Agostino nella modernità. Il “grand siècle” (e dintorni) Morcelliana

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DOMENICO BOSCO (ed.)
Agostino nella modernità. Il “grand siècle” (e dintorni)
Morcelliana, Brescia 2011, 1093 pp.
Considerati lo scenario politico europeo, l’assetto economico, il fervore
culturale e artistico, il ruolo della Chiesa cattolica nelle società assolutiste, l’entusiasmo operativo e testimoniale delle nuove Congregazioni religiose sorte durante e dopo il Concilio di Trento, gli approfondimenti della
teologia dogmatica e morale, il consolidarsi dell’umanesimo barocco, è più
che giustificato l’appellativo di grand siècle, dato al 1600.
Nonostante la guerra dei Trent’anni (1618- 48), la monarchia in Francia
continuò a ritenersi di origine divina e ad approvare le intolleranze tra protestanti e cattolici. La rivalità franco-olandese sfociò in guerra commerciale (1665), portando a esiti radicali e sanguinari la tensione anglo-olandese anch’essa di natura economica.
La cultura del secolo XVII conobbe una fioritura straordinaria di Accademie umanistiche e scientifiche in vari stati europei. L’arte barocca si caratterizzò per una sua tipicità sonora e visiva rispetto alla compostezza armonica del Cinquecento. Lo stile barocco è stato “un infinito delle profondità, una prospettiva dell’interiore, un contatto sempre vivo, e felice, con
le dolcezze e segretezze dei corpi”, al dire di Yves Bonnefoy. Nella società musicale dell’aristocrazia francese ed europea, proclive al divertissement, si impongono con un fascino particolare la cantata, il duetto, la fuga, il concerto, il melodramma, l’oratorio.
Per quanto si dirà in seguito, segnatamente in merito al giansenismo, va
ricordato che il sostegno accordato dai sovrani alla Chiesa si rivelò ambiguo per le ingerenze politiche dettate dalla logica dello stato assolutista,
secondo cui il monarca tendeva a subordinare ai propri interessi le strutture e le forze sociali del regno. In questo clima socio-politico e culturale
francese va collocato l’ampio volume antologico Agostino nella modernità.
Il “grand siècle”(e dintorni), a cura di Domenico Bosco, Morcelliana, Brescia 2011, pp. 1093, nella collana filosofica “Testi e Studi”. Sintesi felice
e utile di un autorevole studioso del Seicento, nel cui ambito di ricerche
si muove da anni, offrendoci a tutt’oggi traduzioni di opere, monografie, articoli scientifici e volumi antologici, tra i quali va richiamato, per analogia
di impianto col testo che qui presentiamo, Pascal nella modernità (sec.
XVII-XIX), Morcelliana, Brescia 2007.
Si apprezzerà debitamente questa silloge di testi sulla figura e sul pensiero di s. Agostino se si rammentino alcune premesse culturali che han1/2013 ANNO LXVI
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no movimentato i dibattiti secenteschi, teologici e filosofici, tirando in ballo il prestigio dell’Ipponate. Eccole in sintesi.
Rilevante è stato il lascito sentenzioso di Michel de Montaigne sull’amore di sé: riflessione antropologica stoicheggiante, con venature scettiche, resa autonoma da vincoli teologici e scolastici. Altro motivo umanistico è lo spostamento di attenzione dalla tipologia dell’individuo magnanimo (le généreux) al soggetto desiderante che, in Descartes e Corneille, si
specifica come coscienza etica di “essere degni di sé”. Si registra inoltre
l’insistenza sulle virtù civili quali la forza, la certezza, la pienezza della felicità che astringono l’individuo all’istinto di vita come, per esempio, lo
analizza Hobbes a differenza di Racine, che inclina piuttosto al pathos tragico della morte. La forza fisica, utilizzata con poca riflessione etica, dev’essere contemperata dall’uso responsabile della ragione. In tal senso l’apologia che Spinoza fa della gloria sta a significare il trionfo della mente
sulle passioni; egli fa valere, in tal modo, il potere superiore di un’architettonica metafisica della securitas socialis contro chi ci contrasta con coercizione padronale, seminando negli animi sgomento e terrore. Lo studio
delle passioni nel Seicento apre a prospettive talora contraddittorie, implicando conseguenze politiche oltre che religiose, morali e spirituali in genere. Sicché l’amore di sé (amour de soi, distinto da l’amour propre) è considerato per un verso come fondamento e minaccia per chi governa (cf.
Hobbes, Spinoza, Locke) e per altro verso come attacco polemico contro la
vanità dell’eroe aristocratico, soggiogato dalla libido dominandi (cf. La
Rochefoucauld, Nicole), oppure viene saggiato negativamente come radice psicologica del disordine sociale da parte di Pascal.
Altra premessa da rammemorare è che nel moderno razionalismo cartesiano e spinoziano si teorizza il prevalere dell’ordine della ragione sull’irrazionalità delle passioni. Ne consegue che lo studio dell’uomo, o della natura umana, approfondito da pensatori e letterati cattolici e giansenisti, è
sollecitato a confrontarsi con la teologia dogmatica e morale della tradizione cristiana.
