Blikfitter diede un calcetto al costato del soldato morto e si diresse verso la sua palla che si trovava al sicuro, nel bel mezzo del
fairway, mentre alcuni scoppi rimbombavano alle loro spalle, nel
buio del rough, dove milioni di palle da golf giacevano semisepolte e dimenticate da tutti.
258
VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (7)
___________________
Eccole che arrivano, in fila per tre, nella luce energica del mattino estivo: centoventi damigelle, centoventi giovani donne vestite
coi colori dell’estate, gonne a fiori lunghe e corte, pantacollant
aderenti e natiche in bella mostra, capelli sciolti o legati, divertite e
atletiche, mentre una musica pop di quart’ordine inonda la piazza
in cui si provano le coreografie per la parata più importante
dell’anno.
Anche se non hanno nulla di santo o religioso (tranne la fedeltà
al potere del Gerarca) le chiamano papa-girls, s’intrufolano nei
meandri della sensualità contravvenendo ai richiami dell’erotismo,
il volto illuminato da una coscienza sovrastante, tutte impressionate dalla forza dell’amore. Hanno un’età compresa tra i diciotto e i
ventidue anni, sono perlopiù studentesse amanti della vita e della
religione, amanti del Gerarca e della Legge.
Procedono secondo una linea retta, prestabilita, dall’ingresso
ovest della piazza fino al centro dove sta il monumento a San Bertran de Born Conquistatore, si dispongono a semicerchio intorno
alla statua, s’ammassano lungo le linee bianche tracciate sul porfido.
Poi, all’improvviso, iniziano a muoversi senza peso dentro e
fuori ogni spazio, situazione, esperienza. L’incanto di colori, le
movenze, la trasformazione dei volti che s’increspano e gioiscono
a ogni nuovo passo. Si agitano, le splendide damigelle gerarcali,
soggiornano nell’assoluto, fuggono, si atterriscono, stanno sedute
ad aspettare qualcosa che non arriva e qualcuno che le porterà altrove. Ridono, piangono, scherzano.
Gli istruttori strillano provocazioni e incitamenti attraverso
megafoni branditi sapientemente, mentre le giovani papa-girls
sciolgono i capelli come se sciogliessero un’anima gaudente, e a
ogni balzo pare d’intuire una costellazione nuova e inammissibile.
Danzano. Senza peso respirano, danzando sublimano l’angoscia di
un ateismo gretto e patetico; sgranano occhi smarriti su un mondo
aggrovigliato tra luci e rumori, spento, e lo rianimano con occhi
259
colmi di stupore, immagini, visioni. Si fanno beffe di ogni terrena
realtà che non può definirsi se non greve e pungente, intuiscono il
lato comico delle cose, guariscono dalla gravosità dell’essere.
Si aggrappano le une alle altre come aliti di fumo che
s’intrecciano nel cielo terso d’estate, come stormi di uccelli assumono configurazioni simmetriche e grovigli inestricabili.
Infine si riuniscono al centro della piazza, sibilline, mani nelle
mani, trascinando nelle movenze la propria purezza. Esibiscono
una conturbante gigantografia multicolore del nostro Gerarca seguìta dalla raffigurazione di un mastodontico fallo littorio, visibile
da ogni recesso delle tribune prefabbricate in acciaio zincato a caldo con piani di calpestio a tamponamenti verticali poste sui tre lati
della piazza.
***
260
TROPPO AFFANNO PER LA VITA
– Hurao Ni! – gridò uno degli uscieri.
– Fallo stare muto – disse Tacchino Basito.
– Hurao Ni! – gridò ancora l’usciere levando il braccio al cielo in
segno di vittoria. Portava una divisa blu scolorita e aveva una
faccia da imbecille.
– Che rottura di coglioni – disse Tacchino Incavolato.
– Piantala con questa lingua di merda – urlò Tacchino Depresso
all’usciere.
– Hurao Ni!12 – ripeté lui.
A questo punto Tacchino Depresso gli rifilò una scalcagnata col
culo del fucile sulla nuca mezza pelata, e quello stramazzò a terra
accompagnato dagli strepiti impauriti delle papa-girls e da un fiotto
di sangue che formò una piccola pozza sul pavimento di finto
marmo dell’androne.
– E state un po’ zitte, che cazzo – disse Tacchino Incavolato. –
Sempre a piagnucolare. Ma cosa siete, delle scrofe?
Le papa-girls si ammansirono. Tutte indossavano abiti estivi da
ballo o da footing, e qualcuna di loro aveva i capezzoli inturgiditi
per l’emozione o lo spavento.
– C’è qualche altro usciere eroico? – domandò Tacchino Disgustato.
Gli altri quattro uscieri dell’androne Est del Palazzo Ottagonale,
meglio conosciuto per essere la sede del Ministero Suicidi & Festività®, rimasero muti e immobili a scrutare i quattro uomini col volto coperto da maschere raffiguranti tacchini emotivi, in vendita a
cinque euro e novantanove in tutti i negozi di giocattoli, mentre
bloccavano l’ingresso verso l’esterno e quello che conduceva ai
piani superiori con catene e spranghe.
12
Evviva Noi! in esperanto.
261
– E adesso? – domandò Tacchino Disgustato.
~
Sabato 19 luglio Gad Artosius, Henry Makuloj, Tico Zihlai De
Gyurgyokai e Remo Korkokageto, decisero di occupare un’ala del
Ministero Suicidi & Festività® per protestare contro
l’indiscriminata autoeliminazione preventiva degli esseri umani
fondata sulla dubbia teoria del Continuum Temporale Sabbionasso, e per sostenere le ragioni del libero arbitrio dell’uomo nei confronti del totalitarismo determinista imposto dal governo.
Alle dieci di mattina abbandonarono l’appartamento in cui avevano
trascorso gli ultimi giorni tra preparativi, riepiloghi, strategie, ecc., e
si incamminarono lungo le strade di Sabbione invase da gente che
bighellonava, digeriva croissant, camminava a passo svelto in direzione delle Agenzie Divinatorie per sottoporsi all’Aggiornamento
Obbligatorio Annuale, si radunava per discutere sulla qualità dei
tacchini e dei cavalcatori della Giostra del Peccato (si sarebbe svolta il giorno dopo, domenica), e si fermarono in un negozietto di
giocattoli nei pressi di Piazza delle Dominazioni, dove acquistarono quattro maschere di gomma denominate Tacchini Emotivi (tra
una vasta gamma di espressioni facciali sintomatiche di eterogenee
emozioni scelsero: tacchino basito, tacchino incavolato, tacchino
disgustato, tacchino depresso).
Fecero tappa a casa di Benni McDougal, collezionista di armi storiche, dove presero a prestito una rivoltella a rotazione da truppa autentica della prima guerra mondiale autografata sul calcio, un fucile
con baionetta delle guerre napoleoniche, un moschetto Vetterli utilizzato dai carabinieri reali a cavallo e un cosiddetto trombone con
canna in ferro in uso durante il Regno di Sardegna, tutte perfettamente cariche e funzionanti.
Dopo una breve colazione in un bar sotto casa di McDougal, indossarono ciascuno la propria maschera da tacchino emotivo e si
diressero verso il cuore della città, dove si svolgevano le prove per
la parata della Giostra del Peccato. Lungo la strada dovettero subire alcuni scherni da parte di sciocchi cittadini cui faceva un certo
effetto notare quattro uomini adulti indossare maschere per bam262
bini e aggirarsi lungo le strade reggendo armi vecchie di cent’anni.
Ciononostante i quattro non se ne curarono, e proseguirono il loro
cammino indossando le maschere modello tacchino emotivo e imbracciando le loro armi storiche. Va detto che le armi non facevano paura a nessuno, e molti pensarono semplicemente che i quattro fossero un po’ svitati, o strampalati, che si stessero dirigendo
verso il luogo di una ricostruzione storica, o il set di qualche filmetto in costume.
Entrarono in Piazza dei Gerarchi all’incirca alle undici, mentre il
corpo di ballo dell’Accademia Belle Arti di Sabbione stava provando le proprie coreografie (il giorno dopo sarebbero state parte integrante e fondamentale dalla grandiosa parata che ogni anno precede la vera e propria Giostra del Peccato) e subito neutralizzarono
i tre istruttori muscolosi con le armi storiche, mentre Tacchino Incavolato intraprese la sua disquisizione sul Continuum Temporale
Sabbionasso.
Le ballerine, o papa-girls, si dimostrarono piuttosto seccate
dall’improvvisa sospensione della prova generale, ma dovettero
pensare che qualche minuto di pausa non potesse fargli male, tanto
che si fermarono ad ascoltare le ragioni di Tacchino Incavolato.
Per far capire a tutti che facevano sul serio, Tacchino Depresso rifilò un brutto colpo col suo moschetto all’altezza dello stomaco di
un istruttore troppo esuberante (aveva tentato di farsi notare da alcune guardie che svolgevano una ronda d’ordinanza ai bordi della
piazza). L’istruttore si accasciò tra lo stupore delle papa-girls e dei
curiosi che dalle tribune stavano ammirando le prove generali della
parata.
Tacchino Incavolato attaccò col suo cavallo di battaglia, che era
l’esempio della palla da biliardo ferma sul tavolo. “Un’altra palla
muove rapidamente verso la prima palla”, disse. “Le due palle si
urtano e la palla che prima era ferma ora acquista un movimento.
Voi siete tanto idioti da ritenere che sia possibile prevedere il movimento della prima palla semplicemente osservando il movimento
della seconda; di più, siete così idioti da pretendere di essere in
grado di prevedere il movimento della seconda palla. Ciò è impossibile. Come è impossibile prevedere ciò che accadrà a qualunque
essere vivente”.
263
Le papa-girls sembravano confuse. Certamente non erano in grado
di comprendere nulla di quanto Tacchino Incavolato dicesse. Uno
degli istruttori domandò: “e quindi voi chi sareste, dei rompipalle o
cosa?”, tanto da meritarsi un altro duro colpo, stavolta col fucile di
Tacchino Basito. Un tizio dall’aria elegante scese dalle tribune e si
avvicinò al centro della piazza.
“Così voi sareste contrari all’anticipo di morte?”, domandò.
“L’unico suicidio che riconosciamo è quello brado e selvaggio, diretta conseguenza della vita intesa come insieme di attimi deprecabili”, rispose Tacchino Incavolato. La sua voce proveniva cavernosa dall’interno della maschera. Il tizio si presentò come Mikel de
L’Obadià, studioso di Continuum Temporale, Storia di Filosofia
del Suicidio e dignitario del Ministero Suicidi & Festività del Gerarcato®.
“Dimenticate Wittgenstein”, disse. “La morte non è di questo
mondo, essa non è un fatto, ma la mancanza di un fatto”.
“Abbiamo anche un dottorone”, disse Tacchino Incavolato. “Ma il
suicidio, in quanto attesa consapevole della morte, non è forse il
fatto della morte? Non è forse l’esserci della morte nella vita, pertanto un fatto del mondo, pertanto una negazione e un rifiuto categorico di tutti i fatti accaduti e di tutti i fatti possibili? Ancòra, in definitiva, non si tratta forse di un fatto non-fatto, di una tautologia
contraddittoria?”.
“Può darsi”, rispose il dottorone. “Tuttavia l’anticipo di morte è
l’unica soluzione ai problemi dell’umanità”.
A quel punto Tacchino Incavolato rispose con la sua classica domanda-citazione, Cui Prodest? che era la classica domanda alla quale,
se posta ad un certo punto di qualunque discussione,
l’interlocutore non sapeva rispondere.
L’orologio del Palazzo Ottagonale segnava mezzogiorno e dieci.
Tacchino Disgustato notò che qualcuno aveva avvertito le guardie
e fece alcuni cenni agli altri membri del gruppo. Al che Tacchino
Incavolato rifilò un cazzotto al dignitario, che crollò a terra immediatamente, e ordinò di dirigersi con un gruppetto di papa-girls in
direzione dell’ingresso Est del Palazzo Ottagonale.
Sequestrarono all’incirca una trentina di ragazze e insieme con loro
fecero irruzione nel Palazzo armi in pugno, immobilizzando gli
uscieri e dichiarando quell’ala occupata dal Circolo dei Suicidi
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Abusivi. Tacchino Basito ammainò la bandiera del Gerarca e issò il
vessillo arancione del Circolo urlando le parole Libera Morte in Libero Stato!
A quel punto l’orologio del Palazzo segnava mezzogiorno e trentadue.
~
– Adesso ce ne stiamo qui ad aspettare – disse Tacchino Incavolato. Tacchino Depresso tentò di allungare le mani su una papa-girl
seduta sul pavimento, la schiena appoggiata al muro e il volto impaurito. – Che cazzo stai facendo? – domandò Tacchino Incavolato. – Non siamo mica degli stupratori –.
– Ma non rompere i coglioni – disse Tacchino Depresso, – Mi annoio – Tentò di infilare una mano nella scollatura della femmina
per tastare la consistenza dei seni.
– Leva quelle mani tozze e craciose dalla puledra – disse Tacchino
Incavolato.
Tacchino Depresso si risentì, ma lasciò perdere il divertimento improvvisato. – Non mi pare proprio il momento di metterci a litigare, brutti cazzoni che non siete altro – intervenne Tacchino Basito.
– È che ci annoiamo – disse Tacchino Depresso.
– Quando attacchiamo la protesta? – Tacchino Incavolato salì al
piano ammezzato per osservare fuori dalla vetrata.
– C’è una discreta folla – disse – ma non ancora sufficiente –.
– Ma quanta gente vuoi? – domandò Tacchino Basito.
– Parecchia – disse Tacchino Incavolato.
– Cosa intendi per parecchia? – domandò Tacchino Depresso.
– Un bel po’. – disse Tacchino Incavolato.
– Un bel po’ non mi sembra granché come risposta – disse Tacchino Basito.
– Ma che cazzo ne so, cristo. Un bel po’, parecchia, cosa volete,
un numero preciso? –
– Un numero preciso sarebbe un primo passo – disse Tacchino
Depresso.
– Almeno specifichiamo un grado di riempimento della piazza –
disse Tacchino Basito.
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– E va bene, cazzo. Me li state veramente sfracellando – disse
Tacchino Incavolato. – facciamo che quando la piazza si è riempita
dai portici del Palazzo Ottagonale fino alla statua di San Bertran de
Born possiamo cominciare –.
Guardarono dalla finestra. Ci saranno state al massimo una quarantina di persone, sufficienti a riempire dieci metri quadrati di piazza.
Ai lati alcune pattuglie della Gendarmeria e alcune inconfondibili
automobili del Dipartimento Nettezza Umana.
– Porca troia – esclamò Tacchino Depresso.
– Starai scherzando? – domandò Tacchino Basito.
– Ci saranno al massimo trenta persone, cazzo. Ci toccherà aspettare tre mesi prima che la piazza si riempia tanto quanto vorresti –
disse Tacchino Disgustato.
– Senza contare che ci faranno la pelle prima – sentenziò Tacchino Depresso.
– Fanculo – disse Tacchino Incavolato.
Si udirono degli starnazzi provenire dal pianterreno.
– Avete lasciato sole le puttanelle con gli uscieri, cristo! – Urlò. –
Sentite che casino, sembra un’aia del cazzo –
Si precipitarono tutti al pianterreno.
Alcune papa-girls attorniavano l’usciere ferito, tentando di curarlo
con un rotolo di Scottex e una bottiglietta d’acqua minerale. Altre
sbattevano i pugni contro la cancellata d’ingresso, cercando di attirare l’attenzione dei passanti.
– E vorreste curarlo così, alla cazzo di cane? – disse Tacchino Incavolato a una delle papa-girl. Le sguinzie si fecero da parte.
– Sbattete fuori sto porco esperantista – intimò – Facile che abbia
qualche malattia infettiva –
– Che cazzo c’entra? – Domandò Tacchino Basito.
– Sbattetelo fuori e basta, che cristo. – Urlò Tacchino Incavolato.
Tacchino Disgustato aprì il lucchetto della cancellata, Tacchino
Depresso e Tacchino Basito afferrarono l’usciere ferito per braccia
e gambe e lo trasportarono fuori dall’androne, sotto il porticato,
dove, presumevano, qualcuno si sarebbe preoccupato di condurlo
all’ospedale.
– Fanculo a te e a tutti i tuoi simili – urlò Tacchino Depresso tirando uno scatarro sulla divisa già abbondantemente insanguinata
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dell’usciere. Poi rientrarono, mentre Tacchino Disgustato si occupava di richiudere la cancellata.
– Legate i furbacchioni alle loro sedie – disse Tacchino Incavolato.
Tacchino Depresso e Tacchino Disgustato badarono a legare mani
e gambe degli uscieri con una fune che si erano portati da casa.
– E svuotatemi sto pollaio – intimò Tacchino Incavolato.
Le ventitré papa-girl furono condotte al piano ammezzato.
– Veloci, che cazzo, stiamo mica facendo una scampagnata! – urlò
Tacchino Depresso schiaffeggiando le natiche sode di una papagirl ventenne o poco più.
– Mica male, le papa-girls – disse Tacchino Disgustato trascinandone una per un braccio.
– Non le toccare, altrimenti Gad s’incazza – disse Tacchino Depresso.
– Avevamo detto niente nomi, per la puttana – Irruppe Tacchino
Basito.
– E cos’ho detto? – domandò Tacchino Depresso
– Hai pronunciato un nome, stronzo – disse Tacchino Basito.
– Questa storia dei tacchini mi sta sfracellando le palle – disse Tacchino Depresso.
– Vuoi fornire anche indirizzo e codice fiscale, brutto cazzone? –
ripeté Tacchino Basito.
– Ma lasciami perdere – disse Tacchino Depresso spingendo le
gallinelle in fondo al piano ammezzato, in maniera che fossero distanti dalla vetrata.
Quando le ebbero radunate e fatte tacere con una certa fatica, si
appostarono alla vetrata per verificare lo stato di riempimento della
piazza.
– Che noia – disse Tacchino Disgustato.
– Ci saranno quaranta persone – disse Tacchino Depresso.
– Quarantacinque al massimo – precisò Tacchino Basito.
– Qui finisce che si fa notte – disse Tacchino Disgustato.
– Ma che rottura di palle! – esclamò Tacchino Incavolato.
– Avete finito di lamentarvi? Sembrate dei marmocchi del cazzo.
– Scusa ma perché dobbiamo per forza utilizzare un linguaggio
così volgare? – Domandò Tacchino Depresso.
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– Ancora? Ne abbiamo già parlato. – Rispose Tacchino Incavolato. – Che noia tutte le volte la stessa storia.
– L’esperanto governativo non prevede termini volgari – disse
Tacchino Basito.
– E una protesta si comincia dal linguaggio – aggiunse Tacchino
Incavolato.
– Il fatto è che mi sento a disagio – si lamentò Tacchino Depresso.
– Però quando era ora di infilare la tua mano nella scollatura della
squinzia non ti sentivi a disagio – disse Tacchino Basito.
– Non farla tanto lunga, cazzo – disse Tacchino Depresso.
– Uh - uh, sentitelo, il chierichetto del cazzo, ha detto cazzo.
– Ma fottiti.
– E persevera col suo vergognoso linguaggio volgare! Lubrico!
– E basta, cristodio – intervenne Tacchino Incavolato.
In quel momento udirono dei rumori provenire dall’androne, dove
gli uscieri legati mani e piedi stavano facendo un casino nero.
– Dovevamo imbavagliarli – disse Tacchino Disgustato.
– Bravo così ci crepavano per soffocamento – disse Tacchino Depresso.
– Mica ho detto che dovevamo soffocarli, cazzo. Ho solo detto
che se li imbavagliavamo a quest’ora non eravamo qui a sopportare
i loro piagnistei – disse Tacchino Basito.
– Complimenti per la proprietà di linguaggio – disse Tacchino
Depresso.
– Ma certo, mettiamoci anche a fare lezione di grammatica e ortografia – intervenne Tacchino Incavolato.
– Non sopporto l’uso distorto dei tempi grammaticali, cazzo, non
ce la faccio proprio. E Tico non ne azzecca uno – disse Tacchino
Depresso.
– Ma guarda che sei un bello stronzo – disse Tacchino Basito.
– Hai pronunciato di nuovo un nome, porca puttana – inveì Tacchino Disgustato.
– Abbiamo detto niente nomi, cazzo – berciò Tacchino Incavolato.
– Che cazzo mi è scappato. Non l’ho mica fatto apposta.
– Sei una testa di cazzo – disse Tacchino Disgustato.
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– Devo andare in bagno a levarmi questa maschera altrimenti
scoppio – disse Tacchino Depresso. – Puzza da far vomitare.
– Sarà il tuo alito merdoso ad averla ammorbata.
– Ma fottiti.
– Come siamo diventati suscettibili.
– Del resto dopo i sette scotch di ieri sera.
– Dove sta il bagno? – domandò Tacchino Depresso agli uscieri.
Nessuno rispose.
– Siete sordi? Vi ho chiesto dove sta il bagno –
Poiché ancora nessuno rispose, Tacchino Incavolato estrasse la sua
rivoltella originale della prima guerra mondiale e colpì un usciere
dietro il collo.
– Haltigo, bonvolu! – urlò un altro usciere.
– Figlio di puttana – disse Tacchino Depresso, e gli rifilò un colpo
all’altezza della mascella, ribaltando la sedia sul pavimento.
– Se qualcun altro di voi figli di buona donna ha ancora voglia di
parlare esperanto può aprire quelle bocche marce anche subito –
disse Tacchino Basito.
Uno degli uscieri indicò il gabbiotto.
– Non mi sento bene – disse Tacchino Incavolato.
– Che hai? – gli domandò Tacchino Disgustato.
– Qualcosa di brutto – rispose Tacchino Incavolato.
– Falla finita – gli disse Tacchino Depresso prima di andare nel
gabbiotto degli uscieri per levarsi la maschera.
Tacchino Incavolato si osservò le mani.
– Non vi sembra che le mie dita presentino delle malformazioni?
– domandò.
– Non mi sembra proprio – rispose Tacchino Disgustato.
– Le malformazioni alle dita possono indicare un cancro ai polmoni – disse Tacchino Incavolato.
– Che noia – disse Tacchino Basito.
– Ti sembra noioso un cancro ai polmoni?
– Noiosissimo.
Tacchino Depresso tornò dal gabbiotto.
– Non per disturbarvi, ma dalla finestrella del cesso ho visto una
marea di porci. –
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– Cosa intendi per porci? – domandò Tacchino Basito, ancor più
basito di quanto non indicasse l’espressione sulla sua maschera.
– Ma la polizia no? Gli spazzamorti, l’Igiene Sociale. I porci, cazzo, i porci! – urlò Tacchino Depresso.
– Stanno circondando l’edificio – disse Tacchino Incavolato.
– Porca vacca – disse Tacchino Basito.
– Non sarebbe il momento di attaccare con la protesta? – domandò Tacchino Disgustato.
Udirono strepiti e rumoracci provenire dal piano ammezzato.
– Cazzo abbiamo lasciato sole le papa-girls – disse Tacchino Incavolato.
Le ragazze stavano di nuovo sbattendo i pugni contro la vetrata, latrando e schiamazzando.
Tacchino Incavolato si precipitò al piano per riportare l’ordine.
Tacchino Basito rimase a guardia dell’androne, Tacchino Depresso
e Tacchino Disgustato seguirono Tacchino Incavolato.
– Via di qui, fighelesse! – urlò Tacchino Incavolato strattonando
un paio di papa-girls. – Fatele sloggiare, cazzo.
– Portate via il vostro culo rapidamente – intimò Tacchino Depresso schiaffeggiando ancora le natiche di due o tre papa-girls.
– Ancora con ste mani? – disse Tacchino Incavolato.
– E non rompere i coglioni! Devono imparare – disse Tacchino
Depresso.
– C’ha ragione – confermò Tacchino Disgustato, utilizzando la
stessa tecnica di schiaffeggiamento natiche per allontanare le signorine dalla vetrata.
Quando le fighelesse furono nuovamente ammassate in fondo al
piano ammezzato, distanti dalla vetrata, i tre guardarono fuori.
– Non c’è un cazzo di nessuno – disse Tacchino Depresso.
– Saranno al massimo cinquanta persone – confermò Tacchino
Disgustato.
– Aspettiamo – disse Tacchino Incavolato.
– E cosa aspettiamo, che gli spazzamorti ci vengano a fare il culo? – disse Tacchino Depresso.
– Ci teniamo le papa-girls – disse Tacchino Incavolato.
– In che senso? – domandò Tacchino Disgustato.
270
– Nel senso che ce le teniamo qui fin dopo la parata – disse Tacchino Incavolato.
– Così ci fanno la pelle – disse Tacchino Depresso.
– Le damigelle del Gerarca sono fondamentali per le coreografie
della parata di domani – disse Tacchino Disgustato.
– Appunto – disse Tacchino Incavolato.
– Si era parlato di una protesta con megafono dal Palazzo del
Ministero Suicidi & Festività®, non di sequestrare ventitré damigelle papali della Giostra del Peccato – disse Tacchino Disgustato.
– E secondo te non le abbiamo già sequestrate? – domandò Tacchino Depresso.
Dall’androne arrivò la voce di Tacchino Basito.
– Si può sapere cosa cazzo state facendo? – urlò.
– E non stritolare le palle, arriviamo subito – urlò in risposta
Tacchino Depresso. – Cos’è, ha paura a stare da solo?
– Fanculo. Facciamolo – disse Tacchino Disgustato.
– Ma sì, teniamoci le pollastrelle per una notte – confermò Tacchino Depresso.
– Avete sentito belle signorine? – esclamò Tacchino Incavolato
rivolgendosi alle papa-girls in fondo al corridoio. – Pare che
passeremo insieme più tempo del previsto.
Le papa-girls reagirono con alcuni gridolini. Poi una di loro si fece
avanti. Aveva all’incirca vent’anni, e si presentò come Amber.
– Non potete assolutamente tenerci qui – disse – domani dobbiamo partecipare alla parata per la Giostra del Peccato.
– Bella scoperta – disse Tacchino Depresso.
– Non vi vergognate? Ci sarà anche il nostro amato Gerarca –
disse Amber.
– Puoi capire cosa ce ne frega! – esclamò Tacchino Disgustato.
– Siete delle persone ignobili – disse Amber.
– Siamo dei romantici – disse Tacchino Incavolato.
– Ci ribelliamo al determinismo del governo per affermare il libero arbitrio – disse Tacchino Depresso.
– Guarda che coglioni – disse un’altra papa-girl dal fondo del
corridoio.
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– Ti sembra questo il modo di esprimerti? – disse Tacchino Depresso.
– Modo di esprimersi o no, siete comunque dei coglioni – ribadì
la papa-girl.
– Cazzo, è inaccettabile – disse Tacchino Disgustato.
– Farsi trattare così da una puttanella in fuseaux – disse Tacchino
Depresso, e fece per afferrarla.
– Fermo, cazzo! – lo bloccò Tacchino Incavolato.
– Sperate di cambiare le cose con questa pagliacciata? – domandò Amber. – Ma in realtà è già tutto previsto. Vi verranno a
prendere e vi sbatteranno in prigione, vi terranno in vita in tutti
i modi conosciuti dalla scienza, avete capito? Camperete
cent’anni! – Urlò.
– Ma senti questa rotta in culo – disse Tacchino Basito.
– Oh come sono romantici i suicidi abusivi. Calzamaglia arancione e per la circostanza perfino una meravigliosa maschera di
gomma da tacchino – disse l’altra papa-girl.
In fondo al corridoio, le papa-girls ammassate sembravano più intimorite dalle parole delle loro amichette che non dai sequestratori.
– Ci stanno per caso prendendo per il culo? – chiese Tacchino
Disgustato.
– Mi sa tanto di sì – confermò Tacchino Depresso.
– Però la calzamaglia arancione non mi è mai parsa una grandiosa idea – disse Tacchino Disgustato.
– Per non parlare di queste puzzolenti maschere – disse Tacchino Depresso.
– E le armi, cazzo, queste non sono armi, sono reperti archeologici – aggiunse Tacchino Disgustato.
– Che rottura! – urlò Tacchino Incavolato. – Fate ammutolire
queste rompipalle, prima che mi scoppi la testa. In quanto a
voi, siete peggio delle femmine, cazzo, e la calzamaglia e le maschere e le armi. Fanculo, fate stare zitte le galline e state un
po’ in silenzio anche voi, cristo di un dio.
Dal pianterreno arrivò Tacchino Basito ansimando come una furia.
– Che c’è adesso? – domandò Tacchino Incavolato.
– C’è che siamo circondati – disse Tacchino Basito. – Gli uscieri
chiedono di essere lasciati liberi.
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– Neppure da morti – disse Tacchino Incavolato.
Poi disse di lasciarlo stare per un po’, che ne aveva le palle piene,
che doveva riflettere, eccetera. Prese il suo zainetto e se ne andò al
pianterreno.
– Qui sta andando tutto a schifìo – disse Tacchino Disgustato.
– In che senso? – domandò Tacchino Basito.
– Nel senso che lasciamo perfino che quattro bambinette depravate ci prendano per il culo, ecco in che senso – disse Tacchino Depresso.
– E la protesta? – domandò Tacchino Basito.
– Neanche l’ombra – disse Tacchino Disgustato.
– Che cazzo ha? – Domandò Tacchino Basito.
– Niente, poi gli passa. – Disse Tacchino Disgustato.
– E comunque la novità è che la protesta col megafono non si fa
più – disse Tacchino Depresso.
– E si requisiscono le bambocce – continuò Tacchino Depresso.
– Grazie per aver chiesto il mio parere – disse Tacchino Basito.
– Adesso non rompere anche tu – disse Tacchino Depresso.
– E comunque mi pare una vera stronzata – disse Tacchino Basito – Gli spazzamorti sono dappertutto.
– A me l’idea di tenere qui le pollastre per tutta la notte piace
non poco. Ce la spassiamo e roviniamo la festa al Governo –
disse Tacchino Disgustato.
– Appunto – confermò Tacchino Basito.
– Sì, ce la spassiamo – disse Tacchino Depresso – ma se Gad
non ci lascia fare un cazzo.
– Ancora? – strillò Tacchino Basito.
– Hai ripetuto un nome ancora? – confermò Tacchino Disgustato.
– Porca puttana non lo faccio mica apposta – si scusò Tacchino
Depresso.
In quel momento gli agenti lanciarono un numero consistente di
lacrimogeni, alcuni dei quali sfondarono la vetrata del piano ammezzato e iniziarono a fare il loro sporco lavoro all’interno
dell’edificio. Le papa-girls si rintanarono l’una accanto all’altra,
mentre i rivoltosi stentavano a comprendere ciò che stava accadendo.
273
– Porca troia – gridò Tacchino Disgustato.
– Ci sparano i lacrimogeni – disse Tacchino Basito.
– Rispondete al fuoco, cristo – urlò Tacchino Incavolato risalendo le scale dal pianterreno, dove aveva scaricato il proprio nervosismo prendendo a calci gli uscieri.
– Spara – disse Tacchino Depresso a Tacchino Disgustato.
– Cosa intendi dire per spara? – domandò Tacchino Disgustato.
– Cristo premi quel cazzo di grilletto no! – urlò Tacchino Incavolato.
Tacchino Disgustato premette il grilletto della sua arma e il proiettile esplose all’interno del caricatore. Il rinculo lo sbatacchiò
all’indietro contro il muro, la polvere da sparo lo ferì sul collo e
sull’orecchio.
A quel punto cominciò a latrare come una femmina.
– Porco schifo! – urlò – Oh porco schifosissimo che male nero!
– Queste fottute armi del cazzo – disse Tacchino Basito.
– Secondo me è ora di tagliare la corda – disse Tacchino Disgustato.
I lacrimogeni cominciavano a fare effetto. Gli occhi lacrimavano e
l’aria si stava facendo irrespirabile.
– Hai il progetto? – domandò Tacchino Basito a Tacchino Incavolato.
– Certo che ce l’ho – rispose Tacchino Incavolato.
– Mi sembra il momento di tirarlo fuori, cazzo – esclamò Tacchino Depresso mentre Tacchino Disgustato continuava a piagnucolare dal dolore.
– E falla finita, che cazzo – gli sbraitò addosso Tacchino Incavolato – Ti lasciamo qui con le femmine.
– Fanculo – ringhiò Tacchino Disgustato.
Scesero velocemente al piano terra, dove osservarono gli uscieri
sanguinanti appoggiati contro la parete. Avevano le bocche tappate
da stracci e gli occhi lacrimanti.
– Li lasciamo qui? Domandò Tacchino Basito.
– Vorresti portarli con noi? Rispose Tacchino Incavolato.
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– Mi sembrano messi male – disse Tacchino Basito.
– E chissenefrega – urlò Tacchino Depresso.
– Pensiamo a trovare questo passaggio del cazzo – intervenne
Tacchino Incavolato.
– Adiaŭo, filoj de inaĉo – gridò Tacchino Basito all’indirizzo degli uscieri, mostrandogli il dito medio.
L’orologio segnava le quattordici e venticinque, e la situazione cominciò a farsi piuttosto confusa; il fumo dei lacrimogeni aveva avvolto tutto l’androne e il piano ammezzato quando i quattro abusivi iniziarono la ricerca del passaggio sotterraneo.
Seguendo le indicazioni della piantina penetrarono in un vecchio
stanzone colmo di quadri elettrici lerci. Cominciarono a tirare calci
a scatoloni contenenti cianfrusaglie, lampadine bruciate, pezzi di ricambio per strumenti che non seppero riconoscere.
Impiegarono all’incirca venticinque minuti a trovare il passaggio
che conduceva nei sotterranei. Era bloccato da una vecchia porta
arrugginita. Utilizzarono alcune barre di ferro per forzarla e aprirla,
e discesero una scala profonda all’incirca sei o sette metri, al termine della quale dovettero forzare un’altra serratura, e finalmente
giunsero nella rete fognaria.
Tacchino Basito estrasse una torcia elettrica dal proprio zaino e la
accese; consultarono brevemente la piantina, poi si misero in marcia in direzione ovest.
– Che puzza di schifo – disse tacchino Depresso.
– Ti credo, siamo nelle fogne – osservò Tacchino Basito.
– Proprio una bella giornata di merda – sussurrò Tacchino Disgustato.
– La volete fare un po’ finita? – domandò Tacchino Incavolato –
Siete peggio dei vecchi, una lamentela continua.
– Adesso possiamo smetterla di utilizzare questo linguaggio? –
domandò Tacchino Depresso.
– Non ci pensare neanche – rispose Tacchino Basito – atteniamoci al programma.
– Ma quale programma dei miei coglioni – disse Tacchino Disgustato con voce tremante per il dolore – non ne è andata una
per il verso giusto.
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– Sempre il solito disfattista – disse Tacchino Basito.
– Ah io sarei un disfattista? Può anche essere. Però non sei tu
che hai un orecchio mezzo scorticato dalla polvere da sparo
della tua arma del cazzo – inveì Tacchino Disgustato.
– Un vetro mi ha scheggiato la mano – rispose Tacchino Basito.
– Fottiti, quello è un graffio – disse Tacchino Depresso.
– Dovremmo quasi esserci – disse Tacchino Incavolato guardandosi attorno e studiando la piantina della rete fognaria.
– Almeno togliamoci queste ridicole maschere – abbozzò Tacchino Depresso.
– Le maschere non si toccano – sentenziò Tacchino Incavolato.
– Devo trattarvi come bambini del cazzo, cazzo.
– Ma guarda che schifo sto posto – disse Tacchino Basito.
– C’è da prendersi il tetano – confermò Tacchino Disgustato.
– Come minimo – aggiunse Tacchino Depresso – qui c’è da beccarsi leishmaniosi o leptospirosi fulminanti.
– Basta! – gridò Tacchino Incavolato, fermandosi di colpo e
guardando verso l’alto.
Avevano camminato lungo la rete fognaria all’incirca un paio di
chilometri, fino a raggiungere il punto nel quale affiorava una scala
di ferro inserita nei mattoni della parete; sopra c’era una botola che
secondo la piantina li avrebbe condotti alle cantine dell’Hotel Metradòr. La scala sembrava francamente mezza marcia, e almeno un
paio di pioli davano l’idea di non poter reggere il peso di una persona adulta.
Ciononostante la percorsero senza intoppi, riuscendo poi ad aprire
la botola con facilità.
Si ritrovarono così in un grande ambiente buio; la torcia elettrica
evidenziò numerose scaffalature alle pareti. Quando Tacchino Incavolato spinse l’interruttore e una quindicina di luci al neon illuminarono la stanza, ebbero la certezza di trovarsi nell’immensa dispensa dell’Hotel Metradòr.
– Era ora, cazzo – disse Tacchino Basito.
– Facciamo un po’ di spesa – suggerì Tacchino Depresso.
Cominciarono a prelevare roba dagli scaffali. Tacchino Disgustato
cercava qualcosa per disinfettare la ferita ma non trovò nient’altro
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che un po’ di garza e degli stracci per le pulizie. Tacchino Depresso
trangugiò una birra, piantò un rutto, poi si mise a riempire lo zainetto con brioche e succhi di frutta, barrette di cioccolato e bottiglie di fanta e coca. Tacchino Basito trovò delle fette di pane e le
imbottì con camembert e prosciutto crudo. Tacchino Incavolato
mangiò salame e bevve vino rosso direttamente dalla bottiglia.
– E adesso? – domandò Tacchino Disgustato.
– Adesso saliamo in cima al palazzo e facciamo quello che c’è da
fare – rispose Tacchino Incavolato.
– Che giornata di merda – disse Tacchino Disgustato. Un rivolo
di sangue gli scendeva lungo il collo.
– Non perdiamo tempo – disse Tacchino Incavolato.
I quattro si intrufolarono nelle cucine del Metradòr generando
scompiglio tra cuochi e camerieri, si fecero largo a percosse tra i
clienti dell’hotel, presero un ascensore che li condusse fino
all’ultimo piano. Da lì una breve rampa di scale portava sul tetto
del palazzo.
Dall’alto la città era meravigliosa. I tetti rossi delle case e quelli scuri delle residenze barocche risplendevano sotto i colpi decisi di un
sole acceso come un minerva. Quattro tizi avevano appena celebrato un suicidio di gruppo, Tacchino Incavolato pensò che per
poco non erano finiti in bocca ai verificatori. Guardando di sotto
videro i corpi sfracellati e una folla che li attorniava. Distinsero i
due verificatori e alcuni agenti di Nettezza Umana che si apprestavano a ripulire l’asfalto e il marciapiede.
– Prepara le tute alari – disse Tacchino Incavolato a Tacchino
Basito.
Tacchino Basito estrasse la sua tuta alare dallo zaino e cominciò a
trafficare.
– Come cazzo si usano? – domandò dopo qualche minuto.
– Che disdetta non ricordare mai niente – si lamentò Tacchino
Depresso – è tre anni che ci esercitiamo.
– Allora prego, mister so-tutto-io, accomodati – disse Tacchino
Basito lanciando la sua tuta alare a Tacchino Depresso.
Tacchino Depresso armeggiò con la tuta e la lasciò cadere a terra.
– Fanculo – disse.
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– Non mi starete dicendo che non siamo in grado di utilizzare le
tute alari – disse polemicamente Tacchino Incavolato.
– Te lo stiamo dicendo, porca di quella vacca sfondata – disse
Tacchino Basito.
– Telefona a Stan – disse Tacchino Depresso.
– Porco cazzo – disse Tacchino Disgustato – che giornata di
merda.
Tacchino Incavolato compose il numero di Stan, il membro che
aveva fornito non solo le tute alari ma anche le piantine della rete
fognaria sottostante il Palazzo Ottagonale.
– Perché non risponde? – domandò Tacchino Disgustato.
– Aspetta un attimo, cristo – disse Tacchino Incavolato.
– Suona libero? – Chiese Tacchino Basito.
– Pronto? – disse Tacchino Incavolato. Rimase in ascolto qualche secondo – Che cazzo non riattaccare eh – gridò nel telefono – ha riattaccato.
– Porcaccia eva – disse Tacchino Depresso.
– È un vero stronzo – disse Tacchino Basito.
– È con la figlia – spiegò Tacchino Incavolato – alla Corrida dei
Tacchini.
– Ditemi che è un incubo – disse Tacchino Disgustato.
– Noi siamo qui a cinquanta metri da terra e l’unico in grado di
spiegarci come usare queste cazzo di tute alari butta giù il telefono perché ha accompagnato la figlia alla Corrida dei Tacchini?
– Richiamerà – disse Tacchino Disgustato.
– Un corno! – esclamò Tacchino Basito tirando fuori dallo zaino
un manuale di volo alare per capirci qualcosa.
– Lascia perdere – disse Tacchino Disgustato – prepariamoci al
gesto dimostrativo.
– A chi tocca? – domandò Tacchino Basito.
– Tiriamo a sorte? Disse Tacchino Incavolato.
Tirarono a sorte e il prescelto fu Tacchino Disgustato. Si sarebbe
calato dal tetto del Metradòr imbracato in una speciale corda elastica e avrebbe comunicato un messaggio, al termine del quale avrebbe proceduto al gesto dimostrativo.
– È pieno di gente – disse Tacchino Basito guardando di sotto.
278
– Meglio – disse Tacchino Incavolato.
Imbracarono Tacchino Disgustato con la corda elastica. Tacchino
Incavolato gli diede la sua rivoltella, caricandola con i proiettili
esplosivi che McDougal aveva confezionato per l’occasione.
– Non farà cilecca? – domandò Tacchino Disgustato.
– Stai tranquillo, ti farà un bel buco – disse Tacchino Depresso.
– L’I-Pod ce l’hai? – domandò Tacchino Basito.
– Cosa c’è dopo? – domandò Tacchino Disgustato.
– Niente – disse Tacchino Incavolato.
– Niente di niente – confermò Tacchino Depresso.
– E quindi? – domandò ancora Tacchino Disgustato.
– E quindi cosa? – disse Tacchino Depresso.
– E quindi sarà finito tutto – disse Tacchino Incavolato.
– Come staccare una spina – disse Tacchino Depresso.
– Una cannonata – aggiunse Tacchino Incavolato.
Tacchino Disgustato rimase qualche secondo immobile sul parapetto, provando a immaginare qualcosa che somigliasse al niente.
Il sole al tramonto era simile al nucleo terrestre (lo suppongo io,
non ho mai visto il nucleo terrestre). C’era un profumo di uova alla
coque e gardenie nebulizzate. Un uccello sfrecciò dalle parti del
Metradòr, e le sue movenze erano come i remi di una barca a remi.
– Ce l’hai l’I-Pod? – domandò Tacchino Basito.
– Ce l’ho – rispose Tacchino Disgustato rovistando nel suo zaino.
La sua imbracatura era simile a quella dei tizi che puliscono i vetri
dei grattacieli. Un gancio era stato fissato a un robusto piolo di ferro infilato nel muro.
– Vado? – domandò.
– Aspetta, cazzo. Dobbiamo risolvere il problema con le tute alari. Niente tute, niente gesto dimostrativo – disse Tacchino Incavolato.
Tacchino Disgustato restò in bilico sul parapetto all’incirca tre minuti, senza che sotto nessuno si accorgesse di nulla. Poi il telefono
di Tacchino Incavolato squillò. Lo sentì imprecare e insultare Stan.
In dieci minuti di conversazione fitta riuscirono a preparare le tute
alari per il volo.
– Buon viaggio – disse poi Tacchino Incavolato.
279
Tacchino Depresso e Tacchino Basito cominciarono a preparare
l’apparecchiatura per diffondere la colonna sonora di tutti i suicidi
abusivi.
Tacchino Disgustato si calò lungo l’edificio, e là sotto qualcuno
cominciò ad accorgersi di quella figura sospesa nel vuoto.
Impressioni in punto di morte: i nonni in una foto da ragazzi, il
Bacino Artificiale di Krasnoyarsk, la caccia al cinghiale in Siberia e
l’asserzione 6.431 del Tractatus Logico-Philosophicus. Il monaco
buddista che dopo una giovinezza dissoluta si convertì. Ritiratosi
in un monastero, fece voto di castità e visse mille anni.
Passarono una decina di minuti. Le note di Brigitte Bardot cominciarono a echeggiare.
Poi uno scoppio violento, le grida delle donne.
Lo vedete? C’è troppo affanno per la vita, disse Tacchino Basito, o
forse era qualcun altro.
280
VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (8)
___________________
Cenni storici sul Circolo dei Suicidi Abusivi in un editoriale giornalistico
degli anni ’60 13
È risaputo che i nostri neghittosi cittadini pervengono al gesto
apicale – o come si deve dire nei temi delle medie, suicidio® – governati da un vaticinio, una divinazione, un pronostico: essi indugiano pazientemente sulla crosta terrestre finché un oracolo grasso
e peloso vomita il responso a loro dedicato, e quand’esso risulti
contrario alla vita, hanno pieno diritto di perseguire l’assenza
sempiterna.
È altresì noto che vi sono molti esseri umani che vagheggiano
di revocare la propria avvilente presenza a seguito d’una iattura,
una depressione, o anche soltanto un capriccio passeggero.
Ciò che molti ignorano è che una camarilla di codesti meschini,
sfaticati abitanti della vita, teppisti esistenziali, fobantropi impartecipanti alle cosucce umane, s’è congiunta com’è proprio delle sette, congregandosi in cantine umide o in sale da ballo deserte per la
chiusura settimanale, alle ventuno e trenta di ogni lunedì, giorno
notoriamente fiacco per balli e ubriacature.
La prima cellula di un gruppo sovversivo organizzato votato alla contestazione del Continuum Temporale Sabbionasso e del Programma Autoeliminazione Esseri Umani si rivelò ai cittadini di Sabbione nell’aprile
del 1963, quando un dipendente del Ministero Suicidi & Festività® (Dipartimento Calendario Ricreativo Promozionale) incendiò la propria automobile e la lanciò a centoventi chilometri orari contro la vetrina della
sede distaccata dell’Ufficio Cause Eleggibili di Suicidio®, ministero che gli
aveva negato per quattro volte consecutive la possibilità di procedere secondo clausola 99 (a seguito di un matrimonio tragicamente naufragato).
Dalle susseguenti indagini emerse un fatto del tutto nuovo e inaspettato:
il suicida abusivo, che paralizzò il traffico urbano per quasi quattro ore e
produsse grande scalpore tra l’opinione pubblica, indossava un saio di
color arancione e stringeva nella mano destra un messaggio che, nonostante il rogo, fu decifrato; esso recitava: la mia fine è il nostro inizio.
13
281
Ma che fanno questi scialacquatori di tradizioni, questi antivivi
scalmanati e riottosi che hanno avanzato la romanzesca ingenuità
di battezzarsi Setta dei Suicidi Abusivi? Riferiscono l’un l’altro di
spose apostate e fidanzate transfughe, impieghi scapitati, frustrazioni letterarie, scoramenti extraconiugali, frodi, perdite, bisticci, e
in generale inneggiano a tutto ciò che rende l’esistenza un nudo
fatto organico e desolante, e perciò meritorio d’essere annichilito.
Fondatore del movimento fu un monaco iscariotico di cui si
favoleggia che durante la vita desiderasse solo porvi fine, inoltrando ventotto domande al reparto preposto e ottenendo ventotto
dinieghi. Né l’adulterio patito né la profonda apatia convinsero i
funzionari a concedergli il sospirato ammazzamento, talché il monaco, in preda a deliri spasmodici e guise salmodianti, adunò una
combutta di cialtroni sempre pronti a manifestare, picchettare,
presidiare, rivendicando il diritto d’ogni essere umano di propugnare la propria ignìvoma passione, la quale soprintende alle illecebre del trapasso.
In primo luogo essi si convinsero a enunciare un precetto, o un
motto, che dopo penose rassemblaggini e tristi pantomime, dopo
botti di vino acetoso e dispense di cibi inscatolati, fu farsescamente definito una volta per tutte: meglio cadaveri illeciti oggi che incensurati anneghittiti domani.
Pertanto intrapresero i loro scorrazzamenti per le strade del
Sabbionasso, indossando una calzamaglia di color arancione, vòlti
a garrire ipotesi schernevoli e asprigne, illazioni sottecchiose e illascivìte tesi, magnificando nomi e imprese di celeberrimi ammazzatòri di sé stessi. La reazione del Gerarca fu intormentita, tanto da
sguinzagliare l’intero dipartimento di Nettezza Umana affinché
cacciasse senza pietà i delinquenti.
E qui dunque urgeva un esempio, affinché si potesse credere
plausibile il miraggio d’autoeliminazione liberale; e a chi tocca di
fornire esempi, se non al promotore?
Egli visse ancora qualche tempo sedotto dagli ammiccamenti
della dea avernesca, pronunciando sermoni che nessuno osò udire.
Ammazzatosi abusivamente (simbolicamente si lanciò dal tetto
del Ministero Suicidi & Festività®), poterono maledirlo con cerimonia ufficiale e schernirlo, dileggiarlo, oltraggiarlo, inumarlo secondo il rito cattolico ch’egli abominava; il suo nome venne di282
sperso, l’Averno che tanto auspicò fu convertito in disagevole abitacolo con le molle al culo; il suo avello cattolico, esposto al publico ludibrio, fu ammicco, salamelecco, stóggio e monito per tutti i
ricalcitranti teppistelli della cricca, i quali tetragoni, chiusi, asineschi, seguitarono nel loro malevolo intento sino ai giorni nostri,
sostenendo che perfino un dio riconosciuto, in passato, avesse
saggiamente posto fine ai propri giorni, e dunque, perché non loro?14
Organigramma
L’unica figura di spicco è quella del fondatore del Circolo, detto Monaco Arancione. Egli ha dettato le norme di condotta per
tutti i membri, riportandole in un documento detto Manifesto.
Tutti i membri del Circolo, a eccezione del Monaco Arancione,
hanno pari diritti e doveri, e sono sulla stessa linea d’importanza.
Un libero cittadino seguace del Monaco Arancione racconta la sua conversione al Circolo dei Suicidi Abusivi in un’intervista radiofonica
Era una notte stellata. Avevo appena lasciato mia moglie in una
birreria tra sciamannati ubriachi e potenziali stupratori. Non provavo alcun senso di colpa.
Mi avevano chiamato d’urgenza dall’azienda. Il mio informatore mi rivelò che l’Amministratore Delegato aveva avuto un attacco
di cuore. In altri termini giaceva riverso su un letto d’ospedale, o
meglio ancora stava tirando gli ultimi.
L’assemblea durò pochi minuti. Il mio nome fu fatto
all’unanimità e divenni il nuovo Amministratore Delegato di una
delle aziende più importanti del territorio.
Successivamente l’operato della Setta si esaurì e tutti i suoi membri,
tra i quali il Monaco Arancione, furono dimenticati, almeno fino
all’avvento del nuovo corso attuale (autodenominatosi non più setta,
bensì circolo, a volerne sottolineare l’indirizzo laico ed extra-religioso),
propugnato da un nuovo Monaco Arancione.
14
283
Poi uscimmo a guardare le stelle sbirciando tra le lenzuola stese
sul tetto del palazzo. Solitamente le lenzuola pulite rivestono il
corpo di candore e riempiono la mente di pensieri positivi, ad
esempio quelli sessuali inerenti giovani donne sexy e nel pieno della fertilità. Mi sentivo felice. Il mondo era bellissimo e io ero a capo di un’azienda florida, per quale ragione non avrei dovuto essere
felice?
Eppure proprio in quel momento, tra le lenzuola stese e la via
lattea, compresi che ogni felicità è illusoria, e che la mia gioia non
era altro che una caduca e fallata percezione della realtà, obnubilata dall’esistenza materiale. Il mio spirito era dedito alla morte.
Un padre suicida abusivo descritto sul blog della figlia tredicenne dopo il
ritrovamento del cadavere.
Se mio padre, il mio papà, avesse subito un incidente domestico nel quale per disgrazia fosse rimasto ucciso ad esempio da un
cortocircuito, o dal precipitare di un lampadario in prossimità della
sua calotta cranica, il Sabbionasso, la nostra terra, sarebbe stata un
posto leggermente migliore in cui vivere. Eppure non posso negare l’evidenza che un beffardo fato mi ha riservato: sono direttamente collegata a lui, il mio papà, per via di certe questioni sanguigne che tramuterei volentieri in sanguinarie. Non posso negare di
essere sua figlia, la sua primogenita, nata quando ancora la sua
mente non era ottenebrata dai pensieri che poco alla volta lo hanno devastato, investendola di un’aura che non ha assolutamente
più nulla di umano. Epperò sono anche un’adolescente appassionata di fumetti horror, musica pop inglese/americana e di cospirazioni internazionali, per cui la mia suprema ambizione è quella di
apparire in televisione e di procacciarmi amicizie su internet, amicizie che un giorno potranno tornarmi utili per organizzare ad
esempio una fuga da questa casa vecchia e oppressiva. Ciononostante sono anche un’adolescente cicciottella e brufolosa, per
quanto abbia incominciato una cura dimagrante e mi lavi la faccia
tutte le mattine e tutte le sere con topexan ai frutti di bosco. Ho
284
deciso di aprire una finestra sulla mia vita, una vita costretta nelle
sembianze e nell’evidenza di figlia di mio padre, il mio papà, un
uomo orribile che non merita più di esistere neppure nel ricordo.
Ingresso nel Circolo dei Suicidi Abusivi
I membri del Circolo dei Suicidi Abusivi non possono in nessun caso invitare parenti, conoscenti, amici. Non deve sussistere
alcuna relazione precedente tra i membri del circolo.
Ciò per tassativo divieto del Monaco Arancione, affinché gli
spazzamorti non possano risalire agli altri membri.
Un nuovo membro che desidera entrare a far parte del Circolo
deve compilare un test detto OCA. Il test è necessario per diventare un suicida abusivo (il Monaco Arancione lo ha desunto da qualche folle religione contemporanea).
Un membro appende una foto del Monaco Arancione (dimensioni uno e trentacinque per uno) alla parete. Il culto della personalità, dice uno dei membri, è tratto fondamentale del nostro
gruppo. Quello che occorre adesso, spiega il supervisore – il
membro, tirato a sorte, che durante la cerimonia è il più alto in
grado dei tre –, è fare chiarezza sulle parole malcomprese.
A questo punto la cerimonia d’iniziazione può cominciare: si
tratta di una cerimonia piuttosto sobria, senza fronzoli. Unica eccezione la musica di sottofondo, sempre la stessa, sempre il brano
Brigitte Bardot di Jorge Veiga.
Un membro estrae dalla valigetta un elettro-psicometro. Il Supervisore chiacchiera col novizio, forse per metterlo a suo agio; si
misura la resistenza elettrica cutanea del corpo del novizio, scatta
l’applauso rivolto al ritratto del Monaco Arancione, si sorride e ci
si stringe la mano.
Abbiamo rilevato l’intensità delle sue emozioni, dice il Supervisore. Lei ora può definirsi un pre-clear.
Ripetono insieme una formuletta (il novizio legge mentre gli altri enunciano a memoria):
285
Le persone soppressive possono essere private della proprietà
o ferite con ogni mezzo.
Possono essere imbrogliate, gli si può fare causa, mentire o distruggere.
Conclusione del rito battesimale:
Tu sei un essere spirituale che sei vissuto nel passato e continuerai a vivere nel futuro.
Nessuno ha mai compreso il significato di tali affermazioni, ma
nessuno si è mai affannato troppo per comprenderlo.
***
286
POLITICHERÌA
Buon Voto, cittadini di Sabbione e dintorni!
Valeroj e Kamil erano stati incaricati di trasferire la grande statua della Democrazia dal Parlamento al Palazzo Civico in tempo
per le celebrazioni della Giornata della Ricostruzione Mussoliniana
Elettorale, che come ogni anno si svolgeva il giorno prima delle
elezioni del nuovo Gerarca, in occasione dell’anniversario della
famosa visita di Mussolini a Sabbione.
Poiché il tragitto era piuttosto tortuoso, stretto e costituito da
viottoli e vicoli, ma soprattutto perché così voleva la tradizione, i
due erano costretti a trasportare a mano la Democrazia, come
avevano fatto nel corso degli anni tutti quelli che avevano svolto la
stessa mansione.
Valeroj teneva la statua per le caviglie tozze.
Stramaledette siano le elezioni, si lagnò camminando. Non capisco per quale motivo non possano costruire un’altra statua in
modo che sia il Parlamento che il Palazzo Civico ne abbiano una.
Eh, le tradizioni, sbuffò Kamil impugnando saldamente i polsi
della statua.
Le tradizioni son sacre! Esclamò, e fece una sosta prestando attenzione di appoggiare delicatamente la Democrazia sul porfido.
Si trovavano nei pressi del Tribunale, e la giornata era piuttosto
fredda. Valeroj guardò l’orologio contapassi. Ne avevano fatti settecentosette. Kamil alzò il bavero del cappotto, si levò i guanti da
lavoro e soffiò sulle mani.
Mancavano seimilacinquecentoundici passi al Palazzo Civico.
Valeroj premette un tasto dell’orologio per controllare i battiti
cardiaci; verificò che il suo cardiofrequenzimetro in dotazione fosse posizionato nella maniera corretta.
Cristo santo, disse Valeroj appoggiando anch’egli la statua a
terra, mi verrà un infarto se non ci beviamo almeno una birra.
287
Impossibile! Esclamò Kamil. Non vorrai lasciare la statua incustodita.
Io ho bisogno di una birra, tuonò Valeroj dirigendosi verso la
caffetteria all’angolo tra la piccola piazza e il Tribunale.
Una signora vestita di scuro si avvicinò a Kamil.
Buongiorno, Signora, Buon Voto! strillò Kamil.
La signora sputacchiò in terra a pochi centimetri dalla statua
della Democrazia.
Signora, è forse impazzita? Domandò Kamil.
La statua giaceva sul porfido come una tartaruga riversa quando poggia sul guscio. La pancia della Democrazia, protuberante e
lattea, rifletteva la luce del sole e delle insegne lì vicine, già accese a
mezzogiorno. La scultura non aveva alcun valore artistico ma possedeva un immenso valore storico e simbolico, giacché era stata
benedetta da Mussolini in persona nel trentanove.
La vecchietta non disse nulla. Squadrò Kamil dalla testa ai piedi
e provò a sputacchiare di nuovo, ma evidentemente aveva finito la
saliva, così ne uscì un minuto spiffero e un leggerissimo filo di bava che le rimase attaccato al mento vagamente peloso.
Signora, dichiarò Kamil, dovrebbe vergognarsi.
È questo il modo di trattare una signora? Chiese un tizio che
bighellonava accanto alle vetrine.
Se la signora scaracchia sulla statua della Democrazia che andrà
a impreziosire l’Ufficio Elettorale del nostro Palazzo Civico per la
Giornata della Ricostruzione Mussoliniana Elettorale ebbene sì,
affermò Kamil, questo è il modo di trattarla.
La vecchietta si allontanò con passo lento, mentre alcuni passanti si erano fermati a osservare la statua.
Eh, le tradizioni, disse un tizio.
Il nostro grande Paese si fonda sulle tradizioni! Esclamò Kamil.
Poi dato che Valeroj non si decideva a tornare provò ad accendersi una sigaretta, ma non riusciva a tenere acceso un fiammifero per
colpa del vento che si era levato e gli intirizziva i lobi e il naso.
Chiese cordialmente da accendere a un passante, ma sembrava
che nessuno ne avesse.
Quando finalmente un giovane gli porse un accendino, Kamil
accese la sigaretta e disse:
Grazie! E buon Voto!
288
Il giovane bofonchiò qualcosa e se ne andò.
Poco distante due addetti all’illuminazione stavano ultimando
di sistemare una gigantesca scritta luminosa VOTARE È UN
DOVERE da una parte all’altra del viottolo.
Porca miseria, stava dicendo uno degli addetti.
Porca miseria sì, rispondeva l’altro.
Che schifo di lavoro, disse il primo.
Kamil li guardò e disse: Buon Voto!
Uno dei due si fermò, guardò in basso e disse: buon Voto un
corno!
Finalmente Valeroj uscì dalla caffetteria e impugnò le caviglie
della Democrazia, Kamil impugnò i polsi, sollevarono la statua e
ripresero a camminare con andatura abbastanza sostenuta, Valeroj
davanti e Kamil dietro.
Fate spazio! Urlava Valeroj alla gente che procedeva per i vicoli
guardando le vetrine, mangiando castagne arrosto o digerendo
caffè al liquore.
Fate spazio!
In Piazza Bertran de Born i negozi erano tutti illuminati e c’era
una gran folla che passeggiava avanti e indietro.
Ogni muro era tappezzato con immense fotografie raffiguranti
i quattro candidati Gerarchi.
Valeroj e Kamil fecero una nuova sosta da un lato della piazza,
quello che vomitava continuamente persone dalla bocca del
Duomo.
Avevano percorso duemilatrecentosedici passi.
Fa’ attenzione quando lo appoggi! Urlò Kamil.
Valeroj tirò un calciò a una pietruzza, spazzolò il terreno con
uno scarpone e fece attenzione che le chiappe della Democrazia si
adagiassero delicatamente al suolo.
Kamil comprò una copia del quotidiano elettorale all’edicola
che c’era lì vicino.
Buon Voto! Esclamò all’edicolante dopo aver pagato.
Quello non sembrò accogliere l’augurio e non disse niente; stava
chinato su alcune riviste e cercava il posto migliore per esporle al
pubblico.
Ho detto: buon Voto! Ripeté Kamil.
Dice a me? domandò l’edicolante.
289
E a chi se no, disse Kamil.
L’edicolante scaracchiò nella polvere al di fuori del suo cubicolo.
Signore, disse l’edicolante con tono solenne, io sono iscariotico
da tredici generazioni, e se lo ha dimenticato le rammento che
l’appartenenza alla chiesa di Giuda Iscariota ci consente di essere
superiori alle vostre elezioni.
Che il diavolo vi tenga per le caviglie quando tenterete di scavalcare le porte del Paradiso, disse Kamil.
L’edicolante sputò nuovamente in terra e disse: tenetevelo pure, il vostro Paradiso.
Questi eretici, disse Kamil.
Al centro della piazza stavano ultimando gli addobbi del grande
Albero Elettorale ai cui rami erano caratteristicamente impiccati
per i piedi i suicidi abusivi e i qualunquisti; due agenti di Nettezza
Umana stavano procedendo all’impiccagione degli ultimi cinque o
sei corpi, che raccattavano dal cassone del loro camioncino; prendevano un corpo alla volta, uno per le mani e uno per i piedi, lo
addobbavano con festoni e file di lampadine e lo riponevano sopra un argano, il quale sollevandosi meccanicamente grazie a un
motorino alzava il corpo; un terzo agente manovrava l’argano, o la
gru, per predisporre il corpo in corrispondenza di uno dei ganci
sui rami. A quel punto un altro agente saliva sulla scala, attaccava
un manifesto elettorale sulla fronte del suicida abusivo qualunquista e fissava il corpo al gancio.
Un Maresciallo del Ministero Suicidi & Festività® in alta uniforme stava fornendo spiegazioni ai passanti e ai turisti.
Vedete cosa vuol dire trascurare la vita politica del nostro Paese,
diceva. Ma guardateli, i ribelli, trasformati in addobbi elettorali!
Kamil si avvicinò al grande albero e lì vide uno che conosceva.
Questo è il figlio della mia macellaia, la signora Humberoj, disse.
Era infagottato in una tuta rossa che lo faceva sembrare una
specie di Babbo Natale. Attorno alla testa portava una corona di
luci intermittenti verdi e rosse; un cartello con la scritta VOTA
LEONE BAGALO GERARCA gli pendeva dal collo tumefatto.
Kamil guardò gli agenti di Nettezza Umana mentre procedevano all’impiccagione di una ragazza.
290
Poi si rivolse al Maresciallo.
Signore, disse.
Maresciallo, lo corresse il Maresciallo.
Maresciallo, disse Kamil.
Dica, disse il Maresciallo.
Come si è ucciso questo ragazzo? Domandò Kamil indicando il
figlio della sua macellaia.
Non vedo ragazzi, qui, disse il Maresciallo.
Valeroj sputò in terra.
Cosa diamine sta facendo? Montò su tutte le furie il Maresciallo. Si crede forse di essere in campagna?
Valeroj non disse nulla.
Dovrei multarla per lordura del terreno municipale, disse il Maresciallo.
Valeroj lo guardò brevemente, poi gridò: Evviva Noi!
Che razza di gente, bofonchiò il Maresciallo. Espettorare nel
bel mezzo della nostra Piazza più bella, ai piedi del Grande Albero
Elettorale!
Deve scusarci Signore, disse Kamil.
Maresciallo! Gridò il Maresciallo.
Deve scusarci, Maresciallo, disse Kamil. Stiamo trasportando la
statua della Democrazia dal Parlamento al Palazzo Civico.
Indicò la statua appoggiata poco distante.
Il Maresciallo diede un’occhiata all’albero.
Piano con quel qualunquista abusivo! Piano! Urlò all’agente addetto al sollevamento corpi.
Pesa una tonnellata, disse Valeroj.
Dobbiamo per forza fare una pausa ogni tanto, disse Kamil.
Siete dei buoni cittadini! Esclamò il Maresciallo. Dei buoni cittadini! Poi si rivolse all’addetto che manovrava l’argano.
Più in basso! Più in basso!
Ho la schiena a pezzi, si lamentò Valeroj.
Tutta la popolazione vi è riconoscente, continuò il Maresciallo.
Lo credo bene, disse fiero di sé Kamil, e alzò gli occhi per osservare le operazioni di impiccagione della qualunquista abusiva.
Più a sinistra! Urlò il Maresciallo. A sinistra!
Il manovratore fermò l’argano.
Più a sinistra, Cristo! Urlò il Maresciallo.
291
Il manovratore spostò l’argano di qualche centimetro a sinistra.
Maresciallo cosa fa, bestemmia? Domandò una signora che teneva per mano un bambino.
Il Maresciallo impallidì.
Non mi riferivo a, balbettò impacciato.
Stia attento, Maresciallo! Gridò la signora. Badi a come parla!
Il Maresciallo, visibilmente imbarazzato, alzò un braccio, lo tese
ed esclamò: Buon Voto, Signora!
La signora si allontanò senza dire nulla.
Tutta colpa vostra, razza di imbecilli, inveì il Maresciallo nei
confronti degli agenti. Più a destra! Più a destra!
Il manovratore spostò l’argano di qualche centimetro a destra.
Ancora più a destra! Urlò il Maresciallo.
Quando finalmente l’argano fu dichiarato in posizione, uno degli agenti si arrampicò sulla scala e agganciò il corpo della ragazza
al ramo.
Eh, le tradizioni! Esclamò il Maresciallo.
La gente camminava avanti e indietro. Molti scattavano fotografie del Grande Albero Elettorale.
Non è un bellissimo albero? Domandò il Maresciallo.
Davvero bello, disse Kamil.
Valeroj si voltò dall’altra parte e scaracchiò sul porfido, poi col
piede coprì lo sputo.
Un vero schifo, disse senza che il Maresciallo potesse udirlo.
Guardate, gente! Urlò il Maresciallo ai passanti.
Guardate cosa succede a essere irrispettosi della legge! La legge
viene prima di tutto! Prima di tutto! Votate! Votate tutti! Il Voto è
un dovere! Il Voto è un dovere!
Kamil e Valeroj fecero per risollevare la statua della Democrazia, mentre il Maresciallo correva per la piazza prendendo i nomi
di quelli che vomitavano per lo schifo o di quelli che semplicemente scuotevano il capo alla vista dell’albero; segnava nomi e cognomi su un taccuino rosso elettorale.
Bisogna fare attenzione, disse il Maresciallo. Attenzione! Ripeté
schioccando la lingua.
Guardate! Urlò ai due portatori della Democrazia. Mi guardo
intorno e vedo gente che scuote il capo, che parlotta, che vomita
in un angolo. Che razza di cittadini sono, quelli? Cittadini sull’orlo
292
dell’abusivismo, cittadini inqualificabili, cittadini che bisognerà andare a trovare a casa per farci un discorsetto. Per questo prendo le
loro generalità.
Ci sono due atteggiamenti possibili di fronte al nostro magnifico Albero: la gioia stupita e l’indifferenza totale.
Indifferenza totale? Chiese Kamil, che aveva già impugnato i polsi
della Statua.
L’indifferenza totale è apprezzata dal Governo, disse il Maresciallo. Per molti versi è molto meglio della gioia stupita. Ma attenzione! Aggiunse. L’indifferenza se riferita alle Elezioni del nostro Gerarca degenera in qualunquismo, e il qualunquismo è male!
Chi può rimanere indifferente di fronte a un albero dai cui rami
cascano ragazzi impiccati per i piedi? Domandò Valeroj lasciando
la presa dalle caviglie della Democrazia.
Non sono ragazzi! Tuonò il Maresciallo. Sono suicidi abusivi e
qualunquisti, cristo! Come ve lo devo ripetere?
Va bene, disse Valeroj. Come dice lei.
Perché, avete per caso qualcosa in contrario? Domandò il Maresciallo. Adesso che ci penso la vostra reazione non è stata propriamente di indifferenza.
Ma è stata di gioia stupita! Disse Kamil.
Il Maresciallo osservò i volti di Valeroj e Kamil.
Se la prossima volta che passate di qui non leggerò sui vostri
volti neutralità e indifferenza vi toccherà fornirmi nome cognome
e indirizzo. La gioia stupita è ammissibile una volta soltanto.
E se uno è gioioso di natura? Chiese Kamil.
Ma quale gioioso di natura! Gridò il Maresciallo. La smetta di
dire sciocchezze. La gioia è sempre sospetta, se lo ficchi in testa. È
ammessa, a piccole dosi, ma è sempre sospetta.
Kamil impugnò i polsi della Democrazia.
E comunque l’indifferenza è il sentimento più diffuso, disse
ancora il Maresciallo. Io osservo i volti di tutti i passanti, uno a
uno, e annoto le espressioni di quei volti sul taccuino elettorale
che il Ministero mi ha messo a disposizione. Tengo una statistica
delle reazioni dei cittadini di fronte all’Albero. L’indifferenza è la
reazione che il Governo reputa la migliore tra tutte le reazioni. La
gioia stupita è altresì accettata. Scuotimenti di capo, espressioni disgustate, conati di vomito, eccetera, sono intollerabili. Di questi
293
prendo nome, cognome e indirizzo. Il giorno dopo due incaricati
del Ministero vanno a fargli visita. Per ricordargli le nostre leggi e
tradizioni.
Alzò lo sguardo verso la statua del primo Gerarca in cima al
Duomo ed esclamò: ah! Le leggi e le tradizioni del Gerarcato di
Sabbionasso!
Subito alla fine di quella frase dei ragazzotti gli fecero una mirabolante pernacchia. Il Maresciallo cominciò a voltarsi a destra e
a sinistra per cercare di individuare i colpevoli.
Valeroj e Kamil ripresero il cammino mentre urlava Sul taccuino! Nome e cognome! Sul taccuino! Nome e cognome!
Dopo altri millecinquecentonove passi dovettero fermarsi per
un’altra sosta.
Ho la schiena a pezzi, si lamentò Valeroj. E i calli fanno un male cane.
Io sono sudato marcio, disse Kamil.
Un uomo aveva predisposto un presidio elettorale nei paraggi.
L’uomo stava fermando i passanti, ma notando i due portatori
della Democrazia si rivolse a loro, chiedendogli: bisogna o non bisogna portare fuori i cani a fare i bisogni?
Kamil e Valeroj non sapevano cosa rispondere.
L’uomo del presidio si schiarì la voce e disse: signori, questo è
un sondaggio. I cittadini debbono portare fuori casa i propri cani a
fare i bisogni, oppure no?
Qual è l’alternativa? Domandò Kamil.
Per esempio insegnargli a fare pipì in casa, rispose l’uomo del
presidio.
Gli si avvicinò un vigile.
Oggi ho staccato dodici multe, disse.
Dodici multe? Domandò Valeroj.
Dodici multe per lordura di suolo pubblico, disse. Merde di cane.
I nostri concittadini sono terribilmente arretrati, disse l’uomo
del presidio.
È uno scandalo, confermò il vigile. E il mio compito è quello
di condurli sulla retta via. Portare la luce dell’igiene laddove risiede
l’oscurità della sozzeria.
Staccando multe, disse Valeroj.
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Staccando multe, confermò il vigile. Piuttosto, disse indicando
la statua della Democrazia, oggi è la grande giornata eh?
Stiamo cercando di raggiungere il Palazzo Civico in tempo utile, disse Kamil.
Il vigile guardò l’orologio.
Quanti passi vi mancano?
Duemilaseicentoottantasei, disse Valeroj guardando il display
del suo orologio al quarzo in dotazione.
Uhm, disse il vigile, bisognerà che vi sbrighiate; avete ancora
poco più di un’ora e mezza. A quest’ora Mussolini sarà appena
sceso dal treno. Ma potete ancora farcela.
Non dubito, disse l’uomo del presidio. Ma potreste rispondere
al sondaggio?
Può ripetere la domanda? Chiese Kamil.
L’uomo del presidio lo guardò dritto negli occhi, impugnando
una biro nella mano destra e una cartellina nella mano sinistra: bisogna portare fuori i cani a fare i propri bisogni o bisogna insegnargli a fare pipì in casa?
Dipende, disse Kamil.
Dipende? Chiese l’uomo del presidio.
Da cosa dipende? Chiese il vigile.
Non abbiamo previsto nessuna risposta in tal senso, si affrettò
a dire l’uomo del presidio.
Dipende dal fatto se il padrone del cane è attrezzato per ripulire il bisogno del suo cane, disse Kamil.
Avete previsto una simile risposta? Chiese il vigile all’uomo del
presidio.
No, disse quello con una punta di sconforto.
Bisognerà correggere i moduli, disse il vigile.
Mi attiverò al più presto, confermò l’uomo del presidio.
Beh, disse Valeroj impugnando le caviglie della Democrazia,
Mussolini sarà già in taxi.
Si starà già dirigendo al Palazzo Civico, disse Kamil.
Prima c’è la sosta alla Fabbrica di Transistor, disse il vigile.
Non esiste più da trentacinque anni, disse Valeroj.
La ricostruiscono solo per oggi! Esclamò il vigile. Come, non
lo sapete? Bisogna che la Giornata sia ricostruita perfettamente!
L’Ufficio Verosimiglianza è uno dei distaccamenti più zelanti del
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Ministero Suicidi & Festività®. Non come l’Ufficio di Pulizia Civica, che ci costringe a indossare queste penose uniformi. Gli scese
una lacrima.
Sarà il caso che ci affrettiamo comunque, disse Kamil impugnando i polsi della Democrazia e sollevandola.
Duemilaseicentoottantasei, sbuffò Valeroj mettendosi in cammino.
Il sagrato davanti all’ingresso principale del Palazzo Civico era
invaso dalla folla. Tre guardie aprirono un varco per farci passare
Kamil e Valeroj con la statua della Democrazia. Transitarono tra
gli applausi degli elettori ed entrarono all’interno del palazzo, dove
la folla era ancor più numerosa e impaziente; si diressero lungo la
navata di sinistra, al fondo della quale gli addetti alla verosimiglianza avevano predisposto l’Ufficio Elettorale con le statue dei
quattro candidati Gerarchi e di altri personaggi minori precisamente nello stesso modo in cui erano state predisposte nel millenovecentotrentanove. Tra le statue c’era la poltrona del Presidente
del Seggio, un paio di Urne e in fondo la Grande Cabina Elettorale in legno di pino, attorniata da altre quattro cabine, due per lato,
dette Piccole Cabine Elettorali.
Kamil e Valeroj percorsero gli ultimi quarantacinque passi e
giunti alla Grande Cabina sistemarono con cura la Democrazia sul
basamento marmoreo sotto gli occhi attenti del segretario e di un
paio di scrutatori.
Gli fu consentito di partecipare alla ricostruzione storica. Ambedue erano distrutti, col fiatone e le ossa rotte.
Un dottore li accolse stringendogli la mano.
Controlliamo per l’ultima volta il battito cardiaco, disse. Non
vogliamo che tra un’ora vi venga un coccolone, vero?
Kamil e Valeroj si levarono il cardiofrequenzimetro, lo riconsegnarono allo stesso dottore che quella mattina, quasi otto ore prima, li aveva forniti della dotazione moderna (unico strappo alla
Ricostruzione Storica Ufficiale).
