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Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana
Anno 2 - N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
La secessione è la norma
L’autodeterminazione
nel Diritto Internazionale
I paradossi del “diritto
di autodeterminazione
dei popoli”
Neofederalismo
e “piccole patrie”
Criteri per
l’applicazione del diritto
di autodeterminazione
L’autodeterminazione
nel mondo
Intervista a Gianfranco Miglio
Intervista a Ettore A. Albertoni
7
Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana
Periodico Bimestrale
Anno II - N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla
“Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a
contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.
Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana,
C.P. 792, via Cordusio 4, 20123 MILANO
La secessione è la norma - Brenno
L’autodeterminazione nel Diritto Internazionale
Una carrellata dei principali documenti pertinenti
Carlo Corti
I paradossi del “diritto di autodeterminazione
dei popoli” - Alessandro Vitale
Neofederalismo e “piccole patrie”: per superare
lo Stato moderno - Carlo Lottieri
Criteri per l’applicazione del diritto di autodeterminazione - Gilberto Oneto
L’autodeterminazione nel mondo: le strade degli altri
La secessione della Padania comincia
dalle Regioni - Alessandro Storti
Appendice: altre vie per raggiungere
l’indipendenza della Padania
Intervista a Gianfranco Miglio - Alessandro Storti
ntervista a Ettore A. Albertoni - Alessandro Storti
Il nome vero dei nostri paesi
Biblioteca Padana
Musica Padana
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La secessione è la norma
ei 47 stati oggi esistenti in Europa, ben 25
(53%) hanno conquistato l’indipendenza
nel corso del XX secolo (1).
Di questi, soltanto la Yugoslavia è sorta dall’unione di più parti (2) mentre tutti gli altri sono
nati dalla separazione da uno stato esistente.
In particolare, due (Malta e Cipro) sono colonie che si sono liberate, lo Stato del Vaticano nasce come una sorta di “restituzione-ammenda”
per una annessione violenta e tutti gli altri 21
traggono vita dalla secessione da uno stato di
cui erano parte.
Di questi, quattro sono il risultato di eventi
bellici che hanno coinvolto aree molto più estese (le guerre balcaniche per l’Albania e la prima
guerra mondiale per Finlandia, Polonia e Cecoslovacchia) ma che hanno visto la partecipazione attiva di movimenti indipendentisti locali.
Tutti gli altri si sono liberati e separati senza
alcun consistente intervento esterno e grazie a
movimenti e lotte di liberazione che si sono svolte nella stragrande maggioranza dei casi in forma pacifica. In realtà, solo l’Irlanda ha ottenuto
l’indipendenza con una lunghissima e sanguinosa guerra di liberazione; la Croazia e la Bosnia hanno dovuto combattere per periodi più o
meno lunghi ma soprattutto per questioni legate alla definizione di confini e a causa di una situazione di estremo frastagliamento e compenetrazione delle comunità etniche locali. La Slovenia - che non aveva gli stessi problemi di spartizione - si è limitata a scontri militari poco più
che simbolici.
Tutti gli altri 14 hanno seceduto e ottenuto la
loro libertà con atti di volontà politica, con colpi
di mano e con manifestazioni elettorali di autodeterminazione, sviluppati su tempi più o meno
lunghi che hanno a volte conosciuto momenti
di disordini e tensioni ma mai situazioni di violenza che abbiano potuto far loro perdere la connotazione di operazioni pacifiche.
D
Sintomaticamente si riscontrano condizioni
del tutto analoghe anche nel comportamento dei
numerosi movimenti autonomisti e indipendentisti oggi attivi in Europa.
Fra i numerosi paesi dove sono in atto forme
di lotta per l’indipendenza o per il raggiungimento di una fortissima autonomia, solo 3 (Irlanda
del Nord, Paesi Baschi, Corsica) sono interessati
da episodi di violenza sporadica o sistematica e
solo nei paesi caucasici (e cioè in un’area piuttosto marginale in termini geografici e culturali
rispetto al resto d’Europa) si assiste a vere e proprie operazioni di guerriglia o di guerra civile.
Da tutti questi dati si traggono alcuni elementi di riflessione estremamente importanti.
Innanzitutto che la secessione non è un atto
straordinario (e improbabile) ma che costituisce
in Europa il normale strumento di raggiungimento dell’autonomia e della libertà politica (3).
E poi che la secessione è stata nella stragrande
maggioranza dei casi in cui ha avuto luogo un
atto assolutamente pacifico (4).
Raccontano delle volgari balle quelli che ci dicono che la secessione è una pericolosa stravaganza storica, che le secessioni comportano inevitabilmente lunghe scie di sangue e di violenze
e che le divisioni non possono che portare danni
a tutti.
Questi agitano spettri bosniaci dimenticando
che lì - secessione o non secessione - si sono sempre accapigliati e che la divisione politica può proprio essere l’unico modo per evitare che continuino a farlo.
Questi agitano immagini di tragedia che derivano solo dalla loro malafede e dalla frequentazione giovanile di film come Via col Vento e che
non vogliono tenere conto di come si sia mossa
la storia nella stragrande maggioranza dei casi.
Questi ci sbattono in faccia le bombe basche
(spesso, oltre a tutto, di origine “istituzionale”) e
si dimenticano delle gioiose manifestazioni dei
(1) In realtà essi sarebbero 27 considerando anche l’Austria e
l’Ungheria che però esistevano formalmente come stati autonomi dalla metà del secolo precedente.
(2) La Yugoslavia è nata dall’unione di due stati indipendenti
(Serbia e Montenegro) che si sono allargati a spese dei vicini
inglobando numerose altre comunità erroneamente ritenute
simili. L’unione non ha portato fortuna alla Yugoslavia ed è
sintomatico che la federazione si sia ridotta oggi ai soli due
stati originari con qualche appendice riottosa (il Kossovo albanese e la Vojvodina ungherese).
(3) Su 25 stati europei sorti nel ‘900, ben 21 (84%) sono nati
da una secessione.
(4) Delle 21 secessioni, solo 3 (14%) hanno avuto connotazioni violente.
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Quaderni Padani - 3
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Le secessioni in Europa nel ’900
1 - Norvegia (1905, dalla Svezia)
2 - Albania (1913, dalla Turchia)
3 - Finlandia (1917, dalla Russia)
4 - Polonia (1918, dalla Russia)
5 - Cecoslovacchia (1918, dall’Austria-Ungheria)
6 - Irlanda (1919/22, dalla Gran Bretagna)
7 - Islanda (1918/44, dalla Danimarca)
8 - Slovenia (1990/91, dalla Yugoslavia)
9 - Estonia (1991, dall’Unione Sovietica)
10 - Lettonia (1991, dall’Unione Sovietica)
11 - Lituania (1991, dall’Unione Sovietica)
12 - Bielorussia (1991, dall’Unione Sovietica)
13 - Ucraina (1991, dall’Unione Sovietica)
14 - Moldavia (1991, dall’Unione Sovietica)
- Georgia (1991, dall’Unione Sovietica)
- Armenia (1991, dall’Unione Sovietica)
- Azerbaigian (1991, dall’Unione Sovietica)
15 - Croazia (1991, dalla Yugoslavia)
16 - Macedonia (1991/92, dalla Yugoslavia)
17 - Bosnia (1992, dalla Yugoslavia)
18 - Slovacchia (1992/93, dalla Cecoslovacchia)
paesi baltici e delle civili votazioni di Norvegia e
Slovacchia.
Ci prospettano scenari di miseria e fingono di
non vedere che ovunque i paesi liberati sono diventati più prosperi, che sempre la secessione ha
migliorato le loro condizioni economiche, per
non parlare di quelle sociali: e se non fosse così
perché l’avrebbero fatto?
La storia delle secessioni europee è una statistica di pace e civiltà. Noi vogliamo che tale statistica si arricchisca di occorrenze e si colori sempre più di pace. Noi siamo pacifici e civili. E gli
Italiani?
Brenno
24 - Quaderni Padani
A - Irlanda del Nord
B - Scozia
C - Galles
D - Paese Fiammingo
E - Bretagna
F - Galizia
G - Paese Basco
H - Catalogna
I - Savoia
L - Padania
M - Tirolo
N - Corsica
O - Toscana
P - Sardegna
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L’autodeterminazione
nel Diritto Internazionale
Una carrellata dei principali documenti pertinenti
di Carlo Corti
I
l Diritto di autodeterminazione (o di autodecisione), pur essendo di elaborazione dottrinale relativamente recente, è stato ampiamente pubblicizzato ed elevato quasi allo status
di verità autoevidente. Ad esso si paga ormai,
magari malvolentieri, un tributo formale: le divisioni sono spostate all’interno dell’interpretazione che vi si vuole attribuire.
La dottrina dell’autodeterminazione nasce con
l’affermarsi della sovranità popolare, attraverso le rivoluzioni nordamericana e francese. Il
primo documento in cui si trova una enunciazione di quello che sarebbe in seguito divenuto
noto nella dottrina come “Diritto di Autodeterminazione” è la Dichiarazione d’Indipendenza
americana, del 1776, nella quale si legge:
“ Consideriamo come evidenti queste verità:
che tutti gli uomini sono creati uguali e dotati
dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali la vita, la libertà, il perseguimento della felicità; che, per assicurare questi diritti, vengono
istituiti tra gli uomini governi i quali attingono
i loro giusti poteri dal consenso dei governati;
che, ogni qualvolta una forma di governo porta
a distruggere questi scopi, il popolo ha diritto
di cambiarla o di abolirla, istituendo un altro
governo ... (1)
L’espressione “autodeterminazione delle nazioni” compare per la prima volta in un testo
del 1865 il “Proclama sulla questione polacca”
approvato dalla Conferenza di Londra della prima Internazionale.
L’apparizione ufficiale sulla scena politica in-
L'autodeterminazione nei documenti
delle Nazioni Unite
La Carta della Nazioni Unite, firmata a San
Francisco il 26 giugno 1945, recita, all’Art. 1:
I fini delle Nazioni Unite sono:
1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale ...
2. Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto del principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli, ... (2)
Ed all’art. 55 (Sotto il capitolo IX “Cooperazione internazionale Economica e sociale”):
Al fine di creare le condizioni di stabilità e di
benessere che sono necessarie per avere rapporti
pacifici ed amichevoli tra le nazioni, basati sul
(1) La traduzione è quella riportata nel “Dizionario di Politica UTET”, Seconda Edizione sub voce “Autodeterminazione”.
(2) Testo italiano contenuto nella L.17 Agosto 1957 n. 848
con la quale la Carta è stata ratificata dal Parlamento Italiano.
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
ternazionale del Diritto di autodeterminazione
avviene nel corso della Prima Guerra Mondiale.
Essa è dovuta da una parte a Lenin, con le sue
“Tesi sulla Rivoluzione Socialista e sul Diritto
delle nazioni all’autodeterminazione”, dall’altra
al presidente statunitense Woodrow Wilson, con
i suoi “14 punti” su cui si sarebbe dovuta basare
la pace.
Il diritto di autodeterminazione, non trovò posto nel testo finale della statuto della Società delle Nazioni, benché fosse stato presente nei primi due progetti di redazione dello stesso.
Accenni al diritto di autodeterminazione ricorrono in documenti internazionali stilati nel
corso della Seconda Guerra Mondiale, a partire
dalla Carta Atlantica dell’agosto 1941.
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Quaderni Padani - 5
rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti
o dell’autodecisione dei popoli, ...
Le Nazioni Unite hanno in seguito sviluppato
il tema dell’autodeterminazione con la Risoluzione 1514 (XV) “Dichiarazione sull’assicurazione dell’Indipendenza ai paesi e popoli coloniali”, approvata dall’assemblea Generale nel 1960,
annus mirabilis della decolonizzazione:
Art. 2 - Tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione; in virtù di tale diritto essi determinano liberamente il proprio status politico e
liberamente perseguono il proprio sviluppo economico, sociale e culturale.(3)
All’art. 6 si aggiunge tuttavia, secondo le note
contraddizioni:
Ogni tentativo volto alla parziale o totale rottura dell’unità nazionale e l’integrità territoriale
di un paese è incompatibile con i fini ed i principi della Carta delle Nazioni Unite.
Il riferimento quali beneficiari è a tutti i Popoli, tanto nella Carta che nella Dichiarazione
1514 del 1960, relativa all’indipendenza dei Popoli coloniali.
Il sostenere che il principio di autodeterminazione compare in questi documenti a beneficio esclusivo delle popolazioni coloniali risulta
infondato sulla base dei testi stessi.
Gli stati sorti dal processo di decolonizzazione hanno avuto interesse ad avvalorare la tesi
che l’autodecisione varrebbe solo per il distacco
dalla potenza coloniale, poiché si tratta nella
maggior parte dei casi di compagini caratterizzate da forte multietnicità, le quali hanno spesso sposato il tradizionale modello occidentale
di stato, che fa dell’omogeneità culturale e psicologica dei cittadini di ogni area un postulato
ed un progetto.
Si è assistito dunque a questo paradosso: se
nel trentennio 1915-45 si tendeva a considerare
come più o meno tacitamente inapplicabile il
principio nei paesi extraeuropei ad amministrazione coloniale, nel trentennio successivo, ed
anche oltre, si è teso spesso ad avvalorare una
visione diametralmente opposta: ad essere escluse dall’applicazione sono apparse le popolazioni
dei vecchi territori “metropolitani”. Questa nuova arbitraria limitazione è apparsa sempre più
indifendibile, di fronte all’«effetto dimostrazione» dato dallo smantellamento dei sistemi coloniali, al diffondersi delle teorie sul cosiddetto
“colonialismo interno”, ed alla generale crisi
della forma-stato tradizionale. In definitiva si
impone la considerazione che dominio “coloniale” significa qualsiasi forma di governo che il
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Popolo interessato interpreta liberamente come
tale.
Se il superamento del colonialismo classico
appariva alcuni decenni or sono l’attuazione
principale dell’autodecisione, la storia stessa si
sta incaricando, come spesso accade, di far prevalere la generalità dei termini sull’effettività
parziale che era stata loro accordata in origine.
Un grande esempio in questo senso è offerto dall’applicazione della stessa Dichiarazione di Indipendenza americana: in essa si attesta che tutti
gli uomini sono stati creati eguali con diritto
alla vita e alla libertà, ma ci vollero alcune generazioni perché questo enunciato venisse applicato agli afro-americani.
Nel 25° dell’Organizzazione venne adottata la
Risoluzione 2625 (XXV) che recita, sotto il titolo “Il principio degli uguali diritti e dell’autodeterminazione dei popoli”:
...tutti i popoli hanno il diritto di determinare liberamente, senza interferenza esterna, il
proprio status politico e di perseguire il proprio
sviluppo economico, sociale e culturale, ed ogni
Stato ha il dovere di rispettare questo diritto in
conformità con le disposizioni della Carta. (3)
Ogni Stato ha il dovere di promuovere, attraverso azione congiunta o separata, la realizzazione del principio di eguali diritti e autodeterminazione, in conformità con le disposizioni
della Carta, e di prestare assistenza alle Nazioni Unite nell’adempimento delle responsabilità
ad esso affidate dalla Carta concernenti l’applicazione del principio, al fine di:
a) Promuovere relazioni amichevoli e cooperazione fra gli stati; e
b) portare rapidamente a compimento il colonialismo, avendo il dovuto riguardo alla volontà liberamente espressa dei popoli interessati;
e tenendo in mente che la soggezione di popoli ad altrui soggiogamento, dominazione e
sfruttamento costituisce una violazione del
principio, così come una negazione di diritti
fondamentali, ed è contraria alla Carta.
Ogni stato ha il dovere di promuovere attraverso azione congiunta e separata rispetto universale ed osservanza dei diritti umani e delle
libertà fondamentali in conformità con la Carta.
Lo stabilirsi di uno stato sovrano ed indipendente, la libera associazione o integrazione con
(3) Traduzione nostra dal testo ufficiale in inglese.
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
uno Stato indipendente, o il passaggio ad ogni
altro status politico liberamente determinato
da un popolo costituiscono modalità di attuazione del diritto di autodeterminazione da parte di quel popolo.
Ogni Stato ha il dovere di astenersi da qualunque azione violenta che privi i popoli cui ci
si è sopra riferiti nell’elaborazione del presente
principio del diritto all’autodeterminazione, alla
libertà e all’indipendenza. nella loro azione contro, e resistenza a tale azione violenta in perseguimento del proprio diritto di autodeterminazione, tali popoli hanno titolo a cercare e ricevere sostegno in conformità con i fini ed i principi della carta ...
Tutto bene? Leggiamo la ciliegina finale del
capitolo:
Niente nei precedenti paragrafi sarà interpretato come autorizzante o incoraggiante qualunque azione che smembrerebbe o menomerebbe, in tutto o in parte, l’integrità territoriale o
unità politica di stati sovrani indipendenti che
si comportano in conformità con il principio di
eguali diritti e autodeterminazione dei popoli
come sopra descritti, e perciò dotati di un governo rappresentativo dell’intero popolo appartenente al territorio, senza distinzione di razza, credo o colore.
Ogni stato si asterrà da qualunque azione mirata alla rottura dell’unità nazionale ed integrità territoriale di ogni altro Stato o Paese.
Una lettura strumentale del penultimo capoverso esenterebbe di fatto dall’obbligo di rispettare il Diritto di autodeterminazione qualsiasi
stato che non sia scopertamente razzista o teocratico, togliendo così ogni valore alle notevoli
enunciazioni contenute nello stesso Documento. Appare cruciale pertanto stabilire se uno stato, sia esso pure dotato di forme di rappresentatività di tutte le popolazioni dimoranti entro i
suoi confini, possa essere ritenuto conformarsi
al diritto di autodeterminazione qualora esso
postuli la propria indivisibilità e preveda il perseguimento con la forza di qualsiasi atto che non
si conformi a tale postulato.
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
Documenti di ambito europeo
L’universalità del principio di autodecisione ha
trovato una nuova enunciazione nell’ “Atto Finale della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa” del 1975 (“Atto di Helsinki”), ove si
legge, nella “Dichiarazione sui Principi che reggono le relazioni fra gli stati partecipanti”, all’art.
VIII:
In virtù del principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli, tutti i popoli hanno sempre diritto, in piena libertà, di stabilire quando e come desiderano il loro regime
politico interno ed esterno senza ingerenza esterna, e di perseguire come desiderano il loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale (4).
È da notare che non sussistevano in Europa
esempi di colonialismo classico che potessero giustificare letture restrittive del principio. Non a
caso, inoltre, fu impiegato, a Helsinki, il termine
“inviolabilità”, che implica un mutamento forzoso, e non, poniamo, “immutabilità” o “intangibilità”. Era la delegazione sovietica che avrebbe voluto vedere sancita la “immutabilità” dei confini.
Infine nella “Carta di Parigi per una Nuova Europa” del 1990 si ribadiscono senza svilupparli i
concetti presenti nei documenti sopra ricordati:
Riaffermiamo l’eguaglianza dei diritti dei popoli e il loro diritto all’autodeterminazione conformemente alla carta delle Nazioni Unite ad alle
pertinenti norme di diritto internazionale, incluse quelle relative all’integrità territoriale degli
Stati (5) .
Da questa carrellata si evince la necessità di
un’ulteriore evoluzione giuridica e concettuale
che conduca, contro mille resistenze, a risolvere
le ambiguità e le aporie venutesi a creare, e a sviluppare l’enorme potenziale insito nel principio
di autodeterminazione.
(4) Versione italiana ufficiale. Da “Testimonianze di un negoziato. Helsinki-Ginevra-Helsinki 1972-75”. a cura di Luigi Vittorio Ferraris. Pubblicazioni della Società Italiana per l’Organizzazione internazionale.
Pag. 605 e seguenti.
(5) Versione italiana ufficiale. Da Dossier n. 1 Unità interservizi Studi - relazioni internazionali. Camera dei deputati. Pag.
241 e seguenti.
Quaderni Padani - 7
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I paradossi del “diritto di
autodeterminazione dei popoli”
di Alessandro Vitale
a fine della “pace da caserma” dell’ordine
bipolare ha comportato anche la conclusione della situazione statica sul piano regionale garantita in precedenza dalle due ex superpotenze e dalla sovranità limitata. Se da una
parte oggi si continua a parlare di “globalizzazione” (economica, politica, dell’informazione,
ecc.) si dimentica volentieri che a quest’ultimo
processo si è andato affiancando quello complementare (e in controtendenza) della “localizzazione” e della ripresa massiccia del particolarismo.
La fedeltà nei confronti degli Stati nazionali viene tendenzialmente soppiantata da quella verso
le organizzazioni etnico-nazionali, regionali,
locali. Le frontiere statual-nazionali vengono
sempre più viste e sentite come ostacoli alla creazione di sottosistemi politico-economici razionali, basati sulla volontà di stare insieme, indipendenti e dotati di autogoverno; la pluralità, la
varietà, la differenza vengono contrapposte all’omogeneizzazione unitaria degli Stati e alle
forze di omogeneizzazione economica massificante; i gruppi minoritari, tendenzialmente spianati da queste forze politico-economiche riscoprono i loro diritti, la loro cultura e le loro caratteristiche e li impongono come irrinunciabili contro le forze unificanti e globalizzanti. Questa controtendenza è destinata a intensificarsi e
a diventare permanente proprio parallelamente
ai processi di “globalizzazione” (1). Questo significa che se la dinamica internazionale globa-
L
le va nel senso dell’integrazione, le dinamiche
regionali sono sospinte da questo complesso di
forze nel senso contrario, cioè verso la frammentazione.
A fronte di questa controtendenza stimolata
dall’evolversi delle dinamiche internazionali, le
comunità politiche territoriali diverse dagli Stati
nazionali che tendano a non riconoscere più
questi ultimi come legittimi, per veder riconosciuti i loro diritti all’autogoverno non trovano
nel diritto internazionale (per definizione interstatuale e quindi incapace di riconoscere questa nuova dinamica particolaristica, che si contrappone all’unica organizzazione che ha diritto di cittadinanza nel sistema internazionale,
quella dello Stato nazionale) che il vecchio e
decrepito principio-diritto di “autodeterminazione”.
Non esiste oggi di fatto alcuno Stato che non
abbia da temere dalla trasformazione delle proprie minoranze in soggetti giuridici internazionali, sia nell’Europa orientale che in quella occidentale. Tuttavia il “diritto di autodeterminazione” gioca a favore degli Stati esistenti, contro le minoranze (alle quali al massimo va concessa una certa “autonomia”) ed è quanto di più
confuso vi sia oggi nel campo del diritto internazionale: «Senza alcun dubbio il concetto di
“autodeterminazione” non è chiaro» (2). Questo diritto risulta immerso in una sorta di greyzone, che impedisce di dire con sicurezza che
cosa intenda in merito il diritto internazionale.
(1) James J. Rosenau “Les processus de la mondialisation:
retombées significatives echanges impalpables et symbolique subtile”. In: Etudes Internationales XXIV (settembre 1993), 3. Un altro politologo nordamericano, John
Lewis Gaddis, è su questo fenomeno ancora più drastico
di Rosenau: identificando la dinamica della globalizzazione internazionale con i processi di integrazione, egli
parla di una controtendenza rispetto a questi ultimi an-
cora più netta: quella della frammentazione, ossia dell’esplosione degli Stati nazionali esistenti.
( 2) Theodor Veiter “Political Notion of Ethnicity”. In:
“Ethnicnost danes. Vshodni in zahodni pristop” (L’etnicità oggi. Approcci orientali e occidentali). Revija za narodnostna vprasanja. Razprave in gradivo (Rivista di Studi etnici. Trattati e documenti). Ljubljana, december
1988.
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Esso è per di più caratterizzato da macroscopici paradossi.
1) La nozione di “popolo”
L’Atto finale di Helsinki stabilì il principio della
legittimità del ricorso all’autodeterminazione,
una volta bandite le interferenze esterne, nell’ambito di Stati sovrani e indipendenti. Questo
diritto risultò, almeno teoricamente, applicabile ai “popoli” esistenti all’interno di ciascuno di
tali Stati. Tuttavia in seguito si è evitato di concettualizzare la differenza fra “popoli” e minoranze. Resta del tutto indeterminato che cosa
sia un “popolo”, beneficiario esclusivo del diritto di autodeterminazione. Pertanto resta indeterminato e del tutto arbitrario a chi spetti il
diritto all’autodeterminazione
Questa nozione di “popolo” deriva in realtà dal
nazionalismo ottocentesco (del tutto opposta
allo “etnonazionalismo contemporaneo”) (3) ed
è frutto di una ben precisa ideologia. Essa corrisponde infatti al vecchio nazionalismo e nemmeno minimamente al revival etnico attuale o
alla ripresa della aspirazione alla formazione
delle comunità politiche per consenso volontario e/o per contratto. Considerare l’autodeterminazione come esclusiva per quelle comunità
nelle quali si ha una comunità etnica omogenea, un “popolo”, significa non tenere conto ad
esempio della realtà svizzera (che infatti viene
considerata, in quanto “Confederazione”,
un’anomalia e una sorta di compagine “nonperfetta” rispetto ai canoni giuridici dello Stato
unitario accentrato).