All’interno delle applaudite esibizioni dell’arte barocca, della letteratura
del “visibile parlare”, della spiritualità ‘sonora’ e della teologia apologetica e controversista, sant’Agostino “diviene” moderno, stimolando dibattiti
impegnativi di indole storica, teologica e sapienziale, ma nel contempo restandone condizionato, quanto alla storia degli effetti, nella sua identità polimorfa di maestro di vita spirituale, di teologo e filosofo, di letterato e polemista, di convertito e fondatore di comunità monastiche. Aspetti, questi,
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che Domenico Bosco rileva nelle preliminari modulazioni della variegata
iconografia artistica secentesca del vescovo di Ippona che ce lo sfaccetta, a
seconda della sensibilità dei pittori, come lottatore della verità, servo di
Dio, doctor cordis, magister, umile, uomo tra uomini (e donne), introducendoci successivamente all’incontro con l’eredità dei suoi scritti consolidatasi nei secoli, ovvero con i cosiddetti agostinismi che hanno incentivato teorie politiche, teologiche, filosofiche e antropologiche, ponendo con ciò stesso il problema ermeneutico di ritrovare il “vero” Agostino sotto i veli dell’Agostino interpretato, l’Agostino intero rispetto a quello frammentato: in
particolar modo entrando nel vivo del dibattito tra giansenisti e gesuiti sul
problema della grazia, o nel dibattito tra cartesiani/malebrancheani e Bayle, Le Clerc, Richard Simon su tematiche storiche, scientifiche e di esegesi biblica; viene tesaurizzato infine il profondo teologo della grazia e della
sua assoluta indigenza per il genere umano dopo il peccato originale.
Dovendo il lettore fronteggiare un enorme e vario materiale dottrinale
ben selezionato per autori e tematiche, corredato di erudite note storiche
ed esegetiche, impreziosito altresì di opportuni sussidi didattici quali il
Profilo degli Autori e il Glossario, consiglieremmo di tener costantemente
presente sia la voce Agostino (663, 936-43, 995, 971) sia la voce Agostinismo (934-36, 969), che sono una sorta di filo conduttore delle sedici tematiche teologiche, esposte sinteticamente nel Glossario (1113-21). In tal
modo si avrà il beneficio di uno specchio mentale nel quale l’Ipponate rifrange la luce della sua straordinaria personalità di pastore d’anime e di
scrittore prolifico, e per contro, si imbatterà nelle molte facies di lui, che
le grand siècle ha tramandato ai posteri. Tra queste figurano, in conclusione di volume, quelle di tre autorevoli studiosi del Novecento.
Suggerito al lettore il modo proficuo di utilizzare il testo, vediamone i
contenuti.
San Francesco di Sales (1567-1622) è il primo autore antologizzato. Si
caratterizza per l’angolatura spirituale della devozione del cuore, ossia del
dialogo intimo dell’anima con Dio in atteggiamento di abbandono fiducioso alla divina Misericordia. Ha esortato il cristiano, anima devota innamorata di Dio e della bellezza, a vivere e testimoniare lo stile della “santa indifferenza” in tutto ciò che ci capita di vivere alla giornata. Se ne ricorderà Fénelon nei suoi ammaestramenti di vita spirituale. Alla religione della paura, inculcata dalla voce tonante dei predicatori e dalla penna di alcuni scrittori coevi, il vescovo di Ginevra ha opposto con convinzione la
religione dell’attrazione al Cristo amabile, nel Trattato dell’amore di Dio.
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Nell’ambito della vita spirituale e dell’impegno ascetico di autoperfezionamento dei fedeli si colloca l’operosità letteraria di Jean-Ambroise Duvergier de Hauranne, abbé de Saint-Cyran (1581-1643), uomo pio e assiduo lettore dei Padri della Chiesa. Tra i suoi scritti si ricorda La vocazione che, al dire di Pascal, influenzò beneficamente la vita di molti cristiani. Il tema agostiniano della grazia acquista specificazione particolare nell’azione di rinnovamento interiore che lo Spirito Santo suscita nel cuore
dei battezzati. Vita interiore che perde di neutralità cronologica e acquista
valore e consapevolezza di durata salvifica nell’unione del singolo fedele
alla persona divina di Gesù Cristo. Tale dispositio spiritalis richiama, per
analogia, la distinzione che s. Agostino fa, in De civitate Dei, tra il computo cronologico della storia della salvezza (le sei epoche genesiache più la
settima dell’èra cristiana) e l’attenzione che l’uomo redento deve prestare
per capire in quale epoca, soggettivamente, si trova a vivere, misurando la
sua vicinanza o distanza dal Cristo redentore con l’effettiva volontà di conversione e con la pratica dell’amore del prossimo.