Abbiamo dovuto introdurre il cardiofrequenzimetro sette anni
fa, disse il dottore, dopo che uno dei due portantini fu preso da
infarto e ci lasciò le penne. La statua della Democrazia crollò al
suolo e le si staccò un mignolo. Un mignolo! Il governo fu co296
stretto a convocare la riserva in fretta e furia, ma soprattutto fu
costretto a far intervenire uno scalpellista-scultore per restaurare la
statua. Dovette fare il lavoro in movimento, lungo il tragitto, perché non c’era tempo.
Kamil e Valeroj si guardavano intorno mentre un gruppetto di
infermieri procedeva a provargli la pressione arteriosa.
Da allora i portantini vengono dotati di un cardiofrequenzimetro, in modo da permetterci di monitorare l’elettrocardiogramma
in tempo reale.
Mi sembra una cosa stupenda, disse Kamil.
Ce lo avete già detto stamattina, disse Valeroj.
Repetita iuvant! Esclamò il dottore.
Due minuti dopo entrò Mussolini; dietro di lui De Bono, Balbo
e De Vecchi, accompagnati dal Gerarca Uscente e dal Vescovo di
Sabbione.
Il figurante che impersonava Mussolini aveva una maschera la
cui verosimiglianza con l’originale era stata valutata pressoché perfetta. Anche gli altri tre erano ricostruiti con tutti i particolari.
Specie i baffi di De Bono, fece notare qualcuno.
Mussolini avanzò in direzione della Grande Cabina Elettorale
grattandosi la gamba sinistra all’altezza del femore. Si grattò dietro
la schiena. La gente rimase in silenzio. Kamil e Valeroj si sistemarono accanto al sacrestano.
Mussolini si fermò, si grattò il collo.
Uno scrutatore gli porse la Scheda Elettorale di colore verde
smeraldo.
Mussolini la guardò, la annusò, si grattò il mento, la restituì allo
scrutatore.
Perché si gratta? Domandò Kamil.
Il segretario inorridì.
Cristo santo ma non siete andati a scuola? Domandò. Non conoscete la Storia?
Kamil e Valeroj si strinsero nelle spalle.
Quando Mussolini fu a pochi passi dalla statua della Democrazia giunse le mani, imitato da tutti i presenti. Si grattò l’inguine.
Fece il segno della croce, imitato da tutti i presenti. Si grattò la
scapola e poi, più intensamente, il petto.
Afferrò la Scheda Elettorale.
297
Che diavolo, disse Kamil.
Ma che cos’ha, le piattole? Domandò Valeroj.
Siete due ignoranti, disse il segretario.
Mussolini si grattò la chiappa destra. Il vescovo si fece passare
un aspersorio dal chierichetto alla sua destra. Quello alla sua sinistra gli passò un secchiello di zinco con l’acqua santa. Mussolini si
grattò la schiena, o tentò di farlo.
Il giorno in cui Mussolini venne in visita ufficiale a Sabbione,
spiegò il sacrestano a Kamil e Valeroj, soffriva di una terribile malattia esantematica.
Poi esclamò: Era il dieci dicembre millenovecentotrentanove.
Una malattia esantematica? Domandò Kamil.
Una terribile malattia esantematica, disse il sacrestano. E tuttavia
ciò non gli impedì di venire qui, nel nostro Palazzo Civico, per baciare la Democrazia e per benedirla personalmente con l’acqua
santa. Che uomo fantastico.
Una terribile malattia esantematica? Domandò Kamil.
Perché, Mussolini non può essersi ammalato di scarlattina? Disse
il sacrestano. Nessuno sa con certezza di quale malattia era affetto
quel giorno.
Mussolini si grattò il costato destro.
Ecco, ha sbagliato, disse il segretario. Cristo!
In che senso ha sbagliato? domandò Kamil.
Nel senso che ha sbagliato la sequenza, miseria. C’è un ordine
ben preciso, s’affrettò a dire il segretario. Non è che possa grattarsi dove vuole e quando vuole. L’ordine è importante. Dopo la
chiappa destra e il tentativo appena accennato alla schiena bisogna
che si gratti l’inguine, e solo successivamente il costato. O pensavate che Mussolini si grattasse così, a caso?
Il segretario guardò Kamil e dichiarò: Mussolini non lasciava
niente al caso.
E come fate a saperlo, voi? domandò Valeroj.
Tzè, disse il segretario. Per decenni segretari e scrutatori si sono tramandati scrupolosamente l’ordine delle zone in cui Mussolini si grattò durante i quindici minuti di visita al nostro Ufficio
Elettorale; il segretario dell’epoca, il lungimirante Furkoj, le annotò tutte a margine del Vangelo di Luca. Lunga gloria a lui!
Evviva noi! Urlò Valeroj.
298
Qualcuno si voltò verso di loro.
Zitto! Disse il segretario portandosi il dito al naso. Perché grida
così, è impazzito? Non disturbi la Ricostruzione!
Kamil notò tre tizi nascosti nell’oscurità, invisibili alla gente, che
tenevano alzati dei cartelli illuminati da un occhio di bue sui quali
c’era scritto: COLLO IN BASSO, CHIAPPA DESTRA,
INGUINE, TENTATIVO SCHIENA, INGUINE, COLLO
DIETRO, STOMACO, COSCIA SINISTRA, RETRO COSCIA
DESTRA, SOPRACCIGLIO DESTRO.
Era evidente che l’attore avesse dovuto studiare molto attentamente i gesti da svolgere, e dopo l’errore riprese a grattarsi nei
punti giusti non lasciando trasparire la minima espressione di
sconforto.
La libertà è più grande di qualsiasi malattia! Esclamò il Gerarca
Uscente.
La libertà è più grande di qualsiasi malattia! Esclamarono i presenti.
Mussolini si grattò il sopracciglio destro. Ricevette l’aspersorio dal
vescovo; si grattò in rapida successione dietro l’orecchio destro e
dietro l’orecchio sinistro; impugnò l’aspersorio saldamente con la
mano destra. Con la sinistra si grattò il ginocchio destro, poi risalì
la gamba e andò a grattarsi quella zona che sta tra il testicolo sinistro e il retro della coscia; immerse l’aspersorio nel secchiello di
zinco, si grattò la guancia destra, benedisse solennemente la Democrazia.
Tutti i presenti applaudirono.
Mussolini fece un passo in avanti grattandosi l’interno
dell’orecchio sinistro, si avvicinò alla Cabina Elettorale, si grattò il
mento, baciò la fronte della Democrazia, si grattò sotto il naso, si
voltò verso la gente, tese il braccio destro, con l’altra mano si grattò rapidamente sotto il gomito e disse:
evviva la Democrazia!
Tutti i presenti ripeterono:
evviva la Democrazia!
299
CRITICA DELLA VITA QUOTIDIANA A SABBIONE E DINTORNI
AI TEMPI DEL MERCATO AZIONARIO
Samanta aveva bisogno di una frusta da cucina perché una delle
sue più grandi ambizioni era mescolare composti cremosi. Jean,
amore mio, disse Samanta, ho insufflato aria in questo composto
per renderlo spumoso e leggero e credo che ora sia pronto. Jean
stava leggendo Le Monde sul tavolo in cucina, fumando un sigaro.
Samanta domandò, cosa ne pensi del mio pan di spagna? Jean assodò che Hong Kong era scesa di uno virgola sette e volò a Londra, o a Parigi, lasciando il pan di spagna sulla credenza della loro
villetta a schiera, accanto alla copia stropicciata di Le Monde. Nel
frattempo Samanta tentò di preparare panna montata e meringa,
meditando sulla sua emancipazione come donna e come moglie.
Jean tornò da Londra, o da Parigi, con una splendida frusta da cucina Inox. La lampo di Jean fece uno zip caratteristico durante le
operazioni di abbassamento. Poi Wall Street schizzò a più due virgola due e Samanta era incinta. Aveva deciso di rinunciare alla
propria emancipazione in cambio di una vita moderatamente agiata. Durante la gravidanza soffrì di alcune emicranie e sporadiche
perdite dello zero virgola cinque sul Nasdaq che la costrinsero a
utilizzare sempre meno frequentemente la frusta da cucina e sempre più i bicchieri da cocktail La Rochere che Jean portò da Bruxelles, o da Amsterdam. Madrid piombò in un baratro di meno tre
virgola otto e molti amici e parenti si affollarono nella villetta di
Jean e Samanta e i balloon o i margarita diventarono una necessità,
al pari di uno splendido esemplare di verre à mélange à bec indispensabile per allestire cocktail più freschi, poiché nel frattempo
era maggio, o giugno, e gli ospiti gradivano qualcosa di fresco. Mi
sento un po’ limitata, disse Samanta, in quanto alla preparazione di
cocktail, e Jean tornò da Francoforte con uno stop loss e un libro
intitolato i cento migliori cocktail a base di martini. Un bagliore
d’eccitazione sconquassò gli occhi di Samanta, che infatti preparò
immediatamente un Lady Laura, composto da Martini dry, vodka
300
Sermeq alla pesca e Asti Martini per le sue migliori amiche. Certo
questo prato inglese, disse Samanta, avrebbe bisogno di qualcosa.
Non so che cosa, disse Samanta, ma di qualcosa avrebbe certamente bisogno. Jean tornò dalla città con una piscina, o il progetto di
una piscina. Basta con le piscine classiche rettangolari, disse Samanta. Jean tornò in città e disse basta con le piscine classiche rettangolari, voglio qualcosa di più moderno, qualcosa di più coinvolgente. Il Nikkei s’impennò a due virgola uno e lui si presentò a casa con una splendida oasi rocciosa composta da due vasche irregolari, una pozza per l’idromassaggio e tre cascate. Poi Samanta era
diventata mamma. Una splendida mamma, disse Jean, e Samanta
sembrò arrossire per la lusinga. Disse Jean mi piacerebbe possedere una macchina per il caffè, così potrei preparare il caffè per te e
per il piccolo quando sarà un po’ più grande, oppure per i nostri
amici quando verranno a trovarci. La moka non andava bene, era
troppo lenta. Jean volò a Tokyo ed ebbe notevoli problemi con la
sua coscienza dopo essere finito a letto con una stagista australiana. Mentre Londra subiva una flessione di mezzo punto percentuale Samanta cuciva le maniche della camicia di Jean e portava il piccolo nel passeggino lungo i viali alberati del centro residenziale in
collina. Jean tornò da Tokyo, o Seoul, con una Bialetti Deluxe e un
baby chef della Mulinex e chiese sei felice? Sono felice, rispose
Samanta, ma avrei bisogno di cucire più in fretta, il piccolo piange
sovente e non credo riuscirò a consegnarti le camicie con le maniche accorciate prima di mercoledì prossimo. Jean andò in città e
tornò con una splendida rumena di ventitré anni; Samanta, questa
è Sara, disse Jean, la nostra baby-sitter. Festeggiarono a lungo in
stanza da letto, dove Samanta aveva fatto installare un impianto di
raffreddamento a muro costituito da elettrodi sensibili al calore
esterno e Jean aveva un monitor aggiornato in tempo reale
sull’andamento del Nasdaq Biotechnology Index. Poi Samanta era
di nuovo incinta, e Jean ebbe numerosi scrupoli prima di portarsi a
letto Sara, soprattutto viste le conseguenze che quel gesto avrebbe
potuto avere sull’economia della sua famiglia. Acquistò azioni per
un valore compreso tra i due e trecentomila e partì per Riyad, o
Doha. Samanta e Jean si ritrovarono a cena e Samanta chiese Jean
mi ami? Jean disse certo che ti amo, e brindarono con champagne
nelle nuove coppe da champagne che Jean aveva comprato nel
301
nord della Francia durante una battuta di caccia. Poi disse Sara
questi sono due biglietti per Honolulu e un’assicurazione sulla vita.
Sara disse mi sembra un’idea meravigliosa, Jean, e partì per Honolulu con la sorella, dove rimase un paio d’anni a spese di Jean. Poi
Jean rientrò a casa con una Singer e una Necchi e disse eccoti la
macchina da cucire amore mio, scegli quella che vuoi. Sembrava
che la Necchi funzionasse meglio con le camicie e la Singer funzionasse meglio con i pantaloni. In seguito erano attorno alla loro
oasi rocciosa e avevano lasciato il piccolo dai nonni e si guardarono lungamente negli occhi. Ci fu un bel silenzio carico di erotismo,
durante il quale il Kospi sprofondò a meno tre virgola nove. Jean
telefonò agli amici e disse oggi non venite. Poi volò a Lisbona, dove incontrò Carl insieme alla fidanzata Stella, cenarono insieme
mentre Samanta nella loro villetta si dava da fare per cucire l’orlo
dei nuovi pantaloni di Jean, un paio di pantaloni con le pence color
cachi, o pesca. A parte una impercettibile diminuzione del Dow
Jones Samanta non ebbe particolari problemi durante la seconda
gravidanza, così gli amici tornarono ad affollarsi ai bordi dell’oasi
rocciosa, a chiacchierare e a gustare alcuni splendidi cocktail preparati da André, il barman d’occasione che Jean si era procurato a
Rio de Janeiro insieme a Haidi, la nuova baby-sitter brasiliana,
mentre il Bovespa schizzava a più quattro virgola otto. Carl disse
credo che tu abbia qualche problema col rimorso; Jean disse
tutt’altro, nessun problema, e tornò a casa con una bellissima doccia idromassaggio per quando desiderava fare l’amore con Samanta
in un posto diverso dal solito letto a tre piazze extra-king-size acquistato un mesetto prima a Louisville, Kentucky, durante una
flessione di Tokio. Un fantastico coro d’opera risuonava dalle casse del loro impianto stereo Bang & Olufsen quando Jean si avvicinò al frigorifero per prepararsi un club sandwich ricco di carboidrati e calorie. Il Nabucco è magnifico, disse Jean a Samanta; tutti
dovrebbero poterlo ascoltare mediante le casse di un BeoSound
9000. Certo pochi possono permetterselo, ma il problema della
povertà e della ridistribuzione della ricchezza andrebbe affrontato
da chi se ne intende, e io non me ne intendo. Samanta disse credo
che il piccolo abbia bisogno di compagnia. Jean lucidò il suo fucile
da caccia, ripose alcuni libri rari nella biblioteca di famiglia, contenente dodicimila volumi, e consultò le quotazioni.
302
Mi sento un po’ giù, disse Samanta, e fece notare a Jean le smagliature sulla pelle dei suoi glutei. Jean tornò dalla città con due tessere della palestra e disse non ti preoccupare amore, ho pensato a
tutto io, la palestra è ottima per rilassarsi e ristabilire il tono muscolare, specialmente dopo un paio di gravidanze. Così Samanta
era di nuovo mamma e la piccolina era una splendida bambina.
Samanta andò in palestra per qualche tempo ma poi disse mi piacerebbe restare a casa con i piccoli, soprattutto adesso che stiamo
vivendo una fase così importante e delicata della loro crescita. Jean
stava guardando un programma di automobili sul suo schermo
Samsung a 32 pollici. Disse ma certo tesoro, è un tuo diritto, e partì per il golfo del Messico, o la Baia della California, dove sviluppò
alcune tecniche di miniaturizzazione dei composti tecnici della lavastoviglie e subì una perdita di quattrocentomila causata dal crollo
di Singapore. Samanta rinunciò alla tessera della palestra e per
compensare all’assenza di un allenamento costante e armonico
piazzò un paio di cyclette in soggiorno, accanto a un vaso in porcellana decorato a mano e a un fitness cube di ultima generazione.
Pensi che possa bastare? Domandò Samanta a Haidi. Haidi rispose
che no, non poteva bastare, e che per sfruttare ogni centimetro
della stanza occorrevano anche un tapis roulant e un elettrostimolatore. Il Colcap volò alle stelle e Jean tornò dalla Colombia con un
crosstrainer e una poltrona zen di origine himalaiana ma di tecnologia giapponese. Mi sento davvero fortunata, disse Samanta, e baciò Jean sulla fronte prima di accomodarsi sulla poltrona zen tenendo la piccola in braccio. Eppure sento che c’è qualcosa che non
va, intendo nella nostra vita famigliare, qualcosa che non so spiegarmi ma che se fosse presente potrebbe migliorare le nostre vite
arredando al contempo la casa. Jean prenotò una cena per due e
Samanta dimenticò tutti i problemi. Sarebbe utile conoscere qualche lingua straniera, disse Samanta, specialmente per i piccoli; il
francese, forse, o il tedesco. L’inglese è abusato. Jean volò a New
Orleans e quando tornò stava tenendo in braccio un cucciolo di
épagneul nano continentale papillon bianco con orecchie nere. Ecco, disse, questo sarà perfetto per i piccoli, ma anche per noi. I
piccoli furono entusiasti e per festeggiare Samanta preparò un fantastico pan di spagna, mentre Jean si fece cullare dalla poltrona zen
ascoltando la Carmen di Bizet. Avrei bisogno di altri utensili da cu303
cina, disse Samanta a Jean. Così potrei cucinarvi ogni sera piatti diversi, invece di affidarmi al solito ricettario scontato. Jean partì per
Johannesburg, o Pretoria, e Samanta trascorse qualche giorno di
depressione insieme ai piccoli e alle solite amiche, intorno all’oasi
rocciosa, fumando sigarette cento’s e bevendo alcune bottiglie di
acquavite. Jean ebbe numerosi appuntamenti di lavoro e a causa di
una perdita secca dell’Euronext fu costretto ad acquistare il minimo necessario: tornò comunque a casa con un walnussoffener di
bigiotteria, uno chef’s quad-timer professional oltre a numerosi altri utensili quali wok, asparagiera e termometri vari, per cioccolato,
yogurt e a infrarossi. Noto con dispiacere che non sei riuscito a
trovare uno sguscia gamberi, disse Samanta, lo sai quanto tempo
mi ci vuole per prepararli. E a proposito dell’apprendimento del
francese? Ordinarono un corso per corrispondenza in francese,
utile soprattutto mentre si pedalava sulla cyclette. Jean rientrò da
una serata con gli amici e disse Samanta, mi pare che la casa sia un
po’ in disordine. Samanta sembrò affranta. Non dico che sia colpa
tua, ma forse sarebbe necessario che tu dedicassi più tempo alle
faccende domestiche, magari prima della lezione di pianoforte del
mercoledì pomeriggio.
Non mi pare una grande idea, disse Samanta, così assunse un
direttore famigliare per mandare avanti la baracca quando Jean era
in viaggio per affari. Il suo nome era Tomi. Qui occorre sviluppare
una nuova idea di famiglia, disse Tomi, un’idea paragonabile
all’organizzazione di un’azienda. Samanta era molto annoiata. Si
fece preparare da Tomi un bel programmino settimanale per tenersi occupata oltre alle lezioni di pianoforte del mercoledì pomeriggio e a quelle di golf del giovedì mattina.
Lunedì! Corso di potatura; martedì! Corso di pasticceria; mercoledì! Corso di intaglio su legno; giovedì! Corso di francese; venerdì!
Corso di pittura; sabato! Corso di autostima, lesse Tomi ad alta voce nel salotto della villetta, proprio accanto al camino in muratura.
Samanta sembrò rivitalizzarsi e quando Jean tornò da Bangalore, o
Singapore, si fece trovare sexy come non mai nella loro stanza da
letto finemente arredata dai migliori architetti d’interni di New
York. Poi protestò, fumando una cento’s, per il fatto che i corsi
settimanali le impedivano di vedere i suoi programmi preferiti alla
televisione. Jean andò al primo centro commerciale e portò a casa
304
un videoregistratore multifunzione. Ecco, disse, questo dovrebbe
risolvere buona parte dei tuoi problemi. Sono estremamente felice,
disse Samanta, ma ti ho mai parlato della volta in cui andammo in
campagna per comprare quello struzzo e ti dissi di lasciare perdere, che costava troppo e non avremmo avuto tempo di accudirlo?
Bene, disse, mentii. Non so per quale ragione lo feci. Forse quello
era un periodo della mia vita in cui ero più indirizzata a una tipologia di consumo tecnologica tralasciando i valori e le virtù inequivocabili della natura, ma da qualche giorno mi sono resa conto
della mia vera inclinazione. Jean incaricò Tomi di tornare in campagna per trattare l’acquisto dello struzzo. Tomi tornò a casa con
due struzzi africani subsahariani alti due metri e disse ai piccoli
piaceranno moltissimo, ma bisognerà trovare qualcuno che li curi.
Jean disse perché, Tomi, non lo puoi fare tu? Tomi rispose, con
tutto il rispetto io sono venuto qua per fare il direttore famigliare,
non per sporcarmi la livrea con la merda di uno struzzo. Trova
qualcuno, disse Jean prima di partire per Stoccolma, e raccomandati che sia capace di fare il suo mestiere alla perfezione. Inoltre,
disse Jean a Tomi, gradirei che d’ora in avanti misurassi il tuo linguaggio in maniera che sia più consono a un ambiente domestico,
ci siamo intesi? Tomi rispose che sì, si erano intesi. Shanghai perse
il tre percento, e a Stoccolma Jean si trovò a letto con Amanda,
dubitando che quel fatto potesse in qualche modo mettere a repentaglio la sua relazione con Samanta. Ad ogni modo cercò di
rimuovere il profumo di Amanda acquistando un set di oli e creme al mango per Samanta e un pc portatile per i propri figli.
Quando arrivò a casa venne accolto da Tomi il quale disse ho una
brutta notizia, uno dei due struzzi è morto e i piccoli sono disperati. Com’è potuto succedere, domandò Jean, ma a questa domanda nessuno seppe rispondere. Fece venire il veterinario e domandò com’è potuto succedere? Era vecchio, disse il veterinario, almeno vent’anni, forse più, è naturale che sia successo. Jean pretese
di conoscere dettagliatamente la causa del decesso. Arresto cardiaco, rispose il veterinario. Qualunque essere vivente, tranne forse i
vegetali, muore per arresto cardiaco, disse Jean, io voglio sapere
cosa ha causato l’arresto cardiaco. Vecchiaia, disse il veterinario.
Non mi basta, disse Jean, non vede quanto sono sconvolti i piccoli? Esiste una cosa che spesso giunge senza motivo, chiamata mor305
te, disse il veterinario, a cui i piccoli farebbero bene ad abituarsi.
Jean pagò il veterinario e lo mandò via. Non preoccupatevi, piccoli, non accadrà più, disse Jean. Poi tornò a casa con un cucciolo di
porcospino e disse a Samanta, mi hanno garantito che questo vivrà più a lungo. Samanta era molto felice e per festeggiare il nuovo
arrivo diede un favoloso party invitando tutti gli amici di Jean.
Prima però dobbiamo pensare ai gazebo, disse Samanta, altrimenti
gli invitati quando si accomoderanno attorno all’oasi rocciosa
avranno come la sensazione di trovarsi in un ambiente spoglio,
raffazzonato. Sono d’accordo, disse Tomi, e così Jean fece portare
cinque gazebo di legno con vetrate e doppi ingressi per gli ospiti
del party. Per primi giunsero gli amici di Jean, frastornati dalla bellezza della villetta, poi le amiche di Samanta, vestite di rosa, volteggiando sulle drammaturgie della gioventù, coi loro pensieri da
femmine. Infine Jean partì per Bangkok e Samanta si rinchiuse
nella palestra della villetta per un’ora di yoga in compagnia di una
personal trainer americana. I piccoli giocavano con lo struzzo, col
porcospino, con l’épagneul nano continentale papillon, finché si
stancarono e pretesero qualcosa di più divertente, per esempio un
ottovolante o un autoscontro. Non mi pare fattibile, disse Jean, a
meno che non trasformiamo la nostra vigna in un luna park, e ciò
mi pare fuori discussione. Andiamo, sono i tuoi figli a chiedertelo,
disse Samanta. Inoltre non mi pare che il tuo vino sia tanto buono, mi vergogno perfino di offrirlo alle mie amiche. Jean si oppose
fermamente e i piccoli caddero in una depressione assoluta, tanto
che lo struzzo e il porcospino, abbandonati, si ammalarono e Jean
fu costretto a restituirli. Inoltre c’è quella storia del videoregistratore, disse Samanta. Si tratta di tecnologia superata, ormai mi occorre un lettore dvd. Jean comprò cinque lettori dvd recorder, uno
per ciascuna delle televisioni della villetta, e si accomodò sulla sua
poltrona zen per ascoltare qualcosa. Ai piccoli serve compagnia,
disse Samanta. Jean li portò al luna park e quando fu ora di tornare a casa i piccoli piansero. Hanno bisogno di compagnia, disse
Samanta. Credo tu abbia ragione, rispose Jean. Poi presero un
bambino in affidamento. Ultimamente mi sembri un po’ distratto,
disse Samanta a Jean. Ci fu un silenzio inquietante, rotto soltanto
dall’ingresso del piccolo adottivo, che strillando mostrò un ginocchio sbucciato. Jean partì per Pechino, o Hong Kong, col groppo
306
in gola, e quando tornò si mise seduto nel bunker della villetta,
dove conservava alcuni capolavori barocchi e numerosi acquerelli
del primo novecento. Ho sbagliato qualcosa? Domandò a Tomi.
Non hai sbagliato niente, rispose Tomi. Adesso smetti di commiserarti e vieni di là, c’è la questione della nuova sala-giochi da discutere. Non credo che in questo momento mi vada di occuparmi
della sala-giochi, disse Jean, e si fece un lungo bagno caldo nella
sua Jacuzzi blu mare con vista sulle colline del Sabbionasso Alto.
Londra scese dell’uno virgola tre e Samanta si lamentava per
l’educazione del nuovo figlio adottivo, così si convinsero a restituirlo. Non ho mai sentito un bambino piangere così rumorosamente, disse Samanta, non lo sopporto. Se almeno fosse nostro
figlio, disse.
In cambio del figlio Jean portò a casa un’unità cibernetica robotizzata raffigurante il colonnello Kurtz/Marlon Brando. È semplicemente fantastica, disse Samanta, sapevi della mia passione per la
guerra del Vietnam e per Conrad. Se premi il pulsante dietro
all’orecchio sinistro ripete interamente il monologo finale di Apocalypse Now, disse Jean premendo il pulsante dietro all’orecchio.
Il colonnello Kurtz disse: Io ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche
lei, ma non ha il diritto di chiamarmi assassino.
Voglio tenerlo sempre acceso, disse Samanta, ventiquattro ore su
ventiquattro. Poi i piccoli cominciavano a crescere e Samanta prese a leggere romanzi in francese dell’800. Jean tornò da Mogadiscio con altri utensili da cucina e alcune maschere di legno intagliate a mano che trovarono posto sopra lo scaffale nordovest della libreria, al fianco di una riproduzione della Dama con
l’Ermellino. Samanta leggeva romanzi e Jean sostituì il BeoSound
9000 con un BeoSound 5 digitale.
Il colonnello Kurtz disse: Erano venuti i Vietcong e avevano tagliato ogni
braccio vaccinato. Erano in un mucchio, un mucchio di piccole braccia.
Inoltre, disse Samanta, la poltrona zen ultimamente dà qualche
problema, la pelle è sdrucita. Regalarono la poltrona ai vicini e la
sostituirono con un bagno turco sagomato a camino di fata che
Jean portò a casa da Goreme, Cappadocia, conseguenza di un aumento del quattro percento su Istanbul. Oh Jean, sembra che tutto proceda meravigliosamente, disse Samanta mentre osservava i
ragazzi giocare con un nuovo esemplare di bull terrier, acquistato
307
in sostituzione del vecchio épagneul nano continentale papillon.
Accarezzare il nostro nuovo gatto del lago di Val è una cosa molto
piacevole, disse, e si spogliò per fare l’amore. Poi uscì per fare la
spesa mentre Jean volò a Sydney, o ad Alice Springs. Quando tornò andarono a fare una gita in battello lungo il fiume Atanor seguita da un’escursione tra le colline con il loro monovolume. Non
sono fantastiche le colline? Chiese Samanta. Sono fantastiche, disse Jean, e c’è un’infinità di occasioni per chi sa coglierle, come per
esempio quel casolare, o gli oggetti di quelle bancarelle. Fecero incetta di oggetti d’artigianato, si fermarono a prendere un gelato al
caffè Un Posto Pulito, Illuminato Bene di Montemagno e tornarono a casa per cena, Tomi e Haidi avevano un giorno di libertà e
Samanta preparò antipasti, primo e secondo seguiti da un delizioso pan di spagna. Poi Jean partì per Santiago del Cile, o lì vicino,
Wall Street soffrì le conseguenze di una guerricciola in Mali, o in
Sudan, e il colonnello Kurtz disse: L’orrore ha un volto, e bisogna farsi
amico l’orrore.
Fine.
308
SMALTIMENTO CARI ESTINTI
OVVERO
AMORE ALL’OMBRA DEL BOLLITORE INDUSTRIALE PER CADAVERI
L’ottantasette è stato l’inizio della fine.
Dal millenovecentotrenta fino al giugno dell’ottantasette le cose
marciavano che era una meraviglia.
Sai come funzionava? Intendo prima dell’ottantasette. Ma cosa
diavolo vuoi sapere tu, ragazzo. Tu hai fatto la tua domandina
d’assunzione e sei capitato quaggiù. Beh te lo dico io come funzionava prima dell’ottantasette. Tanto per cominciare i cadaveri si
decomponevano regolarmente, secondo i ritmi naturali, come il
Signore ha voluto. E non t’azzardare a contraddirmi perché sono
pronto a tirarti un cazzotto sul grugno. Comunque dopo
trent’anni non puzzano più. Sono quelli più recenti che ti stendono. Quello là, guarda quello, codice GMR81554HJ, tredici anni di
giacenza, femmina. Scoperchiò l’ennesima bara. Una volta duravano al massimo un otto, nove anni, prima di decomporsi del tutto. Oggi apri una bara e sei capace di trovarci dentro un paio di
tette in silicone perfettamente integre. Robe da matti. E pretendono che sia Isaia Wernikoff, a smaltirle. Fanculo, dico io, che vengano loro a prendere in mano queste schifo di tette ammuffite.
Guarda un po’ che schifo del cazzo, ragazzo. Almeno ci dotassero
di un paio di guanti davvero impermeabili. Passo due ore al giorno a
disinfettarmi le mani. Mostrò le mani. Vedi queste mani? Sono
mani da becchino. Mani infestate dai germi della morte, porcaccia
boia. Tre ore di vita, mi ci vuole, per strofinarle. Indicò le protesi
siliconiche col suo enorme indice, poi tornò in direzione della bara
già aperta e caricò sulla carriola i resti del cadavere da smaltire.
Scalciò un ratto, o qualcosa del genere. Questi fottuti ratti, disse. E
non sono neppure il peggio; l’anno scorso ci siamo ritrovati muso
309
a muso con un procione. Io e Mec. Non è vero, Mec? Finse un
montante al mento di Mec, il quale si scansò senza aprire bocca.
Racconta al ragazzo di quando ci è capitato il procione.
Mec non aprì bocca.
Non parla più da un anno e mezzo. Ci ha fregati tutti, questo
figlio di cane. Comunica solo scrivendo su pezzi di carta rancida.
Tanto per quello che c’è da dire. E comunque stavamo tirando
fuori i cadaveri da smaltire e non ci salta fuori un cazzo di procione? Prova a vedere i denti di un procione, ragazzo; affilati come
lame giapponesi, porcaccia schifosa. Ci abbiamo messo un’ora, per
prenderlo; sembrava un demonio, che cristo, un demonio peloso e
schifoso. L’ho fatto secco a badilate, ti ricordi Mec? Tre o quattro
mi pare, non voleva saperne di tirare le cuoia. Mec l’ha smaltito
nel bollitore insieme ai cadaveri. Ma ti assicuro, ragazzo, che un
procione da queste parti non s’era mai visto. Si accese una sigaretta continuando a ripetere la parola badilate. Cos’hai combinato, tu,
per ritrovarti in questo posto di merda? Non rispondere, ragazzo;
a che serve rispondere? Gli agenti di Nettezza Umana hanno tutti
i privilegi, l’attrezzatura, e noi cos’abbiamo? Fece una smorfia, si
pulì le mani sulle braghe putride, scatarrò in terra. Noi abbiamo
una carriola e un piede di porco mezzo arrugginito; e un distributore automatico di intrugli schifosi che si ostinano a chiamare bevande. Fece cenno di seguirlo verso il distributore automatico di
caffè. Sai quanti cadaveri può ospitare il cimitero gestito dalla nostra Azienda? Non ne ho la minima idea, ma più dei vivi, ragazzo,
questo è sicuro; eppure lo spazio non basta mai, e dopo un po’ bisogna pur smaltirne qualcuno. Del resto di questi cadaveri non
gliene frega più niente a nessuno; trascorso il periodo di giacenza
gli rifilano un calcio in culo e li sbriciolano come grissini, oppure li
bollono come una rapa muffa. E chi glielo deve dare, il calcio in
culo? Chi li deve sbriciolare come grissini o bollire come rape del
cazzo? Sempre noi, ragazzo: tu, alla tua fottuta postazione computer, Mec e il sottoscritto a sporcarci le mani in mezzo alla fanghiglia. E per di più ci tocca prendere in mano quelle cazzo di tette di
gomma. I tempi delle tette di Sabrina Salerno sono finiti, ragazzo.
Sai cosa succedeva ai tempi delle tette di Sabrina Salerno? Ma certo che non lo sai, eri ancora impegnato a scaccolarti. Di sicuro
all’epoca non avresti pensato che un giorno ti saresti ritrovato in
310
mezzo a questi zombi del cazzo indossando quella camicia a quadretti. Stai tranquillo, ragazzo, ci sono qua io. Fece una pausa per
inserire la propria chiavetta all’interno del distributore di caffè. La
cercò brevemente nella tasca della giacca. La estrasse e la inserì
nell’apposita fessura. Sul display comparve la scritta credito residuo
2,33. Questa fottuta tecnologia, disse. Premette il pulsante del caffè nero senza zucchero e il distributore fece le sue tipiche operazioni da distributore. Prese il bicchiere di plastica e iniziò a sorseggiare il caffè. Ai tempi di Sabrina Salerno succedeva che le tette si
decomponevano in quattro e quattrotto, e finché erano montate
su una donna viva era un piacere palparle, che cazzo. Mec sosteneva che le tette di Sabrina Salerno erano di gomma. Porca puttana ti rendi conto di quel che sosteneva sto figlio di cane? Finse di
tirare un destro a Mec, che si scansò senza dire una parola. Figuriamoci. Buttò giù un sorso di caffè. Questo caffè è sempre la solita merda; ogni volta spero che come per magia durante la notte un
ipotetico genio del caffè sia penetrato nel distributore aumentandone la gustosità, ma ogni volta non faccio altro che constatare
che è irrimediabilmente identico al giorno precedente: una vera
merda. Un caffè deve possedere alcune caratteristiche indispensabili di cremosità e viscosità. Non credo sia tanto complicato intuire che un buon caffè aumenta le capacità di concentrazione di chi
lo beve; ma i vertici dell’Azienda se ne fregano. Sono stati svolti
studi scientifici che provano senza ombra di dubbio che un caffè
gustoso aumenta le facoltà dei dipendenti del trentuno percento.
Stesso discorso vale per le tette delle colleghe: tette vere più armonia, tette di gomma più tensione. Ma tanto a me tocca bere
questa brodaglia insulsa e lavorare con voi due teste di cazzo.
Fece una pausa per continuare a bere il caffè.
E vuoi saperne una, ragazzo? Il giorno dopo la faccenda del
procione si presenta qui un tizio e mi chiede se abbiamo visto il
suo procione. Ma non lo chiede a me, capisci, lo chiede a
quell’idiota di Mec. E sai cosa fa quel troglodita di Mec? Annuisce.
Capisci, ragazzo? Ammette di averlo visto, e mi costringe a raccontare la faccenda. Quella bestia demoniaca era un animale domestico, capisci? Così ci tocca passare un guaio per colpa di un
procione del cazzo. Ma ti pare che una persona normale possa tenersi a casa un procione? Morale, il tizio ha fatto causa
311
all’Azienda, l’Azienda ci ha aperto il culo e trattenuto un mese di
paga, io ho mollato un gancio sulla mascella a Mec, perché dico io,
non si può essere tanto imbecilli, non ti pare, ragazzo?
Fece una pausa, andò nei pressi di un cespuglio di buganvillea,
tirò fuori l’arnese e fece una pisciata. Sabrina Salerno con le tette
finte, disse. Solo un rozzo come Mec poteva sostenere una roba
del genere.
Tornò in direzione delle bare da smaltire, ne scoperchiò
un’altra col piede di porco, fece una smorfia, si coprì la bocca e il
naso con il lembo della camicia.
Guarda qui, ragazzo. Lesse la targa sulla bara. HJK1928G81FF,
in giacenza dal millenovecentoerotti. Indicò l’interno della cassa.
Quando le casse da morto sono difettose il risultato è questo.
Vermi, orcoìo, vermi e larve. Ziocristo mi viene il voltastomaco.
Se devi vomitare fallo lontano da me, ragazzo, che mi suggestiono.
Afferrò la vanga e la introdusse nel groviglio di vermi avvoltolati
sopra le ossa. Guarda qui che schifìo, si sono ciucciati fino
all’ultimo cencio di tessuto.
E poi pretendono di trovarci l’anima, in mezzo a questo disgusto, orcomondo lurido; l’anima è un groviglio di vermi che squartano la carne, ragazzo, prendi nota, accamaiala. Vermi onesti,
vermi dotati di spirito santo: eccola qui, la vostra anima. Chiamò
Mec perché venisse con l’antiparassitario. Mec ne spruzzò una
quantità industriale. Spruzza, catroia, spruzza. Sto prodotto non è
buono manco per i pidocchi, cristo. A noi solo prodotti di seconda scelta. Non funziona più niente, ragazzo. L’anima la estirpiamo
io e Mec con l’antiparassitario, ragazzo, è per questo che in paradiso si sente profumo di pulito, porcaccia vacca schifosa. Altro che
fiori, sto parlando di disinfettante al pino silvestre e gardenia nebulizzata, ristosanto.
Più segreti degli angeli sono i suicidi. E va bene, orcoìo, ma che
poi finisci in questo schifo di posto mica te lo dice nessuno; mica
te lo raccontano che il paradiso è un bollitore industriale che ti
spedisce dritto nel culo del nulla, accaéva impestata. Mi capisci,
ragazzo? Più segreti degli angeli sono i suicidi. Ma gli angeli si fanno gli affari loro ragazzo, mica possono perdere tempo con gente
come noi. E allora se la gente potesse vedere lo schifo che li aspetta, malora boia, ci penserebbe due volte prima di crepare. Si met312
tono lì a pregare, a supplicare, ma alla fine è un buco nell’acqua. E
dell’anima cosa rimane, poi? Un grumo di vermi di merda rimane,
ecco cosa, risto schifoso.
Mec spruzzò il disinfettante.
Quando le cose funzionavano, in questa dannata azienda, e mi
riferisco a prima del fatidico millenovecentoottantasette, c’era un
archivio cartaceo sul quale si scrivevano le date di smaltimento cadaveri, così sapevamo che oggi toccava a uno, domani all’altro, eccetera. Alle volte si accumulava un po’ di lavoro, ma mai come
adesso. Facevamo una telefonata in Sede e l’azienda ci confermava lo smaltimento del dato cadavere. Le cose funzionavano a meraviglia, ragazzo; fatta eccezione per il caffè, quello è sempre stato
una merda.
Terminò il caffè, poi lanciò il bicchiere in direzione del cestino.
Lo mancò. Disse: catroia. Si chinò per raccogliere il bicchiere, poi
si accese una sigaretta.
Nel giugno del millenovecentoottantasette un tale di nome
Grandét, quel figlio di buona donna, un cornuto di dipendente del
Settore Informatico, propose la sua invenzione ai piani superiori.
La sua invenzione, come la chiamava. Quel povero coglione. E così
inventò il fottutissimo Metodo di Trasmissione Telematico che
ancora oggi crea sconquassi nell’organizzazione del nostro lavoro.
In pratica dal giugno di quell’anno buono soltanto per il disco
d’esordio di Sabrina Salerno uno schifido calcolatore incamera i
dati e in base calcoli imbecilli ci invia i codici dei cadaveri da smaltire. Ma questo lo sai già, ragazzo, dato che sei appena stato assunto per ricevere i dati schifidi di quello schifido calcolatore. Ne sono passati tanti, di ragazzotti rincoglioniti con le camicie a quadretti, prima di te. D’altronde io non ci ho mai capito una mazza
di computer, e Mec non ne parliamo. Ma te lo vedi Mec al computer? Non saprebbe neppure accendere una televisione, quel rozzo.
È solo capace a scarabocchiare su quei foglietti idioti.
E comunque ogni volta che c’è un po’ di traffico pum, salta
tutto. Il Computer Centrale va in tilt e noi dobbiamo sorbirci turni
massacranti per ovviare alle lacune della telematica. E va a finire
che ci fanno smaltire cadaveri che non erano da smaltire. Cos’era,
il duemila o giù di lì. Un avvocato di grido, mi sfugge il nome, ma
il caso ha fatto scalpore.
313
Spense la sigaretta nel portacenere del cestino, ne accese meccanicamente un’altra.
Beh, questo tizio, l’avvocato di grido, ha una moglie che si impicca. Fin qui niente di straordinario, dirai tu. Le fanno una sepoltura con i controcazzi, ragazzo, chiedi a Mec se non ti fidi, e la
tumulano nella terra, come aveva chiesto. Se non fosse che dieci
giorni dopo quel cazzo di calcolatore invia tredici codici per altrettanti cadaveri da smaltire. Uno dei codici era il 331B47RF, me lo
ricorderò finché campo.
E allora io e Mec cosa facciamo, secondo te? Diede una lunga
boccata alla sigaretta. E cosa vuoi che facciamo, abbiamo preso il
piede di porco, i guanti, la vanga e siamo andati a scoperchiare le
bare per smaltire i cadaveri. E secondo te a quale cadavere corrispondeva il codice 331B47RF? Hai già capito, ragazzo. Proprio alla fottuta moglie del fottuto avvocato. Appena scoperchiamo la
bara me ne accorgo subito, per la puttana, mica siamo idioti; bestemmio un quarto d’ora, poi mi attacco al telefono. Dico qui ci
deve essere un errore cristo, il codice 331B47RF è stato seppellito
dodici giorni fa. E lo sai cosa mi rispondono in Sede? Catroia maledetta, sai cosa mi rispondono? No che non lo sai. Si bloccò. Te
lo dico io; mi rispondono primo veda di non bestemmiare, secondo moderi il linguaggio, terzo pensi a fare il suo lavoro. Orcoìo
ragazzo, ti rendi conto cosa mi rispondono? Pensi a fare il suo lavoro. E io gli dico se volete venire a smaltire un cadavere seppellito da quindici giorni prendete un paio di guanti e venite voi, accamaònna di una eva sfondata. Dico proprio così. Chiedi a Mec se
non ho usato precisamente queste dannate parole. Vide un paio di
nutrie. Queste nutrie fottute. E comunque quello della Sede, intendo quello al telefono, mi risponde può attendere in linea, e io
attendo in linea. Ascolto musica per ragazzi strafatti all’incirca per
un quarto d’ora, che avevo l’orecchio destro in fiamme. Poi mi risponde una voce femminile e mi dice qual è il problema. Voleva
sapere qual era il problema, capisci ragazzo? Il problema è che c’è
un cadavere di quindici giorni che il vostro cervellone del cazzo ha
indicato come da smaltire, vacca boia, ecco qual è il problema. Sai
cosa mi risponde la voce femminile? Mi risponde primo moderi il
linguaggio, secondo il calcolatore centrale non può sbagliare, controllate che il codice inviato dal calcolatore centrale coincida con
314
quello riportato sulla bara in questione e, se coincidente, procedete allo smaltimento. Se coincidente? Ragazzo, cosa potevo rispondere a una che ti parla di codici coincidenti? A una che come minimo avrà avuto le tette di plastica, altro che Sabrina Salerno. Secondo te cosa potevo rispondere? Le ho risposto di fottersi, che
venisse lei a controllare i codici, e, se coincidenti, venisse lei a
smaltire un cadavere seppellito da neanche quindici giorni. Ho
riattaccato e mi sono fatto un panino con Mec; quel vecchio cavernicolo prepara dei panini che sono la fine del mondo. E così ci
siamo mangiati i panini e abbiamo riflettuto su quel calcolatore del
cazzo. Mec ha anche controllato per scrupolo che i codici fossero
coincidenti. E coincidevano, accamaònna, coincidevano come due
gocce d’acqua. Così ci siamo messi a smaltire gli altri dodici cadaveri, e mentre smaltivamo il penultimo sentiamo il telefono squillare.
C’era una voce maschile. Dice lei è il signor Wernikoff? Dico
sì, sono io. Ci è stato comunicato che c’è un problema inerente lo
smaltimento di un cadavere, precisamente del cadavere
331B47RF; il 331B47RF dai nostri archivi risulta femmina, in giacenza da trentanove anni e sei mesi, per cui da smaltire entro oggi
mediante bollitore industriale per cadaveri.
Merda secca, rispondo, statemi bene a sentire, caproni elettronici: il 331B47RF risulta femmina anche a me, ma è in giacenza da
due settimane, cristo. Praticamente è ancora caldo, catroia maledetta.
Le informazioni a nostra disposizione presso l’archivio telematico indicano che il cadavere codice 331B47RF è in giacenza da
trentanove anni e sei mesi. Ora, dice quel calibano imbecille, se la
targa posta in basso a sinistra della bara riporta il codice
331B47RF significa che il cadavere contenuto in quella bara è da
smaltire entro oggi, senza ulteriori discussioni. Le chiedo, mi chiede quello stronzetto, la targa posta in basso a sinistra della bara riporta il codice 331B47RF? Che cosa avrei dovuto rispondergli, ragazzo? Il codice corrispondeva, così ho risposto sì, catroia maledetta, la targa posta in basso a sinistra della bara riporta il codice
331B47RF. E sai cosa mi sento ribattere dall’altra parte? Primo,
dice lo stronzetto, moderi il linguaggio; secondo, aggiunge lo
315
stronzetto, procedete allo smaltimento. Hai capito cosa mi dice
quel collo di bue? Procedete allo smaltimento.
Ci sono notti in cui perfino questo campo cadaverico puzzolente sembra immagazzinare l’energia della bellezza. La notte in
cui abbiamo prelevato il 331B47RF e lo abbiamo ficcato nel bollitore cadaverico era una notte fantastica, ragazzo. Mec ci ha pure
scritto una poesia. Come l’hai chiamata, Mec, la poesia? Amore
all’ombra del bollitore industriale per cadaveri. Il titolo è da perfetti idioti, ma la poesia non era malaccio. È crepuscolare, come dice Mec,
qualunque cosa significhi. Parla di due ragazzini che vengono a fare le loro zozzerie qui, al cimitero, proprio sotto al Bollitore. Ci
pensi, ragazzo? Scopano nel campo di decomposizione, accanto al
bollitore. E la cosa peggiore è che si tratta di una storia vera: sai
quanti ne becchiamo, di questi pervertiti? Un’infinità. Diglielo,
Mec, quanti ne hai già beccati. Ma mica solo ragazzini eh; porco
cazzo abbiamo beccato anche donne e uomini sposati, se capisci
cosa intendo. Ma cosa vuoi capire, ragazzo, tu ti rinchiudi ancora
in bagno per farti seghe dalla mattina alla sera; chiudi a chiave la
porta, quando ti smanetti qui a lavoro, non voglio sorprenderti
con il pisello in mano. Sarebbe imbarazzante, ragazzo, capisci?
Accese una sigaretta, si avvicinò al distributore automatico di
bevande. Voglio offrirti un caffè, ragazzo.
La verità è che nessuno ha rispetto del nostro lavoro, disse.
Credono sia facile ramazzare il marcio da sotto il tappeto.
E comunque quando il marito del 331B47RF venne quaggiù
per cambiare i fiori sulla tomba e al posto della fotografia della
moglie ci trovò quella di un camionista di Scandeluzza morto il
giorno prima, prima chiese spiegazioni, poi, quando vuotai il sacco, si incacchiò di brutto. Dovevi vederlo, ragazzo. Non toccare
mai i morti ai cattolici. Toccare i morti dei cattolici è una gran
brutta faccenda. Io lo sapevo, e anche Mec lo sapeva. Non so
quanti soldi è costato all’azienda lo smaltimento di quella povera
donna; ben gli sta, ragazzo, per quanto sono imbecilli gliene avrei
fatti spendere anche di più.
Spense la sigaretta, fissò il ragazzo negli occhi, gli porse il bicchierino col caffè. Ma tu sei troppo giovane, ragazzo. Tu certe cose non puoi mica capirle. Si avvicinò a una bara, notò qualcosa che
fuoriusciva dall’intercapedine del coperchio, lì per lì non comprese
316
di cosa si trattasse. Che cazzo è sta roba? Sembra...sembra...un
germoglio. Cristosanto, guarda queste bare schifose comprate per
due soldi, ragazzo, gli cresce dentro perfino l’erbaccia. Chiamò
Mec perché venisse con il disinfestante. Questa non si era mai vista, un germoglio che spunta da una bara. Fece cenno a Mec affinché cominciasse a spruzzare il disinfestante. Spruzza, orcoìo,
spruzza. Fanculo all’erbaccia. Fece per accendere un’altra sigaretta,
poi decise di no. E fanculo alle tette di plastica. Prese il caffè del
ragazzo, bevve un sorso.
Ma come cazzo fai a bere questo caffè merdoso?
Lanciò il bicchiere in direzione del cestino. Lo mancò, e dovette chinarsi per raccoglierlo. Fanculo, disse, torniamo a lavoro, e
accese una sigaretta.
317
PRESIDIO
Doroteo Umbilk si sottoponeva a sedute di analisi ogni giovedì
dalle nove alle dieci di mattina.
Quando si stendeva sul lettino Thonet del Dott. Moebius, generalmente se ne stava taciturno ad ascoltare musica per dieci minuti, poi iniziava a parlare della prima cosa che gli veniva in mente.
Quel giorno gli venne in mente il suo corso di grafologia.
“Per impegnare le mie serate”, disse, “(quando non ho la reperibilità al lavoro e quando mia moglie non mi costringe a seguirla
in quel maledetto Centro Sterilità) frequento un corso di cucina
con cadenza quindicinale, ogni tanto un corso di spagnolo, un
corso di propedeutica alla semiotica l’ultimo mercoledì di ogni
mese. Ma il corso che più d’ogni alto mi impegna e mi appassiona
è senz’altro quello del giovedì, quando con la Signora Kartoĉa,
una simpatica settantaduenne dall’aspetto austero e dai modi affabili, quasi aristocratici, assimilo l’arte della calligrafia e della grafologia. La grafologia, come ci insegnano anche al Corpo di Nettezza Umana, è utile quando voglio sondare le profondità della mia
coscienza: prendo un foglio e una penna e inizio a scrivere. Non
ha importanza cosa scrivo, ma come lo scrivo. Studio la mia calligrafia per ore e ore, durante le quali imparo molto sulla mia personalità e sugli aspetti reconditi della mia natura. Il gambo delle g, molto lungo e premuto, indica un ardente desiderio sessuale soffocato; dall’altezza e dalla larghezza dell’occhiello delle d o delle q sono
risalito alle caratteristiche della mia indole, almeno sul mio piano
di realtà: è emerso che sono dotato di intelligenza profonda e razionale, capacità di elaborare le idee, concentrazione mentale, pro318
fondità sentimentale, capacità scientifiche. Ma va aggiunto, per essere onesti, che la scrittura fluttuante (la mia scrittura è spiccatamente fluttuante) è proiezione di instabilità emotiva, di stati
d’animo alterni, di oscillazione tra senso di sicurezza e depressione, e in definitiva di una innata disposizione all’interpretazione
musicale e teatrale, cosa peraltro assolutamente vera, almeno dal
mio punto di vista.
Tra l’altro, da un altro punto di vista, lo studio della grafologia
mi è stato molto utile per smascherare i soliti imbroglioni accovacciati ai semafori con comunicati scritti su pezzi di cartone, oppure per cacciare quei tipi che in pizzeria tentano di abbindolarti
millantando forme di sordità e handicap del tutto fasulli. Lo si desume facilmente dalla loro calligrafia.
Ma dicevo del sogno ricorrente. Sono imprigionato sul rimorchio di un tir e scrivo cartoline alla Signora Kartoĉa, scusandomi
per il fatto che non sarò presente alla prossima lezione. Scrivo cose del tipo:
Cara Signora Kartoca,
le scrivo per avvertirla che la prossima settimana mio malgrado sarò assente alla lezione di calligrafia, poiché un corteo
di persone cose e animali sta trasportando il mio corpo verso
un luogo che non mi è dato conoscere al fine di concedermi il
privilegio della paternità.
La paternità, dicono, è un privilegio.
Non so se lei ritenga che la paternità sia un privilegio, o se
invece ritenga come me che sia una perdita di tempo, ma
tant’è, non ho scelto io questa strada. In queste ore la mia vita sembra piuttosto inutile. Ma cinismo, materialismo, bramosia e cupidigia non sono peccati punibili da questa società;
l’immaginazione, al contrario, è passibile di punizione, dicono, e come tale va punita. Chi non vorrebbe essere padre, Signora Kartoca? Tutti vorrebbero. Tuttavia reputo che la paternità vada elargita, e a piene mani, alle persone che ne hanno
319
effettivamente urgenza. Io non ne ho alcuna urgenza, Signora cara, ma non riesco a dimostrarlo.
A questo punto del sogno un’orda di neonati si stringe a me e
mi impedisce di scrivere con la mia calligrafia impostata, appresa
nelle lezioni con la Signora Kartoĉa, per cui comincio a scrivere h
che sembrano b, p che sembrano q. Imploro i neonati che mi circondano di lasciarmi lo spazio necessario per scrivere con una calligrafia corretta, ma questi anziché spostarsi si stringono ancor più,
soffocando la mia scrittura, distruggendo il simbolismo delle mie h
e delle mie maiuscole. Urlo, li imploro, chiedo il perdono della Signora Kartoĉa, ma questi continuano a ripetere che devo essere
padre, padre, padre. Non fanno altro che ripetere quella parola.
Poi mi sveglio, sudato, e annoto tutto quanto è successo nel
sogno. Ho una calligrafia mutante, ogni volta sembra diversa, seppure bella e artistica come vorrebbe la Signora Kartoĉa”.
Quando Umbilk uscì dallo studio del Dott. Moebius, come al
solito con nuovi dubbi e incertezze, il fiume Atanor riluceva di un
verde primavera scuro chiazzato di bianco titanio.
Un gruppo animalista aveva collocato un presidio di fronte
all’ingresso sud-ovest del Palazzo Ottagonale, in corrispondenza
della Biglietteria Ufficiale per la Giostra del Peccato, mentre la
gente camminava distrattamente avanti e indietro lungo le strade
bighellonando, entrando e uscendo dalle agenzie divinatorie, guardando vetrine, leccando gelati o praticando altre attività per nulla
rilevanti. Il presidio era composto da un tavolo pieghevole in plastica blu del Bricocenter, quattro sedie Ikea – anch’esse pieghevoli
– e da un paio di piante ornamentali – anch’esse di plastica –.
Le piante ornamentali erano state una felicissima intuizione di
Katia, l’unica ragazza del gruppo; esse, infatti, oltre a dare un tocco di verde al presidio, avrebbero certamente suscitato uno spontaneo moto d’agio e famigliarità nelle persone che procedevano
sulla strada, apparentemente disinteressate ai problemi dello sterminio dei tacchini. Faceva inoltre parte del presidio una grossa stia
contenente tre splendidi esemplari di tacchino selvatico che Gomez, il più giovane dei quattro, aveva rimediato da un allevatore di
Castrocozzo. Subito dopo pranzo avevano aperto il tavolo e le se320
die, disposto le piante ornamentali ed estratto dalla valigetta ventiquattrore di Alan un plico di volantini ideati da Fil e fotocopiati da
Gomez.
Erano ancora caldi ed emanavano il classico profumo della carta appena uscita dalla fotocopiatrice. Gomez aveva preso dal baule
della sua auto un pupazzo indossabile modello tacchino felice che
qualcuno di loro, nonostante il gran caldo, avrebbe dovuto indossare.
Solitamente tiravano a sorte, ma quel giorno Fil si era sentito di
dover fornire un esempio alla truppa e si era infilato il pupazzo di
sua iniziativa. Aveva indossato l’enorme testa e abbozzato un gloglottìo che aveva fatto sorridere gli altri membri del presidio. Forse non sarebbe neppure il caso di sottolinearlo, ma era davvero ridicolo.
Quando Umbilk si accorse di loro, i quattro avevano appena
esposto alcune lenzuola alla ringhiera del piccolo parco posto di
fronte al Palazzo del Ministero Suicidi & Festività.
Sulle lenzuola, tra l’altro, c’era scritto:
Non c’è bisogno di divertimento!
Meglio pensare che cacciare!
Tacchini decapitàti, umani condannàti!
Perché odiamo i tacchini?
Rinunciate allo sterminio!
Tacchini di pezza alla Giostra del Peccato!
Umbilk accese una sigaretta e si fermò su una panchina nelle
vicinanze, dalla quale poteva osservare e udire tutto quello che accadeva al presidio; adorava stare seduto a guardare la propria città
mentre moltiplicava il suo brulichio incessante di uomini e cose.
Qualcuno si avvicinò al presidio e si accomodò sulle sedie pieghevoli dell’Ikea per constatare il significato delle scritte sulle lenzuola. Alan e Walter appoggiarono sul tavolo una trentina di copie
del libretto di Fil intitolato Relazioni tra Giostra del Peccato e fine del
mondo.
Con delle mollette stesero a uno spago decine di foto raffiguranti le atroci decapitazioni di tacchini che anche quell’anno, come
ogni anno, si sarebbero ripetute durante la Giostra del Peccato.
321
Inoltre misero giù quattro bicchieri e servirono dell’ottimo whisky
ai presenti.
Una donna incinta, che rifiutò cordialmente il drink, si dimostrò molto impressionata dalla violenza con la quale i tacchini venivano uccisi per il piacere della folla.
“Cosa volete dire?”, domandò.
Fil le fornì tutte le informazioni del caso, spiegando tra l’altro
che la vita selvaggia era un diritto di ogni animale, e il rispetto della natura un dovere di ogni paese civile.
“In pratica siete contrari alla decapitazione dei tacchini?”, domandò la donna.
“L’odio con cui sterminiamo i tacchini durante la barbara giostra del peccato è inaccettabile”, disse Fil dall’interno del pupazzo.
La sua voce giungeva cavernosa, e il rotacismo che lo perseguitava
rendeva le sue affermazioni molto buffe, ancorché tremendamente serie.
A questo punto Gomez e Katia comunicarono per mezzo di
un megafono l’appuntamento della settimana seguente con la conferenza di Fil:
“Vi annunciamo che per far fronte agli sforzi di sovracompensazione dovuti alla sensazione d’inesistenza personale, alla voracità inibente
della società moderna, alla spregiudicatezza dell’euforia e, in parte,
all’inesorabile avvizzimento della problematicità ontologica, il dr Fil Davidoff terrà una serie di conferenze dal tema “la decostruzione della
reificazione e l’educazione all’amore animale in relazione
all’imminente fine del mondo: come comportarsi” tutti i sabato
mattina sotto la sede della rivista di caccia Tempo Mortigi, durante
le quali, oltre a contestare tramite lancio di uova-vernici-ortaggi
contro l’edificio che ospita la sede della rivista, si dimostrerà inconfutabilmente che il mondo come lo conosciamo finirà entro
pochi anni, a meno che non si prenda tutti insieme un certo numero di accorgimenti – seguiranno letture di testi di narrativa, aforismi e poesie, suggellati dalla distribuzione di bibite e tranci di
pizza”.
Al termine della comunicazione distribuirono numerosi volantini ai passanti, molti dei quali erano attratti dal pupazzo indossato
da Fil.
322
Un tizio brufoloso emerse dalla coda che si era formata per
l’acquisto dei biglietti e si avvicinò al presidio per porre alcune
domande.
“Avrei alcune domande da porvi a proposito dei tacchini”, disse mentre si accomodava sulla sedia Ikea col suo biglietto di tribuna numerata in mano.
“Ma certamente”, rispose Fil, “siamo qui per questo”.
Alan gli offrì un bicchiere di scotch.
“Come dovrebbe svolgersi, esattamente, la Giostra del Peccato
senza tacchini?”, domandò il tizio brufoloso.
“La nostra proposta è quella di utilizzare pupazzi di pezza raffiguranti i tacchini”, attaccò Gomez. “In fondo cosa cambierebbe?
Risparmieremmo la vita a quelle povere bestiole e la giostra potrebbe svolgersi comunque”, disse Alan.
“E il divertimento dove sta?”, domandò il brufoloso.
“In che senso?”, domandò Fil.
“Senza il sangue, senza la violenza, senza la sensazione di morte che pervade la piazza quando un uomo lancia un cavallo a tutta
birra per staccare di netto con un bastone la testa a un cazzutissimo tacchino selvatico che si contorce per evitare il colpo, il divertimento dove sta?”, spiegò il brufoloso.
“Mi sembra un bel problema”, disse un altro tizio che si era
fermato al presidio mentre era in coda per l’acquisto di un biglietto per la Giostra.
In quel momento la coda alla biglietteria sarà stata formata da
venticinque o trenta persone.
“Un fottuto problema del cazzo”, disse un altro tizio con un
cappello da baseball in testa; il tizio aveva già acquistato due biglietti e li mostrava spocchiosamente a quelli ancora in coda.
“Trovate che sia divertente staccare la testa a un povero animale drogato e incattivito, ma soprattutto indifeso?”, domandò Katia.
“Mi sembra divertente!”, esclamò il brufoloso.
“E tu, Andi, non trovi che sia divertente?”, chiese cappello da
baseball a un amico.
“Trovo che sia un vero spasso”, confermò Andi.
323
“Specie quando il tacchino si dimena e spera di fottere il cavalcatore, mentre lui lo evita e fa schizzare la testa di quel fottuto fin
sulle tribune”, disse un altro.
“E poi vuoi mettere le risate quando il sangue schizza addosso
alle signore delle prime file? Ne ho viste parecchie vomitare anche
l’anima”, disse cappello da baseball.
“Una cannonata”, disse Andi.
“Non sapete cosa state dicendo”, gridò Fil.
La sua voce, proveniente dalle viscere del pupazzo, era profonda e oggettivamente comica.
“Un tacchino decapitato è garanzia di divertimento”, disse
cappello da baseball, suscitando un moto di repulsione sul volto
della giovane donna incinta.
“Avete capito, gente? Questi fighetti vogliono sostituire i tacchini della nostra giostra con pupazzi di pezza”, disse ancora cappello da baseball rivolto alle persone in coda alla biglietteria.
Umbilk pensò che quando si appronta un presidio è normale
aspettarsi insulti, sputi, sbeffeggi, ecc. Ciononostante gli sembrò
che i quattro ci rimasero piuttosto male.
“Perché le cose stanno andando così?”, domandò Gomez ad
Alan.
“Non lo so, Gomez”, rispose Alan.
“Forse perché delle femminucce come voi dovrebbero rimanere a casa a grattarsi il culo smanettando la playstation”, disse cappello da baseball.
Poi, fortunatamente, decise che ne aveva avuto abbastanza e
alzò i tacchi.
Al contrario la donna incinta sembrò persuasa della validità della proposta, acquistò una copia del libretto di Fil e promise di presentarsi a una delle conferenze, se la sua condizione di donna incita gliel’avrebbe permesso.
Nel frattempo anche alcuni studenti si erano fermati dalle parti
del presidio, chi per acquistare un biglietto per la Giostra, chi per
farsi un bicchiere, chi semplicemente per scocciare, simulando
svenimenti o improvvisando una break dance sul pavé dello spiazzo – peraltro tenendo la musica a un volume più alto del sopportabile –.
324
“Chi siete, voi? Delle specie di rompiballe o cosa?”, domandò
uno degli studenti. Avrà avuto al massimo diciassette anni. “Puoi
definirci critici della società che perpetra lo sterminio degli animali
a fini di entertainment”, rispose Alan; al che un altro ragazzotto lo
interruppe, dicendo: “Sono finocchi!”. L’esternazione suscitò
l’ilarità dei presenti e di alcuni tra i passanti, mentre Alan e gli altri
mantennero un contegno davvero apprezzabile. Qualcuno prese
un bastone e cominciò a simulare la decapitazione di Fil, scatenando commenti di ogni genere e molte risate.
Umbilk stava rimuginando sui tacchini e sulla sua condizione di
apparente sterilità. Quei fottuti tacchini merdosi, pensò, gli basta
eiaculare mezza volta e pum, il mondo è invaso da uova di tacchino selvatico. Non aveva idea delle modalità di accoppiamento dei
tacchini.
Altri avvenimenti notati da Umbilk durante la sua permanenza
sulla panchina furono:
a) Un uomo dall’aspetto cordiale, vestito con una giacca a
coste di velluto marrone, si presentò al presidio e disse di essere davvero dispiaciuto che al mondo esistessero ancora persone che non davano valore al divertimento della folla, alla tradizione della propria terra, e perseveravano con idee assurde e
bambinesche su temi animalisti del tutto superati. Quelle persone erano, evidentemente, Fil, Katia, Gomez e Alan.
“Siete ridicoli”, disse il tizio.
“Chi lo dice?”, gli domandò Fil.
Il tizio elencò una serie di motivi per cui la Giostra del Peccato non sarebbe mai stata cambiata, non ultimo il fatto che i
tacchini selvatici erano animali inutili, sovente allevati al solo
scopo di essere utilizzati nella Corrida e nella Giostra del Peccato. Affermò che le carneficine erano necessarie, e che loro –
Fil e gli altri – erano dei pappamolla e delle mezzeseghe (utilizzò proprio questi due termini). Ciò detto si mise in coda per
l’acquisto di un tagliando.
b) Un reverendo cattolico, pur non condividendo la visione dei quattro ragazzi, si disse davvero confortato nel vedere
325
che i giovani d’oggi potevano impegnarsi in un progetto, qualunque esso fosse, e li spronò a pregare per il mondo e per tutti noi. Fil gli fece notare che le preghiere sarebbero servite a
poco, dal momento che un dio buono e giusto non avrebbe
mai permesso una simile strage calcolata di animali indifesi. Il
reverendo farfugliò qualcosa e se ne andò. Forse aveva già acquistato un biglietto, ma Umbilk non riuscì ad appurarlo.
E ancora:
c) “Praticamente che cosa volete dire, voialtri?”, chiese un
tizio dall’aria scanzonata che stava per mettersi in coda con
una donna molto grassa.
“Vogliamo far valere il nostro diritto di protestare contro
l’uccisione di animali indifesi”, disse Alan.
“E come proponete di passare le domeniche pomeriggio?”,
domandò il tizio.
“Per esempio organizzando passeggiate in collina con la
propria famiglia, oppure gite al mare, in montagna, al lago”,
disse Katia. L’uomo dapprima sembrò vagamente preoccupato, quasi convinto a rinunciare alla Giostra, poi senza dire una
parola cinse la robusta vita della fidanzata e si avviò verso la
coda per acquistare i due biglietti.
d) Altri passanti ridevano, ridicolizzavano il presidio, digerivano rumorosamente, esprimevano a chiare lettere il proprio
dissenso verso i tacchini, qualcuno inveendo nei confronti di
Fil, bersaglio soprattutto dei bambini, i quali, muniti di bastoni
giocattolo, tentavano di emulare i propri eroi colpendo il tacchino gigante ripetutamente. Fil li lasciava fare, ben consapevole che una serena accettazione dei soprusi è l’unica arma
contro la violenza. Comunque le bastonate non erano sferrate
rabbiosamente e non gli avrebbero lasciato lividi, soprattutto
grazie all’imbottitura del pupazzo.
e) Un giovanotto si presentò al presidio per incoraggiare i
quattro; superò la sua visibile timidezza per instaurare una
qualche forma di conversazione. “Pensate che la decapitazione
326
dei tacchini alla Giostra del Peccato sia una grave piaga della
società contemporanea?”, domandò. “Crediamo sia necessario
decostruire ogni forma di carneficina nei confronti degli animali per investirla di un nuovo significato”, rispose Gomez
con un sorriso. “Mi pare uno dei problemi più incombenti della nostra epoca”, disse il giovanotto mangiandosi le pellicine
delle unghie. “Occorre attivare un processo secondo il quale
l’essere umano deve astrarsi da se stesso, dal senso della sua
umanità, per considerarsi come semplice animale tra gli animali”, disse Katia.
f) Il giovanotto se n’era già andato quando un tipo con una
camicia viola mezze maniche si avvicinò e disse a chiare lettere
che il loro atteggiamento lo innervosiva. Lo disse in modo rude, alzando la voce. Disse che avrebbero fatto meglio a drogarsi, invece di rompere le palle alla gente tranquilla che voleva
acquistare i biglietti per la più grande e sfarzosa manifestazione del mondo (disse proprio così, mondo, forse un po’ esagerando) o passeggiare in centro leccando gelati, guardando vetrine, fumando, ecc. Era chiaramente sarcastico.
“La nostra sensibilità ci impedisce di disinteressarci del
problema”, disse Gomez.
Il tizio con la camicia mezze maniche, con un atto davvero
increscioso, si levò la sigaretta dalle labbra e con una certa violenza la lanciò addosso ad Alan, il quale per scansarla finì contro una delle due piante ornamentali, rovesciandola e spezzandone alcuni rami. Poi il tizio aggiunse che erano dei gran coglioni, che avrebbero dovuto ritenersi fortunati perché in una
giornata normale li avrebbe presi a calci tutti e quattro, soprattutto il buffone dentro al pupazzo, che era stufo di questi
anarchici comunisti animalisti del cazzo, e così via. Poi se ne
andò insieme a un buffo turista americano con una bandana in
testa e l’espressione stordita.
g) Un tizio in blue jeans si sedette su una delle sedie pieghevoli, assaggiò il whisky e domandò: “pensate che in una
simile società abbia davvero senso preoccuparsi per la sorte
dei tacchini?”. Se ne andò prima di sentire la risposta di Katia
327
e Alan, che comunque avrebbero avuto moltissime spiegazioni
da fornire.
Subito dopo qualcuno lanciò un paio di palloncini d’acqua
all’indirizzo del presidio; in realtà Katia e Gomez scoprirono
loro malgrado che il contenuto dei palloncini non era acqua,
bensì piscio. Fu un fatto molto spiacevole. Un altro fatto molto spiacevole fu notare che numerosi bambini, fomentati dagli
studenti, si presentavano al presidio gridando offese e cercando di colpire Fil. Fil sarà stato sudato fradicio all’interno del
pupazzo modello tacchino felice, ma riusciva chissà come a
restare calmo.
“Che fastidio vi diamo?”, domandò Gomez a uno degli
studenti. Questi studenti avevano una divisa classica composta
da una camicia azzurra ben stirata e da una giacca blu con lo
stemma della propria scuola ricamato sul taschino.
“Esistete”, rispose lo studente. “E in quanto rompiballe,
animalisti del cazzo e finocchi, state infastidendo tutti”.
“Che cosa avete contro i tacchini?”, domandò Fil al ragazzo.
“Ci diverte decapitarli e osservarli mentre scorrazzano privi
di testa sul terriccio della piazza”, rispose lui.
“Sono davvero dei froci”, disse un altro, un tipo coi capelli
castani a caschetto, lo stesso che impugnando un coltellino
svizzero multiuso tranciò la catenella della gabbia dentro la
quale c’erano i tre tacchini, che liberarti cominciarono a imperversare per la strada. A questo punto, c’era nell’aria un profumo di limoni acerbi e kebab, i presenti improvvisarono una
rudimentale corrida, adoperando un paio di bastoni da passeggio concessi da due distinti signori. Molte persone che in coda
si annoiavano cominciarono a scommettere su quanto tempo
ci avrebbero messo a staccare il collo ai tre tacchini, su dove
sarebbe schizzato il sangue e quale figura allegorica avrebbe
disegnato (nella tradizione della Giostra del Peccato ogni
schizzo di sangue dei tacchini decapitati rappresenta un presagio), ecc.
Alan, Gomez e Katia tentarono di intervenire, ma furono
bloccati da alcuni bulli dall’atteggiamento molto scontroso e
antipatico.
328
Quando uno degli studenti decapitò l’ultimo tacchino ci fu
un grande boato d’approvazione, lodi, applausi, ecc., e tutti i
ragazzi cominciarono a urlare frasi del tipo: “decapitiamo anche quello grosso”, “stendiamo il falso-tacchino-verofinocchio”, “facciamo fuori il re dei tacchini”, riferiti a Fil, il
quale trascorse alcuni minuti molto tristi: cinque persone lo
fecero cadere a terra e dopo averlo fatto rotolare per quindici
metri sulla strada lo decapitarono simbolicamente, smascherandolo e sferrando calci alla testa da tacchino del suo pupazzo. Tutta la gente in coda applaudì e contribuì a rimuovere il
presidio, rovesciando le piante ornamentali, le sedie e il tavolo
pieghevole. I ragazzotti incendiarono anche i volantini, mentre
Fil era a terra attonito.
h) Quando Umbilk si alzò dalla panchina e si avvicinò a
Fil, qualcuno tra i presenti pensò che intendesse aiutarlo a rialzarsi. Invece, giunto a pochi passi dal poveretto a terra,
l’Ispettore di Nettezza Umana gli rifilò un violento calcio nelle
palle e restò lì, appagato, ad assaporare la vista di un coglione
che si contorceva per il dolore, mentre molti dei presenti urlavano all’indirizzo degli animalisti maleducati epiteti, tra i quali
il più frequente era: cazzi mosci.
329
LA GIOSTRA DEL PECCATO
“Se
non
fossi
franto
dall’emozione comincerei questo
pezzo con un ditirambo giambico, poiché la Giostra del Peccato
è anche musica di parole che
suonano come poesia. E continuerei con grande sfoggio di ipallagi e poliptoti, iperboli e prosopopee, sinestesie e allitterazioni,
probabilmente concludendo il
tutto con epifonemi degni d’un
Matteo Maria Boiardo. Certo correrei il rischio che la mia passione
elegiaca sottraesse spazio al resoconto dell’evento, e questo voglio
davvero evitarlo. Chi vi scrive,
infatti, tradito dalla vena proclamatoria che, ahilui, lo sta trainando a produrre cartelle su cartelle,
è convinto che questa edizione
del grandioso Tago da Peko (giostra del peccato in esperanto, ndr), la
Giostra del Peccato in Piazza San
Bertran de Born, per una volta
liberata dalla giungla delle automobili, dai banchi del pesce, dai
tavoli dei brumisti, sia stata una
delle migliori di sempre. Ma voglio lasciare le considerazioni
personali ai senatori e alle femmine da parrucchiere, poiché io
qui mi limiterò alla pura e semplice cronaca. E allora alzatevi le
gonnelle, signore, dacché si va
all’inferno: il primo sussulto
scuote la marea d’uomini e femmine alle 18.30 circa, quando sulla piazza già addobbata da paggi
dorati e putti irroranti acqua tinta
di rosso e verde fanno il loro ingresso le massime autorità locali,
il Gerarca con gran gessato grigio
tardi anni ’30 e il Sindaco con bastone Gerarcale falliforme ben
stretto nella mano destra, a dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno, la saldezza dell’Autorità sul
territorio. Il tutto introdotto dalla
banda musicale di Castrocozzo,
già prima classificata al festival
annuale delle fanfare, e dallo
spettacolo degli sbandieratori del
rione Sant’Uccello, che per ardimenti aerei non hanno eguali al
mondo. Sul palco il complesso
de’ Melodici, che allieta ogni ingresso con stacchi musicali.