L’idea dell’autodeterminazione concessa solo
a comunità etnicamente omogenee, nel senso
di comunità “nazionali”, corrisponde esattamente al principio nazionale della coincidenza (impossibile quasi ovunque) fra Stato e Nazione (4).
La nozione di “popolo” quale titolare del diritto
di autodeterminazione appare legato esclusivamente all’etnicità. Senza di essa non c’è nemmeno diritto di secessione, ne di cambiamento
di sovranità. Questo però è in totale contrasto
con la formazione contemporanea di nuove iden-
(3) Per non tornare su questa fondamentale distinzione, rimando al mio “Condizioni giuridiche internazionali per il
principio di autodeterminazione” ecc. In: Quaderni Padani
5, (maggio-giugno 1996), 3. È interessante notare che perfino John Stuart Mill sosteneva che «In generale una condizione necessaria delle libere istituzioni è che i confini degli
Stati coincidano all’ingrosso con quelli delle nazionalità».
J. Stuart Mill Considerations on Representative Government.
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tità, che si coagulano in base a bisogni e aspirazioni precise e soprattutto che esprimano l’esigenza, non riconosciuta con un’autentica Costituzione federale, di autogoverno.
2) L’esclusione delle minoranze dal diritto
di autodeterminazione
A partire dall’Atto Finale di Helsinki, alle minoranze venne inibito qualsivoglia diritto di secessione, contrastabile legittimamente con l’uso
della forza (l’VIII Principio del Decalogo dell’Atto
Finale asserisce appunto che solo il “popolo” è
titolare del diritto di autodeterminazione). Tutto ruota attorno al vago concetto di “popolo”.
Solo con la Conferenza di Vienna (1989) si è
posto il problema del riconoscimento dei diritti
collettivi delle minoranze. Nel 1990, tuttavia, nel
documento conclusivo della Conferenza di Copenhaghen è stata inserita una clausola “capestro”, con la quale si ribadisce il principio del
rispetto dell’integrità territoriale degli Stati esistenti, precisando che gli obblighi in materia di
minoranze non implicano il diritto di queste ultime ad agire in contrasto con tale principio.
Questo era in accordo con la mancata attribuzione di un diritto di gruppo alle minoranze, già
sancita a Helsinki e dall’Onu. A Copenhaghen
venne riconosciuto il diritto di autodeterminazione per gli Stati nei quali esistono più “popoli”. Alle minoranze venne fatto espresso divieto
di agire contro l’inviolabilità delle frontiere e
l’integrità dei territori degli Stati esistenti.
La tutela delle minoranze viene inserita dunque nell’ottica umanitaria e non in quella politica. Esse vengono relegate alla garanzia della
salvaguardia del loro “folklore”, che è semplicemente l’anticamera dell’estinzione.
3) La restrizione dell’autodeterminazione
al solo diritto di costituirsi in Stato nazionale
Questo paradosso, che vede la legittimità della contestazione di uno Stato nazionale esistente solo a patto che se ne ricostituisca un’altro e
la contraddizione insanabile fra diritto alla secessione e il riconoscimento dell’ideologia della
Oxford 1924, 384. Il diritto di “autodeterminazione” è strettamente collegato ad una nozione finora controversa e irrisolta: chi sia il titolare del diritto e cosa si debba intendere
per “popolo”.
(4) Un’idea questa che portata alle estreme conclusioni ha
come sbocco logico ad esempio la “Grande Serbia”, che riunisca tutti i serbi ed escluda tutti gli altri: le conseguenze di
queste idee sono sotto gli occhi di tutti.
7
Quaderni Padani - 9
sovranità assoluta, «riduce considerevolmente
il potenziale di liberazione del quale le collettività umane sono portatrici» (5). Tanto più questo è vero oggi, in una fase nella quale domina
la ricerca di comunità politiche “per consenso”,
per soddisfare bisogni precisi e limitatamente a
certi scopi collocati nel tempo.
Si tratta di un paradosso derivante dal “principio delle nazionalità” («Ogni nazione tende a
trasformarsi in Stato»), che fu alla base del diritto di autodeterminazione secondo i presupposti nazionalisti ottocenteschi.
4) La preminenza dell’ordine interno degli Stati
Ogni Stato esiste per un diritto riconosciuto
internazionalmente e toccare la sua organizzazione è ritenuto minacciare l’ordine sociale interno e/o l’equilibrio internazionale. Questa visione internazionale coincide con l’argomento
classico dei giuristi, cioè con quello classico della
“unità-indivisibilità” dello Stato, principio scritto in numerosi preamboli delle Costituzioni esistenti, che viene frequentemente usato non solo
dai giuristi, ma anche dagli intellettuali e che
cessa automaticamente però di essere giuridico, per trasformarsi in qualcosa di puramente
performativo e prescrittivo.
5) L’applicazione pratica del diritto
Nel modo in cui il principio di autodeterminazione viene applicato, proprio per l’incertezza estrema della sua sfera di applicazione, si ha
una forte compressione e un impoverimento
della nozione democratica di “popolo”. In teoria non dovrebbero fare parte di Stati popoli che
non esprimano il loro consenso in quella direzione. In pratica, per quanto visto in merito agli
altri paradossi, questo è impossibile in base al
diritto di autodeterminazione come viene internazionalmente inteso.
Nella pratica l’autodeterminazione non è stata
riconosciuta che ai popoli soggetti ad una dominazione coloniale o sotto occupazione straniera
o sottomessi ad un regime razzista. Al di fuori
del contesto coloniale, fino ad oggi del diritto di
autodeterminazione hanno goduto solo entità ritenute “di rango statale”, quindi con alla base “popoli” come intesi nel diritto internazionale e quasi
esclusivamente componenti Stati federali. Per
tutte le altre “nazioni senza Stato”, accedere al
rango di “popoli” rimane una chimera.
(5) Plures (dir. da F. Rigaux) Le concept de peuple. Story-Scientia, Bruxelles 1988, 21.
8
10 - Quaderni Padani
6) Il diritto interno preso come indicatore
di chi debba essere titolare di un diritto
riconosciuto nel campo internazionale.
Si è assistito così al ridicolo paradosso in base
al quale è in realtà una qualificazione di diritto
interno a identificare la titolarità di un diritto
riconosciuto dall’ordinamento internazionale.
La frammentazione degli Stati unitari centralizzati non ammette pertanto di fatto il ricorso
e l’accesso al diritto di autodeterminazione e la
dimostrazione di costituire un “popolo” rimane
una pia illusione. Il caso dei baschi insegna. In
questo caso il paradosso continua a basarsi sulla definizione “interna” di “popolo”.
Inoltre, sotto questo paradosso cade anche la
contraddizione fra diritto all’autodeterminazione e il principio di diritto internazionale dell’integrità territoriale degli Stati. Il diritto all’autodeterminazione, anche se sancito nel diritto internazionale, è contraddetto da sovrapposizioni e deroghe a favore dell’integrità territoriale degli Stati.
Se le statuizioni di Helsinki sono servite nel
caso dei maggiori processi di secessione avvenuti dopo il 1989 nell’Est europeo, è perché gli
abitanti di questi Paesi hanno potuto godere del
riconoscimento dell’ambiguo status di “popoli”, da parte della Comunità Internazionale.
Questo ha impedito il ricorso alla forza previsto
anche ad Helsinki per il ricorso all’autodeterminazione da parte delle minoranze. In tal modo
questi “popoli” hanno potuto utilizzare lo schema classico della dichiarazione parlamentare di
sovranità abbinata al referendum popolare confermativo. Tale schema si è rivelato attuabile
soprattutto nel caso dei Paesi Baltici, per i quali
del resto però si trattava non di “secessione”,
ma di restaurazione di una precedente sovranità statuale e di un’indipendenza soppressa con
un’occupazione manu militari, a seguito di una
spartizione internazionale illegittima fra potenze (Urss staliniana e Germania nazista).
7) L’autodeterminazione come strumento
per disciplinare le relazioni internazionali
e non per incrementare la libertà dei soggetti
Questo paradosso è un vizio di fondo del diritto in questione e trova le sue origini nel tentativo di Wilson di disciplinare le relazioni internazionali nel periodo fra le due guerre. Corrispondentemente al principio “ogni Stato una Nazione” / “ogni Nazione uno Stato”, che produce la
conseguenza “confini netti fra gli Stati secondo
chiare linee etniche”, egli cercò di applicare i
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
suoi quattordici punti. Basti dire che gran parte
del sangue versato nell’ex Jugoslavia fu dovuto
proprio negli anni recenti a questa contraddizione fra imposizione di un ordine “interstatuale” forzato in base a quel diritto e libertà effettiva dei popoli coinvolti.
Non vi è del resto attualmente nel diritto internazionale alcuna idea del diritto di “autodeterminazione” nemmeno per le popolazioni titolari di territori che furono oggetto di occupazioni od annessioni più o meno violente.
S
e questi lampanti paradossi del diritto di
“autodeterminazione” come viene inteso e riconosciuto in campo internazionale, sempre più
chiari man mano che la crisi della concezione
degli Stati nazionali e della stessa teoria del diritto internazionale come diritto meramente
“interstatuale” avanza, si riveleranno centrali e
gravidi di nuove, insanabili contraddizioni, ci
sarà in futuro da aspettarsi una differenza enor-
me nelle posizioni internazionali che prenderanno singoli Paesi nei confronti dei futuri appelli di comunità territoriali vecchie o nuove al
diritto di “autodeterminazione”. Già importanti
avvisaglie erano apparse nel caso del riconoscimento dei Paesi Baltici e di Croazia e Slovenia.
Non esiste in realtà alcun accordo chiaro fra
giuristi relativamente allo status del diritto di
autodeterminazione nel diritto internazionale.
L’applicazione e il riconoscimento di questo diritto pertanto sono questioni puramente politiche e non giuridiche e rimarranno tali finché
non verrà presa coscienza del fatto che il declino del diritto internazionale come diritto “interstatuale” procede parallelamente al declino
degli Stati che ne sono i soggetti e non si inventeranno conseguentemente nuove forme di riconoscimento e di disciplina delle convivenze
emergenti, che sono in contrasto irriducibile con
la logica tendenzialmente totalitaria di quelle
statuali-nazionali esistenti.
“È bello avere qui più dolcemente evitato il furore dell'estate”. Portale Renon-Ritten (BZ) (foto Silvio Lupo)
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
Quaderni Padani - 11
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Neofederalismo e “piccole patrie”:
per superare lo Stato moderno
di Carlo Lottieri
l manifestarsi sulla scena politica contemporanea di forti rivendicazioni anti-centraliste
merita una riflessione di carattere generale
che, pur senza alcuna pretesa di esaurire la questione, cerchi di rintracciare le questioni teoriche che si trovano all’origine di tali lotte contro
lo Stato nazionale moderno e che dia ragione del
moltiplicarsi, anche nei paesi occidentali, di movimenti di carattere etnico-nazionale che si appellano alle piccole patrie e mettono in discussione gli attuali confini politici.
Appare evidente, in via preliminare, che ogni
analisi su tali questioni non può prescindere da
una disanima - per quanto sommaria - di quelli
che sono i tratti essenziali dello Stato moderno
e, soprattutto, della sua versione nazionalista affermatasi nel corso dell’Ottocento.
Da molto tempo, infatti, la vita politica è dominata da istituzioni che si sono imposte sopra
ogni altra realtà e che tendono ad assorbire entro di loro ogni ambito della vita civile: l’economia, la cultura, l’istruzione, la religione, ecc. Non
c’è storico della filosofia politica, d’altro canto,
che non attribuisca un ruolo di primo piano a
Nicolò Machiavelli; e questo perché nel Principe
vi è il preannuncio di un tratto fondamentale
dello Stato moderno: la liberazione della politica
da ogni vincolo morale. Scrive Machiavelli che
“è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità” (1). Il comportamento del governante, che per la tradizione giudaico-cristiana era sempre stato sottopo-
I
sto a ben precise norme di carattere etico (2), viene qui totalmente tecnicizzato. La politica inizia
a sovrastare la morale ed è solo in virtù di questo
che è possibile il trionfo delle istituzioni statali,
le quali si impongono grazie ad un costante
esproprio dei diritti dei singoli.
Lo Stato moderno ha dichiarato guerra ad ogni
forma di autonomia sociale e ad ogni forma di
diritto naturale: ma esso non è mai riuscito ad
imporsi compiutamente fino a quando non ha
utilizzato l’appello alla nazione quale instrumentum regni. Sotto taluni aspetti la cultura liberalnazionale del XIX secolo rappresentò un (infelice) compromesso tra il principio della libertà e
quello della nazione, dove a prevalere - a conti
fatti - fu il secondo.
Nella cultura filosofica dell’idealismo tedesco,
d’altra parte, la libertà veniva intesa in termini
del tutto astratti e la nazione finiva per essere
pensata secondo criteri che prescindevano del
tutto dalle volontà dei singoli, dalle loro opinioni, dalle loro aspirazioni. In Fichte e in Hegel,
per giunta, la parola Freiheit ha un significato
del tutto diverso da quello che i termini freedom
e liberty assumono nei testi dei pensatori della
tradizione politica inglese o scozzese. Essa non
rinvia affatto alla scelta personale e all’opzione
del singolo di fronte a due o più possibilità, ma
ad una condizione metafisica di superamento di
quella stessa finitudine che è propria dell’individuo mortale. Ad un concetto propriamente politico, quello di libertà, viene attribuito un valore
che va ben al di là del suo senso tradizionale e
(1) N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Feltrinelli, 1983 (1513), pag. 65.
(2) Per avere un’idea della concezione medievale della sovranità, ad esempio, basta pensare al re francese Luigi IX, che sotto
certi aspetti può essere considerato l’archetipo di quel monarca tradizionale così lontano dai modelli di uomo virtuoso proposti da Machiavelli. Luigi IX il Santo, infatti, consacra la propria vita nelle Crociate (fino a morire in battaglia, a Tunisi,
nel 1270), investe somme notevoli nell’acquisto di reliquie
sacre e nell’edificazione di chiese e cattedrali (basti pensare
alla Sainte-Chapelle di Parigi), mostra una sincera devozione
per l’autorità spirituale della Chiesa. Egli si considera “il luogotenente di Cristo, la sua immagine”, ma questo non gli impedisce di condividere in larga misura - nel bene e nel male quelle che sono la cultura e la sensibilità della gente comune
del suo tempo (cfr. G. Duby, L’Europa nel Medioevo, Milano,
Garzanti, 1987 (1984), pag. 119).
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12 - Quaderni Padani
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
che preannuncia il trionfo di quelle ideologie
politiche (basta pensare al marxismo) che per lungo tempo hanno promesso agli uomini la cancellazione di tutte le loro infermità.
Non si può trascurare, a questo proposito, che
la nascita della filosofia romantica avviene entro
uno scenario ben preciso: nel momento in cui
dal giacobinismo rivoluzionario (strano intreccio di temi caratteristici del nazionalismo francese e dell’universalismo razionalista) emerge la
figura di Napoleone Bonaparte, protagonista di
una vera e propria guerra all’Europa. Dopo essere stati in vario modo affascinati dal generale
corso e dopo aver subito amare disillusioni, gli
intellettuali tedeschi elaboreranno - per la prima volta - quell’idea di Volksgeist che in breve
tempo spazzerà via quasi ogni traccia della tradizione illuminista e liberale tedesca, facendo venir meno ogni attenzione ai diritti e alle libertà
del singolo.
Con Johannes Gottfried Herder, ad esempio, la
cultura romantica tedesca elabora una nuova
concezione - totalmente storicistica - del linguaggio. Se per Kant esistevano ancora categorie universali che stavano all’origine della lingua e della possibilità per gli uomini di comunicare e di
intendersi, per Herder “chi conosce anche soltanto un paio di lingue non potrà credere che
sussista un legame sostanziale tra il linguaggio e
il pensiero e tra il linguaggio e le cose” (3). Ma
questa rinuncia all’eredità kantiana e all’idea illuministica di ragione implica già una nazionalizzazione della lingua e della cultura, e in questo modo apre la strada alla collettivizzazione
dell’intera società e alla calpestazione dei diritti
dei singoli.
Nel mondo culturale e politico tedesco dell’Ottocento, diviso in tante piccola realtà, il pluralismo istituzionale verrà allora avvertito quale debolezza e arretratezza, quale origine di frustrazioni. E questo favorirà quella rapida trasformazione, a cui già abbiamo fatto riferimento, del
concetto di libertà: sempre meno riferito agli individui e sempre più riferito ai popoli. Da un lato,
così, viene proclamata l’esistenza di nazioni intese sulla base di argomenti storici, linguistici,
etnici, ecc.; e dall’altro lato si attribuisce solo a
tali realtà la facoltà di autodeterminarsi e di decidere del proprio futuro.
L’epoca risorgimentale, tanto ricca di richiami
retorici al tema dell’indipendenza e tanto povera
di pratiche liberali, è il risultato di un equivoco
incontro tra questa idea di nazione e questa idea
di libertà.
Non si può certo ignorare, ad ogni modo, come
l’adozione della teoria nazionalista da parte dello Stato moderno (e perfino da parte di dinastie
cosmopolite...) sia anche da interpretare come
l’ennesima astuzia di classi politiche molto abili
nell’utilizzare a proprio vantaggio, e secondo i
rigidi schemi della Realpolitik, sentimenti identitari i quali furono poi ulteriormente radicati
nella coscienza popolare tramite l’utilizzo di potenti strumenti di persuasione: istruzione pubblica, mezzi di comunicazione, ecc. Se diamo uno
sguardo alla storia della penisola italiana del XVIII
e XIX secolo, ad esempio, non possiamo non rilevare come lo Stato piemontese, prima, e quello
italiano, in seguito, abbiano sottratto alla Chiesa
cattolica alcuni tra i principali strumenti di socializzazione (4), sapendo poi fare leva in modo
efficace su quell’aspirazione al conformismo e
all’unità che gioca un ruolo importante in ogni
animo umano (5). Ma chi osserva la storia della
Prussia e della sua conquista dell’unità tedesca
(un’unità territoriale e non solo: basti pensare al
Kulturkampf...) ritrova dinamiche molto simili,
proprie di tutti i gruppi di potere volti ad allargare la propria sfera di dominio.
Per tutte queste ragioni, legate alle ideologie
dell’epoca e all’opportunismo delle classi dirigenti, l’Ottocento è stato il secolo degli irredentismi, delle guerre per l’unità e del trionfo di quel
principio nazionalista secondo cui ad ogni popolo dovrebbe corrispondere uno Stato: anche se
per popolo non viene intesa qui una comunità di
persone che decidono liberamente di vivere insieme, ma un’entità definita dall’esterno sulla
(3) J. G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità,
Bologna, Zanichelli, 1971 (1791), pag. 223.
(4) In un volume di Piero Gobetti (tipico esponente di quella
cultura italiana che, anche se volle definirsi liberale, si schierò sempre dalla parte dello Stato moderno) si trova un’interessante rappresentazione di alcuni tra i principali conflitti
che hanno opposto il Piemonte e la Chiesa nel corso del XVIII
secolo, e che hanno anticipato i contrasti ottocenteschi. Cfr. P.
Gobetti, Risorgimento senza eroi, Torino, Einaudi, 1969 (1926),
specialmente alle pagg. 13 ÷ 64.
(5) Pareto si riferisce a tutto ciò quando parla di quel partico-
lare residuo che risponde al “bisogno di uniformità”. A giudizio dell’autore del Trattato di sociologia generale, infatti, una
delle molle che sono all’origine del comportamento umano è
da cercare nel desiderio di non differire dagli altri. Per Pareto
“se si tinge una gallina in rosso e si rimette con le proprie
compagne, queste l’aggrediscono subito”; ma ancor più diffusa di questa repulsione dell’anti-conformista, tra gli esseri
umani, è la tendenza a non uscire dal gregge e ad adeguarsi di
propria volontà alle regole prevalenti (cfr. V. Pareto, Trattato
di sociologia generale, Milano, Edizioni di Comunità, 1981
(1916), vol. II, pag. 161).
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
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Quaderni Padani - 13
Liberalismo o nazionalismo
Il tentativo di coniugare lo spirito nazionalista
con la tradizione liberale classica, antistatalista
e anticentralista, era comunque destinato a fallire. Sul piano intellettuale, infatti, questa pretesa
di tenere in equilibrio le ragioni della libertà e
quelle della nazione (intesa quest’ultima secondo rigidi schemi collettivisti) inizia a venir meno
nel momento in cui la Germania, a conclusione
del conflitto del 1870, si annette l’Alsazia e la Lorena: terre di lingua e cultura tedesche che alla
fine del secolo precedente erano state perfino le
vittime dell’intolleranza repubblicana e omologante dei giacobini, ma che in quel momento per molte e differenti ragioni - aspiravano a rimanere (o a tornare ad essere) francesi.
Nel noto giuramento di Bordeaux, i rappresentanti alsaziani e lorenesi si ribellarono con veemenza all’occupazione tedesca e alla sua ratifica
da parte dell’Assemblea nazionale francese, pretendendo che venisse riconosciuto alle popolazioni il diritto a decidere in merito al proprio futuro: “Nous déclarons encore une fois nul et non
avenu le pacte qui dispose de nous sans notre
consentement” (6).
La riflessione di Ernest Renan (7), al pari di
quella di Numa-Denys Fustel de Coulanges (8),
proviene da questa amara esperienza storica.
Di fronte all’alternativa tra nazionalismo e liberalismo, Renan sceglie il secondo. E in questo
modo pone le premesse per una reinterpretazione non coercitiva del concetto di nazione. Egli
sa bene come gli elementi identitari siano importanti per definire una comunanza nazionale
e non ignora che la nazione è “una grande solidarietà”, la quale “presuppone un passato”. Subito aggiunge, però, che essa “si riassume nel
presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme” (9).
A Renan sembra del tutto evidente che ogni
libera e volontaria adesione ad un’identità e/o ad
un’istituzione si giustifica, storicamente, sulla
base di affinità, di legami e di altre relazioni oggettivamente rilevabili a partire dalle tradizioni,
dalla cultura, dalla religione e da altri fatti, ma
ugualmente gli appare chiaro che questi ultimi
non possono essere più o meno arbitrariamente
usati per calpestare la libertà di chi intende costruire il futuro seguendo le proprie inclinazioni
e le proprie aspirazioni. In altre parole: è ragionevole pensare che persone accomunate dalla storia vogliano vivere assieme, e che lo decidano se
sono in condizione di farlo. Ma devono essere esse
stesse a stabilirlo, senza che qualcuno pretenda
di sostituirsi alla loro autonoma scelta sulla base
di presunti appelli alla scienza o ad altro.
Lo storico francese, insomma, opta per gli individui: per la loro mutevole volontà e per il pluralismo che essa comporta. Ben consapevole che
tale approccio liberale è destinato a minare alle
fondamenta lo Stato moderno, in quanto Stato
nazionale centralizzato, e ad aprire un’epoca di
rivendicazioni e lotte per l’indipendenza. Dinanzi ai teorici dell’etno-linguismo tedesco, di fronte a storici come Mommsen e Strauss (i quali pretendevano di anteporre il parere di taluni studiosi tedeschi alle concrete opinioni degli abitanti
di Metz e di Strasbourg), Renan si appella alle
decisioni dei singoli e al fatto che le istituzioni
politiche non possono trascendere le loro opinioni.
Egli chiarisce: “Abbiamo scacciato dalla politica le astrazioni metafisiche e teologiche. Cosa resta, dopo? Restano l’uomo, i suoi desideri, i suoi
bisogni” (10). Vi è, in queste parole, una grande
onestà intellettuale, dal momento che Renan ha
qui la forza di prendere atto che una società la
quale abbia rinunciato a credere nell’origine divina del potere regale (tanto da ghigliottinare il
proprio monarca) non può certo aderire a quella
sorta di nuova religione civile propagandata dal
patriottismo nazionalista. La fine della teologia
politica tradizionale porta con sè anche l’eclissi
di ogni altra sacralizzazione della politica, la quale
diventa il luogo d’incontro di uomini liberi e padroni del proprio destino.
Un altro importante autore di lingua francese,
Joseph de Maistre, si era perfettamente reso conto
di quanto fosse divenuto fragile lo Stato moderno nel momento in cui, con la decapitazione di
(6) Traduzione: “Dichiariamo ancora una volta nullo e mai avvenuto il patto che dispone di noi senza il nostro consenso”;
citato in Raoul Girardet, Le nationalisme français, Parigi,
Seuil, 1983, pag. 37.