Particolare rilevanza storica e teologica è riservata a Cornelio Giansenio
(1585-1638), il cui nome è legato all’istituzione spirituale di Port-Royal e
all’interpretazione che teologi rinomati ivi residenti davano degli scritti di
s. Agostino sulla grazia e sulla predestinazione. Interpretazione avversata
dai gesuiti e dai teologi della Sorbona che avevano messo in cattiva luce
l’Augustinus, ottenendo dalla Santa Sede richiami, ammonimenti e la condanna di cinque proposizioni teologiche. Il vescovo di Ypres è presentato
dal curatore del volume come espositore preciso e positivo dei dinamismi
psicologici, non poco influenzato dalla devotio moderna di Erasmo e dagli
scritti di Saint-Cyran. Suo convincimento è che la grazia non deve essere
solo compresa ma altresì “gustata”. Il filo rosso che lega Giansenio ad
Agostino – in ciò seguito da Pascal – è la propensione a dare rilevanza più
marcata al tema della caduta edenica anziché alla creazione o alla parusia, a riservare più attenzione teologica e ascetica al Christus patiens anziché al Deus creator. Esegesi talora forzate e fraintendimenti dettati da spirito di parte sugli scritti di Giansenio (cf. voce in Profilo degli Autori, 997)
hanno messo in luce ereticale il giansenismo storico, che ha coinvolto a
vario titolo Pascal, Nicole, Arnauld… sulle questioni teologiche specifiche
che si leggono nel Glossario.
Con François de La Mothe le Vayer (1588-1672), letterato, uomo politico, accademico, storiografo di corte, ci troviamo a registrare gli esiti del libertin scetticheggiante nella questione delle certezze storiche, ma che si
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mostra possibilista sulla vita etica e sulla retta intenzione dei pagani virtuosi. Il suo scritto De la vertu des payens palesa spiccata sensibilità umanistica nel cogliere una certa sintesi armonica tra interiorità ed esteriorità
dell’homo naturalis, un accordo spontaneo tra être e paraître nella condotta dei pagani, la qual cosa è già premessa di salvezza eterna. Nei suoi ragionamenti l’autore si barcamena tra Pelagio e Agostino, rifuggendo da tesi puriste sulla natura umana e da pessimismo luterano, orientato piuttosto a recepire gli insegnamenti dell’Ipponate sulla superiorità della vita
cristiana rispetto alla condotta degli epicurei e degli stoici, nell’alveo della tradizione patristica, di cui si conferma buon conoscitore. L’identità di
questo homme de lettres emerge a chiare note dagli interventi critici del
prof. Bosco a commento dei testi riportati.
Cartesio (1596-1650), come si sa, è figura di spicco del pensiero filosofico e scientifico della incipiente modernità. La forma mentis di attento
osservatore del mondo e dell’uomo lo induce a privilegiare questioni di fisica e matematica; si interessa delle passioni umane en physicien, analizza in prospettiva metafisica l’unione dell’anima col corpo dopo aver trattato separatamente dell’una e dell’altro, si cimenta col problema dell’esistenza di Dio, della conservazione e difesa della vita non da ultimo perché sollecitato o criticato da autorevoli pensatori, indotti dal padre Marino Mersenne a interloquire con lui. Il suo interesse per l’autore delle Confessiones è piuttosto occasionale e si volge di preferenza all’agostinismo
metafisico, nel quale vede apparentato il cogito moderno con l’antica brama del Deum et animam scire cupio. Che cosa si può chiedere di Dio a un
ingegno allenato alla chiarezza e distinzione dei concetti e alla procedura
metodica induttivo-deduttiva delle scienze esatte? Certamente risposte
non equivoche o caliginose, al di qua di ogni confusione dell’esercizio
analitico del pensiero col sentimento religioso o con la fede cattolica, che
egli afferma di rispettare e vivere nel suo intimo. Illuminanti al riguardo
le pagine antologiche su Dio e su “cose che possono turbare i teologi”: sono le risposte alle Obiezioni di Arnauld alle Meditazioni metafisiche (257264). Se il pensiero di Cartesio ha avuto una flessione genericamente spirituale nel pio oratoriano Malebranche, in senso polemico, invece, è stato
duramente avversato da Pascal e dai Portorealisti, interessati a rivendicare il primato della fede e della carità sulle scienze della natura, nonché
l’esaltazione della pietà sull’orgoglio della ragione.
Antitesi di Cartesio, nel modo di vivere e di pensare, è stato Blaise Pascal (1623-1662), ingegno precoce della matematica e fisica, divenuto uo1/2013 ANNO LXVI
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mo di profonda pietà religiosa e di sapienza cristiana dopo la famosa “notte di fuoco” della conversione (23 novembre 1653). Nel prolungato soggiorno a Port-Royal ebbe modo di approfondire il cristianesimo dei Padri,
la storia della Chiesa e varie questioni di teologia dogmatica e morale,
frutto anche di conversazioni impegnative con autorevoli Solitari del monastero giansenista. L’incidenza di s. Agostino nella sua vita spirituale è
da ravvisare nella distinzione dei “tre ordini di grandezza”: corpi, spiriti,
carità, e nella determinazione della grazia “amabile” che deve sorreggere
e accompagnare l’uomo nell’agone dell’esistenza terrena. Il cuore (coeur)
pascaliano è l’opposto della raison cartesiana in fatto di esperienza religiosa. La ragione è denominatore comune che orienta nella ricerca della verità, dal momento che non si può essere scettici o solo “geometri”. Pascal
è d’avviso che soltanto il cristiano, in quanto essere autenticamente religioso, può attingere la pienezza della verità, che è Dio, mediante la fede e
l’amore. Agostino gli ha insegnato che «non intratur in veritatem nisi per
caritatem» (De gratia contra Faustum, XXXII, 18). Condizione di tale conquista spirituale è l’umiltà che si esprime nella sottomissione a Dio e alla
Chiesa. La ragione, valida nello studio delle scienze naturali, può giovare
alla vita spirituale se si attiene metodicamente alla considerazione delle
conseguenze dell’agire umano (raison des effets) e non si lasci ammaliare
dal gioco solipsistico delle astrazioni intellettuali (raison raisonnante). La
vita interiore dell’uomo religioso trova alimento nell’ascolto della voce di
Dio “sensible au coeur”, nell’unione al Cristo sofferente e nell’esercizio
della carità verso i bisognosi.