L’onore più grande tocca al Primo Cittadino: tocco felpato avvolto dal rollio dei tamburi et
voilà mesdames et messieurs, ecco la nuova statua di San Bertran
330
de Born, opera dello scultore
svizzero Hans Georg Novitzki;
un ammasso di bronzee increspature di bracci e orecchi e peni che
si dimenano nel cianotico gavocciolo del cielo di Sabbione. Un
indicibile furor skopadèo coglie il
parterre, che si lancia in un applauso da sperticar le mani. Poi
inizia la sfilata: i primi a entrare
sono gli ignavi nel tradizionale
nude look, i lussuriosi e i golosi
(centro della parata è la ricostruzione
“storico-letteraria” dei peccatori sabbionesi, che devono completare un giro
della piazza, ndr). La festa del nostro amato patrono ha avuto inizio. Com tradizion vuole sfilano
utensili e macchinari Sabbionesi,
il coltro e lo sgürinèt, il barroccio
e la brusca, lo zipolo e il calamistro con cui le nostre nonne
s’arricciavano i capelli in cucina, i
lavoratori sul trabüch, la mordacchia per ferrare i cavalli, la navascia col vino che pare embriacare
tutti prima del gran finale: la sfilata dei mezzi pesanti, mietitrebbie
& trattori a non finire, falciatrici,
lame per trincia & vomeri per
scavabietole, trinciapaglia & foraggio e il nuovo Hürlimann XL
180.7, vanto e orgoglio del Paese
tutto, capace di sprigionare la
forza di dugento buoi e/o di trecentoventi muli. Che spettacolo
di potenza e che dimostrazione di
progresso per il Gerarca, che osserva dalla sua balconata con aria
inebetita eppur sicura. Ora mi
terrorizza l’idea che qualcuno
debba scorrere un giorno questo
articolo senza capire né poco né
punto come si sia svolta la memorabile giornata di domenica 20
luglio. Tratterrò dunque a stento,
lo confesso, l’istinto di celebrazione che la mia natura ambirebbe manifestare, e attaccherò con
la cronaca della parata che ha
preceduto la Giostra, la più grande e scenografica, questo concedetemelo, degli ultimi trecento,
trecentocinquantanni. Soffoco i
miei sentimenti di Fiero Cittadino
Sabbionese con una feroce autocensura che mi farà tacere delle
splendide acconciature della Gerarca Moglie e della Sindaco Moglie, due splendide sessantacinquenni che avranno certamente
impiegato poco tempo ad assumere l’aspetto impeccabile e imbalsamato (sia detto, questo termine, nella migliore e più positiva
delle accezioni che conoscete)
che presentavano sul palco Autorità. Armiamoci di entusiasmo,
dunque, e addentriamoci nella
parata. Va da sé che tutti adorano
le parate. Con il tradizionale
sfoggio di variopinti pavesi, le
soavi blandizie delle majorette, le
arcobaleniche divise militari dei
331
rifulgenti alamari, i fantasmagorici carri mangiasfalto, esse ridestano quella naturale e spontanea
angoscia insita in ciascuno di noi.
Ma la parata per la festa di San
Bertran ha qualcosa di più. Già
dopo
un
quarto
d’ora
dall’ingresso in piazza dei suonatori di zucca di Ventraglio la folla
comprende che il clima è particolare. Entrano nella piazza le centoventi damigelle papali, che con
perfette coreografie stimolano gli
istinti religiosi dei cittadini. Dopo
iracondi, epicurei e violenti sfila
la sempre commovente selva dei
suicidi, che nei bellissimi vestiti
arborei (curati dalla Sartoria Baldak, una delle più antiche di Sabbione) ardono al sole come il loro
progenitore e dio Giuda (gli iscariotici adorano Giuda Iscariota come
vero dio e salvatore dell’umanità, ndr).
Poi come satrapi saltabeccanti
entrano
i
trampolieri
di
Sant’Eustachio trainando i tacchini votivi di Tonco e i sacri
manzi di Frinco, i cui copiosi
escrementi vengon raccolti con
alacrità inappuntabile dai paggetti
di Scandeluzza, giovani paladini
biondicci che vegliano sul manto
bituminoso della piazza, altrimenti lordato dalle divine deiezioni.
L’organizzazione è perfetta:
quando un paggetto cade a terra
per un inciampo o una scivolata,
oppure svenuto per i miasmi appestanti, subito un altro paggetto
lo sostituisce giungendo da chissà
dove, come apparito dal gorgo
masticante della folla. Evviva noi!
Errori ne abbiamo commessi, cari concittadini, che più non se ne
poteva, ma che diamine, siam qui
apposta per correggerli. E infatti
alle 18.57, puntuali come orologiai di Berna, con gran batticuore
e suspanse, introdotti da suoni
trombeschi che avrebbero fatto
impallidire un Miles Davis, fanno
il loro ingresso le due legioni per
la gran Batracomiomachia tradizionale. Sul campo di battaglia,
come avvenne nella guerra de li
Sabbioni, le fazioni di Sabbione e
di Pizzengo. Dopo la formula
tradizionale, declamata dal Gran
Cerimoniere Notaio Mario Gianuzzi (“antica lite io canto, opre lontane, la battaglia dei topi e delle rane”,
ndr) ecco lo zampillar di sangue
subito lavato dai giullari di Piovà
Massaia e accompagnato dagli urlettini delle frigide sacerdotesse di
Giuda; ah il cozzare di spade
contro spade! Alla fine il bilancio
è stato di appena settantanove
feriti e nessun morto, ma tanto
sarà bastato a dare il buon esempio storico a bambini e ragazzotti. Evviva noi! I Melodici attaccano una polka infuriata e qualcuno
332
già balla. Ma è ancora presto per
festeggiamenti e giubili. Scendono in piazza i barellieri, i bestemmiatori e i giusnaturalisti, seguiti dagli adulatori e dai ruffiani.
Poi cala il silenzio. Ci pensa Mirella Andujar a squarciare il velo
d’ovatta, la grande Mirella, la suprema Mirella; entra e canta
l’inno del Gerarcato con quella
voce melodiosa e sottile che par
celare la stazza imponente, i grossi seni e lo smisurato deretano.
Non passano dieci minuti ed ecco entrare il Gerarca Figlio accompagnato da uno stuolo di ballerine che paion rubate di bella
posta al Bolscioj, tale è la loro
farfallesca leggiadria: suadenti negli striminziti abiti per i quali anche il Gerarca e il Sindaco tradiscono un sussulto, s’impongono
alla maraviglia de’ la folla per interminabili piroette e paté brulé
volanti. Sicuro sulla sua auto cabriolet, il Gerarca Figlio pare Fetonte sul cocchio dorato mentre
lentamente volta il viso ora
nell’una ora nell’altra direzione,
sganasciando sorrisi alla folla, parendo un faraone o un paraplegico allo stato terminale. Passano
ancora i barattieri, gli ipocriti, i
simoniaci, i cordiglieri con cammelli e gnu e tutto è pronto per il
clou della serata. Sono le 19.30
circa quando la giostra viene pro-
clamata con voce imperiosa dal
Notaio Giansemoj. Entrano i
cinquantacinque tacchini votivi
nella piazza, trattenuti al guinzaglio da vergini zeppe di fiori e corone e abiti di seta bianca, simili a
beatrici dantesche ma più aggraziate. Subito a ruota i due piccioni reali spiccano il volo.
All’unisono un gran vocio si leva
dai palchi alla piazza: entrano i
cavalieri. Poco dopo tutti in piedi: fanno visita al popolo
l’Arcivescovo, il Gran Rabbino e
il Proconsole (massima carica dei
giudeisti, ndr) che intabarrati negli
abiti celebrativi benedicono le
bestiole e i nobili cavalieri. Di seguito ecco entrare i Grandi Giudici e il processo comincia: il
Primo Giudice elenca le colpe
delle bestie e di seguito il Secondo Giudice dal suo pulpito proclama la sentenza di colpevolezza
per tutti i tacchini. È l’ora del testamento: sono i tacchini a parlare uno dopo l’altro (magistralmente doppiati dai membri della
Scuola di recitazione di Vinchio),
ammettendo i vari peccati commessi
dalla
popolazione
(quest’anno come detto stabiliti
nel numero di cinquantacinque),
dei quali ognuno degli animali si
fa carico. Tra i ricorrenti menzioniamo
l’adulterio,
l’ubriachezza, la razzia di ortaggi
333
e bestiame, la pedofilia, la concussione e la lordatura del suolo
pubblico per mezzo di cicche,
cartacce e rifiuti vari, oltre naturalmente al noto Ultimo Peccato
(citato più avanti nell’articolo, ndr).
Repentinamente
si
procede
all’enpicada: i tacchini vengono
appesi per le zampe al Gran Cordone, quest’anno in nervo di bue
(in breve: i contendenti o cavallerizzi
devono colpire al volo la testa dei tacchini decapitandoli con una mazza detta staja; ad ogni decapitazione corrisponde la remissione del peccato relativo, ndr). C’è da compiacersi, e
questo sia detto senza celebrazione, del lavoro fatto dagli allevatori di questa edizione, i Magiukoj e gli Umbilk di Castrocozzo: i loro sono tacchini di trenta/trentacinque chili con caruncole vermiglie da far invidia ai
ventagli andalusi delle nobili baronesse comodamente sedute sui
palchetti, per non parlare del
piumaggio, degno d’un pavone o
anche più. Tutto è ormai pronto.
I primi tacchinacci gorgogliano e
si dimenano sulla corda mentre i
cavalieri, montati i purosangue,
dispensano bouquet di primule e
viole alle signorine della tribuna
d’onore. I cavalcatori scelgono la
staja sull’ali dei boati della folla.
La prima tornata è un insuccesso
per il gran favorito, Gillo Maumè,
che gareggia per i colori di Bronco: la testa del suo tacchino rimane appesa al collo per un filo
di pelle che gli nega la perfezione
della vergata. Resta lì, il tacchino,
oggetto degli scherni dei più accalorati, zampillando sangue come una fontanella, mentre quelli
di Rango, storici nemici dei
bronchesi, esultano dalla balconata a loro preposta. Maumè si ritrae contrito sul proprio purosangue, avvolto dai bracci de’
cortigiani, paragonabile a un Laocoonte epperò con buona pace di
Priamo ed Ecuba. Soffre, il pluridecorato cavallerizzo, come un
Filottete socratiano, ora a terra
fissando il suo tacchino pencolante dal Cordone, consapevole
che per quest’anno i bestemmiatori non avranno una completa e
soddisfacente assoluzione. Si
prosegue. Tocca a Joselito Maera,
un tracagnotto di Moransengo,
che cavalcando assai rapidamente
riesce a pittare (cioè preparare la staja al colpo, ndr) e a vergare con una
violenza mai vista: testa staccata
di gran carriera, sangue a fiotti e
piena remissione per tutti gli
adulteri e tutte le adultere, seguita
dal boato della folla che subito
attacca a lanciare cardi gobbi e
asparagi sulla piazza (una delle
massime manifestazioni di approvazione accordate a un cavallerizzo, ndr),
334
forse pregustando un nuovo anno di amplessi clandestini. Che
giornata di sport. Le teste di tacchino tranciate subito finiscono
nel pentolone del Gran Bollito,
dove tra caruncole, zampe, petti e
cosce più tardi si procederà alla
grande abbuffata storica. I bambini, festanti, giocano al pallone
con
le
teste
dimenticate
sull’asfalto bruciante, i peccatori
son quasi tutti sgravati delle loro
colpe, i Contestatori sono tutti
bloccati, scaraventati nei colombiroli cittadini, mai così zeppi.
Entrano gli indovini e i maghi,
idoli dei più piccoli, i ladri, gli scismatici, i consiglieri fraudolenti e
i falsari, che corrono atleticamente nel cerchio della piazza. Siamo
quasi all’ultima tornata. Maumè
ha recuperato, con una spettacolare cavalcata da far impallidire
Wagner ha tranciato una testa e
rimesso il peccato dell’accidia con
una roteazione magistrale di
braccio e polso, in piedi sul suo
cavallo. La folla impazzisce stancamente, ma solo all’apparenza,
poiché nel suo cuore s’infiamma
la scintilla della gioja. Joselito
Maera ha mantenuto un buon
punteggio nonostante il penultimo tacchino, ritorcendosi come
un verme sull’amo, sia riuscito a
tenersi la testa attaccata al collo,
ricevendo la vergata sul becco,
invero scorticato di netto. Buon
per il grosso gallinaceo, che è stato applaudito per tempismo prima d’essere fiondato nel Pentolone bollente, un bel fallimento
per il piccoletto di Moransengo, e
soprattutto una cocente delusione per tutti i masturbatori, che
non hanno ricevuto remissione.
Lo ‘Slavo’, Ferzan Illovich, autore di una piroetta attorno al tacchino prima di finirlo con una
vergata funambolica e precisa, e
Malvestito, all’anagrafe Adolfo
Bricaroj, sono pur’essi ancora in
gara sebbene quest’ultimo sia incorso col suo secondo tacchino
nella penalità 11 della Giostra,
non riuscendo ad accoppare la
bestiola, che si è sbattuta e dimenata sul Cordone per sette o otto
minuti, costringendo i boja (preposti all’uccisione del tacchino nel caso in
cui non venga finito dal cavallerizzo,
ndr) ad intervenire per finirla con
un colpo secco in testa. Eccola,
l’ultima tornata, ovvero la Giostra vera e propria (nella quale gli
ultimi quattro cavallerizzi si scontrano
l’uno contro l’altro, contendendosi la
testa del tacchino, mentre i turni precedenti, in cui i cavallerizzi combattono
da soli contro il tacchino, servono oltre
che per la remissione dei peccati per stilare una classifica che forma la griglia
delle semifinali, ndr), quella in cui
salgono sul cordone i tacchini più
335
ribelli e scontrosi e in cui bisogna
redimere i tre peccati più gravi e
diffusi. Cala il silenzio, la tensione è altissima. Il caldo intanto è
insopportabile, trentasette gradi e
ottantotto per cento d’umidità.
Entrano sulla piazza gli ultimi
carri de’ la parata, i giganti, gli arringatori, i traditori vari e i dissidenti politici, che trascinano
grosse teste di pietra del Gerarca
come vuol la tradizione. La banda riprende una marcia trionfale;
è il segno che l’ultima tornata sta
per cominciare: ora ogni memoria di combattimento si desta, gli
animali oscillano sul cordone sognando forse la libertà, sotto di
loro il sangue cauterizzato dalla
temperatura dell’asfalto profonde
il fantasma della morte e della
salvezza. La folla strilla, s’abbuffa
con pane e salsiccia, beve vino a
fiumi. Si parte e per conto mio
partirò dalla fine, cioè dalla finale:
Maumè e Joselito infatti si contendono l’ultimo tacchino, ovvero l’onore di essere il Gran Remissore del peccato più grave e
diffuso
(e
pericoloso):
l’improperio al Gerarca. Nella
semifinale con Maumè, Illovich
aveva fatto schizzare il cervello
del suo tacchino sul vestito giallo
di Alberta Maperos, figlia del
Commendator Odorico Maperos,
la quale s’era istantaneamente
prodotta in una grande eruzione
di vomito, prontamente ripulito
da due paggetti di Scandeluzza.
Grande prova inficiata però dal
Comitato: pare che il sabbionese
avesse usato una verga con anima
di ferro, tassativamente proibita
dalla regola 1, pena la squalifica,
peraltro prontamente pronunciata. Nell’altra semifinale Joselito
aveva invece introdotto una variante nella sua pittata, sferrando
un colpo micidiale e perfetto di
rovescio e all’indietro, tranciando
di netto la testa e ricevendo un
lancio di cardi gobbi da parte della folla. Ora la finalissima si disputa tra i due cavallerizzi e vergatori più forti, non v’è dubbio.
E quando Joselito riesce, dopo
dieci minuti di spettacolari cavalcate e di vergate parate e sferrate,
a colpire il cavallo di Maumè facendo cadere a terra il campione,
tutti, compreso chi vi scrive, sono già pronti a celebrare Joselito,
tutti sono già pronti a invidiarlo
per la notte amorosa da trascorrere con le sette vergini di Giuda
(ulteriore ricompensa per il vincitore,
ndr). Ma Maumè è campione di
razza, già quattro volte trionfatore della giostra. E proprio mentre
il tarchiatello sta per sferrare la
sua ultima vergata, quella della
Gran Remissione, s’inventa il capolavoro: scaglia la sua verga
336
colpendo il polso dell’ispanico, il
quale ora urla per il dolore e perduta la staja si accovaccia su se
stesso. Il tacchino oscilla, farfuglia, freme e, c’è da immaginarlo,
non s’aspetta la fine. Che invece
prontamente arriva: Maumè scatta sul suo cavallo, cavalca per
cinquanta metri e anch’egli di rovescio e all’indietro, parodiando il
precedente colpo dell’avversario,
decapita l’animale tra le urla e il
lancio di asparagi e peperoni verdi e gialli della folla in delirio, già
pronta a ingiuriare l’amato Gerarca (naturalmente quello nuovo, poiché questo, hailui, tra
qualche giorno sarà fertilizzante
per gli splendidi prati sabbionassi) per un altro anno, forte di una
completa assoluzione per l’anno
trascorso (nel 1992, allorché l’ultimo
tacchino non fu decapitato e il peccato
non fu rimesso, l’allora Gerarca Giuseppe Ercole fece incarcerare settecentotrentadue persone, comminando più di
quarantasettemila multe, ndr). Sono
le 21 e 53 e Maumè è stravolto
dalla fatica ma felice: il Trionfatore e Gran Remissore è ancora lui.
Ancora una volta il Gerarca consegna nelle sue mani la Verga
d’Oro e il documento firmato nel
quale certifica che tutti gli improperi sofferti sono condonati, ancora una volta il Cappellano consegna a lui le sette vergini che,
ancora una volta, resteranno illibate: il Maumè è infatti omosessuale dichiarato. Che giornata indimenticabile, gentili lettori. La
popolazione ha dimenticato
l’anniversario della tragedia che
colpì la città molti anni or sono
(il mattino del 19 luglio 1986 fu ritrovato il cadavere sfigurato di un uomo
nel lago Val, uno stagno a sud-est del
capoluogo, ndr). E ora che la notte
s’è presa Sabbione i cittadini ballano il Brando per le strade (ballo
tradizionale sabbionese, ndr), candidi
come bambinette, mentre una
parte del pubblico rimane al proprio posto per assistere alla rappresentazione di una popolare
telenovela, portata in scena dalla
compagnia dell’Arcicoso, già celebre in tutto il mondo meno che
da noi. Per conto mio non ho seguito l’opera teatrale: troppe
emozioni si sono accavallate nel
pomeriggio e nella sera di domenica 20 luglio che l’unico rimedio,
dopo la tradizionale abbuffata di
tacchino, è una buona dormita,
peraltro serena: fremevo per trentotto peccati (al momento del processo ogni cittadino sabbionese è solito attribuirsi i peccati che ha commesso stilando una lista sul pizzino, un foglio di
carta da tenere vicino al cuore, e di conseguenza a tifare per la decapitazione
dei tacchini corrispondenti, ndr), e dei
miei trentotto tacchini trentadue
337
sono stati magistralmente decapitati, quattro parzialmente decollati e gli appena due che han serbato la testa non sono bastati a guastarmi il sonno, con buona pace
dei malpensanti e di quei là
d’oltre confine.”
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VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (9)
___________________
Non lo so. A volte rifletto su questa faccenda dei suicidi abusivi e penso che in fondo non me ne importa niente, dei suicidi
abusivi. Penso che se uno vuole farsi saltare il cervello perché gli
va di farsi saltare il cervello, dovrebbe essere libero di farlo.
Un giorno camminavo per strada e ho incontrato un tizio.
Non so perché sono finito a parlarci. So solo che abbiamo camminato un’ora per la città, e prima di salutarci mi ha offerto una
sigaretta e ha detto: credo che l’idea del suicidio abusivo sia
l’unica cosa che rende sopportabile la vita, ma bisogna saperla
sfruttare, non affrettarsi a tirare le conseguenze.
Sovente domando a mia moglie se è sicura di voler crescere un
figlio in questo posto assurdo, e lei ogni volta risponde che questo posto non ha niente di assurdo, è un posto come un altro.
Non lo so. L’altro giorno parlavo col mio collega Urs.
È tutto così assurdo, gli ho detto.
Cosa, ha chiesto lui.
Questo posto in cui abitiamo, ho detto io, mi sembra completamente assurdo.
Cosa intendi per assurdo, ha detto Urs.
Prendi per esempio il branco di rinoceronti che ha fatto irruzione in quella cittadina in Francia: i rinoceronti hanno cominciato a caricare le persone, le persone hanno provato a fuggire ma
non c’era scampo, i rinoceronti continuavano a braccare uomini e
donne, vecchi e bambini. Ti rendi conto, un branco di animali
selvaggi in piena città. E il bello è che questi rinoceronti hanno
iniziato a travolgere la gente, ma le persone anziché ferirsi o morire si sono tramutate in rinoceronti a loro volta, tipo una malattia,
la rinocerontite; era, com’è che si dice, una specie di metamorfosi.
E così è successo che l’intera popolazione della città si è trasformata in un branco di rinoceronti. Ecco cosa intendo per assurdo,
ho detto a Urs.
Urs mi ha guardato. Stava guidando. E cosa significa, mi ha
chiesto.
339
E perché dovrebbe significare qualcosa, ho detto. So solo che
è successo davvero, l’ho letto da qualche parte.
Mi sa che ho capito cosa intendi per assurdo, ha detto Urs.
L’ho guardato. In realtà non lo so mica se ha capito cosa intendo quando dico che questo posto in cui abitiamo è assurdo.
Quando gli abitanti di un posto assurdo cominciano a riflettere
sulla propria assurdità, l’assurdo si trasforma in qualcos’altro.
Non so in cosa di preciso, ma sicuramente in qualcosa di diverso.
Penso che i rinoceronti non abbiano riflettuto su cosa li avesse
trasformati in rinoceronti, si sono ritrovati a esserlo punto e basta.
Urs si è acceso una sigaretta. Stavamo andando a rassettare la
scena di un suicidio di gruppo.
Prendi il tizio di ieri, che si è fatto saltare il cervello perché gli
è morto il cane, ha detto Urs. Oppure il tizio dell’altro ieri, che si
è ammazzato perché non aveva i soldi per pagare la scuola ai figli.
Questo, mi ha detto Urs, è assurdo?
No Urs, gli ho detto, quello è semplicemente triste. E le cose
tristi non sono mai assurde.
Poi siamo scesi dall’auto, abbiamo preso l’attrezzatura, ci siamo iniettati una dose di scopolamina e abbiamo cominciato a
esaminare il parcheggio di un supermercato dove quattro tizi, due
uomini e due donne, avevano parcheggiato la loro auto, si erano
salutati, avevano premuto un pulsante e si erano fatti saltare in
aria, semplicemente perché dovevano farlo.
***
340
UNA CITTÀ DI EROI, RIBELLI E SUICIDI
Ogni sabato mattina Patrick consegnava croissant con ripieni
vari al distretto di Nettezza Umana. In cambio quelli della Nettezza permettevano a Patrick di assistere alle loro travagliate giornate
alla ricerca di marciapiedi da candeggiare, palazzi da disinfettare,
cassonetti da svuotare. Certe persone trovano bello e giusto rompersi l’osso del collo, saltare da un ponte o un palazzo, schiantarsi
a centoquaranta contro un cartellone pubblicitario. Altre persone
adorano osservare gli spazzamorti mentre disinfettano le fermate
dell’autobus o raccolgono pezzetti di cervello dal pavimento di
una latrina pubblica. La chiamano adrenalina dell’orrido.
Quando Patrick entrò al distretto l’ispettore Traumerei era caratteristicamente seduto alla sua postazione con le gambe appoggiate sulla scrivania, fumando qualcosa. “Buongiorno Patrick!”,
esclamò. “Buongiorno Ispettore!”, esclamò Patrick. “Dal profumino che sento ritengo che anche questa mattina, come ogni sabato mattina, tu ti sia presentato con gli splendidi croissant di tua
madre”.
“So quanto i croissant di mia madre piacciano a tutto il dipartimento”.
Il Dipartimento di Nettezza Umana è una Grande Istituzione
del Territorio. Fu un commissario lungimirante a fondarlo, quando gli spazzini della città si rifiutarono di raccogliere i rifiuti umani che lordavano le strade e i parchi pubblici. Fu un momento
molto brutto per tutti. Ma poi fondarono questo dipartimento,
mirabilmente attrezzato e altamente qualificato; cominciarono le
operazioni in una giornata d’estate, col caldo che spaccava
l’asfalto imbrattato di resti umani: si trattava di raccogliere un
gruppo di omosessuali che si era lasciato precipitare dal quindicesimo piano del Pirelli Building.
341
Fu una grande giornata.
“I croissant di sua madre sono insuperabili”, disse l’ispettore
Catwoj.
Patrick era stato scartato dalla Commissione Valutativa per i
Requisiti Psico-Fisici del Corpo di Nettezza Umana, ma aveva
conservato una grande passione per il lavoro degli ispettori e degli
agenti. Aveva conosciuto l’ispettore Traumerei in circostanze del
tutto fortuite.
“È bello che ogni sabato mattina tu venga a farci visita, Patrick”, disse Traumerei.
“Il sabato mi pare la giornata più interessante della settimana”,
disse Patrick.
“Specialmente in questo periodo dell’anno”, disse l’ispettore
Traumerei. “A proposito, anche il commissario Ricàrd adora i
croissant di tua madre”. “Ne sono lieto”, disse Patrick.
S’incamminarono verso l’ufficio del commissario per consegnare i croissant. Patrick udì la radio del distretto trasmettere un
codice che gli sembrò di riconoscere, era il codice per un intervento rapido di pulizia e sterilizzazione. “Se ne occuperà Froston”, disse l’ispettore Traumerei, “sento che oggi potrebbe succedere qualcosa di più interessante”. Poi raggiunsero l’ufficio del
commissario. “Buongiorno Signor Commissario”. “Buongiorno a
voi”, disse il commissario. “Il nostro amico Patrick ha portato i
croissant di sua madre”, disse Traumerei. “Quei meravigliosi
croissant con marmellata di prugne e crema pasticcera?”, domandò il commissario.
“Precisamente, signor Commissario”.
“Piacere di conoscerla, signore”, disse Patrick. “Il piacere è
mio”, rispose Ricàrd.
“Purtroppo Patrick non ha superato la valutazione psicofisica
per l’ammissione nel Corpo”, disse Traumerei.
“È per via delle croste in faccia?” domandò Ricàrd.
Fin dall’adolescenza Patrick era affetto da una forma acuta di
dermatite seborroica che ne deturpava il volto, o quantomeno lo
alterava pesantemente.
342
“Già”, confermò Traumerei; “malgrado ciò è un grande appassionato di interventi di nettezza umana”, disse l’ispettore
Traumerei. “Bravo figliolo!”, esclamò il Commissario mangiucchiando un croissant ripieno di marmellata alle prugne, o albicocche. “Questa è marmellata di albicocche?”, domandò. “Quelli con
lo zucchero a velo sopra sono alla crema pasticcera”, disse Patrick, “quelli scuri hanno la marmellata di prugne e quelli leggermente più ambrati hanno la marmellata di albicocche”. “Dica a
sua madre che la marmellata di prugne è imbattibile”, disse il
Commissario. “Non mancherò”, disse Patrick. Poi si mise a osservare la fotografia di gruppo del dipartimento nettezza umana
con tanto di attrezzatura, macchinari e armi d’ordinanza. “Mi pare di capire che siete un gruppo molto unito”, disse. Molti degli
uomini nella foto indossavano la divisa del Dipartimento Nettezza Umana.
Sintesi descrittiva della divisa:
Scarpe nere. Pantaloni color aviazione. Cinta di canapa bianca.
Camicia azzurra. Giacca verde di cotone con bande orizzontali
catarifrangenti e distintivo del Corpo. Berretto da alta uniforme
con stemma del Corpo e soggolo.
Alamari, fibbie, simboli, ecc.
Sintesi descrittiva dello stemma:
Partito semitroncato: nel primo, d’argento, al decusse di rosso;
nel secondo, troncato di verde e di bianco, al monogramma di
Giuda impiccato sotto un sole risplendente; nel terzo, di azzurro,
ai tre cedri di verde, frustati al naturale, nodriti nella strada di grigio lindo. Il tutto sovrastato da un berretto d’alta uniforme, con
cordoni a venti fiocchi, pendenti, dieci per ciascun lato, di colore
verde. Parte inferiore con cartiglio recante il motto del Corpo:
Servus Per Mundus.
In tal senso lo stemma non è dissimile rispetto a quello
dell’altrettanto celebre Corpo dei Verificatori, nel quale il sole sopra Giuda risulta nero, i cedri sono sostituiti da sequoie, il berretto
ha cordoni a trenta fiocchi e il cartiglio reca il celeberrimo motto
Sic transit gloria mundi.
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“Dobbiamo essere un tutt’uno”, disse il Commissario. “Questa foto fu scattata il giorno del suicidio di massa® al Parco Sintetico Märklin”. “Lo ricordo bene”, disse Patrick. “Indimenticabile”, disse Traumerei. “Ma per quale ragione girate armati?”, chiese
Patrick. “Il motivo è molto semplice. L’equipaggiamento all’inizio
consisteva in una mascherina antibatterica, la fornitura mensile di
antiemetici, il whisky e tutto il necessaire per la pulizia, spazzoloni,
detergenti, disinfettanti, ecc.; ma lei non può sapere quanti pazzi
depravati sbroccano sulla scena di un suicidio®”, disse il Commissario.
“In che senso?”
“I masturbatori sono i più fastidiosi, anche se per lo più si limitano a spargere il loro seme per mischiarlo col sangue dei suicidi®. Quei pazzi drogati maniaci si eccitano osservando il sangue
di chi si ammazza, capisce? Sperano che cresca qualcosa! Solo
l’ultimo mese ne abbiamo pizzicati venticinque”.
“Ventisette!”, esclamò Traumerei.
“Ventisette. Capisce? I miei uomini devono pur difendersi da
questi individui immondi”, disse il Commissario.
“Non avrei mai creduto”, disse Patrick.
“E non è tutto. Ci sono anche le sette sataniche, le sette religiose, i predicatori, i parenti, i mitomani, i curiosi, i giornalisti, i
fotografi. Si figuri che qualcuno paga lautamente fotografi professionisti affinché immortalino i propri resti umani o quelli di un
parente. E poi preghiere, messe nere, gente che chiacchiera, i verificatori. Lavorare in simili condizioni può risultare davvero problematico”, disse il Commissario.
“Senza citare il nostro nemico numero uno: il Monaco Arancione, fondatore della setta nota come Circolo dei Suicidi Abusivi”, disse Traumerei.
“Ne ho sentito parlare”, disse Patrick.
“Quella dannata setta”, disse il Commissario, “si arrogano il
diritto di cospargere il seme del disordine nell’organigramma prestabilito del nostro mondo, turbando l’armonia di ciò che è determinato con azioni inconcepibili e impreviste, sporcando strade
e palazzi coi loro fluidi morti, imbrattando panchine e fermate del
tram con i loro pirotecnici suicidi abusivi. Ma li fermeremo”.
344
“Comunque lasci che le dica una cosa: siete i miei idoli” disse
Patrick. “Sin da piccolo nutro un’ammirazione senza riserve per
gli agenti di Nettezza Umana. Guardavo dalla finestra i vostri automezzi sfrecciare per le vie del centro e già immaginavo che al
loro interno ci fossero uomini di infinita perspicacia, dotati di un
senso del dovere fuori dal comune, al tempo stesso soccorritori e
sacerdoti, uomini in grado di intuire con un’occhiata gli aspetti
reconditi e magici della città, guardie e operatori ecologici, uomini
da consultare come divinatori. E non solo perché intelligenti, ma
perché capaci di redimere con la pulizia e il candore la morte di
chiunque, di restituire un bagliore di luce all’oscurità”.
“Lei ci lusinga, Patrick. Mi dispiace che il suo problemino le
abbia impedito di sostenere il Concorso d’Ammissione, ma continui a portarci questi meravigliosi cornetti e assisterà a delle imprese davvero movimentate”.
Il Commissario Ricàrd strinse vigorosamente la mano di Patrick.
“Pronto a uscire?”, domandò l’ispettore Traumerei. “Non vedo l’ora”, disse Patrick. “E allora cosa state aspettando?”, disse il
commissario Ricàrd assaggiando un croissant con lo zucchero a
velo, “facciamo vedere a questo ragazzo come si rassetta la scena
di un suicidio®!”.
Patrick e Traumerei scesero negli hangar del dipartimento per
decidere il mezzo di trasporto più adatto.
“Ho sentito che ultimamente avete parecchio lavoro”, disse
Patrick.
“In origine il Corpo di Nettezza Umana si chiamava Distretto
di Pulizia Urbana Suicidi®, e si occupava della pulitura e della disinfezione di tutti i luoghi pubblici imbrattati dalle conseguenze di
un gesto suicida®. Poi con l’aumentare del prestigio e del lavoro il
Dipartimento ha inglobato le forze dell’ordine tradizionali, e noi
siamo stati costretti a occuparci anche di omicidi, incidenti e molto altro”, disse Traumerei. “Che genere di incidenti?”.
“Per lo più stradali. Ma anche qualcuno domestico e sul lavoro”.
L’hangar del dipartimento di nettezza umana fu illuminato da
centinaia di neon sfrigolanti.
345
“Questo posto è fantastico. Non immaginavo che il vostro
parco macchine fosse tanto grande”.
“Per essere grande è grande. Ma molte di queste vetture sono
reperti archeologici”.
Avanzarono tra i mezzi parcheggiati. Patrick scrutò numerosi
apparecchi di cui ignorava il funzionamento.
“Che automobile prendiamo?”, domandò Traumerei.
“Non lo so, Sigfrid, la scelta spetta a te”, rispose Patrick.
“Va bene, cosa abbiamo qui?”, Traumerei si inoltrò tra le file
di automezzi. “Non riesco mai a decidermi tra la macchina automatizzata per la pulizia a ultrasuoni e l’idropulitrice. Senza contare la spazzatrice stradale”.
“Non saprei davvero quale scegliere”.
“Credo sia il caso di prendere l’idropulitrice. La spazzatrice ha
un problema allo sterzo”.
Uscirono con l’idropulitrice avanzata. Si trattava di una Daihatsu Materia color prugna accessoriata appositamente per il Dipartimento. Poteva risultare leggermente ridicola, ma essendo la vettura degli ispettori di nettezza umana era considerata una vera
sciccheria.
Sintesi descrittiva dell’idropulitrice avanzata:
L’idropulitrice è montata direttamente sulla Daihatsu Materia.
Essa è formata da: pompa dell’acqua ad alta pressione, motore
endotermico indipendente, tubo per acqua ad alta pressione, lancia con ugello.
Sintesi descrittiva del funzionamento dell’idropulitrice:
Il motore elettrico fa girare una pompa ad alta pressione, la
quale, per mezzo di pistoni in ceramica o acciaio, mette in pressione l’acqua. Un’apposita valvola di regolazione consente di regolare il rapporto fra pressione e portata d’acqua.
L’acqua in pressione viene scaldata attraverso la serpentina di
una caldaia montata a bordo macchina.
L’acqua ad alta pressione percorre tutto il tubo e la lancia per
fuoriuscire da un ugello con un orifizio del diametro di 0,7 millimetri circa. Fine delle sintesi descrittive.
346
“Toglimi una curiosità, Sigfrid”, disse Patrick.
“Certamente, Patrick”.
“Tra i vostri compiti c’è anche la pulitura e disinfezione delle
abitazioni private?”.
“Solo in casi eccezionali. Solitamente dobbiamo occuparci di
strade pubbliche, parcheggi, centri commerciali, arene, palazzetti
dello sport, grattacieli, grandi vetrate, stazioni ferroviarie, uffici
postali, ecc.”.
“Capita spesso di rassettare gli uffici postali?”.
“La scorsa settimana un tizio s’è fatto saltare le cervella
nell’atrio delle Poste Centrali”.
“E com’è andato l’intervento?”, domandò Patrick.
“Uno schifo che non ti dico. Pezzettini di cranio sparsi ovunque. I verificatori non muovono un dito; si limitano a chiamare
noi, che dobbiamo arrivare con l’attrezzatura e rassettare ogni cosa. Siamo stati costretti a raccogliere i pezzetti uno ad uno, per
non parlare della cosiddetta materia grigia, che, detto tra noi, puzza da far schifo”.
“Credevo aveste apparecchiature adeguate per questo genere
di lavori”.
“Sfondi una porta aperta, Patrick. Ma è un periodo nero. Il lavasciuga mobile ha problemi al cambio e l’aspiratore non è indicato per i rimasugli di cranio, si attaccano al pavimento e lasciano
grumi di cervello dappertutto. Ti andrebbe un hamburger per
pranzo?”
“Mi farebbe molto piacere, Sigfrid”.
“Conosco un posto che è una cannonata”.
Traumerei si iniettò qualcosa in vena.
Passarono rapidamente dal marciapiede sottostante il Palazzo
Ottagonale per supervisionare il lavoro di alcuni agenti concentrati a spazzolare e asciugare il cemento. Due tizi avevano celebrato
un suicidio d’amore® lanciandosi dal tetto del palazzo. “La gerarchia del Dipartimento Nettezza Umana è inequivocabile: il
Commissario è il capo, a ruota vengono gli investigatori o ispettori, infine gli agenti semplici”, disse Traumerei, “anche se alla fine
ci chiamano tutti indistintamente spazzamorti, e la cosa non mi fa
347
molto piacere. Mi pare un soprannome un tantino degradante, se
capisci ciò che intendo”.
“Su che cosa investigate, precisamente?”, domandò Patrick.
“Principalmente sulle modalità con cui i luoghi si sporcano.
C’è una sottile differenza tra il modo di lordarsi di una strada, di
un palazzo, di un marciapiede o di una panchina. La superficie fa
la differenza. Noi investighiamo sulle ragioni del sudiciume, sul
modo in cui si propaga; scopriamo se gli schizzi di sangue seguono una traiettoria angolare o retta, se i frammenti di osso si spezzano o si frammentano, ecc. Inoltre dobbiamo considerare tutte
le possibili conseguenze di una pulitura oltremodo frequente delle
molteplici superfici; una panchina non può essere disinfettata
troppe volte, altrimenti la vernice si sfalda, un marciapiede imbrattato di sangue umano richiede ore di lavoro perché sia ripristinata la circolazione dei pedoni. Dobbiamo essere scrupolosi.
Forniamo ogni mese una dettagliata analisi al Settore Statistiche
del Ministero Suicidi & Festività®.
Tuttavia negli ultimi anni abbiamo dovuto direzionare le nostre indagini nei confronti di quella maleodoranti cricca che passa
sotto il nome di Circolo dei Suicidi Abusivi. Metà del nostro tempo dobbiamo dedicarlo alle indagini sulle loro malefatte. In tutta
franchezza, Patrick, le nostre investigazioni sono un vero caos”.
“Mi pare proprio”, confermò Patrick.
“E non è tutto”, proseguì Traumerei, “buona parte del nostro
lavoro consiste nel prevenire le lamentele dei cittadini. Quando
un cittadino si lamenta per la sporcizia di una proprietà pubblica
per noi è una grande sconfitta. Per tale motivo investighiamo le
cause più frequenti di rimostranza da parte dei cittadini, cerchiamo di scoprire i luoghi più indicati per suicidarsi e di giungere sul
luogo nel minor tempo possibile. Il problema è che il lavoro è intenso e i mezzi a disposizione sono gli stessi di quarant’anni fa,
quando questo dipartimento fece la sua gloriosa apparizione nella
schiera dei dipartimenti di polizia”.
“Un bel guaio”, disse Patrick.
“Il sogno di noi tutti è quello di camminare su strade pulite,
Patrick. Un marciapiede lindo riempie il cuore di gioia e accresce
il sentimento di ammirazione nei confronti del Potere. Se manca
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la pulizia, almeno nei quartieri dove questa è richiesta, manca la
fiducia nel Potere. Ciò di cui noi tutti siamo coscienti, Patrick, è
che il nostro non è un lavoro, ma una missione. Disinfettare una
panchina grondante sangue misto a vomito potrà sembrare un lavoro orribile, ma se consideri per un solo istante la soddisfazione
di vedere quella panchina ripulita, disinfettata, nuovamente utilizzata da una mamma e un figlio o da una coppia di fidanzati, allora
ti sarà chiara la nostra missione”.
“Magnifico, Sigfrid. La mia ammirazione per il vostro lavoro
sta aumentando a dismisura; qualcuno sostiene che i pompieri
siano i veri eroi del nostro tempo. Ma in fondo cosa c’è di eroico
nel salvare vite umane? Niente di niente, almeno io credo. I veri
eroi sono gli agenti della nettezza umana, Sigfrid, siete voi! Voi
non salvate vite umane, Sigfrid, voi contribuite a rendere migliore
l’esistenza dei cittadini, vi occupate della loro igiene e del loro olfatto, raccogliete ciò che rimane di una vita che ormai non c’è più.
Voi siete i veri eroi, Ispettore Traumerei, Sigfrid, amico mio”.
“Ben detto, Patrick!”, esclamò Traumerei.
“Sono davvero orgoglioso di essere all’interno di questa Daihatsu Materia color prugna e superaccessoriata con un ispettore
della nettezza umana!”.
“E il bello deve ancora arrivare: sapevi che abbiamo quindici
diverse fragranze per detergere e smacchiare il sangue umano?
Spesso la gente crede che la fragranza sia dettata dal caso, ma si
sbaglia. Per ogni luogo, per ogni stagione, per ogni momento della giornata, scegliamo con cura la fragranza più appropriata. Gelsomino notturno o primula selvatica, cielo australe o campo di
papaveri”.
“È davvero fantastico, Sigfrid. Non credevo che foste tanto attenti ai gusti della popolazione”, disse Patrick.
“Lo siamo. D’altra parte, come chiaramente espresso nella circolare cinquecentoquattordici del Ministero Suicidi & Festività®,
l’olfatto è uno dei sensi più importanti, in regime di dittatura, almeno pari alla vista e al tatto. Gusto e udito, almeno nella mia
personale classifica, sono un gradino sotto”.
“Sono d’accordo con te, Sigfrid”.
349
Poi Patrick udì provenire dalla radio una voce che gli sembrò
famigliare, si trattava della voce di una centralinista affetta da una
leggera forma di rotacismo. Comunicò che era necessario
l’intervento per una precipitazione abusiva da un palazzo affacciato sul Parco Sintetico Märklin. L’ispettore Traumerei afferrò caratteristicamente il microfono della radio e comunicò che sarebbe
stato lui in persona a recarsi al parco per rassettare. Premette un
pulsante sul quadro dell’automobile, un vano si aprì, prelevò una
siringa e si iniettò qualcosa in vena.
“Le precipitazioni abusive sono frequenti?”, domandò Patrick.
“Sì, alla gente piace osservare il panorama, prima del grande salto”, disse Traumerei. “Capisco”, disse Patrick, “mi sembra interessante”. “Il problema è che quando devi rassettare la scena di
una precipitazione il raggio di pulizia si allarga a dismisura, in base
all’altezza dello schianto, e quei dannati suicidi abusivi tentano in
ogni modo di renderci il lavoro impossibile”, disse Traumerei. “Ti
dispiace se ci fermiamo per un drink?”. “Affatto, Sigfrid”, disse
Patrick.
Entrarono in un bar confortevole e si sedettero al bancone per
bere qualcosa.
“Pensavo aveste in dotazione una scorta di whisky”, disse Patrick sorseggiando il suo drink. “Il whisky in dotazione è disgustoso, Patrick. I sindacati sono riusciti a ottenere soltanto un beverone di sottomarca. E per sopportare lo schifo a cui siamo costretti ci vuole qualcosa di davvero buono”. Traumerei bevve con
due sorsi un Port Ellen liscio invecchiato quindici anni e salutò la
barista con un caratteristico cenno della mano. In auto si iniettò
qualcosa in vena.
Quando raggiunsero il luogo della precipitazione Patrick si
trattenne dal vomitare; si trattava di una poltiglia multicolore,
sangue schizzato sulle vetrine dei negozi, sui muri caldi, sulla
strada, le panchine, il marciapiede. Traumerei osservò la situazione in maniera molto professionale. Poi ingollò un po’ del whisky
di sottomarca in dotazione. “Alle volte è necessario”, disse. Sul
posto c’era già una squadra del dipartimento di nettezza umana.
Dal punto dello schianto saliva una lieve bava di fumo azzurrognolo, una muffa vellutata giaceva sul sangue non ancora rappre350
so. “Bisogna lavar via il sangue prima che si raggrumi”, disse
Traumerei, “altrimenti siamo fritti”. Diede disposizioni agli agenti. Patrick pensò che quelli erano davvero gli eroi dei nostri tempi.
Qualcuno utilizzò il braccio meccanico dell’idropulitrice avanzata
per iniziare le operazioni di pulizia dei muri. L’ispettore si infilò i
guanti e accese una sigaretta. Poi cominciò a ripulire la panchina
sottostante da alcuni fluidi organici.
“È estremamente importante che l’odore sparisca del tutto”,
disse Traumerei. “Il movimento dello spazzolone deve essere circolare, vedi? In questo modo, procedendo per cerchi concentrici,
i microbi vengono neutralizzati. Un movimento dall’alto verso il
basso rischierebbe di compromettere la totale disinfezione della
scena”.
“Che tipo di prodotto stai usando, Sigfrid?”
“Si tratta di un prodotto segreto utilizzato esclusivamente dal
dipartimento nettezza umana. I suoi effluvi possono essere inebrianti, è magnifico. Lo teniamo segreto. Non vogliamo che le
massaie di mezzo sabbionasso si perdano in panegirici immaginari su mondi inesistenti dopo averlo sniffato. Questo prodotto, Patrick, non copre gli odori, li elimina. In realtà ti confido che di
tanto in tanto una sniffatina la diamo anche noi; serve a farci
scordare le peggiori scene a cui dobbiamo assistere”.
Patrick osservò la squadra di agenti della nettezza umana lavorare con grande organizzazione e suprema efficienza. “Devo stilare il rapporto, ma ci vorranno ancora un paio d’ore prima che il
posto sia rassettato”, disse Traumerei. “Prima però andiamo a
pranzo, è quasi mezzogiorno”.
“Ben detto”, disse Patrick.
Si ritrovarono in un chiosco di periferia, dove ordinarono
hamburger e patatine fritte.
“Cosa mi puoi dire dei tizi in calzamaglia arancione che saltano abusivamente dai palazzi, Sigfrid?”, domandò Patrick addentando il suo panino. “Sono dei malati, Patrick. Malati addestrati
dal Monaco Arancione per creare scompiglio nella nostra organizzazione. Molti di loro precipitano tentando di leggere Centuria
di Manganelli, è una nuova moda lanciata da un appassionato di
letteratura italiana: ci si deve buttare da un luogo sufficientemente
351
alto da consentire la lettura di almeno uno dei cento racconti contenuti in quel dannato libretto”.
“E qualcuno ci è riuscito?”
“A fare cosa?”
“A leggere almeno un racconto prima di sfracellarsi al suolo”
“Non che ci risulti. Ad ogni modo nessuno può saperlo con
certezza, ti pare?”.
“Ma certo, che sciocco”.
“Per tornare a noi: la prima cosa da sapere, relativamente a chi
salta da un palazzo, è che egli finge di non avere alcuna paura di
morire”, disse Traumerei. “Ma è solo quello che vorrebbe farci
credere”, continuò. “In realtà ha una paura fottuta di rimetterci le
penne”. “Buono a sapersi”, disse Patrick. “Inoltre, essi solitamente si persuadono di agire in nome di un’ideale che neppure loro
hanno compreso fino in fondo”, disse l’ispettore. “Cosa significa?”, domandò Patrick. “Significa che sono il paradigma della
contraddizione. Significa che gli ideali ti condizionano, quando si
tratta di portare a compimento un’azione simile. Senza ideali sarebbe molto più semplice. Gli ideali sono freni inibitori”. “Lo
credo anch’io”, disse Patrick, “Cosa sapete di questo Monaco
Arancione?”. “Sappiamo che è un individuo spregevole, Patrick”,
rispose Traumerei; “le nostre indagini ci conducono a credere che
abbia avuto un’infanzia tranquilla in una famiglia religiosa della
media borghesia, nel quartiere residenziale. Quando divenne monaco restò certamente deluso dalla vita religiosa, si sposò, fu tradito e abbandonato dalla moglie, tentò il suicidio in più circostanze, ma fallì sempre. E sappi che chi fallisce un suicidio non vuole
veramente suicidarsi. Le autorità gli diedero la caccia per molto
tempo, ma sparì dalla circolazione. Indossò la sua calzamaglia
arancione e girovagò per Sabbione alla ricerca di altri delinquenti
pronti a seguirlo. La sua setta di squilibrati si fece viva
all’inaugurazione del Palazzetto dello Sport: durante il Discorso
Gerarcale tre suicidi abusivi si lasciarono cadere impiccandosi alla
copertura dell’edificio, pencolando abusivamente nel vuoto per
ventisette minuti, inorridendo gli spettatori. In quell’occasione il
Monaco Arancione diede prova di tutta la sua malvagia vena ri352
belle, leggendo un comunicato che fece rabbrividire tutti. Da allora gli diamo la caccia”.
“Avete già abbozzato un identikit della sua personalità?”, domandò Patrick. “Certamente”, rispose Traumerei, “secondo i nostri esperti in campo mitologico e fumettistico egli incarna gli
aspetti più reconditi dell’animo umano: per accidia tende ad assomigliare al torturatore d’anime Geppo, per superbia a Zanardi,
per ira a Magneto, in quanto a nemesi della giustizia incarna orrendamente Joker, Vega, Lex Luthor, Dottor Octopus, Xabaras,
Skotos, Venom, Goblin, per spirito ribelle i suoi modelli sono stati individuati in Kurt Kobain, Che Guevara, Hart Crane, Ernest
Hemingway, Guido Morselli. Puoi immaginarti che gran casino
di persona può essere”. “Mostruosa e affascinante”, disse Patrick.
“Mostruosa e affascinante”, confermò Traumerei. “Riprendiamo il giro?”.
“Molto volentieri!”, rispose Patrick. Ma proprio in quel momento Traumerei si accorse di avere una macchia sulla sua camicia d’ordinanza; non era chiaro se si trattasse di ketchup, senape
oppure di qualche fluido organico sconosciuto. “Questa proprio
non ci voleva”, disse. “Una vera seccatura”, confermò Patrick.
“Come pensi di procedere, Sigfrid?”.
“Sono cose che succedono, Patrick. Siamo preparati a simili
imprevisti”, disse Traumerei. “Intendi dire che hai uno smacchiatore per camicie?”. “Intendo dire che nel vano posteriore F 3 della
Daihatsu c’è una camicia di riserva, Patrick”. “Un’organizzazione
perfetta!”, enfatizzò Patrick.
Quando Traumerei prelevò la camicia di riserva si rese subito
conto che era un tantino stropicciata. “Quella camicia mi pare
molto stropicciata!”, esclamò Patrick. “Credo che tu abbia ragione, amico mio”, confermò l’ispettore, “è il caso che gli dia una
stirata”. Patrick sembrò stupito. “Avete un ferro da stiro in dotazione?”.
“Si trova nel vano F 6, mentre l’asse da stiro componibile è nel
vano H 11”, rispose Traumerei.
“Ma è straordinario”, affermò Patrick.
“È la politica del Dipartimento: un individuo coi vestiti in disordine, stropicciati e sporchi, non può che manifestare un disor353
dine interiore. Il disordine interiore manifesta una patologia ansiogena. L’ansia, in definitiva, è un campanello d’allarme che avverte il mondo esterno di uno stravolgimento interno”.
“Ben detto, Sigfrid!”.
Traumerei e Patrick estrassero dal vano F 6 un ferro da stiro
Rowenta e dal vano H 11 l’asse da stiro componibile. Montarono
l’asse da stiro senza alcun problema, ma si trovarono in difficoltà
quando fu il momento di utilizzare il ferro da stiro.
“Credo che dovremmo leggere il manuale d’istruzioni”, disse
Patrick.
“Mi sembra una magnifica idea, Patrick”, disse l’ispettore.
“Da dove cominciamo?“.
“Beh, intanto propongo di cominciare con qualcosa di proprio
terra-terra”.
Sigfrid dispiegò il foglio con le istruzioni. Se c’era una cosa in
cui gli ispettori del dipartimento di nettezza umana erano insuperabili era l’interpretazione delle istruzioni d’uso di un apparecchio
elettrico. Patrick cominciò a leggere.
a) Connettere il ferro alla presa di corrente.
Traumerei collegò il cavo alla presa da auto della Daihatsu.
b) Verificare che i led siano funzionanti e accesi.
Parrebbe tutto a posto, Patrick.
c) Prepararsi a riempire il ferro con acqua distillata.
Traumerei armeggiò per qualche secondo col quadro comandi
dell’automezzo, schiuse il vano anteriore B 9 della Daihatsu ed
estrasse un recipiente pieno di acqua distillata.
d) Per riempire il ferro disconnetterlo dalla presa di corrente.
Traumerei scollegò il cavo alla presa da auto della Daihatsu e
riempì il ferro con l’acqua distillata.
e) Posizionare completamente il vapore variabile al minimo.
Diversamente il ferro può perdere acqua.
f) Inclinare leggermente il ferro. Questo eviterà fuoriuscite
d’acqua direttamente dall’apertura di riempimento causate dalle
bolle d’aria. L’acqua fluirà rapidamente e il ferro si riempirà velocemente.
354
g) Posizionare l’asse da stiro alla giusta altezza. Si può verificare poggiando il palmo della mano sull’asse: il braccio e la spalla
non devono piegarsi. Riconnettere il ferro da stiro alla presa di
corrente.
- Selezionare la giusta temperatura. Consultare i consigli indicati
sull’etichetta dei tessuti. Per i tessuti misti, scegliere la temperatura più delicata.
Traumerei seguì queste ultime indicazioni alla lettera e in breve
il ferro fu pronto per essere utilizzato.
- Manipolare e usare il ferro in modo appropriato. Cominciare a
stirare dal centro verso l’esterno. Ciò non richiede una forte pressione, soprattutto quando si usa il vapore – È la potenza del vapore, non il peso del ferro, che fa il lavoro.
- Prestare maggiore attenzione con alcuni tessuti. Stirare la seta al
rovescio. La seta coltivata va stirata ancora umida, ma non si deve
spruzzare per inumidirla perché si macchia; la seta greggia deve
essere stirata asciutta. Velluto, acrilico, velluto a coste, capi ricamati e pelle sintetica devono essere stirati al rovescio. Posizionare
sopra un panno per evitare che il tessuto si lucidi.
“Ritengo che per quanto tali nozioni siano di interesse universale, forse dovremmo preoccuparci di procedere oltre, magari saltando al punto in cui è illustrato il modo in cui è possibile stirare
una camicia”, disse Traumerei.
“Mi pare che tu abbia ragione, Sigfrid”, disse Patrick.
Per stirare una camicia
Ricordarsi sempre di stirare in su e giù, in quanto con movimenti circolari il tessuto si può danneggiare.
Nel dettaglio:
355
1. Collo: iniziare dalla parte inferiore, lavorare dall’esterno verso il
centro;
2. Spalle: stirare una spalla alla volta partendo dal centro verso
l’esterno. Ripetere sull’altro lato;
3. Polsi: stirarli prima all’interno e poi all’esterno;
4. Maniche: stirare ogni manica, iniziando da ogni polso e aprendolo in seguito;
5. Corpo: stirare il corpo della camicia, iniziando con una parte
frontale e continuando con un’altra;
6. Collo: una volta stirata l’intera camicia, ripassare la parte superiore del collo.
Al termine delle operazioni l’ispettore Traumerei indossò la
camicia di riserva, profumata e perfettamente stirata.
“Sono soddisfatto del lavoro svolto”, disse.
“Fai bene a esserlo, abbiamo fatto un lavoro magnifico”, gli
fece eco Patrick.
Traumerei si iniettò qualcosa in vena.
“Scusa se te lo chiedo”, disse Patrick, “ma cos’è quella roba
che ti inietti tanto sovente?”.
“Scopolamina”, rispose Traumerei. “Fa parte della nostra dotazione. Serve per prevenire sintomi quali nausea, vomito, diarrea,
vertigini; tutte patologie che flagellano chi fa il nostro lavoro”.
“E dovete farne un uso così abbondante?”, domando Patrick.
“In effetti ultimamente mi sono un po’ lasciato prendere la
mano”, rispose Traumerei, “il fatto è che tra gli effetti collaterali
ci sono la perdita di coscienza e qualche stadio di piacevole allucinazione a cui francamente è difficile rinunciare. A chi non piacerebbe concedersi una vacanza, seppur breve, dalla propria coscienza e dalla propria volontà?”.
“A nessuno”, disse Patrick.
356
Poi Traumerei ricevette una chiamata urgente per un caso nei
pressi di Largo Ezzelino da Romano, dove si era da poco conclusa la tradizionale Corrida dei Tacchini Scartati, che si svolgeva
ogni anno alla vigilia della Giostra del Peccato. Il codice era quello di un suicidio di gruppo® da parte di quattro broker di Borsa.
“Un cazzo di lavoro”, sussurrò Traumerei.
“Ci sarà un traffico infernale”, disse Patrick.
“Non preoccuparti, Patrick, conosco un trucchetto per evitarlo”, disse Traumerei premendo un pulsante sul quadro comandi
dell’Idropulitrice Daihatsu. Subito partì il lampeggiante. “Strepitoso, Sigfrid!”, esclamò Patrick.
Lungo il tragitto fecero una breve sosta in un bar sulla tangenziale, dove Traumerei bevve il suo caratteristico whisky, un Lagavulin invecchiato vent’anni.
Poi, quando giunsero sul luogo del suicidio di gruppo®, trovarono il marciapiede e i muri dei palazzi sporchi di sangue, fluidi,
ecc. Sul posto c’era già una squadra di nettezza umana all’opera,
sotto la stretta sorveglianza dei due Verificatori che avevano certificato la Clausola 99.
Schema operativo della squadra di Nettezza Umana
AGENTE 1
AGENTE 2
AGENTE 3
AGENTE 1
AGENTE 4
AGENTE 2
AGENTE 1
AGENTE 4
AGENTE 3
AGENTE 1
AGENTE 3
AGENTE 1
i cadaveri per prima cosa
presto, i cadaveri
caricare i cadaveri
sono laggiù, sul marciapiede
e sulla strada
ai sensi della legge in vigore preleviamo i cadaveri
e ripristiniamo le condizioni igieniche
tergendo i fluidi
lavando l’asfalto
raccattando i resti
garantiamo cremazioni e imbalsamazioni
ma la specialità della ditta è l’interramento in sac-
chi
AGENTE 2 una vera specialità
357
AGENTE 4 di cui non vi pentirete
AGENTE 1 ora dicano, signori (riferendosi ai verificatori), intendendo per i vostri clienti:
AGENTE 2 impagliatura, cremazione, cassonetto o sacco?
VERIFICATORE 2 bisogna leggere il modulo pre-compilato
VERIFICATORE 1 qui c’è scritto sacco
AGENTE 3 con etichetta di riconoscimento
AGENTE 1 o senza?
VERIFICATORE 1 modulo
VERIFICATORE 2 senza…con…non è specificato
AGENTE 2 una scelta migliore non poteva esser fatta
AGENTE 3 portantina (si dirigono verso i cadaveri)
AGENTE 1 sollevare (i quattro agenti sollevano la lettiga)
AGENTE 2 questo è il momento dei pianti o dei gemiti o delle
urla strazianti
AGENTE 3 avete tre minuti. Calare! (Posano la lettiga)
VERIFICATORE 1 (legge il modulo pre-compilato) pianto
AGENTE 1 ci pensiamo noi, signoricari! Mettetevi pure comodi
AGENTE 2 Afflictio! Avanti!
(una prefica esce dalla Daihatsu, si posiziona accanto alla lettiga)
AGENTE 3 sollevare! (Sollevano la lettiga)
PREFICA muovendo il capo, pianto e singhiozzi
AGENTE 3 Passo! (Si avviano verso la Daihatsu, molto lentamente, a
passi sincronizzati).
PREFICA solo singhiozzi e agita fazzoletto
AGENTI ripetono l’operazione per gli altri quattro cadaveri abusivi
PREFICA pianto e gemito
FOLLA applaude e manifesta la propria approvazione in molti modi
AGENTE 3 alcool etilico
AGENTE 2 chiavi
AGENTE 1 aspiratutto
AGENTE 4 strofinio
AGENTE 1 acqua ossigenata
AGENTE 4 impugnare i rulli
AGENTE 2 (guida la Daihatsu) accensione idropulitrice
AGENTE 3 mantenere direzione
358
AGENTE 2 spazzole rotanti!
AGENTE 1 spazzolatura manuale di supporto
AGENTE 4 mantenere velocità
AGENTE 2 fuoriuscita liquido disinfettante
AGENTE 1 mantenere altezza spazzole rotanti
AGENTE 2 spargimento sodio ipoclorito
AGENTE 4 rullare!
FOLLA
ammirazione e incanto
AGENTE 2 avvio Gran Tifone
AGENTE 3 attenzione!
AGENTE 1 state indietro
AGENTE 4 vortice perfettamente riuscito
AGENTE 1 asciugatura ultimata
AGENTE 2 accensione raggio asettico gamma
AGENTE 3 ripulitura scena completata
FOLLA grandi applausi, braccia al cielo, bambini urlanti, gioia.
Quando ebbero finito, e prima che rientrassero al Dipartimento, Patrick si avvicinò agli agenti posti accanto all’hotel Metradòr.
“Buongiorno agente!”, disse Patrick.
“Buongiorno, signore”, disse uno degli agenti, “anche se il mio
nome non è ‘agente’; mi chiamo aquila rapace”.
“Che razza di nome sarebbe?”, domandò Patrick.
“Il mio nome di battaglia”, rispose l’agente, “abbiamo voluto
omaggiare i grandi capi tribù degli indiani d’America, una popolazione barbaramente trucidata, sottomessa e ubriacata
dall’egoismo e dalla boria protestante”.
“Non le pare che aquila rapace sia un pleonasmo, o quanto
meno una ridondanza?”, domandò Patrick.
“Non credo proprio”, rispose l’agente speciale risentito.
“Che fine fanno i cadaveri?”, domandò ancora Patrick.
“Dipende dalla condizione dei cadaveri”, disse Aquila Rapace.
“Quelli meglio conservati – e non mi pare questo il caso, dopo un
volo di quaranta metri – vengono caricati sul nostro camion superaccessoriato e trasferiti al Magazzino di Riciclaggio, dove gli organi buoni vengono mantenuti e riciclati. Gli altri, come per
esempio questi, vengono trasportati al Magazzino di Smistamen359
to, dove gli addetti li impacchettano nella maniera consona alla
religione prescelta e li inviano a destinazione, camposanto, discarica o quanto diavolo altro”.
“E gli abusivi?”, chiese Patrick.
“Gli abusivi”, disse Aquila Rapace, “non possono essere riciclati per legge. Del resto, chi vorrebbe continuare a vivere con un
polmone, un fegato, un cuore di un meschino abusivo? Gli abusivi sono carcasse da macello. Nella quasi totalità dei casi vengono
macellati e trasferiti alla Porcilaia Gerarcale, dove i maiali gerarcali
fanno ciò va fatto”.
In quel momento Traumerei interruppe la conversazione.
“Non vorrei interrompere la vostra amabile conversazione, ma
qui mi pare sia stato fatto tutto quanto era in nostro potere, e noi
abbiamo un rapporto da stilare, Patrick”, disse. “D’accordo, Sigfrid”, disse Patrick.
Fu in quel momento che un tizio in calzamaglia arancione, il
volto coperto da una maschera raffigurante un tacchino, si lanciò
dal tetto del Metradòr Building imbracato in una sorta di elastico,
giunse a pochi metri dal suolo, eseguì una torsione, si mise in piedi sull’asfalto.
“Buongiorno signore”, disse Patrick stupito dall’abilità del tizio, “quella che porta è una calzamaglia arancione?”.
“Per la precisione si tratta di una calzamaglia arancione fiamma”, disse prontamente il tizio in calzamaglia.
Seguirono alcune osservazioni sulla calzamaglia arancione
fiamma, specie da parte di alcune donne presenti sul posto.
“Se mi permette l’osservazione”, disse una delle donne
“l’abbinamento dei colori è orribile: calzamaglia arancione fiamma,
stivali gommagutta, cappello borsalino arancio cadmio, panciotto
arancione internazionale, cravatta arancione Fantini. Inoltre la calzamaglia, ancorché inflazionata e sufficientemente ridicolizzata, è
una scelta quantomeno azzardata. Per non parlare della maschera.
Oscena”.
Il tizio in calzamaglia arancione si difese come poteva, fornendo un’esaustiva spiegazione delle motivazioni che portarono il
Circolo dei Suicidi Abusivi alla decisione di adottare una calzama360
glia arancione come uniforme, ricordando le molteplici proprietà
simboliche del colore arancione (in tutte le sue sfumature).
“Come vi permettete di farvi vedere in centro città?”, domandò Traumerei.
“Ho un messaggio del Monaco Arancione”, disse il tizio.
“Il Monaco Arancione è un abusivo, un meschino, un vigliacco”, urlò Traumerei disgustato.
“È sicuro di stare bene?” domandò Patrick notando una brutta
bruciatura sulla parte destra del collo del tizio in calzamaglia.
“Sto benissimo”, rispose il tizio sfiorando la bruciatura col
palmo della mano.
“Vedi di levarti immediatamente quella ridicola maschera e di
identificarti”, intimò Traumerei.
Il tizio si sfilò la maschera. Il suo volto pareva stanchissimo,
come di chi non avesse dormito da giorni. Aveva segni di polvere
da sparo sugli zigomi, la bruciatura era più vasta di quanto non
sembrasse, comprendendo anche parte dell’orecchio. La zona inferiore del labbro era squarciata, un rivolo di sangue rappreso gli
rigava il mento.
“Cosa diavolo le è successo?”, domandò Patrick.
“Che cavolo ve ne frega”, rispose il tizio. “Non sono qui per
discutere del mio aspetto, sono qui per comunicare un messaggio
del Monaco Arancione”.
Patrick e Traumerei incrociarono gli sguardi.
“E va bene”, disse Traumerei, “Comunichi questo messaggio”.
“Ho buttato giù qualche appunto”, disse il tizio in calzamaglia.
“Addirittura”, disse Patrick. “Cerchiamo di fare una cosa rapida”, disse Traumerei, mostrando le manette e facendogli capire
che aveva intenzione di arrestarlo quanto prima.
Il tizio estrasse un bloc-notes dalla tasca del panciotto e lesse:
“Sono qui di fronte a voi vestito con una calzamaglia arancione affinché essa simboleggi quanto di positivo e onorevole esiste
nella vita umana, poiché qualcosa nella vita umana di onorevole
deve esistere, non trovate? Ebbene, purtroppo la gente bestemmia. Purtroppo la gente priva continuamente della libertà altra
gente. Purtroppo la gente massacra animali per il proprio sollazzo, o per estetica, o per nutrirsi. Purtroppo la gente fuma, beve,
361
uccide, distrugge. Purtroppo la gente si ammala. Purtroppo la
gente stupra bambine seienni al solo scopo di provare un quarto
d’ora di piacere sessuale. Purtroppo la gente scatena guerre. Purtroppo taluni esseri umani vivono una condizione di sterilità che
gli impedisce di generare figli. Come sto andando? Sono solo appunti”.
“Narrativamente parlando non è un granché. In particolare,
non trova di aver fatto un uso eccessivo della parola purtroppo?”,
domandò Patrick.
“Lo pensa davvero?”, domandò il tizio in calzamaglia.
“Mi dispiace, ma è ciò che penso”, disse Patrick crudelmente.
“Sfortunatamente”, proseguì il tizio in calzamaglia, “io non
sono in grado in nessun caso di porre un freno a queste abitudini.
Non sono in grado di esistere e al contempo essere felice. Per tali
ragioni mi sono iscritto tredici mesi fa (all’incirca) a questo Circolo altamente democratico e assai romantico”.
“Sfortunatamente suona meglio”, disse Patrick.
“Grazie”, disse il tizio in calzamaglia. Infilò una mano
all’interno dello zainetto aderente arancione che portava dietro le
spalle, ne estrasse un paio di altoparlanti wireless, armeggiò qualche secondo con un I-Pod nano, premette alcuni pulsanti, girò
alcune rotelle, oppure si districò semplicemente con lo schermo
touch screen. Dagli altoparlanti tutti poterono udire il caratteristico brano intitolato Brigitte Bardot, nella versione originale di Jorge
Veiga datata millenovecentocinquantanove (non la cover di Dario
Moreno del millenovecentosessantuno).
Tutti restarono attoniti ad ascoltare la canzone. Il tizio in calzamaglia arancione la canticchiava con gli occhi chiusi.
Esattamente al secondo cinquantotto del motivo musicale
estrasse dalla tasca dietro una rivoltella e si fece saltare il cervello.
Seguirono attimi di trambusto. La particolarità del proiettile
utilizzato era, per così dire, esplosiva, e la testa gli saltò letteralmente in aria. Frammenti di cranio sul marciapiede, sangue
sull’asfalto, pezzettini di cervello e altre cartilagini disseminate
ovunque, un inferno di sporcizia che ebbe come prima conseguenza molte urla femminili e lo sconforto di Traumerei.
362
Qualcuno si premurò di interrompere l’esecuzione della colonna sonora.
“Questo è un affronto intollerabile al sistema politico, antropologico, morale e culturale del Sabbionasso”, disse.
“Hai perfettamente ragione, Sigfrid”, disse Patrick.
Dalla sommità del Metradòr Building (altezza cinquantadue
virgola tre metri, vale a dire cento cubiti ebraici, centosettantuno
virgola cinque piedi del sistema imperiale britannico, ventinove
virgola quarantaquattro orgìe greche, diciassette virgola sessantasei pertiche romane – si stava celebrando la Giornata della Conversione delle Unità di Misura Texas Instruments) si dispiegò un
vessillo lungo all’incirca quindici metri (ovvero eccetera eccetera),
naturalmente arancione, riportante la scritta Circolo dei Suicidi
Abusivi. Alcuni uomini in calzamaglia arancione esultavano sul
tetto del palazzo.
“Questo è solo l’antipasto, ci rivedremo presto”, disse uno di
loro attraverso un altoparlante. Un altro altoparlante trasmetteva
Brigitte Bardot a volume molto elevato.
“Per questo genere di reato c’è la condanna al Nulla Eterno”,
disse Traumerei, freddamente.
“Correremo il rischio”, disse un altro.
“Vi agguanteremo”, gridò Traumerei.
“Provateci”, gridò uno degli uomini in calzamaglia arancione.
Poi, preceduti da un ghigno beffardo, sparirono lanciandosi
dal tetto con una specie di deltaplano, o parapendio, o comunque
una qualche stronzata tecnologica che Traumerei e Patrick non
seppero riconoscere.
“Si tratta di una tuta alare”, disse uno degli agenti.
“Perché sono sempre l’ultimo ad essere informato sui nuovi ritrovati della tecnologia?”, domandò Traumerei piccato.
Qualcuno lo delucidò sul funzionamento della tuta alare.
“Ne vorrei possedere una anch’io, sembra avvincente”, disse
Traumerei.
“Prima occorre trovare e consegnare alla giustizia i membri del
Circolo dei Suicidi Abusivi”, disse Patrick.
“Temo che tu abbia ragione, Patrick”, disse Traumerei.
363
Gli agenti che accorsero sul tetto del Metradòr vi trovarono:
tre convertitori elettronici Texas Instruments fracassati; diverse
cartacce di tegolini Mulino Bianco; una dozzina di Peroni mezze
vuote; un Manuale di Aerodinamica Phoenix Fly; un flacone di
Xanax incellofanato.
Nessuna traccia che potesse condurli al nascondiglio del Monaco Arancione.
“Non mi darò pace finché non troverò fino all’ultimo suicida
abusivo”, disse Traumerei.
“Questo ti fa onore, Sigfrid”, disse Patrick.
“Mettiamoci subito al lavoro”, disse Traumerei con vigore.
“Splendido!”, esclamò Patrick.
“Ti spiace se prima ci fermiamo in un bar per un drink?”, disse
Traumerei. “Mi sembra una magnifica idea, Sigfrid”, disse Patrick.
Prima di mettere in moto l’auto, Traumerei si iniettò una dose
di scopolamina.
Il sole di luglio lacerava lo strato più interno dell’atmosfera, alcuni uomini inneggiavano alla decapitazione dei tacchini selvatici
e le strade di Sabbione non erano mai state così abbaglianti e profumate. Traumerei ingollò un doppio whisky e disse: i miei figli
cresceranno in una città sgombra dalla pazzia e dal sudiciume.
Ecco, pensò Patrick, il senso di una vita eroica.
364
EFFETTI COLLATERALI DELLA SCOPOLAMINA
Sono uscito a fare due passi per le strade della mia città e
mi sono ritrovato in un luogo che non era propriamente la mia
città.
Insomma, quest'altra città non è la città che esiste sulle
carte stradali. Non è la città situata in un’area geografica corrispondente al sud Europa; non è una suddivisione amministrativa della Regione Piemonte, né l’ente locale autonomo e
indipendente con una popolazione di settantatremila novecento settantré abitanti (dato Istat), celebre per lo spumante
e la parata del Palio.
Questa città è una nuova città fondata e sorta altrove.
Indice generale delle cose di città
Gli alberi, in questa città, sembrano più alti, anche se di
poco. Le specie non sembrano dissimili da quelle esistenti
nella mia città; tuttavia profumano in maniera differente.
Non saprei stabilire con certezza tale diversità.
I parcheggi non offrono apprezzabili differenze.
L’asfalto e il porfido delle strade, nella città che esiste altrove, accolgono suole di scarpe e pneumatici con la stessa
frequenza della mia città; lo stato di erosione, se mi si può
passare il termine, o di usura, del manto bituminoso e dei
sampietrini, pare identico.
I semafori rispettano le usuali regole cromatiche in vigore
in qualunque altra parte del mondo.
365
Umidità
Non ho notato apprezzabili variazioni al tasso di umidità
tra la mia città e questa città che esiste altrove. Anche in
questa città l’umidità relativa dell’aria supera abbondantemente i valori medi di una situazione di benessere.
Cimitero
Cammino in direzione del cimitero. La collocazione dei
principali edifici e dei monumenti è identica. Tuttavia il cimitero della nuova città è molto più grande rispetto a quello
della mia città. Sterminato. L’ingresso è enorme, costruito
affinché possa transitare il cadavere di un gigante. Le tombe
sono collocate secondo una disposizione prestabilita, seguendo l’ordine cronologico. Non esistono cappelle famigliari. I fiori della città che esiste altrove sono più profumati
rispetto ai fiori della mia città. I cognomi delle persone morte sono tradotti in una lingua che non conosco.
Lorna Bosch
All’uscita dal cimitero sono avvicinato da una bella donna
con i capelli scuri, vestita con una gonna colorata.
“Buongiorno”, mi ha detto; non conosco la lingua nella
quale mi sta salutando. Sono stato condotto in un bar, e successivamente in una camera d’albergo. Gli alberghi della città
che esiste altrove sono costruzioni leggermente meno confortevoli rispetto agli alberghi della mia città.
“Mi chiamo Lorna Bosch”, ha detto la signorina vestita
con gli abiti piuttosto colorati. “Piacere di conoscerla, Lorna
Bosch”, ho detto io. A quel punto non riuscivo a comprendere quale lingua stessimo parlando, né se la scena si stesse
svolgendo in quel momento o in un passato prossimo e imperfetto.
366
“Faccio una doccia”, ha detto Lorna Bosch.
La pressione dell’acqua, al rumore, sembra identica alla
pressione dell’acqua della mia città.
Quando è uscita dalla doccia, completamente nuda, avvolta in un dozzinale asciugamano bianco in dotazione
all’albergo, ho cominciato a domandarmi se tradire mia moglie nella città che esiste altrove fosse una grave mancanza di
rispetto nei confronti dei vincoli matrimoniali. Mi sono domandato se i vincoli matrimoniali potessero vincolarmi, tecnicamente, anche in una città che non è la mia città.
Ho chiesto a Lorna se fare l’amore nella città che esiste
altrove fosse una cosa stupenda come lo era nella mia città.
“Non saprei”, ha risposto, “ho fatto l’amore soltanto in
questa città”.