(7) Cfr. E. Renan, Che cos’è una nazione, Roma, Donzelli, 1993.
(8) Si veda, in particolare, il seguente scritto: N.-D. Fustel de
Coulanges, L’Alsace est-elle allemande ou française? Réponse
à M. Mommsen, Parigi, 1870.
(9) E. Renan, Che cos’è una nazione, op. cit., pag. 20.
(10) Ibidem.
base di (arbitrari) criteri di ordine linguistico, storico, etnico, ecc. In ossequio ad una logica positivista sempre più indifferente alle ragioni e ai
diritti dei singoli, dei gruppi e delle comunità.
14 - Quaderni Padani
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Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
Luigi XVI, si era definitivamente messa da parte
ogni provenienza divina del potere politico. Nel
suo Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane
de Maistre si domanda come mai potrà “una legge essere al di sopra di tutti, se qualcuno l’ha
fatta?”, ben consapevole che nel momento in cui
il potere viene desacralizzato, ogni successivo
tentativo di ri-sacralizzarlo sarà votato prima o
poi al fallimento e sottoposto ad ogni genere di
obiezione, scetticismo, incredulità. Egli comprende pure che, con la crisi della trascendenza
del punto di vista dello Stato rispetto a quelli individuali, l’obbligazione politica in quanto tale
tende a svanire: ciascuno diviene sovrano a se
stesso.
Renan riparte da qui, convinto che questa nuova situazione - che ha liberato la politica dalle
astrazioni teologiche e metafisiche - comporti
una disgregazione delle istituzioni pubbliche: “La
secessione, mi direte, e, alla lunga, la frammentazione delle nazioni sono la conseguenza di un
sistema che mette questi vecchi organismi alla
mercé di volontà spesso poco illuminate”. Per poi
aggiungere: “È chiaro che in una materia come
questa nessun principio deve essere spinto all’eccesso. Le verità di questo genere sono applicabili
solo nel loro insieme e in modo assai generale.
Le volontà umane cambiano; ma cosa non cambia quaggiù? Le nazioni non sono qualcosa di
eterno. Esse hanno avuto un inizio, avranno una
fine” (11).
Benché egli stesso si spaventi di fronte agli spazi
di libertà che la sua riflessione ha aperto e per
questo motivo parli dell’esigenza di non spingere all’eccesso tali idee (tanto più che egli partecipa dell’aristocraticismo di molti intellettuali del
tempo, che consideravano irrazionale ogni preferenza della plebe e - come amavano dire - della
folla (12) ...), Renan sgancia la nazione da ogni
determinazione oggettiva.
In questo quadro lo stesso concetto di identità
è destinato, comunque, ad assumere significati
nuovi.
Non vi è alcun dubbio che le lotte per l’indipendenza che attraversano la nostra epoca e che
vedono protagoniste tante piccole patrie coinvol(11) E. Renan, Che cos’è una nazione, op. cit., pagg. 20-1.
(12) Basta pensare agli scritti su tale tema alquanto scivoloso
di autori già allora molto contestati e pure molto letti: da Gabriel Tarde a Scipio Sighele, fino a quel Gustave Le Bon a cui
si deve la Psicologia delle folle del 1895 e che ebbe un’influenza non irrilevante sulle scienze sociali e sul dibattito politico.
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
gono anche, e forse soprattutto, popoli definibili
in quanto tali secondo i criteri più tradizionali.
Ed è questo il caso dei baschi, degli irlandesi, dei
curdi, dei québecois, dei ceceni, dei tibetani, ecc.:
gruppi minoritari che si differenziano dal resto
della popolazione sulla base di forti differenziazioni etniche, linguistiche, religiose o storico-culturali.
Ma è ugualmente vero che stiamo pure assistendo all’emergere di concetti del tutto nuovi,
che prescindono dal riferimento a quei tratti sulla
base dei quali, tradizionalmente, vengono definiti i popoli. Quella che sta profilandosi, insomma, è una teoria postmoderna della nazionalità,
la quale è fortemente condizionata da alcune importanti esperienze storiche e dalla rielaborazione che esse hanno ricevuto.
Se poniamo mente a quella che fu l’Europa continentale durante l’epoca dei nazionalismi aggressivi e centralizzatori, dobbiamo subito riconoscere che due furono le principali realtà che - seppure in modo molto diverso - seppero resistere
ai patriottismi risorgimentali o che comunque
si sforzarono di contrastarli: la federazione elvetica e l’impero asburgico. Costituitesi fin dall’origine quali realtà sovranazionali e pluraliste, queste due istituzioni centro-europee rappresentano (anche simbolicamente) la matrice di alcune
nuove attitudini dinanzi al problema della nazione e dell’indipendenza.
Quando volgiamo la nostra attenzione verso la
realtà svizzera, ad esempio, non possiamo non
riconoscere che, pur con le sue ovvie manchevolezze, essa rappresenta ancora oggi - all’interno
dell’Europa - il migliore esempio di istituzione
federale: in senso liberale e anticentralista. E non
c’è affatto da stupirsi se nelle sue elaborazioni
intellettuali il neofederalismo contemporaneo
guardi alla Confoederatio Helvetica come al luogo in cui meglio si è espressa la resistenza delle
comunità politiche di fronte alla vocazione armonizzatrice, omologante e predatoria del potere centrale. In Svizzera, popoli che hanno identità differenti (sul piano linguistico, religioso, storico, ecc.) convivono positivamente in ragione
del loro voler stare assieme e del carattere in qualche misura contrattuale, poiché federale, del patto istituzionale che li collega.
Ma la stessa idea di Mitteleuropa, che ha svolto
un ruolo di rilievo nell’elaborazione politica del
dissenso anti-sovietico (in Ungheria e in Cecoslovacchia, in modo particolare), è in grado di
aiutarci a rinvenire elementi di questa particolare de-oggettivazione dell’identità nazionale quaQuaderni Padani - 15
13
le ha luogo nell’epoca postmoderna e che già fu
preannunciata dall’importante conferenza di Renan del 1882. Per un dissidente di Praga o di Budapest, riconoscersi erede delle istituzioni asburgiche e della cultura dell’Europa di mezzo ha significato, per molti anni, il miglior modo di sfuggire ad un’inaccettabile reclusione entro un’Europa orientale essenzialmente russa e, in quegli
anni, dominata dal regime sovietico.
Come ha scritto André Reszler, quella della Mitteleuropa è stata allora un’identité de combat:
un’identità antagonista basata più sulla volontà
di sottrarsi all’universo concentrazionario socialista che non sulla determinazione a dar vita ad
un nuovo impero o ad un nuovo Stato.
Ma questo tema dell’identità mitteleuropea e,
per certi versi, lo stesso pluralismo svizzero ci
obbligano a riconoscere che l’identità nazionale
non è da intendersi sempre e necessariamente in
senso tradizionale. Nell’epoca attuale, segnata da
una profonda crisi delle istituzioni politiche, la
nazione non è più pensata quale premessa indispensabile alla costruzione di uno Stato. Comunità che si riconoscono quali membri di una medesima identità possono decidere liberamente di
appartenere a Stati differenti, e magari insieme
a comunità politiche di tutt’altra tradizione.
In questo senso, è ragionevole sostenere che
chi oggi parla di Padania pensa evidentemente
ad una nazione sovranazionale, ad una nazione
di nazioni, ad una nazione pluralista: seppure
non priva di elementi comuni e unificanti. Come
del caso della Mitteleuropa, l’identità padana pare
costituirsi essenzialmente in funzione polemica:
in opposizione al centralismo romano, alla meridionalizzazione culturale delle regioni alpinopadane e, soprattutto, alla redistribuzione discriminatoria attuata dallo Stato italiano ai danni
delle aree più produttive del paese.
La riflessione teorica sulla dottrina neofederale conferma come all’interno del dibattito politico contemporaneo il tema della comunità politica stia per essere progressivamente riformulato
mettendo da parte le concezioni gerarchiche proprie dell’età moderna. L’obbligazione politica è
destinata a lasciare posto alla delega privata, il
contratto sociale cede spazio di fronte al contratto
tout court.
Sotto questo punto di vista è interessante rilevare come in taluni scritti di Gianfranco Miglio
emerga l’ipotesi di una graduale trasformazione
in senso privatistico delle istituzioni pubbliche
che, da un lato, recupera un modello proprio delle
più antiche e tradizionali strutture politiche padane (i liberi Comuni medievali (13)) e, dall’altro,
getta un ponte verso il liberalismo integrale di
un autore come Murray N. Rothbard (14).
(13) Tali questioni sono state affrontate in modo molto interessante anche da Boudewijn Bouckaert in un suo recente saggio; cfr. B. Bouckaert, “L’aria delle città rende liberi. Le città
medievali come comunità volontarie”, Biblioteca della Libertà, ottobre-dicembre 1994, n. 127, pagg. 5 ÷ 58.
(14) Cfr. M. N. Rothbard, L’etica della libertà, Macerata, Liberilibri, 1996.
(15) G. E. Rusconi, Se cessiamo d’essere una nazione, Bologna, Il Mulino, 1993.
(16) G. E. Rusconi, Se cessiamo d’essere una nazione, op. cit., pag. 23.
16 - Quaderni Padani
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Oltre la nazione, oltre lo Stato moderno
Il conflitto del nostro tempo, allora, è innanzi
tutto il conflitto tra le forze che difendono lo Stato moderno (nazionale, accentrato, interventista)
e quelle che cercano di liberare la società civile
dai vincoli imposti dalla tecnostruttura legale. Ed
è quanto mai significativo che il tema della solidarietà sociale (coatta) si saldi sempre di più a
quello della solidarietà nazionale (ugualmente
coatta). Come ha scritto Gian Enrico Rusconi a
proposito dell’Italia (15), se cessiamo di essere una
nazione siamo anche portati a pensare che non
vi è alcuna buona ragione di utilizzare le norme
per ridistribuire risorse e favorire taluni gruppi e
talune aree geografiche. Va aggiunto che a proposito della questione padana, lo stesso Rusconi
ha perfettamente ragione quando afferma che “la
posta in gioco della contestazione leghista non è
soltanto l’unità nazionale storica, ma una certa
idea di cittadinanza nazionale e universale con
essa concresciuta” (16): ovvero sia lo Stato moderno che ha dato vita al Welfare State e che è
basato sul monopolio della legge, sulla centralizzazione del potere, sull’arbitrio fiscale di un ceto
politico-burocratico che nega i diritti fondamentali dei singoli e delle comunità.
La difesa, da sinistra, dell’idea moderna di patria dimostra come sia proprio la collettivizzazione nazionale delle identità a favorire e rendere possibile la collettivizzazione solidarista delle
risorse economiche.
Tutto questo, però, sta franando sotto i nostri
piedi. Non soltanto vi sono ormai un gran numero di nazioni (universalmente riconosciute come)
che sono prive di Stato, ma talune di queste rifiutano volontariamente la coincidenza stessa tra
Stato e nazione. Ed uno dei tratti più caratteristici della logica neofederale sta proprio nel su-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
peramento dell’indebita confusione tra istituzioni politiche e identità.
Il federalismo autentico, infatti, non soltanto
muove dall’idea che le comunità politiche hanno
il diritto di stringere patti ed alleanze tra di loro:
liberamente e senza perdere alcuno dei propri diritti. Un altro concetto cardine è da rinvenire nella
facoltà dei singoli di costituirsi in comunità sulla
base di opinioni, aspirazioni e volontà che non
possono essere messe in discussione. È proprio
in questo senso che si può legittimamente parlare di una vocazione libertaria del neofederalismo.
Quanto sta avvenendo nell’Italia settentrionale
è da inquadrare entro questo scenario. La riemersione delle piccole patrie e di identità a lungo negate, la contestazione di un’unità nazionale mai
volontariamente adottata dalle comunità politiche che compongono la Repubblica italiana, la
nascita di nuove sovranità simulate, la richiesta
di una maggiore concorrenza istituzionale e - in
tal modo - di più ampie garanzie per gli individui
e per i gruppi, l’aspirazione a relazioni neofederali: tutto quanto sta iniziando a manifestarsi nei
dibattiti sul futuro della Padania segnala come i
vecchi paradigmi politici stiano entrando in crisi.
Nessuno sa, e nessuno può oggi sapere, se la
federazione padana in fieri conquisterà la propria
indipendenza. E non è neppure agevole sapere se
e fino a che punto questa teoria postmoderna della nazionalità riuscirà ad emergere: vincendo le
resistenze di chi pretende di difendere una concezione per così dire kelseniana della nazione (secondo la quale sono nazioni soltanto quelle realtà sancite come tali dalle leggi...) e, soprattutto,
il permanere del positivismo dei Mommsen, degli Strauss e di tutti coloro che sono persuasi di
possedere la chiave a partire dalla quale si può
definire dove una nazione inizia e dove finisce.
Non si può neppure essere certi che eventuali
comunità politiche padane del tutto indipendenti, e tra loro federate, sappiano evitare la riproposizione dei patriottismi ottocenteschi: destinati a
favorire politiche centralizzatrici e pianificatorie.
È ragionevole ipotizzare, però, che le ragioni
libertarie e anti-nazionaliste espresse dalle spinte secessioniste in varie parti del mondo non potranno facilmente essere accantonate nel momento in cui i progetti indipendentisti dovessero risultare vincenti. D’altra parte, questo risultato
sarà un giorno ottenuto soltanto se i protagonisti di tali lotte sapranno costruire una coalizione
di sentimenti, interessi, ragioni e volontà: senza
adottare in modo esclusivo nessuna delle motivazioni (economiche, etniche, culturali, religioAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
se, ecc.) che inducono molti a rivendicare identità che sono negate e che le classi politiche al potere combattono duramente.
Non si può negare, d’altra parte, che vi sia una
specificità dell’identità padana, dato che la storia
e la tradizione dell’Italia settentrionale sono segnate da un gran numero di differenze e di contrasti. Se pure esiste una comunanza - a vari livelli - tra le molte nazioni storiche che compongono l’area padana, se certo vi sono elementi che
unificano e accomunano realtà anche molto diverse, l’unico argomento veramente decisivo che
può essere opposto a chi combatte l’ipotesi indipendentista è da rinvenire nell’esigenza che non
si possa in alcun modo ignorare la volontà di chi
vive nella Padania.
Più che altrove, insomma, e più che nel Québec o nel Tibet, è nel Nord della penisola italiana
che le tesi sulla nazionalità espresse da Ernest
Renan devono essere prese sul serio. Un’identità
storica pluralista quale è quella Padana, allora,
può essere premessa ad un ordine politico maggiormente liberale, conseguente ad un nuovo
modo di intendere l’identità nazionale e il suo
rapporto con lo Stato.
Molti secoli fa l’Europa ha conosciuto una grande fase di crescita civile, di sviluppo economico e
di dinamismo culturale per merito di quella rivoluzione capitalista e comunalista che ha visto in
prima fila le libere città dell’Italia centro-settentrionale e delle Fiandre. A distanza di tanti anni
l’area padana conosce una nuova opportunità di
elaborare istituzioni e relazioni umane più libere
e meno oppressive, più rispettose dei diritti della
persona.
È chiaro, ad ogni modo, che il successo di tale
progetto non potrà essere facilmente raggiunto
senza una demitizzazione dello Stato e, in particolare, dei confini: non più da considerarsi quali
realtà “sacre e inviolabili”, secondo i precetti di
quell’organicismo collettivista che ha causato innumerevoli lutti alle popolazioni europee. Ma il
ripensamento delle frontiere e del loro ruolo rinvia ancora una volta ad una riformulazione dello
stesso Stato moderno: una realtà che da almeno
cinque secoli opprime le comunità politiche volontarie (17) e che oggi pretende di sbarrare la strada alla loro volontà di riconquistare le libertà perdute.
(17) Quelle che Murray N. Rothbard definisce le nazioni per
consenso. Cfr. M. N. Rothbard, “Nations by Consent: Decomposing the Nation-State”, Journal of Libertarian Studies,
vol.11, n.1, fall 1994, pagg. 1 ÷ 10.
Quaderni Padani - 17
15
Criteri per l’applicazione
del diritto di autodeterminazione
di Gilberto Oneto
parole in Italia sono oggi tutti federalisti e
pronti a trasformare questo paese in una repubblica federale. In realtà tutto il vecchio
establishment è terrorizzato da ogni possibile
cambiamento e cerca di guadagnare tempo dedicandosi a roboanti professioni di federalismo, a
discussioni lunghissime, a sottili teorizzazioni bizantine in attesa che “passi la nottata”, che di
federalismo non si parli più e che tutto continui
come prima.
In questa ottica opportunista vanno letti sia le
cortine fumogene presidenzialiste che le proposte di riforme regionaliste. Attribuiranno qualche tassa in più alle Regioni e tutto finirà lì; anzi
potranno dire alla gente: avete voluto il federalismo (fiscale e non) e avete visto, vi ha portato
solo nuove tasse, nuova burocrazia parassitaria e
nuova inefficienza!
Qualcuno ogni tanto si azzarda in qualche funambolico esercizio di accorpamento di alcune
delle Regioni esistenti ben sapendo che non se
ne farà nulla e che nessun apparato burocratico,
anche il più inutile, rinuncerà mai ad esistere
(1).
In realtà una delle più probanti cartine al tornasole della non volontà di cambiamento è proprio rappresentata dalla scarsa attenzione che viene mostrata verso la discussione sulle entità che
dovrebbero formare la nuova federazione (o che
avrebbero solide ragioni di esercitare il loro diritto di autodeterminazione). Si guarda anzi con
fastidio ad ogni iniziativa in questo senso: l’articolo 132 della Costituzione è - ad esempio - considerato una pericolosa jattura e si liquidano
A
come noiose stravaganze tutti i tentativi di ragionamento sulle possibili applicazioni positive
di tale norma (2).
In più, si utilizza capziosamente il paravento
di un federalismo “teorico e di maniera” per combattere ed esorcizzare ogni serio tentativo di ridiscussione del centralismo statalista: alle entità
vere che stanno (ri)sorgendo nella coscienza popolare si contrappongono entità burocratiche (le
Regioni esistenti) o regioni-patacca (il Nord-Est)
per creare confusione e distogliere l’attenzione e
la tensione dai problemi reali.
Ogni riforma federalista o indipendentista deve
invece essere realizzata sulla base di entità organiche vere e non su suddivisioni burocratiche fasulle. Le attuali Regioni italiane sono principalmente il parto di invenzioni ministeriali, il risultato di accorpamenti di Provincie prefettizie e di
giochi politici che hanno scarsi legami con le realtà oggettive del territorio, della sua storia e delle
sue popolazioni.
Dare oggi maggiori poteri a queste regioni significa ripetere l’esperienza dell’indipendenza
degli Stati africani che, salvo poche eccezioni,
avevano confini derivati da maneggi colonialisti
e da patteggiamenti fra stati europei e nulla avevano a che vedere con le reali suddivisioni etnolinguistiche, culturali, storiche o altro. Quello
che è successo laggiù lo sanno tutti. Qui si adotta lo stesso atteggiamento colonialista che non
mostra alcun rispetto per la volontà popolare.
Sulla carta geografica della Padania questa attitudine burocratico-colonialista ha partorito
suddivisioni artificiose e umilianti per la cultura
(1) I Quaderni Padani si sono già occupati di queste proposte
(serie e stravaganti) di divisione nel numero 1 (estate 1995) e
a quello studio si rimanda ogni riferimento.
(2) Articolo 132. Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali, disporre la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni con un minimo di un milione di abitante, quando ne facciano richiesta tanti Consigli comunali
che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse.
Si può, con referendum e con legge della Repubblica, sentiti i
Consigli regionali, consentire che Provincie e Comuni, che
ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati ad un’altra.
16
18 - Quaderni Padani
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
e la volontà dei popoli che l’abitano: così - ad
esempio - i confini della Regione Piemonte hanno poco a che fare con quelli della Patria Cita; lo
stesso vale per la Lombardia; l’Emilia è una pura
invenzione burocratica, oltre a tutto gravata da
un nome infausto che ricorda una occupazione
violenta e sanguinosa, uno dei primi veri genocidi della storia. Si tratta di una denominazione
tanto poco felice che ad un certo punto hanno
dovuto attaccarle quella di Romagna, infaustamente bizantino, ma almeno consistente in termini di permanenza storica. Solo la Liguria e il
Friuli assomigliano con una certa approssimazione a quello che dovrebbero essere. Intere comunità nazionali e storiche (come i Ladini, gli
Occitani e i Valdesi) sono state ignorate e inghiottite dalla protervia e dall’ignoranza della geografia colonialista.
In realtà ogni vero autonomista e federalista
sa che ogni entità ha ragione di essere proprio
solo in funzione delle sue caratteristiche. Queste
non contemplano l’uniformità: non devono cioè
avere necessariamente dimensioni territoriali
simili o avere lo stesso numero di abitanti. Uniformità di superficie territoriale e di numero demografico sono criteri giacobini (adottati dai giacobini per delineare i Dipartimenti rivoluzionari) e sono volutamente nemiche di ogni realtà
organica.
Non è un caso che esse ricompaiano nell’articolo 132 della Costituzione italiana e ne appesantiscano l’applicazione. Le vere entità autonomiste nascono invece dalle diversità e ammettono le diversità, esse sono inevitabilmente molto
differenti fra di loro anche per dimensioni, abitanti e forma fisica: la carta delle vere autonomie
è inevitabilmente una carta di enclavi, un complicato patchwork fatto di scampoli molto diversi per dimensione, forma, colore, disegno e tipo
del materiale.
A
l momento di dover applicare il diritto di
autodeterminazione (per delineare le entità che
intendono fare parte di una federazione o quelle
che si vogliono rendere indipendenti, o desiderano chiedere l’annessione ad un altro Stato)
occorre anche poter definire con precisione chi
sono gli aventi diritto di espressione, ovvero quali
siano gli ambiti geografici entro i quali può essere esercitata la facoltà di autodeterminazione.
Tutte le dichiarazioni di principio sul diritto di
autodeterminazione parlano di precisi legami col
territorio ma nessuna dà delle definizioni precise sui criteri che vanno adottati per delimitare lo
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
spazio entro il quale tale diritto può essere esercitato.
Tutti i documenti internazionali parlano di diritti di “popoli” e di “minoranze etno-linguistiche” senza entrare nel merito della definizione
di tali entità e - soprattutto, nel trattare dei loro
diritti di salvaguardia e di autodeterminazione senza specificare come questi debbano essere
esercitati rispetto all’estensione territoriale del
voto. In altre parole, si sottolinea il diritto di una
minoranza di difendere la propria specificità ed
eventualmente di diventare uno stato indipendente, ma non si definisce quali siano i limiti
geografici delle aree da sottoporre a voto di autodeterminazione, chi debba avere il diritto di
partecipare al voto, se questo debba essere limitato alla sola minoranza o concesso anche alla
maggioranza da cui ci si vuole staccare. Non si
dice se debbano essere consultati solo gli abitanti di un’area circoscritta e quali siano i criteri
per stabilire chi abbia il diritto di esprimersi.
I casi nei quali il diritto di autodeterminazione
sia stato espresso mediante un referendum popolare sono relativamente pochi e non possono
costituire un sicuro riferimento giuridico.
A decidere sull’indipendenza della Norvegia
sono stati nel 1905 - per espressa decisione delle
due parti coinvolte - solo i Norvegesi e all’interno di confini amministrativi consolidati che coincidevano alla perfezione con quelli etno-linguistici.
Largamente analoga è stata la situazione del
Québec: si è votato solo all’interno dei confini
amministrativi dello Stato e hanno votato tutti
coloro che al momento vi risiedevano. Non sono
perciò state escluse dal voto le minoranze anglofone comprese all’interno del Québec ne sono state coinvolte le comunità francofone presenti negli stati confinanti: visto il margine minimo che
ha determinato l’esito del voto, una diversa definizione delle aree geografiche da sottoporre ad
autodeterminazione (con ritocchi anche solo
marginali degli attuali confini amministrativi che
non coincidono con quelli etno-linguistici) avrebbe quasi sicuramente ribaltato il risultato.
Questo ci porta a considerare con grande at(3) Il gerrymandering consiste nel trucco di suddividere il territorio in distretti elettorali che diano ad un partito politico (o
ad una opzione di scelta) la maggioranza nel maggior numero
di distretti, contenendo la forza elettorale della parte avversa
nel minor numero di distretti possibile.
Il termine deriva da Elbridge Gerry (1744-1814), governatore
del Massachussets, che l’aveva applicato con maliziosa efficienza.
17
Quaderni Padani - 19
tenzione la possibilità che accorte operazioni di
gerrymandering (3) possano pilotare l’esito di elezioni o la predominanza di una componente etnolinguistica (o anche solo elettorale) su di un’altra: la suddivisione delle contee dell’Ulster nel
1920 ne è stato un triste esempio.