Gli autori che seguono, presentati in progressione cronologica, vanno
letti con riferimento a Cartesio e a Pascal, nella ripresa o nel rifiuto del
razionalismo scientifico e teologico, e come accoglimento di sollecitazioni per la vita cristiana che dal magistero di s. Agostino perviene alla prosa frastagliata e accattivante delle Pensées di Pascal. Ci si incontra con
autori di ispirazione cartesiana quali La Rochefoucauld, Jean Deslyons,
C. Clerslier, L.-P. Du Vaucel, e con filosofi e teologi sostenitori di Pascal:
l’oratoriano Nicolas Malebranche (1638-1715), il giansenista Pierre Nicole (1625-95), il benedettino François Lamy (1636-1711), il vescovo
François De Fénelon (1651-1715). In questi spiriti devoti, dei quali si riportano ampi brani, impressiona beneficamente la forte tensione alla verità e all’amore di Dio, partendo dall’analisi delle passioni, dalle conseguenze del peccato originale, dal rapporto problematico tra ragione e rivelazione, dai limiti del linguaggio umano a “dire l’amore divino”, cioè il
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mistero della grazia trasformante. Ove, superfluo ricordarlo, la teologia
agostiniana della vita soprannaturale fluisce in ogni pagina e motiva anche le polemiche che Fénelon ebbe a sostenere contro Malebranche e
Giansenio, nonché l’inserimento del pacato e pacificatore abate Lamy in
queste diatribe teologiche.
Timbro decisamente illuminista, vale a dire critico e polemico, rivestono i susseguenti discorsi di autori anticlericali quali Pierre Bayle (16471706), Jean Le Clerc (1657-1736), rimbeccato peraltro da un anonimo di
indole pia, che Mario Sina ha identificato in un certo Demonstier (cf.
1007), il marquis D’Argens (Jean-Baptiste De Boyer, 1703-71) dalla battuta salace e scettica, infine Voltaire (François-Marie Arouet, 16941778) che ha creato su sant’Agostino, al dire di Bosco, un meta-racconto settecentesco.
L’antologia fa emergere, in prosieguo, sullo sfondo delle Lumières, la figura equilibrata dell’erudito canonico Nicolas-Sylvestre Bergier (171890) che, nel suo apprezzato Dictionnaire de théologie, redige la voce Augustin insieme con le altre, riferite nel testo, attinenti alla dottrina e ad alcuni interlocutori e interpreti dell’Ipponate quali, ad esempio, Le Clerc,
Baio, Manichei/ Manicheismo.
Un grand siècle, quello barocco, che, in attinenza alla figura e agli scritti dello straordinario Padre della Chiesa latina, si amplifica culturalmente, penetrando nel secolo dei lumi per intrinseca urgenza e propulsione di
questioni teologiche e antropologiche che non potevano lasciare sospesi e
ammutoliti né gli ingegni del sarcasmo né i geni della pietà e della santità. L’orientamento agostinano che ha fermentato la pietà cristiana verso
l’unum necessarium: “cognoscere Deum et animam”, sedimentandosi nei
trattati secenteschi di vita spirituale ad opera di s. Francesco de Sales, di
Barcos, Nicole, Pascal ed altri, ha richiamato l’attenzione di tre insigni storici e filosofi francesi del Novecento sull’eredità imperitura di Agostino
magister noster. Egli dà a pensare sull’identità di noi viandanti in cerca
della patria beata; insegna a distinguere intendere, opinare, credere; ha
prodotto una filosofia “edificante” che ispira molte prospettive teologiche,
filosofiche e letterarie moderne e contemporanee; non cessa di stimolare
gli spiriti pensosi a riflettere sul peccato originale e sulla natura decaduta
e redenta, in epoca di secolarizzazione e di nichilismo qual si presenta la
nostra nei primordi del terzo millennio.
L’estensione a mo’ di filo rosso dell’antologia presenta, in tal senso, e si
conclude con i contributi di Jean Laporte (1866-1948) su “modulazioni
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concupiscenti”, di Henri Gouhier (1898-1994) che approfondisce, in luce
di spiritualità agostiniana, l‘esperienza del volere, di Jean Deprun (19232006) che, nel volume La philosophie de l’inquiétude en France au XVIII
siècle (1979), ha analizzato il concetto agostiniano di inquietum/ et irrequietum cor.
Paolo Miccoli
FRANCESCO COSENTINO
Sui sentieri di Dio. Mappe della nuova evangelizzazione
San Paolo, Milano 2012, 218 pp.
