L`individuo

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L`individuo
IV incontro di formazione
11 Maggio 2013
L’individuo
Percorso di formazione 2013: 1-­‐ 9 febbraio ’13. Introduzione al percorso di formazione 2013 2-­‐ 2 marzo ’13. L’associazione. 3-­‐ 13 aprile ’13. Il gruppo. 4-­‐ 11 maggio ’13. L’individuo. 5-­‐ 12-­‐13-­‐14 luglio ’13. Ritiro. Dopo aver fatto emergere il legame che connette Ulipka (associazione) ai suoi gruppi (che ne concretizzano l’attività). Dopo aver affrontato alcune delle dinamiche che si realizzano in gruppo. Eccoci giunti all’incontro sull’individuo.
Alcuni di voi si potrebbero chiedere perché abbiamo deciso di parlare dell’individuo alla fine e non all’inizio del percorso. Innanzitutto perché volevamo ribaltare il normale percorso logico e storico che ognuno di noi fa entrando nell’associazione; per valorizzarlo e metterne in luce alcuni aspetti. Infatti, arriviamo come indi-­‐
vidui, ma poi entriamo, piano piano, a far parte di qualcos’altro, che è qualcosa di più, di diverso, dalla somma delle sue parti1.
In secondo luogo, perché sembra che ogni individuo sia un’entità a se stante, ma, proviamo a chiederci se esiste l’uomo come essere individuale e solitario. Pensandoci bene, no, non può esistere. Esistono alcuni es-­‐
seri umani che decidono di vivere da soli, esistono situazioni limite, ma, chiunque, come prima cosa, per ve-­‐
nire al mondo ha bisogno di qualcun altro, di una madre e di un padre (o almeno del loro DNA). E salvo casi eccezionali, ognuno dovrebbe, almeno per un certo periodo, venire a contatto, con il corpo della madre. Tra-­‐
lasciando le questioni che riguardano il concepimento e i nuovi confini delle tecniche scientifiche, uno dei ca-­‐
si limite a cui possiamo fare riferimento è quello dei “bambini selvaggi”; sono i bambini “adottati” dagli ani-­‐
mali. Bambini che dopo essere stati abbandonati (per i più vari motivi), riescono a sopravvivere, distanti dal contatto con altri esseri umani, almeno per un certo periodo di tempo. Il caso più famoso è stato descritto dal medico francese Jean Itard2. Tutti questi bambini, non sono nati da soli, per un periodo più o meno breve so-­‐
no stati a contatto almeno con la madre, anche se i segni di questo incontro sono invisibili o fortemente sbia-­‐
diti. È interessante rilevare che tutti i casi finora scoperti sono accumunati dalla totale assenza di linguaggio, chiara manifestazione della loro lontananza da altri esseri umani in grado di insegnarglielo e con i quali ser-­‐
virsene. Ovviamente, questo non è il nostro caso e, le influenze sociali in cui cresciamo, sono molte di più di quante potremmo immaginare. Iniziamo proprio dal linguaggio che manca a questi bambini. All’ultimo in-­‐
contro abbiamo visto che la chiave per risolvere il conflitto è la comunicazione, verbale e non verbale; en-­‐
trambe queste forme di dialogo si apprendono stando con altri esseri umani, poiché ogni linguaggio è frutto di una convenzione sociale. Ognuno di noi può inventarsi il proprio linguaggio, ma solo accordandosi con al-­‐
tri sul significato di questo linguaggio potrà usarlo per comunicare con loro. Sarebbe interessante riflettere sulle tesi di alcuni autori che negano addirittura la possibilità di capirsi gli uni gli altri, anche attraverso le diverse lingue scritte o parlate che siano, ma ciò che concerne la nostra tratta-­‐
zione è cercare di capire meglio chi siamo e come siamo fatti. In tal senso il linguaggio oltre a dimostrarci che siamo esseri sociali, ci può dire qualcos’altro. Infatti, quello che accade tra persone che comunicano in una si-­‐
tuazione faccia a faccia assomiglia a una danza interattiva enormemente complessa, in cui molteplici significati sono indirizzati attraverso molteplici canali a molteplici scopi3. Quali scopi? Possiamo riassumere alcune di-­‐
stinte funzioni della comunicazione: ottenere il soddisfacimento dei propri bisogni, capire gli altri, chiarire situazioni ambigue, ottenere vantaggi, creare relazioni di collaborazione, esprimerci e capire noi stessi4. Il linguaggio viene appreso all’interno di una cultura, la stessa in cui siamo catapultati sin dalla nascita, e da essa, oltre al linguaggio apprendiamo anche modi di comportarci, tradizioni e identità. Al di là del tipo di cul-­‐
tura in cui viviamo, sia essa individualista o collettivista, la presenza delle altre persone non ci lascia indiffe-­‐
renti e segna tutta la nostra vita. Ciò avviene sempre all’interno di quell’ambivalenza, già trattata nel prece-­‐
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Cfr. Lewin, Kurt. Field theory in social science: selected theoretical papers. Edited by Dorwin Cartwright, 1951.
Cfr. Itard, Jean M. Il fanciullo selvaggio dell'Aveyron. Armando Editore, 2007.