I
n mancanza di consolidati riferimenti o di
esempi giuridici condivisi, si possono a questo
punto avanzare delle proposte di soluzione che
abbiano valenza di principio, che siano rispettose del diritto di autodeterminazione, della democrazia e di tutti i valori di libertà in gioco.
Nello specifico caso di un’area che deve essere
sottoposta a un referendum di autodeterminazione, di un popolo o di una minoranza che si
vogliono costituire in comunità organizzata o che
vogliono secedere da uno stato esistente per costituirne uno nuovo o per aggregarsi ad un altro,
è giusto e necessario che a partecipare al processo decisionale siano chiamati solo gli individui e
i gruppi direttamente interessati e non componenti estranee cui questi sono stati eventualmente collegati mediante suddivisioni amministrative casuali o maliziose.
Per fare un caso concreto e conosciuto: se ai
Sudtirolesi fosse finalmente concesso di scegliere liberamente il loro destino politico essi dovrebbero - ad esempio - essere in condizione di poterlo fare da soli in quanto Sudtirolesi. In altre parole sull’eventualità di indipendenza del Sudtirolo dovrebbero essere chiamati ad esprimersi
solo gli abitanti del Sudtirolo e non già tutti i
cittadini della Repubblica italiana.
E all’interno dello stesso Sudtirolo dovrebbero essere chiaramente individuati gli aventi diritto che non coincidono necessariamente con i
residenti in sito in quel momento.
Si porrebbe cioè con evidenza il delicato problema di stabilire chi abbia il diritto di esercitare
il potere di autodeterminazione e in quale forma, quali cioè siano i criteri che possano definire ed eventualmente limitare tale diritto.
Questi possibili criteri concernono: 1) la delimitazione delle aree geografiche, 2) la definizione degli aventi diritto all’interno di tali aree e 3)
l’essenza stessa dell’oggetto della decisione (limiti decisionali).
Delimitazione dell’area geografica
Nel caso che l’area interessata da rivendicazioni coincida con una suddivisione burocratica in
atto, questa va rispettata. Si tratta di una eventualità piuttosto rara perché, in generale, gli Stati
18
20 - Quaderni Padani
oppressori tendono a smembrare le entità oppresse.
Abbiamo visto che questo è stato il caso della
Norvegia; potrebbe da noi essere con buona approssimazione il caso della sola Provincia di Bolzano i cui confini amministrativi coincidono con
quelli storici ed etno-linguistici con la sola eccezione delle comunità ladine e - in particolare dell’Ampezzano e del Livinallongo.
Nella più parte dei casi però - e sicuramente in
quasi tutta la situazione italiana - i confini amministrativi non coincidono con quelli organici
delle comunità che vogliono esercitare il proprio
diritto all’autodeterminazione.
In questi casi i limiti dell’area referendaria vanno ricercati applicando criteri di valore primario
e secondario.
I primi riguardano la comunanza etno-linguistica, la storia, l’omogeneità culturale e sociale e
i caratteri produttivi.
I secondi derivano dalle divisioni amministrative esistenti e dalla geografia.
Una importante osservazione va fatta sulla possibilità di suddividere ulteriormente al suo interno l’area referendaria e di stabilire una unità
territoriale minima che possa esercitare autonomamente il diritto di scelta: questa potrebbe essere trovata in un’area omogenea (secondo i criteri sopra espressi) o addirittura nella comunità
locale. Questo permetterebbe una scelta più libera e differenziata. Si ricorda il caso del Comune di San Colombano al Lambro che non ha voluto far parte della neocostituita Provincia di Lodi
e che è rimasto una isolata enclave della Provincia di Milano da cui è territorialmente separato.
Definizione degli aventi diritto
Per quanto riguarda l’esercizio del diritto di
scelta referendaria degli individui presenti nell’area definita con i criteri sopra esaminati, vanno proposti alcuni criteri selettivi. Devono sicuramente poter votare tutti quelli che lì ci sono
sempre stati (che hanno perciò acquisito un “diritto storico”) e anche quelli che ci sono stati un
periodo sufficiente per acquisire dei meriti e dei
“diritti personali” nei confronti della comunità
locale.
Devono invece essere esclusi dal diritto di autodeterminazione: a) quelli che sono appena arrivati, b) quelli che sono arrivati da più tempo
ma che hanno commesso reati rilevanti contro
la comunità, e sicuramente c) quelli che si trovano lì proprio in funzione di una situazione di
affermazione politica (o di sopraffazione) che si
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vuole cambiare. In quest’ultima
fattispecie rientrano - ad esempio - gli immigrati funzionari
dello Stato di cui si deve decidere la sopravvivenza e - a maggior ragione - poliziotti e soldati che sono lì per affermare una
potestà che si vuole mettere in
discussione.
Una ragionevole ipotesi di lavoro potrebbe essere rappresentata dal consentire il voto a tutti i cittadini residenti da almeno due generazioni, a tutti i residenti da almeno dieci anni che
non abbiano subìto condanne e
che non siano dipendenti dello
Stato.
Limiti decisionali
L’ultima (ma non ultima)
considerazione tocca la legittimità delle scelte. Nel caso di richiesta di ampia autonomia o di
indipendenza, questa deve essere giustificata dalla verifica dai
parametri di oggettiva diversità
di cui si è parlato più sopra. Occorre in ogni caso garantire i diritti delle nuove minoranze che
potrebbero formarsi con il nuo- Proposta di suddivisione federale d’Italia in cinque Stati (Padavo assetto politico: la cosa mi- nia, Etruria, Italia, Sardegna e Sicilia), tre “Euregioni” (Arpigliore consiste nello stabilire i tania, Tirolo e Istria) e un Distretto federale (Roma).
diritti di tutte le minoranze pri- Le aree puntinate sono da sottoporre a referendum popolare per
ma ancora di esercitare il dirit- deciderne l’appartenenza
to di autodeterminazione in modo da tutelarle
tutte, qualsiasi sia l’esito del voto.
el caso specifico e concreto dell’Italia, ci
Nel caso invece di opzione per uno Stato esi- sembra che possano poter legittimamente eserstente, si deve verificare che questo a) sia demo- citare il loro diritto di autodeterminazione (sia a
cratico e federalista, b) assicuri alle nuove mino- favore di una forte autonomia all’interno di qualranze tutti i diritti che saranno stabiliti prima che forma di riassociazione a struttura federale,
del voto, c) abbia reali comunanze e affinità (sto- che di indipendenza all’interno di una confederiche, culturali, etno-linguistiche) con chi vuole razione, che di pura e semplice secessione) l’Aresercitare l’opzione e d) sia disposto ad accettare pitania, la Padania, il Tirolo, l’Etruria (Toscana),
l’esito referendario senza condizioni (o con con- la Sardegna e la Sicilia.
dizioni da discutere preventivamente).
Sui caratteri e sulla legittimità dell’autonomia
Non sono cioè accettabili situazioni abnormi della Padania e sui suoi confini (intesi come concome il progetto balordo (e ambiguo) avanzato fini entro i quali esercitare l’opzione) ci siamo
alla fine della seconda guerra mondiale di stac- già soffermati sul numero 3 dei Quaderni Padacare la Sicilia per unirla agli Stati Uniti d’Ameri- ni (4).
ca o opzioni come quella esercitata dal Voralberg
Nel caso del Tirolo sono decisamente prevalenti
nel primo dopoguerra a favore dell’annessione
alla Svizzera e da questa rigettata.
(4) Gilberto Oneto, “I confini della Padania”, su Quaderni Pa-
N
dani (n. 3, gennaio-febbraio 1996), pagg. 10 ÷ 18.
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19
Quaderni Padani - 21
due elementi: il confine storico (che coincide
quasi completamente con quello amministrativo attuale) che è antico e consolidato e la divisione etno-linguistica.
L’Etruria potrebbe coincidere (in una ipotesi
di minima estensione) con la Toscana etno-linguistica (o storica) o allargarsi anche all’Umbria
e alla Provincia di Viterbo (facendo prevalere antichi legami storici e la forza dei residui genetici) e alle Marche (privilegiando una forte omogeneità socioeconomica).
Per la Sicilia e la Sardegna i caratteri storici e
etno-linguistici sono del tutto sovrapponibili a
quelli geografici, con la sola secondaria eccezione di talune isole alloglotte.
L’Italia propriamente detta si presenta in compenso come una struttura piuttosto omogenea
sotto tutti i punti di vista (con la sola presenza di
qualche isola alloglotta) e con l’unica e specialissima possibile anomalia di Roma che potrebbe
però, in una ipotesi federale, diventare un Distretto federale o trovare uno statuto speciale con forti
componenti internazionali che le derivano dalla
presenza del Vaticano.
Molto interessante è affrontare il problema della possibile esistenza di “Stati cuscinetto” (Pufferstaat) indipendenti o costruiti secondo lo schema delle “Regioni europee” (“Euregioni”), dotate di forte autonomia sovrapposta a un delicato
equilibrio di sovranità intrecciate (5). Un progetto del genere può riguardare la Valle d’Aosta, il
già citato Tirolo e l’Istria.
Le più recenti aspirazioni Savoisiane e l’autonomia storica della Valle potrebbero consentire
la creazione di uno stato cuscinetto arpitano, do-
(5) Si vedano: Gualtiero Ciola, “Der Pufferstaat: lo stato cuscinetto”, su Quaderni Padani (n. 5, maggio-giugno 1996), pagg.
26 ÷ 28. e Michel Korinman, “Euroregioni o nuovi Länder”,
su Limes (n. 4, 1993), pagg. 65 ÷ 78.
20
22 - Quaderni Padani
tato di doppia sovranità o largamente autonomo.
Questo permetterebbe anche di porre fine all’ambiguità del francesismo di Aosta che tornerebbe
arpitana a tutti gli effetti. Nel processo decisionale potrebbero anche essere coinvolte le valli
arpitane del torinese e le altre aree franco-provenzali al di fuori della Savoia storica.
Ancora più facilmente definibile è la situazione del Tirolo che potrebbe ritornare ai suoi confini storici ponendo fine a una dolorosa divisione
durata ottant’anni: esso potrebbe però comprendere anche il Voralberg e il Trentino-Welschtirol
(secondo l’esistente avanzato progetto di Euregione), coinvolgere le comunità ladine del bellunese (sia quelle tirolesi fino al 1918 che quelle
storicamente “veneziane”) ed, eventualmente,
anche l’isola linguistica tedesca di Sappada-Pladen.
Anche in Istria ci sono forti fermenti autonomisti. Uno stato cuscinetto permetterebbe di risolvere molti dei problemi di quella terra, fra cui
quello della minoranza istro-veneta (ora divisa fra
tre Stati) e della situazione del porto di Trieste.
Un caso a sé dovrebbero costituire le vallate
occitane e la Slavia veneta che potrebbero in linea teorica chiedere di aggregarsi alle loro Nazioni di riferimento purché fossero verificate le
condizioni di cui si è detto.
Più complessa appare la situazione delle isole
alloglotte di Greci, Albanesi e di Serbo-croati nell’Italia propriamente detta.
L
a nuova carta geopolitica della penisola italiana potrebbe così essere ridisegnata facendo prevalere buon senso, civiltà, riguardo per le libertà, per le autonomie e le differenze culturali (tutta
merce purtroppo rara nell’Italia post-unitaria) e
il supremo rispetto per l’inalienabile diritto naturale a decidere della propria vita di individui e
di comunità e di scegliere di stare con chi si vuole. Ne trarrebbero vantaggio tutti.
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
L'autodeterminazione nel mondo:
le strade degli altri
Norvegia
La Norvegia ha cominciato a perdere gradualmente la propria indipendenza a partire dal XIV secolo;
nel 1537 il Re di Danimarca ha ufficialmente sancito l’annessione
della Norvegia al suo regno.
Nel 1814, la Norvegia è stata tolta alla Danimarca e data alla Svezia
in compenso dell’aiuto da quest’ultima prestato agli alleati nelle guerre anti-Napoleoniche e come risarcimento per la cessione della Finlandia (fino ad allora svedese) alla
Russia.
Per resistere a quella annessione
decisa sulla testa del popolo norvegese si è costituito un gruppo di separatisti che si è autoconvocato in
Assemblea nella cittadina di Eidsvold e ha proclamato l’indipendenza della Norvegia: in soli dieci giorni e dieci notti gli autonomisti sono
riusciti a discutere, stendere e adottare una Costituzione che istitituiva una Assemblea nazionale (lo
Storting). Tale documento è risultato essere lo strumento fondamentale più democratico e moderno allora esistente al mondo, con una
struttura così ben concepita e agibile che ancora oggi essa è la Costituzione Norvegese.
L’esercito svedese ha però ben
presto e facilmente avuto la meglio
su quella sparuta minoranza di indipendentisti e ha saldamente occupato il paese. Su suggerimento
inglese però, Svezia e Norvegia
sono stati mantenute come due regni formalmente separati e uniti
sotto una unica corona (come Inghilterra e Scozia): il sovrano svedese nominava anche un Gabinetto norvegese che però aveva sede a
Stoccolma e agiva alle dirette dipendenze del Re. A Oslo era invece
insediato un Governatore Genera-
le che rappresentava la corona svedese. Per evitare disordini e reazioni la Svezia ha lasciato formalmente in vita lo Storting privandolo di
ogni potere reale e facendone una
sorta di giocattolo formale.
In verità, in questa e in tutte le
occasioni successive, la Svezia si è
sempre comportata con grande civiltà e moderazione, esercitando il
proprio potere senza eccessi e lasciando in vita una serie di strutture formali che non rappresentavano nessun reale pericolo per la sua
autorità.
Negli anni successivi la Norvegia
ha gradualmente ottenuto qualche
piccolo scampolo di autonomia (la
separazione delle carriere burocratiche fra i funzionari dei due regni,
la separazione dei debiti nazionali)
e un importante e significativo (seppur temporaneo) risultato: la creazione di una banca centrale norvegese in grado - pur fra mille difficoltà economiche - di battere moneta propria. Dal 1875 le monete
sono state di nuovo parificate.
L’autonomismo norvegese di
quegli anni basava la sua azione su
due linee portanti: 1) assumere la
responsabilità finanziaria e la totale autogestione della propria economia con coraggio e ad onta della
situazione complessiva tutt’altro
che rosea e 2) cercare di raccogliere e ottenere qualsiasi frammento
(anche solo simbolico) di indipendenza possibile, anche se poteva
sembrare apparentemente marginale o incoerente.
Così, nel 1821 la Norvegia si è
data una bandiera (pur non riconosciuta come “nazionale”) e una festa nazionale: il 17 maggio, data di
adozione della vecchia Costituzione del 1814.
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
A partire dal 1859, lo Storting ha
cominciato ad assumere un atteggiamento sempre più duro e a prendere posizioni in forte contrasto
con quelle del Governo svedese e di
quello norvegese fantoccio, in una
contrapposizione che è durata 46
anni.
Fra le iniziative che sono state
poste in atto ci sono state quella di
rigettare la validità reciproca delle
decisioni dei tribunali e una proposta di unione doganale, e la richiesta di abolizione della carica di Governatore Generale.
Nello stesso periodo i Norvegesi
si sono impegnati per incrementare le loro attività commerciali (e il
loro benessere) e si sono dedicati
con grandissimo impegno a studiare la propria storia, il proprio folclore e a crearsi una lingua propria.
Quello della lingua norvegese costituisce uno dei più straordinari
episodi di rinascita culturale e di
impegno indipendentista: gli intellettuali norvegesi (ma anche gli insegnanti e la gente comune) hanno cominciato ad inserire nel Danese (allora usato come “lingua
franca” scandinava) quanti più parole e modi di dire locali potevano
trovare, fino a fare diventare gli elementi indigeni più numerosi e prevalenti: il linguaggio che si è formato in questa continua opera di
trasformazione (che dura tutt’oggi) è poi diventato lingua ufficiale
del Paese.
Il movimento indipendentista si
è trovato nella seconda metà del
XIX secolo anche a dovere contrastare l’azione e l’influenza di una
forte corrente culturale e politica
“scandinavista” che rivendicava
l’unità fra tutti i paesi scandinavi: a
quel tempo l’unificazione politica
21
Quaderni Padani - 23
era spesso vista come un segno di
progresso e come un illusorio strumento di diffusione di civiltà.
La storia tedesca e - soprattutto
- quella panslava e italiana sono anche il triste risultato della diffusione di tali disastrose utopie. Per loro
fortuna, gli argomenti autonomisti hanno avuto la meglio sulle
mode “scandinaviste” grazie al diffuso buon senso e a una serie di avvenimenti illuminanti, come la
guerra fra Germania e Danimarca
del 1864.
La perseverenza dello Storting ha
cominciato a dare i suoi frutti nel
1873 con l’abolizione del Governatore Generale, sostituito dalla figura del Ministro di Stato per la Norvegia: una vittoria poco più che
simbolica, ma importante sulla
strada dei piccoli passi. La Norvegia proseguiva con ostinazione nella sua politica “del tarlo”, fatta di
richieste continue e assillanti, eseguite con baldanza e pervicacia per
stancare l’avversario.
Ad un certo punto, in perfetta
coerenza con la linea perseguita, lo
Storting ha cominciato a deliberare che il Gabinetto per la Norvegia
risiedesse permanentemente a
Oslo. Ogni volta la Svezia esercitava il suo diritto di veto e ogni volta
lo Storting lo rideliberava. Ad un
certo punto lo Storting ha intimato ai Ministri di ubbidire e al loro
rifiuto li ha dichiarati decaduti.
In un clima di crescente tensione si temeva un colpo di mano militare da parte degli Svedesi e si è
cominciato ad organizzare Corpi
volontari di fucilieri.
A quel punto o la Svezia usava la
forza o accettava la richiesta di nominare un Governo che fosse responsabile davanti allo Storting. La
Svezia ha scelto ancora una volta
la via pacifica e ha concesso nel
1884 di formare un Governo norvegese risiedente a Oslo e responsabile davanti all’Assemblea nazionale.
Il modo con il quale lo Storting
ha da allora gestito i propri poteri
è esemplare in termini di rispetto
per la democrazia e di coerenza nel
percorrere la strada dell’indipendenza: si è preoccupato di introdur-
22
24 - Quaderni Padani
re un nuovo sistema giuridico, di
migliorare il sistema scolastico e di
estendere il suffragio elettorale. Più
minacciosamente, ha anche cominciato a organizzare l’esercito norvegese su basi più popolari: da questo momento il poi lo Storting
avrebbe potuto contare sull’esercito.
La situazione si è tranquillizzata
per alcuni anni ma, a partire dal
1888, il conflitto ha ripreso a infiammarsi su controversie economiche. La Svezia si stava in qualche modo vendicando del rifiuto
opposto anni prima dalla Norvegia
a costituire una unione doganale
applicando nei suoi confronti una
pesante politica tariffaria: la Svezia
rappresentava per la Norvegia una
larghissima fetta del suo interscambio commerciale e, per rimediare
ai guasti che la politica doganale
svedese le procurava, Oslo non poteva che rimediare incrementando
i suoi commerci con l’estero. Per
fare ciò la Norvegia doveva però
poter disporre liberamente di una
propria rappresentanza diplomatica all’estero che curasse i suoi interessi. Nel 1892 lo Storting ha perciò deliberato di sospendere alla
Svezia il pagamento del contributo
per il servizio consolare aggiunto
che fino ad allora questa svolgeva
per conto della Norvegia e di istituire unilateralmente un proprio
servizio diplomatico autonomo.
Il Re di Svezia ha posto il suo veto
che doveva però essere controfirmato dai ministri del Governo norvegese che si sono rifiutati di farlo.
Il Re ha allora sciolto il Governo
norvegese e ha formato un nuovo
Gabinetto ma lo Storting si è rifiutato di approvare quest’ultima risoluzione e ha di fatto messo il nuovo Gabinetto in condizione di non
poter governare su di un parlamento e su di un popolo che non ne riconoscevano l’autorità. Ancora una
volta si sono sentiti rumori di guerra ma (ancora una volta e come
sempre) entrambe le parti hanno
mostrato grande saggezza e moderazione prendendo tempo e continuando estenuanti negoziati.
Di nuovo lo Storting ha votato la
costituzione di un sistema diploma-
tico indipendente, ancora una volta il Re ha posto il suo veto, ancora
una volta i Ministri (pur da lui nominati) non hanno controfirmato
il veto: ci si trovava di nuovo in una
situazione di stallo identica alla
precedente.
I Ministri hanno così finito per
dimettersi ma il Re ha respinto le
loro dimissioni affermando che
“nessun altro governo poteva essere formato”.
A quel punto il Primo ministro
norvegese Michelsen ha sottilmente sostenuto la tesi che il Re poteva
esercitare le sue funzioni reali solo
costituzionalmente e poiché questo significava che egli poteva esercitarle soltanto per mezzo di un Gabinetto, egli stesso, sostenendo che
nessun governo poteva essere formato, aveva affermato che egli non
poteva più governare la Norvegia,
e così egli stesso aveva sciolto
l’unione. Questa interpretazione è
stata fatta passare come una trovata dello Storting, che prontamente
ha approvato, il 7 giugno 1905, una
risoluzione che sosteneva che
l’unione della Norvegia con la Svezia era giunta a termine e che, quindi, da quel momento avrebbe cominciato a comportarsi come il
Parlamento di uno stato sovrano.
Ne è - come prevedibile - seguito
un altro periodo di grandi tensioni: il Riksdag, il Parlamento svedese, ha rifiutato di ammettere che
l’unione era stata sciolta e ha perciò revocato la decisione dello Storting.
Di fronte alla prospettiva di uno
scontro militare, le parti (soprattutto la Svezia) hanno però mostrato
ancora una volta grande moderazione. Su suggerimento di Danimarca, Russia e Francia, la Svezia
ha infatti finito per decidere di risolvere la questione dicendo che se
i Norvegesi avessero accettato certe condizioni, la Svezia sarebbe stata disposta a negoziare la fine dell’unione.
Le principali condizioni poste
erano che la Norvegia smantellasse tutte le fortificazioni costruite
fino ad allora ai confini e che in
Norvegia si tenesse un referendum
per sapere se il popolo volesse dav-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
vero porre fine all’unione. Si trattava del riconoscimento del fondamentale diritto di autodeterminazione.
Le condizioni erano accettabili
per la Norvegia.
Nell’agosto del 1905 la stragrande maggioranza dei norvegesi si è
espressa liberamente votando per la
secessione e i negoziati sono iniziati
con sollecitudine. Questi erano
complessi e difficili ma ormai la
Svezia accettava il fatto che la Norvegia avesse deciso di diventare indipendente e, da parte sua, la Norvegia riconosceva l’evidente buona
fede della Svezia. In questa atmosfera distesa le trattative di accordo si sono svolte con rapidità e con
risultati proficui che sono stati di
buon grado accettati da entrambi i
paesi tant’è che entro la fine dell’anno 1905 tutto era risolto.
È difficile dire se la soluzione trovata e le modalità con cui si erano
evoluti gli eventi abbiano onorato
di più la Svezia o la Norvegia. A goderne in immagine e in benefici
sono state entrambe e a uscirne del
tutto vittoriosa è stata la civiltà che
tutti hanno saputo mostrare. La separazione così come si era svolta
non aveva danneggiato nessuno dei
due paesi; al contrario, li ha sicuramente favoriti entrambi, tanto
economicamente che politicamente.
Oggi Svezia e Norvegia sono due
democrazie libere e prospere, esse
vivono in grande amicizia e sono le
migliori clienti commerciali l’una
dell’altra.
Si è trattato di una secessione attuata senza ribellione armata, senza violenza, con ragionevolezza e
civiltà. Costituisce sicuramente un
esempio per tutti.
Gilberto Oneto
Irlanda
Con l’invasione anglo-normanna
dell’Irlanda e l’insediamento di Enrico II sul suo trono, gli occupanti
cercano di sostituire le tradizionali
leggi con norme discriminatorie nei
confronti della popolazione nativa.
I tentativi inglesi non sortiscono alcun effetto per secoli: nonostante i
dettami di un parlamento composto unicamente da elementi fedeli
al re d’Inghilterra e riunito per la
prima volta a Kilkenny nel 1366,
molti nuovi abitanti assumono lingua e tradizioni irlandesi e la corona d’Inghilterra è costretta a limitare la propria giurisdizione effettiva a una limitata zona intorno alla
città di Dublino. Solo i Tudor (sec.
XVI) si impegnano a fondo per sottomettere definitivamente l’intera
Irlanda: Enrico VIII inaugura una
campagna di conquista proseguita
poi da Maria e, soprattutto, da Elisabetta I, che stronca spietatamente la ribellione del conte ulsteriano
Hugh O’Neill.