L’appello alla nuova evangelizzazione è ormai in fase di avanzata concretizzazione nella prassi delle Chiese di antica tradizione cristiana. Sempre
di più, del resto, la questione della missione non possiede una marcatura
di tipo geografico, bensì culturale. La crisi della trasmissione della fede,
nello scorrere delle generazioni, è un dato di fatto, sul quale si è creato un
ampio consenso, costituendo la vera urgenza per la sopravvivenza del cristianesimo nelle terre d’Occidente. Ovviamente dietro la fatica della generazione alla fede dei ragazzi e dei giovani si trovano una crisi della fede e
una crisi della Chiesa, che debbono essere attentamente illuminate, al fine di riaprire anche in questo nostro tempo nuovi sentieri per la parola veramente umana e veramente divina del Vangelo.
In relazione a questi temi di estrema attualità, è possibile leggere con
molto frutto il recente volume di Francesco Cosentino, Sui sentieri di Dio.
Mappe per la nuova evangelizzazione. Si tratta di una riflessione ampia e
appassionata circa la sfida del credere oggi. Un ulteriore, non secondario
merito del volume in questione è pure la sua scrittura ricca e fluida allo
stesso tempo.
Sin da subito, l’autore precisa quella che è la sua idea fondamentale circa la nuova evangelizzazione: «Nel tempo della nuova evangelizzazione
del Vecchio Continente, la sfida dovrà fondarsi sull’equilibrio del paradosso: annunciare il Dio di una verità che deborda e rompe le misure della
storia e che, contemporaneamente, accoglie i sussulti e i gemiti dell’umano offrendosi come mappa, orientamento, compimento. Senza l’umano non
ci potrà essere annuncio del Vangelo e senza la forza d’urto del Vangelo
ogni proposta umana risulterà drammaticamente monca» (20).
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L’intento di meglio far emergere questa impresa paradossale dell’annuncio del Vangelo, tra compimento e sorpresa dell’umano, nel nostro tempo
presiede pure alla struttura del volume. Una prima parte di esso viene dedicata alla decifrazione della mentalità corrente che è all’origine dell’odierna crisi del credere; una seconda, più ampia e articolata, al duplice
compito che attende il cristianesimo oggi: restituire l’immaginario diffuso
di Dio, della Chiesa e dello stesso atto di fede ai loro tratti originari, disegnati dalla predicazione neotestamentaria; e nello stesso tempo, agire sulla coscienza degli uomini e delle donne di oggi, sempre a rischio di venire anestetizzata dai poteri forti dell’economia e della tecnica, al fine di risvegliare quelle domande profonde e interiori, da sole capaci di illuminare di senso l’esistenza umana.
Il quadro attuale del mondo contemporaneo emerge ora, dalle analisi di
Cosentino, come ambivalente rispetto all’urgenza missionaria della Chiesa. Da una parte si riconosce che con la secolarizzazione accade una crisi
della fede, da intendere alla radice come crisi delle condizioni di possibilità della fede, prima che dei suoi contenuti o delle sue forme sociali; dall’altra si evidenzia il guadagno netto che la fede sperimenta – può sperimentare – con l’avvento di una più grande libertà da parte del soggetto
contemporaneo: la fede oggi non è più, per così dire, “ovvia”, “culturale”,
“tradizionale”, ma si dà, ogni volta, come una possibilità «per scelta personale e all’interno di un rapporto personale con il trascendente» (55). Da
qui l’invito a non insistere eccessivamente in una lettura solamente pessimistica e critica della mentalità corrente, ma a coglierne i tratti di ricerca
aperta, di rottura con una certa assolutizzazione della razionalità e del mito del progresso, di spazio concesso alla pluralità, al dubbio, all’ipotesi.
Tratti che possono pure diventare sponde significative per l’urgente compito della nuova evangelizzazione.
In un tale mutato contesto culturale, poi, sottolinea giustamente e pertinentemente Cosentino, accade una mutazione significativa della stessa figura dell’ateo, non più caratterizzata da un radicale, esplicito e netto rifiuto della trascendenza, bensì da una sorta di indifferenza, incredulità, disaffezione e distacco rispetto alle tematiche intrecciate alla questione di
Dio: «viviamo dunque in una società post-atea: l’ateismo ha raggiunto lo
strato profondo della coscienza, del cuore, dell’immaginazione di Dio.
Senza fare rumore, esso ha privato Dio della sua importanza e della sua
problematicità, conducendo verso una quotidiana e pratica miscredenza.
Ora, indubbiamente ciò significa che il fenomeno della non credenza
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odierna, più che rispondere al registro di una battaglia di tipo intellettuale e invocare una teologia razionale delle prove e delle ragioni della fede,
è una realtà che interessa lo stato del cuore e degli affetti dell’uomo» (73).
Quale sarebbe, allora, il giusto posizionamento del cristianesimo di
fronte a questa descrizione complessiva del tempo che ci è dato vivere? La
suggestione che guida il lavoro di Cosentino è duplice: per prima cosa si
tratta di verificare quanto nell’attuale opera di evangelizzazione e di presenza pastorale della Chiesa non solo non corrisponda al pensiero di Cristo, ma più pericolosamente ne costituisca addirittura una sorta di ostacolo per una sua possibile accoglienza da parte degli uomini e delle donne
della nostra epoca; in secondo luogo, si dovrà pure prendere in considerazione la necessità di istituire un discorso teologico, pastorale, catechetico,
capace di raggiungere quelle sfere dell’interiorità oggi maggiormente inaridite o quantomeno addormentate da stili di vita e di pensiero superficiali, volutamente indotti da una ideologia del mercato e della tecnica, che
ama aver a che fare solo con consumatori e clienti poco inclini alla pratica del discernimento e dell’autoriflessione.