3
Schein, Edgar H. La consulenza di processo. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001. p. 107
4
Cfr. Ivi
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dente incontro, di appartenenza e identità, per cui apparteniamo ai gruppi e alla cultura in cui siamo cre-­‐
sciuti e con cui veniamo a contatto ma esse non ci identificano totalmente. Questa componente sociale dell’essere umano, è molto importante perché dimenticandocene diventiamo meno attenti ed empatici con gli altri, rischiamo di pensare che tutti vedono il mondo come lo vediamo noi, o debbano pensarla come noi. Insomma che esista una sola realtà oggettiva, ossia quella che vedono i nostri occhi. Invece sembra che non ci sia nulla che appare perfettamente identico a tutti. Persino la percezione dei colori non è perfettamente uguale in ogni essere umano. Non cerchiamo di sostenere un relativismo che an-­‐
nienta ogni possibilità di avere dei “punti fermi”. Non vogliamo nemmeno sostenere che nulla esiste al di fuori di noi stessi o che nulla è reale. Vogliamo invece chiederci: siamo certi che esistano realtà obiettive, ossia uguali per tutti, oggettive, evidenti? Ciò che ognuno considera reale, non è altro che la sua personale costruzione della realtà, plasmata in parte da processi cognitivi (le modalità con cui lavora la nostra mente) e in parte dai processi sociali (gli input prove-­‐
nienti dagli altri individui, la cui presenza può essere effettiva o immaginaria)5. Eppure, credere che il nostro giudizio sia giusto e sia l’unico possibile è ciò che ci permette di vivere, è ciò che semplifica la complessità del mondo e permettendoci di sopravvivere. Allo stesso tempo è una vera e propria arma a doppio taglio, infatti è lo stesso sistema che crea e avvalla il pregiudizio e le sue conse-­‐
guenze più o meno estreme che siano. Come si forma il sé? Come diventiamo chi siamo? Non esistono risposte scontate o complete, ma la psicologia sembra aver fatto luce, almeno parzialmente su alcuni dei meccanismi che sottendono tutte queste domande. Innanzitutto: gli individui costruiscono la cono-­‐
scenza di sé in maniera molto simile a quella con cui formano le proprie impressioni degli altri, usando tipi di informazioni e processi interpretativi analoghi. Spesso inferiscono le proprie caratteristiche dai propri com-­‐
portamenti. Inoltre, per formarsi opinioni su se stessi prendono in considerazione i propri pensieri e senti-­‐
menti, nonché le reazioni altrui. Infine, paragonano se stessi agli altri per sapere quali caratteristiche li rendono unici6. Come preannunciato, questo aiuta, ma non spiega totalmente la nostra identità. Chi sono io? Cosa porto con me? Come mi vedono gli altri? Cosa so fare? Quali sono i miei ruoli? Quale ruolo mi rappre-­‐
senta meglio? Chi siamo dipende da ciò che abbiamo vissuto, se avessimo avuto una vita diversa, se avessimo incontrato persone diverse, se avessimo fatto scelte diverse ora saremmo diversi. E allora, questa nostra uni-­‐
cità cosa può portare al gruppo? E ancora: perché abbiamo deciso di impegnarci in un associazione come Ulipka? Quali motivazioni ci spingono? Cosa ci ha portato qui? Per concludere, presentiamo gli 8 principi che secondo la Psicologia Sociale spiegano tutti i tipi di comporta-­‐
mento sociale, a partire dai pensieri e dai comportamenti utili e apprezzabili fino a quelli fuorvianti e distrutti-­‐
vi: -­‐ 2 assiomi. Ossia: (a) le persone si costruiscono una loro realtà e (b) le influenze sociali sono pervasive (significa che gli altri influenzano tutti i nostri pensieri, sentimenti e comportamenti indipendentemen-­‐
te dal fatto che siano presenti o meno). -­‐ 3 principi motivazionali. Mentre costruiscono la realtà, influenzano gli altri e ne sono influenzati, gli in-­‐
dividui sono mossi da tre motivazioni fondamentali: (a) l’acquisizione della padronanza (ossia della comprensione al fine di poter agire correttamente nel mondo), (b) la ricerca dell’affiliazione (per assol-­‐
vere al bisogno di appartenenza) e (c) la valorizzazione di se stessi e di quanti sono a loro connessi. -­‐ 3 principi di elaborazione. Ossia: (a) le opinioni consolidate sono lente a cambiare, (b) l’informazione accessibile esercita l’influsso più forte e (c) l’elaborazione è talvolta superficiale ma altre volte molto approfondita.7 Ci sembra possa essere interessante provare a riflettere su questi principi per cercare di metterli a fuoco nel-­‐
la nostra e nelle altrui vite, osservando scelte e comportamenti e cercando di essere sempre più consapevoli di come si originano le nostre azioni e reazioni. Bibliografia: Lewin, Kurt. Field theory in social science: selected theoretical papers. Edited by Dorwin Cartwright, 1951
Eliot, Smith, and M. Mackie Diane. Psicologia sociale. 1998
Schein, Edgar H. La consulenza di processo. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001 Itard, Jean M. Il fanciullo selvaggio dell'Aveyron. Armando Editore, 2007
Fonti di riferimento: Lezioni svolte presso la Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: •
Psicologia delle interazioni sociali, Prof. Camillo Regalia •
Pedagogia Speciale, Prof. Luigi D’Alonzo 5
Cfr. Eliot, Smith, and M. Mackie Diane. Psicologia sociale. 1998
Ibidem p. 87
7
Cfr. ibidem pp. 13-17
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