Dopo questo cruento confronto
armato, l’Inghilterra si accorge che
gli abitanti dell’Ulster (che è poi l’antico regno settentrionale d’Irlanda)
sono i più ostinati oppositori del
dominio inglese e rappresentano,
quindi, un costante pericolo per i
progetti di Londra. Viene, perciò,
deciso di schiacciare definitivamente la popolazione della regione attraverso l’insediamento di coloni
fedeli alla corona d’Inghilterra: Giacomo Stuart, successore di Elisabetta e sovrano d’Inghilterra e di Scozia, assegna un gran numero di terre a personaggi provenienti da questi due regni. Il collante che tiene
uniti i nuovi abitanti dell’Ulster è
rappresentato dalla religione: i coloni sono protestanti, mentre la popolazione irlandese non ha aderito
alla Riforma ed è, quindi, rimasta
cattolica. La colonizzazione forzata
dell’Ulster è proseguita massicciamente da Oliver Cromwell che, dopo
aver preso il potere in Inghilterra,
sottomette con le armi l’Irlanda e la
mette a ferro e fuoco. Viene così
compiuto il furto in larga scala ai
danni degli irlandesi che, da legittimi abitanti dell’isola, vengono, nell’Ulster, gradualmente ridotti a minoranza. Con la successiva guerra,
in cui Guglielmo d’Orange sottomette gli eserciti cattolici di Giacomo II Stuart (1691), si inaugura, in
tutto il Paese, rimasto a maggioranza cattolica (a differenza della sua
parte settentrionale), una politica di
durissima discriminazione religiosa nei confronti dei cattolici. Nel
frattempo i protestanti dell’Ulster si
raggruppano in un’organizzazione
massonica denominata “Loggia di
Orange” (in onore di Guglielmo),
che si fa portatrice di una politica di
terrore nei confronti dei cattolici rimasti.
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
Sull’onda della Rivoluzione americana, lo scenario sembra mutare.
Gli stessi protestanti irlandesi, detentori di un potere smisurato nei
confronti dei cattolici ma scontenti
della scarsa autonomia concessa
loro da Londra, forzano la mano a
un’Inghilterra stremata dalla guerra con le colonie d’oltre oceano e impongono a Londra di concedere loro
una buona dose di autogoverno
(1782). Legato ancora all’Inghilterra ma sufficientemente autonomo
per legiferare, un Parlamento irlandese ancora interamente composto
da membri della minoranza protestante (i cattolici, infatti, non possono accedervi) inizia la propria attività, restando comunque legato a
un approccio strettamente anglosassone. Contemporaneamente, si notano segnali contrastanti nell’Ulster:
mentre, da un lato, prosperano le
logge orangiste anti-cattoliche e
anti-irlandesi, dall’altro un buon
numero di protestanti cambia posizione e si schiera con le società repubblicane degli United Irishmen.
Aconfessionale e anti-colonialista,
questo nuovo movimento si batte
per il totale affrancamento dall’Inghilterra, la parità di diritti tra cattolici e protestanti e la nascita di una
nuova Irlanda in cui tanto gli autoctoni quanto i discendenti dei coloni si sentano pienamente irlandesi. Proprio lo sviluppo degli United
23
Quaderni Padani - 25
Irishmen e un’insurrezione indipendentista tentata dal loro leader, Wolfe Tone, con l’appoggio di reparti
francesi, sono il pretesto con cui
Londra (ormai ripresasi dallo choc
americano) revoca l’autogoverno irlandese. Nel 1800, dunque, il Parlamento d’Irlanda, ormai privo delle
spinte anti-inglesi del 1782, vota per
esautorarsi. L’“Atto d’Unione” tra
Gran Bretagna e Irlanda è, quindi,
cosa fatta.
Il diciannovesimo secolo vede lo
sviluppo del repubblicanesimo irlandese e un ammorbidimento delle leggi discriminatorie nei confronti dei
cattolici (finalmente eleggibili); i disastrosi moti del 1848 e la tremenda
carestia (provocata da Londra) che
dimezza la popolazione; l’esplosione
del movimento irredentista dei feniani (la Irish Republican Brotherhood)
e la successiva affermazione del partito irlandese per l’autogoverno (guidato da Parnell, personalità di grande spessore); niente, tuttavia, scardina il potere dell’Inghilterra sull’Irlanda. Due piani elaborati dal premier inglese Gladstone (liberale) per
l’autogoverno irlandese vengono
bocciati a Westminster per l’opposizione degli “orangisti” dell’Ulster,
contrari ad ogni indebolimento del
loro smisurato potere nei confronti
dei cattolici.
I protestanti ulsteriani sono fomentati da due personaggi di opposti schieramenti politici: il conservatore Randolph Churchill e il liberale
Joseph Chamberlain. Proprio Chamberlain è il progenitore di un’idea ritenuta ai suoi tempi piuttosto strana: la partizione dell’Ulster dal resto
del Paese. In queste condizioni la storia irlandese si affaccia al novecento, periodo cruciale per la pur mutilata indipendenza irlandese.
La bocciatura dei due piani di autogoverno (Home Rule Bills), unita
alla morte di Parnell e al disfacimento del suo partito, sembrano aver
tacitato le speranze in un miglioramento delle condizioni dell’Irlanda.
In realtà, qualcosa di nuovo cova
sotto le ceneri. Si afferma la figura
del leader socialista-separatista James Connolly che sostiene il confronto armato e, ricalcando il vecchio detto secondo cui ogni difficol-
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26 - Quaderni Padani
tà dell’Inghilterra può rivelarsi una
buona occasione per l’Irlanda, propone una rivoluzione nazionale
mentre è in corso la guerra boera.
Sale anche il nazionalismo piccoloborghese, più refrattario nei confronti di scenari insurrezionali e
avverso alla lotta di liberazione dei
proletari e ai diritti della classe lavoratrice. Nel 1904, il leader di questi ultimi schieramenti, il cattolico
Arthur Griffith, elabora una originale strategia politica per l’indipendenza dell’Irlanda partendo da un
semplice assunto: un Parlamento
non ha il potere di deliberare la fine
dell’indipendenza del proprio Paese. Nel 1800, invece, il Parlamento
irlandese ha votato la fine del pur
parziale autogoverno dell’Irlanda.
Quindi, l’Atto d’Unione è formalmente nullo, l’Irlanda è ancora indipendente per legge e la presenza
inglese in Irlanda è illecita. Il ritorno alle condizioni esistenti nell’ultimo ventennio del settecento (aggiungendo, naturalmente, l’eleggibilità dei cattolici, diritto conquistato nel corso del secolo successivo)
avrebbe dato all’Irlanda una sorta di
indipendenza, perfezionabile con il
tempo. Stabilito il punto, Griffith
traccia le strategie per ristabilire la
legalità. Ispirandosi all’accordo austro-ungarico del 1867 e all’azione
dei nazionalisti magiari, il pensatore irlandese rinuncia al repubblicanesimo e lancia il compromesso della duplice monarchia. A grandi linee è anche la situazione degli anni
1782/1800: due stati indipendenti
con il sovrano in comune e qualche
altro legame tra di loro. Una simile
soluzione - sostiene Griffith - potrebbe rappresentare un compromesso tra il repubblicanesimo e le
posizioni unioniste dei protestanti
dell’Ulster (semplice illusione: gli
orangisti avevano, in passato, bocciato con forza piani di autogoverno ancora più blandi). Come arrivare a una simile situazione? Imitando i nazionalisti magiari che, nella
seconda metà dell’ottocento, avevano rifiutato di sedersi al Parlamento di Vienna riunendosi in assemblea autonoma in patria. Anche i
deputati irlandesi - precisa Griffith
- devono rifiutarsi di sedere al Par-
lamento di Londra: l’unione tra Irlanda e Inghilterra non ha validità
legale e, di conseguenza, lo stesso
Parlamento del Regno Unito è fuorilegge. I deputati nazionalisti irlandesi dovranno astenersi dalle sedute di quel consesso e, una volta ottenuto il 51% dei seggi irlandesi,
formeranno un Parlamento autonomo a Dublino. A questo punto - sempre secondo le previsioni di Griffith
- gli inglesi reagiranno con la forza.
La popolazione irlandese dovrà
adottare una strategia nuova e nonviolenta: la resistenza passiva.
In realtà, in quel momento storico, i deputati nazionalisti irlandesi
(nel frattempo il partito che era stato di Parnell si era riunificato) sono
moderati e non intendono lasciare
Westminster, accontentandosi di
lottare per l’autonomia. Nasce, così,
un nuovo movimento indipendentista (fondato dallo stesso Griffith),
la cui idea cardine è l’indipendenza
dell’Irlanda da ottenersi attraverso
il non riconoscimento del Parlamento di Londra e la formazione di
un’assemblea indipendente a Dublino. Il nuovo movimento viene a
chiamarsi “Sinn Féin” (gael. “noi
stessi, noi con le nostre forze”) e i
suoi teorici affiancano la vecchia
idea di “indipendenza dall’alto” a
una nuova tattica di “indipendenza
dal basso”. Contemporaneamente al
boicottaggio del Parlamento di Londra, bisognerà spronare all’azione i
“parlamentini” delle contee (sorte di
consigli regionali): riunendoli insieme come Parlamento a Dublino si
potrebbe ugualmente dichiarare
l’indipendenza (essendo i consiglieri
di contea eletti regolarmente da cittadini irlandesi). Nel mentre, si dovrebbero spargere per l’Europa “rappresentanti commerciali” irlandesi
che agirebbero praticamente da ambasciatori e consoli e, a livello popolare, boicottare Londra (anche
attraverso scioperi fiscali).
Il “Sinn Féin” si presenta, inizialmente, come un grosso contenitore di diverse posizioni politiche. Unici punti fermi sono, infatti, il non
riconoscimento dell’unione tra
Gran Bretagna e Irlanda, il rifiuto
di sedersi al Parlamento di Londra
e l’obiettivo di formare un’assem-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
blea sovrana a Dublino una volta
raggiunta la maggioranza assoluta
dei seggi ottenuti in Irlanda. La resistenza passiva e la trasformazione
dello stato in duplice monarchia,
propugnate da Griffith, non divengono dottrina ufficiale del movimento, ma restano una delle vie percorribili: all’interno del Sinn Féin
convivono pacifisti e irredentisti, repubblicani e sostenitori della duplice monarchia. Il Sinn Féin non ottiene, inizialmente, grandi fortune
elettorali, mentre a Westminster si
discute un terzo piano di autogoverno per l’Irlanda, ancora più debole
dei due precedenti. Nonostante questa ultima considerazione, i protestanti dell’Ulster lo rifiutano con
forza, si armano e si fanno minacciosi. L’esercito britannico, nonostante gli ordini, si rifiuta di opporsi con le armi agli unionisti. Davanti a questi avvenimenti, i nazionalisti (anche i più moderati) si armano per potersi difendere. Nasce così
il corpo degli Irish National Volunteers. Nel mentre, scoppia la prima
guerra mondiale. Il campo nazionalista irlandese si divide: Redmond,
capo dei moderati e degli Irish National Volunteers, si schiera con
l’Inghilterra: l’autogoverno - sostiene - è a un passo e Londra lo concederà con maggiore facilità se gli irlandesi combatteranno a fianco dell’Intesa. Questa posizione è aspramente contestata da Connolly, Griffith e Patrick Pearse, grande teorico repubblicano e influente membro dell’Irish Republican Brotherhood, che si schierano a fianco della
Germania. L’invito che Redmond rivolge agli Irish National Volunteers
di affiancarsi all’esercito britannico
per combattere le armate tedesche
sdegna coloro che vedono l’Inghilterra come l’unica potenza nemica.
Ne segue la scissione degli Irish
National Volunteers: nasce la milizia degli Irish Volunteers, che comincia a organizzarsi e ad armarsi.
Nel mentre, James Connolly fonda
una milizia di ispirazione socialista,
la Citizen Army (prima “Armata
Rossa” della storia), impiegata inizialmente per difendere la classe lavoratrice.
Il Lunedì di Pasqua del 1916, que-
ste due milizie si uniscono e forniscono l’esercito della Repubblica Irlandese, proclamata a Dublino in
mattinata da Patrick Pearse. La dichiarazione d’indipendenza non è
stata deliberata (come aveva teorizzato Griffith) da un Parlamento sovrano, ma da alcuni leaders nazionalisti (dal cui novero è assente lo
stesso Griffith). Il principio di legalità evocato nel testo della dichiarazione d’indipendenza ha origini ancora più remote di quello caro ai
sostenitori del Sinn Féin:
“Noi sosteniamo il diritto del popolo irlandese alla proprietà dell’Irlanda e ad un controllo senza alcuna restrizione dei destini irlandesi,
perché essi siano sovrani e inalienabili. La lunga usurpazione di questo diritto da parte di un popolo
straniero e di un governo straniero
non ha estinto quel diritto, né esso
può essere mai spento eccetto che
con la distruzione del popolo irlandese”.
L’ultimo governo legale dell’isola
non è, quindi, il Parlamento del
1782/1800, concesso da Londra, ma
la libera Irlanda precedente alla prima invasione inglese. Per secoli, gli
irlandesi hanno lottato per tornare
liberi: ciò rafforza il loro diritto all’indipendenza e stabilisce virtually
la repubblica sovrana.
L’insurrezione, avversata da gran
parte della popolazione, è domata in
una settimana; i leader repubblicani che la hanno guidata, tra cui Pearse e Connolly, vengono fucilati;
altri personaggi che niente vi avevano avuto a che fare sono arrestati; ogni associazione nazionalista o
culturale irlandese viene sciolta.
L’emozione popolare che segue le
fucilazioni è fortissima: gli irlandesi, precedentemente paghi di una
soluzione di autonomia, si radicalizzano proprio in seguito alla reazione delle istituzioni inglesi. Il Sinn
Féin ritorna sulla scena, riaffermando i propri principi cardine (illegalità di Westminster, formazione di
un Parlamento a Dublino) ma cambiando la prospettiva strategica.
L’obiettivo non è più la duplice monarchia, ma la repubblica: tutti i rap-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
porti con l’Inghilterra devono essere tagliati. Il mutamento è reso possibile dalla presa di potere, all’interno del partito, degli intransigenti,
guidati da Eamon De Valera e Michael Collins.
Alle elezioni del 1918 il Sinn Féin
conquista la maggioranza assoluta
dei seggi ottenuti in Irlanda. Secondo i dettami del movimento, i parlamentari del Sinn Féin si riuniscono in assemblea a Dublino e proclamano la Repubblica d’Irlanda. Le
forze favorevoli alla resistenza passiva sono, ormai, numericamente
inferiori rispetto agli intransigenti.
Ne segue una dura guerra con le forze britanniche, mentre i delegati irlandesi a Versailles si appellano (invano) al presidente americano Wilson e al principio di autodeterminazione dei popoli. Nel 1921 viene firmata una tregua e si aprono trattative. L’Irlanda, praticamente vittoriosa sul campo, si fa battere dalle
armi diplomatiche degli abili delegati britannici, guidati da Lloyd George. I rappresentanti irlandesi,
Griffith e Collins, si fanno clamorosamente imbrogliare e accettano la
mutilazione dell’indipendenza irlandese. Sei contee dell’Ulster restano
in mano britannica; inoltre, lo Stato irlandese non sarà repubblicano
ma parte del Commonwealth. Il Parlamento irlandese approva a stretta
maggioranza il trattato di pace. Gli
intransigenti protestano con i moderati: essi stessi avevano sostenuto
l’impossibilità da parte di un Parlamento di menomare l’indipendenza già conquistata di una nazione:
come avevano potuto essi firmare un
trattato di segno contrario? Proprio
questo principio è alla base della
guerra civile irlandese, combattuta
tra i sostenitori del trattato e i repubblicani (capitanati da De Valera).
Vincono i primi, e l’indipendenza del
paese rimane menomata. Qualcosa
cambia: nel 1937, De Valera, ora a
capo del governo, promulga una costituzione quasi repubblicana. Nel
1948 l’Irlanda diviene una repubblica, tagliando i residui legami con
l’Inghilterra. Le sei contee del nord
restano, però, saldamente nelle
mani di Londra fino ai giorni nostri.
Max Costello
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Quaderni Padani - 27
La cosiddetta «Irlanda del Nord»
L’Irlanda è stata smembrata in
due stati distinti solo in epoca recente, nel 1920, dopo che era stata riconosciuta come unità per più
di 1500 anni. L’inizio delle invasioni anglo-normanne risale al
1169, ma fino al 1600 gli invasori
non riuscirono ad infrangere il sistema gaelico di organizzazione
sociale grazie alla strenua resistenza popolare. La conquista vera e
propria avvenne per opera dei Tudor. In quanto promotore della Riforma Anglicana, Enrico VIII (che
nel 1541 si fece nominare re d’Irlanda) contribuì involontariamente al processo di identificazione tra
cultura gaelica e cattolicesimo. Il
successivo coinvolgimento del Papato e degli Spagnoli nel conflitto
anglo-irlandese proietterà a lungo
sugli Irlandesi il sospetto di operare al servizio di potenze straniere. Dopo che i capi clan dell’Ulster
erano stati sconfitti nella battaglia
di Kinsale, le loro terre vennero
confiscate dai colonizzatori e la
città di Derry divenne “Londonderry”. Con questa operazione di confisca prese avvio il metodo della
“piantagione”, ossia quello di trapiantare nelle colonie ribelli una
popolazione “lealista”, fedele alla
corona. All’epoca vennero impiegati circa 200.000 coloni, al 90%
scozzesi. Nel 1641 una rivolta per
l’indipendenza e la libertà di religione portò alla costituzione del
Parlamento Nazionale di Kilkenny. Nel 1649 la brutale repressione di Oliver Cromwell, alla testa
dell’esercito puritano, mise fine
alla rivolta e una ulteriore confisca favorì la nascita di una nuova
classe di proprietari terrieri protestanti. Ebbe così inizio un processo di diversificazione tra
l’Ulster (a cui vennero concessi
particolari privilegi per favorire lo
sviluppo dei commerci e delle attività produttive) e il resto dell’Irlanda che, a causa dello sfruttamento coloniale, sprofondò nella
miseria. Il 1690 è l’anno della battaglia del fiume Boyne e della vit-
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Murales in onore di Pearse e Connolly
toria di William d’Orange contro
gli Stuart, di recente restaurazione (1685) e di simpatie cattoliche.
Nel corso del 1600 le terre di proprietà degli irlandesi si erano ridotte dal 90% al 14% e in seguito
diminuirono ulteriormente. Con
le “Penal Laws” i cattolici vennero privati anche dei diritti politici
ed erano inoltre esclusi da ogni
carriera remunerativa e di prestigio. Nel corso del XVIII secolo tra
i contadini cominciarono a diffondersi società segrete di resistenza
e le idee democratico-repubblicane cominciarono a influenzare gli
irlandesi, sia cattolici che presbiteriani.
Dopo la firma del trattato angloirlandese la provincia dell’Ulster,
ora costituita solo da sei contee
(Londonderry, Antrim, Tyrone,
Fermanagh, Armagh, Down) per
garantire ai protestanti la maggioranza, restava parte integrante del
Regno Unito. Il Parlamento nordirlandese, lo Stormont vide succedersi una serie di governi regolarmente dominati dall’Ulster
Unionist Party, legato all’Orange
Order. Nel 1929 venne abolita la
rappresentanza proporzionale dei
collegi uninominali, indebolendo
ulteriormente il peso politico del-
la minoranza cattolica. Va ribadito che questa minoranza è stata
comunque creata artificialmente,
ritagliando frontiere ad hoc; i cattolici del nord sono in realtà ben
consapevoli di appartenere ad una
maggioranza nell’ambito del territorio nazionale, cioè dell’Irlanda intera. Venne inoltre mantenuto nelle elezioni amministrative
locali, invece del suffragio universale, il diritto di voto per i soli contribuenti (ratepayers’ franchise)
favorendo ulteriormente le discriminazioni nella assegnazione dei
posti di lavoro e nell’assegnazione
di case popolari. Contro queste discriminazioni nel 1968 si costituì
l’Associazione per i Diritti Civili in
Irlanda del Nord (NICRA) con lo
slogan “one man, one vote”. Il NICRA richiedeva: suffragio universale nelle elezioni locali, equa regolamentazione per la assegnazione degli alloggi, abolizione dei
poteri speciali della polizia. Ben
presto però il comportamento della RUC (Royal Ulster Constabulary, polizia nordirlandese composta in massima parte da protestanti) e dei “B Specials” (Special
Ulster Constabulary) nei confronti
delle manifestazioni, tolse ai cattolici ogni illusione di poter paci-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
ficamente riformare il sistema. Le
marce di protesta venivano regolarmente attaccate dagli estremisti protestanti e le forze di polizia
si schieravano apertamente con
questi ultimi. Inoltre in varie occasioni vennero attaccate le aree
cattoliche di Derry (Bogside) e
Belfast (Falls Road). Da qui bisogna ripartire per comprendere
come quello che inizialmente era
stato un movimento pacifico per i
diritti civili segnasse la ripresa della lotta armata da parte dell’IRA.
Il 15 agosto 1969, le truppe inglesi entrano a Belfast e il 6 febbraio
1971 l’IRA abbatte il primo soldato inglese. Il 9 agosto dello stesso
anno viene introdotto l’internamento a tempo indeterminato (durante il quale viene impiegata anche la tortura fisica). Si intensificano gli scontri di strada e il 30
gennaio 1972 le truppe massacrano tredici manifestanti indifesi a
Derry (domenica di sangue).
Due mesi dopo Londra riprende direttamente in mano l’amministrazione dell’Ulster e “concede”
ai detenuti repubblicani lo status
di prigionieri politici. Ma la pressione giudiziaria si fa sempre più
pesante: nel 1973 vengono introdotti i tribunali speciali, senza giuria, e nel 1974 con il “Prevention
of terrorism act”, il fermo di polizia viene portato a sette giorni.
Nelle carceri si organizzano scioperi della fame che provocano alcune vittime (Michael Gaugham e
Frank Staff). Nel 1975 viene revocato lo status di prigioniero politico. Il 27 ottobre del 1980 inizia
negli H Block del carcere di Long
Kesh (un ex aeroporto denominato “Maze”) uno sciopero della fame
che - dopo essere stato sospeso a
Natale e ripreso nel marzo 1981 porterà alla morte di sette militanti dell’IRA e tre dell’INLA: Bobby
Sands, Francis Hughes, Raimond
Mc Creesh, Patsy O’Hara, Joe Mc
Donnel, Martin Hurson, Kevin
Lynch, Kieran Doherty, Thomas
Mc Ilwee, Miki Devine.
La seconda metà degli anni ottanta è segnata dall’infinita sequenza di omicidi settari operati
da squadre della morte lealiste
(UVF, UFF). Con la tregua decretata due anni fa dall’IRA e i successivi colloqui di pace sembrava
che la soluzione politica fosse a
portata di mano. Oltre all’amni-
stia per i prigionieri politici (circa
settecento) condizione indispensabile per un duraturo cessate il fuoco era il graduale ritiro delle truppe britanniche dall’Irlanda del
Nord. “Questo - come ci aveva confermato Gerry Adams - non comporterebbe l’immediata riunificazione perché è un problema su cui
deve decidere l’intero popolo irlandese. Naturalmente il Sinn
Fein auspica uno stato unitario,
con strutture governative decentrate; ma una società veramente
democratica è assolutamente impensabile finché permane la presenza militare inglese”. Secondo
il Sinn Fein (ma su questo concorda sostanzialmente anche l’altro
partito cattolico dell’I.d.N., il Social Democratic and Labour Party) la decisione sul futuro assetto
dell’Irlanda dovrebbe essere presa
da un referendum indetto in tutta
l’isola. Invece i lealisti lo vorrebbero solo nell’Irlanda del Nord,
dove rappresentano ancora una
maggioranza (anche se, va ricordato, sempre più esigua: attualmente sono il 55% della popolazione).
Gianni Sartori
Islanda
Popolata nel IX secolo da coloni
norvegesi, l’Islanda si è data il primo Parlamento autonomo (l’Althing) nel 930: esso ha continuato
a funzionare sotto il dominio norvegese e poi sotto quello danese (subentrato nel 1380) fino alla sua soppressione nel 1800. Il periodo di assolutismo danese ha cominciato a
placarsi solo dopo le guerre napoleoniche.
Gli anni precedenti il 1848 sono
stati il periodo di incubazione di un
movimento nazionale che aveva,
sotto la guida di Jòn Sigurdsson, lo
scopo di ottenere il ripristino dell’autogoverno. Nel 1843, re Cristiano III di Danimarca è stato costretto dalle pressioni autonomiste a fare
parziali concessioni, riconvocando
l’Althing, sia pure soltanto con fun-
zioni consultive.