Da qui scaturisce l’impianto della seconda parte del volume. Innanzitutto vengono poste a tema le rappresentazioni di Dio che abitano l’immaginario diffuso: «ci sono state e ci sono troppe caricature di Dio, troppe immagini sbagliate e parziali, severe e poco umane di lui, troppi volti di Dio
costruiti sulla misura dei bisogni e degli egoismi umani o sul metro delle
intenzioni clericali, troppi idoli scambiati per Dio e che altro non sono se
non una sua deformazione» (89). Un simile lavoro di discernimento viene
poi effettuato sul modo in cui la Chiesa si struttura e si presenta in mezzo
al mondo: al riguardo, in sintesi, il problema può essere riassunto nella fatica che la comunità credente compie nel «prendere atto che una certa cristianità è tramontata e che il dialogo con l’uomo deve ripartire da basi che
non sono più nettamente religiose» (121), e dalla fatica a recuperare quel
suo essenziale decentramento a favore della causa del Regno, piuttosto
che della propria autopromozione e difesa. Il terzo terreno di dissodamento e di azione purificatrice riguarda, infine, l’idea della fede, troppo spesso ridotta a essere nulla di più di «un pacchetto definito, un programma
stampato, un corpo di norme, un’ombra terroristica distesa sulle esperienze umane e tesa a suscitare paure e sensi di colpa» (199). Le pagine di
questa parte del volume non sono, in ogni caso, destinate unicamente a
mostrare la necessità di questo lavoro di purificazione; sono pure attraversate da un prezioso esercizio di recupero dell’intenzione originaria della
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rivelazione evangelica circa il volto di Dio, la natura e missione della
Chiesa e infine la struttura decisiva dell’atto di fede. Molte intuizioni che
qui Cosentino sviluppa appaiono particolarmente promettenti per il compito della nuova evangelizzazione.
Un tale lavoro ad intra non è, tuttavia, sufficiente per poter rinnovare
anche nel nostro tempo le condizioni del credere: «per poter riscoprire Dio
oggi e ritornare a credere è primariamente necessario un lavoro antecedente all’annuncio del Vangelo che consiste in un’azione di liberazione umana a tutti i livelli» (169). A meglio illustrare questo compito sono consacrate le pagine dell’ultimo capito del testo. Ispirandosi al suo maestro, il
gesuita Michael Paul Gallagher, ed alle pioneristiche intuizione di J.H.
Newman, Cosentino propone una mappa su cui lavorare per aprire nuove
possibilità alla fede: «si tratta di riflettere e lavorare per aprire dei nuovi
ingressi alla fede, muovere lo sguardo interiore dell’uomo verso una nuova direzione, condurre allo stupore della fede, aprire dei varchi verso Dio
a partire dall’umanità spesso ferita o prigioniera dell’uomo» (170). Più
concretamente si tratterà di mettere in campo un pensiero e una prassi cristiana capaci di a) liberare l’io, b) suscitare il desiderio, ed infine c) mostrare lo scandalo del Vangelo.
Alla fine della sua indagine circa le implicazioni teologiche e pastorali
della nuova evangelizzazione, Cosentino non nasconde un cauto ottimismo. A suo avviso, infatti, «il cristianesimo di oggi si trova a un passo da
un “cortile”, fuori dal tempio, in cui cresce la sete profonda di una verità
che scaldi il vissuto, che allarghi gli orizzonti ristretti degli affetti, che aiuti a gestire il disordine delle emozioni troppo tirate in ballo da stimoli continui, che parli al cuore e insegni la capacità di amare – soprattutto se
stessi – e che sappia lentamente ricondurre l’io verso il proprio centro interiore, raccogliendolo da quel continuo svuotamento di idee e di sogni che
la moderna cultura e la tecnica dei mass media operano nella vita quotidiana, rovesciando nella nostra anima tonnellate di superficialità» (207).
Coprire tale distanza, tale passo, è questione che conduce oltre i sentieri
della riflessione teologica, seppure un tale gesto, oggi più che necessario,
non sia possibile senza averli prima attraversati.
Armando Matteo
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GAETANO DI PALMA – PASQUALE GIUSTINIANI (edd.)
Teologia e modernità. Percorsi tra ragione e fede
Verbum Ferens, Napoli 2010, 240 pp.
La collana “Biblioteca Teologica Napoletana”, istituita dalla sezione S.
Tommaso D’Aquino della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e diretta dal prof. Pasquale Giustiniani, si è recentemente arricchita di
un nuovo, interessante volume collettaneo dedicato – come recita sinteticamente ed efficacemente il suo titolo – al rapporto tra teologia e modernità.