Prendere un caffè e fumare una sigaretta
Prendere un caffè nella nuova città non sembra
un’operazione complicata. Ogni singolo gesto, dall’atto di
ordinare a quello di mettere due cucchiaini di zucchero a
quello di girare lo zucchero nella tazzina a quello di bere il
caffè sono perfettamente identici sia nella mia città che nella
città che esiste altrove. Il gusto del caffè è leggermente diverso; più penetrante e forte in questa città rispetto alla mia
città.
Allo stesso modo i cittadini della città che esiste altrove
fumano con maggiore voluttà, come se stessero davvero godendo la propria sigaretta.
Una panchina nel parco
Noto una panchina nei pressi di un parco cittadino. Il
parco mi sembra identico a quello della mia città, se non
fosse per la panchina. Da lontano sembra una panchina di
367
legno dipinto, con alcune scritte prodotte dai ragazzini della
città che esiste altrove. Da vicino si rivela esattamente ciò
che sembra da lontano: una panchina di legno dipinto. Nella
mia città non potrebbe trovarsi una panchina in quella particolare posizione. Mi siedo e tocco con le dita la superficie
per tastarne la consistenza; la consistenza delle panchine,
nella città che esiste altrove, è completamente diversa dalla
consistenza delle panchine nella mia città.
Vedute di una donna che piange
Dalla mia posizione riesco a scorgere una donna, seduta
su una delle panchine del parco. Sta piangendo. A una prima
grossolana analisi pare che stia piangendo esattamente nello
stesso modo in cui piangono le donne della mia città.
Mi avvicino.
A una veduta più approfondita mi sembra che stia piangendo in modo diverso dal modo in cui piangono le donne
della mia città; i brevi intervalli, il singhiozzare, c’è qualcosa
di indubbiamente estraneo alle posture tipiche delle donne
della mia città quando piangono sole sedute su una panchina
del parco.
A pochi centimetri dal suo volto posso apprezzare la differenza sostanziale tra le lacrime di una donna che piange
nella città che esiste altrove rispetto alle lacrime di una donna che piange nella mia città. È una questione di compattezza e corposità. Il tragitto che le lacrime seguono in questa
città è più diretto; scendono dagli occhi e si scaraventano al
suolo direttamente, senza scivolare lungo le guance e raggiungere le parti del naso o le labbra; sono sicuramente lacrime più pesanti, di una composizione chimica diversa rispetto alle lacrime delle donne nella mia città, simili forse al
mercurio, ma rimbalzano al tocco col suolo, trasformandosi
in minuscole biglie matte che compiono traiettorie imperscrutabili. Osservo le lacrime rimbalzanti dirigersi verso luoghi misteriosi, in silenzio.
368
Le mamme caricano in auto i bambini che escono da scuola
Le mamme caricano in auto i bambini che escono da
scuola in maniera molto più ordinata nella città che esiste altrove rispetto alla mia città; anche qui sono per la maggior
parte giovani e carine, guidano automobili di una certa cilindrata e si muovono con fattezze piuttosto aggraziate. Forse
si potrebbero trovare differenze a proposito della cilindrata
delle
automobili.
Le uniformi dei vigili che permettono ai bambini di attraversare la strada per raggiungere i sedili delle automobili materne sono completamente diverse dalle uniformi dei vigili che
svolgono la stessa importante mansione nella mia città. Sono
uniformi perfettamente lustre. Pulitissime.
Saluto un bambino mentre attraversa la strada e lui risponde al mio saluto. Questo fatto mi porta a sospettare che
gli alunni della città che esiste altrove godano di
un’educazione maggiore (meglio somministrata) rispetto agli
alunni della mia città.
Misurazione degli ANGOLI
Col termine ANGOLO si intende una porzione di piano
delimitata da due semirette aventi origine comune. L'ampiezza di un ANGOLO è rappresentata dalla rotazione
ORARIA di una semiretta intorno all'origine, fino al sovrapporsi all'altra semiretta (cit. da Hans Helmander, Corso di
Topografia e Trigonometria per Corrispondenza).
La piazza più importante della città che esiste altrove, allo
stesso modo di quella della mia città, ha forma triangolare;
ma gli angoli della piazza triangolare più famosa della mia
città non coincidono con quelli di questa città.
Gli angoli, nella città che esiste altrove, hanno un ampiezza inferiore di circa zero virgola otto gradi, cioè sono più
369
acuti rispetto agli stessi angoli presenti nella mia città. Tale
maggiore spigolosità degli angoli nella città che esiste altrove
mi turba e suscita in me numerose domande a proposito del
carattere e della predisposizione d'animo dei costruttori stessi della città.
Sugli ANGELI
Il Centro Congressi della città che esiste altrove è situato
esattamente dove è situato il Centro Congressi della mia città. Gli alberi (leggermente più alti) che lo circondano muovono al vento in modo più uniforme rispetto a quanto non
muovano al vento nella mia città. Un lungo viale alberato
conduce al Centro Congressi; ai lati del viale sono poste alcune panchine (di consistenza differente rispetto a quelle
della mia città), e alti pali di color verde (nella mia città sono
di color marrone), recano enormi stendardi pubblicitari riportanti la conferenza in corso al Centro Congressi. Il titolo
della conferenza è: Sugli ANGELI. C’è da essere davvero
orgogliosi di vivere in una città che si premura di fornire ai
propri abitanti risposte circa questioni tanto spinose quali esistono gli ANGELI? Che forma hanno? Hanno fattezze umane?
Qual è il loro scopo? Perché dovrebbero esistere?
Una conversazione al bar
Lei è orgoglioso di vivere in una città che si premura di
fornire risposte circa questioni spinose quali esistono gli angeli? Che forma hanno? Hanno fattezze umane? ecc.
Crede che dovrei esserlo?
Credo proprio che dovrebbe.
Allora credo di esserlo.
Il nome del bar è Un posto pulito, illuminato bene e sono con370
vinto che tutti i clienti di un simile posto hanno a cuore la
tematica riguardante gli angeli.
Mentre sorseggio un caffè nello stesso identico modo in cui
sorseggerei un caffè nella mia città mi avvicino a un signore
con folta barba, una camicia a quadri. I tizi con barba e camicia a quadri hanno un volto molto cordiale nella città che
esiste altrove, mentre hanno un’espressione scortese nella
mia città.
Sa che lei ha un volto molto cordiale?
Dovrei saperlo?
Credo dovrebbe saperlo.
Allora sì, lo so.
Gli angeli sono come gli uomini, in un certo senso, dico.
È tutta una questione di purezza e contaminazione, dice lui.
Purezza e contaminazione sono elementi comuni della vita
umana, dico io.
Ma nella vita umana c’è un grado di purezza inferiore alla
contaminazione, mentre nella vita angelica c’è un grado di
purezza superiore alla contaminazione, dice lui.
Purezza e contaminazione sono quantificabili? Domando io.
Credo di sì, risponde il tizio con barba e camicia a quadri
ordinando una birra.
Ecco un sintomo di civiltà: un uomo con barba e camicia a
quadri che sostiene una conversazione sugli angeli.
Nella mia città probabilmente mi avrebbe mandato al diavolo.
E quindi esiste un’unità di misura della purezza e un’analoga
unità di misura della contaminazione? Domando ancora.
Sì, risponde lui.
Contaminazione è contrario di purezza?
Contaminazione è la vita umana, purezza è la vita angelica.
Non crede che la purezza allo stato puro sia consonante con
la follia?
Non esiste una purezza che non sia allo stato puro.
Pertanto crede che la purezza equivalga alla follia?
Adesso credo che vorrei bere la mia birra in santa pace, dice
l’uomo con barba e camicia a quadri.
371
Non gli do torto, e lo saluto cordialmente.
Posso offrirle la birra? Chiedo.
Preferirei di no, risponde lui.
Uscendo dal Posto pulito, illuminato bene non mi volto indietro
a guardare l’espressione del tizio con barba e camicia a quadri, ma sicuramente sarà stata un’espressione molto cordiale.
Il Palazzo più grande della città
Il palazzo più grande della città sorge su un lato della
piazza più importante della città.
Esso è completamente diverso nella città che esiste altrove. Ha forma ottagonale, mentre nella mia città è squadrato.
Ha numerosi piani aggiuntivi rispetto a quello della mia città.
È altissimo, come se avessero disposto uno sopra all’altro
quindici palazzi della mia città. Mi fermo impressionato a
contemplare un palazzo tanto alto.
Amare la vita
Anche nella città che esiste altrove ragazzi e ragazze
amano la vita. Sorridono, ridono, si scambiano baci e carezze. Tuttavia c’è qualcosa, nella maniera in cui sorridono i ragazzi della città che esiste altrove, qualcosa, nei loro baci e
nelle loro carezze, qualcosa, nelle loro occhiate fuggenti e
furtive, qualcosa che davvero non saprei descrivere, eppure
qualcosa di profondamente diverso dalle azioni omologhe
che si verificano continuamente nella mia città.
Amate la vita? Domando a un gruppo di ragazzini appollaiati su un muretto poco distante dalla cattedrale che esiste
in entrambe le versioni della città.
Nessuno mi risponde, e io rimango tormentato dal mio
dubbio.
372
Il nostro lavoro e perché lo facciamo
Apparentemente la gente della città che esiste altrove lavora allo stesso modo della gente nella mia città. Piccoli minuscoli omini entrano ed escono da officine e uffici. Più
sporchi e trasandati i primi, più puliti e ordinati i secondi.
Ma perché lo fanno? Le motivazioni che conducono piccoli
minuscoli uomini (dalla mia prospettiva sono piccoli e minuscoli, mi trovo all’ultimo piano di un palazzo dotato di ristorante panoramico con vetrate cielo terra, identico sia nella
città che esiste altrove che nella mia città) a entrare e uscire
da luoghi adibiti al lavoro possono essere terribilmente, tremendamente, diverse in questa città rispetto alla mia città.
Motivazioni nobili, prevalentemente, ma anche basse, popolane. Sostentamento. Libertà di espressione. Ordino un piatto di qualcosa e questa cosa, che mi viene servita da un cameriere più sorridente in questa città rispetto alla mia città, è
una cosa indubbiamente uguale, cioè, che possiede lo stesso
nome sul menù in questa e nella mia città, eppure il suo sapore è impercettibilmente diverso.
Una bambina viene verso di me portando fiori
Un simile evento mi stupisce tanto nella città che esiste
altrove quanto mi avrebbe stupito nella mia città. Non so
che genere di fiori stia tenendo in mano la bambina. Comunque viene verso di me sorridente, con le trecce ai capelli,
un vestitino rosso e verde. Nella mia città avrebbe sicuramente indossato un vestitino giallo e avrebbe portato fiori
diversi.
Quando è a meno di due metri da me mi chino, sorridendo; lei aumenta la velocità della corsa (una velocità diversa
da quella che avrebbe tenuto nella mia città, un’andatura in373
dubbiamente più sostenuta), mi supera col suo bellissimo
sorriso da bambina e gli occhi pieni e grandi delle bambine e
mi supera ancora, se tale fatto è fisicamente possibile, come
se adesso procedesse al rallentatore. Mi volto; vedo che si
getta tra le braccia di un uomo che nella mia città non potrei
essere io, ma che in questa città che esiste altrove forse avrei
potuto esserlo; i fiori sono in terra, sul porfido consumato in
egual misura in questa città e nella mia città, e l’uomo che
non potrei essere io prende in braccio la bambina come si
prenderebbe in braccio una bambina nella mia città. Rimango a guardare l’uomo e la bambina che si allontanano; i fiori
sono in terra, non li raccolgo.
Questioni climatiche
Nella città che esiste altrove è una bellissima giornata di
sole non dissimile da una qualunque bellissima giornata di
sole che potrebbe capitare nella mia città. Eppure in questa
particolare giornata, oggi, questa bellissima giornata di sole è
una bellissima giornata di sole diversa da una qualunque bellissima giornata di sole che potrebbe capitare nella mia città.
Se paragonassi le ombre degli edifici, delle persone, alla
stessa ora in questa città e nella mia città, riuscirei a dimostrare che le ombre delle persone sono più lunghe di qualche
centimetro in questa città rispetto alle ombre delle persone
nella mia città. Il sole filtra tra i cornicioni di due palazzi in
modo trasversalmente disuguale. Non è soltanto una questione di punti di vista, bensì anche qualcosa di più, più profondo, ma non saprei dire cosa.
Persone che aspettano altre persone
374
Nella città che esiste altrove le persone aspettano altre
persone con un atteggiamento più propositivo rispetto alle
persone che aspettano altre persone nella mia città. Guardano l’orologio, fumano, discorrono con altri passanti, si riparano dal sole sfruttando le rientranze dei palazzi o cercando
di ottenere il massimo vantaggio dalle pensiline degli autobus. Mi sono quasi convinto che aspettare una persona in
centro città, nella città che esiste altrove, sia quasi
un’esperienza piacevole, a differenza della mia città, dove
aspettare qualcuno anche per pochi minuti è una vera rottura.
Scaraventarsi di sotto dal cavalcavia dell’autostrada
Camminando sulle rive del fiume, a poca distanza
dall’autostrada: una figura indistinta passeggia sul cavalcavia;
la saluto, e lei risponde al mio saluto (cosa che non avrebbe
fatto nella mia città); il sole è ancora abbastanza alto, in un
modo che potrei definire simile ma non uguale al modo in cui il
sole è abbastanza alto nella mia città (quando nella mia città
il sole è abbastanza alto); la figura indistinta si ferma, annusa
l’aria; è un annusare tipico di questa città che esiste altrove;
la figura indistinta si leva le scarpe, sale sul guard-rail; ci sono altre persone che passeggiano lì vicino; comincio a intuire
qualcosa sulle intenzioni della figura indistinta; nessuna delle
persone che passeggiano a poca distanza si avvicina alla figura indistinta in piedi sul guard-rail scalza; perché nessuno fa
niente? Che razza di città è una città in cui nessuno fa un
passo per salvare la vita di un’altra persona? Non saluto più
la figura indistinta; il mio respiro è affannoso come potrebbe
esserlo soltanto nella mia città; mi sbraccio; la figura indistinta mi saluta; mi sbraccio con maggiore insistenza; la figura
indistinta si scaraventa di sotto, sull’autostrada (perfettamente uguale sia nella città che esiste altrove sia nella mia città).
Si odono frenate di automobili, ma sono frenate meno convinte e decise delle frenate che si potrebbero udire nella mia
375
città in un simile contesto; non sono frenate isteriche e disperate, sono frenate abitudinali. Mi sforzo di produrre lacrime per scoprire se anche le mie lacrime risultano lacrime
di densità diversa in questa città rispetto a quelle della mia
città. Comincio a piangere, e anche le mie lacrime rimbalzano sul terreno (indubbiamente dotato di maggiori proprietà
elastiche rispetto a quello della mia città) come piccole biglie
impazzite; rimbalzano, rimbalzano, e si dirigono verso luoghi misteriosi, in direzione dell'imperscrutabile, dell'ignoto,
mentre le osservo in silenzio.
Incontro con gli angeli
Noto due angeli avvicinarsi al luogo in cui si è gettata la
figura indistinta.
Mi avvicino.
Nessuno sembra accorgersi di loro. Posso vederli soltanto io?
Sembrerebbe di sì.
Buongiorno, dico.
Buongiorno a lei, dice l’angelo con la divisa blu.
A prima vista hanno fattezze umane. I loro occhi sono
occhi umani.
Non hanno ali, o io non riesco a vederle.
Qual è il vostro compito, qui? Domando.
Gli angeli sono interdetti.
Intendo con il cadavere del suicida. Prelevate la sua anima, lo benedite, robe così?
Constatiamo, dice l’angelo con la divisa blu.
L’altro angelo sta annotando qualcosa su un taccuino dalla copertina rossa.
Constatate? Domando io.
Precisamente, risponde l’angelo che sta scrivendo sul taccuino.
E cosa constatate?
376
Questo, dice l’angelo con la divisa verde indicandomi il cadavere.
Fatto, dice l’angelo che stava scrivendo sul taccuino.
Arrivederci, mi dice l’altro angelo.
Tutto qui? Domando io. Il compito degli angeli è quello
di constatare quello che succede agli uomini?
Solo le cose sgradevoli, dice l’angelo con la divisa blu.
E quelle gradevoli? Domando io.
Non c’è bisogno di constatarle, risponde l’angelo in divisa verde.
Dunque la constatazione di cose sgradevoli fa parte del
vostro lavoro? Domando.
No, risponde l’altro angelo lasciando un biglietto da visita
sul corpo del suicida, la constatazione di cose sgradevoli è
precisamente il nostro lavoro.
377
VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (10)
___________________
Quando Tjutcev Olexej Petrovic, licenziato dal Ministero Suicidi & Festività® di Sabbione perché una giovane vedova l’aveva
sedotto ottenendo protezione dopo che le era stata pronosticata
una clausola 99, tornò nella sua casa al 37 di Via della Settima
Bolgia, si sentì relegato nei profondi abissi della città come mai gli
era capitato. Appoggiò il cappotto sulla poltrona in soggiorno e
sedutosi di fronte alla finestra meditò a lungo e profondamente.
Tjutcev Olexej Petrovic esercitava il mestiere di verificatore: per
diciannove anni, da quando era emigrato dalla Russia con la ormai
ex-moglie sabbionassa, sulla sua scrivania, ogni lunedì mattina,
aveva trovato una busta gialla col timbro del Ministero Suicidi &
Festività® di Sabbione contenente il dossier dei candidati suicidi®
della settimana. Ma ora si sentiva perduto, defraudato, il suo cuore
s’era fatto duro, la sua pelle grinzosa; ripensava mordicchiandosi le
unghie all’ultimo caso da lui sventato, la tentata frode di tre vecchi
nascosti in un gerocomio abusivo che favoreggiava le morti naturali. Aveva un ufficetto sul lato sud-est del Palazzo Ottagonale, a
sette piani e tre facciate dal Reparto Notifica Clausole 99, dove si
recava ogni sabato mattina per il rapporto periodico ai superiori e
da dove osservava la passeggiata settimanale del Gerarca per le vie
del centro; tutti i sabati, per quasi vent’anni, aveva osservato la
stessa fastidiosa scena: un’automobile ferma a bordo strada attendeva col motore acceso, in seguito le automobili si facevano più
numerose, così come la folla dei curiosi, le guardie del corpo, i fotografi, i giornalisti. Poi, come un improvviso disturbo intestinale,
dall’angolo tra Piazza Acheronte e il Gran Viale de’ Gerarchi vedeva apparire la sagoma del Gerarca, quasi sempre vestito di scuro, saldamente impugnando il falliforme bastone Gerarcale nella
mano destra, passeggiando sul ciottolato che conduce a Piazza del
Minotauro, dove alla folla era consentito d’accedere per salutare il
Gran Politico; e allora era tutto un turbinio di voci e di pellicce
d’ermellino, visone e volpe, di capelli rosso fuoco e di svenimenti
femminili; i barbazzali d’argento e le fibbie dorate rimandavano
378
bagliori che investivano di un’aura maestosa perfino i membri dei
servizi Gerarcali. Da verificatore Tjutcev Olexej Petrovic aveva
ricevuto molti onori, e molti ancora avrebbe potuto riceverne; conosceva il manuale meglio di chiunque altro e amava il suo lavoro,
aveva imparato perfettamente la lingua della gente e il linguaggio
rude dei verificatori, tanto che nessuno avrebbe potuto dire che
fosse un forestiero. Era solito partecipare a tutti i party
dell’Associazione, dove in compagnia dei colleghi e di splendide
fanciulle noleggiate dall’Ufficio si beveva Château Lafite del ’27 e
si mangiavano uova di storione, paté de fois gras, funghi porcini e
tartufi grossi come pompelmi.
E adesso l’orrore! L’insondabile vuoto, l’orrida solitudine. Il
volto già si deturpava, simile a una tovaglia raggrinzita, i capelli,
finora scuri e possenti, cominciavano a diradarsi: ecco la vecchiaia!
A soli quarantacinque anni! La sua stanza, di solito illuminata dal
riflesso del lampione in strada, giaceva ora nel buio completo.
Pensò che forse, dopotutto, fosse giunto il momento per la sua
clausola 99, spettacolare e scenografica, una di quelle che sarebbero restate a lungo nella memoria degli ex colleghi. Si recò
all’Ufficio di Divinazione più vicino a casa e si rivolse al divinatore
in modo implorante. “Non c’è nulla che io possa fare”, gli disse il
divinatore. “Il volo degli uccelli è propizio, le interiora non mostrano alcun avvenimento tragico, persino l’oroscopo le è favorevole, e come lei saprà benissimo l’Autoeliminazione Preventiva
senza una divinazione che la supporti è totalmente contraria alla
legge”.
La domanda ch’egli aveva preventivamente inoltrato al Reparto
Cause Eleggibili di Suicidio® fu respinta con una breve nota esplicativa: nessuna causa eleggibile, nessuna motivazione plausibile, siamo pertanto impossibilitati ad accogliere la sua richiesta.
Tjutcev Olexej Petrovic tornò a casa e pensò che tutto gli girava contro, dannatamente, maledettamente, ecceteramente. Tutti i
suoi progetti erano falliti, i suoi pensieri sconvolti; sedette a contemplare la città e una forza sconosciuta lo serrò sulla poltrona
mentre leggeva uno dei suoi amati libri gialli.
Di getto compose una poesia e attaccò il foglio al frigorifero,
come gli capitava di fare per la lista della spesa.
379
Io sono lo sconosciuto, il baro
morto da sempre e mai risorto,
sono il granello di sabbia, il nero
che tallona la sciagura del parto.
Io prego nell’orto di Nessuno fra
schiocchi di merli e frusci di serpi
e brucio come l’erba nei prati
che il vento dissecca in estate.
Io sono il re del tredicesimo, l’annegato,
il trombettista sulla nave dei pazzi
che invoca la tempesta e uccide il grido
delle sirene. Si potrebbe anche dire:
io fei giubbetto a me de le mie case
per beffare chi volle che io fossi.
Fu ritrovato due giorni dopo in fondo al ponte Federico II, sul
fiume Atanor, suicidatosi per l’impossibilità di suicidarsi®.
Il caso fu affidato all’Ispettore di Nettezza Umana Claudio
Kess, il quale dopo alcune ore d’indagine accertò che, sebbene
fosse chiaramente abusivo, il suicida non faceva parte della malfamata cricca cui il Dipartimento stava dando una caccia spietata.
Si trattava invece di un poveraccio individualista come capitava di
trovarne di tanto in tanto.
Il cadavere di Petrovic, martoriato, gonfio, sbocconcellato dai
pesci e bruciato dal sole, fu rimosso da una squadra di Nettezza
Umana attrezzata per il Rassettamento delle Aree Ambientalmente
Protette, la quale sterilizzò le pietre ove giaceva il cadavere e rilasciò alcune gocce di Deodorante-Iperconcentrato-Per-AcqueDolci nel fiume.
Poiché non si trattava di un affiliato al Circolo dei Suicidi Abusivi e non aveva avuto alcuna relazione col Monaco Arancione, il
380
caso fu chiuso e il suicida abusivo poté essere denigrato secondo
la legge tradizionale: la sua anima fu decretata immonda e imprigionata nell’Antinferno dei Suicidi Abusivi mediante cerimonia solenne e pubblica, mentre il suo corpo fu dato in pasto ai maiali
dell’allevamento Kubika, di Castrocozzo, dove una piccola folla di
esaltati religiosi trascorse il tempo del pasto segnandosi, pregando
e scandendo formule che supponevano validi sbarramenti al potere oscuro di Satana.
***
381
RICOSTRUZIONE DIALOGICA DELLA VICENDA
ESISTENZIALE DI UN VECCHIO DECREPITO ANTIRELIGIOSO
Ufficialmente Bruegel è un vecchio decrepito antireligioso con
un bavaglino al collo che dice “LE RELIGIONI MI HANNO PRIVATO
DEI DIRITTI UMANI”. Da quando quelli dell’Associazione Gerontofili me l’hanno assegnato, tre mesi e mezzo fa, nell’ambito del
programma Supporta un Vecchio!, sta a casa mia, porta un basco in
testa e piscia in continuazione. “Devi smetterla di pisciarti addosso”, dico spesso a Bruegel, ma non mi ascolta mai. Durante quella
primavera pensai di comprargli un catetere, ma rifiutò, così gli
comprai due rollerblades e glieli apposi al posto delle vecchie, inutili, gambe. Mangiammo. “Se ti comporti bene ti porto a guardare
le gru”, dissi. Stavo preparando una cena a base di pollo al curry e
cardamomo. “Fanculo le gru!”, urlò Bruegel. “Voglio andare al
parco a guardare le donne”. Molte delle amiche del forum vogliadigravidanza.org mi compativano per la scelta di tenere quel vecchio
decrepito antireligioso in casa, ma altre comprendevano le mie ragioni.
Iniziai a elaborare un programma delle attività, cercando di approfondire quelle che potevano galvanizzare e appassionare un
vecchio decrepito.
“C’è un nuovo cantiere molto interessante in centro. Costruiscono un grande monumento ai caduti”, dissi a Bruegel. “Fottiti.
Non voglio vedere quegli stupidi lavori, voglio peccare”, disse lui.
Voleva peccare; era il solo modo che gli era rimasto per protestare
contro le religioni. Lo portai al Geko, dove le cameriere sono carine e non si sono mai visti bambini nel raggio di un chilometro.
Appoggiai Bruegel sul bancone e ordinai il pranzo. “Fammi toccare il culo”, disse Bruegel a una delle cameriere. Mi presi una ramanzina e la cameriera rifiutò di portarci il pasticcio di pollo in
salsa piccante. “Sporca negra”, mormorò Bruegel. “Devi imparare
a comportarti”, dissi. Mi scusai con la cameriera e le recitai un so382
netto di Agrippa d’Aubigné; la giovane fu molto felice e ci portò il
nostro pasticcio di pollo. “Ah se ci fossero ancora le donne dei
miei tempi”, sospirò Bruegel. “Ma sono tutte morte. Le ho seppellite dalla prima all’ultima, quelle battone”. Ordinammo un martini
e un brandy. “Non esagerare con l’alcol”, dissi. “Lasciami bere in
pace. Questa settimana mi sono sbronzato solo due volte”, disse
Bruegel. “Carino il vecchio decrepito”, disse una cameriera con
una minigonna di jeans, “ma sarà lungo un metro”. “Un metro
scarso”, dissi. “Da dove spunta fuori?”, mi domandò la cameriera.
“Diciamo che l’ho trovato nella spazzatura”. “Ultimamente nella
spazzatura di Sabbione si trovano cose interessanti”, fece lei, e ci
portò un paio di drink, birra per me e cognac invecchiato
trent’anni per Bruegel.
Il vecchio bevve il suo cognac con gusto e pisciò tutto quasi
istantaneamente. “Sono stufo di questo posto. Voglio andare al
parco a guardare le donne”, disse con aria annoiata. Non me ne
curai e presi a conversare con la cameriera. “Sto cercando di surrogare un deficit personale. È una storia complessa”, le dissi. Aveva un buon profumo e un tatuaggio che ricordava uno scheletro.
“Smettila di importunare le cameriere negre e portami al parco”,
disse Bruegel. Lo feci stare zitto infilandogli il bavaglino su per la
bocca e continuai la chiacchierata. Do circa un quarto d’ora tolsi il
bavaglino dalla bocca di Bruegel e uscimmo dal locale. “Porca
femmina schifosa!”, mi urlò in faccia Bruegel. Ci ero abituata.
“Ti porto al parco”, dissi, “anche se comprendi quanto la cosa
mi faccia soffrire”. “Impossibile comprendere le ragioni di una
femmina nevrotica”, sentenziò Bruegel.
Salimmo in macchina. “Dove diavolo stai andando? Devi
prendere la statale 14, svoltare di fronte al monumento ai caduti e
superare San Giovanni il Precursore”, disse Bruegel. “Preferisco
prendere la statale 9, girare prima del monumento ai caduti e costeggiare San Teodosio l’Uticense”, dissi io. “Ma così l’allunghi,
razza di idiota. E col traffico del pomeriggio siamo spacciati”, si
lamentò. “San Teodosio l’Uticense”, dissi. “San Giovanni il Precursore, Cristo! L’avrò fatta un milione di volte. C’era una ragazza,
si chiamava Giulia. Un culo fantastico. Bazzicava dalle parti del
parco e per qualche tempo ce la spassammo; portava una gonnel383
lina a fiori e i capelli sciolti, come piacciono a me. Era una battona”.
Girammo l’angolo e ci trovammo di fronte una selva di monumenti ai caduti.
“Cosa diavolo è questa merda?”, domandò Bruegel. “Questo è
il quartiere dei monumenti”, dissi. Stavano costruendo un monumento davvero imponente. Enorme. Il monumento ai caduti più
grande che avessi mai visto. Numerosi vecchi si accalcavano alle
transenne del cantiere. Uomini muscolosi con caschi di sicurezza
gialli sullo sfondo del cielo blu. Enormi blocchi di marmo latteo
sullo sfondo della terra bruna. Superlative autogru dorate sullo
sfondo verde di una pubblicità. “Buongiorno lavoratore”, dissi a
uno dei lavoratori, un tipo davvero carino coi capelli castani e un
fondoschiena niente male.
“Fanculo”, disse Bruegel. Gli ficcai il bavaglino in bocca e non
me ne curai troppo. “Il mio nome non è lavoratore”, disse il lavoratore. “Mi dispiace, io...”. “Mi chiamo Kirk”, disse. “Buongiorno,
Kirk”, dissi. “Cos’è quell’affare che porta con sé?”, mi domandò.
“Una specie di essere umano”, dissi. “Curioso”, disse Kirk,
“l’avevo scambiato per un animale”. “Cosa state costruendo?”,
domandai. “Un monumento ai caduti della Missione di Pace in Kebabistan”, disse. “Missione di Pace?”. “Sì; ha presente quando uno
stato sovrano intraprende un conflitto armato nei confronti di un
altro stato sovrano al fine di costruire e mantenere la pace?”.
“Cioè, in pratica, una guerra”, dissi. “Due anni fa l’appellativo guerra fu giudicato desueto e sostituito con un appellativo più fresco,
più guizzante, più...come dire, armonioso”, disse Kirk.
Moltissimi vecchi faticavano a tenere la posizione eretta con lo
sguardo acquoso, il cappello da vecchio, le braccia dietro alla
schiena, il dorso della mano destra all’interno del palmo della mano sinistra. “E quanti caduti abbiamo patito durante la guerra in
Kebabistan?”, domandai. “Vuole dire durante la Missione di Pace in
Kebabistan?”, disse Kirk piccato.
Mi scusai prontamente, imputando l’errore alla sbadataggine.
“Per il momento uno solo”, disse Kirk. “Per il momento?”.
“Forse potrà sembrare strano”, disse Kirk, “ma ci sono missioni
384
di pace che continuano anche quando al telegiornale trattano di
Kim Kardashian”. “Di chi?”, domandai.
“Non ha importanza”, disse Kirk. “Il concetto è che ci sono
guerre che continuano anche dopo che abbiamo spento la televisione. Al di là della nostra comprensione”.
“Guerre?”, domandai.
“Intendevo dire Missioni di Pace”, disse Kirk imbarazzato.
“Questi continui mutamenti di linguaggio ogni tanto possono
confondere”. I martelli grigi martello si stagliavano sullo sfondo di
pantaloni beige pantalone. “E costruiamo un monumento ai caduti per un singolo caduto?”, domandai. “Che cosa consiglia di fare,
ucciderne qualcun altro? Non è un bel momento per l’industria
delle commemorazioni. Prenda per esempio il monumento alla
Missione di Pace in Vietnam. Lo vede? È quello laggiù, tra il monumento ai caduti delle Termopili e il monumento ai caduti di
Addis Abeba. Versa in uno stato pietoso”. “Anche in Vietnam fu
una missione di pace?”, domandai. “Ma è naturale. Il nuovo appellativo ha validità retroattiva. Pertanto, potrà notare alla sua destra
uno dei monumenti ai caduti più imponenti, quello per i caduti
della seconda Missione di Pace mondiale”.
“Fanculo voi e la vostra pace di merda”, disse Bruegel liberandosi dalla morsa del bavaglino. Glielo rificcai subito in fondo alla
gola. “Parla anche?”, domandò Kirk. “Solo ogni tanto, ma non vale la pena di ascoltarlo”, risposi. “Avrei giurato di avergli sentito
uscire delle parole da quella specie di bocca”, disse Kirk. Poi ordinò ad altri operai di far sloggiare la colonia di vecchi. “Vi danno
molto fastidio?”, domandai. “Dovrebbero vergognarsi di essere
ancora vivi”, disse uno degli operai. Qualcuno tra i vecchi abbozzò una protesta. “Che fastidio vi diamo?”, domandò. “Non facciamo niente di male”. “Sì, ma siete vivi”, disse Kirk, “e rappresentate tutto ciò che di pusillanime, pavido e meschino esiste al
mondo. I vostri nomi avrebbero dovuto essere iscritti sulla facciata di uno di questi monumenti, vigliacchi fottuti. Tornate nei vostri nosocomi a succhiare caramelle alla menta e a sterminare animali liofilizzati che non riuscirete comunque a digerire”. I vecchi
furono fatti sgomberare in fila per due. “Ben detto”, dissi, “allora
buon lavoro, Kirk, buon lavoro, lavoratori, buon lavoro, buon la385
voro! Che l’unico caduto della Missione di Pace in Kebabistan
venga commemorato dai cittadini di Sabbione in eterno!”.
Tolsi il bavaglino a Bruegel e lo portai al parco. Anche se il
parco mi faceva soffrire terribilmente.
“Finalmente il parco”, disse Bruegel. “Mi sento di peccare davvero molto bene, al parco. Potrei bestemmiare un po’, masturbarmi guardando una bambina o incendiare uno di quei ridicoli
chioschi. Sarebbero peccati notevoli”, disse.
Incontrammo gente. Soprattutto giovani madri che portavano
a spasso i soliti bambini, di cui è infestato il mondo.
“Che carino, cos’è?”, chiese una madre indicando Bruegel, che
pattinava chino appoggiandosi al suo bastone. “È un vecchio decrepito antireligioso”. “Avrei giurato che fosse un nano mongoloide sui pattini”, disse la madre. “Ehi, sembra proprio un nano
mongoloide!”, disse un vigile. “Ma no, avrei stragiurato che fosse
un cavolfiore bollito con il basco sul cappuccio”, intervenne
un’altra madre. “Invece è un vecchio decrepito antireligioso”, dissi. “Vuole dire che è un uomo?”, disse un’ennesima madre (il parco di Sabbione è popolato da un numero sproporzionato di madri). “Più o meno”, risposi. Si stupirono e chiesero una dimostrazione. Non avevano mai visto prima un vecchio decrepito antireligioso lungo un metro scarso che pattinava al parco sbavando dietro alle giovani madri. Volevano conoscere la storia di Bruegel.
“Saremmo molto curiose di conoscere la vicenda esistenziale di un
vecchio decrepito antireligioso”, disse una delle madri. “Siete delle
battone!”, urlò Bruegel, e cominciò a raccontare la sua vicenda esistenziale. Disse che da giovane gli era stato assegnato un incarico.
“Un fottuto, prestigioso incarico”, disse. Le madri lo ascoltavano
attentamente. Ci eravamo seduti su una panchina accanto al chiosco quattordici, che vendeva giornali e pannocchie arrostite.
“Venne un cardinale e mi chiese di partecipare a una missione per
la quale ero la persona più indicata. Accettai. Convissi con un lurido ebreo in uno scantinato di Castrocozzo per sette mesi. Quel
fottuto cagava e scoreggiava in continuazione, era insopportabile.
Di notte russava. Ci fecero aprire un’attività; era una copertura.
Vendevamo chiodi, bulloni, brugole, viti. Mi fecero leggere documenti riservati. Dopo qualche mese tornò il cardinale e disse che
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non se ne faceva più nulla. Missione annullata, disse. Tenetevi pure l’attività, disse. Era una specie di risarcimento. Se vi fosse capitato di convivere con un ebreo polacco per cinque mesi capireste
che nessun risarcimento può pareggiare la tortura subita. Comunque mandammo avanti l’attività per qualche tempo.
Quell’ashkenazita ammorbante rubava i soldi dalla cassa, pregava
di nascosto nel retrobottega, festeggiava feste ignobili. Mi malediceva. Si sistemò in un alloggio di fianco al negozio, vicino al mio
scantinato. Copulò con una strega russa mussulmana. Cominciarono ad avvelenarmi; mettevano acidi e veleni nella mia minestra,
sui miei vestiti, utilizzarono raggi x di tecnologia americana; mi
prudeva dappertutto, avevo eritemi ed eczemi, l’herpes zoster,
un’infiammazione intestinale e il colon distrutto. Il Mossad mi teneva d’occhio. Anche i servizi segreti vaticani. Soprattutto loro.
Fecero venire alcune persone per accendere luce e gas in mia assenza. Volevano farmi pagare bollette sempre più alte. Volevano
costringermi a cedere la mia parte di attività”, disse. “Incredibile,
gli crescono ancora i capelli!”, esclamò una delle madri. “Non interrompete, stupide femmine!”, urlò Bruegel. Gli dissi di calmarsi
e mi mandò al diavolo. “Avevo un incarico terribile e attraente.
Quelli del Mossad cominciarono a ronzarmi attorno. Poi il porco
ebreo e la sua stregaccia installarono un altoparlante sul tetto del
condominio. Cominciarono con le loro litanie islamiche. Quel
porco di un ebreo si convertì all’islam. Fornicatore di religioni, simoniaco, come tutti i suoi simili. Vendette la sua religione per una
strega. Tentarono di avvelenarmi altre volte. M’infilai questo cartello al collo. Quel cane bastardo che mi trovò nella spazzatura me
lo tolse per mettermi un bavaglino, ma ci feci ricamare la stessa
frase sopra. Chiesi asilo politico in Tunisia. Anche i Gerarchisti
intervennero e me lo fecero negare. Questi mezzi negri comunque
erano in combutta con loro. Lasciai il mio scantinato e l’attività
all’ebreo islamico. Mi trasferii, ma mi fecero pedinare. Telefonavano nel cuore della notte, settanta volte in una notte. Fecero traslocare una parrucchiera di Benevagienna sul mio pianerottolo e
cominciarono le fatture, i malefici: il mio corpo cominciò a ritirarsi. Ero alto un metro e ottantacinque”, disse. “E io che pensavo
fosse un nano mongoloide!”, disse una madre. “Avrei scommesso
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che fosse un comunista”, disse il proprietario del chiosco. “È ora
di andare”, dissi a Bruegel. “Fermati, voglio vedere il culo delle
madri”, disse lui. Guardò il culo di tutte le madri mentre se ne andavano spingendo i passeggini. C’era tra gli alberi una sensazione
di distacco, come di germogli fioriti. “I germogli di questi alberi
fanno una puzza tremenda!”, esclamò la donna dello zucchero filato. “Guardiamole il culo!”, disse Bruegel. “Vuoi dello zucchero
filato?”, chiesi. “No. Voglio una caramella da succhiare”, rispose.
Gli comprai una caramella e la succhiò; era completamente privo
di denti. Tornammo al Geko. “Buongiorno ma cherie, un vodka
tonic?”, disse una cameriera. “Un vodka tonic, ma cherie”, risposi.
“Per me un rhum invecchiato vent’anni”, disse Bruegel. Ci servirono i drink. “Questa brodaglia non è rhum invecchiato vent’anni,
lurida sgualdrina”, protestò Bruegel. Gli ficcai il bavaglino in bocca e bevetti il mio vodka tonic colloquiando con le cameriere e alcuni avventori del locale. Il Geko è un posto piacevole, ha luci
basse e il clima è sempre caldo. C’è un ottimo pasticcio di pollo
con salsa piccante, ma quel giorno ordinai un’insalata di patate con
rosmarino e cipolle. Per Bruegel ordinai un omogeneizzato. Notai
che stava diventando cianotico. Gli tolsi il bavaglino. “Lurida gallina ammuffita!”, urlò. “Voglio andare al parco a guardare le donne”. Lo misi di fronte al quadro dell’ammiraglio Nelson,
nell’angolo del locale. “Non voglio parlare con l’ammiraglio Nelson, voglio Giordano Bruno. Ho le palle piene dell’ammiraglio
Nelson”, si lamentò. Lo misi di fronte al quadro di Giordano
Bruno, nell’altro angolo del locale. Cominciò a parlare. “Era un ex
ebreo islamico maritato a una russa mussulmana, lo capisce? Quel
porco polacco. Mi avvelenava. Le autorità religiose mi hanno reso
la vita un inferno. Mi rinchiusero in uno scantinato ad aspettare
ordini. Ero al corrente di certi documenti segretissimi. Mi privarono di ogni diritto umano”. Entrarono molte persone e Bruegel
cominciò a manifestare segni d’irrequietezza, così lo accompagnai
fuori. “Voglio andare al parco”, disse Bruegel.
“Ti porterò a vedere le gru”, gli dissi. “Non voglio vedere quelle stramaledette gru”, disse lui.
Andammo a guardare le gru. Erano delle gru molto alte. Quattro o cinque vecchi ammiravano i lavori dal marciapiede, con le
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solite mani conserte dietro la schiena. Parlavano di com’era la città
un tempo.
“Anche Leonardo da Vinci disegnò una gru”, dissi. “Chissenefrega”, rispose Bruegel. “Voglio andare al parco a guardare i culi
delle donne”.
“Questo sarà un grande palazzo!”, disse uno dei vecchi. “Un
meraviglioso palazzo”, disse un altro vecchio. “Non le interessano
le gru?”, chiese un vecchio a Bruegel. “Oh no. Lui è un vecchio
decrepito antireligioso accompagnato da una donna mentre aspetta di guardare i culi delle ragazze. È una testa intronata in spazi
ventosi che pattina sui suoi rollerblade”, dissi. “Guarda questi culi
rinsecchiti”, disse Bruegel, “è la prova del successo del Vaticano e
del Mossad. Hanno irrorato con scie chimiche ogni città del mondo e il risultato è questo. Smart Dust e morbo di Morgellons, ecco
cosa fanno. Vogliamo parlare dell’HAARP? O di Echelon?”.
“Perché non puoi semplicemente guardare le gru come fanno i
tuoi coetanei?”, chiesi. “Sei un’oca rancida infeconda e repressa!”,
mi urlò. Andammo a farci un bicchierino da Stock House. Anche
Stock House è un buon posto. Pulito e illuminato bene, come devono essere i posti buoni, con la targa vietato l’ingresso a cani e bambini attaccata alla porta d’ingresso. “Che cos’è, un cavolfiore con un
basco?”, chiese la barista. Si chiamava Joustine. “È un vecchio decrepito antireligioso”, risposi, e gli cacciai il bavaglino in bocca
prima che potesse parlare. “Pensa che il vaticano e Dio stesso
stiano complottando contro di lui”, dissi. “Che storia affascinante”, disse lei. Le dissi che in un mondo ricolmo di marmocchi
smerdazzanti l’unico modo di sopravvivere per una donna single
con seri problemi di sterilità era quello di accompagnarsi a un vecchio decrepito moribondo e scoglionato da tutto, e le recitai un
sonetto di Gérard de Nerval. Ne fu molto felice e mi preparò una
tequila sunsrise davvero ottima. “È davvero molto vecchio”, disse.
“Non è né giovane né vecchio, è come se dormisse dopo pranzo
sognando di entrambe le età”, risposi. Non colse la raffinatezza
dell’asserzione. “Mi è stato affidato, per così dire”, dissi. “Che tenero, un vecchio cavolfiore antireligioso con un basco. Davvero
una storia commovente”, disse Joustine. “E i pattini?”. “Un’idea
che mi ha dato il vecchio Nagg”, dissi. “Ma ai suoi moncherini ho
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preferito i pattini. Per l’autosufficienza del vecchio”. Bruegel cominciò a manifestare sintomi di soffocamento; gli tolsi il bavaglino. “Sei una cagna col culo guasto”, disse. “La sua è una storia
struggente”, disse Joustine a Bruegel. “Fammi vedere il culo”, ordinò Bruegel garbatamente. La barista mostrò il sedere. C’era da
ammettere che aveva un gran bel culo. “Voglio peccare! Voglio
immensamente peccare!”, urlò Bruegel. Le vene del collo cominciarono a pulsare. “Assomiglia anche a un peperone”, disse la ragazza. “In effetti ha qualcosa del peperone”, confermai. Versò
dello sherry. “Offre la casa”, disse. “Vacci piano vecchio”, dissi.
“Lasciami bere in pace. E che cristo, questa settimana mi sono
sbronzato solo due volte”, rispose Bruegel. “È davvero grazioso”,
disse Joustine, “starebbe bene sul mio comodino. Farei morire
d’invidia tutte le mie amiche”.
“Mi prudeva dappertutto”, disse Bruegel tracannando il suo
sherry, “girai mezza Europa col mio cartello ma nessuno mi diede
retta. Respinsero tutte le mie denunce. Bastardi clericali”. “Gli crescono ancora le unghie?”, chiese la barista. “Anche i peli”, risposi.
“Ma è meraviglioso”, disse lei. “Beh credo che sia ora di andare”,
dissi. Bruegel bevve anche il mio sherry. “Buongiorno allora!”,
esclamò Joustine. “Buongiorno barista!”, esclamai. “Buongiorno
vecchio decrepito!”, esclamò ancora lei.
Ci recammo alla biblioteca nazionale, dove due studenti incontrati in un bar avevano chiesto il permesso di intervistare Bruegel.
“Che magnifico esemplare di vecchio”, disse la studentessa. “E
cammina?”, chiese lo studente. “Pattina”, risposi. “Quelli sono
pattini?”, chiese la studentessa. “Precisamente”.
Bruegel utilizzò un tono di voce forbito. “Possiamo accendere
il registratore?”, chiese la studentessa. Accesero il registratore. “La
parrucchiera. Quella battona. Era in combutta con le suore. Erano
carmelitane scalze, o brigidine; mi costrinsero a ricevere le loro visite. Volevano insegnarmi una nuova preghiera. Streghe. Ancelle
dell’Incarnazione, teatine dell’Immacolata concezione, tutte streghe. Ho le prove mediche che mi avvelenarono trentasette volte.
Mi apparvero in sogno e mi costrinsero a sognare la decapitazione
di Giovanni Battista per sette mesi di fila; poi fu la volta dell’orto
del Getsemani. Mi costringevano a sognarlo. Avevano fumi e va390
pori venefici. Acido fenico che mi procurava ustioni e piaghe”. La
biblioteca nazionale ha un gran numero di volumi ed è famosa in
tutto il mondo per l’odore di muffa. Uscii per fumare. Anche
Bruegel volle fumare; mi opposi. “Dammi una sigaretta, brutta
scopa secca!”, urlò Bruegel. Lo feci fumare. “Molto interessante il
suo approccio sociale”, disse la studentessa. “E tu fammi vedere il
filo del perizoma che ti esce dai jeans”, disse Bruegel. La studentessa acconsentì, brevemente.
“E per quanto riguarda l’aspetto, come dire, antropologico della faccenda”, disse lo studente, “ritiene che il peccare sia uno
strumento di protesta nei confronti delle autorità religiose?”. “C’è
puzza di cadavere”, rispose Bruegel. “Sono i libri a puzzare. Tutta
questa carta sprecata. Questo qui è un vero imbecille”.
“Si è mai sposato?”, chiese la studentessa.
Bruegel pretese un’altra occhiata fugace al cinturino del perizoma.
“La notte che incontrai Olga piovve tanto che quattro soldati
strafatti di anfetamine annegarono. Dopo la pioggia camminammo a lungo per strade sconosciute e giungemmo alla spiaggia
all’alba”, disse Bruegel, e si mise a piangere. “Non avrei mai detto
che potesse piangere!”, esclamò lo studente. “Sono lacrime vere,
quelle?”.
“Più che altro sono umori”, risposi.
“Mi sospesero a sette metri d’altezza in una cattedrale buia”,
disse Bruegel. “Dev’essere stato terribile”, disse la studentessa.
Bruegel pretese di scrutare il cordoncino del perizoma fucsia della
ragazza dodici volte.
L’intervista durò un’ora e fu noiosissima.
“Fottuti studenti senza palle. Sono noiosi come la morte”, fu la
definizione di Bruegel.
“Il mondo è noioso”, dissi io.
“Il mondo si divide in due: quelli che pur potendo non cederebbero il proprio dolore neppure al loro peggior nemico, e di
questi fai parte tu; e quelli che potendo cederebbero il proprio dolore anche al loro miglior amico, e di questi faccio parte io”, disse
Bruegel.
391
Ce ne andammo alla Casa del Caffè di Piazza delle Dominazioni perché eravamo assetati. Bruegel ordinò un brandy. “Heilà Juliette, per me un caffè corretto grappa e un pastis”, dissi. Ci
sbronzammo. “Con questa fanno tre”, dissi a Bruegel, che non si
reggeva in piedi. Lo portai a casa in braccio come un feto. Era
lungo un metro scarso e non mi costò grande fatica. Nel tragitto
pisciò due o tre volte. Le mie amiche del forum Vogliadigravidanza.org dissero che il mio comportamento era terribile, irresponsabile, sciagurato, impietoso. Dissero che stavo approfittando di un
povero vecchio il cui unico desiderio avrebbe dovuto essere quello
di trovare un suicidio dignitoso. Mi consigliarono, quasi mi pregarono, di restituirlo, o quantomeno di portarlo nel cassonetto sotto
casa. Il cassonetto era confortevole, plastica verde infiammabile
ma resistente al freddo; si trovava in un vicolo cieco all’angolo del
palazzo. “Non è un brutto posto”, dissi a Bruegel, “e prende il sole tutto il giorno”. Nel vicolo c’era una sorta di euforia, un’aridità
che dava il senso dell’abbandono, o della rinascita. “Ti porterò gin
e vodka tre volte la settimana, potrai sbronzarti e pisciare quanto
vorrai. Anche ripetutamente”, dissi. “C’è puzza di ciclamini e violette”, disse Bruegel, “ma non è davvero malaccio”. “Potrai bestemmiare anche di notte”, dissi. “Quella stupida troia cattolica
della tua vicina non strillerà più quando bestemmierò di notte?”,
chiese Bruegel. “Mai più”, dissi. “E ti porterò al parco una volta al
mese”. Seguì un bel silenzio privo di significato. “Dio è dappertutto?”, chiese. “Può darsi”, risposi, “ma non lo sapremo mai”. “Ma
qui non verrà, vero?”, chiese. “Ti assicuro di no”, risposi. “L’ho
fregato, quel porco!”, esclamò Bruegel trionfante. Sembrò appagato. Il camion della nettezza urbana non sarebbe passato fino a
mercoledì. Mi chiese da fumare. “Sei una sgualdrinella inconcludente lesbica e anorgasmica”, disse accendendosi la sigaretta.
Eravamo felici.
392
IL GRANDE RE FETICCIO
GRFGMR
Vigilia dell’ultima rappresentazione. L’ultima rappresentazione
si tiene a Sabbione, in Sabbionasso. La rappresentazione in oggetto è la riduzione teatrale di una soap opera celebre in tutto il
mondo. Il pubblico è in attesa spasmodica. I sabbionassi vanno
matti per le soap opera. Nuvole all’orizzonte. Il sole scalda ancora
le quinte dietro al palco in Piazza San Bertran de Born. L’intera
compagnia dell’Arcicoso compie i riti scaramantici prerappresentazione. Sono presenti tutti. Walter Sturm, interprete di
Ridge Forrester, un uomo ex-affascinantissimo-oggi-quasipensionato alto uno e novanta per 120 chili, tiene banco. Per
esempio, disse, potreste rappresentarmi, mentalmente s’intende,
come un Grande Re Feticcio. Un po’ di subbuglio. In pratica come un essere da onorare e venerare? Chiese Robert, interprete di
Thorne Forrester. Una punta lieve d’ironia. Precisamente, rispose
il Grande Re Feticcio. Portarono i bicchieri di plastica per il brindisi benaugurale. Imbarazzo. Cos’è questa merda? Chiese il
Grande Re Feticcio. Sono bicchieri, rispose Tom, interprete di
Clarke Garrison. Impossibile, disse il Grande Re Feticcio. È assolutamente impossibile, non accetterò mai di bere in bicchieri di
plastica. Non dettero peso alle parole del Grande Re Feticcio e
versarono lo spumante nei bicchieri di plastica. Fermi! Urlò il grf.
Si fermarono. Un grande re feticcio deve bere in bicchieri di cristallo. Come minimo. Disse. Tu non sei un grande re feticcio, disse Flòd, interprete di Steve Logan. Sei un vecchio bacucco di
dubbia fama e di altrettanto dubbio successo. Il grf trasalì notevolmente e impugnando una metaforica sciabola la fece roteare
nel vuoto, minacciosamente. Davvero notevole, disse Sonia, interprete di Taylor Hayes. Le fece eco Cloe, interprete di Stephanie
Forrester, notevolmente abbruttita e invecchiata per interpretare
la parte ma in realtà un gran bel tocco di femmina. Adesso po393
tremmo brindare? Brindarono. Coi bicchieri di plastica. Il grf stette immobile in un angolo ad ammirare sdegnato la scena, con le
mani ben salde sull’ipotetica elsa dell’ipotetica scimitarra, o sciabola. Questo è davvero troppo, pensò in quel difficile momento.
Si passò alla benaugurante consegna dei doni. Numerosi oggetti e
pacchi vagarono qua e là per le quinte, passando di mano in mano; sembravano felici. Sonia regalò oggetti esplicitamente erotici a
buona parte dei membri della compagnia e un grande cappello
Stetson al grf. Altro momento di lieve imbarazzo. Cos’è questa
storia? Chiese il grf. Com’è che a me non hai regalato un oggetto
esplicitamente erotico? Andiamo, rispose Sonia, un vecchio d’una
certa importanza come te dovrebbe desiderare un dono più confacente alla sua persona. Risate diffuse. Il grf si turbò inverosimilmente e la sua ira non tardò a manifestarsi. Senza manifestare
apertamente, almeno in un primo momento, il suo enorme disappunto, corse da una parte imbufalito. Come prima cosa distrusse
tutti i bicchieri di plastica con la sola forza del suo pugno, alcuni
sfracellandoli altri schiacciandoli tra le mani, così, come fossero
bicchieri di plastica. Poi si diresse verso le bottiglie di spumante e
le distrusse con grandi calci. Squartò manichini e bambocci,
strappò le budella pagliericce di uno spaventapasseri e frantumò
tre sedie, quattro scale, due scenografie di compensato, un telefono cellulare, un sacco di sabbia e molti altri oggetti. Gettò a terra
il cappello Stetson e gli saltò sopra con una tale violenza che tutta
la scenografia già approntata tremò. E insomma, disse il grf, davvero non male per un vecchio attore. Sonia era piuttosto ammirata. Robert, che aveva tentato di fermarlo, subì un’allegorica sciabolata sulla fronte, tanto che zampillò sangue paradigmatico da
insozzare i reali vestiti dei membri della compagnia. Proprio
quando sembrava che si fosse calmato, che l’ira fosse diminuita, il
grf prese un tacchino per il collo e lo stritolò, scagliando la testa
insozzata di fango e sangue addosso a un tecnico delle luci. Fatto
questo ripose la simbolica spada nell’immaginaria custodia, ricevette una supposta coppa di vino rosso da un eventuale servitore
e bevve allegramente. Non mi pare un gran vino, disse il grf. È un
vino cileno annata ’99, rispose l’ipotetico servitore, il migliore. Solo i grandi re feticci, se ce ne fossero altri, e non ce ne sono, pos394
sono giudicare la qualità di un vino. La migliore annata dei vini
rossi cileni è stata indubbiamente il duemilauno, e questo è certo,
poiché solo un grande re feticcio potrebbe contraddire il giudizio
d’un altro grande re feticcio, ma poiché io sono il solo grande re
feticcio, è naturale che il mio giudizio sia insindacabile. Tom andò
a pisciare. Facevano tutti un gran baccano, quasi senza degnare
d’uno sguardo il grf. Ora di sedersi a tavola: il grf siede a capotavola, giacché è il più vecchio e importante. Dall’altro capo siede
Robert, in quanto è il fondatore della compagnia. Le donne siedono nei posti centrali, i bambini hanno un piccolo tavolo a parte
preparato con ogni bendiddio. Dovrei pronunciare un discorso?
Chiese il grf al suo allegorico servitore. Mi sembra un’ottima idea,
grf, rispose il servitore (ipotetico). Non ci sarà nessun discorso,
disse Robert. Ci abbufferemo, ci sbronzeremo e andremo tutti a
letto. Ululati di approvazione da parte dei membri della compagnia. Oh ma questo è inammissibile, disse il grf; è assolutamente
necessario che il grf proceda con un discorso. Attimi di silenzio.
Non potremmo concedergli di fare questo discorso? Domandò
Cloe. Brontolii. Un discorsetto potremmo lasciarglielo fare, ammise Tom. Vocio di pietà nei confronti del grf. Ebbene sia, rispose Robert, che era il capo indiscusso della compagnia, nonché il
fondatore. Un discorso mi pare opportuno in questa circostanza,
confermò il vecchio Alfred, interprete di Eric Forrester. Detto
questo attaccò con il discorso. Un grande re feticcio ha il dovere
di comunicare ai propri sudditi ciò che è stato fatto. Segue un
grande discorso del grf.
Orbene eccomi, con voialtri, e già questo dovrebbe riempirvi
d’un certo irrepresso orgoglio, sulla sessantina o forse più, coi
reumatismi e una casa in affitto, impenetrabile muro d’ovvietà,
bronzea figura imponente e barbuta scolpita sulla gualdrappa
d’un mezzo sangue (coi chiodi nelle unghie, e il sangue e il sudore
e lo sperma e tutto il resto, feci comprese, affetti dalla malattia vita: ed oggi, ancor più, odo come fosse un cinguettio fitto da orecchia a orecchia il clangore del martello di Cristo il balbuziente, per
cui uccisi). Eccomi a lambire lentamente i contorni di una vecchia
che fu mia moglie e a bramare senza tregua una morte artistica,
che sia vera morte, dipinto da Munch e Bruegel mentre rincorro
395
galline australiane di fine ‘900 per condurle in guerra. Poi, un
giorno, rinchiusi in una soffitta buia tutti gli altri feticci per sfidarli al gioco e divertirmi un po’. Così, sono cose che si fanno tra feticci. Quella stessa notte osservai il campanile della chiesa cadere
giù in un fottio cadere giù in un boato cadere giù e basta. Insomma c’erano tutti questi feticci, amuleti, dei, simulacri, idoli. Li
guardai mentre agonizzavano, a pane e acqua, e me ne compiacqui. Gli tolsi anche il pane e l’acqua e tutti i discepoli. Il primo a
desistere fu un bafometto, un cazzillo alto una quindicina di centimetri e notevolmente meno importante di me, seguito in rapida
successione da un simbolo totemico d’accertata omosessualità e
dunque sterile, un cristo crocifisso e dunque inutilizzabile e una
specie di testa antropomorfa di cui non ricordo l’origine.
M’intrattenni amabilmente con Kali, feticcio d’oscurità e violenza,
Kokuzhan, simbolo d’abbondanza, un Buddha d’oro che per la
mole imperiosa del ventre resistette al digiuno più degli altri, e un
tale feticcio brasiliano che non serviva a niente, e non avendo
niente da fare o da dire diventò fonte inesauribile d’ispirazione
per tutti noi. Il grf si ferma per tossire. Chiede all’immaginario
servitore un’immaginaria coppa di vino. Gli viene dato un vero
bicchiere di plastica contenente vino rosso. Il grf lo getta via schifato. Potremmo cominciare ad assaggiare le tartine, disse Tom.
Finisco! Urlò il grf. È per questo che oggi voi siete qui, per celebrare il grande re feticcio dei grandi re feticci. Non uno qualunque, badate bene, ma il solo e unico re feticcio. Si fermò. Come
sono andato? Domandò con impazienza. Davvero un gran bel
ragionamento, grf, disse l’ipotetico e immaginario servitore. Sono
stupita e ammirata, disse Cloe. Ma cosa significava la seconda
parte del discorso? Domandò garbatamente. Davvero un discorso
del cazzo, disse Robert. Il grf si alzò in piedi e cominciò a debordare in ogni dove, rovesciando piatti e bicchieri. Rovesciò tredici
piatti fondi, quindici piatti piani, sette bottiglie di vino rosso, tre
di vino bianco, nove vasetti di mostarda, quattro taglieri di formaggio, tutto il miele, quasi tutta la senape. Gettò all’aria i tovaglioli, la tovaglia, i cappelli. Hai finito? Domandò Robert. Quasi,
rispose il grf. È avanzata della senape? Domandò Tom cercando
d’addentare l’agnello sambucano cotto al sangue. Il grf a questo
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punto si alzò e si fece largo tra i membri della compagnia per cercare una dimensione più consona alla sua posizione sociale e intellettiva. Dove stai andando? Gli chiese Robert. Cercherò una
dimensione più consona alla mia posizione sociale, rispose il grf.
Vocio e rumore di posate e piatti, che furono portati nuovamente
sulla tavola. Il grf ha raggiunto con grande fatica la cima d’una pila di ventinove sedie e si è appollaiato sull’ultima, in precario
equilibrio, tenendo in scacco tutti dalla sua nuova posizione sociale. Dovremmo fare qualcosa, disse Mike, interprete di Constantine Parros. Il grf osserva la scena dall’alto. Urla frasi di notevole spessore, ancorché il significato risulti piuttosto oscuro.
Ma essi sono, tu dici,
come i sacerdoti del dio vino
che andavano di terra in terra
nella notte sacra.
Dobbiamo fare qualcosa, disse Sonia. Robert, fai qualcosa. Un
po’ di silenzio mentre il grf grugnisce. Sempre Robert, disse Robert. Quando c’è da sporcarsi le mani chiamano sempre Robert.
Perché non Tom? O Mike? O Emmet? Oppure, ancor meglio, il
tecnico delle luci, laggiù. Robert non muoverà un dito stavolta.
Segue una fitta discussione tra Sonia e Mike, preoccupati per il
grf, ex Walter Sturm.
Hai qualche idea?
Nessuna.
Qualcosa da dire?
Niente.
Cos’è questo rumore sfrigolante dalla finestra?
L’insegna del bar?
È questo noioso sfarfallio notturno a darmi sui nervi.
Smetti di parlare.
Smettila subito.
Sono solo una bambina, in fondo.
Coi capelli raccolti in un foulard.
E il ventre piatto.
Non oso ascoltarti ancora.
Non oso pronunciare il suo nome senza che il cuore vada in
frantumi.
397
L’amore, mia cara, l’amore.
Hai qualche idea adesso?
Nessuna.
E niente che possa dire, o fare.
Nemmeno una parola.
Non hai qualche parola per me?
Come puoi vivere senza un cuore e aspettare che ricresca?
Non fare finta di niente, so tutto.
Hai qualche idea?
Neppure l’ombra.
Il grf osserva la situazione dall’alto. Scendi! Gli urlano. Non
scende. Joff, interprete di Dominick Marone, gli si avvicinò, iniziando ad accatastare sedie di plastica. Quando la catasta raggiunse la stessa altezza di quella del grf si arrampicò sulla sua fila di
sedie accatastate e disse: vedi? Chiunque può essere un grande re
feticcio sul suo trono di ventinove sedie di plastica. Ira del grf.
Ghigno diabolico. Sbuffi. Tu non sei niente, disse il grf. Tu sei
solo uno che vorrebbe sembrare un Grande Re Feticcio, mentre
in realtà sei solo un rozzo emulatore, un seguace come tutti, un
eponimo. Silenzio totale. Parole fittizie bisbigliate dal servitore del
grf. Ehm, grf, forse volevi dire un epigono. Imperiosa ira del grf.
Calcio alla fila di sedie su cui poggia Joff, crollo del poveraccio al
suolo. È questo il modo in cui finisce il mondo, tuonò il grf, non
già con un piagnisteo ma con uno schianto. Fragorosa risata del
grf. E adesso, se qualcuno desidera conferire col grande re feticcio, prego, chieda udienza al mio servitore e vedrò se accontentarlo, disse il grf. Cloe si fece avanti. Chiese udienza all’ipotetico
servitore e il grf la concesse. Mi trovi attraente? Domandò il grf.
Abbastanza, rispose Cloe. Eppure tu hai un gran bel culo, disse il
grf. Io sì, certo, ma si stava parlando di te. In quanto grande re
feticcio io sono al di sopra dell’attrazione, disse il grf. Io sono ciò
che più d’ogni altra cosa una donna potrebbe desiderare. E anche
oltre. Troppo oltre. Ma sei stato tu a chiedermi se ti trovassi attraente, disse Cloe. Impossibile, rispose il grf. Un grande re feticcio non chiede, ottiene. Silenzio. Robert, sono preoccupata, disse
Cloe. Andiamo nella mia stanza, disse Robert. È un’ottima idea,
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rispose Cloe. Detto questo uscirono e andarono nella stanza di
Robert, probabilmente a fornicare. Fatelo scendere da lì, disse
Robert agli altri membri della compagnia. Mormorio. Così mentre
lui se la spassa con la donna noi dobbiamo fare scendere questo
vecchio bacucco da una pila di ventinove sedie di plastica? Chiese
Emmet. Blaterio del grf. Chiamiamo i pompieri, suggerì Sondra,
interprete di Brooke Logan. Grande clamore. Quando arrivarono
i pompieri il grf se ne stava impettito sul suo ipotetico trono, impugnando un metafisico scettro nella mano destra col capo abbassato che non riusciva a sostenere tutto il peso di un’allegorica
corona d’oro tempestata di diamanti, rubini e smeraldi. Che cosa
abbiamo qui? Chiese il capo pompiere. Non vuole più scendere
da lassù, disse Tom. Sono in una dimensione consona alla mia
importanza, disse il grf. Scala, disse il capo pompiere. Una lunga
scala da pompieri fu trasportata nel retroscena. Cosa state tentando di fare? Chiese il grf. Non ho alcuna intenzione di abbandonare il mio trono. Riponete immediatamente quella scala. Clamore
diffuso. Non possiamo costringere un uomo a scendere da una
pila di ventinove sedie di plastica contro la sua volontà, disse il
capo pompiere. Non un uomo, disse il grf, ma un grande re feticcio, simulacro tra gli altri di tutti i pompieri, i vigili urbani, i poliziotti, gli agenti di nettezza umana, i verificatori di primo secondo
e terzo livello, i carabinieri, gli ausiliari del traffico, le guardie forestali, i finanzieri, i marines e qualcuno tra i parà. Perché solo
qualcuno? Domandò un pompiere. Alcuni parà onorano e venerano un mezzo feticcio di bassa tacca che ho già abbondantemente superato in importanza decenni fa, ma, siccome questi soldati
hanno una testa dura come il cemento, non vogliono smettere di
venerare lui in mio favore. Ne ho già fatti schiantare al suolo più
di trentamila. Eppure niente. È difficile convincerli, disse il grf.
Impressionante, disse Sondra. Non sapevo che un mezzo attore
da teatro di serie b avesse questi poteri, disse Mike. Cosa volete
sapere voi, razza di infime creature di quart’ordine? Disse il grf.
Voi non sapete niente. La vostra intelligenza è limitata, così come
la vostra capacità di apprendimento. I pompieri abbandonarono
le quinte. Subbuglio. Ritorno coreografico di Robert. È ancora
lassù? Che noia. Adesso basta Walter, disse Robert. Hai stancato
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un po’ tutti. Mezzo discorso del grf: dopo aver annientato tutti i
feticci di questo mondo e di molti altri m’innamorai di una giovane donna di Heidelberg. L’amore fu così grande e terribile che la
poverina cedette e la follia la ghermì. Le porto ancora mazzi di
giacinti alla casa di cura. Ogni anno il quattordici settembre.
Scendi da quella dannata pila di sedie di plastica, idiota, esclamò
Robert. Voi senza di me cosa sareste? Io vi ho generato, vi ho
plasmato, vi ho dato una professione e un futuro. Adesso non
rompetemi i coglioni, disse il grf. È un comportamento increscioso, disse Sonia. Che modi di fare, aggiunse Sondra. Com’è che qui
tutti usano un linguaggio volgare e quando lo faccio io vi scandalizzate? Forse perché da un grande re feticcio ci aspetteremmo un
linguaggio più forbito, disse Sonia. Esatto, disse il grf, ma anche il
grf perde la pazienza, e il grf si è rotto i coglioni. Tuoni metaforici
nel cielo spastico di Sabbione. Fulmini e lampi (metaforici). Pioggia di fuoco metaforica. Robert sprona le donne a convincere il
grf. Cloe, Sondra e Sonia tentano di convincere il grf. Avanti grf,
scendi da quella pila di sedie di plastica, disse Sondra. Solo se mi
garantisci che potrò succhiarti l’alluce, disse il grf. Questo lo vedremo, disse Sondra. Potrai massaggiarmi i piedi, disse Cloe. E io
li massaggerò a te, disse Sonia. Sussulto del grf. Probabile erezione. Fu allora che il grf, in preda a furiosi quanto incontrollabili
istinti, fece per scendere dal suo trono, ma fu persuaso a non
scendere da un ipotetico ministro. Si tolse la cintura e si legò un
polso al bracciolo del supposto trono. Voglio succhiare l’alluce di
Sondra, massaggiare i piedi di Cloe e farmi massaggiare i miei da
Sonia, gridò il grf. Devo assolutamente slegarmi, pensò. Mettiamola così, disse il grf a tutto lo stuolo immaginario di allegorici
sudditi che, ipoteticamente, lo circondavano, se mi lascerete
scendere vi aumenterò la razione di beveraggio. Che cosa bevete?
Silenzio. Rum? Ve ne darò il triplo. Gin? Quattro volte. Vino?
Otto volte. Vi farò mangiare nei miei piatti dorati e vi farò fare un
giro sulla mia nuova Porsche turbo. Silenzio. Non sopporto il
trambusto, disse il grf, ma questo è davvero troppo. Se non mi
slegate immediatamente annullerò seduta stante ogni razione di
cibo e alcol.
Sotto di lui, le tre donne confabulano animatamente.
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Non è assolutamente corretto promettere una scopata al grf in
cambio della sua discesa.
È una questione etica.
Beh potremmo davvero fargliele palpare un po’.
Che ci costa in fondo?
Una palpatina qua e là.
Io ho un fidanzato.
Non lo verrà mai a sapere.
Eccetera.
Decisione repentina.
Se scenderai, grf, potrai scegliere una di noi per una serata in
compagnia, disse Sondra.
E come si svolgerà questa serata, chiese il grf tirando la cinghia
di pelle nera legata molto stretta al bracciolo della sedia.
Questo è da stabilire, disse Cloe. Comunque non sarà una cosa
molto casta, aggiunse Sonia.
Il grf sbatacchia violentemente il bracciolo della sedia. Non resisto, non resisto! La cintura di pelle nera tiene. Sbuffi e ululati del
grf. Bestemmie imperiose. Dietro le quinte arriva Klaus, figlio
mongoloide del Produttore Liddel. Il grf distrugge il bracciolo
della sedia e si scaraventa a terra, dalle donne. Eccomi, disse,
scelgo tutte e tre. Palpeggiamenti. Non qui, disse Sonia, c’è il piccolo Klaus, che ha venticinque anni. Furore del grf. Da dove
spunti fuori tu? Chiese il grf al piccolo mongoloide. Non dovresti
essere a letto a quest’ora? Volevo fare il mio discorso benaugurale, disse Klaus. Più tardi, rispose il grf seccato, ora siamo impegnati non lo vedi? Sbalordimento. Per la miseria grf, ti sembra il
modo di trattare il figlio del nostro Produttore? Disse Sondra. È
un mongoloide, rispose il grf, non lo vedete? Tu hai avuto il tuo
discorso, rispose Cloe, ed è giusto che lui abbia il suo. Giungono i
membri della compagnia. Robert si siede. Il grf si siede. Tutti si
siedono intorno al piccolo Klaus. Lui comincia col suo discorso.
Mi chiamano ritardato. Eppure credo di essere sempre stato
cortese con quelli della compagnia e anche a scuola davvero non
si possono lamentare visto che anche l’altro giorno il mio maestro
mi ha fatto i complimenti per la puntigliosità e la produttività eccetera eccetera perché sì io ci tengo a queste cose mi sveglio an401
che un’ora prima per arrivare puntuale a scuola perché io sono
fatto così mi piace fare le cose per bene e un’altra cosa che mi
piace è dire la verità e magari qualche piccola bugia la tengo per
certe situazioni quando non puoi proprio farne a meno come quella volta che Caterina Gigli mi mise una mano nella camicia e io le
dissi di non farlo perché avevo una mezza cotta per Eleonora
Bassi e allora lei andò a dire a tutti che ero un bambino mongoloide disse che ero brutto e rachitico e minorato mentale e lo disse davvero l’ho sentita con le mie orecchie e disse anche che io e
il figlio del benzinaio avevamo una tresca solo perché andavamo
insieme su al vecchio santuario a guardare le stelle e quando c’era
un temporale lui mi teneva la mano adoro i temporali con i lampi
e i tuoni da piccolo la mamma mi lasciava entrare nel suo letto
quando c’era un temporale è una bella donna la mamma e spesso
quando si sente sola perché papà è uscito viene nella mia stanza a
carezzarmi qualche volta le sfioro i capezzoli e la guardo nuda ha
un buon odore mia madre una volta credo anche di aver avuto
un’erezione anche se lei non voleva e si arrabbiò ma insomma ho
venticinque anni ormai e non credo più alle favolette a babbo natale all’uomo nero a gesù bambino e a dirla tutta non credo più
neppure alla mamma quando dice che chi bestemmia va
all’inferno perché bestemmiare è un peccato e chi commette molti peccati va all’inferno ma allora dico io quanti peccati abbiamo
commesso noialtri prima di venire al mondo?
Silenzio tombale. Grf a braccia conserte.
Sono stupita e abbagliata, disse Cloe.
Incredibilmente stupita, aggiunse Sondra.
Questo è un discorso, disse Sonia.
Ma è stata una cagata pazzesca, disse il grf.
Sei solo invidioso, disse Sondra.
Anche bilioso, direi, disse Robert.
Le donne prendono Klaus per mano e lo conducono da qualche parte. Il grf è davvero seccato. Adirato. Robert cosa mi succede, chiese il grf. Sei invecchiato Walter, disse Robert. Ancora
con questa storia della vecchiaia, disse il grf. Si mise da parte e
cominciò a ingollare di tutto. Nell’ordine ingollò dodici cicchetti
di whisky, nove cicchetti di vodka, sei di succo di pomodoro
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condito, quattro di rum scuro, tre di porto rosso e quattro di porto bianco, tredici di amaro, quattro di acquavite, sei di cointreau,
nove di pastis. Al settimo cicchetto di blu curacao si fermò. Sembro così vecchio? Chiese. Non c’era più nessuno. Si arrampicò
per la pila di ventinove sedie di plastica e si addormentò sul suo
scettro, mentre alcuni metaforici negri sventagliavano immaginarie foglie di palma affinché il grf potesse godere dei benefici della
frescura e passare una notte dignitosa e degna del suo esclusivo
grado sociale.
Giorno fatto. Grandi fanfare, baccano. Sabbione si sveglia con
una grande festa da celebrare e la processione per la clausola 99
del suo Gerarca. Odore di cavalli. I cavalieri si allenano
nell’enorme piazza. Rumore di galoppo, urla, bestemmie, imprecazioni, incitamento. Sole piccolo e già caldo, cielo blu elettrico,
nessuna nuvola, ventisette gradi centigradi già al mattino presto,
umidità accettabile.
Che posto di merda, pensò il grf.
Sotto di lui un viavai di tecnici, uomini, donne, animali. Tacchini tenuti al guinzaglio, figuranti per la parata con costumi danteschi. Eccetera eccetera.
Monologo del grf, rivolto a una figurata platea di spettatori.
Ancora questa tortura…perché questa croce? Lasciatemi in pace!