Queste prime vittorie incoraggiarono il movimento autonomistico
spingendolo verso la richiesta pura
e semplice dell’indipendenza o
quanto meno di un’ampia autonomia legislativa e del riconoscimento all’Althing del diritto di intervenire in materia fiscale: nel 1874 Cristiano VIII concedeva il potere legislativo all’Althing (la cui composizione fu riformata nel 1903), affermando il definitivo consolidamento degli organi di autogoverno locali. Ma neppure il soddisfacimento di
queste istanze più avanzate fu sufficiente ad arginare le tendenze centrifughe, il cui fervente separatismo
fu ulteriormente incoraggiato dall’esempio della secessione della Norvegia dalla Svezia nel 1905. In que-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
sto clima fu intrapreso da Federico
VIII il tentativo di organizzare un
nuovo assetto dei rapporti tra
l’Islanda e la Danimarca. Esso sfociò nel 1918 nel riconoscimento dell’indipendenza dell’isola, i cui legami con la Danimarca sopravvivevano soltanto nell’unione personale
del sovrano; all’Islanda era riconosciuto inoltre il diritto di sciogliere
anche questa residua unione dopo
il 1940.
Nel corso della Seconda Guerra
Mondiale, l’Althing proclamava lo
scioglimento dell’unione con la Danimarca che diventava effettivo a
partire dal 17 giugno 1944. Acquistata così l’indipendenza completa,
l’Islanda si diede la forma istituzionale repubblicana.
Ottone Gerboli
27
Quaderni Padani - 29
Bretagna
La Bretagna del Neolitico vide lo
sviluppo di una civiltà megalitica caratterizzata dall’innalzamento di dolmens e menhirs, dal culto dei morti
e della Luna. Nel 600 a.C. i Celti invasero l’Europa occidentale installandosi soprattutto nell’attuale Irlanda, in Gran Bretagna e nelle Gallie.
In Bretagna varie popolazioni di origine celtica si scontrarono nel 57 a.C.
con le legioni romane di Giulio Cesare. Successivamente (nel V sec.) le
invasioni dei sassoni costrinsero i
bretoni delle isole a cercare una nuova terra. Per questo sbarcarono nell’Armorica.
Le frontiere storiche e l’indipendenza della Bretagna vennero di fatto riconosciute dai Franchi dopo la
sconfitta loro inflitta dall’esercito
bretone nell’845. Purtroppo la stabilità del regno di Bretagna non era destinata a durare. Pochi anni più tardi i normanni invasero a più riprese
la penisola, installandovi loro basi e
inserendosi nelle lotte di successione tra i principi bretoni. Solo nel 938,
sotto la guida di Alano Barbatorta, i
Bretoni riuscirono a scacciare gli invasori. Per la Bretagna, pienamente
inserita nel sistema feudale con capitale Nantes, ebbe inizio un periodo denso di alleanze, cospirazioni, rivolte e tradimenti (con la Guerra dei
Cento Anni sullo sfondo), venendo
tra l’altro occupata dagli inglesi per
trentanni. Nel 1487 ebbe inizio la
guerra di Indipendenza della Bretagna.
Il ducato di Bretagna
È importante segnalare che nell’epoca feudale, la Bretagna aveva
molte caratteristiche di un paese democratico, per lo meno rispetto ai
suoi vicini. La più notevole istituzione era quella degli Stati di Bretagna,
più conosciuta come il Parlamento,
che ebbe grande influenza nella vita
politica del paese, soprattutto a partire dal secolo XV fino alla sua abolizione nel 1790. Nel 1489, la duchessa Anna di Bretagna viene incoronata all’età di dodici anni. Nel 1491,
Anna viene costretta a sposarsi con
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30 - Quaderni Padani
Carlo VII per salvare il paese dal saccheggio francese. In questo modo
ottiene di salvaguardare per il futuro l’indipendenza della Bretagna, obbligando il Re di Francia a riconoscere tre diritti fondamentali: pagare solamente le tasse stabilite dall’Assemblea degli Stati di Bretagna, applicare gli arbitri solamente in difesa del paese e che nessun bretone
avrebbe potuto essere giudicato fuori dalla Bretagna. Nel 1532 Francesco I, re di Francia, realizzò la definitiva annessione della Bretagna.
Nello stesso anno venne ratificato
dagli Stati bretoni un Atto di Unione
in cui si stabiliva che i diritti e le libertà di Bretagna sarebbero stati
mantenuti e rispettati. Naturalmente questo accordo bilaterale che salvaguardava l’identità bretone, sarà
costantemente violato dai francesi.
La rivolta dei Bonnets Rouges
Nel 1675, Luigi XIV è in guerra con
l’Olanda. Per poter far fronte alle forti
spese, il Re francese ordina di riscuotere nuove imposte senza l’accordo
degli Stati bretoni. I contadini e gli
abitanti dei quartieri poveri di Nantes e Rennes si sollevano in quella
che sarà conosciuta come la rivolta
dei Bonnets Rouges. La repressione
francese è tanto brutale che la resistenza contadina bretone si trasforma in un vero e proprio esercito di
liberazione. Successivamente i francesi, molto più numerosi, finiranno
con lo schiacciare la ribellione.
La Bretagna dovrà subire la maggiore e più feroce repressione di tutta la sua storia. All’epoca si disse che
“da ogni albero bretone pendeva un
impiccato”. Ma la resistenza continuò con altri mezzi: società segrete,
cospirazioni, colpi di mano... e naturalmente continuò anche la repressione. Nel 1720, venne scoperta
una cospirazione antifrancese e numerosi patrioti bretoni vennero decapitati a Nantes.
Nel 1789, con la Rivoluzione francese, scompare ogni traccia di autonomia bretone quando la Convenzione decide di sopprimere totalmente
l’esistenza degli Stati di Bretagna
(1790) e questa viene divisa in cinque dipartimenti. Nel 1793, nasce un
movimento bretone che si oppone al
centralismo giacobino della Rivoluzione: la Chouanerie. Verrà sconfitta solo dopo alcuni anni e il suo capo,
Cadoudal, verrà giustiziato per ordine di Napoleone. Così come la Rivoluzione, anche il primo Impero pretende di trasformare la popolazione
bretone in francese, inviando migliaia di giovani al servizio militare.
L’economia viene letteralmente dissanguata; a risentirne saranno soprattutto le condizioni di vita di contadini e operai. La Bretagna diventa
allora terreno propizio per un socialismo di ispirazione cristiana, almeno fino al 1884 quando comincia a
svilupparsi il sindacalismo, che porterà a numerosi scioperi e scontri
con le forze dell’ordine francesi.
Il primo Emsav
Alla fine del secolo XIX, la repressione contro la lingua e la cultura
bretone raggiunse il suo parossismo.
Apparve allora il primo Emsav (Movimento di Liberazione Bretone).
Durante la Ia Guerra Mondiale, la
Bretagna pagò un alto tributo di sangue: 240.000 morti, un bretone su
quattro tra quanti erano stati arruolati. Questa ecatombe portò alla nascita del secondo Emsav da cui si
staccarono gruppi come Breizh Atao
(Bretagna sempre). Il suo fondatore,
Morvan Marchal è anche l’ideatore
della bandiera bretone attuale, il
Gwenn ha Du (Bianca e Nera).
La minoranza collaborazionista
Con la II Guerra Mondiale, la Bretagna viene occupata dai nazisti. Molti giovani bretoni partono per Londra per unirsi alle Forze Francesi Libere, dirette da De Gaulle, mentre
nell’interno della Bretagna comincia
a svilupparsi la resistenza. I comunisti, maggioritari nella parte centrale di Bretagna e a Saint-Nazaire, si
organizzano nelle FTP. Ad essi si uniscono molti militanti dell’ala di sinistra del nazionalismo bretone, come
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
il comandante Thomas, più tardi assassinato dai nazisti. Invece la componente di destra del nazionalismo
bretone mostrerà chiaramente le sue
preferenze per le forze di occupazione, tentando di ottenere da Hitler
uno statuto di autonomia. Questa
minoranza collaborerà attivamente
con i tedeschi. Celestin Lainé, che
dirige il settore più oltranzista di
questi nazionalisti di destra, crea la
Bezen Perrot, una milizia armata che
si contraddistingue per la sua collaborazione con la Gestapo e con le SS
nel dare la caccia ai resistenti. Una
delle sue “imprese” più note (e che
dopo la guerra verrà rinfacciata a
tutti coloro che rivendicano il diritto all’autodeterminazione dei bretoni) è il massacro di decine di civili,
partigiani e paracadutisti francesi a
Saint Marcel, nel Morbihan (giugno
1944).
Azioni come questa vennero poi
usate strumentalmente dallo Stato
francese per poter perseguitare i nazionalisti bretoni con lo stesso rigore usato contro i collaborazionisti
francesi. Lainé e i suoi accoliti vennero fucilati o presero la via dell’esilio, ma nel dopoguerra spesso non si
fece distinzione tra i veri collaborazionisti e coloro che si erano semplicemente limitati a continuare la
loro militanza in difesa della lingua
e della cultura bretone. Sconfitto e
discreditato il movimento bretone
comincia a risollevarsi solo negli
anni cinquanta.
Nel 1957 nasce il MOB (Movimento di Organizzazione di Bretagna), federalista e interclassista. Da esso nel
1964 si staccano alcuni giovani militanti che costituiscono la UDB
(Unione Democratica Bretone). Nel
1966, a causa della totale indifferenza dimostrata dallo stato verso le rivendicazioni dei bretoni, entra in
scena una organizzazione armata: il
FLB (Fronte di Liberazione di Bretagna). Attraverso attentati e sabotaggi, il FLB rilancia la questione
della difesa dell’identità bretone.
Anni dopo sarà l’ARB (Esercito Rivoluzionario Bretone) che prenderà
il posto del FLB. Verso la fine degli
anni settanta entrano nella lotta nuovi gruppi nazionalisti.
È questo il momento in cui si as-
siste al rifiorire dell’insegnamento
della lingua bretone, ad un maggior
numero di pubblicazioni, alle lotte
in difesa dell’ambiente. Nel ’78, la petroliera Amoco-Cadiz naufraga di
fronte alle coste bretoni provocando
una terribile marea nera: 230.000
tonnellate di greggio contaminano
400 km di litorale. All’inizio degli
anni ottanta la popolazione di Plogoff, sulla punta della penisola, si oppone alla costruzione di una centrale nucleare creando una vasta mobilitazione in tutta l’opinione pubblica bretone. Dopo tre mesi di manifestazioni e scontri con la gendarmeria, il progetto sarà ritirato.
La situazione attuale
Breizh, BHZ: le tre lettere attaccate alla parte posteriore delle automobili bretoni riflettono il profondo
sentimento di appartenenza a una
cultura, una lingua, un popolo e una
nazione senza stato. La Bretagna è
una nazione che vive una situazione
conosciuta poco e male. Questo paese è in mano all’Amministrazione
francese che la divide territorialmente e che non tiene assolutamente
conto della sua lingua, della sua cultura, delle sue infrastrutture economiche. Tantomeno delle sue profonde rivendicazioni di autodeterminazione. Dal punto di vista economico
e sociale la Bretagna, come altre regioni periferiche dell’Esagono, vive
un momento difficile, dovuto alla
crisi generale e alla politica economica francese. L’agricoltura e la pesca, pilastri fondamentali della realtà socio-economica bretone, sono
state fortemente penalizzate dalle direttive CEE. In particolare i piccoli
agricoltori, la maggioranza in Bretagna, si vedono sottoposti alle fluttuazioni del mercato dell’esportazione (v. accordi del GATT). La pesca va
ormai per la stessa strada e da alcuni
anni è entrata in crisi. Nel 1993 si è
assistito quasi quotidianamente a
manifestazioni, scontri con la polizia, vere e proprio azioni di commando dei pescatori contro l’importazione selvaggia di pesce da altri paesi.
Nell’industria, molte imprese stanno optando per il trasferimento in
altri stati dove la mano d’opera è a
buon mercato. Per la Francia il solo
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
sviluppo adeguato per la Bretagna è
quello legato al turismo, anzi ad un
certo tipo di turismo: porti sportivi,
campi da golf, centri di talassoterapia ...
Anche sul piano culturale la situazione non è molto incoraggiante. Attualmente la lingua bretone attraversa un periodo critico. Dopo il 1789,
la politica centralista francese ha
ostacolato il suo uso, negandole inoltre qualsiasi riconoscimento ufficiale. Tuttavia, le scuole Diwan continuano a lottare per avere finanziamenti e, nonostante le grandi difficoltà, molti adulti cominciano a riappropriarsi del loro idioma. Per quanto riguarda il panorama politico, le
formazioni dominanti in Bretagna
sono quelle dello stato francese. Storicamente hanno sempre prevalso le
tendenze conservatrici, come quasi
sempre accade in territori segnati
dalla marginalità. Attualmente prevalgono partiti come l’UDF e il PS.
In alcune zone (aree rurali di Finisterre) sono relativamente forti i comunisti. La consistenza numerica
(ed elettorale) delle varie formazioni nazionaliste bretoni (UDB, POBL,
Emgann, RAB, Skoazell Vreizh, Dazont, oltre alla formazione armata
ARB) è piuttosto modesta, anche se
alcuni valori come la salvaguardia e
la valorizzazione del patrimonio culturale, l’orgoglio della propria identità sono molto diffusi e radicati nella popolazione.
Non vanno sottovalutati i problemi di comunicazione del movimento nazionalista bretone che si autofinanzia a base di quote e donazioni
e che non può certo competere con
le campagne “pubblicitarie” dei partiti francesi. Non esiste una emittente televisiva bretone e la stampa è alquanto frammentaria, determinando
un contesto che non è certo il più
favorevole per lo sviluppo di un vero
dibattito politico. In ogni caso, per
quanto grave, la situazione non è disperata: un sondaggio del 1991 ha
mostrato che al momento di scegliere tra l’appartenenza alla Francia o
alla Bretagna, un 23% dei consultati
dichiarava di appartenere innanzitutto alla Bretagna, contro un 11% che
sceglieva la Francia.
Gianni Sartori
Quaderni Padani - 29
31
Catalogna
La Catalogna, terra di antica ed
elevata cultura, è universalmente
nota come la patria di Ramon Llull,
di Gaudì, di Picasso, di Dalì, di Mirò.
Montserrat divenne una delle più
importanti sedi musicali dopo il IX
secolo e Albeniz era catalano. Il catalano, lingua ufficiale del regno
d’Aragona, fu una delle maggiori
lingue europee fino al XVI secolo.
Dopo tre secoli di declino la cultura catalana ha conosciuto un vero
e proprio rinascimento che nemmeno il franchismo ha potuto
strangolare. Corridoio naturale tra
Francia e Spagna, questa terra è
stata ripetutamente pervasa sia da
fermenti di opposizione sociale (basti pensare alla “lunga estate” dell’anarcosindacalismo) che da lotte
di liberazione nazionale. Ma andiamo in ordine.
La Catalogna (o Gotolonia, “paese dei Goti”), era uno di quei regni cristiani della penisola iberica
invasi dagli Arabi (occupazione di
Barcellona: 717-718) e poi riconquistati a partire dall’XI secolo dai
sovrani di Aragona e Castiglia. Attualmente il termine Catalunya indica una regione autonoma dello
stato spagnolo composta dalle quattro province di Barcellona, Gerona,
Lerida e Terragona (31.930 km2;
circa 600.000 abitanti, metà dei
quali vivono e Barcellona). La Catalogna quindi è solo una parte dei
Páisos Catalans, in cui si usa la lingua catalana. “El català” si parla
tradizionalmente in Andorra, nelle
isole Baleari, in una parte dei Pirenei-Orientali (Catalunya-Nord, nello stato francese, con circa 200.000
catalano-parlanti) e nel Paìs Valencià. Come è noto lo parla anche la
minoranza di Alghero, in Sardegna.
La Catalogna attuale deriva dalla
Marca di Spagna, divenuta indipendente dall’impero franco a partire
dal X sec., dopo che un conte di
Urgel e di Barcellona ne aveva preso il controllo nell’873 (conte Guifrè I, detto il Peloso). L’unione, per
matrimonio, tra la Catalogna e
l’Aragona risale al XII sec. Nel XV,
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32 - Quaderni Padani
Manifesto in difesa della lingua catalana
conservando le proprie istituzioni,
si integra nella Spagna dei Re Cattolici. Il nazionalismo catalano nasce nel XVII sec., cogliendo l’occasione delle rivalità franco-spagnole. Nella prima metà del secolo
XVII, nonostante tutti i suoi sforzi,
la monarchia non riesce a ottenere
l’unità politica, economica e militare della penisola iberica. I Paisos
Catalans, grazie alla loro autonomia, si sottraggono alla forte inflazione monetaria castigliana. Questa opposizione da economica diventa politica, preludio a un tentativo violento di separazione. Nel
1640 inizia quella che passerà alla
storia come “Guerra dels Segadors”
(v. il famoso inno catalano), rivolta
nazionale e sociale contro il regime feudale e contro la monarchia
assoluta e centralista. Si costituisce una repubblica catalana sotto
la protezione di Luigi XIII di Francia. Pau Claris riunisce tutte le classi medie e popolari, contadine e urbane, mentre la nobiltà, filo-castigliana, passa in blocco dalla parte
di Filippo IV. La “Guerra dei Mietitori” finisce nel 1652 con la capitolazione di Barcellona.
Nel 1700 il re Carlo II muore senza successori. Filippo di Borbone,
rappresentante del centralismo
francese e degli interessi aristocratici e feudali, si scontra con Carlo
d’Austria, in qualche modo portavoce di uno spirito federalista e decentralizzatore. Su quest’ultimo
convergono gli interessi e le speranze delle classi medie e popolari catalane. Contemporaneamente Luigi XIV proibisce l’uso ufficiale della lingua catalana nella CatalunyaNord sottoposta alla Francia. Nel
1705 Carlo d’Austria sopprime alcuni privilegi nobiliari nel Pais Valencià; nel 1707 Filippo V sconfigge i valenziani nella battaglia di Almansa, restaura i privilegi nobiliari soppressi e scatena una durissima repressione contro le classi popolari. Nel 1714 (11 settembre: Diada, festa nazionale catalana) dopo
13 mesi di assedio anche Barcellona cade sotto le armi di Filippo V.
Con la capitale cade tutta la Catalunya e l’anno dopo anche Mallorca (Maiorca). Minorca invece, con
la pace di Utrecht (1713) era passata sotto il dominio inglese.
Alla repressione statale fece seguito una forte recessione economica, sociale e culturale. Il decennio successivo sarà ricordato come
un continuo di insurrezioni popolari, guerriglia e “bandolerisme”
contro il nuovo regime. Il naziona-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
lismo comunque tornerà a crescere e svilupparsi per tutto il secolo
XIX, quando i catalani, approfittando dell’indebolimento e della corruzione del potere spagnolo, tenteranno ripetutamente di liberarsi dal
centralismo.
La rinascita del catalanismo favorirà anche un vasto movimento
letterario (Aribau, Verdaguer, Maragall, Guimerà) e la formazione
della Llega, un partito regionalista
conservatore. Così come nel Paese
Basco, anche in Catalunya nel 1931
vincono i repubblicani e viene negoziato con Madrid uno stato di autonomia. Durante e dopo la Guerra
Civile, il franchismo (proprio come
nel Paese Basco e con gli stessi
metodi) farà tavola rasa del catalanismo. Bisogna ricordare che la
Catalogna ha un’antica tradizione
d’autonomia e che l’industrializzazione del paese era stata opera di
una vasta porzione della società (al
contrario di Euskal Herria dove era
in mano all’elite finanziaria di Bilbao e San Sebastian). Perciò mentre è talvolta esistita una convergenza d’interessi tra alcuni settori
della borghesia basca e Madrid, questo non è avvenuto con gli imprenditori catalani, in stragrande maggioranza oppositori del franchismo.
Per questo Franco, dopo il ‘39, distrusse con ferocia e con la forza
delle armi ogni istituzione locale
dei Catalani. Lo stesso trattamento
venne riservato alla cultura, alla lingua, all’economia (nel 1960 la catalogna produceva il 21,4% del reddito nazionale e non partecipava al
budget dello Stato spagnolo che per
il 7%). Incalcolabile poi il numero
delle vittime delle “sacas”, le esecuzioni sommarie di massa che per
anni e anni decimarono quelle classi popolari catalane che maggiormente si erano rese protagoniste
della lotta al franchismo e all’ordine sociale esistente (la maggior parte dei giustiziati erano membri della CNT).
Contro Franco
Durante i primi anni del regime
franchista, l’opposizione catalana fu
soprattutto simbolica. I grandi leaders politici erano morti o in esilio
e così i capi del movimento sindacale. Da ricordare in particolare
Lluis Companys (dirigente dell’Esquerra Republicana de Catalunya, fondata nel 1931) rifugiato
in Francia, che venne consegnato
a Franco dalla Gestapo e fucilato
nell’ottobre del 1940. Solo durante
gli anni cinquanta l’opposizione
prese a manifestarsi apertamente
attraverso varie forme di resistenza civile come il boicottaggio di
massa dei trasporti pubblici a Barcellona nel 1951. Si ricominciò anche a riaffermare l’identità culturale catalana.
Vennero operati sabotaggi e attentati, ma non paragonabili alle
azioni di ETA nel Paese Basco. Forme di resistenza al franchismo saranno invece praticate da gruppi
libertari catalani come quello del
“Chico” e dal M.I.L. (v. Salvador
Puigh Antich, garrotato nel marzo
1974). Dopo la morte di Franco (novembre ‘75), le aspirazioni autonomiste poterono manifestarsi più liberamente. Una lunga serie di scioperi e di manifestazioni di massa
(appoggiati anche dalla Chiesa e
dalle principali autorità del paese)
portarono alla “concessione” dello
statuto di autonomia del dicembre
1979 e, a differenza di quanto avviene nel Paese Basco, le cose sostanzialmente sono rimaste ferme
a quel punto. Lo scopo del catalanismo moderato era l’autonomia,
garantita nel quadro dello stato spagnolo della Generalidad di Catalogna. Nessun programma politico
più ambizioso (come per esempio
quello di Herri Batasuna per il Paese Basco) è stato finora seriamente sostenuto e difeso dai gruppi storici.
Nel corso degli anni ottanta non
sono comunque mancati tentativi
di dar vita ad organizzazioni radicali di impronta dichiaratamente
indipendentista. Per quanto minoritari (e attualmente scomparsi dalla scena politica) vanno ricordati il
Men (Moviment d’Esquerra Nacionalista) in cui convivevano ambientalisti, pacifisti, antinucleari, femministe, liberali...; notevole anche
l’esperienza dell’Mdt (Moviment de
Defensa de la Terra) che, ispiran-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
dosi a Herri Batasuna, seppe coniugare le istanze indipendentiste con
la radicata tradizione ambientalista
delle lotte sociali. In quegli anni
l’organizzazione che godette di
maggiore notorietà, soprattutto
nell’universo spettacolare dei media, fu sicuramente Terra Lliure,
dedita alla lotta armata. Autosciolta nel ‘92, la maggior parte dei suoi
militanti si sarebbero integrati
nell’Esquerra Monteagudo, ucciso
dalla Guardia Civil dopo il tragico
attentato di Vic.
La “Crida a la Solidaritat” (nata
nel 1981, anch’essa attualmente
autosciolta e confluita nell’Esquerra Republicana) rappresentò una risposta al tentativo di golpe di
Tejero. In quella occasione un’assemblea di migliaia di persone all’Università di Barcellona produsse
un manifesto intitolato “crida a la
solidaritat en defensa de la lengua,
la cultura i la naciò catalana”, basato sulla rivendicazione dei diritti
nazionali storici della Catalunya,
sul progetto di unità dei Paisos Catalans, sul diritto all’autogoverno,
sulla difesa della lingua catalana
come lingua propria e unica del
paese, sull’approfondimento della
democrazia come forma di progresso sociale.
In ogni caso, nonostante la presenza di queste organizzazioni, nelle elezioni legislative dell’80 e
dell’84 la maggioranza toccò ancora ai moderati della CIU (Convergenza e Unione nazionalista) di Jordi Pujol, partito aderente all’internazionale democristiana e favorevole al dialogo con Madrid, che ottenne più di settanta seggi su 135.
Altri quaranta andarono al PSC
(Partito socialista catalano). Come
è noto Pujol e la CIU sono stati
un’indispensabile stampella politica per il governo di Felipe Gonzales (ruolo che sembrano voler mantenere anche nei confronti di Aznar). Nelle elezioni per il Parlamento europeo (giugno 87) i voti del
Men, dell’Mdt (oltre a quelli di Nuova Falce, della Lcr e dell’Mce) convergendo sugli indipendentisti baschi di Herri Batasuna resero possibile l’elezione di Txema Montero.