Quest’ultimo termine è qui inteso come tratto unificante di un mutamento
paradigmatico della razionalità; una razionalità che è sempre più orientata
verso un approccio empirico alla realtà che pare di principio escludere ogni
ricerca possibile della verità che non coincida con il riscontro positivistico
puntuale e fattuale. E in tale veste viene inoltre considerata – la modernità – quale matrice ultima e fondante delle diverse forme della razionalità e
mentalità contemporanea: «in questi ultimi anni, modernità è un terminecategoria che evoca tante cose in campi diversi, tuttavia tutte in grado di
interpellare e sfidare la fede, e la teologia che la innerva, al confine tra ragioni della ragione e ragioni della rivelazione, tra autonomie disciplinari e
rivelazione divina, tra visione cristiana e visione laica o debolistica della
società, della tecnica, della finanza, dell’economia» (10).
Il discorso della modernità interpella dunque la teologia, che è appunto l’intelligenza della fede chiamata a mostrarne le buone ragioni nel contesto pubblico generale, e ad essa – alla teologia – non è possibile sottrarsi al compito di una risposta: «Che cosa fare, da cristiani, di fronte a queste operazioni antropologiche moderne, peraltro ancora persistenti, e non
soltanto negli esiti, nonché di fronte a queste riconfigurazioni ultramoderne della biologia e dell’antropologia, dunque della stessa razionalità umana, che sembrano talvolta cospirare a tutto danno della ricerca della verità, che pure dovrebbe continuare a restare un impegno comune di scienziati, filosofi, storici e teologi, cioè degli esseri umani in cammino verso il
futuro? Ci si dovrà, forse, limitare alla constatazione teorica di difformità,
lamentarsi della disseminazione delle conoscenze, irrigidirsi in logiche
conservatrici sul piano teorico, magari rendendosi, sul piano pratico, disponibili al compromesso, forse per fruire ancora dei vantaggi di una certa omologazione con la modernità?» (13).
Esattamente in conformità con la linea di ricerca che orienta la Sezione
S. Tommaso d’Aquino della Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale –
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l’interrogazione circa lo statuto di una ragione teologica che non eviti il
dialogo con le ragioni “altre” e con quelle degli altri saperi –, l’orientamento generale dei contributi proposti nel volume è dettato dalla necessità di istituire un possibile dialogo tra teologia e modernità, che non può
non essere avvertito come particolarmente urgente da parte di quest’ultima, se desidera evitare il pericolo dell’autoreferenzialità.
Già queste prime battute di presentazione permettono di affermare che
ci si trova davanti a un volume molto impegnativo, destinato in modo particolare a interessare un pubblico particolarmente qualificato.
I cinque contributi del testo sono divisi in due sezioni. La prima – Quale ragione per quale fede – ospita i contributi di Carmelo Dotolo, Razionalità teologica e mutamento di paradigma. Considerazioni sul cammino della teologia postconciliare, e di Pasquale Giustiniani, Verso una riconciliazione tra pensiero cristiano e modernità? Ipotesi di un percorso. La seconda
sezione – Declinazioni di una ragione illuminata dalla fede – accoglie le
seguenti riflessioni: Gaetano di Palma, «Troppo caro sarebbe il riscatto di
una vita: non sarà mai sufficiente» ( Sal 49, 9). Ragioni bibliche per una
nuova visione della persona; Luigi Rossi, Il bios di Gesù tra ragione storica e ragione narrativa; Donato Matassino, La laicità della scienza.
Il lettore troverà dunque ampio materiale relativo all’epistemologia teologica, alla ricostruzione storica delle reazioni cattoliche all’avanzata della mentalità moderna, alla rilettura del tema della creazione dell’uomo ad
immagine di Dio, alla svolta ermeneutica della e nella ricerca storica e infine alle sempre ricorrenti questioni di scontro-incontro tra fede e scienza.
Non essendoci possibile dare preciso resoconto di tutto questo ampio orizzonte di impegnata e impegnativa riflessione, vorremmo riportare un punto di discussione che ci pare assai significativo. I due curatori del volume
assai acutamente condividono l’idea per la quale è con la prospettiva bioantropologica di Charles Darwin che accade il pieno originarsi della “frattura epistemologica moderna”. Con essa «la natura umana diviene luogo
di un’assenza, all’interno della quale si possono perciò dipanare altrettanti tentativi, sempre in fieri, di comprensione del reale e dello stesso uomo,
tutti segnati da mediazioni ermeneutiche ed euristiche, perfino nei territori della razionalità teologica [...] Nessuna forma di razionalità può più storicamente rivendicare la chiave della reale significazione delle cose» (6).
Proprio per questo risulta assai significativo il lavoro per l’identificazione
di una razionalità teologica in grado di mostrare pubblicamente che – è la
conclusione del saggio di Gaetano di Palma – «il riferimento trascendente
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sia l’unico che possa salvare l’uomo da se stesso, non permettendogli di
cadere nell’idolatria verso le cose, verso i potenti di questa terra e verso le
leggi dell’economia e della scienza, quando queste sono sganciate dalla loro funzione di servizio e assurgono a criteri a cui sacrificare non solo la dignità, ma la stessa vita umana» (86).
Armando Matteo
ENRICA MARTINELLI
L’azione penale nell’ordinamento canonico.
Uno studio di diritto comparato
Giappichelli Editore, Torino 2011, 211 pp.