Ma dove sono i miei soldati? Dove sono gli uomini, dove le forze
della natura? Dov’è il soffio di follia che ci permise di sottrarci alla vita? Oh che omerico tedio, che fumosa uggia iconoclasta. Vi
dedico questi cocci inesistenti, voi inesistenti, voi macchie dipinte
su di un buio dipinto, che il vento non scuote. Il mio pregiudizio
è la vostra negazione, le temp perdu de ma jeunesse. E tu, noia,
mia principessa ipocrita, attorciglia i tuoi fili nelle orecchie sporche della notte e scordati di me!
Non ci posso credere, disse Robert, sei di nuovo lassù. Che,
dovrei lasciare il mio trono? Disse il grf. Non ricominciare eh,
disse Robert. Ricomincio, disse il grf. Dove sono le rondini?
Chiese il grf. Stanno accucciate nei nidi? Stanno preparando per
me la loro soave danza crepuscolare? Quanta compagnia mi hanno fatto. Non ci sono più rondini, rispose Robert. Oh autunno,
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oh foglie vizze, oh rami spezzati, oh giovenca zoccoli all’aria, oh
prostitute, contadine, infermiere eccetera eccetera, siate le mie
rondini!
Arrivarono i membri della compagnia. Tra due ore c’è la prova
generale, disse Mike. Chi Interpreterà Ridge? Chiese Cloe. Chi altri potrebbe interpretare il ruolo del protagonista se non un grande re feticcio? Disse il grf. Scendi immediatamente, intimò Robert. A meno che non vogliate sostituirmi con un piccolo suddito
mongoloide, disse il grf. È sempre stato molto permaloso, disse
Sondra. Chi ha fatto il discorso migliore, il grf o il psm? Imbarazzo. Non è che Klaus abbia fatto un discorso migliore del tuo, disse Mike, è che era più, come dire, più sentito. Cosa mi tocca sentire, disse il grf. In effetti Mike non ha tutti i torti, disse Cloe. Il
tuo discorso faceva schifo, disse Robert. Quello di Klaus era molto poetico, disse Sondra. Molto dignitoso, direi, disse Sonia. Vicino a tutti, aggiunse Tom. Nell’ordine dissero altre peculiarità del
discorso di Klaus.
Struggente.
Immaginifico.
Pietoso.
Denso.
Conciso.
Folcloristico.
Armonioso.
Geniale.
Talentuoso.
La cosa più incredibile che abbia mai ascoltato.
La cosa più forte che abbia mai ascoltato dopo i monologhi di
Shakespeare.
Meglio del discorso d’insediamento dell’ultimo Gerarca.
Notevolmente migliore.
Notevole.
È così che la pensate? Chiese il grf.
È così, rispose Robert per tutti.
E allora portate qui il piccolo suddito mongoloide e vi farò
vedere io. È una sfida in piena regola. Prima ci sarà una cerimonia. Donne in lungo e uomini in tight. Se il piccolo suddito mon404
goloide avrà la meglio sul grande re feticcio, il che è assolutamente e naturalmente impossibile, allora forse scenderò dal mio trono
e reciterò con voi, pezzenti e sudditi, in questa commediola da
quattro soldi. Stupore generale.
Vuoi davvero sfidare Klaus? Chiese Robert. Naturalmente, rispose il grf. È imbarazzante, disse Tom. E a cosa lo sfideresti?
Chiese Robert. Ars dialettica, Robert, ars dialettica. Silenzio.
Qualcuno va a prendere Klaus. Arriva Klaus. Allora vogliamo
cominciare, disse Robert. Prima la cerimonia, disse il grf. Vocio di
sottofondo. Ferma, disse Cloe, non si può cominciare né la cerimonia né la sfida senza il parere di un esperto. Un esperto? Chiese il grf. Insomma, uno che sappia trattare coi mongoloidi. C’è un
comitato che se ne occupa, disse Mike. Un’associazione per gente
ritardata. Cosa sono queste cazzate? Chiese il grf. Fai presto a
parlare tu, disse Mike, ma c’è gente che soffre. Acclamazione generale. Mi sembra davvero una cazzata, disse il grf. Fecero venire
il presidente dell’associazione ritardati di Sabbione, un uomo tutto di un pezzo in prima linea nei confronti dell’abbattimento delle
barriere architettoniche, nella cura dei mongoloidi e
nell’assistenza ai ritardati. Questo non è iscritto alla nostra associazione, disse il presidente dell’Associazione Ritardati Sabbionassi, per me potete farne ciò che volete. Stupore. Questo è parlare,
disse il grf. Allora possiamo cominciare? Domandò il grf. Ma lei
non dovrebbe difendere i diritti di tutti i ritardati? Chiese Cloe
seccata. Io curo gli interessi degli iscritti all’Associazione Ritardati
Sabbionassi, quasi milleseicento iscritti. La tessera costa settantacinque euro più dodici euro per le spese burocratiche. Se il vostro
amico, qui, avesse pagato la tessera, vi impedirei di procedere con
questa cosa, disse il presidente, ma poiché esistono altre due associazioni di questo genere, e la concorrenza è forte, non posso
assolutamente prendermi cura degli interessi del vostro ragazzo.
Provate coi presidenti delle altre due associazioni. Marasma. Si
prova con gli altri due presidenti. Niente di fatto. Klaus non è
iscritto a nessuna associazione per ritardati. Che diavolo vogliamo
cominciare oppure no? Chiese il grf. Non ho tempo da perdere,
io. Preparativi per il confronto. Il grande re feticcio siede sulla sua
pila di ventinove sedie di plastica indossando un ipotetico tight
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con tanto di metaforici guanti e cilindro. Nella mano destra impugna un apparente bastone. Klaus siede su una sedia di plastica
al centro del palchetto dietro le quinte. Intorno a lui prendono
posto tutti i membri della compagnia. Poco oltre, su tre sedie distinte, siedono tre docenti di filosofia dell’Università di Sabbione,
fatti venire per la circostanza.
Il confronto:
Grf – mongoloide!
Klaus – eh?
Grf – omosessuale represso, pedofilo!
Robert – che diavolo stai facendo?
Grf – scheletro di ratto!
Klaus in silenzio, sempre più cupo.
Cloe – smettila immediatamente.
Grf – triplice estratto d’infamia, collo di bue!
A Klaus scende una lacrima.
Primo docente universitario – singolare giunzione metaforica,
eppure di geniale matrice.
Grf – mascella di porco! Fronte d’arachide!
Klaus si rannicchia sul pavimento. Sconcerto generale.
Secondo docente universitario – desumo una chiara citazione.
Davvero notevole.
Grf – occhi di donnola! Orecchia di procione!
Klaus, ormai rannicchiato, piange sonoramente.
Grf – sperma di divinità, catarro di feticcio usurato, testa di
cazzo!
Terzo docente universitario – abbiamo un vincitore.
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Fine del confronto
Portatelo via, disse Robert. Le tre donne più alcuni uomini alzano Klaus, gli porgono fazzoletti e altri beni di prima necessità.
Il grf sogghigna dal suo trono. Sei spregevole, disse Robert. Ho
vinto, rispose il grf. Dovrei trascorrere una notte con Cloe o
Sondra. Va bene anche Sonia. Neppure da morta, disse Cloe. Eppure hai un culo che parla, disse il grf. E mi sembra che stia dicendo: toccami. Situazione tesa. Si prova a riportare un po’ di
calma e saggezza. Potresti farglielo toccare, sto culo, disse Robert.
Una palpatina così, tanto per farlo scendere. Non ci penso neppure, disse Cloe. Prova con Sondra, mi sembra più bendisposta.
Sondra acconsente. Il grf scende dal suo trono e palpa gustosamente le chiappe di Sondra. Una mezz’ora buona, anche più. A
Sondra non sembra dispiacere troppo. Il grf ha un’enorme erezione. E va bene, disse il grf, facciamo sta cosa. Andarono in scena.
Primo tempo della rappresentazione
Il grf cambia numerose battute dal copione originale, palpa ripetutamente il fondoschiena di Cloe che interpreta sua madre.
Robert, autore della riduzione, è infastidito e contrariato. Il pubblico sembra gradire. Il grf è su di giri.
Intervallo della rappresentazione
L’intervallo è noioso. Non vale la pena di commentarlo o raccontarlo.
Gran finale della rappresentazione
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La scena cruciale è rappresentata dalla morte di Taylor Hayes,
quinta o sesta moglie di Ridge Forrester. Viene condotta in scena
Sonia, interprete di Taylor, immobile e agonizzante su di un letto
d’ospedale.
Battuta conclusiva di Sonia, interprete di Taylor. Oh Ridge,
amore mio, restami accanto fino all’ultimo.
Euforia del grf. Erezione. Gran soliloquio imperiale screziato
da un’esile vena dialogica.
Oh meraviglia, tu sarai il primo passo verso la conquista della
vita. Quali occhi vorresti vedere in questo teschio scavato dai
vermi del tempo?
Sconforto del grf. Rispondi per dio!
Il grf si rivolge al suggeritore. Non risponde.
Suggerimento del suggeritore. Cristo Walter, è morta!
Subbuglio dietro le quinte. Cosa diavolo sta facendo
quell’idiota? Chiese Robert.
Eccitazione del grf. Entra in scena Thorne Forrester, fratello
di Ridge Forrester.
Eccolo Thorne! Eccolo! Finalmente lo sento! L’amore! Per
lunghi anni è rimasto in attesa, come un fantasma nascosto in una
nube. E adesso mi ha colpito con una grande scure, e mi ha riversato alla deriva d’un torrente invernale.
Ira notevolmente sboccata di Robert, interprete di Thorne. Per
la puttana Walter, cosa cristo stai dicendo? Stupore del grf. Attieniti al copione, vacca di una eva, stiamo interpretando una soap
opera.
Il grf non dà minimamente retta a Robert. Risposta contrastante del pubblico al soliloquio del grf. Ripresa del dialogo con
Taylor.
Quanti giorni ci attendono, amore mio! Ci bagneremo nelle
acque dei fiumi, la brezza subitanea pizzicherà la pelle, una luna
candida al perigeo accoglierà i nostri corpi; imeneo delizioso, soavi cori di satiri ubriachi saranno la nostra marcia nuziale e tutti i
mondi, le vie lattee, gli universi, svaniranno nei nostri cuori come
anelli nell’acqua. Vedo innocenza! Oh sublime tela di nubi e soli
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mattutini, sfilate come modelle, rendete giustizia a quest’anima
gioiosa!
Risposta tra i denti Sonia, interprete di Taylor. Sono morta,
Walter, non faremo nulla.
Parlami, femmina sublime, raccontami ancora del tuo cuore
che pulsa nel petto, raccontami i tuoi sorrisi, i tuoi occhi marini…perché non mi parli? Parlami!
Risate del pubblico. Collera di Robert. Ancora monologo del
grf.
Oh Eolo, soffia via i ruderi di questo contrasto! Mi scagli contro la tua rabbia, colpisci la mia stanza con fiati che sventrano i
muri, vuoi che il mio pigiama vomiti zampilli di fuoco! Ma la tua
devastante ira è una brezza d’aprile al cospetto del silenzio di
donna; parlami, donna! Ogni tuo muto respiro è una bufera che
mi scaraventa a terra, sempre più giù, nel baratro del rifiuto. Oddio sono quel genere di uomo! Parlami, donna, dimmi che mi desideri, finché la notte ci avvolgerà attenderò una tua parola.
Silenzio. Sonia rimane immobile. Suggerimenti del suggeritore.
Walter, Sonia non può parlare perché il copione parla di morte
per arresto cardiaco in conseguenza a un colpo d’arma da fuoco
nei pressi del pancreas.
Dunque mi ha rifiutato. Mi ha rifiutato! Ah patetica gioia che
dazio non paghi agli uomini idioti, lascia questo cuore per sempre
e feconda i mari dell’odio!
Uscita di scena del grf, grandi applausi. Qualche lieve contestazione. Sipario.
Dopo la rappresentazione
Il grf si aspetta i complimenti dei membri della compagnia. Arrivano alcuni riconoscimenti. Alcune ingiurie. Il grf è indispettito
e per protesta sale nuovamente sulla sua pila di ventinove sedie di
plastica. Un po’ di fatica ma alla fine guadagna la sua confacente
posizione sociale. Sotto di lui, i membri della compagnia brindano
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alla riuscita della rappresentazione. Timidi tentativi di far scendere
il grf. Molti uomini iniziano a smontare le scenografie e le luci. I
membri della compagnia vanno a sbronzarsi insieme ai cavalieri e
ai figuranti. Il grf resta sulla sua pila di ventinove sedie di plastica
discutendo col suo ipotetico lacchè. Sono stato grande, suppongo, disse. Grandissimo, disse il metaforico lacchè. D’ora in avanti
esigo che nel pronunziare il mio nome mi si assegnino i miei attributi fondamentali, disse il grf; essi sono: genitivo, metaforico,
rinascimentale. Sarà fatto, grfgmr, ubbidì il metaforico lacchè. Ma
per quale ragione anziché celebrare la grandezza del grfgmr come
suggerirebbe lo svolgimento complessivo degli eventi quel branco
di idioti è fuggito? Chiese il grfgmr. Sono solo andati a prendere il
vino migliore e i bicchieri di cristallo per onorare meglio il
grfgmr, poi tornano, rispose il metafisico lacchè del grfgmr. Ah
mi pareva, disse il grfgmr. Intanto potrei restare quassù, sul mio
trono, e alterare prepotentemente il mio ego, gonfiarlo a dismisura, mutarlo in quello di mille dei, generare altri due o tre mondi,
procacciarmi nuovi seguaci con la sola forza del pensiero, disse il
grfgmr. Mi pare un’ottima idea, rispose l’allegorico lacchè. Potrei
pompare il mio ego per farlo diventare un enorme pallone così da
ricoprire tutta la città, disse il grfgmr. Questa è una citazione?
Chiese l’ipotetico lacchè. Bella e buona, rispose il grfgmr. Lo vedi
quanto sono bravo nelle citazioni? Ho sempre avuto un debole
per queste stronzate. E ho una memoria che solo un grfgmr potrebbe avere. Silenzio. Il grfgmr tenta di pompare il suo ego a dismisura. L’ipertrofismo si sente, si tocca. Ma quanto ci mettono?
Chiese il grfgmr. Dovete avere pazienza, grfgmr, non è che i bicchieri di cristallo e il vino migliore si trovino così facilmente. Nuvole gonfie di pioggia nell’irragionevole cielo di Sabbione. Ira e
allucinazioni del grfgmr. Anche a te sembra di vedere spettri affollarsi al mio cospetto? Chiese il grfgmr al suo metafisico servitore. Mi pare di no, grfgmr. Eppure ci sono, continuò il grfgmr, li
vedo benissimo. Risentimento del grfgmr. Che mi stia rammollendo? Pensò il grfgmr. Ah un tempo. Le mie ginocchia indolenzite si stiravano e viaggiavano per terre sconosciute, come quando
Catone si rivoltò a tutti i Cesari dell’inferno fissando il pallore delle fronti sudate e vagò nomade nelle steppe aurorali. Ebbene io
410
non finirò spirito in Utica e venerando mucchio di ossa sotto un
metro di terra. Tono altezzoso del grfgmr.
Io vissi le avventure più eroiche che uomo abbia mai potuto
narrare. Della storia vidi l’abisso ignoto, della morale rivoltai i
precetti, camminai per anni tra le rovine di città e sospirai alla vista delle forsizie che nel vespro dei vicoli – che dal castello serpeggiano a valle profumando d’immaginazione il mio mondo.
Volli scoprire il senso della vita e l’arte della morale persi in
frammenti di pensiero fra prostitute dell’est e antinferni di ignavi
danteschi uccisi da tafani demoniaci. Perché mi tormentate? Dove
siete, dei, in questo cielo cerebrale? Urlate, dei di ogni cielo e
tempo, urlate! Io son stanco di gridare, arse ho le fauci e frusti ho
gli occhi in attesa del mio Dio. Non verrà Bernardo da Chiaravalle per condurmi nella luce dell’infinito. Infinito! Dovrei sputarci
sopra. Sputo del grfgmr. E alla natura, quel demone sovversivo e
atroce! Due sputi del grfgmr. Il tempo, la storia, l’esistere, verità
logore. Ma dove sono il linguaggio, la storia, Urizen & Thiriel, totem und taboo, la morale? Dove sono il senso e il tempo, la
beaux jeunesse, la religione – das Unendliche? La sapete forse
voi, morti? Maledetti morti. Voi non sapete niente, salmacce di
terz’ordine, cadaveri di serie b, non sapete com’è fatto il mondo
di là e non ricordate com’era questo di qua. Beh, ve lo dico io: è
uno schifo. Altro sputo del grfgmr.
Viene notte e il Grande Re Feticcio Genitivo Metaforico Rinascimentale si addormenta profondamente, precipitando. Tutto intorno a lui il silenzio di Sabbione, fitto e imperscrutabile, interrotto dai brevi sollazzi estivi di qualche pazzo. Dubbi onirici del
grfgmr. Incubo del grfgmr. Domande sottocutanee del grfgmr,
nell’ordine di:
Qualcuno in mezzo a quel branco di idioti sarà in grado di
portare il vino da me ritenuto il migliore?
Sapranno come onorarmi a dovere?
I bicchieri di cristallo saranno sufficientemente puliti?
E resistenti?
Quale parte della mia grandiosa prestazione scenica vorranno
sviscerare?
411
Vorranno autografi?
Fare delle fotografie con me?
Mi applaudiranno o preferiranno urlare a squarciagola il mio
nome?
Sono stanco. Dovrei telefonare al mio agente affinché non
prenda altri lavori per almeno un mese o due?
Dopo questa grande serata la mia privacy sarà ancora garantita?
412
VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (11)
___________________
Il venti agosto, durante la Maratona di Mezza Estate Red
Bull15, Carl E. Gotte, medico chirurgo di quarantacinque anni,
duecentouno centimetri e centododici chilogrammi, si lanciò dalla
terrazza del suo appartamento al dodicesimo piano di un palazzo
con affaccio su Corso Federico II indossando una calzamaglia
arancione, e schiantandosi sulla pensilina della fermata
dell’autobus 44 barrato terrorizzò a morte un’anziana signora e
sconvolse la folla di alunni, genitori e cittadini che era assiepata ai
bordi della strada per applaudire il passaggio dei maratoneti.
La Caratteristica Maratona Cittadina di Mezza Estate è dedicata agli
Aspiranti Suicidi Sportivi: si conclude infatti sotto il Metradòr Building,
la più alta costruzione di Sabbione, dopo i canonici quarantadue chilometri e centonovantacinque metri, gli ultimi quarantaquattro (metri) circa risultando essere la caduta dalla terrazza-tetto del Metradòr. I primi
tre classificati hanno dunque l’onore di Suicidarsi Sportivamente, mentre tutti gli altri debbono fermarsi in cima al Metradòr e accontentarsi di
un suicidio più tradizionale, da espletarsi nei successivi tre mesi secondo le modalità prescelte dall’Aspirante. La Maratona si svolge solitamente in concomitanza con la Giornata dell’Affermazione della Virilità Red
Bull, il cui bugiardino presenta la seguente chiosa:
“Stanco di queste femminucce da quattro soldi che sembrano danzare
sul manto bituminoso delle nostre strade, anziché marciare come soldati sul campo di battaglia? Ogni cittadino è invitato/tenuto ad affermare
la propria virilità in questa giornata in cui dovrete distinguervi procedendo in automobile a velocità folli, sgommando e tirando freni a mano
sul brecciolino delle piazze, ubriacandovi – ma solo dopo aver dimostrato una percentuale di alcol nel sangue superiore al tre virgola cinque
per cento –, partecipando al Campionato Regionale di Braccio di Ferro,
denigrando gli infermi, i gay, i religiosi, indossando scarponi militari,
picchiando una donna. Dopo che avrete intrapreso una di queste azioni
(o durante) potrete riprendere le forze sgolando una lattina di Red Bull
negli stand predisposti in venticinque piazze del Sabbionasso. Potete
crederci, affermare la propria virilità, per es. picchiando una donna,
specialmente in questi tempi, può risultare davvero stancante”.
15
413
Il sangue del chirurgo schizzò tanto lontano da imbrattare la
vetrina del negozio Luis Vuitton, dall’altro lato della strada, alcuni
fluidi e pezzetti del corpo si disseminarono nel raggio di trentanove metri, lordando tra l’altro un paio di alunni di quarta elementare, un semaforo, l’asfalto della pubblica via, un lampione,
una panchina, una betulla e parte del marciapiede.
Il caso fu assegnato all’Ispettore di Nettezza Umana Doroteo
Umbilk, il quale, giunto sul posto, per la prima volta da quando
svolgeva il proprio lavoro, si sentì svenire e dovette dare fondo
alla scorta di whisky di sottomarca in dotazione agli ispettori.
Il medico legale disse che la morte era sopraggiunta per la rottura del cranio, la fuoriuscita del cervello, dodici emorragie interne, la rottura di quattro arti e della spina dorsale, in aggiunta a un
arresto cardiaco. Peraltro il cuore del soggetto, fatto assai curioso,
schizzò dalla parte opposta della strada, e fu recuperato dopo alcuni minuti di ricerca da uno degli agenti accorsi sul posto, che
impiegarono più di quattro ore per rassettare la scena del suicidio.
La calzamaglia arancione, mezza sbrindellata, era in tutto e per
tutto identica a quella indossata dai suicidi abusivi che avevano
preceduto il medico chirurgo.
In una tasca interna del gilet fu ritrovato il solito cartoncino
azzurro riportante il messaggio: troppa sporcizia nei cuori degli uomini.
Gloria al Monaco Arancione.
Doroteo Umbilk indagò per una settimana nel giro di amicizie
di Gotte, cercando indizi che lo potessero condurre al nascondiglio del Monaco Arancione o all’identità di altri suicidi abusivi.
Tentò anche di scoprire le cause che avevano portato il tizio a
rifugiarsi nel Circolo.
Il chirurgo era sposato, in apparenza felicemente, e aveva due
figli: un bambino di tre anni e una bambina di sei.
Incredibile, pensò Umbilk, che si possa giungere a tanto. Voglio dire, pensò, se un padre di famiglia deve ammazzarsi poiché è
la legge che glielo impone, poiché la sua tradizione e la sua moralità lo reclamano, poiché gli è stato pronosticato un fallimento,
una malattia, un’infelicità, allora posso comprenderlo. Ma così è
davvero inconcepibile.
414
Tacque queste riflessioni sul rapporto che presentò al Comando. Scrisse invece che, grazie alla sua passione per la crittografia,
aveva scoperto nell’agenda del chirurgo numerose cifre, le quali
indicavano chiaramente date e luoghi in cui aveva incontrato alcuni individui citati con le iniziali zf (zf1, zf2, zf3, ecc.), probabilmente altri membri del Circolo.
Quando interrogata, la moglie dichiarò che tutti i lunedì suo
marito partecipava a un corso di informatica, di cui fornì
l’indirizzo e i nominativi dei responsabili. Questi dichiararono di
aver ricevuto la quota d’iscrizione da parte del chirurgo, ma di
non averlo mai visto a lezione in nessuno dei dodici lunedì del
corso.
Le indagini successive non condussero a molto, ma tanto bastò
affinché il Comando redigesse una nota di merito all’Ispettore
Doroteo Umbilk, il quale trascorse un paio di notti al Burundanga
Bar, un famoso locale del centro, dove si sbronzò e andò a letto
con una puttana bielorussa.
***
415
SOSPESI
Me ne andai sul set del mio nuovo film per guadagnare i soldi
e garantire a me e alla mia famiglia un tenore di vita adeguato.
Avevano dipinto le pareti di rosso durante la notte. E predisposto
la scenografia con quattro banchi e una cattedra. Anche una cartina geografica e alcuni disegni alle pareti, poiché ciò di cui volevano rendere l’idea era l’aula di una scuola. In cui una professoressa fornicava di continuo con gli alunni. C’erano anche delle
alunne. Alunne tutte molto bionde, molto porche, molto alunne.
Meglio tirarsi un colpo di rivoltella o impiccarsi al ventilatore
in stanza da letto? Ma perché causare motivo di imbarazzo alla
donna di servizio? Perché tutto quello spargimento di sangue?
Meglio l’impiccagione, dove la sporcizia è ridotta al minimo. Comunque piacevole trovarsi alle dieci di mattina col pene infilato
nella vagina di una estone denominata Bambi Love, in un’aula
con le pareti rosse. Con grandi cartelli che dicono METTETEVI A
NOVANTA e SCENA DI SESSO ANALE SULLA CATTEDRA. E tutta
una schiera di tecnici delle luci, del suono, cameramen, truccatori.
Vado come un treno, e devo ringraziare gli interventi delle succhiatrici professioniste. Ho a disposizione uno stuolo di nove
succhiatrici, ma per questo lavoro preferisco affidarmi a Debby.
Lei mi fa venire un paio di volte prima di cominciare a girare e io
risolvo il mio problemino.
È chiaro che Bambi Love è un nome d’arte. D’altronde
anch’io ne ho uno, ed è Brad Pittbull. Nel nostro mestiere il nome d’arte è fondamentale.
E se invece mi lanciassi da un ponte? Il Dipartimento Nettezza Umana ne sarebbe felice. Molto peggio quelli che si lanciano
dai palazzi, i cui resti si spappolano sul suolo pubblico e costringono gli agenti della nettezza umana a veri e propri tour de force
di pulizia. Del resto preferisco farlo a casa mia, con i miei oggetti,
le mie cose.
416
Nella posizione della carriola. Forse potrei uscire a cena con la
vicina di casa. La porterei al giapponese per mangiare tutti quei
pesci giapponesi guarniti col riso giapponese e per dessert un bel
dolce giapponese col liquore giapponese. Sarebbe certamente una
serata piacevole. E giapponese. So che lei adora le popolazioni
orientali. Con le mani sulle enormi tette di plastica di Bambi Love
durante una posizione complicata del Kamasutra. Per colazione
avrei avuto voglia di un’ala di pollo arrosto con una mezza dozzina di patatine fritte. La cameriera di produzione non aveva un
aspetto incoraggiante. “Non abbiamo pollo arrosto per colazione”, disse. Mi sembrò maledettamente scortese non tenere pollo
arrosto per colazione. Mi sono adeguato con una tazza di latte intero e tre croissant.
Bambi Love me lo succhia con voluttuosità, sguardo fisso alla
telecamera, mano destra ben salda sui testicoli, mano sinistra a taglieggiare i miei pettorali cremosi con quelle unghie laccate di
verde e giallo.
La mattina che andai all’agenzia divinatoria incontrai un vecchio amico che mi domandò cosa facessi per vivere. Io gli risposi
che in quel momento il mio unico pensiero era rivolto a come
avrei fatto a morire. Simpatico, no?
Prendendo Bambi Love da dietro, schiaffeggiandole una
chiappa con inscenata cattiveria, mentre il regista urla di darci
dentro, che cristo, quella è la mia professoressa di francese, e io
sono negato per il francese. Gradevole la tonalità di colore che si
sprigiona dalle pareti del set quando i tecnici delle luci adottano
un’illuminazione soffusa.
In fondo un bel colpo di rivoltella sarebbe un metodo rapido e
indolore, a quanto dicono. Sebbene il gas, da questo punto di vista, risulti imbattibile. Ti addormenti e pum, semplicemente non
ti risvegli.
La raccomandata verde-viola diceva:
Caro concittadino,
Come certamente saprai, un divinatore pubblico (o un divinatore
privato riconosciuto dal Ministero Suicidi & Festività®), ha formulato
un pronostico secondo cui nei prossimi dodici mesi la Tua esistenza sa417
rà compromessa da malattia o decesso, oppure sarà giudicata socialmente inutile, pleonastica, deleteria.
Pertanto, come da Programma Gerarcale Autoeliminazione Esseri
Umani, Sei pregato di comunicarci la data e il luogo del Tuo anticipo
di morte – come da clausola 99 del Codice Norme Gerarcali –, affinché il gabinetto competente possa provvedere a inviare due Verificatori
in grado di certificare la validità del Tuo suicidio®, il quale, Te lo ricordiamo, potrà avvenire nel luogo e secondo le modalità da Te scelte
(purché convalidate dal Manuale), ma tassativamente entro mesi tre dal
ricevimento della presente comunicazione.
Buon Suicidio®, caro concittadino!
Mentre ci spostiamo per la nuova posizione sto seriamente valutando l’ipotesi di iscrivermi a un corso di dattilografia. Suppongo che una buona dattiloscrittura abbia ripercussioni
sull’ispirazione.
Ma siamo proprio sicuri che una rivoltellata sia indolore? Chi
l’ha fatto non è più tra noi per raccontarcelo, o almeno credo.
Con Bambi Love sopra di me. Devo afferrare i suoi seni di
plastica, morderle il collo, dimenarmi come un ossesso. Per pranzo mangerò senz’altro l’ala di pollo negatami a colazione. In alternativa potrei dirottare su una milanese di vitello con patate al
forno. Sempre che sia bella sottile e croccante, come la cucinava
mia madre.
Elimino la rivoltella definitivamente, troppo sangue. Sto rivalutando l’idea dell’impiccagione. Esistono dei corsi che insegnano
a causare la rottura del collo anziché il soffocamento.
Quest’ultimo, dicono, è davvero pietoso, giacché costringe il corpo ad agitarsi per tre minuti buoni, prima che sopraggiunga la
morte. Il soffocamento è necessariamente da evitare.
Sempre meno piacevole dopo un’ora e mezza trovarsi col pene
infilato nell’ano di Bambi Love. Credo che sia addirittura infiammato. Lei del resto non ha esattamente l’espressione celestiale che
dovrebbe avere una professoressa scopata a sangue dal proprio
alunno ribelle. Il copione parla di “godere in francese”, e non è
facile. Anche se, ci tiene a sottolinearlo, ha fatto le scuole.
418
Sfogliando l’Orario Aggiornato dei Trasporti Urbani in una
pausa nelle riprese. Interessante scoprire gli orari dei tram e degli
autobus. Il quattordici barrato passa alle 18.03. Il sette delle 18.19
sarebbe perfetto, forse un po’ troppo affollato. Ma nei festivi,
senza pendolari, è molto più tranquillo, al contrario del ventinove,
che è preferibile nei giorni feriali. E se mi gettassi sotto il quattordici barrato delle 18.39? I tram di ultima generazione garantiscono il suicidio® con una probabilità che si attesta al novantasette
percento.
Il cocktail di farmaci mi sembra fuori discussione. Si sta facendo sempre più piede l’ipotesi di iscriversi al corso di impiccagione. Penetrando violentemente Bambi Love. Ripete la joie venait
toujours après la peine e con lo sguardo punta in direzione della telecamera. Innaffierei l’ala di pollo con un bel bicchiere di vino rosso. O sarebbe preferibile del vino bianco? Quando Ann Lee mi
domandò se avessi desiderato un bambino le risposi che sì, lo
avrei desiderato. E quando Ann Lee domandò se desiderassi concedere il mio seme in esclusiva al suo utero io risposi di no, poiché non avrei potuto garantirle un tenore di vita dignitoso col
mio dottorato di ricerca su San Bonaventura da Bagnoregio.
Dove appendere il cappio? Insegneranno queste cose al corso
di impiccagione? Un ventilatore a soffitto reggerà il mio peso?
Oppure dovrò chiamare un fabbro affinché installi un apposito
gancio? Mi piacerebbe farla finita in cucina, anche se non è il
massimo dell’igiene. Ci sarà qualcuno disposto a comprare il mio
appartamento quando saprà che il precedente proprietario si è
impiccato in cucina? Nella loro nuova cucina? Non temeranno
che lo spettro di un attore pornografico si possa aggirare per le
stanze?
Grandi cartelli multicolore si stagliano sulle pareti rosse. Dicono: SFORZO CONCLUSIVO, ESPRESSIONE AFFATICATA, ORGASMO
FLUVIALE. In realtà credo sarebbe meglio fare tutto in camera
mia, con un po’ di musica. Quando le domandai se avrebbe ancora acconsentito a vivere con me Ann Lee rispose che no, non
avrebbe acconsentito. E quando la pregai di restare in
quell’appartamento dai muri gialli e col pavimento di legno chiaro
419
lei disse: non avrei mai creduto che saresti stato capace di rovinarci le vite in questo modo.
Spingendo come un forsennato nella vagina di Bambi Love.
Credo che a pranzo aggiungerò una coscetta di pollo e che stasera
andrò a iscrivermi al corso di impiccagione insieme alla vicina di
casa, prima di andare al ristorante giapponese.
Dopo che effettivamente una bambina nacque – dopo anni di
tentativi – Ann Lee volle che io non fossi il suo papà. Il consulente ci fece sedere in un salotto e disse: “cercate di ricordare come
vi sentivate quando provavate amore l’uno per l’altra”. Non ci
riuscimmo. La bambina aveva proprio l’aspetto di una bambina.
Ma occhi azzurri e sorriso da bambina bellissima. Qualcuno la
chiamò Julie. Io ottenni di vederla tre giorni l’anno, intorno ai
primi di novembre. Dissero che dovevo sentirmi privilegiato.
Sentendo sopravvenire l’orgasmo. Esco dalla vagina di Bambi
Love, la quale sta effettivamente ululando in francese demotico.
Me lo prende in mano e prova a spremere tutto quel che ho da
offrire.
Celebrando la Giornata della Ginnastica Correttiva Ikea: dovrei applicarmi di più nello svolgimento di alcuni esercizi fisici,
ma mi sento svogliato.
L’orgasmo è un vero flop. Solo una misera circolazione di
sperma dalle parti botuliniche di Bambi. Quando l’andrologo mi
domandò se per caso fossi cresciuto in una famiglia oppressa dai
rovinosi tabù della civiltà cristiana io risposi di sì, allora lui disse
che l’eiaculazione precoce poteva derivare da un senso di colpa
atavico in contrapposizione a un piacere sessuale troppo prolungato. Adesso potrò finalmente dirigermi alla mensa e concedermi
l’ala di pollo? Sul set si sentono le urla e le imprecazioni del regista, mentre Bambi con un accesso di zelanteria cerca di estrarre
tutto il seme di cui necessita.
Il suicidio abusivo dei Padri: esso è, a prima vista, un atto di
estrema vigliaccheria, ma possedere un pene conduce ineluttabilmente nel tunnel di una responsabilità che l’uomo non è pronto a
fronteggiare.
Nel mio appartamento luminoso penso al corso
d’impiccagione; stendo il bucato ascoltando Simon & Garfunkel a
420
piedi nudi sul mio pavimento di legno. La pioggia mi rende felice,
ma non so perché.
421
VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (12)
___________________
Il ventitré settembre, Giornata della Morte Apparente Plasmon, il Comando affidò agli ispettori Umbilk e Traumerei il
compito di redigere un documento riportante le statistiche percentuali sulla prassi dei suicidi abusivi che la città aveva patito durante
gli ultimi mesi.
Umbilk non aveva mai lavorato con Traumerei, ma l’idea di indagare il malessere umano mediante indagini matematiche lo
coinvolse subito. Traumerei, al contrario, riteneva che
quell’indagine si sarebbe tramutata in una somma perdita di tempo. Inoltre non gradiva troppo lavorare con colleghi più giovani e
attraenti di lui.
Ciononostante i due lavorarono insieme per più di due mesi, ritagliando articoli e accaparrando materiale video, setacciando gli
archivi del Dipartimento e interrogando nuovamente i parenti dei
suicidi, al termine del quale riportarono i risultati in un file Power
Point corredato da numerose fotografie e meticolosi grafici
(l’elaborazione fu curata da un’amica di Umbilk), che palesarono i
seguenti dati:
Tra i suicidi abusivi, il settantaquattro percento ha scelto la precipitazione.
Di questi, il settantanove percento si è lanciato dalla sommità
di un palazzo, il dodici percento da una torre medievale storica, il
cinque percento dalla finestra/terrazzo della propria abitazione, il
due virgola cinque percento dalla finestra/terrazzo del posto di
lavoro, l’uno virgola cinque percento da un ponte.
Il settantacinque percento dei precipitati si è lanciato di giorno,
il venticinque di notte.
Il sessantotto percento dei precipitati si è tolto le scarpe prima
di lanciarsi, il restante trentadue percento non l’ha fatto.
Il tredici percento dei suicidi abusivi ha scelto un colpo d’arma
da fuoco in pubblico.
422
Di questi, il novantuno percento ha utilizzato una rivoltella caricata con proiettili speciali, il sette percento ha utilizzato un fucile,
il due percento si è fatto esplodere con plastico indossato
all’interno di un apposito giubbino.
Il nove percento dei suicidi abusivi ha scelto di gettarsi sotto o
contro un mezzo di trasporto pubblico o privato.
Di questi, l’ottantaquattro percento si è gettato sotto o contro
un mezzo pubblico (sessantuno percento tram di ultima generazione, trentadue percento autobus, sette percento taxi), mentre il
sedici percento ha scelto un mezzo di trasporto privato (ottantatré
percento furgoni e camion, diciassette percento automobili).
Il restante quattro percento dei suicidi abusivi può ascriversi
sotto la voce ‘altre modalità’, che comprende l’utilizzo di armi
bianche (coltelli, lamette, pugnali, sciabole, in un caso una scimitarra), l’annegamento, l’incendio, l’avvelenamento, l’impiccagione.
Per quanto riguarda le professioni, il settantaquattro percento
dei suicidi abusivi praticava, professionalmente o come hobby,
una qualche forma di arte.
In undici casi si trattava di scrittori e poeti di mezza tacca, tutti
iscritti a un’assurda (o perlomeno, a Umbilk sembrò assurda) associazione chiamata Confederazione degli Scrittori Che Odiano Almeno
Una Specie Animale.
Tra quelli che praticavano qualche forma d’arte per hobby
c’erano sei liberi professionisti (quattro dei quali avevano abbozzato almeno un romanzo, gli altri due avevano provato a incidere un
disco pop), cinque impiegati pubblici (tre avevano abbozzato un
romanzo, due tenevano un blog sul quale pubblicavano quasi quotidianamente poesie che Traumerei definì merdose), tre muratori
(uno di essi aveva pubblicato a pagamento un libretto di poesie),
sette disoccupati (tutti avevano tentato esperienze narrative e/o
pittoriche, con risultati incredibilmente scadenti).
Soltanto uno dei suicidi abusivi era uno scrittore professionista
(e pure dotato di talento, almeno a quanto appresero dalle ricerche
su internet).
423
Umbilk e Traumerei presentarono il loro studio statistico un
mercoledì mattina, 27 novembre, Giornata dell’Onanismo Disciplinato Scottex® (Giornata Solo Maschile™)16.
I vertici dell’Ufficio Statistiche del Ministero Suicidi & Festività® si dissero molto soddisfatti del lavoro e dopo avergli dato
un’occhiata piuttosto distratta lo archiviarono nel vano 27 C del
Magazzino 18 A, ubicato nei sotterranei del Palazzo Ottagonale,
dove nessuno lo avrebbe mai più ritrovato e letto.
L’efferata immoralità con cui i maschi sabbionassi accolsero e - per
così dire – sfruttarono, le prime due edizioni della Giornata
dell’Onanismo, facendo sfoggio di turpitudini inimmaginabili e di pratiche pornografiche / masturbatorie ai limiti dell’autolesionismo, costrinsero i compilatori del Calendario Ricreativo Promozionale HCE a modificarne la dicitura in Giornata dell’Onanismo Disciplinato, accompagnandola da un bugiardino che metteva in guardia da ogni forma di esagerazione o esasperazione; durante l’ultima edizione il bugiardino recitava
così: “durante la [...] ogni cittadino sabbionasso è invitato/tenuto a disperdere il proprio seme volontariamente, non soltanto riferendosi
all’uso comune contemporaneo del termine onanismo, ovvero tramite la
pratica della masturbazione, ma anche e soprattutto riferendosi al suo
significato teologico, ovvero tramite la pratica dell’accoppiamento con
esseri umani del sesso opposto e la susseguente dispersione del seme”.
Seguiva una lunga interpretazione biblica di Er e Onan, figli di Giuda,
un commento sulla legge ebraica del levirato e una delucidazione sul
coitus interruptus. Infine, ricordava il bugiardino, “tutti i gadget di giornata – studiati per stimolare il tema –, distribuiti presso i presidi Scottex® o spediti a casa, recheranno un’Avvertenza che ogni cittadino dovrà tenere ben presente, poiché un conto è l’onanismo praticato con
goduria sfrenata e lubrica sfrontatezza, un altro è l’onanismo praticato
con un certo sottile senso di colpa o di rimorso da intendersi quasi, ma
non completamente, cattolico”. Quest’ultima considerazione convinse
successivamente i compilatori del Calendario Ricreativo PromozionaleHCE a indicizzare la giornata come Giornata dell’Onanismo Disciplinato Secondo Canoni Morali Scottex® (Solo Maschile™).
16
424
Traumerei finì al Burundanga Bar per un pomeriggio a base di
scopolamina.
Umbilk approfittò dell’assenza della moglie per godersi la
Giornata dell’Onanismo, gustandosi il gadget che la Scottex® aveva inviato a migliaia di famiglie sabbionasse, nonché distribuito in
tutti i punti informativi disseminati per la città.
Il gadget era un dvd contenente un megamix di scene pornografiche tratte dalle più celebri produzioni Hard degli ultimi anni,
confezionato in una specie di carta da cucina Scottex® (allegato al
gadget vi era anche un rotolo Jumbo di carta assorbente multiuso
– 400 maxi-strappi per una maxi-durata).
Umbilk inserì il dvd nel lettore, organizzò sette strappi di carta
da cucina sul divano e si dispose a celebrare la Giornata da buon
cittadino.
La schermata introduttiva riportava un’Avvertenza, che Umbilk
cercò di saltare premendo il tasto dello scorrimento veloce sul telecomando, ottenendo come risposta la comparsa dell’avviso non
permesso attualmente.
L’attesa prima che l’Avvertenza sparisse fu di dodici minuti,
rendendo praticamente impossibile evitare di leggerla.
Cari Cittadini Sabbionassi, Scottex® ha il piacere di augurarvi una
buona Giornata dell’Onanismo Disciplinato Secondo Canoni Morali!
Il materiale che segue e che intendete vedere, avendo voialtri ricevuto il dvd nell’ambito della Giornata dell’Onanismo Scottex®, è
ricco di quei termini che una buona madre sabbionassa definirebbe
disgustosi e di quelle azioni che, sempre una buona madre sabbionassa, definirebbe ripugnanti – per quanto io ritenga, ne converrà
il cittadino più attento, che i due termini siano sinonimi e anzi, direi praticamente equivalenti – e poiché l’autore di questa Avvertenza non ha alcuna intenzione, lo dico davvero, di passare un
quarto d’ora a dare spiegazioni a sua madre o a qualunque altra
madre sulla faccia della terra, ritiene, l’autore, di avvertire il consumatore che il materiale che segue è ricco di termini disgustosi e
425
di azioni ripugnanti, il che vuol dire che se siete la madre (o il padre) di qualcuno, o se siete un prete o una suora o un qualunque
esponente maschio o femmina di una qualunque religione riconosciuta, o magari uno studioso di etica, un tipo piuttosto intransigente o un americano, insomma se siete una qualsiasi di queste cose,
non dovete assolutamente proseguire nella visione.
Se non appartenete ad alcuna di queste categorie e se siete davvero
intenzionati a continuare la visione per celebrare degnamente la
Giornata dell’Onanismo Disciplinato Secondo Canoni Morali, oppure se non ne potete fare a meno, perché per esempio siete seduti
sulla poltrona del vostro salottino e avete già preparato la carta assorbente (oltre al rotolo Jumbo accluso al presente dvd, Scottex® vi
invita a testare l’efficacia della sua ineguagliabile gamma di prodotti Teresita et alia: Scottex® Casa Cartaspugna con le nuove decorazioni colorate, Scottex® Gigante Double Face con lato esterno
delicato e assorbente e lato interno studiato per combattere lo sporco più ostinato, Scottex® Tovaglioli a Doppio Velo Decorati, con
decorazioni tartan, Scottex® Karitè, l’unica carta igienica con balsamo estratto dall’albero africano del karité, Scottex® Fazzoletti,
disponibili nei formati P10, P12, P36, P48, P56, e moltissimi altri
prodotti disponibili sul nostro sito scottex.com) per una eventuale
masturbazione che casomai avreste pensato di praticare, allora direi che potete proseguire nella visione, salvo il caso in cui vocaboli
come troia o puttana, pompino o leccata di culo vi procurino una
spiacevole sensazione di inquietudine, per cause che non sta a me
sviscerare, oppure il caso in cui siate una di quelle persone a cui dà
profondamente fastidio pensare che la propria ragazza possa civettare col proprio fratello, spogliarlo, tirargli un pompino coi fiocchi
e dopo averlo già steso solo con la lingua, lo possa amare urlando,
durante l’atto cosiddetto sessuale, per ben sette volte il vocabolo
scòpami, per quattro il vocabolo fòttimi e soltanto per due, per motivi che non ho ben presente, il vocabolo chiàvami, dopodiché segue, credetemi sulla parola, una serie di altre azioni ripugnanti che
eviterò di elencare, e tali azioni mentre la persona a cui dà profondamente fastidio che tutto ciò avvenga è nella stanza di sopra per
un curioso attacco di diarrea, o di singhiozzo acuto, o di mal di
denti o di appendicite o insomma non lo so, quello che volete voi.
Perché il discorso qui è semplice: se siete quel genere di persona
che non si fa sconcertare dalle suddette azioni, che io non citerò
426
più perché io non sono quel genere di persona (che siete voi), allora potrete tranquillamente sopportare donne che si lasciano penetrare da asini e cavalli, vecchie pelose raggrinzite che si fanno allegramente sbattere da giovani down e allegoricamente portano un
messaggio sociale di gran lunga migliore di tutti quelli a cui voi e
io siamo abituati.
Devo avvertirvi, concittadini, che l’autore di questa Avvertenza è
stato cresciuto da genitori che l’hanno indirizzato all’educazione
cattolica, e nella parte che segue troverete espliciti riferimenti ad
azioni torbide commesse da membri di questa fenomenale Santa
Congregazione; non mi riferisco a stermini o a condanne di varia
natura, quelle pur commesse dalla suddetta Santa Congregazione,
ma a copule e fornicazioni d’ogni sorta consumate da esponenti altolocati di quella famosa associazione di idee, dogmi e rivelazioni.
E così vi capiterà di osservare copule di gruppo tra sacerdoti, suore, frati, vescovi, chierichetti, e ancora gente che si piscia in bocca
l’un l’altra, defeca sul corpo di una donna, punzecchia, brucia, taglia e squarta la carne di giovani impiegate di banca bionde o brune, qualche volta (in una circostanza) rosse. Nella migliore delle
ipotesi. Perché avrete a che fare con ben altro. E Biancaneve sodomizzata dai sette nani vi sembrerà il passato remoto della pornografia al confronto di ciò che vedrete nel materiale che segue, ricco
di sirenette transessuali, di principi azzurri assolutamente froci o,
se preferite, omosessuali, o se ancora non vi va bene, diversamente
intendenti la sessualità comune. Perfino i puffi e i Pokemon! Chi
resta ancora da sverginare e inculare, adesso? I santi e i cherubini, i
troni, le dominazioni, Iddio stesso?
Per tutte queste ragioni i compilatori del nostro amato Calendario
Promozionale Ricreativo hanno imposto che io scrivessi questa
avvertenza, carissimi cittadini.
Il Governo pretende che voi guardiate il materiale che tra pochi
minuti comparirà sugli schermi dei vostri televisori, o dei vostri pc,
eppure lo stesso Governo vi lancia un ammonimento: chi proseguirà nella visione di questo dvd non potrà che rimanere esterrefatto,
sconvolto, turbato; chi tra voi non resterà esterrefatto, sconvolto o
almeno turbato dovrà reputarsi un uomo cattivo e immorale, e non
avrà degnamente celebrato il tema di oggi.
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Buona Giornata dell’Onanismo Disciplinato Secondo Canoni Morali Scottex®, Cari Cittadini!
La visione del presente dvd in qualunque giornata diversa dalla Giornata dell’Onanismo Disciplinato Secondo Canoni Morali Scottex® sarà considerata indegna, vergognosa, spregevole. Il cittadino che dovesse ritenere opportuno praticare l’onanismo indisciplinato e selvaggio al di fuori della suddetta giornata sarà giudicato un Cattivo Cittadino, e risponderà della
sua scelleratezza davanti a Dio e al Gerarca del Sabbionasso, nei termini e nei modi che saranno definiti caso per caso.
Durante le due ore di proiezione Umbilk dilapidò una quantità
di sperma che si calcola avrebbe potuto generare dai diciannove ai
venticinque bambini perfettamente sani, ma non se ne pentì affatto, intuendo di essersi comportato da buon cittadino sabbionasso.
428
UN POSTO BRUTTO, ILLUMINATO MALE
L’addetto si è presentato a casa nostra per riscuotere l’assegno
mensile dell’assicurazione proprio nel bel mezzo di un litigio.
Non ricordo di preciso quale fosse l’oggetto della discussione,
ma non doveva essere niente di che.
Barbara ha fatto appena in tempo a tirare su il copridivano da
terra ed è corsa in bagno per darsi una sistemata.
Io ho aperto la porta e ho fatto accomodare il tizio in soggiorno. Stava per fare buio, così ho acceso la luce.
Il tizio non ha detto molte parole. Ha trafficato un po’ con la
sua valigetta e si è schiarito la voce come se stesse per dire qualcosa, ma poi non ha detto niente.
Comunque sembrava che filasse tutto liscio.
“Prende un drink?”, ho chiesto.
Lui mi ha sorriso e mi ha fatto cenno di no.
Quando è tornata, Barbara si è seduta al tavolo con noi è s’è
messa a rovistare nella sua borsetta per cercare il libretto degli assegni. Non ha neppure salutato il tizio, che nel frattempo aveva
appoggiato una cartellina nera sul tavolo e la stava sfogliando
senza dire una parola.
Ho provato a fare un po’ di conversazione.
“Fa molto freddo?”, ho chiesto.
“Non particolarmente”, ha risposto il tizio senza abbassare lo
sguardo dalla cartellina.
“Oggi sono di riposo e non ho ancora messo piede fuori casa”, ho detto; così, per rompere il ghiaccio.
Barbara stava ancora rovistando nella sua borsetta.
“Capita sempre così”, ho detto, “quando cerchi qualcosa”.
429
Il tizio ha smesso di sfogliare la cartellina, ha controllato il
numero di polizza, ha staccato un tagliandino e ha guardato Barbara alle prese con la sua borsetta.
“È colpa di questa dannata luce”, ha detto Barbara.
Il tizio si è guardato un po’ intorno.
“Cosa vuoi dire?”, ho chiesto io.
“Voglio dire che questo posto è triste”, ha detto Barbara. “È
un posto brutto, con questa luce triste che rende ogni cosa triste”.
L’addetto dell’assicurazione ha ritirato la cartellina nella sua valigetta ventiquattrore.
“Come possiamo pretendere di essere felici quando ogni cosa
che tocchiamo è illuminata da questa luce orribile?” ha chiesto
Barbara. E poi ha aggiunto: “Quando ogni nostro gesto è illuminato da una luce tanto fredda e grigia?”.
“Non mi pare il momento di discutere del nostro lampadario,
tesoro”, ho detto.
“Non è mai il momento per discutere della nostra bruttezza”,
ha detto Barbara.
Il tizio ha spostato leggermente la sedia all’indietro. Le gambe
della sedia hanno sfregato sul pavimento. Non sembrava un rumore particolarmente fastidioso, ma in quel momento mi è parso
intollerabile.
“Guardati intorno”, ha detto Barbara. “C’è una ragione per cui
niente di tutto ciò funziona”.
“E quale sarebbe?”, ho chiesto io. Mi sentivo un groppo in gola. “Quale sarebbe questa ragione?”, ho ribadito.
Barbara è rimasta in silenzio.
Mi sono alzato per prendere un bicchiere e qualcosa da bere.
“E a cosa ti riferisci quando parli di tutto ciò? Tutto ciò cosa?”,
ho chiesto mentre mi versavo un goccio.
“La ragione è il luogo in cui viviamo”, ha detto Barbara.
“Nessuno potrebbe essere felice in un simile posto”.
“Non ti pare di esagerare”, ho detto.
“E tutto ciò sono le nostre vite”, ha detto Barbara. “Tutto ciò di
cui abbiamo sempre pensato di non poter fare a meno. Le nostre
vite intrecciate insieme. Noi siamo questo soggiorno, siamo questo lampadario”.
430
Non riuscivo a capire dove volesse andare a parare.
“D’altra parte non è colpa di nessuno”, ha detto. “Non te ne
do colpa. La colpa è del destino”.
Ha provato ad accendersi una sigaretta, ma non ci è riuscita.
Quel suo accendino dava sempre delle noie.
“Sarebbe meglio pagare l’assicurazione”, ho detto io.
“Adesso ti interessi della mia assicurazione. Ma quando mi hai
umiliata davanti ai miei amici non ti interessava nient’altro che te
stesso, come sempre”, ha detto Barbara.
“Tesoro, di cosa stai parlando?”, ho chiesto.
“Credevi che me ne sarei dimenticata?” ha detto lei; “c’era
questa stessa luce orribile. Una luce che ti entra nel midollo del
cuore, ti trafigge la carne. Eravamo seduti qui. E mi hai umiliata
proprio di fronte ai nostri amici, ingoiando una tartina, bevendo
quello stupido vino”.
Il tizio dell’assicurazione ha guardato in direzione del lampadario. Un’occhiata fuggevole, per non farsi vedere. Poi è rimasto
con lo sguardo incollato al tagliandino che aveva appoggiato sul
tavolo. Si vedeva che stava provando a far finta di niente.
“Il fatto è che qui dentro è tutto orribile. Mi metto un chilo di
trucco per sembrare ancora desiderabile, ma non ci riesco, questa
casa mi imbruttisce”, ha continuato Barbara.
“Non sarà la casa che avresti voluto”, ho detto, “ma è pur
sempre una casa”.
“Mi vergogno a far venire mia madre”, ha detto Barbara. Poi
ha guardato il tizio dell’assicurazione e ha provato di nuovo ad
accendersi la sigaretta.
“Una volta ero talmente sciocca che questo soggiorno mi
sembrava accogliente”, ha detto, “e si guardi un po’ in giro adesso: sembra la corsia di un ospedale, o la sala d’aspetto di un pronto soccorso. Non mi viene in mente un solo posto accogliente
sulla faccia della terra che potrebbe essere illuminato da una simile luce”.
Il tizio dell’assicurazione non ha detto niente. Ha annuito, per
cortesia, senza proferire parola.
“Tesoro”, ho detto.
431
“Non chiamarmi tesoro”, ha detto Barbara. “Guarda il soffitto, cazzo”.
Finalmente è riuscita ad accendersi la sigaretta. Mi sembrava le
tremasse la mano.
“Che cos’ha il nostro soffitto?”, ho chiesto.
“Non lo vedi? È marcio. La luce lo rende marcio. L’umidità ci
sta consumando il colore. Perfino la mia voce è roca, con questa
luce del cazzo”.
“Adesso calmati”, ho detto.
“Non mi calmo per niente”, ha detto lei. “Cosa ne pensa di
questa luce?”, ha poi chiesto al tizio dell’assicurazione.
Si vedeva benissimo che il tizio non aveva neppure un’opinione,
sulla nostra luce. Lì per lì ho perfino creduto che volesse alzarsi e
andarsene. Avrebbe fatto bene. Invece si è di nuovo schiarito la
gola, poi ha detto: “Forse non è proprio il massimo”.
Fino a quel punto non avevo notato quanto fosse giovane.
Cristo santo, avrà avuto vent’anni. Ho cominciato a pensare cosa
potesse passare nel cervello di un giovane di vent’anni alle prese
con quella discussione assurda sulla luce del nostro soggiorno.
Barbara ha fatto un lungo tiro di sigaretta, poi ha ricominciato
a rovistare nella borsetta. Sembrava che volesse piangere, e forse
sarebbe stata la cosa più conveniente.
“In che modo ti avrei umiliata?”, ho chiesto a Barbara.
“Ormai non te ne rendi più nemmeno conto”, ha detto lei. “È
questa luce. Ogni cosa che ci diciamo è avvolta dalla sua bruttezza; è come se la luce si attaccasse alle parole per renderle pesanti”.
Il tizio dell’assicurazione ci stava guardando. Non sembrava
particolarmente turbato dalla nostra conversazione. Ogni tanto
alzava lo sguardo e ogni tanto lo abbassava. Aveva cominciato a
giocherellare con una penna a sfera che aveva tirato fuori dal taschino della giacca.
Mi sono acceso una sigaretta e ho buttato giù un bel po’ di
scotch.
Laura aveva cominciato a svuotare la sua borsetta sul tavolo.
“Ci vorrebbe così poco”, ha detto.
“Ci vorrebbe così poco per cosa”, ho chiesto.
432
“Ci vorrebbe così poco”, ha ripetuto. “O almeno è ciò che
pensavo. Ma sono i particolari più banali a essere i più difficili da
aggiustare”.
“Non ti ho chiesto io di venire a vivere in questa casa”, ho
detto.
“No”, ha detto lei, “è questa casa che ci ha inghiottiti”.
Ha spento la sigaretta in una tazzina da caffè.
“Questo incessante riverbero smorto si è mangiato la nostra
vita”.
Ci siamo messi a guardare le cose che uscivano dalla borsetta
di Barbara.
Sul tavolo c’erano un set di trucchi, una spazzola, uno specchietto, il portafoglio, dei kleenex, un pacchetto di fazzoletti, il
tubetto del burrocacao, le chiavi della macchina.
Ho fatto per fermarla, ma non c’è stato verso.
Ha continuato a svuotare quella dannata borsetta sul tavolo,
proprio davanti al naso del tizio.
“Si può sapere cosa stai facendo?”, le ho chiesto.
“Mi svuoto”, ha risposto.
C’è stato un momento di silenzio piuttosto lungo. Ho sentito il
cane dei vicini guaire, l’ascensore mettersi in funzione. Poi ho
cominciato a fissare il lampadario.
“L’unica cosa che è davvero illuminata è la nostra ombra”, ha
detto Barbara.
Non ne potevo davvero più di questa storia.
“Se preferite posso passare un’altra volta”, ha detto il tizio
dell’assicurazione.
Lo ha detto in maniera molto delicata, come se fosse molto imbarazzato.
“Certo che no”, ho risposto io.
“Guardami le mani”, ha detto Barbara. “Avanti, guardatemi le
mani”. Le ha messe in bella mostra, tenendo le braccia distese sul
tavolo con i palmi sul ripiano.
Sia io che il tizio abbiamo guardato il dorso delle sue mani.
“Sono mani consumate dalla bruttezza. La mia pelle fa schifo.
Non c’è un solo lembo del mio corpo che non sia invaso dalla
banalità di questa luce bianca e sporca”.
433
“Adesso falla finita”, ho detto io.
Lei non ha detto niente. Si è versata qualcosa da bere, ha acceso un’altra sigaretta.
Sono andato in camera a prendere il mio libretto degli assegni;
avevo una cosa da dire ma non riuscivo a trovare le parole adatte
per dirla.
Quando sono tornato mi sono fermato a osservare il tavolo
del soggiorno, il tizio dell’assicurazione che giocherellava con la
penna a sfera, mia moglie che aveva cominciato a piangere. Su di
loro gravava il peso di quella stramaledetta luce opaca, ospedaliera, che era rimasta la stessa dal giorno in cui avevamo trovato
questo appartamento in affitto; il fumo della sigaretta aveva formato un secondo soffitto morbido e malleabile, e il nostro soggiorno non mi era mai sembrato così tranquillo e gelido.
“Quanto fa?”, ho chiesto al tizio.
“Non voglio che paghi la mia assicurazione”, ha detto Barbara.
“Vuoi far restare qui questo ragazzo per cena?”, ho chiesto. “E
magari anche a dormire? Credo che abbia voglia di andarsene”.
Lei si è alzata, ha aperto il cassetto della credenza, ha tirato
fuori il suo libretto degli assegni.
L’abbiamo guardata mentre scriveva la data, la cifra, mentre
firmava l’assegno.
“Adesso vorrei stare un po' per i fatti miei”, ha detto.
Il tizio dell’assicurazione ha preso l’assegno e l’ha messo nella
valigetta.
Siamo usciti insieme.
Mentre eravamo in ascensore mi ha chiesto se conoscessi la
strada più breve per tornare in centro, e io ho pensato di andare
con lui per comperare un dannato lampadario con le lampadine
calde e confortevoli.
Se fossi tornato a casa con un nuovo lampadario forse da un
certo punto di vista le cose sarebbero cambiate, ma da un altro
punto di vista non sarebbero cambiate affatto.
434
VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (13)
___________________
Dopo che Efraim espletò la propria clausola 99 annegandosi
nel suo stesso sangue alla maniera degli antichi romani, e quando
anche Ruben, Dan e Issachar furono dimessi dalla clinica per essere tenuti sotto stretta osservazione, Gad scoprì che la solitudine
era l’elemento perfetto per analizzare con calma gli aspetti tecnici
della sua crociata, che egli reputava, non a torto, romantica e sovversiva allo stesso tempo.
Trascorse due settimane a riflettere sul significato di molte cose, nessuna delle quali era per lui sufficientemente indubitabile da
ritenersi sacra.
Non riusciva a comprendere le ragioni per cui si sentiva così
inquieto, ansioso, angosciato.
Lesse molti libri.
Un giorno convocò un ministro del culto iscariotico e, dopo
aver dimostrato di essere degno dell’investitura, riuscì a farsi accordare il privilegio della militanza religiosa. Fu nominato monaco
con una cerimonia piuttosto sobria, della quale furono protagonisti un paio di candele, un cappio e un bonsai.
Non possedendo altro che indumenti laici, decise di utilizzare i
copriletto arancioni abbandonati dai vecchi compagni di stanza
per farsi imbastire un vestito religioso.
Quando consegnò la stoffa all’addetta della sartoria che aveva
contattato, egli non precisò quale genere di capo d’abbigliamento
avrebbe preferito, se un saio o una tunica, se un mantello o uno
scapolare.
Così, dopo circa due settimane gli fu consegnata una calzamaglia arancione. La indossò immediatamente. Quando si vide riflesso nello specchio non riuscì a trattenere una sonora risata, seguita
da un paio di secondi di sconforto. D’istinto guardò in direzione
della pattumiera. Poi pensò che il contrasto tra l’impressione grottesca che la calzamaglia arancione conferiva al suo aspetto e il va435
lore simbolico e tragico della sua crociata era precisamente quel
genere di contrasto che avrebbe voluto palesare ai suoi concittadini.
Non rivide mai più Giuditta.
Concluse il suo soggiorno alla clinica confessando a
un’infermiera delusa che non avrebbe potuto fare nulla per rendere meno obbrobriosa la vita, ma assicurandole che avrebbe tenacemente lottato per ottenere la libertà di privarsene quando
l’avrebbe ritenuto opportuno.
Poco dopo si trasferì nella sua casa in collina, dove trascorreva
il tempo ritagliando centinaia di articoli in cui rintracciò molti soggetti che, dal suo punto di vista, avrebbero potuto accogliere la sua
crociata.
Pubblicò un annuncio sui cinque quotidiani locali;
nell’annuncio faceva riferimento a un non meglio precisato riscatto umano e fissava un incontro per tutti i cittadini interessati a
perseguire una nuova prospettiva esistenziale.
La sera dell’appuntamento, lunedì sette gennaio - Giornata della Sodomia senza Peccato Lubricoll - al Posto Pulito e Illuminato
Bene, un bar del Parco Sintetico Märklin, si presentarono in sette:
cinque uomini e due donne.
Gad li fece accomodare sulle sedie di plastica disseminate nella
sala e prese posto dietro al bancone del bar, spazio che il proprietario gli concesse, seppur malvolentieri.
La prima cosa che mi premeva comunicarvi, disse Gad guardando la sua misera platea di ascoltatori, è che questa sera riceverete un dono. Niente di materiale, s’intende. Non c’è nessun pacco
da scartare. A questo punto fece una lunga digressione sui doni
che ricevette durante la sua infanzia, enumerandoli con dovizia di
particolari e secondo un ordine ben preciso. Poi si fece preparare
un Cuba Libre e riprese il filo del discorso.
Il dono che ho intenzione di farvi, disse, è quello della verità;
una parola tanto semplice e tanto complessa.
Per farlo, consentitemi di raccontarvi qualcosa della mia vita.
Detto questo, Gad abbozzò una storia romanzata dei suoi excur436
sus tra cliniche, ospedali e numerosi uffici pubblici, tra i quali
l’Ufficio Cause Eleggibili di Suicidio®.
L’ultima volta mi sono presentato di persona al dodicesimo
piano del Palazzo Ottagonale, disse. Ho chiesto che mi si preparasse il modulo per la richiesta di suicidio. Secondo voi non dovrebbero tenere dei moduli prestampati? Non sarebbe ragionevole? Invece sapete cosa mi ha detto la segretaria? Mi ha detto che
non riusciva a trovare i moduli prestampati. Da qualche parte
c’erano, ha detto, forse nascosti nell’hard disk del suo computer,
ma in quel momento proprio non li trovava. Due impiegati se la
ridevano di brutto.
Era pomeriggio inoltrato, quasi sera, un giorno della Settimana
dei Pronostici Obbligatori Annuali, faceva un caldo torrido e in
tutto il Settore Cause Eleggibili di Suicidio® erano rimasti solo la
segretaria e i due impiegati. Comunque niente modulo prestampato. Avrei potuto risolvere la questione in cinque minuti. Ma niente, i moduli prestampati non saltavano fuori. E allora sapete che
cosa hanno fatto? Volete saperlo? Mi hanno lasciato in una sala
d’attesa mentre la segretaria riscriveva il modulo per la richiesta.
Dall’inizio alla fine. Vi sembra efficiente? Tutto un modulo,
dall’intestazione ai campi per la motivazione, il nome, la firma, le
clausole conclusive e quelle intermedie, i rimandi al Codice,
l’accenno al Programma Autoeliminazione Esseri Umani. Insomma, tutto il fottuto modulo dalla a alla zeta. Ho atteso un’ora, prima che la segretaria mi facesse entrare nello stanzone. E a quel
punto, volete ridere? Quando ho dettato la motivazione della mia
richiesta sapete cosa hanno fatto i due impiegati? Mi hanno riso in
faccia. Come se la stanchezza non fosse un motivo sufficiente per
inoltrare una richiesta di suicidio. Mi hanno riso in faccia, capite?
Mi hanno schernito. È questo che fanno, i nostri impiegati pubblici? Sbeffeggiano i cittadini?
A quel punto fece una pausa per riprendere fiato. Si guardò un
po’ attorno.
L’acidità di stomaco che mi tormenta da due anni è il chiaro
sintomo di un cancro maligno che sta corrodendo gli organi interni, disse. Il problema è che nessun dottore è stato in grado di diagnosticarmelo, e nessuno tra quei patetici individui che qualcuno
437
si ostina a chiamare divinatori è stato in grado di pronosticarlo. E
sì che ho sperimentato numerose vie previsionali.
Bevve un sorso di Cuba Libre, poi elencò tutti i metodi divinatori cui si era sottoposto negli ultimi cinque anni.
I sette uditori parevano interessati.
Uno di loro (una donna) tentò timidamente di interrompere
Gad per domandare che genere di divinazioni fossero
l’apantomanzia e la capnomanzia, ma Gad pregò i presenti di non
interromperlo.
Anche mentre vi sto parlando, proseguì Gad, sento una fitta allo sterno, proprio qui, tra il gozzo e la bocca dello stomaco; molti
di voi, sentendo un simile dolore, penserebbero che non sia una
cosa grave, e in quel momento commetterebbero un grossolano
errore. Una malattia devastante mi sta divorando.
Dopo aver pronunciato questa parola, Gad si interruppe e osservò attentamente ciascuno degli uditori. Si soffermò sulla donna
più minuta; aveva un volto delicato eppure magro, ossuto, gli occhi piuttosto piccoli e verdognoli, ma di un verde privo
d’interesse. I capelli, castani, non sembravano suoi.
Gli abiti che indossava erano puliti, nuovi, perfettamente abbinati; portava un paio di scarpe costose.
Fece un sospiro profondo, dopo di che analizzò minuziosamente, con tanto di percentuali, la relazione tra sesso e insoddisfazione. Disse che le donne, all’apparenza, sembravano maggiormente insoddisfatte rispetto agli uomini, ma a un’analisi più approfondita si sarebbe scoperto che a essere traumatizzati dalla vita
in maggior misura erano gli uomini.
Poi tirò fuori dalla tasca della giacca un foglio di carta ed enumerò una nutrita serie di modelli d’automobile indicati per le donne e per gli uomini.
Si accese una sigaretta.
Per dodici anni ho cercato di comprendere il significato delle
mie paure, disse. Esse si riferivano a eventi che avrebbero in qualche misura potuto intaccare la mia vita, offenderla, deturparla. Ho
cercato in ogni modo di aggrapparmi alla speranza che un giorno
la vita potesse giungere a un punto fermo, un attimo di lucidità e
purezza, ma mi sbagliavo.
438
La vita è il problema. Non c’è nulla che io possa fare per impedire che la vita si corrompa. Alcune malattie sono debellabili (seguì un elenco di malattie debellabili), altre conducono a una terribile sofferenza (seguì un elenco di malattie apparentemente prive
di cura per cui l’individuo pativa sofferenze insopportabili). Una
sola malattia dovrebbe essere in nostro potere, sotto il nostro controllo, la malattia mortale per eccellenza: la vita.
Il guaio è che la nostra vita non ci appartiene.
Siamo stati persuasi che ci appartenga, ma in realtà il Governo
detiene il possesso illecito della nostra esistenza.
La nostra vita appartiene al Governo, signori.
Avrei voluto vivere in un mondo in cui le malattie non esistessero, ma così non è: il nostro corpo è instancabilmente corruttibile
(seguì elenco delle possibili corruzioni del corpo, dalla carie alla
leucemia, passando per il colpo apoplettico e l’appendice infiammata). Ogni cosa segue una parabola discenditiva e corruttiva; per
quanto ci sforziamo di migliorare, in realtà non facciamo altro che
peggiorare, ogni singolo giorno della nostra vita.
Ogni migliorìa è un confortevole aggravamento.
Pensando che i suoi uditori ritenessero i suoi discorsi banali o
superficiali, Gad prese a elencare una serie di luoghi comuni o banalità sulla vita e la morte.
Il proprietario del locale, un tizio grosso con una leggera peluria sul mento, si accese una sigaretta e se ne andò sul retro.
Uno degli uditori si alzò dalla sedia di plastica e uscì dal bar
con espressione disgustata.
Non era pronto ad accogliere la libertà, disse Gad.
Stasera uscirete da questo bar con la convinzione che è possibile porre rimedio alla vita senza sottomettersi alle leggi che il Potere ci impone, disse. Con la convinzione che è possibile generare
delle ostruzioni nel Continuum Temporale Sabbionasso, delle
sacche di casualità nel determinismo più sfrenato, aggiunse.
Poi tirò fuori da una valigetta un mucchio di fogli. Disse che si
trattava di tutte le richieste presentate all’Ufficio Cause Eleggibili
di Suicidio®. Sono diciotto, disse, tutte respinte. A ogni richiesta,
tranne l’ultima, era allegato un referto medico che Gad reputava
rivelatore di una malattia incurabile, ma che prima i dottori e in
439
seguito gli addetti delle Cause Eleggibili avevano scientemente trascurato.
C’è un Giudice, disse, si chiama Nobb, J. K. Nobb. Quel figlio
di puttana è diverso da tutti gli altri giudici delle Cause Eleggibili.
Gli altri ti rispondono con un precompilato da quattro soldi.
Nobb no. Lui ti risponde con una lettera firmata di suo pugno,
elencando i motivi per cui la vita è comunque meritevole di essere
vissuta. Quel figlio di un cane. L’ho bruciata, quella dannata lettera. Subito dopo averla letta.
Fece una lunga pausa.
Dal retro del locale proveniva il ronzio di un televisore acceso.
Ho deciso di fondare un club, disse poi. Un circolo composto
di uomini e donne per i quali il Potere è un intralcio, per i quali la
vita è una scelta, per i quali non esistono giornate da celebrare o
Gerarchi da assecondare: un circolo di suicidi abusivi. Mi avete
capito, intendo proprio quello che ho detto: suicidi di frodo.
Sono convinto che numerose altre persone si uniranno a noi e
si toglieranno la vita indossando una calzamaglia arancione e glorificando la nostra idea di democrazia e libertà.
Ci fu un lungo silenzio.
Perché dovremmo indossare una calzamaglia arancione per
suicidarci? Domandò uno degli uditori.
L’arancione ha innumerevoli proprietà simboliche, rispose
Gad. Seguì una sfilza di attribuzioni simboliche del colore arancione, in araldica, in politica, nella religione, nei segnali stradali,
eccetera.
Addirittura nei segnali stradali, disse ironicamente uno degli
uditori.
Gad enumerò tutti i cartelli stradali che utilizzavano l’arancione
come colore primario.
Ma perché proprio una calzamaglia?
Perché è comoda, rispose prontamente Gad.
Riprenderemo la via spalancata dal nostro padre fondatore, un
monaco iscariotico che per primo combatté il determinismo governativo.
Trafficò con un aggeggio che ai presenti sembrava una radio
riesumata da qualche discarica anni ’90. Premette un pulsante e
440
diffuse un brano musicale che molti dei presenti riconobbero: si
trattava del brano noto col titolo di Brigitte Bardot.
Che cos’è questa buffonata? Domandò uno.
Dobbiamo metterci a fare il trenino? Domandò un altro.
Non siate ridicoli, rispose senza indugi Gad. I nostri suicidi
dovranno essere scenografici e spettacolari, disse, cosicché
l’opinione pubblica possa parlare di noi in termini eroici, romantici, rivoluzionari. I suicidi abusivi non dovranno tagliarsi le vene in
un motel sulla tangenziale, ma gettarsi dalla sommità di un palazzo
o di una torre medievale, farsi saltare il cervello in pubblico, lanciarsi contro un autobus in corsa nell’ora di punta. Il nostro suicidio dovrà essere un atto simbolico e un messaggio per tutti i nostri
concittadini.
Altri due uditori si alzarono e se ne andarono.
Bene, disse lui, siamo rimasti in cinque. Cinque è un buon numero. Molti altri si uniranno a noi dopo la nostra prima azione
pubblica. D’ora in avanti agiremo nell’ombra, secondo codici che
imparerete nei nostri successivi incontri.
Vi convocherò entro breve. Decideremo chi tra noi avrà
l’onore di essere il primo suicida abusivo. Pianificheremo i nostri
spostamenti con massima cautela. Nei nostri incontri discuteremo
a lungo delle cause che ci hanno condotto a disgustare la vita in
maniera così piena e totale. Berremo anche buone bottiglie di vino.
Non sentite anche voi un brivido percorrervi la schiena? domandò.
Nessuno rispose.
Il brano in sottofondo s’interruppe. Gad terminò il suo discorso bevendo un altro Cuba Libre e fumando un Havana in compagnia dei suoi nuovi compagni, cui avrebbe fornito una calzamaglia
arancione entro quattro, massimo cinque, giorni.
***
441
LA PIÙ INCREDIBILE WOW EXPERIENCE DI PATRICK
Patrick stava preparando il concorso d’ammissione al Corpo di
Nettezza Umana, che consisteva in una selezione preliminare basata su requisiti psico-fisici, seguìta da un complicato test di ottantaquattro domande.
Quando studiava prima di cena, generalmente se ne stava rinchiuso nella sua stanza, fumando e bevendo qualcosa. Questa volta invece era seduto in salotto, con la madre affaccendata nelle caratteristiche mansioni domestiche: in quel momento stava fastidiosamente passando un apparecchio rumoroso sul pavimento di
legno.
“Credo che finalmente ci siamo”, disse Patrick. La madre non
rispose. “Credo di sentirmi preparato”. Quando la madre terminò
di passare l’apparecchio rumoroso Patrick ripeté: “Credo di sentirmi preparato”. Lo fece alzando leggermente il tono di voce.
“Questa storia l’ho già sentita troppe volte”, rispose la madre.
“Stavolta è diverso”, disse Patrick con un tono di supponenza che
denotava una certa sicurezza nei propri mezzi.
Si fece interrogare per la dodicesima volta, ottenendo un risultato piuttosto buono. La madre sembrava fiera del suo unico figlio.