Gianni Sartori
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Quaderni Padani - 33
Corsica
Le prime tracce di insediamenti umani nel sud-est della Corsica
risalgono al 6000-6500 a. C. Le
successive invasioni (v. la civiltà
detta torreana) determinarono
spostamenti di popolazioni verso
nord e verso l’interno. Durante il
VI secolo a.C. i Greci fondarono
Alalia (la futura Aleria), iniziando
a colonizzare la costa orientale. Ulteriori tentativi di penetrazione
venero operati da Cartaginesi e Fenici. I romani vi sbarcarono verso
la metà del III secolo a.C., incontrando una fiera resistenza. All’occupazione romana fece seguito
quella dei vandali, degli ostrogoti,
dei bizantini, dei longobardi ... finché nel 755 d.C. Pipino il Breve ne
fece dono al papa. Tra il 1077 (si
deteriorano i rapporti tra il Papa
Gregorio VIII e l’imperatore Enrico IV) e il 1284 la Corsica venne
periodicamente affidata, spartita,
contesa tra Genova e Pisa. Con la
battaglia della Meloria (1284) cade
definitivamente sotto il dominio
genovese. Lo scontro tra le due repubbliche marinare era stato sapientemente usato dai corsi per
rafforzare la propria autonomia
estendendo a tutto il territorio un
sistema amministrativo basato
sull’autogoverno. Anche i Genovesi, come tutti i precedenti invasori, si vedono ben presto costretti
ad acquartierarsi lungo la costa,
chiusi nelle loro fortezze. L’interno, la “montagna” (il 70% del territorio) resta saldamente in mano
ai corsi. Nel 1297 papa Bonifacio
VIII rispolvera i suoi “diritti” sull’isola di granito e la concede a
Jaume II che regge la corona catalano-aragonese. Questo provoca
profonde lacerazioni anche all’interno della società corsa. Si assiste ad una provvisoria convergenza di interessi tra una parte dei
corsi e i “Comunali” genovesi, nel
quadro delle lotte antifeudali.
Sambuccio d’Alando rappresenta
la figura carismatica di questo periodo (quasi un antesignano dell’indipendentismo); la sua riorga-
32
34 - Quaderni Padani
nizzazione sociale sulla base delle
“terre comuni” contribuisce ad innestare il profondo legame tra i
corsi e la loro terra, fino ai nostri
giorni.
Anche quando la corona catalana rinuncia ai suoi “diritti” la Corsica resta politicamente divisa.
L’occupazione viene portata avanti dal Banco di San Giorgio, sotto
forma di investimenti e repressione. Il 23 agosto 1533 Sanpiero Corso sbarca sull’isola per contrastare con le armi lo strapotere del
Banco di San Giorgio ma viene
sconfitto dall’ammiraglio Andrea
Doria. La maggior parte delle rivolte si registrano nel ‘700, determinate dalla sistematica opera di
rapina e sfruttamento operata da
Genova con l’esproprio delle terre. Nel 1753 i genovesi fanno assassinare Goffri, un leader dell’opposizione, provocando una vasta
sollevazione popolare a carattere
indipendentista. Si forma un direttorio presieduto da Clemente Paoli che chiede al fratello Pasquale
di rientrare dall’esilio. Nel luglio
del 1755 la “Consulta” di Casabianca investe Pasquale Paoli di tutti i
poteri. Mentre l’Europa sottostava alle varie dittature monarchiche in Corsica, grazie al progetto
costituzionale di Paoli, si va delineando un assetto politico fondato sul voto, sul suffragio a tutti i
livelli. Per la prima volta nella sua
storia la Corsica poteva fregiarsi
degli attributi di una autentica sovranità quali una stamperia nazionale, una moneta corsa, una armata popolare...
Luigi XV invia 35.000 uomini a
sedare la pericolosa rivolta, il cui
esempio potrebbe essere contagioso. I Corsi vengono sconfitti nel
maggio del 1769 nella battaglia di
Ponte Novu. Con il trattato di Versailles l’isola viene letteralmente
venduta alla Francia. Ogni ulteriore resistenza viene tacciata di
“banditismo”; la repressione imperversa a base di esecuzioni sommarie e deportazioni; intere comu-
nità vengono massacrate (Niolu),
i paesi distrutti ... Contemporaneamente si assiste ad una sistematica opera di alienazione culturale
e di distruzione della memoria storica; si cerca di indurre i giovani
delle famiglie più in vista ad integrarsi come funzionari dello stato
o dell’esercito.
Dal 1817 vengono tassati tutti i
prodotti che escono dall’isola;
esentati quelli che vi entrano.
L’economia corsa viene annichilita e al popolo corso non resta altro che una massiccia emigrazione. Dopo la seconda guerra mondiale, nonostante il notevole contributo dei corsi alla lotta di liberazione, la tendenza colonizzatrice si accentua. I successivi interventi economici della Francia favoriranno soprattutto gli immigrati francesi, in particolare i “piedi neri” (ben 15.000 nel 1961 provenienti dall’Algeria) provenienti
dalle colonie nordafricane che avevano riacquistato l’indipendenza.
Sempre negli anni sessanta si costituiscono vari organismo di autodifesa culturale ed economica
per opera di studenti e commercianti. Per prima l’Union corsa.
Nel 1964 nasce il Centro di studi e
di difesa degli interessi corsi (Cedic). Nel 1965 nasce il Fronte regionalista corsu (Frc) da cui nel
1967 fuoriescono Max ed Edmondo Simeoni fondando l’Azione regionalista corsa (Arc). In seguito
il Frc diventerà Partito di u populu
corsu e l’Arc Azione per a rinascita di a Corsica.
Il 21 agosto 1975 ad Aleria una
trentina di militanti dell’Arc occupano la cava vinicola Depeille. L’intervento della gendarmeria provoca uno scontro armato con morti
e feriti. L’anno successivo nasce il
Fronte di liberazione naziunale di
a Corsica (FLNC) dichiaratamente indipendentista. Come principale controparte il FLNC individua
le varie creature del colonialismo:
l’amministrazione statale, le numerose forze di occupazione mili-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
tare (basi della Legione straniera,
basi missilistiche e aeree, quelle
per i sommergibili, altre per le “teste di cuoio”...) i mezzi di informazione francesi (v. attentati agli impianti televisivi) considerati responsabili della deculturazione, gli
spacciatori di droga... Suo obiettivo è l’instaurazione di un potere
autenticamente democratico,
espressione della volontà del popolo corso. La lotta armata è un modo
per danneggiare il potere coloniale, supportare la lotta politica. Secondo il Fronte alle prime due fasi
(propaganda armata e guerriglia si
dovrà sostituire “l’autodeterminazione intesa come pratica generalizzata dei diritti nazionali”.
Lo stato risponde a suo modo:
repressione, militarizzazione del
territorio, schedature di massa, incriminazioni per reati d’opinione,
“guerra sporca”... Su imitazione
del Gal antibasco nasce il Francia
(Front d’action nouvelle contre
l’indipendence et l’autonomie) che
compie attentati contro i militanti nazionalisti corsi.
I tragici fatti dell’ultimo anno
(una vera e propria matanza di
militanti e simpatizzanti de A Cuncolta e del Fronte) sono stati prontamente strumentalizzati dai media per decretare la fine della lotta
di liberazione. In realtà è scontato
riconoscervi l’operato dei servizi
segreti francesi e dei vari interessi
mafiosi (v. speculazione edilizia,
traffico di droga...) messi in crisi
dall’attività del Fronte. È almeno
dal 1989 che il Flnc (Canale Storico) e A Cuncolta denunciano ripetutamente le operazioni condotte dai Servizi per screditare il movimento di liberazione e cercare di
dimostrare che il popolo corso è
incapace di autogovernarsi. Già allora si registrava, accanto ad un
apparente ammorbidimento della
repressione ufficiale, una serie di
iniziative tese a corrompere o a
provocare derive in seno al movimento, instaurando rapporti occulti con personaggi in passato legati all’indipendentismo e garantendo loro carriere amministrative, vantaggi economici, il controllo di determinate zone turistiche.
Gianni Sartori
Cecoslovacchia
Cronologia
1989, Autunno. “Rivoluzione di
velluto”. Il centralismo comunista
si sfalda e viene rimesso in discussione lo Stato cecoslovacco.
1990, aprile. Continuano le
pressioni di Bratislava, capitale
della Slovacchia, per il riconoscimento della propria separatezza,
mentre il nome dello Stato diventa “Repubblica Federale Ceca e
Slovacca”.
giugno. Le elezioni per l’Assemblea Federale sembrano sostenere
la causa di coloro che vogliono
l’unione. L’unico partito separatista, il Partito Nazionale Slovacco,
ottiene solo 15 seggi dei 300 disponibili. Ciònonostante la questione della struttura e della direzione governativa della Cecoslovacchia rimane aperta e diventa
sempre più scottante.
agosto. In Slovacchia dimostrazioni per ottenere maggiore indipendenza della Repubblica in materia economica, così come compensazioni per il diverso impatto
dei processi di “transizione”. Nel
1991 la disoccupazione in Slovacchia sarà tre volte tanto quella esistente nella repubblica ceca.
dicembre. Emendamenti alla
Costituzione che portano ad una
maggiore distribuzione del potere fra le due Repubbliche federate.
1991
Appelli di Vladimir
Meciar (Primo Ministro slovacco)
all’autonomia slovacca. Tuttavia i
suoi metodi e le sue idee non attirano molti slovacchi e soprattutto
altri politici.
aprile. Meciar viene congedato
dal Consiglio Nazionale Slovacco.
In seguito aumentano i discorsi separatisti di Meciar.
ottobre. Meciar proclama che se
i colloqui sulla federazione falliranno, si procederà alla battaglia
per unire la Slovacchia e la Moravia. Il successore di Meciar come
Primo Ministro slovacco, Jan Carnogursky, adotta la causa separatista, sebbene la difenda con toni
più smorzati del suo predecessore. Sebbene Carnogursky prende
parte al gruppo incaricato di redigere il progetto di Costituzione, dichiara che la Slovacchia aspira ad
ottenere la piena indipendenza entro il 2000 e che un assetto confederale può essere adottato in via
provvisoria.
1992 giugno. Elezioni. Ritorno di Meciar. Tuttavia la maggio-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
ranza dei cittadini in entrambe le
Repubbliche continua a sostenere
la Federazione e ad aspirare ad una
modifica del corso economico delle riforme, troppo pesante per la
Slovacchia. (Nel 1991, il 70% degli slovacchi e il 53% dei cechi).
Solo il 23% degli slovacchi ritiene
la secessione desiderabile. L’autodeterminazione slovacca sembra
un fine minoritario. Invece la situazione precipita subito dopo le
elezioni. I cechi intravedono un
vantaggio nel distacco della Slovacchia. Gli slovacchi identificano
Praga con l’“oppressore” e la Federazione come “un’invenzione
ceca per limitare l’autonomia slovacca”. Klaus accentua il suo centralismo e anziché l’alternativa fra
nuova federazione e secessione
pone il contrasto fra Stato centralizzato o separazione. I negoziati
fra i due leader dei maggiori partiti, Meciar e Klaus, rapidamente
falliscono. Instabilità governativa.
Meciar propone la creazione di una
confederazione temporanea, con
monete differenti, riforme economiche proprie, esercito differente.
Klaus rifiuta. Il potere federale è
in rapida dissoluzione e Jan
Strasky (nuovo Primo Ministro),
33
Quaderni Padani - 35
riconoscendo che il potere centrale è in declino, parla apertamente
della separazione delle due Repubbliche. In Slovacchia Meciar, dopo
aver ordinato ai suoi deputati di
negare appoggio alla rielezione del
Presidente Havel, forma un governo dominato da suoi fedeli e adotta una diversa politica economica.
I membri della burocrazia vengono rimpiazzati con esponenti locali.
luglio, 17. Proclamazione della
sovranità della Slovacchia da parte del Consiglio Nazionale della
Slovacchia.
ottobre. Decisione formale nel
corso di negoziazioni, di separare
le due Repubbliche. Viene fissata
la data del 1 gennaio 1993.
novembre, 11. La dissoluzione
della Cecoslovacchia viene approvata formalmente (ma illegalmente, poiché la Costituzione in vigore richiedeva un referendum) dall’Assemblea Federale.
Dinamica
Tutto il periodo dal 1989 al 1992
rappresenta la continuazione della lotta interna fra cechi e slovacchi per il controllo delle istituzioni e per una adeguata rappresentanza degli interessi etnici nel processo decisionale.
Nel 1990 si ebbe una significativa discussione sulla denominazione della Cecoslovacchia, che rispecchiava le posizioni centraliste
e quelle federali o per la separazione. La discussione sul bilanciamento federale del potere incomincia nell’autunno del 1990 e
culmina negli emendamenti adottati in dicembre. Tuttavia i negoziati per la nuova Costituzione federale falliscono rapidamente.
Poi, nonostante le apparenze
della solidità dello Stato unitario,
le posizioni separatiste guadagnano velocemente terreno. Le posizioni favorevoli ad un distacco della Slovacchia erano molto più radicate delle espressioni (retoriche
e spesso folcloristiche) di Meciar.
Infatti, il suo successore adotta la
causa separatista seppur usando
toni differenti.
Una volta adottata dalla classe
34
36 - Quaderni Padani
politica slovacca la posizione separatista, la popolazione finisce
per seguire. Una spinta notevole
viene data a queste posizioni dalla
riforma economica avviata a livello federale da Vaclav Klaus, troppo gravosa per la Slovacchia.
Dopo le elezioni del giugno ’92,
che non producono un chiaro accordo di governo, un numero crescente di cechi si convince che abbandonare la Slovacchia potrebbe
essere un vantaggio, non solo per
i problemi delle minoranze della
Slovacchia meridionale (ungheresi), ma anche per l’economia ceca.
Gli slovacchi vedono in Praga la
fonte delle loro difficoltà. Inoltre,
la posizione centralista di Klaus
aggrava la situazione e fa fallire i
negoziati su una nuova confederazione.
La polarizzazione politica e la
frustrazione diffusa giocano un
ruolo determinante. L’autorità del
centro perde legittimità e si disintegra con rapidità estrema.
Cause principali
Le cause economiche (disparità
di sviluppo fra cechi e slovacchi) e
la diversità etnica inconciliabile fra
le due etnie principali (in realtà si
tratta di differenze minime, come
qualsiasi slavista può facilmente
attestare, nemmeno paragonabili
a quelle esistenti fra popolazioni
padane e popolazioni meridionali) sono state ritenute a lungo le
sole ragioni della disintegrazione
della Cecoslovacchia. Si tratta però
di interpretazioni non soddisfacenti. Infatti anche in altri Paesi
dell’Est europeo cause economiche ed etniche di contrasto non
sono state sufficienti a far esplodere lo Stato territoriale.
Alla base della costante tendenza alla separazione fra Slovacchia
e Cechia va rilevata la questione
istituzionale, quella dell’esercizio
del potere nello Stato, quello della rappresentanza di alcuni gruppi a discapito di altri. Le cause etniche cioè sono comprensibili solo
se viste attraverso il filtro istituzionale. I gruppi insoddisfatti della localizzazione, della distribuzione e della bilancia del potere (la
maggior parte del potere e dell’amministrazione era nelle mani
dei cechi), nonché della squilibrata rappresentanza, hanno portato
al cambiamento della forma istituzionale, fino alla frammentazione.
In Cecoslovacchia dal 1918 il
contrasto è sempre stato fra centralizzatori e unitaristi (in maggioranza cechi, in posizione dominante), decentralizzatori (in maggioranza slovacchi) e separatisti
(slovacchi).
La separazione era già avvenuta
nel 1939, con l’appoggio tedesco
agli slovacchi, ed aveva contribuito a rafforzarne il senso di indipendenza e la convinzione di sapere
autogovernarsi.
Dopo il 1948 però essi vennero
controllati rigidamente dai comunisti, i quali, ristrutturando le istituzioni statali in senso centralistico durante tutti gli anni ’50, resero impotente la causa dell’indipendenza slovacca anche all’interno
della “federazione”. Le maggiori
rivendicazioni slovacche divennero allora prevalentemente istituzionali: un autentico sistema federale (e non solo una “valvola di
sfogo” per le frustrazioni) e una
rappresentanza uguale nello Stato e nell’amministrazione, che ne
consentisse il controllo. La questione istituzionale diventa centrale quando fioriscono le discussioni sulla riforma economica per
la fuoriuscita dal socialismo reale.
La somiglianza più rilevante con
l’odierna situazione della Padania
era data, prima della separazione
fra Repubblica ceca e Slovacchia,
da due condizioni per rimediare
alle quali per decenni sono continuati i tentativi di riformare le istituzioni:
1) l’impossibilità slovacca di influire sulle decisioni (politiche,
economiche) prese a livello centrale;
2) la netta prevalenza di personale amministrativo ceco, che occupava le cariche principali e la
stragrande maggioranza dei posti
pubblici.
Alessandro Vitale
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
I Paesi Baltici
Va rilevato subito che per i Paesi
Baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), il termine secessione, usato
per indicare quanto è accaduto con
la disintegrazione dell’Unione Sovietica, non è del tutto corretto:
occorre infatti parlare di “restaurazione” dell’Indipendenza, già posseduta da queste Repubbliche nel
periodo ricompreso fra le due guerre mondiali. Tuttavia va detto anche che per ottenere la prima Indipendenza dall’Impero russo e poi
dal nuovo Stato dei bolscevichi, i
baltici misero in atto una secessione. Inoltre, le procedure adottate, i
meccanismi, la dinamica degli avvenimenti del 1989-1991, corrispondono ad un vero e proprio processo di secessione avvenuto in
maniera extra-legale (rispetto alle
leggi di attuazione del diritto di secessione riconosciuto dall’articolo
72 della Costituzione dell’Urss, del
1977) e in seguito internazionalmente riconosciuto. Nonostante la
propensione delle civilissime popolazioni baltiche verso la legalità, il
rifiuto della violenza ecc., nel corso della riconquista dell’Indipendenza a imponenti manifestazioni
di massa si sono aggiunte dichiarazioni “illegali” di Indipendenza seguite da sanzioni economiche e
militari.
Contrariamente a quello che si
pensa, i Paesi Baltici hanno ottenuto l’Indipendenza pur non essendo
affatto entità etnicamente omogenee: nemmeno nel caso della Lituania, che costituisce una parziale eccezione.
Le prime tappe. Il 23 agosto 1989,
nel 50° Anniversario del Patto Molotv-Ribbentrop, due milioni di persone formarono una catena umana che si snodò per 600 km, unendo Tallin, Riga e Vilnius, le capitali.
Il 27 dello stesso mese Il Cremlino,
che definì la manifestazione del 23
agosto “un’isteria nazionalistica” (e
gli attivisti vennero accusati di avere contatti con centri stranieri), rispose con un ultimatum, nel quale
i dirigenti baltici venivano peren-
toriamente invitati a porre fine al
“corso rovinoso delle forze nazionaliste”. Tuttavia è interessante notare che, mentre la Tass parla di un
milione di persone, i differenti quotidiani di Mosca, grazie anche alla
retorica della glasnost’, non travisano, ne alterano i dati numerici
sulla partecipazione delle popolazioni baltiche alla catena umana da
Vilnius a Tallinn, che a Mosca viene conosciuta così nelle sue reali dimensioni. La “Komsomolskaja Pravda” (giornale della gioventù comunista), a partire da quegli anni sempre più ironico e critico nei confronti dell’establishment sovietico, aumenta addirittura le cifre, parlando
di tre milioni di persone.
Il movimento indipendentista
delle tre Repubbliche, a forte legittimazione popolare, (il Sajudis in
Lituania, il Tautas Fronte in Lettonia, l’Eestimaa Rahvarinne in Estonia) e autore di una azione politica
decisa, che nel 1990 era giunto a
proclamare la sovranità, vide il riconoscimento dell’Indipendenza da
parte dell’Urss il 6 settembre 1991
(della Lituania il 29 luglio 1991),
dopo che agli inizi dello stesso anno
nei tre Paesi si erano svolti appositi
referendum secondo le leggi interne delle tre Repubbliche sovietiche.
I tre Fronti si erano schierati inizialmente a favore del progetto di
ristrutturazione della società sovietica; tuttavia gradatamente i gruppi massimalisti dei movimenti, che
inizialmente non avevano trovato
spazio, hanno fatto prendere all’intero movimento connotazioni indipendentiste radicali, di fronte all’immobilismo di Mosca. Gli esponenti politici baltici, federalisti e
favorevoli ad una nuova confederazione con Mosca (come ad esempio
il Primo Ministro estone Toome, che
considerava il referendum per la secessione come una “risorsa di ultima istanza”) vengono progressivamente scavalcati, travolti e dimenticati dagli stessi avvenimenti.
Già nel maggio del 1990 l’Assemblea Baltica, che riuniva i rappre-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
sentanti dei tre Fronti popolari, aveva sottoscritto un programma
d’azione comune. L’11 marzo del
1990 il Parlamento lituano aveva già
proclamato l’Indipendenza della Repubblica quasi all’unanimità. Mosca
dichiara nulle le decisioni lituane e
chiede la ritrattazione della dichiarazione di Indipendenza.
I passaggi successivi furono:
1) L’11 aprile la visita di Gorbaciov in Lituania convince da una
parte il Presidente dell’Urss che l’Indipendenza è voluta da tutti e convince dall’altra i lituani che l’Indipendenza non può essere chiesta,
ma va conquistata. Fallisce la proposta di una nuova Confederazione
sovietica, illustrata da Gorbaciov.
Il 20 aprile 1990 i paracadutisti
sovietici bloccano i rifornimenti
energetici alla Lituania, occupano
le fabbriche e isolano Vilnius dal
resto del mondo. Si forma una guardia repubblicana di volontari e si invitano i coscritti lituani a disertare
dall’Armata Rossa. Due giovani lituani si danno fuoco per protesta,
uno a Mosca (Stanislovas Zemaitis)
sulla Piazza Rossa e l’altro alla frontiera sovietico-ungherese di Cjop.
Il Capo del Governo lituano inizia un vano giro per le capitali europee per cercare appoggio. L’Europa politica sta a guardare. Nessuno
riconosce la nuova Lituania. Estonia e Lettonia dichiarano la loro indipendenza il 4 marzo e il 30 maggio 1990.
2) L’approvazione (in Estonia e
Lituania) di una legge che dichiarava “esclusivo patrimonio nazionale”, del tutto sottratto al controllo
di Mosca, la terra e le risorse del sottosuolo, i boschi e le acque (questi
ultimi fortemente compromessi
dalla devastazione prodotta dal regime “pubblico” collettivizzato).
3) L’approvazione di una legge
che sanciva la “sovranità economica” delle due Repubbliche.
4) L’appello all’Urss, alla BRD, alla
DDR e all’ONU, affinché dichiarassero solennemente nulle le clausole e i protocolli segreti del Patto te-
35
Quaderni Padani - 37
desco-sovietico Ribbentrop-Molotov del 1939. All’ONU venne richiesto di sovrintendere allo svolgimento di libere elezioni e al ritiro delle
truppe sovietiche d’occupazione.
Mosca risponde inizialmente con
la concessione alle tre Repubbliche
del riconoscimento del chozraschet: l’autonomia di bilancio, la
facoltà di decidere autonomamente gli investimenti e di disporre degli utili. Tuttavia, quando il Sajudis
lituano annuncia l’arruolamento di
volontari per la difesa del territorio
lituano, Gorbaciov autorizza le
truppe sovietiche a passare dalle
azioni “dimostrative” ad attacchi
veri e propri. Tuttavia il popolo lituano rimane tranquillo e disciplinato, evitando ogni possibile scontro e sconfiggendo la forza bruta con
pacifiche mobilitazioni di massa.
5) Il Soviet Supremo (Auksciausioji Taryba) della Lituania forma
una Commissione Speciale che dimostrò il carattere violento dei Patti
tedesco-sovietici e la nullità conseguente degli atti ad esso successivi.
La richiesta di secessione diventava
una conseguenza logica.
6) Le Repubbliche sovietiche baltiche cambiano nome. Viene perfino ripristinata l’ora finlandese e dell’Europa Centrale (come ai tempi
dell’Indipendenza), per sottolineare il distacco dall’ora di Mosca. Vengono ripristinati articoli delle Costituzioni precedenti all’occupazione sovietica.
7) Nella riunione di Jurmala (Lettonia) viene rifiutata la partecipazione alle trattative con Mosca per
la conclusione di un nuovo “Patto
federale”, che regoli i rapporti fra
le Repubbliche sovietiche su una
base più liberale. Tutti i trattati con
Mosca vengono infatti subordinati
alla restaurazione dell’Indipendenza per le tre Repubbliche. Parte la
richiesta di un seggio all’ONU.