Il volume in questione si caratterizza per l’originalità del suo intento, volendo rappresentare uno studio comparativo del diritto canonico e del diritto civile statale relativamente alla figura dell’azione penale che, nel diritto canonico, assume la denominazione di “criminale”. Tale particolare
metodo di indagine consente, in relazione all’argomento sopra indicato, di
evidenziare, come sottolinea l’Autrice, «l’esistenza di canali di osmosi interordinamentale che contribuiscono a sgombrare il campo da più di un
equivoco e a far chiarezza di luoghi comuni» (Introduzione, IX).
Il lavoro è suddiviso in due parti. La prima, dedicata all’analisi della
funzione della pena e della discrezionalità dell’azione penale nell’ordinamento canonico, si compone di tre capitoli. Dopo aver esposto alcune considerazioni generali in ordine al principio di discrezionalità nel diritto penale (capitolo I), si passa ad esaminare la pena nel sistema penalistico canonico, evidenziando, in particolare, oltre agli elementi strutturali e funzionali della sanzione canonica, la peculiarità del diritto penale della
Chiesa – avente come scopo quello della salus animarum – in rapporto al
diritto penale secolare, nonché il fatto che nell’ordinamento ecclesiale il
ricorso al processo penale e all’eventuale inflizione della pena costituisce
un’extrema ratio, ovvero l’ultima risorsa, cui ricorrere quando anche i mezzi di natura pastorale, di cui al can. 1341 CIC, si sono dimostrati insufficienti per ottenere la riparazione dello scandalo, il pentimento del reo e il
ristabilimento della giustizia (capitolo II). Successivamente (capitolo III)
l’attenzione viene incentrata sulla fase dell’applicazione della pena ove,
dopo aver sottolineato come la triplice finalità di cui al summenzionato
can. 1341 CIC costituisca un vincolo all’esercizio dell’azione criminale ad
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opera della competente autorità ed aver altresì analizzato le due categorie
di sanzioni canoniche (segnatamente quella delle pene medicinali o censure e quella delle pene espiatorie) alla luce delle predette finalità, viene
esaminato l’aspetto relativo all’inflizione della poena tramite il processo
giudiziario od amministrativo, sottolineandosi come la scelta del tipo di
processo penale da instaurare spetti, ex can. 1342 CIC, all’Ordinario che,
tuttavia, non è totalmente libero nell’esercizio della facoltà assegnatagli,
non potendo egli comunque optare per la via amministrativa a meno che
ricorrano giuste cause che si oppongono a che si celebri un processo giudiziale, ed in ogni modo è a quest’ultimo che lo stesso dovrà indirizzare la
sua scelta qualora si tratti di infliggere o dichiarare pene perpetue o quelle pene che la legge o il precetto che le costituisce vieta di applicare per
decretum. Il capitolo si conclude, poi, con alcune considerazioni concernenti la fase della praevia investigatio di cui al can. 1717 CIC e con l’analisi delle cause che possono costituire un impedimento all’instaurazione di un processo penale.
La seconda parte del lavoro è dedicata all’esame della discrezionalità
dell’azione penale negli ordinamenti statali, in particolar modo nel diritto
Nord-americano e nel diritto dello Stato italiano.
Al primo aspetto è dedicato il capitolo IV ove, dopo aver tratteggiato un
aspetto procedurale che accomuna l’ordinamento statunitense e quello canonico – consistente fondamentalmente nel fatto che la «celebrazione del
processo penale è […] per entrambi, il risultato di un provvedimento valutativo discrezionale dell’organo titolare della funzione, che riconosce a proprio vincolo di scopo il perseguimento del bene comune» (122) – si passa
ad analizzare il diverso rapporto sussistente tra la libertà e l’obbligo nell’esercizio discrezionale dell’azione penale nei due succitati ordinamenti, affrontando, altresì, la problematica afferente i «controlli sull’esercizio concreto del potere di scelta riconosciuto al pubblico ministero» (130), per finire, fra l’altro, con l’esaminare il plea bargaining, proprio del sistema di
giustizia criminale Nord-americano, consistente nel «potere del prosecutor
di negoziare l’esercizio e il contenuto dell’azione penale, offrendo benefici
all’imputato in cambio della sua confessione (guilty plea)» (141).
Nel quinto e ultimo capitolo si esamina il profilo afferente l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale nell’ambito del diritto processualpenalistico italiano ove, dopo aver in merito considerato le note comuni di
altri sistemi processuali europei (segnatamente quello inglese, tedesco e
francese), ci si sofferma, fra l’altro, sulle disposizioni normative regolanti
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tale aspetto, ovvero l’art. 50 e l’art. 405 co. 1 c.p.p. L’Autrice in merito
conclude che, pur tenendo conto dei «differenti strumenti tecnici utilizzati dall’ordinamento statuale», il pubblico ministero, come anche la competente autorità ecclesiastica, può comunque «esercitare un impulso inibitorio nei confronti del meccanismo processuale, sulla base di valutazioni di
opportunità, raccordate al raggiungimento di un bene superiore, variamente identificato con il fine restaurativo, riparativo o, ancora, correzionale»
(167). In tal senso vengono anche sottolineati i diversi «spazi di discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale» (171) costituenti deroghe al succitato principio di obbligatorietà.
Claudio Papale
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