“E per il problema alla faccia?”, gli domandò.
“Sto intensificando le cure”, rispose Patrick.
Aveva un disgustoso problema epidermico, conosciuto col
nome di dermatite seborroica, per cui il suo volto (come anche le
mani e il cuoio capelluto) era ricoperto di funghi e croste.
“Non credo che possa comportare un’esclusione a priori”,
sentenziò Patrick.
La sua più grande ambizione era quella di entrare a far parte
del Corpo di Nettezza Umana del Gerarcato di Sabbionasso.
442
Per questo tentò di curare la propria pelle con zinco piritione,
solfuro di selenio, octopirox e altri farmaci sperimentali.
Ciononostante la situazione non era migliorata granché, e
l’espressione sui volti degli interlocutori di Patrick era sempre la
stessa: disgustata e infastidita.
Tentò numerose altre cure prima di scoprire che la forma di
dermatite seborroica di cui soffriva era di origine psicosomatica.
Poiché non sarebbe stato possibile in alcun caso riportare allo stato originario i vasi sanguigni atrofizzati, si decise a imbottirsi di
psicofarmaci antidepressivi per non peggiorare la situazione.
Il giorno dell’iscrizione alla selezione attitudinale dei requisiti
psicofisici Patrick si presentò al Palazzo Ottagonale indossando
l’abito che sua madre gli aveva acquistato per l’occasione, composto da pantaloni di velluto marrone, una giacca di velluto a coste
marrone, una camicia azzurra e un papillon giallo.
Quando arrivò fu subito costretto a sottoporre il suo volto invaso da funghi e croste all’attenzione degli altri candidati. Nella
sua ottica il primo impatto sarebbe stato decisivo per stabilire se
la complicazione epidermica avrebbe potuto compromettere la
sua arruolabilità presso il Corpo.
Come al solito dovette confrontarsi con una serie disparata di
reazioni, suddivisibili principalmente in tre classi: alcuni lo osservavano con curiosità, quasi studiassero il suo problema secondo
un’ottica medico-scientifica. Altri finsero di non accorgersene
neppure, specie quelli con cui scambiò qualche chiacchiera inerente le domande del test attitudinale.
Alcuni, per la verità non troppi, manifestarono un grado molto
elevato di schizzinosità, ed evitarono accuratamente di stringergli
la mano o di guardarlo negli occhi, cercando anzi di non entrare
in contatto con le zone del suo corpo maggiormente esposte al
problema epidermico, forse per paura che potesse rivelarsi contagioso.
Una delle poche ragazze presenti scambiò con lui qualche opinione sulla terza sezione del test, procedure e sistemi operativi, che a
detta di tutti era la più complicata. Patrick ebbe l’impressione che
443
la ragazza evitasse accuratamente di fissarlo in volto, sia per disgusto, sia per senso di pudore.
Non aveva idea di come il suo problema epidermico avesse
potuto raggiungere lo stadio di gravità in cui versava in quel periodo. Da piccolo aveva sofferto di una forma lieve di acne, era
stato costretto a sottoporsi a lunghe e noiosissime cure a base di
un sapone specifico; la malattia era evidente anche durante gli anni dell’università, ma niente che fosse anche solo lontanamente
comparabile alla fase attuale.
Una mattina si era alzato, era andato in bagno e si era accorto
che il suo volto era completamente ricoperto da funghi ed escoriazioni, che col tempo avrebbero generato croste e perdite di
pus. Inoltre, come se non bastasse, il corso da parrucchiere cui la
madre lo aveva iscritto, e che gli era costato notevoli sforzi in
termini di tempo e volontà, aveva accentuato una patologia alle
mani, causata probabilmente dai prodotti utilizzati nei lavaggi e
nelle tinture, quali shampoo, balsamo e tinte, che gli avevano deturpato le dita fino a trasformarle in dieci ossa scheletrite impalpabili e francamente orrende.
La ragazza gli domandò se fosse preparato sulla sezione 5, Poeti Romantici Anglosassoni, e lui rispose che quella era la sezione su
cui si sentiva maggiormente preparato. Snocciolò una serie di dati
su Keats, Shelley e Byron che avvalorarono la sua affermazione.
~
L’iscrizione alla valutazione dei prerequisiti si svolgeva al quattordicesimo piano del Palazzo Ottagonale, da cui si poteva godere
di una splendida vista sulla città – se solo le vetrate non fossero
state barricate da impenetrabili tapparelle, pensò Patrick –, in uno
studio sanitario enorme e piuttosto caotico.
Erano presenti centotrentaquattro candidati, ma nel conteggio
di Patrick poteva esserne sfuggito qualcuno.
Quando un candidato veniva chiamato all’interno dello studio
sanitario dalla porta si poteva scrutare la sala, in cui svariati dottori in camice bianco attendevano dietro un bancone di alluminio
che il candidato si presentasse per iscriversi e ottenere
l’appuntamento per il tour de force delle analisi mediche.
444
I requisiti necessari per procedere alla fase successiva, ovvero
il concorso vero e proprio, erano considerevoli.
Quando chiamarono Patrick fu subito evidente che la dermatite seborroica poteva rappresentare un serio ostacolo al superamento della selezione. Ciononostante, i medici decisero di sottoporre Patrick a tutte le visite del caso, riservandosi di prendere
una decisione soltanto al termine del check up completo, che sarebbe durato all’incirca otto ore e si sarebbe svolto nove giorni
dopo, in coincidenza con la Giornata Wow Experience Oral-B
OxyJet 3000™.
~
Il giorno della visita attitudinale Patrick si presentò in perfetto
orario al dodicesimo piano del Palazzo Ottagonale.
“Posso considerare la visita come la mia Wow Experience? Per
me lo è senza dubbio”, domandò ai cinque medici.
I medici si consultarono per qualche minuto.
“Dovrebbe fare questa domanda ai responsabili del Calendario
Ricreativo Promozionale, noi siamo solo medici preposti alle visite di valutazione candidati al Corpo di Nettezza Umana”.
Poi i cinque medici lo sottoposero a test psicologici, analisi,
esami clinici, radiografie, tomografie assiali.
“Non so”, disse il dottore col camice bianco luminoso, “il caso
potrebbe rientrare nel paragrafo cinque sulle malformazioni e gli
esiti di patologie o lesioni di labbra, lingua, tessuti molli della
bocca, o di malformazioni, lesioni o interventi chirurgici correttivi le patologie del complesso maxillo facciale o
dell’articolazione tempora-mandibolare che producano gravi disturbi funzionali...anche se...”.
“Non sono completamente d’accordo”, disse il dottore col
camice bianco appena appena meno luminoso; “ritengo che una
deturpazione simile affondi le radici in qualche patologia sommersa”.
“Per esempio?”
“Per esempio potrebbe derivare da difetti del metabolismo
glicidico, lipidico o protidico”.
445
“Intendi diabete mellito di tipo I e di tipo II?”
“Non solo. Anche ipercolesterolemie, ipertrigliceridemie, iperlipidemie miste, fenilchetonuria, alcaptonuria, omocistinuria, ossaluria e simili”.
“In ogni caso rientrano nel novero delle cause per cui si deve
respingere il candidato”.
“Andiamoci piano”, intervenne un terzo dottore; “nello specifico della colesterolemia, vi ricordo che il totale deve essere
maggiore a 280 mg/dl. con indicazione al trattamento con statine
e/o altri ipocolesterolemizzanti orali”.
“Il collega non ha tutti i torti”.
“E nel caso della trigliceridemia il totale deve superare i 250
mg/dl”.
“Dovremo rivedere tutti i test”.
“Scusate se vi interrompo”, disse un quarto dottore, “ma avete visto la faccia di quel poveretto? È completamente deturpata
da una forma acuta di dermatite seborroica”.
“Dovrebbe essere sufficiente a scartarlo”.
“La dermatite seborroica è compresa nell’elenco?”, domandò.
“Non la trovo”, rispose.
“Impossibile, cerca meglio”.
“Ti dico che non c’è”.
“Ma ci sono le malformazioni e alterazioni congenite e acquisite dell’orecchio esterno, dell’orecchio medio, dell’orecchio interno; e ci sono le malformazioni e alterazioni acquisite del naso
e dei seni paranasali, di faringe, laringe e trachea”.
“E qui siamo in presenza di una malformazione, o quantomeno, di un’alterazione del naso e dei seni paranasali, e anche
dell’orecchio”.
“Mi pare una motivazione alquanto debole”.
“Non mi verrete a dire che siamo costretti ad accettarlo”.
“Sei pazzo? Se lasciamo che uno con la faccia di questo qui
superi la visita attitudinale il Comandante ci esonera in tre minuti”.
“Ciononostante dobbiamo per forza scartarlo attenendoci alla Normativa”.
“Dobbiamo trovare qualcosa che sia ufficiale”.
446
“Leggete qui”, disse il dottore con il camice verde mostrando
l’Enciclopedia delle Malattie alla voce dermatite seborroica, “la
forma acuta può causare otite purulenta cronica”.
“Mi sembra magnifico”.
“Hai centrato il bersaglio”.
“Non ne sono ancora convinto”.
“L’otite purulenta cronica può causare ipoacusie monolaterali
anche permanenti”.
“Quanto deve essere la soglia audiometrica media per respingere il candidato?”.
“Sulle frequenze 500-1000-2000-4000 Hz?”.
“Esatto”.
“Superiore a 30 decibel”.
“La normativa dice così?”.
“Devo leggertela? 30 decibel nel caso dell’ipoacusia monolaterale”.
“E nel caso di una ipoacusia bilaterale?”.
“Non ci spero proprio, comunque nel caso di ipoacusie bilaterali permanenti deve essere superiore a 30 decibel
dall’orecchio che sente di meno, oppure superiore a 45 decibel
come somma dei due lati (perdita percentuale totale biauricolare
superiore al 20%)”.
“E nel caso di deficit uditivi da trauma acustico con audiogramma con soglia uditiva a 4000 Hz, deve essere superiore a 50
decibel (trauma acustico lieve secondo Klochoff)”.
“I dati non sono confortanti”.
“Ci sente benissimo”.
“Per ora”.
“Già, per ora. L’ipoacusia potrebbe intervenire in un secondo
momento”.
“Come a chiunque tra i candidati”.
“Com’è possibile che una patologia tanto schifosa non sia
contemplata nella Normativa?”.
“Che so, sbadataggine, distrazione, negligenza”.
“Può capitare a tutti”.
“Io dico di ammetterlo”.
447
“Vorrai scherzare? Ricorda che se il Comandante si ritrova un
tizio con una faccia simile come minimo ci strozza”.
“A denti come stiamo?”.
“Gliene mancano un paio”.
“Siamo lontani”.
“Distanti anni luce”.
“Quelli che ha sono tutti sani? Cosa dice la Normativa?”.
“Il paragrafo 7 parla di mancanza o inefficienza (per parodontopatie, carie distraente o anomalie dentarie) del maggior numero
di denti, o di almeno otto tra incisivi e canini, e parla di malocclusioni dentali con segni clinici o radiologici di patologia dentale o paradentale”.
“Gli facciamo un bel test odontoiatrico?”
“Tempo perso”.
“Perché?”
“Ha allegato il referto del suo dentista”.
“E allora?”
“E allora, a parte i due denti estratti, gli altri sono in forma
smagliante”.
“Cristo”.
“Un momento. La dermatite seborroica non può essere accomunata a un’allergia?”
“Che stupidi”.
“Non direi”.
“Come no?”
“Leggo sulla Normativa: asma bronchiale allergico e altre gravi
allergie, anche in fase asintomatica”.
“Com’è andata la prova di funzionalità respiratoria?”.
“La cerco”.
“Potrebbe essere una soluzione”.
“Ecco qui, cattive notizie ragazzi”.
“Cristo”.
“Valori di VEMS al 76% teorico, e la soglia per superare la valutazione sarebbe all’80%, ma il test di stimolazione bronchiale
aspecifico con metacolina che avrebbe dovuto dare PD 20%
FEV1 < 800 microgrammi è di 973 microgrammi”.
“Per poco”.
448
“Già”.
“Inoltre al test di broncoprovocazione la metacolina è risultata
abbondantemente superiore ai limiti”.
“Non ci posso credere”.
“Altre analisi?”
“Negativo al morbo di Hansen, alla sifilide, all’HIV; negativo
per HBV o per HCV accompagnata da epatopatia cronica”.
“Peso e altezza?”
“Dove abbiamo i dati?”
“Non ci saremo per caso fatti sfuggire la cosa più ovvia?”
“Altezza e peso sono i primi due dati da prendere in considerazione”.
“Altezza un metro e settantasette centimetri. Rientra nel limite
minimo di un metro e settantacinque centimetri”.
“Che palle. Peso?”
“Sessantadue chilogrammi”.
“Quali sono i requisiti per una disarmonia costituzionale?”
“La Normativa fissa la gracilità costituzionale con IMC < 20
Kg/m2”.
“C’è dentro per poco”.
“Dannazione”.
“Aspettate un momento”
“Che c’è?”
“Non ha assunto farmaci per curare la dermatite seborroica?”
“Credo di sì”.
“Rivediamo la quantità di farmaci nel sangue”.
“Buona idea”.
“Non c’eravamo concentrati su questo aspetto”.
“Comunque c’è traccia di numerosi farmaci”.
“Allora siamo a posto”.
“In che senso?”
“Guarda qui: cinque farmaci diversi per curare la dermatite. Ce
n’è abbastanza per una mezza intossicazione”.
“Se non altro per allentare i riflessi”.
“Tutti questi farmaci stenderebbero un cavallo”.
“Abbiamo la nostra motivazione”.
449
Seguì un lungo momento di eccitazione collettiva.
“Lascia che mi complimenti con te”.
“Davvero complimenti”.
“Stiliamo il referto”.
“È stato un caso difficile”.
“Sono piuttosto esaltato”.
“Brillante risoluzione davvero”.
Quando ricevette la busta gialla della Commissione di Valutazione, Patrick stava leggendo un quotidiano mentre la madre era
immersa nei preparativi per il pranzo. Patrick osservò lo stemma
del Corpo di Nettezza Umana impresso in alto a destra e fu colto
da un orgoglio innaturale, solo per il fatto di possedere qualcosa
che riportasse lo stemma del Corpo.
“Dovrei aprirla subito?”, domandò impaurito alla madre. “E
cosa accidenti dovresti aspettare?”, rispose la madre. Stava pelando una patata molto grossa. Una patata di dimensioni davvero eccezionali. Grande quasi quanto un cocomero di piccole dimensioni.
“Non potresti aprirla tu?”, domandò Patrick alla madre.
“Credo sia ora che tu ti assuma le tue responsabilità”, rispose
fermamente la madre.
“Il fatto è che sono terribilmente agitato”, disse Patrick.
“Smettila di comportarti da femminuccia”, sentenziò la madre.
“Non so che fare”, disse Patrick.
Appoggiò la busta sul divano e uscì sul balcone per prendere
una boccata d’aria.
Lei sbuffò, appoggiò il coltello che stava utilizzando per pelare
la grande patata sul piano della cucina, si ripulì le mani e afferrò la
raccomandata.
“Sebbene il problema epidermico noto come dermatite seborroica non sia contemplato nel testo della Normativa per
l’Ammissione al Corpo di Nettezza Umana (NACNU), dagli esami
del sangue si riscontrano tracce consistenti di cinque diversi farmaci utilizzati dal candidato per curare la propria patologia (pato450
logia che di per sé non giustificherebbe un’esclusione); tali tracce,
combinate tra loro, contravvengono il paragrafo e) comma 1 della
Normativa, alla voce alcoolismo, tossicomanie, intossicazioni croniche di
origine esogena, in quanto causa di un’evidente contaminazione
ematica capace non solo di limitare, ma piuttosto di annullare, le
facoltà psicofisiche primarie e secondarie del candidato. Si consiglia di ripresentare domanda l’anno prossimo e di non assumere medicinali nei quindici giorni precedenti la visita medica”.
“In pratica mi hanno scartato”, disse Patrick con tono sommesso.
“Vai a tavola”, disse la madre, “è pronto”.
451
VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (14)
___________________
Il dodici settembre, Giornata della Transustanziazione Sportiva
Animale Playmobil, alcuni cittadini telefonarono al Pronto Intervento di Nettezza Umana per denunciare il suicidio abusivo di
Kevin Cheronne, trentatré anni, giornalista, che si era lanciato da
una finestra al tredicesimo piano (dov’era la sede della rivista di
caccia per cui lavorava), schiantandosi nello spiazzo sottostante.
Il corpo era ridotto a una poltiglia. Il medico legale disse che
probabilmente la causa della morte era da attribuirsi alla rottura
totale del cranio, con conseguente fuoriuscita del liquido cerebrale, e più in assoluto, del cervello stesso.
Sul posto fu inviata una squadra facente capo all’Ispettore di
Nettezza Umana Didìme Benoussy, che notò immediatamente
l’abito indossato dal suicida: una calzamaglia arancione ridotta a
brandelli e macchiata di sangue. Non c’erano biglietti.
Mentre gli agenti rassettavano la scena del suicidio, Benoussy
interrogò i colleghi della rivista e perquisì l’ufficio di Cheronne.
Nel secchio dell’immondizia, tra cartacce di snack e lattine rincagnate, rimediò un indirizzo scarabocchiato su un pacchetto accartocciato di Camel Light.
L’indirizzo corrispondeva a una sartoria del Centro Storico
Medievale.
Benoussy fu colto da uno strano brivido, che lo percorse lungo
la spina dorsale e giunse fino alla punta dei piedi; si accertò che la
squadra tirasse a lucido la zona e si recò immediatamente alla sartoria, un vecchio negozio con ingresso in legno e una bella insegna
antica riportante la data di inaugurazione dell’attività: 1883.
Il commesso dichiarò che qualche settimana prima qualcuno
aveva commissionato quindici calzamaglie arancioni con tanto di
gilet e camicia, ma che non aveva incontrato il committente, poiché l’ordine era stato fatto tramite una mail a cui erano allegati i
disegni dettagliati del costume. Quando le calzamaglie furono
pronte, disse il commesso, lo comunicammo rispondendo alla
mail, e dopo circa due ore un ragazzo in motorino si presentò per
ritirare la merce, pagandola in contanti.
452
Naturalmente il commesso non aveva idea di chi fosse il ragazzo, né avrebbe saputo riconoscere il modello di motorino.
La casella di posta elettronica da cui proveniva l’ordine era intestata a un alunno di seconda media di Aramengo.
Benoussy riferì al comando e ricevette un plauso ufficiale per le
sue indagini.
Quelli del Reparto Disciplina Sociale fecero irruzione a casa
dell’alunno l’indomani dopo pranzo, fracassarono il computer e
parte degli arredi della camera, tra cui numerosi poster adolescenziali e cd, setacciarono il garage a caccia di un motorino che non
trovarono e successivamente, presi dallo sconforto, prelevarono
tutta la famiglia e la condussero al Commissariato.
Capirono quasi subito che non c’entravano nulla. La madre era
una casalinga e il padre un operaio. Non sapevano neppure accendere un computer. L’alunno era piuttosto sveglio, ma del tutto
ignaro di cosa fosse il Circolo dei Suicidi Abusivi. Non aveva mai
posseduto un motorino in vita sua, né mai, da quanto ricordasse,
ne aveva guidato uno.
Quelli del Reparto Disciplina Sociale approfittarono
dell’interrogatorio per fare una ramanzina ai genitori e li rilasciarono dopo un’ora di ammonimenti gerarcali.
L’indagine si concluse con un nulla di fatto.
***
453
ALBORI DEL FETICISMO COPROLITICO17
Noi non offriamo esperienze mistiche ad anime eccezionali ma
a notai depravati col chiodo fisso dell’amore masochista e ad avvocati arricchiti che si lasciano smorfiare l’anima da commesse diciottenni. Vendiamo l’unione con dio a gente della peggior specie:
per questo motivo siamo un’azienda solida e funzionale, e tutti i
colori dei pittori espressionisti gridano per noi.
È domenica mattina e sto controllando lo stato di salute delle
colture di virus H7 J39 nel nostro Laboratorio Interno, un virus
contemplativo estratto dai tessuti mummificati della testa di San
Bertran de Born, che quando sarà ultimato permetterà a tutti di
saggiare un’esperienza mistica della durata di dieci-quindici giorni.
Sarà una rivoluzione dice il nostro capo ricercatore, una droga
Il 27 novembre 1853 Erminio Blom, un contadino di Pizzengo, arando i suoi tre ettari di terra rinvenne un fossile, per la precisione un coprolite. Attorno all’oggetto, secondo alcuni in grado di guarire le malattie per via tattile e olfattiva, secondo altri derivante dalla divinità stessa,
si scatenarono controversie accademiche e dottrinali. Nei primi mesi del
1920 una congregazione di adoratori del coprolite iscrisse il proprio
nome nell’Albo delle congregazioni religiose sabbionasse. L’oggetto suscitò da parte dei cittadini una vera e propria venerazione mistica, ai
quali diedero il nome di Feticismo Coprolitico. Il 12 maggio 1980 la
Chiesa Cattolica, con una bolla ufficiale, decretò ammissibile
l’adorazione dell’Oggetto dei propri fedeli. Nei mesi successivi ebrei e
iscariotici condivisero la bolla cattolica; il feticismo coprolitico fece proseliti in ogni dove, sino a diventare il culto più seguito del Sabbionasso.
17
454
farmacologica, un medicinale drogante. Ci facciamo un bel brindisi pensando al commercio delle confezioni di virus contemplativo
e ai guadagni che porterà nelle casse del parco, oggi più che mai
bisognoso di fondi. Ma quando sarà ultimato e pronto per essere
commercializzato? È questa la domanda che ci poniamo da quasi
tre anni. Il problema principale riguarda la modalità di trasmissione del virus, che al momento è aerea. Impensabile, per chi vuole
commercializzarlo. Dobbiamo fare in modo che la trasmissione
avvenga per via ematica, altrimenti rischieremmo di dover fronteggiare un’intera popolazione in preda a spasmi mistici gratuitamente. A parte questo dobbiamo risolvere qualche particolare legato agli effetti indesiderati.
Nonostante gli immancabili intoppi stiamo facendo progressi, e
gli effetti collaterali accertati sui tester sono passati da: vomito,
nausea, dissenteria, tremori, arresto cardio-respiratorio, tromboflebosi, paralisi totale, ictus, coma irreversibile, morte, a: vomito,
nausea, dissenteria, tremori, arresto cardio-respiratorio, tromboflebosi, paralisi locale, coma vegetativo, morte.
La valutazione del rischio è ancora di livello 7 in una scala da 0
a 7 per cui chi entra in contatto con la coltura deve sottoporsi ad
analisi accurate e farsi compilare un quadro clinico ogni cinque ore
almeno per le quarantotto ore successive all’esposizione, quindi i
ricercatori mi consegnano un modulo e una cartellina e dopo la
visita d’ordinanza lo compilano in mia presenza.
Battito cardiaco: regolare. Densità sanguigna arteriosa: fluida.
Problemi alle articolazioni: nessuno. Attività respiratoria: nella
norma. Altre controindicazioni: nessuna. Stato di salute generale:
buono.
Sono in perfetta forma e non voglio neppure conoscere i nuovi
tester, solitamente marocchini o albanesi, né le idee del Presidente
a proposito del virus; voglio soltanto fermarmi al bar e aprire un
quotidiano. La scorsa settimana ho passato una giornata allucinante a scarrozzare per il parco una giornalista boriosa e frustrata con
la promessa di una pubblicità tendenziosa e soprattutto gratuita. A
pagina 7 trovo l’articolo. Già il titolo mi fa andare in bestia: il de455
clino del feticismo coprolitico e la crisi del Parco Mistico ad esso
dedicato. Il succo è anche peggio, una serie di considerazioni pietose sullo stato di recessione e decadimento del feticismo coprolitico. Prendo il telefono e chiamo la giornalista. Chiedo cosa significa quest’articolo? Risponde significa che il vostro è un declino
lento ma inesorabile. Dico eppure non mi pareva così disfattista
quando le è stata offerta la bistecca di angus, oppure quando le
abbiamo devoluto le bottiglie di champagne d’ordinanza. Dice la
mia esperienza professionale è stata ottima, effettivamente sono
stata trattata con riguardo, ma come avrei potuto guardarmi ancora allo specchio se avessi mancato così gravemente e pesantemente alla mia deontologia? Sa cosa intendo per deontologia? È quella
cosa per cui se trovo un luogo brutto e in decadenza non posso
scrivere che l’ho trovato bello e splendente. Spero che mi capisca.
Dico ma vaffanculo e butto giù. Penso non ci posso credere
una giornalista onesta e cammino verso l’ufficio, dove i miei collaboratori mi stanno attendendo per cominciare la giornata.
Sono il direttore del Parco Mistico del Sacro Coprolite da circa
quindici anni, e mai come quest’anno la crisi si fa sentire, pungente come il gelo mattutino di gennaio; lo vedo negli sguardi contriti
dei dipendenti e dei fornitori, nel giardino inglese ingiallito, negli
operai che hanno le pezze al culo e fumano sigarette molli puzzolenti, nell’Area Rivisitazione Biblica dove trovo Jerry Haunthouse
che raffigura Re Salomone completamente sbronzo e narcotizzato
e Milly Hackman (moglie di Lot) che contratta una marchetta con
un inserviente.
Arrivo in ufficio e aspetto le 10, quando il Presidente si sveglierà e leggerà l’articolo sul giornale e immancabilmente mi convocherà nel suo loft. Intanto sbrigo alcune questioni e discuto con
Rena del bilancio preventivo di quest’anno comparato a quello
dell’anno scorso. Rena è la nostra contabile, è una gran rompicoglioni e non la sopporto, specie quando mi guarda col suo muso
saccente e dice qui c’è un problema. La blocco prima che possa
iniziare la solita solfa sui soci che non pagano la quota, sul Presidente che è assente, sugli sperperi delle varie aree eccetera eccetera. Alle 10 e 03 arriva la telefonata del Presidente. Dice dobbiamo
parlare. Rispondo in effetti me l’aspettavo. Dice tra un quarto
456
d’ora nel mio ufficio. C’è chi dice che il Presidente del nostro Parco sia un uomo orribile, ma non sono pagato per sbilanciarmi: tutto quello che so è che ha ereditato il parco dal Fondatore-Suocero,
deceduto lo scorso anno, colui che ha creato il Parco Mistico negli
anni ’70, quando un parco mistico sembrava un’utopia. E invece
eccoci qui, trentacinque anni dopo: milleduecento soci e un mercato che fino a qualche mese fa sembrava florido e in continua
espansione. Penso ai ricavi dell’ultimo anno e non sono pensieri
positivi.
Fondamentalmente suggiamo i nostri ricavi da due grandi
mammelle: i soci, che pagano una quota di tremila euro l’anno, e i
pellegrini (o visitatori esterni) che sborsano un park fee di cinquanta euro (nei giorni feriali) o di settantacinque (nei giorni festivi). Oggi è domenica e come tutte le domeniche ci si aspetta una
grande affluenza, attendiamo otto pullman entro mezzogiorno e
tre gruppi di stranieri, una ventina di svedesi, una dozzina di svizzeri e sette austriaci, più centinaia di soci e numerosi gruppi di
pro-loco, oltre ai soliti ospiti del Monastero, il nostro Hotel interno.
Il presidente in giacca e cravatta con il coprolite ricamato sulla
camicia mi fa entrare nel suo loft e dice peccatissimo per l’articolo;
ha questa strana insopportabile tendenza a parlare per superlativi.
Dice quella stronza di giornalista, e pensare che l’ho anche invitata
a cena a casa mia. Non dico niente. Dice non importa, ne inviteremo un’altra più influente la settimana prossima; piuttosto, dice,
come sono i dati? Non ci sono ancora dati dico, è troppo presto
per i dati. Dice e il virus? Stavo pensando a un lancio in grande stile. Rispondo al momento niente virus, troppi rischi. Torna quando
avrai i dati mi dice, e mi saluta col suo modo di fare spocchioso.
Tutte le domeniche controllo scrupolosamente ogni attività del
Parco, è la giornata più importante della settimana e voglio che
tutto funzioni perfettamente.
Salgo sul mio golf cart e come prima cosa verifico che l’Area
Accoglienza delle Festività Ebraiche sia in ordine. In passato ha
dato notevoli problemi. Specialmente la sezione del Rosh Hashanà
La-Ilanòt non è mai stata il piatto forte dei figuranti: avrei dovuto
assumere figuranti ebrei per rendere il tutto più verosimile ma di
457
questi non se ne trova neppure da morti e allora mi è toccato racimolare tre inservienti di Casorzo, un paio di albanesi e quattro
egiziani, per di più musulmani. Questa manica di idioti la scorsa
settimana ha capito male una parola ebraica (peraltro già tradotta
dai nostri traduttori, quindi in definitiva questi deficienti hanno
capito male una parola italiana) e anziché segnare ha segato un
acero che per poco non finiva in pieno su una scolaresca di Murisengo.
Do un’occhiata alla zona in cui si festeggia la distruzione del
primo e del secondo tempio di Gerusalemme e mi sembra tutto in
ordine; i fuochi d’artificio sono piazzati e il capo artificiere è perfettamente sobrio (l’anno scorso il nostro ex capo artificiere si
presentò sbronzo e tranciò di netto l’occhio destro a una professoressa ottantenne di Aramengo, fatto che ci costò un’iradiddio di
risarcimento). Prendo da parte Miller della sicurezza e gli dico tieni
d’occhio i figuranti musulmani; lui mi dice gli stacco il collo appena noto un atteggiamento sospetto. Mi tranquillizzo. D’altronde
Miller è un ottimo elemento e detesta gli islamici, soprattutto da
quando un figurante tunisino ha srotolato un lenzuolo con su
scritto morte ai discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe e ha provato a
farsi saltare in aria durante un’affollata visita della comitiva autunnale israeliana. Da allora Miller è un fiume in piena, ha già mozzato una mano a un libico intento a staccare il pene della statua di
Golia e gambizzato due algerini sorpresi a dipingere enormi cazzi
sulla facciata dell’Unica Riproduzione Ufficiale Dell’Arca
dell’Alleanza. Insomma, Miller è un pazzo maniaco razzista ma sa
fare bene il suo lavoro. Do la mia benedizione virtuale e proseguo
il mio giro, facendo una breve sosta alla grotta del coprolite. Da
queste parti i pellegrini non mancano mai e anche oggi mi aspetto
un grande affollamento. Sono tranquillo, sento al telefono la mia
ragazza (che tra due mesi diventerà la mia terza moglie) e organizzo una cenetta. Mi inoltro nella Tundra delle Grotte, una delle
quali, la più profonda e la più fedelmente ricostruita, grazie a magnifiche conformazioni ‘naturali’ edificate dai nostri tecnici scenografi, accoglie la teca del Sacro Coprolite. Non c’è ancora molta
gente, del resto di solito quest’area viene visitata per ultima. Saluto
la guardia armata e controllo la teca: il vaporizzatore alla base fun458
ziona e l’odore emanato dall’Oggetto è proprio quello che vogliamo, un misto tra violetta e lillà. Un tempo usavamo fiori freschi
ogni giorno, ma da quando il vecchio giardiniere è andato in pensione siamo stati costretti a rivolgerci a una ditta specializzata che
ha creato questo mix di profumi seguendo le indicazioni dei nostri
analisti in fragranze. All’interno della teca il coprolite è lo stesso
pezzo di sterco fossilizzato di quando cominciai a lavorare nel
parco, solo leggermente rimpicciolito per via di un fenomeno che
gli esperti definiscono sbriciolamento; in pratica succede che col
variare della temperatura, della luce e di altri fattori esterni il coprolite si sbriciola, impercettibilmente ma costantemente. Per questo motivo deve essere sottoposto a trattamenti delicatissimi e i
fattori ambientali di luce e di temperatura devono restare quanto
più possibile regolari: un’equipe specializzata si occupa ventiquattrore su ventiquattro di questo compito fondamentale. Chiedo
come procede lo sbriciolamento? Mi risponde il responsabile
dell’equipe: tutto bene, dice, ventisette grammi di sbriciolamento
negli ultimi quindici mesi. È una quantità ragionevole. Lo guardo
ancora: quello che noi chiamiamo Sacro Coprolite, l’oggetto attorno a cui ruota tutto il nostro Parco, è di colore bruno rossastro,
perfettamente fossilizzato, con una piccola cavità di consunzione
generata dalla sofferenza del tempo. A destra della teca l’insegna
recita: Sacro Coprolite, massa 735.95 grammi, misure 18.45 x 9.3 x
7.9 centimetri (in diminuzione), datazione 65 milioni d’anni prima
di Giuda Iscariota – 65 milioni d’anni prima di Cristo – 64 milioni
e rotti anni prima di Abramo – 65 milioni e rotti anni prima di
Maometto – 65 milioni e rotti prima di Buddha.
Qui bisogna accontentare tutti, e il successo del feticismo coprolitico, così come il Cavaliere aveva previsto trentacinque anni
fa, deriva proprio da questo geniale assunto di base: il sacro coprolite è un feticcio sacro comune a tutte le divinità, né invadente
né contrastante con gli altri culti sabbionassi (questo principio è
stato accolto, nel 1980, dalle maggiori religioni sabbionasse). Saluto la guardia armata e Joan, la speleologa americana che accompagnerà il primo gruppo di visitatori, poi continuo il mio giro. Salto
sul mio golf cart verde dotato di vari comfort e passo l’area in cui
si svolge il Bio-Tour safari. Nel bio-tour i nostri impiegati, tutti fa459
centi parte di un’equipe medica di prim’ordine, accompagnano i
visitatori alla scoperta dei parassiti presenti sulla superficie e
all’interno di un coprolite sacro, che per sua natura, pur essendo
fossile, conserva uno status vegetativo, è vivo (questo è quello che
vogliamo farvi credere, naturalmente); la dimostrazione deriva
proprio dai parassiti che trovano il loro habitus sulla parete esterna del coprolite. Il tutto è reso più interessante e divertente dal
fatto che i partecipanti del bio-tour hanno l’impressione di essere
rimpiccioliti all’interno di un coprolite gigantesco (allo stesso modo i parassiti virtuali sono enormi e incredibilmente terrificanti).
Una pratica comune (e soprattutto extra fee) è l’Assalto da Parassiti, quelli veri: i visitatori più intrepidi possono provare uno
degli step del Percorso Mistico, ovvero l’esperienza di entrare in
una vasca apposita in cui vengono invasi da pidocchi, pulci, zecche, eccetera per circa dieci minuti (il tempo è variabile, c’è chi resiste anche mezz’ora).
Molte di queste esperienze, è chiaro, sono per i pellegrini, i turisti di giornata o gli avventori saltuari. I nostri soci hanno uno
standard totalmente diverso: il motivo per cui pagano una quota
annua di tremila euro è tentare la scalata mistica e dunque l’unione
col coprolite prima e con la divinità poi, seguendo l’itinerario che
è uno dei nostri fiori all’occhiello: il Percorso Mistico. Il Percorso
Mistico si compone di diciotto step, la cui conclusione è data
dall’unione mistica con l’Oggetto. Ciascuno step è stato pensato
ed elaborato dai Padri della Dottrina, e ricostruisce fedelmente un
avvicinamento all’unione con dio. Qualunque dio. Nel nostro caso
è rappresentato da un pezzo di sterco fossilizzato. Naturalmente
non tutti riescono a raggiungere lo step diciotto. Alcuni soci riescono a provare dalle tre alle cinque esperienze mistiche in una
stagione (febbraio – dicembre, chiusura lunedì non festivo), altri
neppure una. Ogni qualvolta un socio raggiunge l’esperienza mistica questo grande risultato si celebra nella Sala delle Premiazioni,
dove alla consegna dei premi segue un faraonico buffet offerto
dallo sponsor. Col walkie talkie G.F., il mio braccio destro, il Segretario Mistico, colui che mi sostituirà quando andrò in pensione,
mi avverte che c’è un problema con un figurante all’area Storia
Preistorica del Coprolite, una piccola zona didattica di secondaria
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rilevanza frequentata soprattutto da scolaresche e famigliole.
Chiedo via radio qual è il problema e G. F. mi dice il vaccino è il
problema. Tiro fuori il cartoncino con lo splendido sermone che il
Presidente pretende sia enunciato ai dipendenti quando c’è un
problema di qualunque genere, me lo ripasso per bene e arrivo in
zona, prendo da parte il figurante e comincio. Avrà diciotto, diciannove anni.
Dico sondare il clima aziendale è di fondamentale importanza
dato che sono proprio le risorse umane, oggi più che mai, a costituire la marcia in più di un’azienda. I collaboratori sono la risorsa
più importante. Per questo dovresti sentirti orgoglioso del lavoro
che svolgi. Dice sì sono orgoglioso ma stamattina il vaccino non
lo faccio. Dico è impossibile e gli chiedo di enunciarmi un breve
excursus del suo periodo speso alle nostre dipendenze.
Dice tre mesi aiuto facchino, due mesi pizzaiolo, un mese e
mezzo idraulico, sei mesi alle pulizie spogliatoi. Da tre mesi il mio
ruolo è Adoratore Ufficiale del Sacro Coprolite. Dico molto bene
giovanotto, e gli offro una sigaretta.
In pratica il compito di questo tizio è quello di indossare un
manto di pelle caprina e lasciarsi invadere da pulci, pidocchi e
blatte (talvolta anche zecche, che sono considerate come straordinario) per testimoniare tutto il suo amore feticistico nei confronti
del sacro coprolite (gli adoratori del sacro coprolite – intendo
quelli veri, oggi ridotti a poche decine di fanatici – adottano questa
pratica sul serio, ritenendo che l’unione con questi parassiti conduca direttamente all’unione mistica con la divinità); il problema è
leggermente più grave del previsto, poiché un Adoratore Ufficiale
non ha un’area circoscritta ma può, anzi deve, muoversi per
l’intero parco. Gran parte del suo lavoro consiste nel farsi fotografare con le orde di pellegrini, per lo più donne e bambini, che caratterizzano la vera ricchezza e il vero patrimonio del nostro parco. Gli domando sei gratificato dal tuo lavoro? Risponde a dire il
vero sembrerebbe un lavoro pazzesco, come sostiene la mia ragazza, ma poteva andarmi peggio: gli uomini scimmia, per esempio, galleggiano nelle deiezioni per quattro ore e le altre quattro le
trascorrono nelle varie raffigurazioni di caccia e di vita quotidiana
preistorica.
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Dico mi pare una saggia risposta e mi accendo una sigaretta.
Chiedo e allora questo vaccino? Niente vaccino dice, sono allergico. La parola ‘allergico’ mi spalanca le porte di un mondo cupo e
pessimistico. Penso porca puttana ho fatto una cazzata, e comincio a riflettere.
Mi capite, qui occorre scegliere con grande cura i dipendenti,
ma soprattutto è fondamentale indirizzarli alle varie aree del parco, e questo è il compito principale del direttore, cioè il mio. Se un
dipendente soffre di vertigini è escluso che lo indirizzi alla Torre
dell’Amore Intellettuale di Dio, se patisce la vista del sangue mai
indirizzarlo alla Palestra, e così via (i musulmani, purtroppo, costano poco, e devo necessariamente indirizzarli anche in aree contrastanti, come quelle ebraiche). Ma soprattutto, se un dipendente
è allergico a vaccini e medicinali vari, mai offrirgli un posto come
Adoratore Ufficiale. Gli Adoratori Ufficiali sono vitali, allo stesso
modo dei figuranti gladiatori attorno al Colosseo. Non servono a
niente, mi si dirà, ma è un’opinione frettolosa e imprecisa: essi
contribuiscono a creare atmosfera e aumentano la possibilità che il
visitatore si lasci attirare dal gorgo dei gadget, in primis quello delle fotografie. Al parco abbiamo ventidue Adoratori Ufficiali più
una trentina di Ufficiosi, ma ne servirebbe almeno il doppio.
Mi chiedo come possa essermi sfuggito un fatto così considerevole, mentre il figurante continua a parlare.
Dice la mia ragazza ripete che il mio è un lavoro umiliante, ma
il suo atteggiamento radical chic non può sminuire di una virgola il
mio operato; nel corso dell’ultimo mese mi sono contraddistinto
come il migliore nel mio campo sotto tutti i punti di vista, sia per
numero di fotografie, circa trecento scatti a cinque euro l’una –
soldi freschi che consentono la sopravvivenza del nostro Parco –
sia per la resistenza alle malattie trasmesse da pidocchi, pulci, zecche e ogni altra forma di parassita. È questo il punto: gli Adoratori
Ufficiali devono sottoporsi a sedute massacranti nell’ambulatorio
del Parco e a trattamenti quotidiani con iniezioni e vaccini pesantissimi: è una regola inderogabile. Sedici anni fa un figurante ha
seriamente rischiato di mandare sul lastrico l’azienda intentando
una causa miliardaria dopo essersi beccato il tifo murino o che so
io, prima di schiantarsi contro un palo della luce sulla statale per
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Sabbione. La resistenza a malattie quali malaria e tifo murino, lo
capirete senz’altro, è un requisito fondamentale di ogni buon figurante Adoratore Ufficiale del Parco Mistico del Sacro Coprolite.
Chiamo Berri all’equipe medica e domando ma non c’è una medicina alternativa anti-allergica che ci dia la garanzia di copertura,
l’assicurazione che vada tutto bene, insomma che ci pari il culo?
Risponde non c’è ma possiamo farlo credere al ragazzo. Dico perfetto non mi piacciono queste porcate ma c’è la crisi e ho bisogno
di tutti gli adoratori, e allora spedisco il ragazzo in ambulatorio
dove gli dicono tranquillo ti facciamo una bella iniezione omeopatica, ma in realtà la caricano del vaccino-base, quello strapieno della sostanza di cui è allergico. Aspetto che torni al lavoro e spero
che l’allergia si manifesti a fine turno, non posso permettermi di
perdere un adoratore in una giornata come questa; gli dico sorridi
sei il migliore tra tutti gli Adoratori Ufficiali e lui sorride, è contento come un bambino (e comunque ne ha ben d’onde, prende milleduecento euro al mese più le mance, uno stipendio che da queste
parti solo il Parco Mistico può garantire). Chiamo la mia ragazza e
dico un direttore deve prendere delle decisioni, lei non capisce ma
mi dice ti amo tesoro torna presto.
Verso mezzogiorno e un quarto un macellaio di Altaforte si
sente male durante l’esperienza dell’Assalto da Parassiti. Facciamo
firmare a tutti un documento che ci alleggerisce da ogni responsabilità (lo chiamiamo teneramente salvazienda) ma verificare di persona è uno dei miei compiti e così salto sul mio mezzo e mi dirigo
sul posto. Sembra che il problema non sia il classico svenimento
ma una puntura multipla di zecca. In questi casi la nostra equipe
medica si precipita sul malcapitato e lo trasporta in laboratorio per
le analisi e le cure. Al macellaio purtroppo viene un colpo e ci
stramazza lì, sul lettino dell’ambulatorio. A questo punto entrano
in scena due figuranti travestiti da asceti che volteggiano attorno al
cadavere e tentano di trasfigurarlo preparandolo per l’aldilà, che
nel nostro caso è una comunione armonica con l’Oggetto, il Feticcio, il Coprolite, emanazione di Dio e quindi Dio stesso. A tale
pratica sono tenuti a partecipare i parenti o gli amici della vittima,
il cui spirito sta per fondersi con quello dell’Oggetto; ho sempre
pensato che si tratti di fandonie, ma il mio lavoro non è quello di
463
pormi domande, non è quello di dubitare, è quello di far eseguire
ordini. Ad ogni buon conto meglio tenere in fondo al cassetto della mia scrivania il curriculum degli asceti: uno dei due era capo
idraulico fino a quando il precedente asceta è stato assunto in una
banca di Sabbione, l’altro è figlio del pizzaiolo della Vesuvio al
Parco Mistico, la pizzeria più celebre del complesso (ce ne sono
tre). E comunque i pellegrini se la bevono. Li osservo mentre tifano per lo spirito del proprio parente appena defunto per un infarto procurato da sette punture di zecca e mi sento bene, rilassato,
come uno che sa fare il proprio lavoro. I parenti si interrogano
sulla fine del proprio caro e qualcuno deve confortarli, abbiamo
dodici psicologi e una Guida Spirituale pronta a fornire le spiegazioni del decesso, sempre permeato da una volontà superiore. Certo gli scettici non mancano. Stavolta è un teenager secco coi capelli dritti che domanda se davvero può essere una volontà superiore
a decretare la morte per infarto o se invece non sia stato lo shock
per le punture di zecca (è chiaro che le zecche abbiano fatto il loro
lavoro, del resto è proprio quello che vogliamo far pensare alla
gente: la morte, o la chiamata, o l’identificazione assoluta e mistica
con l’Oggetto, si verifica in seguito all’azione dei parassiti che
l’Oggetto ha contribuito a generare e a vivificare, tanto da esserne
invasi. Le zecche che hanno punto il macellaio di Altaforte in realtà non sono banali zecche ma sono zecche mistiche, generate dal
coprolite e quindi altrettanto sacre). Zittisco il ragazzino con una
spiegazione incomprensibile. Ho una scorta di spiegazioni incomprensibili per ogni evenienza, del resto qualcuno le scrive per noi e
questo qualcuno è pagato profumatamente. Solitamente mi limito
alla prima parte della spiegazione, anche perché sfido chiunque a
memorizzare cinquantacinque pagine di fandonie; il ragazzino però insiste e mi costringe a convocare P. F. d’urgenza. P. F. passa
intere notti a studiare spiegazioni incomprensibili ma verosimili.
Odio i teenager, puzzano e sputano, scoreggiano e canticchiano
canzoni di Britney Spears, ma soprattutto si credono depositari
della sapienza del cosmo. E infatti quando P. F. arriva il rompicoglioni è già pronto a dare battaglia, spalleggiato da una sorellastra
grassa e racchia, eppure terribilmente odiosa.
464
Finalmente qualcuno con cui interloquire, dice il
mostriciattolo.
Mi dica tutto, dice P. F.
Non è che tutta questa storia del feticismo si conclude con una sorta di panteismo? Chiede il teenager.
Il culto coprolitico si differenzia sensibilmente dal
panteismo, dice P. F.
Eppure a me pare proprio panteismo! Urla il deficiente, eccitato come quando si trovò tra le mani il primo
numero di Playboy della sua carriera di segaiolo.
Non è corretto, dice P. F.
Se dio è in ogni cosa, come sostiene il motto simbolo del culto, non si tratta forse di panteismo? Chiede il
teenager.
Assolutamente no, intervengo io.
E tuttavia sarebbe corretto definire il culto di Kopros come una concezione non-teistica della divinità? Domanda il bambinone.
Non posso fare a meno di osservare la sorellastra, racchia come una scopa, mentre mangiucchia una specie di
pannocchia abbrustolita.
Si potrebbe, risponde P. F.
e allora si tratta di panteismo bello e buono! Urla
l’imbecilloide infoiato come un gatto in calore.
A questo punto siamo stanchi e P. F. sfodera una delle
sue spiegazioni incomprensibili.
Mi permetta di ricordarle che se proprio deve trovare un collegamento al feticismo coprolitico esso è già stato individuato in una sorta di panpsichismo, e a tal proposito le andrò a citare il trattato di Galen Strawson intitolato
“Realistic Monism and Coprolism: Why Physicalism Entails
Panpsychism” in Journal of Consciousness Studies, 13,
Num. 10–11, 2006, pp. 3–31, dice P. F.
Lasciamo perdere, dice il mocciosetto.
È quasi fatta, ma P. F., non è soddisfatto.
Inoltre, se dobbiamo sviscerare tutta la dottrina
coprolitica, nel 1941 Keith Hamm Stahl ha dimostrato che il
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sacro coprolite è composto per il settantanove per cento di
flogisto essiccato.
Il teenager è sotterrato, non ha idea di quel che P. F. dice e rimane muto, sbuffando. Gli do una pacca sulla spalla e gli offro un
buono per una seduta ascetica corredato da un pacchetto di
chewing-gum gusto coprolite senza zucchero.
Saluto P. F. e penso che le morti accidentali di quest’anno salgono a tre. La prima, a febbraio, è stata una pellegrina particolarmente entusiasta che è caduta dalla Torre dell’Amore Intellettuale
di Dio, sfracellandosi al suolo dopo un salto di settantadue metri –
tale è l’altezza della Torre, una specie di surrogato del Percorso
Mistico o se volete un percorso mistico per principianti, che consiste nella ricostruzione dell’omonimo percorso proposto da San
Bonaventura, in cui il pellegrino o il semplice turista può vivere
realmente e tangibilmente l’ascesa mistica –. La tragedia si è consumata all’ingresso del penultimo step della torre, il quale simula
una caduta nel vuoto nel caso in cui il pellegrino non riesca a rispondere a sette domande sul Coprolite. Per chi risponde bene a
tutte e sette c’è un’ora di unione con dio, un’ora di prova
dell’Amor Intellectualis Dei, che qui consiste in un sogno virtuale
all’interno di una camera di sospensione, avvolti da pensieri sopraffini di mondi inesistenti. La signora, per la cronaca, rispose a
sei domande, fallendo la settima per un vizio di forma, e anziché
entrare nella capsula di simulazione caduta pensò bene di avventarsi sulla finestra e di cadere davvero. Probabilmente un incidente, poiché dalle nostre parti suicidarsi in questo modo è fuori discussione, e per chi vuole suicidarsi coscienziosamente c’è la Palestra.
Il secondo decesso accidentale è stato un vecchio pensionato di
Frinco, a maggio, stroncato dal Confessore Robotico, un confessionale computerizzato che rimanda al mittente i peccati sottoforma di patimenti. La concupiscenza del pensionato gli costò un
viaggetto di passione virtuale sul Golgotha, in realtà un’esperienza
piacevole e sperimentata da una moltitudine di bambini, nella quale il visitatore si trova a fare i conti con la Passione di Cristo; il finale è noto a tutti: dopo aver sollevato una vera croce di legno a
grandezza naturale (cambia solo il peso, e di molto), il visitatore si
466
lancia nella scalata del monte Teschio, fedelmente ricostruito dai
nostri scenografi e renderizzato dai nostri tecnici informatici. Prima di raggiungere la vetta però il vecchio cadde e non si alzò più.
Ordinaria amministrazione.
Vado dal Presidente e lo trovo che fa i solitari al Macintosh.
Sono impegnatissimo mi dice torna più tardi. Abbiamo un decesso
dico e richiudo la porta del suo ufficio. Allora entra subitissimo
dice e mi fa entrare.
Racconto l’accaduto. Bisogna presentare una relazione scritta
dice e si accende una sigaretta. Mi offre una sigaretta. L’accetto.
Chiede ha firmato il salvazienda? Rispondo l’ha firmato e gli porgo il documento. Dice benissimo vai a buttar giù la relazione. Vado a buttare giù la relazione, ma prima chiamo gli uomini delle
Onoranze Funebri Interne per le pratiche di sepoltura, mi accerto
della fede del cadavere e prenoto un sacerdote per l’estrema unzione; infine convoco i barellieri, faccio caricare il cadavere e ordino di trasportarlo nell’area della Porta del Supremo Spavento, dove ci sta aspettando lo Sciamano Coprolitico, un ex pugile travestito mezzo da nativo americano e mezzo da pastore sardo, che conclude la nostra pratica sul cadavere allestendo la commediatragedia del superamento della Porta del Supremo Spavento da
parte della carne, per purificarla ed entrare nella Stanza della
Tranquillità. La porta è un gigantesco portale in acciaio scolpito da
un noto scultore sabbionasso, una vera delizia sulla superficie della
quale trovano posto i pensierini degli avventori a proposito della
morte e della speranza in un al di là; è frastagliata da gargoil e da
simboli massonici, pentacoli e serie di Fibonacci buttati lì per aumentare l’aura di mistero. Mi mette i brividi.
La Guida Spirituale addetta allo stuolo di parenti e amici del
macellaio (in tutto nove, una bella congregazione di lacrime e
starnazzi) spiega che affinché si possa completare l’unione spirituale con l’Oggetto (solitamente il misticismo o feticismo che dir
si voglia riguarda il corpo e lo spirito insieme, ma direi soprattutto
il corpo) occorre che anche la carne, per quanto inerme e morta,
entri in contatto con l’Oggetto e si purifichi dalla paura della vita
terrena. Il tutto dura all’incirca dodici minuti, il tempo per un’altra
sigaretta. Solitamente non seguo queste pratiche quando la gente
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porta qui i propri parenti deceduti fuori dal Parco Mistico (e naturalmente ce ne sono molti – per fortuna, visto che tutto il procedimento costa duecentocinquanta euro), ma in questi casi ritengo
opportuno presenziare, per prevenire qualunque reclamo o per
fornire qualche altra spiegazione incomprensibile; in questo caso
nessuna rimostranza, i parenti e gli amici del macellaio, compresi il
mocciosetto e la sua orrenda sorella, sono comodamente seduti
sulle nostre poltrone deluxe e seguono impassibili la scena, costernati ma allo stesso tempo eccitati per la sorte del loro caro
estinto. Faccio buttare giù la relazione da G.F. perché non sono
bravo con queste stronzate burocratiche e chiedo a Rena abbiamo
già dati di oggi? Mi dice non ancora ma li sto elaborando. Rena
sembra avere un ghigno di sfida stampato sul volto e decido di
non addentrarmi in una discussione sui conti del Parco. Invece
faccio un salto alla Palestra col mio golf cart superaccessoriato; la
Palestra è una vera e propria chicca, e modestamente è stata una
mia idea.
Nacque nove anni fa dall’esigenza di creare uno spazio adibito
all’espletamento della clausola 99 da parte dei soci ma anche degli
esterni.
Vuoi suicidarti entrando in unione con l’Oggetto delle tue venerazioni? Vuoi dare un senso ultraterreno al tuo ultimo gesto terreno? Vuoi scoprire la comodità di una clausola 99 al Parco Mistico del Sacro Coprolite? Basta con ponti trafficati, automobilisti
prudenti che frenano all’ultimo istante, basta col freddo e con
scomodi cappi approntati in maniera amatoriale. Da oggi c’è la Palestra, un’area attrezzata per ogni modalità di suicidio®, dalla camera a gas al ponte, dal salto contro mezzi di trasporto
all’iniezione letale. E da oggi lo sgombero del cadavere è gratis! E
la sepoltura te la offriamo noi! Cosa aspetti? Corri al Parco Mistico
del Sacro Coprolite! Località Marazzi 91 - Pizzengo, Sabbionasso
Alto. Certificata dal Ministero Suicidi & Festività® del Gerarcato
del Sabbionasso.
Così recitava la pubblicità pensata per il lancio. Un successo
mirabile che mi valse un aumento corposo e, ammettiamolo, ben
meritato. Scelgo personalmente e accuratamente il personale della
Palestra. Moose è il Superintendent, il responsabile di tutta l’area;
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ha quarant’anni ed è considerato il bello del Parco, tanto che due
anni fa una piacente signora di Sabbione rimandò di due mesi la
sua clausola 99 per trascorrerli con lui. Gli chiedo come va e mi
dice abbiamo tre prenotazioni per oggi e sette per martedì. Dico
non un granché ed entro negli spogliatoi, nella sala d’aspetto e infine nella Palestra vera e propria. Osservo l’attrezzatura che negli
anni è andata affinandosi: un ponteggio alto quarantanove metri
simula la morte per precipitazione, la camera a gas permette di regolare la durata del suicidio® dai quattro minuti alla mezz’ora, il
muso rincagnato di una Porsche Cayenne esce dalla parete sospinto a cento chilometri orari da un braccio meccanico per chi vuole
saltarci contro. Abbiamo dodici forche con altrettanti cappi, per le
esigenze di chi vuole impiccarsi e morire per soffocamento o per
rottura del collo. Un corpo penzola dal cappio 3, quello che garantisce la rottura del collo e la morte istantanea. Il tutto preceduto
dall’unione mistica col coprolite e seguito dalla pratica della porta
del Supremo Spavento eccetera eccetera. La Palestra è un punto
cardine del Parco Mistico, e Moose ha ormai acquisito
un’esperienza tale che tra tutte le aree questa sarebbe l’unica che
potrei fare a meno di controllare; ci vengo per affetto. Cinque persone si prendono cura dell’assistenza ai suicidi® e due verificatori
esterni, inviati dall’Ufficio Festività & Suicidi® del Gerarcato, sono
sempre presenti al fine di certificare legalmente e formalmente
l’espletamento della clausola 99. Dico Cristo tre prenotazioni sono
una miseria e mentre lo faccio la seconda delle tre prenotazioni,
un docente universitario della facoltà di fisica di Sabbione, si fa
travolgere dal muso rincagnato della Porsche Cayenne ed è subito
coperta e raccolta dagli uomini di Moose. Me ne vado abbastanza
sconsolato e mentre rimugino su una nuova campagna pubblicitaria e sulla possibilità di proporre nuove promozioni mi accorgo
che è ora della mia visita. Mi presento per le analisi, faccio le analisi, compilano il quadro clinico.
Battito cardiaco: regolare. Densità sanguigna arteriosa: fluida.
Problemi alle articolazioni: nessuno. Attività respiratoria: nella
norma. Altre controindicazioni: pressione alta. Stato di salute generale: buono.
469
Mi fermo a pranzo e i soci sono una lagna continua: l’acqua
della piscina è fredda, l’area Disabili & Malati dovrebbe essere a
parte, la vista degli storpi e dei malati terminali non favorisce lo
sviluppo di un clima sereno tra i soci, nella Valle delle Lacrime il
vapore è troppo tiepido e via dicendo. Mi rimangono le patate al
forno sullo stomaco, butto giù un caffè, saluto e salgo sul mio golf
cart diretto in ufficio. Mentre passo dal Cinema Dinamico incontro gli addetti culturali che si lamentano per lo scarso afflusso di
gente. Qui raccontano le teorie più accreditate sul misticismo coprolitico e lo spettacolo, se così possiamo chiamarlo, è di una noia
mortale. Nel corso degli anni il nostro Ufficio Delibere, Teorie &
Disquisizioni ha svolto un lavoro egregio proponendo ai quattro
venti (il che significa con articoli e saggi su pubblicazioni scientifiche e religiose, presso scuole e università, eccetera) rilevamenti
d’ogni genere, disquisizioni d’ogni sorta, dialoghi su massimi sistemi e analisi sistematiche. L’ultima, venduta ottimamente ma poi
abbandonata, indicava il coprolite come risalente al periodo ordoviciano, circa quattrocentotrentasette milioni d’anni prima di Cristo, senza però determinarne la provenienza. Altri raffinati studi lo
ricondussero a un periodo più giovane, circa settantamila anni
prima dell’Impostore (come chiamano gli iscariotici Cristo), e lo
vollero generato da una tartaruga gigante. Fecero così in modo di
accendere la disputa anche sull’origine del generatore, che per alcuni era di conformazione invertebrata: questi eretici affermarono
che il coprolite fosse un accumulo di faecal pellets, ma furono
presto tacciati di blasfemia e isolati. L’infinito tourbillon accademico lo identificò, per un certo periodo, con una costola del grandioso coprolite di Saskatchewan, del peso di sette chili, eppure mai
venerato. E ancora si discuteva sulla determinazione: era decisiva
la composizione chimica del coprolite in sé oppure si doveva risalire all’organismo che l’aveva prodotto? Chi era il demiurgo? La
pubblicazione di Jerry Todwell, che tentò una teologia negativa
pubblicando la tesi dottrinale secondo cui il coprolite non era stato generato ma si era formato per accumulo di sostanze sconosciute, non fu mai accettata dagli accademici. Miglior fortuna ebbe
la dottrina del francese Julien Varrel, che sostenne una sorta di
470
duplicità divina del nume: sia l’organismo che lo produsse sia la
sostanza in esso contenuta vanno considerate divine all’unisono.
Qualcuno arrivò a sostenere, in passato, che il coprolite fosse una
reliquia prodotta dall’inoppugnabile Gesù Cristo. Insomma, alla
fine la tesi accettata comunemente è quella esposta nella targa di
fianco alla teca del Sacro Coprolite.
Butto un occhio nella sala e conto: nove persone in una sala da
settantacinque posti. Mi preoccupo. Quando inaugurammo il Cinema Dinamico, sei anni fa, dovemmo affrontare l’emergenza dei
continui sold out e delle richieste disattese. Sento la crisi che mi
accalappia la gola sottoforma di un magone irresistibile. Del resto
gli ultimi dati forniti dalle più accreditate società di sondaggi hanno rilevato un calo di sette punti percentuali nella popolarità e
nell’affezione del feticismo coprolitico presso i cittadini sabbionassi. È una questione con cui dobbiamo fare i conti. Decido di
fare un salto al Bunker Teorico, l’edificio interrato in cui risiedono
i ‘veri’ mistici coprolitici, i padri della dottrina, e nei cui sotterranei
giace la reliquia più importante del Sabbionasso, forse del mondo:
la testa mummificata del nostro patrono San Bertran de Born; il
luogo è off limits per chiunque tranne che per il Presidente e per il
sottoscritto, unici depositari del codice d’ingresso oltre all’equipe
scientifica che sta elaborando il virus mistico e alle guardie armate
che si succedono nel sotterraneo. Qualche anno fa si scoprì che i
gas e i batteri emanati dalla testa mummificata del Patrono sabbionasso sono alla base del virus mistico, così sono iniziate una
serie di analisi e la raccolta mensile dei campioni che dopo infinite
lotte i padri della dottrina hanno approvato.
Tra i padri della dottrina (una ventina in tutto più una dozzina
di novizi) ci fregiamo di avere alle nostre dipendenze anche Padre
Malachia Osé Espinoza, un novantasettenne che partecipò in gioventù alla prima congregazione mistica del coprolite. Mi accolgono un paio di novizi alle prese col pasto tipico del feticismo coprolitico, una serie di cibi avariati che mi fa venire il voltastomaco.
Buongiorno, dico.
Non vede che siamo impegnati?
471
Stanno cercando di inghiottire qualcosa di simile a uova completamente avariate, mentre altri sono inginocchiati nell’angolo
della stanza ed emettono gemiti tenendosi lo stomaco fra le mani.
Dobbiamo esercitarci, dice uno dei novizi.
Anche perché ci avete aumentato la tassa sugli scarichi, dice
l’altro novizio.
Il Presidente ha costretto i mistici a un impiego più morigerato
di cibo da quando gli è giunta voce che tutti i loro rifiuti umani,
sacri per definizione ma terribilmente maleodoranti, impregnavano i condotti di ventilazione della sovrastante Sala Tv per Soci. In
pratica cacavano troppo e troppo frequentemente per le narici dei
nostri beneamati soci, i quali non hanno perso tempo per lamentarsi a tutto spiano. Gli anziani allora pur di non rinunciare al cibo
hanno inserito alcune clausole nella disciplina per far sì che tutti i
mistici, soprattutto i novizi, limitassero il numero di cacate quotidiane, a fronte di sforzi disumani. Stessa quantità di cibo ma meno
cacate, è questo che hanno proposto. Il Presidente ha accettato;
inoltre mi ha costretto a far montare un filtro all’impianto di ventilazione. Guardo i novizi mentre inghiottono quel cibo avariato e
penso alle sofferenze che dovranno patire. Uno dei due mi dice i
Padri sono riuniti per studiare la relazione tra unità divina e mortificazione corporale jainista in connubio allo sbriciolamento periodico del coprolite. Dico sarebbe meglio che studiassero il modo di
uscire dalla crisi. Dice a loro non interessa la crisi. Dico invece
dovrebbe, e me ne vado, chiedendo di fissarmi un appuntamento
l’indomani mattina. Salto sul golf cart e fumo nervosamente.
Torno in ufficio e Rena mi fornisce alcuni dati, dice alla data
attuale siamo a quota trentotto soci dimissionari; ha ancora quel
ghigno beffardo stampato sulle labbra. Vado dal Presidente e comunico i dati. Il Presidente è al telefono e sta ridendo di gusto in
quel suo modo insopportabile. Mi fa aspettare, molla due baci disgustosi al telefono e mi dice mettiamo in manutenzione straordinaria alcuni lavori; chiedo quali lavori? Risponde il Fico d’India
Gigante è in condizioni pietose, ha infiorescenze scolorite e sembra mezzo secco. Il Fico d’India Gigante è l’introduzione allo Step
10: i partecipanti al Percorso Mistico devono circumnavigarlo set472
te volte completamente nudi prima di poter accedere allo step 10
vero e proprio, il Giardino dell’Eden. Mi sono sempre chiesto se
queste contaminazioni tra una religione e l’altra fossero necessarie.
Il Presidente mi guarda e dice il fico d’india è fondamentale, mio
suocero lo detestava, spiega, e per questo ora deve essere più rigoglioso che mai. Mi hanno spiegato al Bunker che la pratica della
circumnavigazione ha un duplice significato: il primo, derivato
dall’islam, di surrogato ai famosi sette giri intorno alla Kabaa, il secondo, profano, di esaurire la vacuità dell’esistenza terrena, concetto espresso da un tale Elliot o una roba del genere; non ci ho
mai capito nulla ma va bene così. Dico manderò il giardiniere e
l’agronomo oggi stesso. Dice in più stavo pensando di ammantare
i partecipanti con un velo, quelli dell’Ufficio Moralità & Igiene mi
rompono i coglioni di continuo. Dice mi hanno già fatto passare
le Prostitute Fenicie, il Gioco d’Azzardo al Saloon, l’alcol e il tabacco, ma adesso vogliono qualcosa in cambio. Dico i padri della
dottrina la prenderanno male. Urla vadano affanculo i padri della
dottrina, mi costano un occhio della testa e stanno tutto il tempo
rintanati in quel buco di cemento a masturbarsi su riviste pornografiche, da oggi decido io. Dico servirà un documento bollato.
Dice dalla prossima settimana si cambia, butta giù una relazione e
modifica il regolamento. Torno nel mio ufficio, spiego la situazione a G. F. e gli dico di buttare giù una relazione e di modificare il
regolamento. Mi risponde ma è impossibile i padri della dottrina
non accetteranno mai. Dico vadano affanculo i padri della dottrina
e pure il Presidente, facciamo quello che ci dicono e chiudiamo il
discorso. Rena ridacchia e scuote il capo e io me ne vado per non
rovesciarle in testa la scrivania. È incredibile come il Cavaliere abbia costruito questa meraviglia intorno a un pezzo di sterco fossilizzato e come i suoi eredi stiano cercando di rovinare tutto.
Entro nell’ufficio marketing dove pasteggiano a plum cake e
cappuccini e urlo diamoci da fare cristo, trentotto dimissioni sono
trentotto dimissioni. Mi rispondono c’è il culto di San Tamerlao
che ci porta via un sacco di adepti, il Luna Park ci porta via i pellegrini, il Museo di Storia Naturale del Sabbionasso ci porta via i
turisti. Dico non me ne frega un cazzo inventate una nuova campagna pubblicitaria per la Palestra, preparate una bozza di promo473
zioni, un pacchetto o che cristo ne so, e insomma sgobbate come
muli perché voglio dei risultati. L’ultima campagna pubblicitaria
stimolava il cittadino sbandierando i prodigi avvenuti alla presenza
di un incontro spirituale e fisico col Coprolite. Negli ultimi due
anni, però, si sono verificati solo tre casi di guarigione: due cecità e
una paralisi, che come al solito gli scienziati hanno attribuito a
cause del tutto naturali o a cure mediche, nonostante la propaganda dei nostri scienziati. Sono tempi duri. Chiamo la mia ragazza e
le dico va bene cibo messicano? Mi risponde perfetto amore mio
torna presto. Rigiro una sigaretta tra le dita, me l’accendo, penso
dovrei fumare di meno. Poi mi chiamano dal Percorso Mistico e
mi dicono serve l’intervento del Direttore in qualità di Giudice
Mistico. Chiedo che step? Comunicano step sette. Salto sul mio
golf cart e mi sposto al Percorso Mistico presagendo una qualche
rottura di palle. Quando c’è la richiesta di un arbitrato ci sono
sempre dei problemi. Lo step sette è uno dei miei preferiti: si tratta dell’Abbandono del Pensiero; un macchinario appositamente
creato nei nostri laboratori agisce sui neuroni e distrugge tutti-ipensieri-tranne-uno del partecipante per undici minuti; in questo
breve lasso di tempo il partecipante per accedere allo step otto
(molto più fisico), deve mantenere come unico concetto noematico un pensiero degno e puro, imprescindibilmente rivolto
all’Assoluto, dunque all’Oggetto, dunque a Dio. Entro, saluto e
dico che problema c’è? Il Percorso Mistico si svolge in gruppi da
tre, quattro partecipanti. Uno dei tre dice il pensiero di questo qui
era una donna in reggicalze e perizoma con un frustino in mano.
Dico squalificato e invito gli altri a proseguire. Dice sì ma dove sta
scritto nel regolamento che l’Oggetto non può essere attorniato da
altre figure? Non capisco. Mi spiegano che nell’Unico Pensiero il
frustino ha le sembianze del coprolite sacro. Chiamo G. F. e mi
consulto. G. F. conosce il regolamento anche meglio di me. Dice
squalificato poiché anche se il frustino ha la forma del coprolite
esso viene accostato a un’immagine carnale che inficia senza dubbio l’unione assoluta con l’Oggetto, mentre l’Oggetto, in qualunque modo essa venga rappresentato, deve restare unico; sta scritto
nel Libro delle Decisioni sul Regolamento del Percorso Mistico.
Dico squalificato e mi prendo dell’incompetente; già che c’è non
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perde occasione per criticare il Ristorante Centrale della Park
House. Dice il coniglio è immangiabile. Dico me ne occuperò, e
salgo sul golf cart per tornare in ufficio. Sono le sei e dieci e mi
chiamano dall’ambulatorio: abbiamo un problema serio dicono.
Mi precipito all’ambulatorio. Chiedo che problema serio? Vedo il
figurante allergico al vaccino disteso sulla lettiga. Berri dice si tratta di shock anafilattico del 3° grado della scala Mueller che ha
condotto il paziente al coma. Dico porca puttana questo è un bel
problema. Dicono tranquillo se non si rimette in sesto siamo a posto; lo trasferiscono al Policlinico. Vado dal Presidente e vuoto il
sacco, sta sgranocchiando un chilo di noccioline. Dice hai i dati?
Dico trentotto soci dimissionari, settantanove per cento di presenze in meno al cinema dinamico, buona affluenza alla Grotta,
media affluenza al Percorso Mistico. Dice Cristo devi occuparti
dei finanziatori, rispondo mi occuperò dei finanziatori. Dice trovami dei gioiellieri, rispondo cercherò dei gioiellieri. Chiedo e per
la faccenda del figurante in coma? Dice se non si sveglia chissenefrega, se si sveglia è un problema ma lo risolveremo con un risarcimento. Sgranocchia noccioline. Sono le sei e tre quarti e fa ancora caldo; si avvicina un periodo cruciale per la stagione, quello delle celebrazioni per la Festa di San Bertran de Born, la crisi incombe, le presenze diminuiscono, un nostro dipendente è entrato in
coma e il Presidente sgranocchia noccioline e si sgranchisce le
braccia dietro la testa, mostrandomi l’imponenza del suo corpo
crasso e schifoso. Chiede e per quanto concerne lo sbriciolamento? Rispondo nella norma Presidente. Vuole che faccia subito un
elenco dei soci più chiacchierati, quelli che raggiungono l’Assoluto
dopo lo step 18 ingannando o barando; dice becchiamone uno,
servirà da esempio. Faccio la lista alla veloce. Me li boccia tutti.
Dice ma sei pazzo questi sono soci troppo importanti per rischiare che se ne vadano o perdano l’afflato, beccane un altro. Mi fa un
paio di nomi. Uno è un ex sacerdote di Tonco, un poveraccio che
dopo aver perso la fede in Gesù Cristo sta cercando di riacquistarla attraverso il feticismo coprolitico; dice questo è l’ideale, ha pure
dilazionato la quota associativa in tre rate. Dico non mi risulta che
abbia mai ingannato. Due settimane fa ha raggiunto lo step 18 ed
è stato premiato per la sua Unione con l’Oggetto, tra l’altro dopo
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aver superato lo step 16, una serie di torture e mortificazioni corporali jainiste da brivido, con il massimo dei punti. Dice è lo stessissimo se ha ingannato o no, qui serve un esempio, e la Commissione di Disciplina Feticistica mi sta col fiato sul collo, mi sono
spiegato? Rispondo si è spiegato Presidente, esco e mi fumo una
sigaretta nel Peripato della Concupiscenza, step 15 del Percorso
Mistico, dove dodici sirene-prostitute costringono gli avventori a
sacrifici carnali pietosi (queste prostitute sono state una scelta
davvero azzeccata – costrette ovviamente a consumare il rapporto
se l’avventore cede alle loro lusinghe; ecco perché lo step 15 ha
una percentuale di abbandono del settantanove virgola sedici per
cento – accompagnate ovviamente da quattro gigolò per le avventrici). Penso per un attimo al giovane figurante Adoratore Ufficiale, telefono al Policlinico per sapere le sue condizioni. Coma irreversibile dicono. Non so se gioire o disperarmi; decido di gioire e
vado a farmi una mezza pinta di birra al Bar della Park House, dove naturalmente incontro soci che mi offrono la birra e che mi
porgono le loro sottili e raffinate rimostranze. L’Avv. Sunkojn
chiede com’è possibile che abbiate rimosso i pisciatoi? Un uomo
non può pisciare se non nei pisciatoi. Chiamo G.F. e domando
perché abbiamo rimosso i vespasiani? Perdevano piscia e puzzavano, risponde G.F.; comunico il motivo della rimozione
all’Avvocato. Quello sbraita non me ne frega un cazzo, dovete
reinstallarli. Dico faremo ripristinare i vespasiani avvocato, e gli
offro un bicchiere di barolo. Il Dott. Herzoj mi prende da parte e
dice chissenefrega dei pisciatoi, qui il vero problema sono le spine
dei cespugli. Chiedo quali cespugli? Risponde quelli attorno al Bosco Liturgico; non le pare drammatico, spiega, che i cespugli abbiano le spine? Mia moglie si è graffiata due volte. Il Bosco Liturgico è il luogo meditativo di preparazione al Percorso Mistico dove i Meister di mistica svolgono lezioni ai soci. Abbiamo cinque
meister e due assistenti meister. Dico provvederemo a cavare le
spine dai cespugli una a una dottore; dice così si fa, voglio poterci
mettere il culo nudo dentro senza graffiarmi, e mi offre un caffè.
Chiama la mia ragazza e chiede quando arrivi? Tra non molto dico
e vado in ufficio. Rena per fortuna se n’è andata, G. F. sta per farlo quando chiamano dal Percorso Mistico e comunicano il Notaio
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Lumoj ha raggiunto l’Unione Mistica con l’Oggetto. Ordino preparate la sala premiazioni e leggo gli ultimi dati sulla concorrenza:
altri due parchi mistici nei dintorni di Sabbione, più piccoli ma
confortevoli e a detta di molti più funzionali. Il primo, inaugurato
l’anno scorso, è un parco Iscariotico nel quale si insegnano i rituali
di quella stramba religione, ma è quello che più mi preoccupa. Il
secondo si è sviluppato attorno alla Sacra Sindone, e sebbene la
nostra Contropropaganda sia stata semplicemente micidiale, grazie
a studi e analisi che hanno confermato e ribadito più volte la falsità della reliquia, è sempre carico di visitatori. Mentre monto sul
cart telefona il Presidente e dice ore 22. Rispondo ore 22 cosa?
Dice ore 22 al Centro Studi Termodinamici. Non riesco a capire.
Il Presidente è schifosamente eccitato e io nebulosamente preoccupato. Mi comunica che alle ore 22 si effettuerà in anteprima il
lancio del virus H7 J39 su ‘scala cittadina’. Sono sempre più preoccupato. Chiedo cosa intendiamo per ‘scala cittadina’, Presidente?
Dice i nostri tecnici hanno imprigionato il virus in contenitori metallici, mi segui? Dico la seguo Presidente. Dice bravo, ora questi
contenitori metallici contenenti il virus saranno caricati su dodici
elicotteri di mia proprietà, mi segui? Dico la seguo Presidente. Benissimo, dice, questi elicotteri sorvoleranno la città di Sabbione alle ore 03.30 di questa notte. Quando si troveranno in posizione, il
che accadrà intorno alle ore 04.00, rilasceranno nell’atmosfera i
contenitori metallici. Dice se vado troppo veloce bloccami. Dico
continui pure, Presidente. Dice, perfettissimo, allora potrai immaginare quello che succederà. Dico in questo momento faccio una
certa fatica a lavorare con l’immaginazione. Il Presidente gracchia
una risata: fa niente, te lo dico io. Albori, mio caro, immagina gli
albori di una nuova era. Sono stanco di albanesi e marocchini, voglio testare il virus sulla gente. Chiedo su quale gente? Risponde su
tutta la gente. Quando i contenitori metallici farciti di virus entreranno in contatto con l’ossigeno si disgregheranno liberando il virus nell’atmosfera. Dico stiamo parlando di bombe batteriologiche?
Ride. Dice non essere ridicolo; stiamo parlando di una specie di
divertimento in occasione della Giornata del Delirio Mistico Collettivo sponsorizzata da noi. Sghignazza. Non faccio in tempo a
replicare che mi butta giù il telefono. Intanto in Sala Premiazioni
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sono pronti, il buffet di oggi è offerto dalla Cravatteria F.lli Bonjuo di Sabbione; sette e quaranta, chiamo la mia ragazza e dico ci
vediamo tra un po’, ho la premiazione; risponde cazzo è da un’ora
che sono pronta, mi dovrò struccare e ritruccare di nuovo. Cerco
di contenermi pensando alle mie analisi e mi dirigo al laboratorio,
mi visitano, mi compilano il quadro clinico.
Battito cardiaco: leggermente accelerato. Densità sanguigna arteriosa: fluida. Problemi alle articolazioni: nessuno. Attività respiratoria: nella norma. Altre controindicazioni: contratture muscolari riscontrate nella zona cervicale. Stato di salute generale: discreto.
Dico e per quanto riguarda stanotte? Dicono non siamo responsabili per le decisioni prese dal Presidente di questa struttura.
Mi presento in premiazione e appena entro un gruppo di venti
o trenta persone è già attorno al tavolo del buffet, qualcuno con
tartine ripiene in bocca. Dico signori c’è la premiazione, si fermano e applaudono. Mi chiamano dall’ambulatorio e mi confermano
che il ragazzo figurante è in coma irreversibile, dicono difficile che
passi la notte; per un attimo sono assalito dal senso di colpa, il vero e proprio cancro di chi fa il mio lavoro. Dura poco, anche perché devo mostrare un’espressione felice: un nostro carissimo socio ha raggiunto la terza Unione dell’anno con l’Oggetto. Prendo
il microfono, le casse sembrano funzionare, dico signori benvenuti
alla premiazione di oggi; senza indugiare cedo la parola al nostro
vice presidente Avv. Franco Combi, che pronuncia due coglionate
di circostanza e mi ripassa il microfono per la premiazione ufficiale. Annuncio: Al terzo posto, step 16, l’architetto Nejromo – applauso. Al secondo, step 18 con caduta virtuale, l’Ing. Ravajo –
applauso. Vince con un’eclatante Unione con l’Oggetto il notaio
Lumoj! Grande applauso finale e via come maiali al buffet. Saluto
cordialmente tutti e torno a prendere le mie cose in ufficio, ma
prima vado a presentare il rendiconto quotidiano al Presidente,
che sta fumando stravaccato sulla sua poltrona in attesa del mio
arrivo. Dico allora Presidente, i dati conclusivi di oggi: una morte
accidentale, sessantanove partecipanti al Percorso Mistico offerto
dalla Cravatteria F.lli Bonjuo, tre suicidi® in Palestra, quaranta478
quattro Park Fee, stato di sbriciolamento del coprolite nella norma, un dipendente in coma. Irreversibile? chiede. Irreversibile, dico. Dice perfetto ma dobbiamo rinnovarci capisci?
Deve sorgere una nuova era per il nostro Parco Mistico. Mi
guarda, sto zitto. Dice d’ora in poi la parola d’ordine sarà rinnovamento. Fuori dai coglioni tutto quanto è vecchio, abusato, usurato, consumato. La crisi ci fa una sega, caro mio, perché qui siamo agli albori del nuovo feticismo coprolitico. Mi guarda. Dice e
trovami delle gioiellerie. Poi si accende una sigaretta ed esclama
cose del tipo Benissimo, Very Goodissimo, Magnifico, a domani,
ci siamo intesi? Sussurro ci siamo intesi Presidente. Sono le nove
di sera e una penombra azzurra invade le colline. Vado a controllare le colture di virus contemplativo; abbiamo fatto progressi?
chiedo al capo ricercatore. Grandiosi progressi, risponde lui. Gli
effetti collaterali sono passati a vomito, nausea, dissenteria, tremori, arresto cardio-respiratorio, paralisi locale, coma vegetativo, infiammazione gastro-intestinale, morte. Dico fantastico abbiamo
debellato la trombosi, e per quanto riguarda l’infiammazione gastro-intestinale? Dice per quindici giorni di esperienza mistica continuativa e coinvolgente un po’ di bruciore al culo è accettabile.
Ne convengo e dico cosa prevedete per stanotte? Dice chi può
dirlo, gli ultimi test ci offrono una speranza di successo pari al dodici virgola sessantacinque per cento. Comunque sembra che
l’effetto indesiderato più potente non intacchi le cellule vive.
Chiedo cosa significa? Risponde per il momento non ne ho idea,
ma nelle ultime settimane ho potuto analizzare alcune, come dire,
stravaganze. Mi lascia un referto sugli ultimi esami effettuati. Non
faccio visite né mi faccio compilare il quadro clinico.
Mentre torno a casa ho sulla coscienza un ragazzo di venticinque anni e penso che forse quella stronza di giornalista non aveva
torto, ripenso al Cinema Dinamico semivuoto, al Percorso Mistico
offerto dalla Cravatteria F.lli Bonjuo col trenta per cento di partecipanti in meno, alla grave crisi che sta coinvolgendo tutte le attività del parco, persino la Palestra; non ne faccio una malattia, confido nella nuova era del feticismo coprolitico e penso alla cena con
la mia ragazza; la chiamo dico stasera niente cena facciamo domani, dice ma vaffanculo e io vado in un pub a farmi un paio di birre,
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mi rilasso, gioco a biliardo, penso al giovane in coma ma non riesco neppure a focalizzare i tratti del suo volto, rifletto sul virus H7
J39 e bevo un’altra birra. Sono un vero professionista: ho il cuore
duro come pietra e il cinismo mi nutre più dell’amore, ma che cristo, fa parte del mio lavoro.
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VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (15)
___________________
Lunedì 13 ottobre, Giornata della Falloforia Fecondativa Art
Attack, J. M. Grosskreutz, impiegato del Parco Mistico del Sacro
Coprolite, trentadue anni, si fece saltare in aria inghiottendo una
caramella esplosiva al gusto mela nell’atrio della Stazione Centrale
dei Treni di Sabbione, causando ritardi e soppressioni degli intercity in partenza per ogni angolo del territorio, nonché sedici feriti
(quattro gravi).
Il giovane, che indossava la caratteristica calzamaglia arancione, durante il compimento del suo meschino gesto era riuscito in
qualche modo a trasmettere la solita triste colonna sonora (Brigitte Bardot) collegando il proprio dispositivo I-Pod agli altoparlanti
della stazione, e aveva lasciato un biglietto riportante la scritta La
Paternità Conduce Necessariamente Al Suicidio.
L’incaricato del caso, l’Ispett. Sandro Wuzzkoj, scoprì che
Grosskreutz era diventato padre da poco più di sei mesi, e tale
evento aveva scatenato in lui una depressione talmente acuta da
condurlo a unirsi al Circolo dei Suicidi Abusivi.
L’esame dei suoi Aggiornamenti Obbligatori Annuali rivelò
che il risultato della sua ultima predizione riportava la formula Sviluppo Esistenziale Positivo.
Wuzz rifletté: lo sviluppo esistenziale positivo era rappresentato dalla paternità oppure dalla morte?
Il divinatore che effettuò l’Aggiornamento, quando interrogato, sostenne che la morte, in taluni casi pietosi, può rappresentare
uno sviluppo positivo. Quando gli fu chiesto se anche una morte
di quel genere, giunta contravvenendo volontariamente alla Legge
Sabbionassa, potesse rappresentare uno sviluppo positivo, egli rispose di sì: ci sono cose, a questo mondo, che non si possono intendere.
E quando infine gli fu fatto notare che lo scopo della divinazione avrebbe dovuto essere proprio quello di evitare una morte
accidentale, una vita meschina o una morte volontaria quando
non ammessa dalla legge, egli dichiarò che dovevano per forza
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esistere, nel Continuum Temporale, delle piccole imperfezioni;
allo stesso modo il più perfetto determinismo avrebbe dovuto garantire alcune eccezioni, senza le quali, come dimostra il noto
proverbio, la regola non può essere confermata.
Subito dopo iniziarono le indagini.
Nessuno sapeva le modalità con le quali il Circolo arruolava i
propri membri. Umbilk e Wuzz, che si profusero in ricerche accurate, giunsero alla conclusione che, a parte un nucleo originario
fondativo, il resto dei membri agiva per emulazione, senza alcun
contatto col Circolo vero e proprio o col Monaco Arancione.
Questo spiegava tra l’altro la ragione per cui tutti i tentativi di infiltrarsi da parte degli uomini del Corpo di Nettezza Umana fossero miseramente falliti.
Quando lasciò l’abitazione di Grosskreutz, dove comunicò
l’incidente alla moglie, Umbilk fu colto da una rabbia ancestrale,
profonda e incontenibile. In ufficio rovesciò la sua scrivania, negli
spogliatoi danneggiò il proprio armadietto sfondandolo con una
manata, tornando a casa fece sosta in un bar e si sbronzò riflettendo sulla paternità e su cosa comportasse, in questo secolo, essere padri.
Ripensando al proprio padre non se la sentì di colpevolizzare il
sucida abusivo, anche se una domanda gli risuonava in testa rimbalzando come la palla di un flipper: come può un padre rinnegare l’amore di un figlio con un atto così prepotentemente egoistico?
L’istinto altruistico che lega padri e figli, si rispose, è una favoletta che ci raccontano al Centro Sterilità.
Il genere umano è legato solo ed esclusivamente da rapporti di
egoismo. L’egoismo predomina, e in nessun caso lascia trasparire
l’altruismo, che è destinato a rimanere un sentimento in potenza,
mai in atto.
Umbilk giunse a queste conclusioni dopo sette whisky doppi,
che lo costrinsero a chiamare un collega affinché lo riaccompagnasse a casa, dove lo moglie lo stava aspettando con espressione
terrorizzata.
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Doroteo Umbilk si era convinto di possedere un animo nobile,
ma in quel momento non ne fu più troppo sicuro.
***
483
DI COME CONTRIBUIMMO A SALVARE IL FIUME ATANOR
La nostra è una rivista di caccia.
In effetti non si tratta di una rivista di caccia pura e semplice; è
qualcosa di più articolato, complesso.
Per contrastare le continue minacce degli animalisti, il nostro
capo ha infatti deciso di strizzare l’occhio agli ambientalisti. Così,
insieme ad articoli sulle tattiche più efficaci per uccidere una beccaccia con un fucile senza tacca di mira o sul metodo migliore per
scorticare un procione e ricavarne un paio di caldissime babbucce, da qualche mese pubblichiamo articoli indignati per i ghiacciai
che si ritirano, l’inquinamento, la fame nel mondo o le foreste
amazzoniche devastate dagli incendi.
Venerdì dodici luglio quelli della rivista mi mandarono al congresso semestrale dell’Azienda Gerarcale Coloranti e Affini, nella
Terra di Cipperùla, per “raccogliere informazioni e stilare un rapporto dettagliato” da pubblicare e consegnare a “un certo gruppo
ambientalista fluviale” che aveva commissionato il reportage “pagando profumatamente”. Insomma dovevo andare a Lazzo e raccogliere informazioni su quest’azienda.
Prendemmo un appuntamento (che ci fu molto cordialmente
concesso) e mi dissero che l’Azienda mi avrebbe messo a disposizione una guida. Preparammo una lista di domande precise e mi
diedero il compito di tornare con delle risposte precise. Non potevo utilizzare l’automobile poiché i giornalisti di Tempo di Uccidere
abiuravano le emissioni di particelle ultrasottili in atmosfera, così
presi l’autobus delle 15.30 dalla stazione centrale di Sabbione e
arrivai a Lazzo alle 16.45.
A quell’ora il fiume Atanor – che attraversa il paese da ovest a
est – è rosa mountbatten con riflessi ottone antico. Lazzo è così
desolato e putrido che l’angoscia ti entra nel cuore e ti sfibra il
midollo; non c’è anima viva, e l’unico bar è frequentato dai pochi
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abitanti che si avventurano nelle strade avvelenate. Le piantagioni
sono morte, i pesci presentano ascessi tumorali, i bambini piangono. Ciononostante si organizzano gite turistiche per ammirare
il fenomeno dell’acqua policroma.
Il congresso semestrale della AGCA si teneva presso il centro
congressi della AGCA, il quale si trova a meno di cento metri dal
luogo in cui il nostro Patrono Bertran de Born sconfisse i cipperùli nel milleduecento e rotti, e infatti una statua del condottiero si
staglia immensa nel cielo livido. È un gioiello architettonico, dicono quelli che s’intendono di queste cose.
Quando entrai nell’immensa sala conferenze dotata di ogni
comfort e di trentotto televisori al plasma da sessantaquattro pollici mi ricevette una hostess bionda, elegante, vestita con un tailleur blu al ginocchio e una giacca bianca con lo stemma della
AGCA, che è un sole lisergico entro il quale è riprodotta una scala
Pantone completa. La hostess era davvero magnifica. Mi accolse
cordialmente e mi offrì un bicchiere di vino. La sala conferenze
era gremita di studiosi, ingegneri, imprenditori, chimici; specialmente chimici. Avevano un colorito strano. Qualcuno era olivastro, qualcun altro salmone scuro, altri lì per lì non mi riuscì di catalogarli. Miliardi di colori invadevano l’ampia sala sfavillando e
sfolgorando sugli enormi specchi posti contro i muri e sui soffitti;
c’era un profumo buono di vino appena fatto, di mosto. Un uomo distinto con occhiali rotondi e la pelle color blu di Persia mi
avvicinò e mi strinse la mano. Era la guida che mi era stata messa
a disposizione. “Buongiorno!”, esclamò sorridendo. “Sono Tom.
Di qualunque cosa abbia bisogno sono a sua completa disposizione”. “Mi chiamo Martin e ho una lista di domande precise”,
dissi. “Piacere Martin. Sarò lieto di rispondere a tutte le domande
precise a cui potrò fornire una risposta precisa”, rispose Tom.
“Quello che ha in faccia è il colore della sua pelle?”, chiesi. “Questo è uno splendido blu dodger del ’67, e sì, è il colore della mia
pelle”, disse. “L’avrei valutato un blu di Persia”, replicai. “Il blu di
Persia ha ricami infinitesimali di arancio fossilizzato tra le venature interne; se questo fosse blu di Persia noterebbe il contrasto col
rosso cardinale dei vasi sanguigni, il cui risultato sarebbe uno stupendo blu Klein striato di verde muschio. Giosuè Brume, il tecni485
co delle luci (me lo indicò), ha una pelle blu di Persia, la mia è blu
dodger”, disse. “Certo non pretendo che tutti riconoscano la differenza tra blu dodger e blu di Persia”. Intanto il congresso proseguiva nella splendida e modernissima sala congressi
dell’ipertecnologico centro congressi. Un uomo stava in piedi sul
grande palco e tutta le gente lo ascoltava in silenzio religioso.
“Quello è Smith II, il Capo Chimico della Società dei Colori”,
disse Tom.
“Esiste anche uno Smith I?”, domandai. “Che io sappia no”,
disse Tom. Sfoggiava con indifferenza un perfetto sorriso professionale.
“Ma chiedetevi:”, stava dicendo Smith II, “qual è la ragione
per cui la gente è infelice e irrealizzata?”, a quel punto la sala
esplose in un formicolio di fondo. “Non affannatevi, ve la dico
io”. A quel punto la sala fece silenzio. “La percezione dei colori
circostanti è la ragione”, disse Smith II. La sala esplose in un applauso tonante. Un meraviglioso gioco di luci e colori vivacizzava
Smith II, la cui pelle aveva uno splendido colorito Ocra.
A questo punto, mentre Smith II si dissetava e tre hostess gli
asciugavano il sudore dalla fronte massaggiandogli le spalle, distolsi lo sguardo e cominciai a porre la prima delle domande precise che avevo sulla lista. DOMANDA PRECISA # 1 – “Qual è esattamente l’attività della vostra Azienda?”, chiesi. “Produrre colori”,
disse Tom, “e blindature per porte”, aggiunse. “Blindature per
porte?”, domandai. “Precisamente”, rispose Tom. Seguì la
DOMANDA PRECISA # 2, che non era nella lista – “E quale sarebbe
il collegamento tra colori e porte blindate?”, chiesi. “Non è evidente?”, rispose Tom. “Direi di no”, dissi. “Non c’è alcun collegamento”, disse Tom, “è questa la base geniale su cui si fonda la
nostra idea. Oggigiorno i cittadini sentono la necessità di proteggere quanto di più prezioso possiedono, i propri beni personali, i
propri famigliari; il mercato delle blindature per porte è in continua ascesa”. “Così si tratta semplicemente di affari?”, domandai.
“Semplicemente?” disse lui. “Capisco”, dissi.
“Sarebbero le blindature gli affini del vostro nome?”, domandai.
486
“Non solo”, disse Tom, “produciamo anche altre, come dire,
sostanze”.
“Per esempio?”, chiesi.
“Sostanze”, disse Tom.
“Bene”, dissi io, “ma per tornare alle blindature...”
“Si guardi fuori”, disse Tom con il suo perfetto sorriso professionale. “Le persone comuni percepiscono gli altri individui come
potenziali aggressori, maniaci in potenza pronti a introdursi nelle
abitazioni private per stuprare, derubare, uccidere”.
“Tutti?”, domandai.
“Homo homini lupus, Signor Villanova”, disse Tom. “Un colore può infondere entusiasmo, sicurezza, fiducia”, disse Tom,
“produciamo numerose varianti di blu capaci di scatenare simili
suggestioni nei cittadini. Ma per evitare che un figlio di puttana ti
entri in casa la notte non c’è niente di meglio che una tripla blindatura a porte e finestre”.
“Indubbiamente”, dissi io prendendo diligentemente appunti
sul mio taccuino a quadretti. “Ma per tornare ai colori, come fate
a produrre colori capaci di stimolare le azioni dei cittadini?”. “È
questo che si racconta in giro?”, disse Tom. “In giro si raccontano tante cose”, dissi io. “Qualcuno dice che avete prodotto un
colore in grado di procurare sterilità alle donne, un altro che ne
ripristinerebbe la fecondità e un terzo che causerebbe aborti
spontanei nelle partorienti”.
“Ah, quella vecchia storia”, disse Tom. “Ci fu un periodo in
cui il controllo demografico sembrava ossessionare il Governo”.
“Quindi ciò che si racconta corrisponde a verità?”, domandai.
“Certo che sì” confermò Tom. “Quindici anni fa il nostro Capo Fisico, ovviamente coadiuvato da uno staff competente e qualificato – riuscì a produrre un nuovo spettro elettromagnetico.
Ciò che esiste in natura noi lo abbiamo ricreato ad hoc. Da quel
momento siamo stati in grado di produrre colori di ogni genere”.
“E come ci si sente a utilizzare un colore che indurrà una
donna ad abortire spontaneamente?”, domandai.
“Se è per questo abbiamo anche prodotto una rara versione di
giallo zafferano in grado di eliminare completamente i dolori del
parto”, disse Tom.
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“Mi sembra magnifico”, dissi io.
“Ce l’hanno fatto ritirare dopo qualche mese. A causa di, come
dire, incompatibilità teologiche”, disse Tom.
“In che senso?”, domandai.
“Genesi 3, 16”, rispose lui.
Non ero certo di aver compreso. Mi ripromisi di verificare su
internet appena tornato in redazione.
“E così producete colori che rendono sterili le nostre donne?”,
dissi.
“Non più”, disse Tom; “il controllo demografico è passato di
moda, ora il Governo pretende che i cittadini sfornino figli a valanga”.
“E per gli uomini?”, domandai.
“Naturalmente la sterilità era da considerarsi unisex”, rispose
Tom. “Ma per gli uomini abbiamo creato qualcosa di molto meglio”.
“Per esempio?”.
“Per esempio abbiamo prodotto un particolare tipo di colore
in grado di procurare erezioni pressoché immediate. Basta applicarlo su un fazzoletto e al momento opportuno fingere di soffiarsi il naso; nel giro di mezzo minuto il gioco è fatto”, disse fieramente Tom.
“Sarebbe rivoluzionario”, dissi io.
“Va da sé che anche questo particolare colore non è stato
commercializzato, né lo sarà mai. Ma ci sono determinate circostanze in cui il Governo può chiederci di applicarlo su un cartellone pubblicitario, o sulla facciata di un edificio”, disse Tom.
“E quali sono queste circostanze?”, domandai.
“Nel caso di quello specifico colore non è mai successo”, disse
Tom, “ma ricordo la volta in cui la figlia del Gerarca fu tradita dal
marito”.
“Cosa accadde?”, chiesi.
“Dopo qualche giorno la signora si sentiva depressa e pretendeva che tutti saggiassero il suo stato d’animo, capisce? Era stufa
marcia di vedere gente per strada che rideva, scherzava, si trastullava. Fu allora che ci commissionarono il ciano depressione, una par488
ticolare variante di ceruleo in grado di causare dolore e sconforto”, spiegò Tom.
“Incredibile”, dissi.
“Ovviamente quando dico dolore mi riferisco al dolore psicologico, spirituale. Per tutte le varianti di dolore fisico abbiamo una
scala di gradazioni sterminata”, precisò Tom.
“E come ci riuscite?”, comandai.
“È troppo complesso rispondere a questa domanda. Sappia
solo che la lunghezza d’onda del ciano, per restare al nostro
esempio, è intorno a 480 nanometri. Noi siamo in grado di alterarla a nostro piacimento, e di inserire tutti i messaggi che vogliamo al suo interno”.
“Stupefacente”, dissi, “e posso scrivere tutto questo nel mio
articolo?”.
“Può scrivere quello che vuole. Se c’è una cosa in cui siamo
davvero insuperabili è l’arte della smentita. Inoltre abbiamo avvocati di prim’ordine”, rispose lui.
In quell’istante fummo interrotti da una canzone a volume altissimo. Tom accennò un passo di danza, poi sfoggiò il suo sorriso perfetto.
“Cosa sta succedendo?”, gli urlai per farmi sentire.
“Ha dimenticato che oggi è la Giornata delle Canzoni di Justin
Bieber Sparate-a-Palla Fisherman’s Friends?”, urlò Tom.
“L’avevo proprio dimenticato”, urlai io.
“Prenda, questo è l’ultimo singolo estratto da My world 2.0”,
gridò Tom, “una delizia per le orecchie”.
Mi porse il cd di Justin Bieber. Poi si avvicinò a un banchetto e
afferrò qualcosa.
“Provi una Fisherman’s Friends Extra Forte”, disse, “una vera
bomba”.
Misi in bocca la caramella e mi guardai intorno. Chimici e fisici
stavano improvvisando passi di danza rap o qualcosa del genere
insieme alle hostess. Si divertivano un mondo.
“Le giornate a sfondo musicale sono le nostre preferite”, disse
Tom, “talvolta la vita dello scienziato può essere frustrante”.
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Quando la canzone scemò procedetti con la DOMANDA
# 3 – “Non pensate che la produzione di coloranti, o
meglio di colori, come li chiama lei, possa ripercuotersi
sull’ambiente? Nel particolare, non pensate che i vostri colori
stiano avvelenando il fiume?”, chiesi.
“I nostri colori dipingono il fiume, e il mondo”, rispose. “Siamo
l’azienda leader nel campo dei colori, abbiamo colori di tutti i tipi,
si potrebbe addirittura sostenere che senza i nostri colori non esisterebbe il colore”, aggiunse.
“Come le ho già spiegato, noi non produciamo coloranti, noi
produciamo colori”. Ci fu un breve silenzio; sullo sfondo si udiva
l’intervento di un chimico dalla pelle ametista che citava Kant.
“Testate i colori sulla vostra pelle?”, chiesi.
“L’azienda crede che la pelle umana abbia un colore troppo
semplice, troppo banale”, disse.
Un tizio dalla pelle verde veronese salì sul palco. “Quello è Ed
Mont, uno dei nostri migliori chimici molecolari”, disse Tom.
“Non si faccia sfuggire il colore della sua pelle, un magnifico verde oliva scuro ottenuto dalla mescola tra giallo scuolabus e grigio
asparago”, disse.
“Avrei detto che fosse un verde veronese”, dissi.
“Il verde veronese è notevolmente più fluorescente, e la fluorescenza è prerogativa del Consiglio d’Amministrazione, dai consiglieri ai vice-presidenti al presidente stesso, cui è concesso un
giallo limone fosforescente, anche chiamato giallo evidenziatore”,
disse Tom.
“Per quanto riguarda Mont, quattro anni fa ha realizzato un
colore invisibile capace, tra l’altro, di causare irritazioni e svenimenti”.
“Un colore invisibile?”, chiesi.
“Non è geniale?”, disse Tom. “È stato venduto ai governi dei
maggiori Paesi del mondo. Praticamente tutto ciò che vede ha
una base di colore invisibile successivamente trattato con altri colori, il cui risultato è quello che ciascuno di noi ha sotto gli occhi”.
“Siete a conoscenza del fatto che molta gente si è ammalata a
causa degli effetti collaterali dei vostri colori?”, chiesi. “Migliaia di
persone si sono ammalate grazie agli effetti dei nostri colori. AbPRECISA
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biamo prodotto tonalità di rosso capaci di scatenare crisi d’asma,
gonorrea, cancro ai testicoli, la maggior parte a fini puramente
scientifici. Ma nessuno si è ammalato a causa degli effetti collaterali dei
nostri colori. È già stato dimostrato. Abbiamo colori in grado di
accecare, altri in grado di avvelenare il bestiame, un altro addirittura in grado di bloccare istantaneamente tutti gli apparecchi elettrici nel raggio di otto chilometri. In ogni caso i colori ammorbanti non impiegati dai ricercatori non sono stati immessi sul mercato, ma venduti ad alcune industrie farmaceutiche”, disse Tom.
“E ne hanno fatto uso?”, chiesi.
“Non mi riguarda”, disse lui.
Un’esplosione arcobalenoidale di gradazioni cromatiche mai
viste concluse l’intervento di Ed Mont.
“L’arcobaleno è un concetto superato”, disse Tom. “Sostituito
da moderne tecniche di colorazione delle microgocce d’acqua
condensata. Farà il suo esordio il prossimo anno”.
Dalle enormi vetrate si intravedeva il fiume; aveva assunto un
colore arancione fiamma misto rosso inglese e azzurro Savoia.
Una specie di cabarettista salì sul palco; gli ingegneri, i fisici e i
chimici cominciarono a ridere, anche quelli dalla pelle verde gorgonzola o uovo di pettirosso.
“È una questione di sicurezza”, disse il cabarettista. Risero tutti.
Questo mi portò alla DOMANDA PRECISA # 4 – “Siete certi di
poter garantire la sicurezza agli operai e ai cittadini di questo paese?”, chiesi.
“Sfortunatamente non posso rispondere a questa domanda”,
disse Tom. “Per le domande inerenti alla sicurezza c’è Helmut, il
nostro capo ingegnere addetto alla sicurezza”.
Tom mi congedò con una stretta di mano associata al solito
meraviglioso sorriso e mi fece accompagnare da una hostess
bionda nel luogo in cui avrei potuto incontrare il capo della sicurezza.
Incontrai Helmut al buffet del secondo piano; era arancione
scuro e mi accolse con cortesia. Qualcuno lo aveva avvertito del
mio arrivo, poiché non mi domandò chi fossi, dando chiaramente
l’impressione di saperlo già.
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“Assaggi queste lumache bollite in salsa verde e mi dica cosa
posso fare per lei”, disse Helmut succhiando una lumaca bollita.
“Ho alcune domande precise”, dissi.
“Sentiamo queste domande precise”, rispose Helmut.
Ripresi così la DOMANDA PRECISA # 4 – “Siete certi di poter
garantire la sicurezza agli operai e ai cittadini di questo ridente
paese?”, chiesi.
“Il problema della sicurezza è centrale nei pensieri del Consiglio d’Amministrazione della AGCA”, disse. “Sa quanti soldi sono
stati investiti nella sicurezza l’anno scorso?”, domandò.
“Non saprei”, dissi io.
“Moltissimi”, disse lui.
“Non è forse vero che i vostri scarichi tossici finiscono nel
fiume?”, chiesi.
“Del tutto falso”, rispose.
“E come spiegate il colore dell’acqua?”, chiesi.
“Lo coloriamo in quel modo volontariamente e coscientemente”, disse; “non le sembra che il tradizionale colore dei fiumi abbia stufato un po’ tutti? La popolazione, poi, chiede novità in
continuazione, i giovani si evolvono, vogliono più colori, più tinte, e noi gliele forniamo”, disse.
Un’altra canzone di Justin Bieber partì a volume insopportabile, e i presenti al buffet cominciarono a ballare con le cameriere e
le hostess.
“Assaggi il tortino ripieno, è fantastico”, gridò Helmut.
Il buffet era faraonico.
“Non ho altre domande”, urlai a Helmut, che nel frattempo
aveva cominciato a ballare con una sventola in tailleur di qualche
colore che lì per lì non seppi distinguere.
La hostess che mi avevano assegnato mi fece accomodare in
un’altra sala conferenze, dov’era in corso un altro buffet; molti
tecnici avevano una pelle di un colore orrendo e stavano seduti
col capo chino, altri sembrava piangessero. Qualcuno fumava furiosamente.
Incontrai l’addetto allo smaltimento dei coloranti. Mi presentai
e gli dissi le uniche cose che si possono dire a un uomo che coscientemente permette l’avvelenamento di un fiume, di un paese,
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di una valle. Gli dissi che i soldi non comprano la vita delle persone e altre banalità simili.
“Noi crediamo in ciò che facciamo, per questo siamo degli innovatori”, disse lui. “Abbiamo creato un colore che cura il mal di
testa, un altro che fornisce informazioni sensibili sui gusti del cibo, un altro ancora che livella dall’interno la lunghezza dell’erba”.
“Cioè?”, domandai io.
“In pratica le taglia il prato”, rispose lui. “Pensi che stiamo ultimando un colore in grado di conferire gustosità e valori nutritivi
e/o energetici a qualunque alimento, persino alle patatine di
McDonald’s”, continuò.
Procedetti con la DOMANDA PRECISA # 5 – “Le risulta che
l’Azienda produca anche sostanze nocive per l’uomo?”, chiesi.
“Questo è innegabile. È il Governo a chiedercelo. Produciamo
colori che suscitano vertigini e altri che infieriscono sul sistema
nervoso, conducendo alla pazzia. L’ultimo ritrovato è un colore
in grado di deturpare la pelle con bolle e croste. D’altro canto sono utilizzati per scopi che io ignoro. Il nostro lavoro è produrre
colori, non preoccuparci delle conseguenze del loro utilizzo. Chi
lavora alla AGCA ha ricevuto in dono uno splendido colore e una
felicità congrua all’adempimento del suo lavoro”, disse.
“E quegli uomini laggiù?”, chiesi indicando la zona della sala in
cui avevo visto i tecnici. Avevano colori come blu acciaio, biscotto, grigio asparago, viola scuro e orribili espressioni angosciate.
“Tecnici che hanno sperimentato il giallo cenere esistenzialista, il
colore che rammenta all’istante quanto sia insignificante l’essere
umano nell’ambito dell’universo. È stata colpa di un set di occhiali protettivi difettosi, per cui abbiamo già provveduto a citare a
giudizio l’industria produttrice”, disse.
“La cenere non è grigia?”, domandai.
“Nella concezione tradizionale sì, ma all’Agenzia produciamo
colori che si impossessano del colorato. Il colorante ingloba il colorato. La cenere gialla è ottima per funerali cristiani e mussulmani”, disse.
Aveva un colorito che giudicai essere un terra di Siena e gli occhi rosso sangue raggrumato. Disse che plotoni di psicologi collaboravano con l’Azienda per la realizzazione di colori sempre
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nuovi e migliori. L’esercito aveva comprato una dozzina di colori.
Il governo un’altra dozzina. Alcuni potevano causare emorragie
interne, altri mal di denti, eczemi, ingrossamento delle ghiandole,
degenerazione del tessuto. Questi colori erano fuori mercato.
Nessuno poteva guardare quei colori perché erano stati acquistati
in esclusiva dal governo e dall’esercito. Solo quando il governo o
l’esercito, o tutt’e due insieme, avessero deciso di utilizzarli, la
gente avrebbe potuto vederli. Guardarli avrebbe potuto significare un’arteriosclerosi o un invecchiamento precoce.
“Ma abbiamo anche perfezionato un colore inebriante in grado di agire sul sistema ghiandolare, una specie di droga visiva che
agisce per rifrazione sulla retina e si trasmette direttamente al sistema vascolare”, disse.
Afferrò un gamberetto di fiume e lo inghiottì.
Gli dissi che ero sbalordito e che tutto ciò mi portava alla
DOMANDA PRECISA # 6 – “La vostra produzione di colori non
pregiudica l’ambiente esterno?”, domandai.
“È un rischio che dobbiamo correre. Cosa vuole che siano un
centinaio di mal di pancia e qualche pesce avvelenato al cospetto
di un bene più grande e prezioso?”, disse.
Lo guardai gelidamente.
“Intravedo nei suoi occhi un sentimento di invidia e rabbia.
Non dovrebbe essere così. Si guardi intorno e si lasci cullare dalle
proprietà curative di ogni singolo colore”.
Mi fecero incontrare un vice-presidente. Aveva la pelle tè verde scuro, eppure brillante. Gli dissi che ero lì per avere garanzie e
per fare delle domande precise, perché il gruppo ambientalista
che aveva commissionato il reportage alla mia rivista aveva bisogno di garanzie. Gli dissi che trenta milioni di metri cubi di materiale inquinante sono un gran bel po’ di materiale inquinante. Mi
guardò in silenzio.
“Prenda un caffè, si metta comodo”, disse. “Mi potrà fare tutte le domande che vuole”.
Feci la DOMANDA PRECISA # 7 – “Avete intenzione di chiudere l’Azienda o quantomeno di ridurre, anzi di azzerare
l’immissione di sostanze tossiche nel fiume?”, domandai.
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Rise di gusto. “Le racconterò una storiella”, disse. Raccontò la
storiella: “tre anni fa il Gerarca si stufò del cielo di Sabbione,
eternamente sbiadito e opaco, un denim chiaro sdrucito che intristiva pesantemente sua moglie. Ci chiese di intervenire. Progettammo un colore autorigenerante che nebulizzammo nel cielo
della città, un cobalto che mescolato a un blu Bondi e a un ciano
azzurrescente diede come risultato il magnifico Blu Sabbionese
che rende rinomato in tutto il mondo il nostro capoluogo. Non
s’è mai accorto dello splendido blu del cielo di Sabbione? È ottenuto mediante la colorazione artificiale delle microparticelle condensate d’acqua e ossigeno presenti naturalmente nell’atmosfera.
Una volta al mese diciotto aeroplani dell’Azienda si levano in volo
per innaffiare il cielo. Avevamo pensato a una sorta di cannone
ma i risultati non furono uniformi come avevamo sperato, così
tornammo agli aeroplani. Naturalmente siamo in grado di colorarlo alla vecchia maniera quando ci è richiesto, oppure con altre
e sempre nuove gradazioni. Come può immaginare il Gerarca fu
molto, come dire, riconoscente, nei confronti nostri e del nostro
lavoro”.
Bevemmo un caffè buonissimo.
Disse che alte autorità avevano commissionato la colorazione
delle campagne. Disse che i colori dell’Azienda avrebbero salvato
il mondo. Disse che avrebbero costruito nuovi macchinari capaci
di smaltire i rifiuti. Disse che il fiume andava sacrificato, ma che
avrebbero fatto tutto ciò che era in loro potere per ucciderlo lentamente, in modo che gli effetti nocivi sarebbero stati assimilati
meglio dalla popolazione. “Vedrà che nel giro di tre o quattro generazioni gli esseri umani di questa parte del mondo avranno generato anticorpi in grado di sopportare ogni tipo di veleno che
facciamo loro respirare, bere o inghiottire. Ha mai sentito parlare
degli scarafaggi?”.
Suonò il telefono, mi salutò cordialmente e rispose.
Uscii dallo splendido centro congressi indossando la mia tshirt multicolore con su scritto Celebra con noi la Giornata
dell’Idiosincrasia Invernale Pantone! che si festeggiava a metà gennaio.
Presi l’autobus delle 18.45 per Sabbione. A quell’ora il fiume
Atanor è ceruleo scuro con puntiformi chiazze chartreuse.
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Consegnai il mio rapporto, pubblicammo il pezzo dopo pochi
giorni. La AGCA smentì tutto, e il gruppo ambientalista fluviale
prese alcune decisioni; avevano contatti con qualcuno, dissero.
Un lunedì notte sistemarono cinquecentotrenta chili di tritolo nei
sotterranei della AGCA; ci fu un gran botto e molti rottami.
Nell’articolo scrissi che i sopravvissuti camminavano inciampando su corpi giallo banana, bronzo antico, verde foresta, uovo di
pettirosso, turchese pallido; c’era una montagna colorata di cadaveri tra le macerie dell’edificio. L’aria era intensa, nocciolata, con
un retrogusto tannico. I turisti scattarono numerose fotografie.
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VA TUTTO BENE, SIGNOR MAKULOJ
Grazie al metodo del dottor Klein
ora sono una persona felice
Bertrànd Makuloj, sessantatre anni, esce di casa alle nove e
ventitré, un’ora e quarantotto minuti più tardi rispetto a quando
era impiegato presso il Ministero Suicidi e Festività®. Dopo aver
tollerato il segnale della sveglia per circa sette minuti ha poggiato
sul parquet prima il piede destro, apportatore di buonumore, poi
quello sinistro, apportatore d’inquietudine. Ha consultato
l’oroscopo di giornata su televideo e udito il pronostico ufficiale
mattutino alla radio. Il primo lo ha confortato nella scelta della
colazione, il secondo nell’accostamento degli abiti.
Da trentanove anni, Bertrànd Makuloj non può varcare la soglia del suo palazzo se prima non ha annaffiato i vasi davanti alla
porta della vedova Iňakirre: se così non facesse dovrebbe immediatamente suicidarsi, giacché questo fu il contenuto della prima
divinazione della sua vita (in verità piuttosto oscura, ma Bertrànd
Makuloj pare d’averla interpretata correttamente), che subì a diciott’anni. Da quando la vedova Iňakirre è passata a miglior vita,
una dozzina d’anni fa, è lo stesso Makuloj che bada alla conservazione e alla disposizione dei vasi, anche se l’appartamento oggi è
abitato da due giovani coniugi, piuttosto simpatici e cordiali. Essi
lo lasciano fare, del resto anche loro hanno alcune incombenze da
sbrigare: prima d’uscire debbono salire insieme sul tetto del palazzo a fumare una sigaretta, diversamente sanno che la loro
unione di coppia verrà traumaticamente interrotta.
Bertrànd Makuloj bagna i vasi sul pianerottolo della vedova
Iňakirre reggendo l’innaffiatoio dal becco lungo con la mano destra; la quantità d’acqua utilizzata è centellinata. Terminata
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l’operazione egli può lasciare il suo palazzo. Uscendo deve svoltare tre volte a destra prima d’intraprendere qualunque strada.
Al bar Bertrànd Makuloj è piuttosto allegro. Ordina un cappuccino e un cornetto (rigorosamente privo di qualsivoglia ripieno) e siede al terzo tavolo partendo dall’ingresso (se è occupato
attende pazientemente che si liberi), dove consulta con curiosità il
quotidiano, badando di leggere attentamente la pagina degli oroscopi. Bertrànd Makuloj è sagittario ascendente sagittario, e quella, pensa col sorriso sulle labbra, è una grande fortuna, poiché se
fosse sagittario ascendente toro, per esempio, non potrebbe consumare la sua solita colazione, e se fosse sagittario ascendente
ariete dovrebbe attendersi una copiosa fuoriuscita di denaro nelle
prossime dodici – quarantotto ore.
Bertrànd Makuloj esce dal bar alle dieci e quarantanove, dopo
aver ritagliato dal quotidiano il proprio oroscopo senza farsi notare; in dieci minuti giunge nella grande piazza in cui ogni mercoledì
e sabato si svolge il mercato delle religioni. Intanto discepoli togati levatisi dai pulvinari, rabbini e bramini, shivaisti e indù, testimoni di Geova, manicheisti, imam, shaykh e dervisci mevlevi, padri presbiteriani e venditori di porchetta toscana a rinzaffi e fiotti
discendono dalle contrade fin sulla piazza dove sono già approntati i banchetti. Bertrànd Makuloj osserva la scena con un pizzico
di malinconia; egli deve salutare ciascuno di loro prima di poter
proseguire il suo cammino. Poi si avvicina al dispensatore di predizioni e inserisce i propri dati: la predizione è piuttosto nebulosa,
ma egli crede di interpretarla nel miglior modo. In seguito si rivolge a una divinatrice di strada, la quale legge l’immediato futuro
grazie a un mazzo di carte. Abbandona il centro, ella dice, senza aggiungere altro. Forse, prova a intendere Bertrànd Makuloj, la divinatrice si riferisce al centro cittadino, che egli non travalica mai,
a causa di una vecchia predizione. Ma il suburbio è ricco di trattorie, riflette, e magari potrebbe recarcisi per un lauto pranzo.
Bertrànd Makuloj pensa allo squallore delle periferie, frigoriferi
e televisori fracassati, copertoni e forni e lavatrici abbandonate sui
marciapiedi, rari uccelli sui pochi alberi e lampioni arrugginiti ai
bordi dei lunghi viali. Il pensiero è breve e non privo di ripugnanza; ma ora egli osserva il trambusto del mercato: maree di mez498
zuzzà e menorah, crocifissi, turiboli e incunaboli d’oro e
d’argento, mirre e spezie e incensi di Persia, icone e cartoline e
preghiere e maquamat e taleggi e gorgonzole, capperi di Pantelleria e capponi di Grottaferrata, scope alte come palazzi e allungabili, estraibili, autopulenti, intelligenti, tallìt, spazzoloni da cesso e
acchiappasogni indiani in offerta speciale. Bertrànd Makuloj sale
sulla cima d’un palazzo, prende un caffè al bar. Dall’alto osserva il
fiume di kippà, borsalino e mitre mentre si sbroglia come il delta
del Nilo nel grande foro, ascolta le urla e i mercanteggi per vendere chi un’Havayàh chi uno Zekr, chi un Allàh chi un Buddha, chi
un Padre Nostro chi un Giuda Iscariota. Bertrànd Makuloj ha
fame. Passa le bancarelle degli induisti, dei chassidisti, degli gnostici; si ferma di fronte a un grosso camper: enormi rosari di salsiccia pencolano nel vuoto. Compra un panino e passeggia. Costui mangia e solamente avarizia e invidia ne risultano, invece costui si nutre e il risultato è la luce dell’Unico. Quest’altro mangia e
gliene viene solo impurità, mentre quello nutrendosi diventa luce
di Dio. La bancarella dei sufi, nell’angolo sud della piazza. Bertrànd Makuloj suda, del resto fa piuttosto caldo, e l’umidità si fa
sempre più insopportabile. Cerca dell’acqua. Da lontano una fontana rimanda una leggera frescura. Bertrànd Makuloj ascolta il frastuono della folla, preghiere sussurrate, urlate, canticchiate, cantilenate. Suoni d’organi e fisarmoniche provengono da ogni dove.
Accarezza un crocifisso, un Hannukkià, un cappio; non compra
nulla. Con l’acqua beve un altro caffè, fuma una sigaretta. Ora
può dirigersi senza timore presso un’Agenzia Divinatoria Riconosciuta (sa perfettamente che divinatori di strada, dispenser automatici e oroscopi vari non sono conformi alle norme) per il suo
Aggiornamento Obbligatorio Annuale.
Bertrànd Makuloj sceglie un’agenzia pubblica situata in un
viottolo buio del Centro Storico Veramente Medievale, l’Agenzia
Sedici.
La divinatrice è di buonumore e gli offre la rara possibilità di
scegliere tra un paio di strumenti divinatori.
Bertrànd Makuloj si decide per l’Alettriomanzia, nella quale si
utilizza un gallo e dei chicchi di frumento. Makuloj pensa che le
movenze dei divinatori pubblici sabbionassi paiono la parodia di
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antiche negromanzie politeiste, anche se la loro voce fredda e decisa dimostra il rigore scientifico delle loro esibizioni; ostentano
grande professionalità perfino analizzando un gallo intento a cacare, beccare, agitarsi, e pronunciano la predizione con parole sibilline ma inoppugnabili.
Va tutto bene, Signor Makuloj, tutto procede nel migliore dei modi, dice
la divinatrice, e Bertrànd Makuloj sente un tuffo al cuore, poiché
non riesce a comprendere il significato celato in quelle parole.
Cosa significa l’espressione va tutto bene? Bertrànd Makuloj se lo
domanda mentre la divinatrice afferra il gallo e lo ripone in una
gabbia piuttosto spaziosa.
Ricevuto lo stampato della divinazione Bertrànd Makuloj sta
per tornare al suo appartamento. Il tragitto di ritorno è costellato
da alcune svolte obbligatorie, cui egli deve sottostare per
l’accumulo di eventi nefasti succedutisi nel corso della sua vita
durante il rientro a casa: attraversamenti di spiriti maligni (perlopiù gatti neri, ma anche i temutissimi tacchini dalla caruncola
amaranto), scale collocate sul marciapiede, vetri e/o specchi infranti, saliere afferrate al volo, carri funebri, suore. Bertrànd Makuloj estrae dal taschino della giacca un Tuttocittà sgualcito; un
tempo, quando la memoria lo sorreggeva, non ne aveva bisogno,
ma dopo il responso del dispensatore di predizioni di qualche
mese prima s’era convinto a utilizzare una cartina per annotare
ogni suo spostamento.
In che modo potrebbe andare tutto bene? Ciò che Bertrànd
Makuloj ritiene bene, è lo stesso bene rilevato nel responso della
divinazione? Egli si strugge in questo pensiero, mentre torna col
pensiero all’ultima volta che un responso era corredato
dall’affermazione va tutto bene. Una volta, molti anni prima, un
oroscopo gli aveva prescritto di temere i responsi corredati
dall’affermazione va tutto bene.
Cosa poteva significare?
Ora Bertrànd Makuloj è terrorizzato e indeciso, compie una
deviazione non programmata, per quanto consentita, sale le scale
di un palazzo enorme, il cui ballatoio riecheggia di un grigio portentoso, poiché non può in alcun modo salire sull’ascensore di un
palazzo diverso dal suo. Si ferma sul pianerottolo del settimo pia500
no, getta un’occhiata fugace alla finestra, prende fiato, si asciuga la
fronte; fa caldo, e la camicia comincia a bagnarsi in corrispondenza delle ascelle e lungo il dorso. La sente appiccicata alla pelle, e
questa è una sensazione che, per quanto sgradevole, gli fa tornare
in mente i tempi in cui saliva dodici piani di corsa per recarsi in
ufficio. Sente il battito cardiaco notevolmente accelerato, tuttavia
non teme neppure per un momento che possa prendergli un attacco di cuore, giacché almeno tre oroscopi, un paio di pronostici
istantanei e una divinazione ufficiale gli conferiscono la certezza
che egli non avrà mai un attacco di cuore. Quando arriva al dodicesimo piano, Bertrànd Makuloj è stanco; si dirige lungo il corridoio incrociando lo sguardo di persone indaffarate che non badano a lui; nessuno ha mai badato a lui, pensa Bertrànd Makuloj
mentre varca la soglia di un piccolo ufficio che fino a qualche
tempo prima era il suo. Un tizio sta osservando lo schermo di un
computer, una donna sta pigiando tasti su una tastiera. Nessuno
dei due sembra interessato alla presenza di Bertrànd Makuloj. Egli
procede con cautela, lentamente, fino alla scrivania del tizio; il tizio alza il volto e lo vede, gli domanda qualcosa che lui non comprende, o non ascolta. Il tizio continua a domandare ma Bertrànd
Makuloj non ascolta, o non comprende. Dice soltanto questo era il
mio ufficio, poi torna sui suoi passi, in corridoio, si appoggia al muro, ha un trascurabile attacco di panico, la vena del collo pulsa, ha
sete, prova a fermare un paio di impiegati ma nessuno bada a lui,
nessuno lo guarda, nessuno lo ascolta. Va in bagno, si sciacqua la
faccia, beve acqua schifosa al gusto cloro e muschio. Bertrànd
Makuloj si guarda nello specchio e comprende perché gli specchi
sono strumenti abominevoli.
Quando esce dal bagno sta ancora pensando all’affermazione
va tutto bene. Se l’affermazione temi i pronostici corredati
dall’affermazione va tutto bene è vera, allora qualcosa di terribile starebbe per accadere. D’altra parte, l’affermazione va tutto bene
dovrebbe escludere la possibilità che possa accadere qualcosa di
terribile.
Bertrànd Makuloj è in strada, confuso e sensibilmente scosso.
501
Riapre la copia di Tuttocittà e prova a dipanare un tragitto
percorribile a quell’ora del giorno, con quella particolare luce meridiana e quella caratteristica afa estiva.
Finalmente il palazzo di Bertrànd Makuloj. Quando vi entra
deve evitare di calpestare il primo gradino dell’androne, poi finalmente può godere della breve corsa in ascensore: è tenuto a
salire al quinto piano, fingendo una sbadataggine, e successivamente tornare al quarto, il suo, prima di poter entrare nel suo appartamento: questa almeno è l’interpretazione che Bertrànd Makuloj ha fornito alla sua penultima divinazione. Al quinto piano,
egli apre la porta dell’ascensore, picchia leggermente la fronte col
palmo della mano, richiude la porta dell’ascensore e preme il tasto
corrispondente al quarto piano.
Ora può inserire la chiave nella serratura, può accostare
l’orecchio alla porta, può entrare nel suo appartamento.
Sono le quattordici e quarantacinque.
Bertrànd Makuloj si sveste, s’infila nel letto, dorme profondamente un’ora e un quarto. Trascorre il resto del pomeriggio immerso nella lettura dei classici, attuando brevi pause per sorseggiare un caffè e fumare una sigaretta. Sono pause quantificate, le
quali rispondono a un’esigenza ben precisa; il suo oroscopo
odierno infatti gli aveva vietato di svolgere la stessa attività per
più di un’ora continuativamente (escluso il sonno).
Tutto sta andando bene, pensa, anche se non riesce a ragionare sul significato di questa semplice e terribile affermazione. Va
tutto bene significa che va tutto come al solito? Oppure significa
che un fattore inatteso implicherà mutamenti sostanziali alla sua
routine quotidiana?
All’ora di cena Bertrànd Makuloj prepara un piatto di tortellini
in brodo, che assapora con gusto, e una omelette, ch’egli abbandona dopo averne mangiato un quarto. A parte l’acqua beve solo
vino rosso, che travasa nella stessa bottiglia da ventinove anni.
Non può bere altro.
Ora deve decidersi tra la lettura e la televisione, di cui peraltro
è molto appassionato. Getta fuggevolmente un’occhiata alla divinazione del dispensatore, all’oroscopo che ha ritagliato dal quotidiano, rammenta la predizione udita alla radio: entrambe le scelte
502
sono possibili. Consulta ancora il taccuino delle divinazioni passate, certi appunti annotati su tovaglioli, cartacce, pacchetti di sigarette. Libro o televisione? Tutto lascia presupporre che nulla muterebbe nella sua vita in un caso o nell’altro. Bertrànd Makuloj
non ne è convinto; siede sulla poltrona all’incirca due ore, vagliando le probabilità di turbamento o d’appagamento nel caso
della lettura d’un libro o della visione d’un film.
Sono le ventitré e ventuno. Va tutto bene. Bertrànd Makuloj
può lavarsi i denti ed espletare alcune funzioni corporali, poi potrà coricarsi.
Prima deve sfilare il calzino destro, seguìto da quello sinistro,
solo in un secondo tempo può appoggiare gli occhiali sul comodino e simultaneamente inoltrare tre metaforici atti di venerazione a una metaforica divinità. Infine può spegnere la luce della camera.
Nel letto egli deve pronunciare mentalmente un’ave maria, un
padre nostro e un atto di dolore. Non conosce il significato di
quelle parole, che è costretto a ripetere ogni notte per evitare che
il telefono squilli annunciando una disgrazia, né comprende fino
in fondo la logica di quello strambo segno ch’egli ha l’obbligo di
palesare prima d’addormentarsi: ne riconosce l’inutilità, ma è confortato dalla convinzione che non può farne a meno.
Prima di addormentarsi Bertrànd Makuloj si rigira un paio di
volte nel letto, gli viene in mente che un tempo era felice, si rigira
altre due volte fino a tornare alla posizione originaria, rimugina sul
fatto che non ci sia nulla di peggio, per un essere umano, che ricordarsi del tempo in cui ci si sentiva felici, poi si addormenta.
503
SAN BERTRAN DE BORN RIESUMATO E MOSTRATO ALLA
FOLLA
Prologo
Questa mattina all’alba hanno riesumato il Santo Patrono di
Sabbione Bertran de Born e l’hanno messo lì, sopra una pietra a
essiccare, mentre le autorità facevano a pugni per rendergli onore.
Del corpo del Santo Patrono resta solo la testa, perché il tronco
con il collo le braccia e le gambe e insomma tutto il resto furono
trafugati dai contrabbandieri di cadaveri negli anni ’30, quando si
usava trafugare i cadaveri. Mio fratello dice che il Santo Patrono di
Sabbione Bertran de Born era un uomo cattivo, una vera faccia di
merda dice, con gli occhi satanici e lo sguardo maligno; ha ucciso
più persone lui della peste e dell’AIDS messi insieme dice, sta dietro solo al cancro perché il cancro è una malattia fottuta che ce
l’ha avuta lo zio eccetera eccetera, e comunque morale della storia
il nostro Patrono secondo mio fratello era davvero una bestia. Però adesso vederlo lì, in televisione, mummificato, che si squaglia al
sole di questo splendido pomeriggio di luglio mentre quei vigliacchi della politica e della chiesa lo sfiorano con le dita inanellate e
schifose fa un certo effetto. Ha le labbra ritratte e i denti gialli, il
Patrono, ed è veramente smunto e terribilmente nauseabondo,
almeno a sentire i commenti degli inviati delle televisioni, che tra
un po’ s’infilano una maschera antigas per sopportare la puzza.
Inoltre ha un colorito olivastro che sembra un incrocio tra una
prugna e un fico. Ho mandato affanculo mio fratello perché lo
sanno tutti che Bertran de Born è stato un grande eroe che ha preferito impiccarsi pur di non rivelare il nascondiglio dei cittadini di
Sabbione ai tempi della seconda invasione dei cipperuoli, ai quali
aveva già infilato su per il culo un bel po’ di pali di frassino o
quercia o ciliegio, e quella volta che i prelati cattolici vollero costringere tutta la cittadinanza a venerare quel brutto ceffo col rivolo di sangue sulla fronte e tutto il resto che gli gira attorno, come
le puttane e i sediziosi, Bertran li fece rinchiudere in un recinto
504
pieno di maiali e li fece sbranare tutti. E poi tutti, nel Sabbionasso,
amano Bertran de Born, in primis i camionisti che fanno sfoggio
del suo volto lacerato e contrito (e leggermente barbuto) in ogni
salsa e con immagini di ogni tipo, la più bella delle quali è
senz’altro una raffigurazione in neon del viso incappucciato e impiccato del Patrono, fiero di fronte all’insormontabile destino, che
ho visto l’altro ieri in autostrada sul retro di un tir. Aveva molte
piaghe, il nostro Patrono, c’è chi dice procurate da acido fenico
chi dice da un’investitura elevata, qualcuno sostiene addirittura da
Iddio in persona, col quale Bertran de Born ebbe sicuramente una
tresca. E oggi la sua misera mummia-testa, il fossile della sua nobiltà, giace sulla pietra marmorea più grande del cimitero Monumentale Iscariotico di Sabbione, mentre una folla è accalcata
all’esterno delle mura urlando il suo nome e attendendo il proprio
turno per sfiorargli le labbra o i capelli un tempo rossi purpurei
propri dei guerrieri santi. Il biglietto d’ingresso costa diciotto euro.
Ci sono bancarelle con immagini e magliette, cappi, spade e
l’immancabile elmo di Bertran in campo azzurro, emblema della
sua casata. È davvero una splendida giornata di luglio e tutti stiamo ammirando alla tv l’ostensione della testa-salma del nostro Patrono e io ho mandato affanculo mio fratello perché cazzo, mica
si può infangare la memoria di un eroe e di un santo con un mucchio di fandonie buone per un racconto da giornaletto porno, inserito così tanto per dare respiro ai lettori tra una fica e l’altra.
E allora sono andato a leggermi il diciottesimo volume
dell’enciclopedia Sabbionassa Grolier mezzo imputridito sul dodicesimo scaffale est della biblioteca di Sabbione che cari miei è
davvero ridotta a uno stato penoso, uno schifo davvero, dopo che
il Gerarca ha deciso di restaurare e rimodernare qualcuna delle sue
ville e ha tagliato i fondi alla Cultura, che in effetti non serve a
niente. Gente, non ce n’è. I cittadini preferiscono non leggere o
leggere libri comprati alle bancarelle a metà prezzo o scaricarli da
internet. Così il vuoto lentamente si è fatto strada tra gli scaffali e
la polvere, questa sì regina assoluta dell’edificio, ti entra nei polmoni e t’impedisce di respirare. Il posto sarebbe sorprendente, se
fosse vivibile. I libri, poi, non parliamone; qualcuno emana un fe505
tore che per leggerlo ti costringe a tenere le braccia tese davanti
per non doverne respirare i miasmi che alla fine ti arrendi spossato
dai crampi e da quelle fottute formiche che ti salgono a frotte per
gli avambracci e ti stroncano davvero. Il diciottesimo volume
dell’enciclopedia sabbionassa Grolier non era in uno stato simile e
riuscii a leggere la voce riguardante Bertran de Born senza crampi
e formiche e svenimenti causati dagli effluvi e tutto il resto.
San Bertran de Born principe del Sabbionasso Alto e, dopo la
guerra di Cipperùla (1207), anche del Sabbionasso Basso, della Savoia e del Palatinato di Risaia, nell’estremo nord del Sabbionasso.
Dopo una gioventù trascorsa tra i sollazzi nei possedimenti di famiglia coi suoi sette fratelli e i genitori, giovanissimo, nel 1154
all’età di quattordici anni partecipò alla discesa sveva nei territori
sabbionassi, di cui si innamorò. Proclamatosi Principe (massima
carica dell’allora Principato di Sabbione), fece internare i tre fratelli
superstiti, rivoltò la nobiltà e intraprese una serie di imprese belliche volte all’espansione e alla conquista del Sabbionasso Basso,
della cui principessa (d’origine cipperuola) egli s’era innamorato.
Sposò Margarita nel 1209, tentando così di unificare le due terre.
Con la seconda guerra di Cipperùla (1211) B. sconfisse i cipperuoli
scacciandoli dalle terre sabbionasse e proclamò il Gerarcato di
Sabbionasso. Celebre è il racconto del suo vassallo Domenico di
Tonco, che a proposito del suo arrivo a Sabbione invasa dai Cipperuoli scrisse:
“Entrò dalla porta principale una notte in cui le immagini sgusciavano
come ratti e sentii il popolo imprecare e bestemmiare: la vergine ha perduto purezza, dicevano, la giovenca non ha figliato, l’erba manca nei prati. Gridò:
“Collina deserta, il salvatore è giunto. Ucciderò tutti, sterminerò, impalerò;
ogni brandello di pelle vomiterà sangue caino e cipperuolo, e quelli che lascerò
vivere vagheranno spettrali tra pietre che furono case mentre i miei soldati violenteranno mogli e figlie e io violenterò la vergine principessa”. Uomini divenuti come fieno nel campo e come l’erba verde dei tetti, che lo scirocco dissecca; i
preti e i tribuni, miserabile schiatta, ghignavano ostentando ricchezza sugli
altari incipriandosi il naso e cospargendo il fumo della sepoltura nelle nostre
case. Al rogo! Le donne si coprivano il sedere e il seno per pudore, imperversa506
vano gl’ideali, le marce, i giardini fioriti e profumati. “Stuprate! Lanciate
sterco infiammato nei loro orti!”. I saggi affollavano la piazza e il ciottolato
consumato dalle suole dei romanzieri non era buono neppure per tenerci su i
miei cavalli. Ai balbuzienti, eroi di questo mondo, fu tagliata la lingua, ai
poveri fu offerta una morte atroce, ai bambini un lavoro da schiavi. E nel silenzio lacustre delle bocche cariate del cielo in attesa di nuovi lampi e nuovi
fragori, nessuna rondine traditrice, nessun segno divino, solo un bubbolìo lontano bu bu bu bu bu tra il nero di seppia dei monti e la trave gonfia di pioggia
del tetto, poi altro silenzio, infine rotto dalla voce del menestrello che implorava
la grazia: “Ieu sui Gerard, que plor e vau cantan, fui menestrello di queste
terre tra pietre e foglie, schiavi e padroni; io, Gerard, sulla lapide di vento
d’una notte assassina iscriverò la tua fine: tu sei la tua prigione”, disse. “A
morte! A morte!”, urlavano gli uomini. Non fece in tempo a chiudere gli occhi
che fu trafitto dalla possente lama di Sua Maestà. Il castello era caduto, non
restava aria al di là dell’incendio che dall’ossigeno fuligginoso sottraeva vite
umane come capocchie di fiammifero, all’alba era tutto cenere come il letto di
un falò. Sabbione era di nuovo dei sabbionassi. Tra le foglie spazzate dal
nord-est Sua Maestà contemplò lo scempio di un paradiso scisso tra ghigno di
scimmia e sorriso di donna, uomo immortale sulle rovine della mortalità.
Giacque tutta la notte con la bella principessa di Sant’alba di Cipperùla, Desdemona, stuprandola più e più volte. Quando ebbe finito la fece gettare nella
forra della piazza centrale di Sabbione.”
A questo punto ebbi il tipico eccitamento che mi coglieva a
scuola quando la professoressa spiegava la guerra di Cipperùla,
quando si faceva un tifo sfrenato per i nostri antenati contro gli
invasori brutti e grassi di Cipperùla, le cui case sono più brutte
delle nostre, le donne pure, il vino è peggiore ma sponsorizzato
meglio, i bambini piangono più dei nostri, i vicini rompono i coglioni dalla mattina alla sera, le messe sono più lunghe e noiose
delle nostre, i santi più pallidi e contriti, non hanno il tamburello a
muro, i tetti gocciolano più dei nostri, l’immondizia puzza tre volte la nostra e le professoresse hanno le caviglie grosse, non come
le nostre che hanno tutte le caviglie sottili e un alito buono e profumato. Poi continuai a leggere dal diciottesimo volume
dell’Enciclopedia Sabbionassa Grolier:
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“Si impiccò dopo aver trucidato la moglie fedifraga, il conte di Verulengo
suo amante e tre dei quattro figli. Risparmiò solo la figlia più piccola con cui
tentò di generare una nuova stirpe regnante; ma i rifiuti di lei, già promessa in
sposa al Barone di Refrancore, e il tradimento del barone stesso, portarono
agli avvenimenti tragici che condussero al suicidio del Patrono del Sabbionasso
il quale, incarcerato per crudeltà nella Torre di San Vittore in Castrocozzo
con una corda già legata al collo, cedette all’impulso e morì la notte di mercoledì 19 luglio 1215 alle ore mezzanotte e venti. Fu santificato nel 1553 da
Papa Cosimando II e proclamato Santo Patrono di Sabbione e di altri nove
comuni del Sabbionasso negli anni che vanno dal 1845 al 1866. I sabbionesi
festeggiano la ricorrenza della sua morte il 19 luglio, proclamata festa patronale, con una parata e una giostra che si dice risalire al suo principato”.
Così subito mi venne una gran voglia di andare a cercare quelli
della Grolier Enciclopedie e di spaccare il cranio a tutti dicendo
come vi permettete brutti schifosi di scrivere queste coglionate sul
conto del nostro Patrono lui ha ucciso tutti quei parassiti miserabili di Cipperùla e li ha impalati e impiccati e ha fatto bene ritirate
subito tutti i volumi diciottesimi di tutte le vostre squallide enciclopedie e correggete la voce riguardante Bertran de Born pardòn
San Bertran de Born fatelo immediatamente dovete farlo fatelo
fatelo. Bertran de Born è un eroe! E che cristo. Ma dopo
nell’impossibilità di trovare quelli della Grolier Enciclopedie (che
per il resto mi è sempre sembrata una buona enciclopedia e ben
fatta) mi sono deciso a tirare fuori diciotto euro e a fare la coda
per sfiorare anch’io la testa mummificata del nostro Patrono e così
ho fatto, imprecando e bestemmiando tutto il tempo per i gomiti
dei miei amati concittadini piantati nelle costole e gli ombrelli parasole delle signore nei capelli sugli zigomi e quasi negli occhi. E
poi finalmente dopo un’ora e mezza di bestemmie e gomiti e ombrelli ho sfiorato la testa rachitica del nostro amato patrono che da
morto non aveva più le piaghe nelle mani (il Signore te le toglie
quando crepi dicono) anche se questo non lo sapremo mai con
certezza, dacché le mani del nostro Patrono saranno finite a concimare un orto a Castrocozzo o in un allevamento di maiali di
Frinco o peggio trapiantate a quel povero falegname di Piovà
Massaia che quando ero piccolo si tranciò le sue con una sega cir508
colare. Ho sfiorato i capelli del Patrono e mi sono subito sentito
meglio. Sono tornato a casa e mi sono rimesso davanti alla televisione a guardare la diretta dal cimitero Monumentale Iscariotico.
***
509
IL RITO DI IMBOLC
In televisione dicono che il nostro patrono rimarrà esposto tre
giorni e allora penso bisogna fare qualcosa cazzo, qualcosa che
venga ricordato da questi buffoni come un segno tangibile della
grandezza di San Bertran de Born il Conquistatore.
Mi scervello per un quarto d’ora provando a concentrarmi ma
di questi tempi è mica facile, la concentrazione va e viene così decido di rilassarmi sul divano leggendo le riviste imbecilli di mia
madre.
Leggo la notizia di un culturista morto d’infarto durante la
Giornata dell’Affermazione della Virilità Red Bull mentre cercava
di trascinare un trattore (con autista) in Piazza delle Dominazioni.
Questo povero coglione ci ha rimesso le penne ma ha ricevuto
il plauso della comunità gay del Sabbionasso e dell’Associazione
Sabbionassa Body-Builder. I parenti, leggo, cattolici e depressi,
non c’avevano manco i soldi per seppellirlo, così hanno chiesto
una colletta ai cittadini amanti del body-building. Risultato: un pugno di vaffanculo e dodici euro in monete da due e cinque centesimi. Così il tizio rischiava di marcire se non fosse intervenuta
l’Associazione Body-Builder a garantire almeno una funzione e un
posto sottoterra. Esco. Vago per le strade vuote della mia periferia
bucolica, come la definiscono i sociologi, fino al mio solito bar, dove il reverendo ha promosso un ciclo di Sermoni Biblici per la
Salvezza di noi Poveri Cristi.
Appena arrivo mi siedo e chiedo a Tòn e Giùs se hanno visto
l’ostensione della salma di san Bertran.
“Che cazzo certo che l’abbiamo vista”, risponde Giùs. “Un vero schifo”, aggiunge Tòn.
“Uno schifo del cazzo”, fa Giùs.
Il sermone di questa sera riguarda le domande fondamentali
della bibbia in relazione alla vita quotidiana.
“Tutti i cittadini dovrebbero partecipare alle letture della bibbia”, dice il reverendo. “Altrimenti i loro figli non potranno ricevere comunione né cresima, i loro nipoti non potranno congiun510
gersi in matrimonio, i loro morti non potranno ricevere estrema
unzione né esequie, i loro infermi non potranno ricevere conforto,
le loro preghiere non saranno esaudite”.
Ha fatto stampare tremila opuscoli ciclostilati in cui si tracciava
il percorso biblico, considerando Genesi, Esodo, Levitico e Numeri, con un accenno al Deuteronomio.
“Cazzo non è possibile andare avanti con questo strazio”, dice
Tòn, “mi sto addormentando cristo”. “Stai zitto deficiente, se ti
sente il reverendo ci fa stare un mese senza comunione”, dice
Giùs.
“Ma chi se ne fotte della comunione”, dice Tòn.
“Dobbiamo fare qualcosa per il nostro patrono”, dico, “che
cazzo, non possiamo mica restare qui impassibili”.
“Cosa intendi per impassibili?”, chiede Giùs.
“Vuol dire senza fare niente, pezzo di cretinoide”, dice Tòn.
Il bar è dei genitori di Tòn e si chiama Un Posto Pulito e Illuminato Bene, solo che il bancone sembra una latrina e l’illuminazione è
un neon merdoso da obitorio che scatarra lampi sfrigolanti di luce
violacea sui capelli degli sciagurati che si lordano le scarpe nella
segatura vomitosa del pavimento.
“Con quella testa rinsecchita, cazzo, non posso guardarlo”, dice Tòn.
“Dobbiamo agire”, dico, e racconto per filo e per segno il
progetto che mi è venuto in mente nel pomeriggio e che è ancora
in fase di elaborazione.
“Porca puttana”, dice Tòn.
“Cristo”, dice Giùs, “mi sembra una figata pazzesca”.
“Ma è una stronzata bella e buona”, dice Tòn.
“Puoi fare a meno di venire”, dico.
La cugina di Tòn, Liz, una ragazzina sveglia che ha sentito tutto sgattaiola vicino a me e dice: “facciamolo, ma a modo mio”;
annuisco e penso che ci stiamo cacciando in un bel guaio.
Liz è ossessionata da sedute spiritiche, magia rossa e nera, esoterismo da supermercato e ho già una vaga idea di quale possa essere il ‘modo suo’.
Decidiamo di agire quella sera stessa. Per restituire al nostro
Santo Patrono la stima e il rispetto che merita.
511
“Prima però dobbiamo mollare questa fottuta lezione”, dice
Tòn.
“Silenzio laggiù”, tuona il reverendo, “piuttosto per la prossima
settimana voi tre potreste consegnarmi una tesi nella quale analizzerete a fondo le seguenti domande:
Uno, è possibile conciliare la reincarnazione con la Bibbia? Due,
è possibile aggiungere dettagli riguardanti la Salvezza anche al di
fuori della Parola di Dio? Tre, lo gnosticismo è conciliabile con il
cristianesimo rivelato? Quattro, Gesù è venuto per dare adempimento o per abolire la legge? Cinque, La Bibbia è un libro simbolico?”
“Sei, la bibbia è un libro del cazzo!”, grida Giùs. Subbuglio generale. Si levano voci del tipo “inammissibile”, “scandaloso”,
“vomitevole”. Altri applaudono e fischiano. Il reverendo rischia lo
svenimento. Tanto meglio, approfittiamo della situazione per
scardinare la porta e uscire in strada. Saltiamo in macchina e passiamo all’officina di Giùs, un’officina in campagna piena di trattori
e carrette dell’anteguerra, carichiamo tre seghe e quattro badili; poi
passiamo da Liz che entra in casa e torna con uno zaino pieno di
libri e ci dirigiamo al cimitero monumentale di Sabbione.
“E se ci sono le guardie?”, chiede Liz durante il tragitto in auto.
“Che cazzo, figurati se ci sono le guardie”, dice Giùs.
“Ma ci sono di sicuro, deficiente”, fa Tòn, “ti pare che lasciano
il nostro patrono alla mercé di qualsiasi pervertito senza neppure
la protezione delle guardie?”.
“Se poi capita che dei delinquenti vogliono prendersi anche la
testa cosa facciamo, restiamo senza patrono?”, fa Liz.
“Se ci sono le guardie scatta il piano B”, dico.
“E quale sarebbe il piano A?”, chiede Giùs.
“Sei proprio un bacato mentale”, dice Liz.
“Sei totalmente ignorante”, dice Tòn.
“Il piano A è scavalcare il muro dal retro del cimitero”, dico.
Arriviamo al cimitero e ci sono le guardie.
“Cazzo le guardie del cazzo”, dice Liz.
512
“Quelle cazzo di guardie”, dice Giùs.
“Non puoi fare a meno di essere così volgare in presenza di
mia cugina?”, dice Tòn.
“Che cazzo tua cugina parla come un merdajolo di Aramengo e
io dovrei fare a meno di essere volgare?”, fa Giùs.
“So badare a me stessa”, fa Liz, “allora? Che si fa?”
“Scatta il piano B”, dico.
“E quale sarebbe il piano B?”, chiede Giùs.
“Sei proprio uno scemo di guerra”, fa Liz.
“Imbecilloide”, dice Tòn.
“Il piano B è uguale al piano A, solo facciamo più attenzione”,
dico.
Andiamo sul retro del cimitero e scavalchiamo il muro senza
troppi problemi; in un battibaleno siamo dall’altra parte cioè
nell’area pidocchiosa del nostro camposanto, quella dove ci seppelliscono i poveri cristi come noi e come il culturista morto
d’infarto.
“Che schifo”, dice Liz.
“Davvero un posto desolato”, dico.
“Cosa intende per desolato?”, chiede Giùs a Tòn.
“Intende che è una vera merda”, dice Tòn, e scalcia un paio di
ratti grossi come procioni.
Forse starò esagerando, ma questa parte del cimitero è una cosa disgustosa, cazzo, neppure una misera cappelletta o una croce
di pietra, una lapide o quei fottuti angioletti a far da cornice alle
tombe.
“Mi sembra l’ideale”, dico.
“Ideale un cazzo”, dice Liz, “ma se fa cagare”.
“Sì ma è il posto in cui hanno ficcato il nostro uomo”, dico.
Cerchiamo attentamente tra le tombe, o quegli schifi che sono,
per trovare la tomba del culturista tra quelle dei poveracci sepolti
in questa parte del cimitero. Siccome è buio e quella schifosa torcia di Giùs non funziona non leggiamo praticamente niente e così
andiamo a caso. Ne scegliamo una con la terra che sembra fresca e
cominciamo a scavare.
“Vuoi dire che dobbiamo scavare lì?”, chiede Giùs.
“No, nella tua testa, scemonito”, dice Tòn.
513
“Smettetela e scavate”, dice Liz.
Troviamo la bara che più di una bara sembra uno scatolone industriale.
“Guardaci dentro”, dico a Giùs.
“Neanche per il cazzo”, risponde Giùs, “non ficco una mano lì
dentro neppure per una scopata con Pamela Anderson”.
Proviamo a convincere Tòn.
“Non vedo perché se lui non ficca la mano lì dentro dovrei farlo io cazzo”, dice Tòn, “e poi siamo in quattro, cristo, fatelo voi”.
“Siete due mezze seghe”, dice Liz, e scoperchia lo scatolone.
Dentro ci troviamo un tipo vecchissimo mezzo decomposto che
fa una puzza da schifo.
“Porca puttana”, dice Liz.
“Ma non aveva ancora la terra fresca sopra?”, chiede Tòn.
“E allora?”, fa Giùs.
“E allora dovrebbe essere integro, cazzo, stupido di tacca che
non sei altro”, dice Tòn.
Poiché il venerando chiaramente non è il nostro culturista decidiamo di dividerci e provare con un’altra bara. Ci servono due
braccia e due gambe, un tronco e un bacino, eccetera. Il tutto possibilmente integro e del culturista.
“Ne ho trovato uno che può essere lui”, dice Giùs.
“Sei un deficiente, pezzo d’asino”, dice Tòn guardando la bara
scoperchiata da Giùs, “porca puttana non vedi che è una donna?”.
“Sentite non è che potete smettere di bestemmiare sulle tombe?”, chiede Liz.
“E da quando in qua porca puttana è una bestemmia?”, dice
Tòn.
“Porca puttana non è una bestemmia”, conferma Giùs.
“Tu stai zitto, pezzo d’asino”, dice Liz.
Alla terza bara troviamo il culturista.
“Ma come stracazzo l’hanno vestito?”, chiede Tòn.
Il nostro culturista era stato seppellito con l’abito da lavoro, per
cui porta una specie di salopette aderente sul viola acceso. In pratica è mezzo nudo.
“Ha ancora l’olio sui muscoli, che schifo del cazzo”, dice Giùs.
514
“L’hanno seppellito ieri”, dice Tòn leggendo la lapide di fianco
alla tomba, più un post-it che una lapide. C’è scritto Rubeus Heinze:
amato figlio – suicida fallito eppure morto celebrando il Calendario Ricreativo
Promozionale HCE. Più in là ci sono quattro fiori in croce e una corona col nastro siglato dall’Associazione Sabbionassa body-builder e
un biglietto con su scritto Non ti dimenticheremo. Un minuscolo nastro di stoffa di quart’ordine reca la scritta: I colleghi del Dipartimento
Assicurazioni sui Tentativi Falliti di Suicidio.
“Questo è decisamente il nostro uomo”, dico.
“Guarda che pettorali”, dice Liz.
“Cosa fai sbavi per i pettorali di un cadavere?”, fa Giùs.
“E perché no? Sono davvero niente male”, fa Liz.
“Ma sei disgustosa cazzo, una depravata mondiale”, dice Giùs.
“Vaffanculo Giùs”, dice Liz.
“Ti sembra il caso di metterti a commentare i suoi muscoli del
cazzo, cazzo?”, dice Giùs.
“Sto guardando anche i deltoidi, e non oso pensare alle sue
chiappe”, fa Liz.
“Porca puttana sei un’assatanata”, dice Giùs.
“Facciamola finita eh”, dico.
“E adesso?”, chiede Tòn.
“Tagliamo”, dico.
“Starai scherzando”, dice Giùs.
“La testa non ci serve”, dico, “per cui è la prima parte che segherei via”.
“Perché non ci serve la testa?”, chiede Tòn.
“Ma perché è l’unico pezzo che ci resta del nostro Patrono,
cretinoide che non sei altro”, dice Liz.
Cominciamo a segare la testa cercando di tagliare perfettamente all’altezza della trachea, proprio nel punto in cui la testa di San
Bertran dovrà combaciare col tronco.
Segare la testa di un culturista morto è davvero uno schifo del
cazzo, ha ancora i muscoli in tensione perché quando è schiattato
era nel pieno dello sforzo e la puzza di canfora si mescola a quella
di marciume dei fiori, uno schifo portentoso.
“Questi fiori puzzano come la merda”, dice Tòn.
“Davvero un paragone apprezzabile”, dice Liz.
515
“Adesso la signorina si scandalizza”, fa Giùs.
“Cazzo cazzo cazzo”, dice Tòn, “schifo schifo schifo”, dice Liz
mentre seghiamo.
“Ma taglia con più attenzione, cristo”, fa Tòn a Giùs.
“Mi hai preso per un patologo del cazzo?”, dice Giùs, “se volevi un cazzone di coloner dei telefilm americani dovevi tagliare tu”.
“Si dice coroner, pezzo d’imbecilloide”, dice Liz.
“Ci sono punizioni terribili per quello che stiamo facendo”, dice Tòn.
“Che punizioni?”, chiedo.
“Ma come minimo l’inferno cazzo”, dice Tòn.
“Se va bene”, dice Giùs, “per me ci sbattono in una prigione
piattolosa”.
“Ci ficcano in una bolgia a patire le pene per trecentomila anni”, dice Tòn.
“Cosa intendi per bolgia?”, chiede Giùs.
“Intendo che ti mettono in un posto pidocchioso, scemonito,
coi ratti e gli scarafaggi e sono cazzi tuoi, mica c’hai le trappole o il
DDT”, dice Tòn.
“Sembra davvero uno schifo”, dice Giùs.
Dopo una mezz’ora abbiamo finito, siamo attrezzati con guanti
di lattice e una sega affilata, per cui prendiamo una carriola abbandonata e carichiamo il culturista senza testa.
In dieci minuti siamo pronti per attuare la seconda parte del
piano.
“Guarda quanto ce l’ha piccolo, cristo”, dice Liz sbirciando la
salopette del culturista.
“Ma allora sei proprio una depravata del cazzo!”, grida Giùs.
“E tu un ignorantoide da competizione”, urla Liz.
“Volete per caso anche suonare una sirena?”, fa Tòn, “o magari preferite urlare direttamente alle guardie Signore guardie del cimitero, siamo quattro coglioni che stanno scarrozzando in giro per il cimitero una
carriola con un culturista morto decapitato. Fate silenzio, cristo”.
“Abbiamo un corpo coi fiocchi”, dico.
“Ma con un cazzo che sembra una patatina fritta smollata
nell’acqua”, fa Liz, “non avrei voluto essere la sua donna neppure
da morta”.
516
“Ma tua cugina è una porca inaudita!”, fa Giùs.
“Ma fai silenzio, pezzo di un deficiente patentato!”, urla Tòn.
“Non possiamo ricomporre il cadavere del nostro Santo con
un cazzetto minuscolo come questo”, dice Liz.
“Ditemi che sta scherzando”, dice Tòn.
“Neanche morta”, dice Liz, e si pianta lì in mezzo a quelle
tombe pidocchiose, a pochi metri dall’ingresso dell’area monumentale del cimitero.
“Tanto mica lo ricomponiamo nudo, vacca eva”, dice Tòn.
“Una donna sa notare certi particolari anche attraverso i pantaloni”, dice Liz.
“Cristo Santo, è malata”, dice Giùs.
“Smettetela”, dico, “piuttosto, come lo vestiamo?”, chiedo.
Non abbiamo un vestito, così decidiamo di tirare fuori un altro
cadavere. Per il vestito.
“Mi rifiuto di ricomporre il corpo di San Bertran de Born, Eroe
di Sabbionasso, con un cazzo che sembra una pustola sgonfia,
porca puttana”, continua Liz.
“In effetti è davvero piccolo”, dice Tòn.
“Non dici sul serio, vero?”, fa Giùs.
“È una questione di virilità”, dice Liz, “pensate a quelli che lo
hanno mostrato alle televisioni solo per interesse, a quelli che fingono di preoccuparsi della sua santificazione, a quelli che fingono
di piangere, quelli della chiesa”.
“Quegli stronzi fottuti”, dice Tòn.
“Si può dire stronzi fottuti in un cimitero?”, dice Giùs.
“E perché no? Mica siamo in oratorio del cazzo”, dice Tòn.
“Sì ma è un terreno consacro del cazzo”, dice Giùs.
“Consacrato, ignorantoide”, dice Liz.
“Comunque secondo me si può dire”, dice Tòn, “è un po’ come dire merda, vomito, schifo, merda”.
“Hai detto due volte merda”, dice Giùs.
“Ma cosa sei un notaio del cazzo? era per fare un esempio
no?”, urla Tòn, “vuoi che sostituisca merda? Piscia, piscia piscia
piscia, si può dire piscia? Beh io lo dico”.
“E comunque mi rifiuto di ricomporre il corpo del nostro patrono a queste condizioni”, dice Liz.
517
Liz continua a impuntarsi per la questione del pene per cui
siamo costretti a scaricare il tronco del culturista già bello affettato
e pronto all’uso.
“Dobbiamo trovare un altro corpo”, dico.
“Ma non si può segare solo l’affare e sostituirlo?”, chiede Giùs.
“Brutto deficiente”, dice Liz, “e poi cosa gli attacchiamo, il
tuo?”.
“Ti piacerebbe?”, chiede Giùs.
“Sì per ricordare il nostro patrono come il Santo dal cazzo microscopico”, dice Liz.
Profaniamo tre o quattro tombe.
“Vieni a vedere se questo è di tuo gradimento, miss depravata”,
dice Giùs.
“Quello è più rinsecchito del tuo, mister coglione”, dice Liz, e
la ricerca continua.
Trovo una bara lunga tre metri e larga due, un legno povero
ma robusto. Julio Burgos, amato marito. Scoperchiamo e troviamo un
bestione di due metri.
“Guarda lì sotto se può andare”, dico a Liz.
Stavolta Liz non fa problemi e tira giù i pantaloni al bestione,
svelando un pisello di ventisette, ventinove centimetri in erezione,
almeno secondo le proiezioni di Liz.
“Cos’è adesso facciamo anche le proiezioni?”, chiedo.
“Questo è troppo, cristodio, tua cugina è una maniaca sniffomane”, dice Giùs a Tòn.
“Ninfomane, frocettoide che non sei altro”, dice Liz.
“Con te facciamo i conti dopo”, dice Tòn a Liz, “dovresti vergognarti a parlare così, con sedici anni, in presenza di tuo cugino”.
“Diciassette, cugino dei miei coglioni”, fa Liz.
“Facciamola finita cazzo, vogliamo procedere?”, chiedo.
Tiriamo fuori il bestione a fatica.
“Ma questo è un mostro”, dice Tòn.
“Mai vista una bestia del genere”, dice Giùs.
“Gli corre lungo una gamba”, dice Tòn.
“Gli arriva al ginocchio cazzo”, urla Giùs
“I nostri frocetti hanno un po’ d’invidia?”, dice Liz.
“Vaffanculo Liz”, dice Tòn.
518
“Manco il Gerarca ha un cazzo così”, dice Liz.
Seghiamo il tronco del bestione e lo ficchiamo nella carriola,
buttiamo via gambe, braccia, e testa. Seghiamo il culturista
all’altezza dell’ombelico e teniamo gambe, tronco e braccia.
“Butta via la parte bassa del culturista”, dico a Giùs.
“Ma porta rogna buttare via i pezzi di cadavere”, dice Giùs.
“Cos’è quest’altra stronzata?”, chiede Tòn.
“Ci mancava solo questa”, fa Liz.
“Butta via quel cazzo del cazzo”, gli dico.
“Porta rogna!”, urla Giùs.
“Fighetta di una mezza sega”, dice Liz, e afferra il bacino del
culturista. Si avvia verso il cassonetto e lo getta via.
“Avevi dei gran bei pettorali e le chiappe belle sode ma credimi, non ho mai visto un cazzo tanto piccolo”, dice Liz.
“Ci voleva tanto?”.
Abbiamo i pezzi ma non un vestito, perché quello del bestione
è enorme, inoltre non possiamo vestire San Bertran de Born con
un frac merdoso e pieno di buchi.
La seconda fase del piano è la più delicata, poiché si svolge a
contatto con l’area in cui giace la testa di San Bertran de Born. Ci
muoviamo rapinosi tra le cappelle di lusso dell’area Vip del cimitero e avvistiamo la pietra su cui poggia la testa: è nel centro di uno
spiazzo rotondo e immenso; la pietra funeraria è abbastanza grande da accogliere i nostri pezzi di cadavere. C’è una certa eccitazione serpeggiante. Delle guardie neppure l’ombra. Circumnavighiamo lo spiazzo, guardiamo fuori dal cancello, nelle cripte, nelle
cappelle, niente.
Neanche una guardia.
“Guarda che fine gli hanno fatto fare”, dice Liz.
“Neppure una guardia del cazzo a presidiarlo”, dice Giùs.
“Uno si fa un culo a paiolo per diventare santo, stermina chi
c’è da sterminare, impala chi c’è da impalare e il trattamento è
questo”, dice Tòn.
“Dove cazzo sono finite le guardie?”, domando.
“Chi se ne frega”, dice Tòn.
“Non c’è anima viva”, dice Giùs.
“Bella battuta del cazzo”, dice Liz.
519
“Tua cugina è una degenerata”, dice Giùs a Tòn.
“Vogliamo fare il lavoro per cui siamo venuti o aspettiamo che
vengano coi cani, cristo?”, dico.
Scardiniamo tre o quattro cappelle e rimediamo un bel vestito
per il nostro patrono.
Poi la ricomposizione del cadavere è compito di Tòn, che ha
sostenuto cinque esami di medicina. Solo che ci mette una vita.
“Qui facciamo mattina, cazzo”, sbotta Liz, “ma cosa ci vuole a
ricomporre un fottuto cadavere?”
“Ha parlato miss saputella”, dice Tòn.
“E miss pervertita”, dice Giùs.
“Date qua, mister rincoglioniti”, dice Liz, e in tre minuti ricompone il corpo che è una meraviglia.
“Signore e signori, ecco voi San Bertran de Born”, dico.
“Con un cazzo enorme”, dice Liz.
“Appena uscito dalla palestra”, dice Giùs scattando una fotografia col telefonino.
A questo punto non sappiamo cosa fare.
“Ma raccogliamoci in meditazione, cazzo”, dice Liz, “è il minimo che possiamo fare”.
Ci raccogliamo in meditazione fino a quando Liz decide che è
ora di cominciare il rito.
“Che storia è?”, chiede Tòn.
“È la terza parte del piano”, dice Liz.
“E cioè?”, chiede Giùs.
“E cioè risvegliamo il nostro Patrono dal suo sonno centenario
mediante il rito di Imbolc”, dice Liz.
“Ossignore schifo santo”, dice Giùs.
“Non vorrai fare sul serio questa cazzata”, dice Tòn.
“Tappati la bocca, ignorante, l’esoterismo è una scienza”, dice
Liz.
Discutiamo qualche minuto, mentre Liz tira fuori dallo zaino
un lettore cd portatile e lo accende: c’è una specie di canzone incomprensibile. Faccio notare che potrebbe arrivare qualcuno da
520
un momento all’altro, per cui Liz prende un libro e comincia a
leggere.
“Il 1° si hanno nove ore e undici minuti di luce solare e il 31 se
ne hanno nove e cinquantanove: si perdono quarantotto minuti di
buio.
La Luna è Piena il giorno 3 e Nuova il giorno 17”.
“Per la puttana, è completamente fuori di testa”, dice Giùs.
“Silenzio, scemo di guerra”, dice Tòn, “prima cominciamo e
prima finiamo”.
“Vaffanculo, voi due”, dice Liz, e riprende a leggere.
“Il Giorno 20 alle ore 06:16 il Sole lascia il Capricorno ed entra
nel segno dell’Acquario”.
“Queste cose portano una rogna terribile”, dice Giùs.
Osserviamo Liz mentre prepara gli strumenti per il rito. Candele bianche e rosse, rametti di sorbo, fiori rossi, incenso di Imbolc,
rosmarino, cannella, incenso puro, biscotti alla cannella, marmellata di mirtilli, succo di frutta ai frutti di bosco.
“Ma che cazzo, tua cugina è una strega coi controcazzi!”, dice
Giùs.
“Ma stai zitto”, dice Tòn preoccupato.
“Zitti e immobili”, dice Liz, “questa è la parte più delicata”.
“Porta una rogna terribile, ve lo dico io”, ripete Giùs.
“Quando la ruota a Yule giungerà, il ceppo si accenderà e il
Cornuto regnerà”, declama Liz.
“Cosa intende per Cornuto?”, chiede Giùs a Tòn.
“Cretinoide, il porco Demonio no? E chi altri?”, dice Tòn.
“O cazzo, cazzo, cazzo”, dice Giùs.
“Io sono la Signora delle Maree che fa ritorno al suo Regno su
una nave di Fiori”, continua Liz.
“Oh cristo”, dice Tòn.
“Io sono Giovane ma Vecchia, Vergine ma Saggia”.
“Questo è troppo. Ma se è una porca allucinante”, dice Giùs.
“Ma stai zitto citrullo, non vedi che è il testo di un rito?”, dice
Tòn.
“Sì ma dura ancora molto?”, chiedo.
“È quasi finito”, dice Liz. “Adesso dobbiamo ripetere insieme
questa formula”. Liz apre il libro.
521
“Al tre tutti insieme”, dice Liz.
“Tre”.
“Gioiamo per il Seme che riposa nella
Gioiamo per il Vento che si fa gentile al tocco.
Gioiamo per la Luce che nasce dalle Tenebre
Gioiamo per l’Orso che fa ritorno al Bosco.
Gioiamo per la Rinascita e per il Ciclo Eterno!”
Terra
Non succede niente.
Rimaniamo immobili a osservare il corpo immobile del nostro
Santo.
“E allora?”, fa Tòn.
“Bella stronzata”, dice Giùs.
“Cosa sarebbe dovuto capitare?”, domando a Liz.
“Avrebbe dovuto risvegliarsi, cazzo”, dice Liz.
Stiamo lì a rimuginare poi sentiamo un’automobile fermarsi
davanti alla cancellata del cimitero seguita da altre automobili.
“Avete sentito?”, domando.
“Arrivano a tutta birra, cristo”, dice Giùs.
“È quella Pantera del cazzo”, dice Tòn.
“Cosa intendi per Pantera?”, domanda Giùs.
“Ma i vigilanti notturni del cazzo, no?”, dice Tòn.
“Ma perché il rito non funziona?”, chiede Liz.
“Chissenefrega del tuo rito idiota”, dice Tòn.
“Scrivi qualcosa con la vernice spray e andiamocene”, dico a
Giùs, che tiene in mano la bomboletta.
“Cazzo dev’essere la marmellata di mirtilli. Ci voleva quella di
more”, dice Liz.
“Ma cosa cazzo scrivo?”, chiede Giùs.
Cominciamo a correre lasciando Giùs con la bomboletta in
mano. Scrive qualcosa e sembra impegnarsi davvero, corre via, ci
raggiunge, ci supera, salta il muro di recinzione del cimitero.
Quelli della Pantera fanno irruzione nel cimitero monumentale
e ci trovano il corpo ricomposto di San Bertran il Conquistatore,
con muscoli da culturista e un cazzo da paura. La scritta recita “il
nostro Patrono ha il cazzo lungo da qui a domani”. Arrivano le televisioni, i giornali, nel giro di mezz’ora le immagini di San Bertran Ri522
composto fanno il giro del Sabbionasso, forse del mondo. La
scritta la censurano coprendola con un lenzuolo bianco, ma ce lo
aspettavamo, sono sempre i soliti dai tempi dell’inquisizione.
Nel frattempo siamo già da Burger King e ci stiamo facendo
un Double Whopper glorificando il corpo ricomposto del nostro
patrono; quantunque non sia tornato in vita per punire tutti i falsi
profeti noi brindiamo, cazzo, perché siamo certi di aver fatto un
bel lavoro. Un gran bel lavoro.
Davvero.
523
VITA A SABBIONE E DINTORNI - ANNOTAZIONE (16)
___________________
Il 16 dicembre, Giornata dell’Immedesimazione Bovina Bricocenter18, un cittadino di Castrocozzo si presentò spontaneamente
18 Ogni cittadino è invitato/tenuto a identificarsi con un bovino adulto,
in piena salute, còlto negli attimi immediatamente precedenti al suo abbattimento mediante la scarica di un chiodo o di un proiettile perforante il cranio, o in alternativa mediante sgozzamento in sospensione.
L’immedesimando sarà dotato di pelle bovina e condotto in uno dei
ventuno mattatoi fedelmente riprodotti nelle vie del centro, dove sarà
sottoposto al seguente processo di immedesimazione: a) sarà posto in
una gabbia escrementizia e puzzolente, dove gli verrà applicato un tatuaggio a fuoco (cancellabile); b) verrà stordito mediante un chiodo a
salve scagliato da una sparachiodi di ultima generazione, c) sarà dotato
di occhialini 3D; d) verrà imbracato per un piede a una catena, sollevato
e fatto ondeggiare su un canale di scolo; d) a questo punto si procederà
allo sgozzamento apparente e tridimensionale dell’immedesimando, riprodotto tramite psicofarmaci e tecniche cinematografiche di ultimissima generazione; e) l’intelletto sarà a tal punto suggestionato che
l’immedesimando avrà la sensazione totale di essere stato veramente
sgozzato: comincerà a sentirsi assonnato, vedrà il proprio sangue sgorgare dalla giugulare (si procede per rapidi tagli verticali) e/o dalla carotide e fluire a litri nel canale di scolo; f) la sua coscienza verrà meno, il
cuore continuerà a pulsare, la gamba libera, che fino a qualche attimo
prima si dimenava tragicamente, inizierà a immobilizzarsi, i muscoli si
contrarranno; g) osservando il proprio sangue nel canale di scolo sottostante l’immedesimando noterà sulla destra un carrello sul quale è posto
un affare molto simile alla propria testa. Un momento: si tratta veramente
della testa dell’immedesimando, prima soppesata, poi analizzata e infine
gettata in un vascone dove nella melma e nel sangue denso sembreranno
galleggiare anche parti di piede, di mano e di naso o orecchia; h)
l’immedesimazione terminerà con una siringa contenente un liquido
verdastro e un’iniezione. Il cittadino si rianimerà asciutto, perfettamente
integro, voglioso di farsi una bella bistecca fiorentina. O magari no.
Si utilizzeranno sparachiodi ad aria compressa Brownstone, coltellacci
Finkelmann e occhialini 3D di filiera, reperibili esclusivamente in tutti i
Bricocenter del territorio e naturalmente, durante la giornata, in tutti i
524
al Dipartimento di Nettezza Umana per rilasciare una dichiarazione.
Fu fatto accomodare nell’ufficio dell’Ispettore Doroteo Umbilk, al quale confidò che circa due mesi prima un manipolo di
suoi concittadini aveva scoperto il cadavere di un uomo la cui
identità, nonostante i numerosi sforzi attuati per il riconoscimento, rimase ignota.
Questo tizio, proseguì il cittadino castrocozzese, al momento
del suicidio indossava una calzamaglia arancione.
Quando Umbilk gli chiese perché non avessero immediatamente denunciato il fatto, il cittadino balbettò qualcosa a proposito di una lotteria.
Gli offrirono una birra fresca e una sigaretta. Il castrocozzese la
rifiutò.
Accettò invece un espresso e dichiarò che, per quanto ricordava, il morto stecchito senza nome era identico all’identikit del
Monaco Arancione, diramato in quei giorni su tutti i quotidiani a
seguito della segnalazione di un barista.
Umbilk si accese una sigaretta. Ringraziò il castrocozzese e rimase nel suo ufficio qualche minuto a riflettere. Poi comunicò ai
vertici del Dipartimento quanto aveva appena appreso.
Il Dipartimento Nettezza Umana impiegò numerosi uomini
per estrarre il Monaco Arancione dalla fossa collettiva in cui i castrocozzesi l’avevano seppellito.
Il cadavere fu recuperato dopo quattro giorni di ricerche, durante le quali si estrassero dalla fossa cinquantacinque poveri cristi
mezzi decomposti.
Il barista di Sabbione che aveva fornito lo spunto per
l’identikit, un certo Tristòforo Figliodidio, riconobbe il Monaco
Arancione con una percentuale d’errore definita trascurabile dai
funzionari del Ministero Suicidi & Festività®.
Traumerei si disse molto preoccupato dall’evolversi degli eventi. Confidò all’amico Patrick che la faccenda non lo convinceva
per niente. Anche l’Ispettore Umbilk era molto dubbioso.
presìdi posti nelle principali piazze di Sabbione e dei comuni del Sabbionasso.
525
Tuttavia, in una conferenza stampa, il Commissario Superiore
di Nettezza Umana Jean-Jacques Ricàrd dichiarò che il cadavere
del Monaco Arancione era stato trasferito all’Ufficio competente
per l’avvio delle pratiche di oltraggio e vilipendio. Disse che non
avevano idea del vero nome del Monaco, ma aggiunse che con la
cattura del capo riconosciuto nel giro di qualche mese l’intera setta
sarebbe stata estirpata.
I giornalisti scrissero che la pratica del suicidio abusivo era stata
debellata per sempre dal cuore della città.
Nei tre giorni successivi si verificarono undici casi di suicidio
abusivo. I morti indossavano tutti una calzamaglia arancione.
Gli ispettori Doroteo Umbilk, Sigfrid Traumerei e Claudio
Kess furono sottoposti a turni massacranti per riassettare le scene
dei suicidi.
Il Gerarca, in un discorso tenuto dal balcone del Palazzo Gerarcale, affermò che si doveva trattare delle ultime, patetiche, rappresaglie prima della fine. Senza il leader, disse il Gerarca, qualsiasi
gruppo è destinato a sfaldarsi; e vi ricordo che il leader di queste
mezzeseghe è stato sbranato e digerito da dodici maiali proprio
ieri, in diretta tv.
Qualche giorno dopo, poco prima di Natale, un messaggio video inviato al Dipartimento Nettezza Umana e trasmesso su internet rivelò a tutti che il Monaco Arancione, ben lungi
dall’essersi ammazzato, era vivo, tormentato e latitante nelle campagne sabbionasse, “pronto a perpetrare la propria crociata a costo di vivere cent’anni”.
Per quanto riguarda il suicida abusivo senza nome, in un primo momento le indagini condussero a ritenere che potesse trattarsi di un vagabondo di Frinco che il Monaco Arancione convinse ad ammazzarsi promettendogli cure amorevoli per il suo cane,
un setter irlandese di quattro anni che ebbe effettivamente una
lunga e prosperosa vita. Tuttavia, in seguito ad alcune segnalazioni e denunce di persone scomparse, si scoprì che il poveraccio era
un giornalista di Sabbione, tale Stanislao Rorìdo, trentanove anni,
526
la cui somiglianza con l’identikit del Monaco Arancione era davvero incredibile.
527
SOPRACCIGLIA
Gli studi indicano che la distanza tra le mie sopracciglia, in
questa società, è problematica.
Il mio amico Tristòforo Figliodidio sostiene che sarebbero bastati alcuni millimetri in più e la mia vita sarebbe cambiata in maniera inesorabile e vantaggiosa. Cionondimeno, dice il mio amico
Tristòforo Figliodidio, la natura percorre strade che l’intelligenza
non conosce (sta sicuramente citando qualcuno, ma non so chi), e
nessuno sarà mai in grado di aumentare la distanza tra le mie sopracciglia.
Buon dio, quanto è ingenuo.
Ammetto che i miei metodi di stima fisiognomica siano un
tantino casalinghi, ma ricordate Lombroso ai primi tempi, quando
era ancora studente all’Università di Pavia; ricordate Benedict
Lust, che si servì di una semplice lente d’ingrandimento per esaminare le cellule umane.
Io mi sono servito di un righello Maped da trenta centimetri;
d’accordo, non sarà il massimo dell’accuratezza, ma date un righello Maped da trenta centimetri a un uomo dotato d’ingegno e
tenacia, e quell’uomo vi misurerà il mondo.
Insomma gli studi sulle mie sopracciglia hanno rivelato che
soffro di una spaventosa malattia mentale: la frivolezza.
Il mio sopracciglio gibboso inoltre palesa che non sono capace
di armare un qualsiasi fucile, di preoccuparmi per una crisi economica o per una violazione dei diritti umani. Se ciò non bastasse,
una ptosi della palpebra inferiore mostrava fin dalla prima infanzia che non avrei mai potuto essere un poeta. Questo e un certo
influsso epato-biliare che predispone all’impulsività e alla leggerezza di mente.
528
I poeti non mi sono mai stati simpatici. Ricordo le rare volte
che li ho incrociati, sprofondati su comode sedie con le gambe
accavallate, corazzati di un turbamento laconico.
Quanto avrei desiderato sedermi nel dehor di un caffè per
scrivere poesie, fumare, mangiarmi le unghie. Invece le unghie
sono il primo posto dove la gente guarda, e non è facile essere
grevi e pensierosi con le unghie curate.
Così ho deciso di riunire un gruppetto di persone – gesù, mi
verrebbe da dire una vera e propria banda – la cui distanza tra le
sopracciglia era ritenuta problematica. Si trattava di un bel gruppetto, anche se poi uno dei membri ha preso il cancro e un altro è
finito impiccato al lampadario di casa.
Alla fine sono rimasto solo io, un’individualità malata
d’inconsistenza.
Forse è per questo che una serie di combinazioni mi ha fatto
incontrare te, affinché potessimo dare il nostro contributo alla
conservazione della specie; imbastire una creatura, insomma, la
cui distanza tra le sopracciglia fosse soltanto simile (non: identica) a
quella del padre, del suo papà; in fondo pochi millimetri possono
rappresentare la differenza tra un figlio iscritto ad Amnesty International e uno la cui sola passione sono due caviglie ben tornite.
Vedi queste sopracciglia? La loro distanza ha firmato la mia
condanna alla riprovazione pubblica. Mi consolo ragionando sul
fatto che nessuno può scegliere la propria malattia, tantomeno io;
la natura sceglie, anzi, come si dice, seleziona, al posto nostro.
A me non resta che vivere in una stanza tappezzata con ritagli
di giornale, cartoline, figurine, fumetti. L’albo originale numero
sette di Tex (Il patto di sangue, gen. 1960, copertina di Galeppini)
ha una lieve increspatura sul bordo superiore, per il resto è ben
conservato, e non intendo privarmene.
D’altra parte, quando mi domandasti la ragione per cui trascorressi tanto tempo a consultare fumetti, figurine, libri di fanta529
scienza, non avrei mai creduto fosse tua intenzione contattare
uno squallido rivenditore di fumetti usati. Per mettere da parte
qualche soldo, dicesti. Come se il denaro potesse surrogare una
prima edizione intonsa di H. G. Wells.
Il nostro tutore coniugale ci consigliò di confermarci ogni singolo giorno la decisione di trascorrere una vita insieme, legati dal
sacro vincolo del matrimonio. La volta che ti chiesi di confermarmi la tua decisione e mi rispondesti di no, non ricordo il giorno preciso (ma era certamente un giorno terribile, privo di giustezza, di quelli in cui il paesaggio si camuffa e mulinelli di insensibilità si levano al cielo come esplosi da cannoni sparaneve; la
nostra ubicazione era un bar del centro storico, e tu dicesti: te la
caverai), non ti nascondo che me la cavai piuttosto male; eppure
avrei dovuto sospettarlo, se non altro per via della particolare
conformazione del tuo naso, il tuo bel nasino piegato verso il basso nella parte inferiore, con punta ipertrofica e alette tese: sapevi
che è indice di un grande potenziale emotivo, di una forte suscettibilità e di una predisposizione a compromettere rapporti umani
e relazioni? Io lo sapevo, ma avrei certo preferito non assodare
mai l’attendibilità dei miei studi.
Il ritaglio di giornale cui sono più affezionato è quello riguardante la morte della Principessa Grace Kelly, datato quindici settembre millenovecentottantadue. Ma c’era un tepore, quel giorno,
che un uomo può ricordare solo a patto di un enorme sforzo
d’immaginazione. Utilizzai quel ritaglio come ammiraglia della
mia flotta di carta, e ancora oggi continuo a smussarne gli angoli
affinché assuma perfettamente la foggia di una immensa portaerei. Ho altri ritagli, che utilizzo da caccia torpedinieri. I più piccoli
rappresentano i soldati. La guerra di carta è comoda ed educativa,
e i soldati nemici prendono fuoco che è una meraviglia.
Il tutore coniugale aveva previsto la possibilità che dopo millecentotredici giorni tu non confermassi la decisione presa in una
chiesa ben illuminata, colma di persone che non m’interessavano
e fiori di campo? Io indossavo un mezzo tight in tinta coi tuoi
530
occhi e avevo le unghie curate. Tu portavi un vestito semplice, e
piangesti un poco. Gli invitati non se ne accorsero ma io sì, poiché il mio posto era per così dire privilegiato; la mia posizione mi
permetteva di vedere il tuo orecchio destro, il tuo bellissimo
orecchio destro con le sue caratteristiche irregolarità dell’antielice,
ciò che ti distingueva per tenacia, voglia di emergere, egocentrismo.
Non ricordo di preciso cosa ci condusse nello studio di un tutore coniugale, ma qualunque cosa fosse aveva certamente a che
fare con l’estensione del tuo collo: indica insicurezza e desiderio
di essere ascoltati da qualcuno.
Fu lui, il nostro tutore dalla cravatta gialla e dal sapore di tabacco da pipa, a farci valutare l’idea di diventare genitori. Così,
all’improvviso, dopo nemmeno novecentocinquanta giorni di matrimonio.
È vero, qualche tempo dopo ti dissi che desideravo ardentemente non essere padre, ma aggiunsi anche che avrei potuto diventare uno zio fantastico, se solo me ne avessi dato il tempo. Fu
lo stesso giorno in cui ti confidai che la tua lingua stretta sprigionava energia yang, mentre la mia lingua larga emanava energia yin:
temo di aver confuso lato della collina.
Ma guardalo, non è meraviglioso nostro nipote? Sembra nostro, ma non è nostro. Ha il privilegio di non esserlo. Le sue grandi
orecchie indicano coraggio. E sto parlando di un bambino di tre
anni. Farà grandi cose, il nostro nipotino dalle grandi orecchie e
dalle sopracciglia caratteristicamente distanziate. Vedi come sono
diritte? Indicano forte realismo. Il mondo ha bisogno di realisti,
non di scribacchini.
Il secondo ritaglio di giornale cui sono più affezionato descrive
la vicenda di quattro studenti incarcerati perché sorpresi a far linguacce (vedi fotografia) alle spalle del Gerarca, durante il comizio
d’insediamento. La loro lingua, rossa e sana, mi è sempre sembrata la cosa più semplice e bella che il nostro mondo avesse prodotto negli ultimi mille anni.
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I due maschi, leggo nell’articolo, se la videro mozzata. Occhio
per occhio, lingua per lingua.
Viceversa gli aguzzini si convinsero che per i propri scopi pedagogici le lingue delle femmine sarebbero state molto più utili
attaccate al loro posto, e lì le lasciarono.
Tra l’altro quel ritaglio mi fa venire in mente quando andammo al cinema (che film davano? Non ricordo) e tu vomitasti la
cena in grembo a una donna incinta. Dovetti spiegarti la ragione
per cui gli aguzzini preferirono non mozzare le lingue delle studentesse. Sei sempre stata così maledettamente ingenua e pura.
Perlomeno fino al giorno in cui decidesti di modificare il tuo naso.
L’albo numero uno di Tex (La mano rossa, ott. 1958, copertina di Galeppini), che tu mi consigliasti di vendere per racimolare i
soldi necessari all’acquisto di un completo grigio con cravatta azzurra, presenta trascurabili fioriture e un piccolo segno di tarlo
limitato al margine esterno del titolo, ciononostante è prezioso
quanto una guerra nel golfo, o uno tsunami nel mar del Giappone. E poi non ho mai avuto la reale necessità di un completo grigio, tantomeno se accostato con una cravatta azzurra. La mia
vecchia giacca ha le toppe e mi piace moltissimo, anche se ti è
sempre piaciuto trovare qualcosa per cui biasimarmi.
Ricordo quando biasimasti la scelta di iscrivermi a un Corso di
Esegesi Nasale (Radice, Setto e Dorso), giacché non riuscivi a
comprenderne l’utilità. Eravamo in una stanza bianca al terzo
piano di una clinica di lusso pagata con soldi provenienti dal conto dei tuoi genitori, e ti lamentasti del fatto che i tuoi seni, quei
seni delicati che amavo tanto, fossero sottodimensionati rispetto
alle misure standard contemporanee. E quando ti domandai sorpreso se per i seni esistessero misure standard contemporanee tu
ti rabbuiasti e mi cacciasti dalla stanza bianca, lasciandomi solo
sui marciapiedi di una città che non conoscevo, una città distante
e forestiera.
E sebbene sapessi che un mento quadrato e volitivo indica
astuzia, intelligenza, aggressività, vitalità, autorità, decisione, con532
tinuai a vagare per le strade di quella città enorme, frutto del lavoro di uomini senza dubbio enormi, rimuginando sull’impossibilità
di sostituire il mio mediocre mento curvo, o quantomeno
sull’impossibilità economica di farlo.
Poi decisi di bere un caffè e mangiarmi le unghie, ma me ne
pentii subito.
Fu quello il momento in cui ti telefonai, chiedendoti ancora
conforto nella decisione di iscrivermi al Corso Nasale per scoprire i segreti reconditi del naso umano, e tu riattaccasti scocciata.
Eppure, lo sapevi che il dorso nasale è lo specchio della personalità? Esso viene così suddiviso:
terzo prossimale = conscio
terzo mediale
= subconscio
terzo distale
= tubo digerente, senso del piacere
alette nasali
= vie respiratorie
Il tuo desiderio di migliorarti il naso è encomiabile, dissi. Ma la
nuova struttura del tuo naso, il tuo nuovo setto nasale rettilineo
con columella simmetrica che non riconosco più, ha sensibilmente modificato la tua personalità, disponendola all’insoddisfazione:
non è mai stato da te lamentarti per la cena. E il filetto alla Strogoff mi era sembrato squisito, cotto al punto giusto. Sono certo
che con il tuo vecchio naso non te ne saresti mai lamentata.
Provai a convincerti anche se ormai era tardi, e subito dopo
iniziai a studiare la relazione tra naso e religione, dotandomi tra
l’altro di un utilissimo rinoigrometro. Trascorsi quattro mesi in un
monastero, tra persone ospitali dotate di nasi disorganici e affette
da rinorrea. Ma cucinavano meravigliosamente, soprattutto selvaggina di sottobanco rimediata da cacciatori occasionali che donavano lepri e fagiani per alleggerirsi la coscienza.
Vedi il mio sopracciglio sinistro? Indica che sono un carnivoro.
533
Al monastero imparai tra l’altro che i rimedi omeopatici più
indicati da consigliare a soggetti con naso arrossato sono:
Bryonia, Carbo animalis/vegetabilis, Natrium muriaticum, Jodum, Chelidonium, Lycopodium.
Inoltre mi convinsi che non esiste una relazione certa tra naso
e vocazione religiosa.
Solo soletto nella stanza asettica di un centro ricerche mediche
con una lampada comperata il giorno del nostro secondo anniversario mi guardo allo specchio cercando di comprendere meglio
il significato del mio volto.
Vedi? La distanza tra le mie sopracciglia mi impedisce
d’occuparmi di guerre e di bambini africani moribondi, tuttavia
mi permette di scrivere un periodo piuttosto lungo, rotondo, il
cui scopo è precisamente quello che dovrebbe proporsi un periodo piuttosto lungo e rotondo quando a scriverlo è un uomo la cui
unica brama è alleviare la propria incurabile malattia: chiedere aiuto a qualcuno.
534
IL NARRATORE ONNISCIENTE MOLTO GIÙ DI CORDA
Martedì.
Sono stato a casa sua e il suo domestico mi ha aperto la porta
prima che potessi suonare il campanello.
Lui mi ha accolto con il suo caratteristico drink in mano, la sigaretta accesa e in sottofondo una qualche sinfonia di Beethoven.
La sua abitazione è sontuosa: divani settecenteschi e dipinti a
olio, candelabri d’argento e arazzi raffiguranti pale d’altare o uomini colti nell’atto del combattimento.
Un’ala è dedicata alla contemporaneità, con una copia originale
di Nighthawks di Hopper sulla parete a Nord, circondata da figure minori dell’Iliade e dell’Odissea.
Eppure il Narratore Onnisciente è dannatamente giù di corda.
Mi ci vorrebbe qualcosa, ha detto, qualcosa di non so che.
“Qualcosa?”
“Sì, qualcosa”.
Scrutava l’interno del suo bicchiere agitando l’intruglio rossiccio
che risiedeva all’interno.
La sua situazione è semplice e terribile.
Egli sa tutto ciò che accade e che accadrà, conosce nei dettagli
i pensieri dei suoi interlocutori, sa come agiranno e perché, sa che
ogni abitante della sua città è in attesa che succeda qualcosa.
Ma lui ha lo sguardo stanco.
Forse si annoia.
Ciononostante prova a mettere i suoi ospiti a proprio agio, con
domande che qualsiasi uomo non onnisciente potrebbe fare.
“Bene, Gim, che hai fatto di bello, qualcosa?”.
“Niente di che”.
“Tua figlia studia sempre francese?”.
“Francese e tedesco. Ma io credo sia più portata per lo spagnolo”.
535
“Non credo che lo spagnolo faccia per lei”.
“Sì, forse hai ragione. A proposito, cosa stai bevendo?”.
“Che maleducato, è succo di pomodoro con vodka e peperoncino, ne vuoi un bicchiere?”.
Ecc.
Mercoledì.
Sono nell’immensa cucina, dove mi servono la colazione. Il
Narratore Onnisciente arriva con passo tranquillo, avvolto da una
voluminosa vestaglia. Calza babbucce arabe.
“Vorresti che succedesse qualcosa, vero?” Domanda.
Sa sempre quello che ti frulla per il cervello, e questa a dire il
vero è la cosa più fastidiosa di tutte. In qualche modo sa già come
andrà a finire.
Si siede sulla sua poltrona, attacca un qualche disco. Sa bene quale disco gradirei ascoltare. Se per caso il disco che suonerà
non sarà di mio gradimento, allora saprò che lui l’avrà fatto apposta.
Attacca il Requiem in Do minore del Cherubini, e per qualche
motivo mi rendo conto che lo detesto. Lui lo sapeva.
Forse non gli sono simpatico.
“Speravo che venendo qui potesse succedere qualcosa”, dico.
Lui mi guarda un po’ di traverso, si versa un bicchierino.
È spaventosamente giù di corda.
Rimaniamo silenziosi ad ascoltare il Requiem in Do minore
nel suo studio.
So che non è per nulla felice.
“Vuoi che accenda la radio?”, mi domanda.
Non so cosa rispondere.
Oggi è mercoledì e il mercoledì solitamente è un buon giorno.
Ma non succede niente.
Il Narratore Onnisciente si alza, cammina in direzione della
radio, fa per accenderla, poi decide di no.
“Non è facile tirare avanti quando tutti si aspettano da te una
qualche svolta”, dice. “La gente vorrebbe svolte in continuazione,
colpi di scena, come si dice, un coup de théatre”.
Lo guardo con attenzione.
536
“Ma non è così semplice”, dice. “Spesso le cose vanno avanti
così, strisciano semplicemente, si strascicano”.
Decido di prendere in mano la situazione.
“Forse potremmo … uscire di casa”, suggerisco.
Lui mi guarda, poi chiama il suo domestico.
“Prepara la macchina”, dice.
“La Bentley bordeaux?”
“No, oggi mi sento più da Limousine nera”.
Durante il tragitto in automobile non dice niente. Si limita ad
aprire un vano della Limousine. Si prepara un gin tonic.
“Ne vuoi un sorso?”, domanda.
“Forse dovresti contenerti”, consiglio.
“Una volta non era necessario che smuovessi il culo dalla mia
scrivania”, dice. “Bastava che me ne stessi seduto lì, nel mio studio, e le cose succedevano”.
Non me la sento di dissentire.
Siamo in un supermercato.
Il Narratore Onnisciente scruta i volti delle persone. Le persone scrutano il volto del Narratore Onnisciente. Sono tutti appesi
a un filo. Stanno tutti aspettando qualcosa.
Lui si avvicina al comparto surgelati e mette una pizza nel carrello.
“Questa volta ti sei ricordato la tessera dei punti?”, domanda
al suo domestico.
Il domestico annuisce.
“Bene”, dice il Narratore Onnisciente.
Alla cassa la cassiera lo guarda implorante.
Il Narratore Onnisciente capisce la situazione al volo.
“Cosa vorresti che ti succedesse?”, le domanda con tono
sommesso.
La cassiera saprebbe molto bene cosa rispondere. Tuttavia non
apre bocca. Sorride professionalmente, fa il suo lavoro.
Il Narratore Onnisciente la incalza: “Chi sei? Qual è la tua storia? Cosa ti succederà quando uscirai da questo supermercato e
camminerai per le strade di questa città?”.
537
La cassiera passa la pizza surgelata sul lettore.
“Sono quattro e cinquanta”, dice.
“Oddio, come mi sono ridotto”, mormora il Narratore Onnisciente. “Domandare agli altri di fare il lavoro per me”.
“Forse ci sono altri modi”, dico io. “Dopotutto un supermercato non mi pare così, come dire, stimolante”.
Il Narratore Onnisciente ha un lampo di lucidità, quasi come
se gli fosse affiorato un barlume d’idea.
“Saliamo in auto”, dice.
“Dove andiamo?”, domanda il domestico alla guida.
“Svolta sempre a destra”, dice.
La città è un po’ morta.
“Siamo d’estate”, dice il Narratore Onnisciente. “Un normalissimo mercoledì d’estate”.
“In autunno succedono più cose?”, domando io.
“Può darsi”, dice lui.
“Continuo a svoltare a destra?”, domanda il domestico alla
guida.
“È che non so di preciso dove andare”, dice il Narratore Onnisciente. “È una situazione imbarazzante”.
Ci fermiamo in un bar lungo la strada.
“Questo è l’unico posto in cui mi vada ancora di bere qualcosa”, dice il Narratore Onnisciente.
Beviamo un drink senza dire niente.
“E adesso?”, domanda il Narratore Onnisciente.
“Beh”, suggerisco io, “per esempio potremmo andare alla centrale di polizia. C’è sempre qualcosa da far succedere in una centrale di polizia”.
“Torniamo a casa”, dice lui. “La centrale di polizia mi fa venire
in mente quel povero ragazzo”.
“Quale ragazzo”, chiedo io.
Lui non risponde. Sta pensando ad altro.
Giovedì.
Sul suo scrittoio, in evidenza, c’è un biglietto aereo per le Hawaii poggiato sopra un libro di Conrad.
538
Il Narratore Onnisciente sembra tentennare, quasi come se
fosse ignaro di qualcosa. Afferra una statuina e la scaraventa con
forza contro il bovindo.
Sono intimorito. Che sia io la causa della sua agitazione?
Anche il giovedì solitamente è un buon giorno per far succedere qualcosa.
Eppure quel qualcosa ci sfugge.
Suona il telefono. Il Narratore Onnisciente risponde. Per un
momento sono convinto che qualcosa sia successo: un omicidio,
un suicidio, qualcosa. Un tempo ogni volta che squillava il telefono
c’era sempre un buon motivo.
Invece si tratta solo di un sondaggio. Il Narratore Onnisciente
ne era a conoscenza, e infatti risponde asetticamente.
Ha perso l’entusiasmo.
“Bisogna sempre trovare un modo per fare avanzare la storia”,
dice. Tutte le storie.
Ingoia un’aspirina.
“Mica facile. Non riesco a concentrarmi, è una situazione sgradevole. E là fuori le persone tirano avanti facendo semplicemente
cose da persone. Bevono, mangiano, lavorano, fanno l’amore.
Vorrebbero fare di più, lo capisco. Ma io credo di aver perso il
tocco”.
Non l’avevo mai visto così giù di corda.
Venerdì.
Lo incontro nel suo studio.
“Nel complesso”, dice, “la giornata di ieri è stata un vero fiasco”.
Non so dargli torto.
“C’è qualche speranza che oggi sia migliore?”, domando.
“Ne dubito”, risponde lui.
È irrequieto. Armeggia con vecchi ritagli di giornale, osserva i
souvenir sul suo scrittoio.
“Quel tipo che sognava di entrare in Polizia, ce l’ha poi fatta?”,
domando.
539
“Bastava poco, ci era arrivato davvero vicino; si era anche
provato il cappello, l’uniforme gli calzava a pennello. Ma no, non
ce l’ha fatta”, dice lui.
Ha un espressione malinconica.
“Vedi, questo è il tuo problema”, dico io.
“Non aveva i requisiti, ho fatto tutto ciò che era in mio potere”, dice lui.
“Avresti potuto fare di più”, dico io.
“Forse avrei potuto”, dice lui, “ma non sarebbe stato realistico”.
Il Narratore Onnisciente si prepara il tradizionale succo di
pomodoro con vodka e peperoncino.
“Ho preso una decisione”, dice sommessamente.
Non lo incontro più per il resto del giorno.
Sabato.
Scendo in cucina e faccio colazione. Cerco il Narratore Onnisciente ma lui non c’è.
Che sia partito per le Hawaii? Forse è la cosa migliore per entrambi.
Ma se lo merita davvero?
Leggo il biglietto che ha lasciato sul suo scrittoio:
“Osservo i cittadini in televisione, dal bovindo del mio studio,
li ascolto alla radio.
Avrei voluto dare una vita migliore a queste persone.
La commessa del supermercato voleva lottare per ottenere un
mondo in cui gli animali non vengono barbaramente trucidati per
farne pellicce, desiderava un posto di lavoro stabile e appagante,
pregava ogni sera per avere un figlio.
Per quale ragione non le ho dato quello che sognava? Che cosa
mi sarebbe costato? Lo so, non sarebbe stato credibile, ma che cosa
mi sarebbe costato? Perché non le ho lasciato almeno un accenno di
illusione che tutto ciò fosse possibile? Il mio ego mi opprime, e
opprime queste brave persone. Il male non trionfa sempre, o non
trionfa sempre del tutto.
Avrei voluto dimostrare che dopotutto la vita è davvero meravigliosa.
540
Invece tutto ciò che sono riuscito a pensare per loro è un
mondo distorto nel quale vivere.
Verosimilmente sono io a non funzionare. È la mia esistenza a
essere distorta.
La gente vuole credere di poter contare sulla possibilità che il
mondo possa subire una perturbazione benevola, di tanto in tanto. Magari impercettibile, ma vera.
Questa gente pretende uno scompiglio nell’impossibilità delle
cose, uno sconquasso che le renda possibili.
Io non sono stato in grado di donarglielo.
Ma posso ancora fare qualcosa. Ci deve essere qualcosa che
possa fare, instillare una speranza, illuminare un pertugio, inscrivere qualcosa di indelebile sulle pietre dei loro cuori.
Sì.
Qualcosa posso fare. Il groviglio delle loro vite è inestricabile,
ma qualcuno che provi a sbrogliarlo c’è sempre, da qualche parte.
Qualcuno che riesca a trovare una speranza laddove la speranza non esiste, qualcuno che superi il controllo della propria immutabile esistenza e si ribelli a ciò che era stato predisposto per
lui.
Qualcuno c’è, ci deve essere. Potrei provare a domandare ai
mie follower di Twitter, agli amici di Facebook.
Magari loro…”.
Ora so che è partito. Lui ci ha lasciati.
E io, cosa ci faccio ancora qui? Sono io il narratore, adesso?
La mia vita striscia semplicemente. Faccio l’amore come tutti,
fumo una sigaretta come tutti, sorrido come tutti; ci vorrebbero
delle svolte ma le svolte non ci sono; servirebbe qualcuno che facesse accadere qualcosa di bello, qualcuno che conoscesse le nostre emozioni e i nostri sentimenti, qualcuno che scrivesse le storie di noi tutti.
Cionondimeno la gente sfugge, i narratori si infiacchiscono e si
annoiano, giacché scrivere storie è tremendamente difficile, e
scriverne gli happy end ancora di più.
541
INDICE DELLE GIORNATE
DEL CALENDARIO RICREATIVO PROMOZIONALE
CITATE NEL LIBRO
9 Giugno: Giornata della Vocazione al Precipizio Nike
Sappiamo quanto i cittadini abbiano a cuore l’incoativo chinare, di cosa che abbia in
animo il proprio crollo, e l’abbia caro, e a quello intimamente inchini e punti. In tal senso,
il suicidio® per precipitazione è una delle modalità d’espletazione di clausola 99 più amate
dai suicidandi® sabbionassi. Durante la Giornata della Vocazione al Precipizio Nike tutti i
suicidandi® sono invitati/tenuti ad espletare la propria clausola 99 tramite precipitazione,
rigorosamente indossando scarpe Nike – il Censimento Suicidi ha verificato che nel
novantadue percento dei casi i suicidandi per precipitazione hanno l’abitudine di togliersi
le scarpe prima di precipitare. Ciò è profondamente ingiusto nei riguardi del mercato delle
calzature ed è veramente pericoloso: si sono registrati infatti numerosi casi di infortunio
(tumefazioni, escoriazioni, slogature) che hanno inficiato l’espletazione della clausola 99,
in seguito a scivolate – dovute allo scarso attrito del piede nudo su parapetti, ringhiere,
coppi, ecc.; in particolare si renderanno conto, negli attimi precedenti alla dipartita, della
presa delle nuove suole Air Zoom sul nudo terreno, sui coppi dei tetti, sulle misere
balaustrate, eccetera. Tutti i cittadini che non debbono contrarre suicidio sono invitati a
collaudare l’esperienza della precipitazione indossando scarpe Nike nei dodici luoghi
preposti al test di precipitazione: si tratta di otto palazzi, due ponti, un traliccio elettrico e
una torre romanica, nei quali ci si potrà lanciare nel vuoto atterrando su comodi materassi
gonfiabili.
Per molti anni la denominazione fu Giornata della Vocazione al Precipizio Otis, almeno fino a
quando la nota industria di ascensori decise di sponsorizzare la Giornata dell’Amore
Intellettuale di Dio, che cade il 21 giugno.
23 luglio: Giornata dell’Atletismo Assoluto Palloncino Saziante Dimagenina®
12 giugno: Giornata della Paternità-Garantita-Al-Novantaquattro-Percento Spermamax™
12 agosto: Giornata della Geometria Sessuale Procreativa BoingBoing Gadgets
7 luglio: Giornata dell’Amicizia Quadratica Bridgestone
11 settembre: Giornata degli Interrogativi Sibillini Senza Risposta Apparente Toblerone Kraft
12 settembre: Giornata della Transustanziazione Sportiva Animale Playmobil
18 luglio: Giornata della Conversione delle Unità di Misura Texas Instruments
542
2 giugno: Giornata del Cionondimeno Isola del Pneumatico
7 giugno: Giornata della Ginnastica Correttiva Ikea
Durante le celebrazioni per la Giornata della Ginnastica Correttiva Ikea (7 giugno) i
cittadini sono invitati/tenuti a dedicare tre ore della propria giornata all’attività fisica (già
peraltro abbondantemente prevista dalla Legge Gerarcale sull’Attività Fisica, che impone
un’ora di ginnastica ogni week-end) e agli esercizi ginnici all’aria aperta. Essa è correttiva
non solo nel senso di posturale, ma soprattutto se la intendiamo in senso morale. Mens
sana in corpore sano non è soltanto una frasetta buttata lì per caso. O pensavate che i
latini buttassero le frasette lì per caso? La ginnastica è fondamentale per raggiungere una
matura consapevolezza del proprio Da Sein, inoltre studi di rilevanza internazionale hanno
confermato che l’esercizio ginnico è un ottimo correttore dell’immoralità nonché un
formatore della coscienza.
Per l’occasione, Ikea mette a disposizione dei cittadini alcuni prodotti pensati specificamente per l’esercizio atletico, in primis i rivoluzionari quadri svedesi per cui l’azienda è
divenuta giustamente famosa.
21 giugno: Giornata degli istinti Un Po’ Bestiali Sperauova Maino R009010CC.
Stralcio dal bugiardino ufficiale: “Come prima cosa, i cittadini compiano un’attenta analisi
ermeneutica dell’espressione “Un Po'". Un po’ significa ‘abbastanza’, ‘non del tutto’, ‘leggermente’, ‘appena appena’; se intendevate quindi dar sfogo a ogni sorta di turpitudine questa non è
la giornata giusta”. [...] “Riuscite a pensare qualcosa di meglio che sperimentare il piacere
animale della nascita, dell’incubazione, della covatura, scevro di ogni implicazione
psicologica, psicotica, archetipica, culturale? Auscultare il battito bruto di una nuova
creatura nelle profondità amniotiche del suo guscio insieme a vostra moglie/marito, alla
vostra compagna/compagno, alla donna o all’uomo della vostra vita, si rivelerà
un’esperienza istintuale e indimenticabile; per riuscire a farlo in ogni stand Maino sarà a
vostra disposizione il nuovo sperauova R009010CC”. [...] “Sperauova Maino R009010CC,
indispensabile e di primaria importanza per una corretta vigilanza dello sviluppo
dell’embrione lungo tutto il ciclo d’incubazione! Ideale inoltre per osservare con attenzione vene d’embrioni e anche per tutte le uova degli uccelli esotici! Le uova degli uccelli esotici
sono messe a disposizione da Pet Story il vostro negozio di animali esotici (specializzato in ragni, serpenti,
uccelli).
Per una corretta celebrazione della giornata troverete il bugiardino completo in edicola,
all’interno del Calendario Ricreativo Promozionale, o su internet, all’indirizzo del Ministero Suicidi & Festività®.
27 novembre: Giornata dell’Onanismo Disciplinato Secondo Canoni Morali Scottex® (Solo Maschile™)
7 Gennaio: Giornata della Sodomia Senza Peccato Lubricoll
Una commissione qualificata, dopo aver analizzato la struttura etico-teologica della
sodomia, ha redatto uno studio in centocinquanta pagine nel quale si risolve l’eterno
dilemma del peccato di sodomia; oggi è possibile una sodomia senza peccato, nella quale
543
l’unione carnale tra maschi celebra al contempo l’unione con l’Altissimo. Si invita/si
obbliga la popolazione omosessuale a sperimentare il privilegio della sodomia senza
peccato e si invita la popolazione eterosessuale a collaudare una pratica sessuale spesso
disprezzata o, quantomeno, sottovalutata. Durante la giornata saranno a disposizione dei
cittadini numerosi presidi Lubricoll, nei quali sarà distribuito un campione omaggio degli
ultimi ritrovati Lubricoll nel campo dei lubrificanti intimi a base acquosa, oleosa o
siliconica. In particolare gli specialisti della Lubricoll Inc. consigliano di testare il nuovissimo Key Gel Tipo G, il quale, applicato sul glande e/o sull’ano, elimina completamente la
sensazione di dolore causata dalla frizione – tra l’altro tale lubrificante può risultare utile
anche nella Giornata della Masturbazione Ossessiva Maxim, fissata per il 27 novembre.
Di lati positivi, nella Sodomia Senza Peccato, ce n’è a bizzeffe, e i cittadini non faticheranno certo a scovarli di propria iniziativa.
29 giugno: Giornata delle Esperienze Superflue IPhone 4G
8 aprile: Giornata Wow Experience Oral-B OxyJet 3000™
Durante questa meravigliosa giornata, i cittadini sono invitati/tenuti a provare
un’autentica esperienza da restare a bocca aperta.
2 luglio: Giornata dell’Autoerotismo Femminile di Massa Lady Chatterley s.p.a. (Solo Femminile™)
3 luglio: Giornata della Mortificazione Individuale & Collettiva promossa dal Convento dei Carmelitani
Scalzi.
4 luglio: Giornata dell’Emancipazione dall’Imperialismo Americano Abercrombie & Fitch.
Durante questa giornata sarete invitati/tenuti a saggiare la libertà. Sarete liberi di non
mangiare hamburger, pretzel, schifose fette di toast imburrate. Sarete liberi di non
guardare film prodotti a Hollywood. Potrete prendere a calci, deturpare con vernice spray
e incendiare le numerose riproduzioni della Statua della Libertà e del Campidoglio (che
per l’occasione saranno esposte al pubblico ludibrio nelle principali piazze di Sabbione).
Potrete schiaffeggiare e violentare le modelle volontarie raffiguranti Betsy Ross (sono dei
bei mammiferi, tutte fotomodelle offerte dall’Agenzia Elite Model Angels); non sottovalutate la gioia inebriante insita nella violenza sua una patriota americana. Sarete liberi di non
acquistare armi automatiche, liberi di non testimoniare liberamente la vostra religione,
liberi di inneggiare a Sacco e Vanzetti, liberi di non dover fingere di scandalizzarvi per un
cunnilinguus, liberi di prendere a calci gli ebrei invece di doverli accogliere a casa vostra.
Insomma, sarete liberi, liberi, liberi! Ma mentre lo sarete – liberi – dovrete indossare tshirt Abercrombie & Fitch, scarpe Abercrombie & Fitch, pantaloni Abercrombie & Fitch,
calze Abercrombie & Fitch, cappelli Abercrombie & Fitch, mutande Abercrombie &
Fitch, pullover Abercrombie & Fitch.
Sarete liberi di scatarrare sulla bandiera a stelle e strisce indossando una bandana Abercrombie & Fitch!
5 luglio: Giornata dello Svantaggio Esistenziale Ex Disabilità Glen Grant
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6 luglio: Giornata dell’Etica Dimostrata Con Metodo Topografico Mediaworld
8 luglio: Giornata dell’Equilibrio Emozionale Stabile Power Balance.
Intuitivamente un punto di equilibrio stabile è un punto che non risente delle piccole
perturbazioni. Il Nirvana buddista, ad esempio, mira a rinchiudere l’essenza spirituale
umana, l’esprit de finesse, in una corazza atarassica, capace di ovviare interamente alle
petit pertubations provenienti dall’esterno; se ci si sposta poco da un punto stabile il
sistema continuerà a rimanere anche in futuro nelle vicinanze di quel punto. L’esempio
più semplice è quello di un uomo in meditazione. Se piccole perturbazioni intervengono a
spostare il suo punto focale d’equilibrio, la sua essenza spirituale potrà subire oscillazioni
ma la sua distanza dal punto d’equilibrio non cambia. Viceversa un punto di equilibrio
instabile è tale per cui basta una perturbazione arbitrariamente piccola dall’equilibrio per
far allontanare significativamente il sistema dalla posizione iniziale.
Un esempio è un uomo gettato nel mondo, come una pallina disposta sulla cima di una
collina
Dove x è l’uomo.
In questa Giornata i cittadini saranno chiamati a meditare complessivamente otto ore
indossando il fantastico bracciale Power Balance.
20 agosto: Giornata dell’Affermazione della Virilità Red Bull
16 dicembre: Giornata dell’Immedesimazione Bovina Bricocenter
13 ottobre: Giornata della Falloforia Fecondativa Art Attack
Ogni nucleo famigliare è invitato/tenuto, previa costruzione di un Enorme Fallo Priapesco – cioè non a riposo – (si consiglia di iniziare i preparativi almeno due settimane prima),
a trasportare in processione (al modo degli antichi riti funebri iscariotici e della passeggiata settimanale del Gerarca) il proprio lavoro lungo un tragitto che deve necessariamente
snodarsi per non meno di cinque virgola sette chilometri. Istruzioni per la costruzione
dell’Enorme Fallo Priapesco: il pene o fallo deve essere alto almeno cinque virgola
trentasette metri, oppure diciassette virgola sessantuno piedi, composto in ebano
d’Indonesia o altro legno similare con venature avorio o altro materiale similare ma non
meno pregiato che lo rendano più realistico. Deve pesare come minino trecentoventicinque chilogrammi, o settecentosedici virgola cinque libbre. Il glande deve essere dipinto di
uno scarlatto o vermiglione (in alcuni casi può essere accettato il color melograno), il
prepuzio appena accennato (niente esagerazioni), l’uretra lavorata a mano con dovizie di
particolari (scientificamente e quindi anatomicamente dimostrabili). All’interno, il
meccanismo eiaculatorio deve risultare perfettamente funzionante e perciò altamente
elaborato; un tubicino ha da ridiscendere il pene per terminare alla base della portantina,
dove l’Addetto Spruzzatore del nucleo famigliare azionerà la pompetta che distribuisce il
vino-miele lungo il tubicino e più su all’annaffiatore (posto sull’uretra), irrorando persone
e cose quando sarà il momento.
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12 luglio: Giornata delle Canzoni di Justin Timberlake Sparate-a-Palla Fisherman’s Friends
14 gennaio: Giornata dell’Idiosincrasia Invernale Pantone
18 settembre: Giornata del Nudismo Integrale Artistico Volkswagen
15 marzo: Giornata del Taglio-a-qualcosa-purché-qualcosa-venga-tagliato Viper
30 luglio: Giornata delle Droghe Sintetiche Iniettabili Pic.
10 febbraio: Giornata del Sorriso Professionale Positive Adult Development Inc.
21 marzo: Giornata della Depressione Post-Partum Mulino Bianco
22 marzo: Giornata dei Discorsi Radiofonici Nazifascisti DeAgostini
23 marzo: Giornata dei Libri Erotici da Collezione Chiquita
24 marzo: Giornata del Falò di Primavera sulle Sponde del Fiume Proloco di Castrocozzo
25 marzo: Giornata della Sigaretta Irrinunciabile Gitanes Caporal
Tutti i cittadini sono invitati/tenuti a sperimentare l’esperienza di fumare una sigaretta
dopo i pasti, dopo il caffè, dopo uno scotch, eccetera (le istruzioni precise saranno
pubblicate sul Bollettino Ufficiale del Ministero Suicidi & Festività®). I non fumatori sono
altresì invitati/tenuti a trovare i lati positivi del caso, uno dei quali potrebbe essere per
esempio il non doversi preoccupare per l’alito pesante, incolpando il fumo dei vostri
inguaribili problemi di alitosi.
26 marzo: Giornata dell’Alimentazione Ipercalorica Burger King
27 marzo: Giornata dell’Autodisgregazione dell’Ego Valtur
Siete angosciati dal lavoro? Avete problemi di sesso? Siete soli come cani? Siete artisti
incompresi, falliti, distrutti, ma nessun verificatore ha pronosticato un suicidio che
avrebbe rimediato a tutto ciò? Buttatevi via alla discarica umana Valtur di Trittengo! I
nostri esperti vi studieranno, i nostri mentalisti vi psicanalizzeranno, i nostri storici-sartisociologi vi abbiglieranno come ricchi depressi o come scrittori falliti, vi aggirerete tra
false tombe e bar-gazebo in cui si consumano margarita e mojito ventiquattro ore al
giorno, sette giorni su sette. Quando sarete entrati qui, vi sarete buttati via. Se lo desidererete, dimenticherete il vostro nome e la vostra storia grazie una lobo-memory del tutto
indolore (attenzione! la lobo-memory non contribuisce all’oblio del disprezzo che provate
intimamente nei confronti di voi stessi, ciò per cui giungerete sin qui, ma anzi lo amplificherà e ve lo mostrerà in tutta la sua formidabile potenza* – *i suicidi abusivi sono
tassativamente vietati da legge Gerarcale, lgs 1546 del 27 maggio 1933 –), sarete reperti da
laboratorio ma ve la spasserete alla grande, soli in mezzo a un mucchio di altra gente,
distrutti dalla solitudine e dall’angoscia eppure felici di non contribuire più alle falle della
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nostra misera società pan-fagocitante. Avrete a vostra disposizione piscine e personal
trainer, palestre e sale cinematografiche, onde artificiali per surf e piste da pattinaggio,
eppure non saprete che farvene, poiché nella vostra situazione nulla vi interesserà più. È
questo il bello! Vi offriremo corsi di autocoscienza, corsi di meditazione, corsi di apprendimento delle facoltà mentali remote, corsi di training autogeno, corsi di sviluppo
panpsichico, eccetera, ma volete sapere una cosa? Non serviranno assolutamente a nulla!
Per chi non avesse intenzione di buttarsi via neppure per un giorno alla discarica umana
Valtur si ricorda che durante la giornata ciascun cittadino è invitato/tenuto a consultare
uno specialista dell’inconscio (vi saranno numerosi presìdi Valtur sul territorio) che vi
condurrà per mano nell’autodisgregazione (provvisoria) dell’ego.
28 marzo: Giornata Ecatombea del Cane Randagio Beretta
Anche voi siete stanchi di quei bastardelli pezzati che si aggirano per le strade della nostra
città pisciando agli angoli tra i palazzi e sui copertoni delle vostre automobili? Durante
questa giornata ogni cittadino è invitato/tenuto a sperimentare un’attività spesso marchiata come crudele, ma che al contrario si può rivelare molto utile. Ciascun cittadino avrà a
disposizione un solo proiettile per randagio (dalle prime ore del mattino un nutrito
gruppo di istruttori sarà a disposizione della cittadinanza all’interno di poligoni di tiro
mobili).
Avvertenza: i cani randagi azzoppati, accecati, mutilati o gravemente feriti saranno finiti
da addetti Gerarcali a colpi di stiletto al costo di euro cinquanta per ogni pugnalata
sferrata.
29 marzo: Giornata dell’Individuo Avulso dal Tessuto Sociale Apple
Ogni cittadino è invitato/tenuto a provare l’esperienza di alienazione che vivono ogni
giorno i barboni, gli zingari, i tossicomani, gli alcolisti, i vecchi, eccetera.
30 marzo: Giornata della Degenza Post-Operatoria Activia
Ogni cittadino è invitato/tenuto a nutrirsi con mele cotte e a restare coricato almeno dieci
ore al giorno (detta giornata cade in un giorno festivo).
31 marzo: Giornata degli Spiralanti Ecatodentati Periclitanti Zanichelli
Per comprendere il significato di questa giornata saranno messi a disposizione dei
cittadini innumerevoli punti d’informazione organizzati dal Centro Studi Manganelli.
Insomma, cosa debbono fare, i cittadini, durante questa giornata? Intanto scoprirlo.
1° aprile: Giornata della Terapia Mininvasiva della Incontinenza Urinaria Femminile DryNites (Solo
Femminile™)
2 aprile: Giornata del Turismo Spazzatura Con-Camicia-Hawaiana Magnesia Bisurata Aromatic
3 aprile: Giornata dei Programmi Televisivi In-Cui-Ci-Si-Insulta-Ininterrottamente Filtro Fiore
Bonomelli.
Ventiquattrore no stop di programmi televisivi (su tutti i canali) in cui i presentatori
ingiuriano gli ospiti, gli ospiti si ingiuriano tra loro, eccetera. Spesso gli ospiti sono
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costituiti da politici. Per celebrare questa giornata degnamente, il cittadino deve trascorrere almeno quattro ore davanti alla tv (accesa). Uno dei numerosi lati positivi è che potrà
gustare una buona Camomilla Bonomelli durante la visione.
4 aprile: Giornata della Castrazione Chimica Farlutal (Solo Maschile™).
I cittadini sono invitati/tenuti a sperimentare l’esperienza di una vera castrazione chimica
ottenuta per mezzo di un farmaco grazie al quale gli effetti della castrazione non supereranno le ventidue ore (salvo casi particolari). Mettetevi comodi, iniettatevi il siero (lo
troverete nei milleduecento banchetti dispiegati sul territorio), attendete qualche minuto e
saprete cosa si prova a risultare completamente impotenti.
e a gustarsi i lati positivi di una giornata in cui non saranno costretti a dimostrare la
propria mascolinità a ogni passante femmina. Non avranno alcuna possibilità di fornicare,
e ciò permetterà di concentrarsi maggiormente sugli aspetti interiori delle nostre femmine.
23 settembre: Giornata della Morte Apparente Plasmon
Se qualcuno di voi non è ancora pronto al Grande Salto, all’Agognata Fine, al Suicidio®,
questa giornata fa al caso vostro. Tutti i cittadini sono invitati/tenuti a presentarsi ai
laboratori della Plasmon per saggiare la bontà di un prodotto che entrerà in commercio
tra qualche anno. Il scheintod trabuzolo si presenta come un liofilizzato al gusto di coniglio,
tacchino, pollo e agnello, ma in realtà è molto di più: dopo essersi goduto il pasto il
cittadino sarà catapultato nella più realistica esperienza di morte apparente che mente
umana potrebbe immaginare. Com’è la morte? Cosa c’è dopo? Queste domande potrebbero avere una risposta in questa circostanza. A ognuno la propria morte apparente.
6 aprile: Giornata della Discriminazione Razziale Gamo Airguns
Tutti i cittadini sono uguali? Balle. Non avrete per caso creduto a questa favoletta
televisiva, vero? I cittadini sono dissimili, disuguali, molteplici, diversificati, insopportabili
gli uni per gli altri, odianti etnie diverse dalla propria, disprezzanti cittadini di paesi diversi
dal proprio, abominanti categorie professionali distinte dalle proprie. Durante la giornata
della Discriminazione Razziale si invita ogni cittadino a manifestare liberamente il proprio
odio, la propria xenofobia, utilizzando i dispositivi generosamente offerti da Gamo
Airguns, leader nel mercato delle armi ad aria compressa. Tutte le armi in dotazione
durante la giornata, reperibili agli stand Gamo, saranno caricate con proiettili di gomma
dura “BB”, in grado di procurare lesioni anche gravi. Gamo consiglia di provare una
pistola ad aria compressa sparante proiettili “BB” a ripetizione con motore elettrico.
Finalmente avrete una buona occasione per incontrare di persona il vostro vicino di casa!
Occorre davvero che qualcuno vi elenchi i lati positivi di una simile giornata?
7 aprile: Giornata delle Ricette Culinarie per Misantropi Bimby
27 giugno: Giornata della Critica Marxista dell’Esistenza Gorilka
Assaggiate la Vodka Gorilka ascoltando le audiocassette (o scaricando il file da I-tunes
direttamente sui vostri dispositivi apple) incise da una voce sensuale femminile con la
Lista Governativa delle Più Comuni Sopravvalutazioni. Scoprirete che alla fine, vivere,
perlomeno in questa società, può rivelarsi un fatto del tutto trascurabile.
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11 aprile: Giornata dell’Adulterio Ragionato Studio Legale Dieter Stropper & Associati
Ogni cittadino/a sabbionasso/a coniugato/a o fidanzato/a è invitato/tenuto ad abbandonarsi ai piaceri dell’infedeltà, della tresca, della scappatella. L’adulterio dev’essere
ponderato, guardingo, non evidente, in maniera che il partner possa soltanto supporlo,
giammai averne la certezza. In giornate simili nessun controllo verrà svolto.
Per tutti coloro cui la Giornata dell’Adulterio Ragionato evidenzierà una insanabile
rottura col proprio coniuge lo Studio Legale Dieter Stropper & Associati propone una
consulenza scontata del 25 %.
13 aprile: Giornata del Sonno Imetec
14 aprile: Giornata della Memoria Lines Petalo Blu Lungo Con Ali
15 aprile: Giornata degli Scrittori Falliti Mentadent
Tutti i cittadini sabbionassi debbono presentare un proprio scritto (min. 8 cartelle / max.
120 cartelle) e attendere pazientemente cinque ore in una sala semiriscaldata, in solitudine,
con la dotazione di una fetta di Sacher Torte e di un bicchiere di Asti Spumante, che esso
venga rifiutato, bocciato, denigrato. In alcuni casi – nella maggior parte dei casi – il
cittadino potrebbe non ricevere alcuna risposta. Uno spazzolino usa e getta e un tubetto
di Mentadent permetteranno agli scrittori falliti di lavarsi i denti nel bagnetto attiguo.
17 aprile: Giornata del Test Sierologico per la Leishmaniosi Hoffmann-La Roche
18 aprile: Giornata delle Argomentazioni Esistenziali Ballantines
19 aprile: Giornata delle Sensazioni Vagamente Discenditive Nespresso Ristretto Origin India
20 aprile: Giornata dei Luoghi Comuni sugli Handicappati Sega
Cittadini, preparatevi a sostenere i vostri migliori luoghi comuni sugli handicappati: non
possono fare sesso, hanno una vita grigia e piena di dolore, odiano profondamente le
persone normali.
21 aprile: Giornata del Dissanguamento Allegorico (Ma Neppure Tanto) KPMG
22 aprile: Giornata dell’Antisuccesso Sistematico Rasoio Braun Serie 7
23 aprile: Giornata delle Pratiche Sessuali Proibite Tra Moglie e Marito
26 aprile: Giornata del Peccato Originale Rivisitato MBT Shoes Anti-Mal-Di-Schiena
Ogni cittadino è invitato/tenuto a rivisitare allegoricamente il peccato originale dando
libero sfogo alla propria immaginazione. In tal senso, i cittadini dovranno perseguire la
momentanea divisione da dio mediante uno qualunque dei peccati capitali e/o mortali,
sperimentando la sensazione originaria che dovettero provare Adamo ed Eva quando
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furono cacciati dal paradiso terrestre. Durante la giornata i cittadini dovranno indossare
scarpe MBT Shoes Anti-Mal-Di-Schiena, disponibili in tre modelli e cinque colori.
Attenzione! A causa di possibili, spiacevoli, effetti collaterali, la MBT Shoes consiglia di
non indossare le scarpe Anti-Mal-Di-Schiena per più di tre ore al giorno. Tra gli effetti
collaterali riscontrati dopo un utilizzo superiore alle tre ore continuative: nausea, epistassi,
mal di schiena.
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