I governi dei Paesi baltici si rifiutano di prendere parte alla stesura del
nuovo Trattato dell’Unione, varati
da Mosca per ridisegnare i termini
della Federazione.
Va detto che già negli anni precedenti le proposte ingannevoli di
Mosca di cambiare la Costituzione
del 1977 in senso “federale” (lascian-
36
38 - Quaderni Padani
do però immutati alcuni articoli
centralisti, quali il 73, con i suoi famigerati 12 punti, che negavano
qualsiasi sovranità alle Repubbliche)
vennero denunciate in Lituania con
l’iniziativa “Un milione di firme”,
contro le modifiche costituzionali
previste da Mosca. In pochi giorni
vennero raccolte 1.800.000 firme
per la sovranità della Repubblica lituana e in Lettonia un milione, così
come in Estonia. Da allora in poi le
popolazioni baltiche non si accontentavano più di cambiamenti “cosmetici” del sistema, cioè delle promesse gorbacioviane di maggiore
decentramento, che non avrebbe
mutato affatto il modello staliniano di “federazione unitaria”.
8) Viene rifiutata integralmente
da parte degli esponenti dei tre Paesi la procedura per il referendum
prevista dalla legge di attuazione del
“diritto all’uscita libera” (svobodnogo vychoda) dall’Urss, del 3 aprile
1990. Gorbaciov insisteva perché
venissero seguite quelle procedure
e i termini imposti da Mosca, che di
fatto avrebbero bloccato la secessione. Come sempre accade negli Stati unitari, Mosca pretendeva in realtà che il destino dei baltici venisse deciso dall’intera Unione Sovietica, le cui popolazioni avrebbero
potuto consentire o meno all’indipendenza dei Paesi Baltici.
La motivazione del rifiuto da parte dei baltici è che Lettonia Estonia
e Lituania non sono territori unitisi volontariamente all’Unione Sovietica, ma Stati occupati: quindi è
impensabile risolvere il problema
secondo le leggi dello Stato occupante. L’autodeterminazione era già
stata ottenuta nel 1918.
9) Da parte dell’Urss prosegue il
tentativo di destabilizzare contemporaneamente sul piano politico e
su quello economico le Repubbliche
Baltiche. Il blocco economico interrompe le forniture di petrolio, di
gas, di materie prime, di prodotti
alimentari, di medicinali. Tuttavia i
baltici non erano spaventati nemmeno dalla prospettiva di dover pagare all’Urss “riparazioni” per investimenti russi o mancate consegne:
sono disposti anche a “pagarsi” l’Indipendenza.
Nel gennaio 1991 il Cremlino
impiega il pugno di ferro: reparti
corazzati sparano e travolgono la
folla inerme a Vilnius, provocando
14 morti e 230 feriti (alcuni muoiono in seguito) fra coloro che difendevano la torre della televisione.
A Riga cadono quattro indipendentisti e ci sono molti feriti. Secondo
l’organizzazione autonoma degli
ufficiali russi “Scit”, solo il Presidente dell’Urss aveva potuto autorizzare l’intervento dei “berretti
neri” sovietici.
Questa repressione compatta
maggiormente le popolazioni baltiche intorno all’idea di Indipendenza. Vengono formate forze di difesa
baltiche per proteggere gli edifici
pubblici indipendentisti.
10) Le truppe sovietiche importunano con controlli a tappeto e perquisizioni gli abitanti delle città,
presso i nodi stradali maggiori. Si
tenta di disorientare l’opinione pubblica dei Paesi Baltici con false informazioni.
11) Gorbaciov indice un referendum sull’unità dell’Urss, ma i baltici decidono di boicottarlo e di indirne uno per l’Indipendenza. Gorbaciov lo invalida con un decreto
presidenziale (5 febbraio) prima ancora che si svolga. Egli ribadisce la
necessità di preservare l’Unione Sovietica, riservando al Partito comunista il ruolo di garante dell’unità
nazionale e approvando la linea
dura delle Forze armate nei confronti degli indipendentisti. Gorbaciov aveva dichiarato due anni prima che «... realizzare il diritto all’autodeterminazione con la secessione significa mandare all’aria
l’Unione, mettere i popoli gli uni
contro gli altri, predisporre i conflitti, la morte e il sangue: ecco a
cosa stanno lavorando i separatisti». Nel corso della sua visita a Vilnius nel 1990 aveva detto: «Se
qualcuno tenta di metterci gli uni
contro gli altri e se questo porta ad
uno scontro, allora sarà una tragedia ...». Questa è dunque una vera
e propria “profezia che si autoadempie”....
12) Il referendum indipendentista si svolge però in Lituania, nonostante il tentativo dei filosovieti-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
ci di farlo fallire, il 9 febbraio 1991,
senza incidenti e sotto la supervisione di un centinaio di osservatori
stranieri. I risultati sono un plebiscito (più del 91%) per l’Indipendenza. In Estonia è favorevole all’Indipendenza il 96% della popolazione, quindi con la stragrande
maggioranza dei russi.
Mosca voleva che i referendum
eventuali sull’Indipendenza dovessero portare alla secessione solo se
i due terzi dell’elettorato fossero
stati d’accordo. In realtà Gorbaciov
mirava a includere tutti i russi negli elettorati dei Paesi Baltici per
questi referendum, condizione che
avrebbe fatto fallire (soprattutto in
Lettonia ed Estonia, per la massiccia immigrazione forzata slava del
periodo staliniano) le rivendicazioni indipendentiste. Tuttavia il criterio della selezione etnica (necessario, a fronte dello snaturamento
delle popolazioni baltiche), previsto
per la partecipazione ai referendum
prevalse: già nel 1990 il Congresso
lettone ed estone del resto erano
stati eletti dai cittadini residenti in
Lettonia ed Estonia da prima del
1940 e dai loro figli, escludendo in
tal modo i russi che si erano stabiliti più tardi nei Paesi Baltici e gli
altri immigrati successivi.
Va detto comunque che nei Paesi Baltici un numero imponente di
russi ha appoggiato i movimenti indipendentisti baltici e la loro lotta
per l’Indipendenza. Non pochi russi sono stati eletti nelle liste dei
Fronti popolari.
13) La repressione continua anche dopo i referendum: con attacchi ai posti di dogana da parte dei
reparti speciali sovietici (Omon) con
devastazioni e incendi, assassinio di
doganieri baltici, attacchi alla centrale telefonica per ordine del Ministero degli Interni di Mosca, ecc.
Durante il colpo di Stato dell’agosto del 1991, viene fatto appello nei
Paesi Baltici alla disobbedienza civile. Viene bloccata da parte dei sovietici l’informazione radio-televisiva, colonne di carri armati accerchiano Vilnius. Viene proclamato allora lo sciopero generale politico ad
oltranza.
Tutti e tre gli Stati Baltici approvano un proclama, indirizzato ai
parlamenti e ai governi di tutto il
mondo, con il quale si chiede il riconoscimento immediato della loro
Indipendenza.
Dopo il fallimento del colpo di
Stato di Mosca, che ha dato un impulso insperato alle aspirazioni baltiche di indipendenza, gli avvenimenti si susseguono ad una velocità incredibile. I Parlamenti dei Paesi Baltici approvano decreti decisivi
e irreversibili per l’Indipendenza.
Con molto ritardo gli Stati europei e di altri continenti (gli Stati Uniti due settimane dopo i principali
Paesi occidentali) riconoscono uno
dopo l’altro l’indipendenza dei Paesi Baltici.
Oggi i Paesi Baltici si trovano ai
primi posti fra i Paesi dell’ex Blocco
orientale, per prospettive di sviluppo. Nemmeno il pesante boicottag-
gio economico sovietico subito negli anni successivi alla riacquisizione dell’Indipendenza è riuscito a piegarne le capacità e le energie.
I rapporti fra le etnie sono andati
oggi notevolemente migliorando nei
Paesi Baltici con la riacquisizione
dell’Indipendenza. Infatti, la causa
principale delle tensioni etniche era,
come affermavano gli stessi esponenti dei Fronti popolari, la politica
coloniale attuata dal potere sovietico d’occupazione, nel campo nazionale, economico e sociale.
Il caso più lampante di distensione attuale è quello dei rapporti fra
russi e lituani, in Lituania. Vengono ampiamente garantite l’istruzione nelle rispettive lingue materne,
la pubblicazione di giornali, riviste,
volumi nelle lingue nazionali (perfino i Fronti Popolari avevano organi ufficiali stampati nelle differenti
lingue), esistono forti garanzie dei
diritti delle minoranze. D’altra parte, già nel periodo dell’Indipendenza fra le due guerre, i Paesi Baltici
avevano una legislazione molto liberale sulle minoranze etniche e
dopo la restaurazione dell’Indipendenza lo sforzo maggiore è stato
quello di annullare i danni successivi, prodotti dall’immigrazione slava forzata staliniana (con il fine di
annientare le etnie baltiche e di
sconvolgerne l’equilibrio etnico),
dalle deportazioni in Siberia, dalla
violenza e dalle discriminazioni che
le popolazioni baltiche hanno dovuto a lungo subire.
Alessandro Vitale
Paesi baschi
L’epigrafia, la toponomastica, la
linguistica hanno contribuito a
stabilire la specificità etnica e linguistica (più antica di quelle indoeuropee) delle popolazioni originarie del territorio pirenaico. I baschi
seppero validamente opporsi all’assimilazione da parte di romani,
galli, merovingi e carolingi. Basti
citare la famosa battaglia di Roncisvalle (778) in cui i baschi (e non
gli arabi) eliminarono la retroguar-
dia dell’esercito di Carlomagno che
aveva distrutto le mura di Pamplona. Dalle secolari lotte con franchi
e visigoti ebbero origine il principato di Vasconia (VI-IX sec.) e il regno di Navarra (IX-XVI sec.). Il
principato di Vasconia venne usurpato e smembrato nell’XI sec. dal
duca di Aquitania, mentre il regno
di Navarra venne sistematicamente sottoposto a intrighi e congiure
da parte della Castiglia, tra il XIII
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
sec. (annessione della Biscaglia, di
Guipuzcoa e Alava) e il XVI sec. (occupazione militare della Navarra).
Da ricordare che alla vigilia dell’invasione della Navarra (1512) il
Papa scomunicò i legittimi sovrani, Jean d’Albret e Caterina di Navarra, fornendo alla Castiglia lo jus
belli. Gli aristocratici che non si
vollero allineare vennero eliminati fisicamente e i loro castelli rasi
al suolo. Successivamente Papa
37
Quaderni Padani - 39
Adriano VI con una bolla del maggio 1523, accordò a Carlo V il privilegio di nominare personaggi di
suo gradimento, ovviamente filocastigliani, nelle principali cariche
ecclesiastiche della chiesa di Navarra. Con il pretesto della caccia
alle streghe e agli eretici il Tribunale dell’Inquisizione perseguitò
tutte le élites intellettuali, aristocratiche e religiose della Navarra,
comprese le minoranze etniche
arabe ed ebree.
I primi segnali di un consapevole nazionalismo basco contro il
centralismo di Madrid e i suoi processi di “ispanità” e di integrazione economica nel mercato spagnolo, si possono individuare nel corso del XVIII secolo. Il centralismo
spagnolo trovò seguaci tra la borghesia mercantile del paese basco
dato che commercianti e imprenditori vedevano con favore la costituzione di un mercato unificato
nel quadro dello stato spagnolo.
Erano invece apertamente ostili le
classi popolari legate alle antiche
leggi tradizionali, i Fueros. La questione del “fuerismo” attraversa
tutto il sec. XIX con le due guerre
carliste (dal re Don Carlos che si
schierò con i fueros baschi). La
prima guerra carlista durò dal 1833
al 1839, la seconda dal 1872 al
1876. Già allora alcuni autori interpretarono il sollevamento carlista come una vera e propria guerra di liberazione nazionale, paragonandola a quelle dei greci e dei
polacchi. La sconfitta nella prima
guerra carlista determinò il negoziato della Convenzione di Bergara e l’elaborazione di un arsenale
legislativo che riduce sensibilmente le libertà dei baschi. La legge del
25 ottobre 1839, pur mantenendo
i fueros, comportò una sostanziale assimilazione dei baschi. Infatti
l’articolo 1 “conferma i fueros nelle province basche” ma “senza pregiudizio per l’unità costituzionale
della Spagna”. Inoltre una legge
del 16 agosto 1841 soppresse definitivamente il vicereame e le Cortes di Navarra, trasformando l’antico regno di Navarra in una semplice provincia spagnola, mentre la
politica fondiaria di Madrid trasfe-
38
40 - Quaderni Padani
riva nelle mani dell’oligarchia terriera e mercantile i terreni comuni dei contadini baschi. Dopo la seconda guerra carlista, una legge
del 21 luglio 1876 trasformò i baschi in sudditi spagnoli a tutti gli
effetti. Il nuovo quadro istituzionale imposto al paese basco, l’integrazione nel mercato spagnolo e
nel suo apparato legislativo, permisero il decollo dell’oligarchia industriale e finanziaria.
A partire dall’azione di Sabino
Arana, i primi decenni del ’900 videro lo sviluppo del moderno nazionalismo basco. Dopo la costituzione della seconda repubblica spagnola (aprile 1931) i baschi elaborarono un progetto di statuto di
autonomia (Statuto di Estella) che
fece delle quattro province basche
uno stato quasi indipendente. Il
progetto venne respinto dalle Cortes e la nuova Costituzione repubblicana fece della Spagna uno stato unitario. Un progetto di autonomia venne invece approvato da
un referendum nel novembre
1933. Al momento del sollevamento franchista (luglio 1936) la maggior parte dei baschi si schierò con
la repubblica e alla fine del ’36 si
formò un governo autonomo basco. Sotto la presidenza di Agirre ,
il governo basco partecipò alla
guerra contro il fascismo con le
prerogative di un potere sovrano:
costituzione di un esercito basco,
emissione di moneta, rilascio dei
passaporti. Nell’aprile del ’37 per
ordine di Franco venne bombardata e distrutta la città basca di Guernica, simbolo dei fueros. Il prezzo
pagato dai baschi, durante e dopo
la guerra civile, è stato altissimo
in numero di morti, prigionieri,
esiliati. La vittoria franchista comportò una ulteriore ondata repressiva in tutta la Spagna, ma in particolare nei Paesi baschi e in Catalogna. Venne abolita l’autonomia,
si impose la spagnolizzazione dei
patronimi baschi, il divieto di
esporre la bandiera basca e di insegnare il basco nelle scuole. La
nascita di ETA e della lotta armata
per l’indipendenza (in particolare
l’attentato del dicembre 1973 contro il capo del governo Carrero
Blanco) portarono ad un ulteriore
inasprimento repressivo. Basti ricordare i numerosissimi casi di tortura (tra cui quello di Eva Forest)
e le fucilazioni di Txiki e Otaegi nel
settembre 1975, due mesi prima
della morte del dittatore.
Il passaggio al postfranchismo è
avvenuto senza sostanziali rotture
con il precedente regime, ma le rivendicazioni nazionalistiche costrinsero il governo centrale a concedere una amnistia e a emanare
provvedimenti di “pre-autonomia”
alla Catalogna e alle Vascongadas.
Nel 1978 venne preparata la Costituzione spagnola, approvata in dicembre mediante referendum. Le
quattro regioni basche, uniche in
tutto il paese, la respinsero a larga
maggioranza in quanto nega apertamente le principali aspettative
del popolo basco. Infatti la Costituzione definisce lo stato “unità indissolubile che garantisce il diritto all’autonomia delle nazionalità
e delle regioni”. In pratica nega il
diritto all’autodeterminazione e
vieta la possibilità di costituire federazioni tra le regioni autonome.
L’esercito mantiene tutte le sue
prerogative, in particolare la sua
organizzazione ignora l’ordinamento autonomista e la lingua delle nazionalità. Lo stesso vale per i
corpi di sicurezza, come la guardia civil, cui spetta nella realtà il
mantenimento dell’ordine (anche
dove è prevista una polizia autonoma, come in Euskadi e in Catalogna). Si tratta in sostanza di una
autonomia di carattere amministrativo ulteriormente limitata
nella sua applicazione pratica. Con
le elezioni legislative del marzo
1979 Herri Batasuna (Unità popolare, dichiaratamente indipendentista) per la prima volta elesse tre
deputati e un senatore che però
non occuperanno i loro seggi nel
parlamento di Madrid.
Nell’estate del ’79 venne elaborato lo statuto di autonomia per le
tre Vascongadas, approvato in ottobre con un referendum popolare. Lo statuto sancisce la separazione tra Vascongadas e Navarra e,
nella logica della Costituzione,
consente solo un’opera di decen-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
tralizzazione amministrativa. Contemporaneamente una parte di
ETA decise di continuare la lotta
armata ritenendo che le autentiche
aspirazioni del popolo basco non
venissero adeguatamente riconosciute. Il primo parlamento basco
venne eletto nel marzo 1980; anche in questo caso Hb decise di non
occupare i seggi. Nel 1981 ETA
uccise l’ingegnere Ryan della centrale nucleare di Lemoiz; una settimana più tardi nei locali della
Direzione generale di sicurezza di
Madrid morì sotto tortura il militante basco Joseba Arregi. Le due
uccisioni daranno origine a imponenti manifestazioni politicamente contrapposte , favorevoli al clima per il tentativo di golpe militare (23 febbraio). Nell’ottobre del
1982 il PSOE di Felipe Gonzales
vinse le elezioni legislative. Dall’anno successivo vengono a formarsi gli squadroni della morte del
Gruppo antiterrorista di liberazione (Gal) formato da poliziotti spagnoli in borghese, da ex miliziani
franchisti, da delinquenti comuni
e anche da neofascisti italiani trapiantati in Spagna. Il loro compito, organico e complementare alla
repressione ufficiale, è stato quello di colpire i rifugiati politici in
Iparralde (Euskadi nord, in territorio francese). Contemporaneamente venne elaborato il piano Zen
(Zona especial norte) rivolto a
schiacciare ogni forma di resistenza in Hegoalde (Euskadi sud, in territorio spagnolo). A questo bisogna
aggiungere, dal 1984, l’espulsione
dei rifugiati dalla Francia. La stragrande maggioranza, una volta
nelle mani della polizia spagnola,
verrà sottoposta a tortura. Alla fine
degli anni ottanta si sono svolti ad
Algeri, in varie fasi e dopo vari tentativi, “conversazioni politiche” tra
il governo di Madrid e l’ETA; i colloqui sono stati favoriti da due tregue successive. Nel marzo dell’89
ETA accusò il governo di non aver
rispettato i patti e il dialogo venne
interrotto. Il 20 novembre una
squadra della morte ha ucciso Josu
Muguruza, deputato di Herri Batasuna, alla vigilia della storica decisione di partecipare alla seduta
del parlamento di Madrid per porre all’ordine del giorno la questione del diritto all’autodeterminazione.
Gli avvenimenti più recenti: nell’aprile del ’95 ETA lancia una proposta di negoziati politici per la soluzione del conflitto tra Euskal
Herria e Stato spagnolo. Secondo
ETA lo Stato spagnolo dovrà riconoscere il diritto all’autodeterminazione e l’integrità territoriale di
Euskal Herria. In questo caso ETA
annuncerebbe un cessate il fuoco
che aprirebbe la strada ad un processo democratico in cui i cittadini baschi decidano tutti gli aspetti
della futura organizzazione di Euskal Herria.
Questi i punti fondamentali della proposta, denominata “Alternativa Democratica per Euskal Herria”:
a) Il riconoscimento da parte
dello Stato spagnolo di Euskal Herria, il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione e all’unità
del territorio nazionale;
Per ETA “il diritto all’autodeterminazione non è una semplice opzione politica; si tratta di un diritto democratico che ci appartiene
in quanto popolo. La decisione sul
fatto di sapere quando, come e in
che modo questo diritto sarà esercitato spetta ai cittadini baschi. Ma
deve essere garantito il riconoscimento di questo diritto, indispensabile perché il Paese Basco determini liberamente il proprio destino”. Continua il comunicato:
“Il riconoscimento di Euskal
Herria esige che si metta fine all’attuale divisione territoriale (tra
Vascongadas e Navarra n.d.r.), le
frontiere istituzionali devono essere tolte, l’unità del nostro territorio accettata”. Come si articola
concretamente l’unità territoriale?
Come si struttura il Paese Basco?
Tutto questo compete all’esercizio
della sovranità nazionale da parte
di Euskal Herria.
b) Il rispetto da parte dello Stato spagnolo del processo democratico che si aprirà nel Paese Basco .
ETA ribadisce che “il punto di vista del popolo basco dovrà essere
pienamente rispettato. Lo stato
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
spagnolo deve impegnarsi a rispettare lo sviluppo di questo processo
democratico, qualunque sia il risultato (il corsivo è nostra ndr).
Naturalmente “la condizione
fondamentale per l’avvio di questo
processo è che tutti i cittadini possano prendervi parte senza subire
alcuna pressione. Per questo deve
coincidere con una amnistia generale, con l’uscita dal carcere di tutti
i prigionieri e con il ritorno di tutti gli esiliati, senza eccezione”.
Ben conoscendo il ruolo storico
di quello che è stato definito (sia
da Franco che da Gonzales) “colonna vertebrale dello stato”, cioè
l’esercito, l’organizzazione armata precisa che sarà “ ugualmente
necessario che siano prese adeguate misure affinché le forze armate
spagnole non possano influire per
niente su questo processo”.
Nel comunicato ETA afferma anche che la nuova proposta per “superare il conflitto, ottenere la pace
basata sulla sovranità nazionale e
costruire la democrazia in Euskal
Herria” viene fatta “con la legittimità di essere parte integrante della società basca e con la garanzia
dell’apporto dato alla lotta per l’indipendenza”. La proposta di ETA è
“uno strumento che la società basca deve raccogliere nelle proprie
mani”.
Conclude segnalando che “nella
misura in cui si creeranno nuove
condizioni e strumenti democratici, ETA, senza abbandonare la lotta per l’indipendenza e per una società basata sulla giustizia sociale,
adeguerà la sua attività alla nuova
situazione in cui verrà a trovarsi il
conflitto. Lo sviluppo di questa
proposta determinerà il superamento del conflitto armato tra Euskal Herria e lo Stato”.
Alla fine del giugno ’96 ETA ha
rilanciato la sua proposta di “Alternativa Democratica” con una nuova tregua senza però che il nuovo
governo di Aznar (PP) rispondesse
in modo adeguato. Successivamente l’organizzazione indipendentista ha avviato una nuova campagna contro le infrastrutture turistiche.
Gianni Sartori
Quaderni Padani - 41
39
Québec
Nell’ottobre del 1995 i fautori
della secessione del Québec dalla
federazione canadese sono stati
sconfitti, con un margine molto
esiguo, nel referendum con il quale chiedevano di fare dell’unica
provincia (intesa come Stato, regione, Land) francofona del Canada, uno Stato indipendente e sovrano.
I principali fattori, da un punto
di vista meramente tecnico, che
hanno permesso di giungere alla
storica consultazione - la quale fa
seguito ad un analogo referendum
svoltosi nel 1980, e da cui i separatisti del Parti québecois (Pq)
uscirono parimenti sconfitti dal
60% di contrari all’indipendenza
- sono tre. Va in primo luogo precisato che il progetto secessionista è stato in procinto di essere
realizzato grazie a quanto previsto dalla costituzione canadese. La
quale, sebbene non contempli la
secessione di una o più province
dalla Federazione, ad esse concede un ampio margine di autonomia, anche in campo legislativo
locale. Pertanto, per il Québec
(così come per qualsiasi altra provincia), è realisticamente più semplice ottenere l’approvazione della secessione dal Canada anglofono, e dalle stesse autorità federali,
piuttosto che realizzare solo alcuni e parziali cambiamenti; le modifiche a livello costituzionale esigono infatti la unanime approvazione delle dieci assemblee legislative provinciali e delle due Camere federali. Tanto è vero che - ed è
questo il secondo fattore che ha
permesso di indire il referendum
svoltosi l’anno scorso - è stato un
rifiuto parziale, quello di due province anglofone contrarie a ratificare l’“Accordo del Lago Meech”,
nel 1990, ad accellerare un processo che era comunque in atto da
tempo. Con tale accordo i secessionisti québecois volevano infatti introdurre nella Costituzione
canadese il concetto di “società
distinta” per i francofoni del Qué-
40
42 - Quaderni Padani
bec, in favore dell’identità linguistica ed etnica dei quali il Pq si
batte con appassionata costanza da
oltre trent’anni.
Il terzo elemento è la vittoria ottenuta dal Parti québecois alle ultime elezioni provinciali che si
sono svolte in Québec un anno
prima del referendum. Nel settembre 1994 i secessionisti francofoni, dopo dieci anni di governo retto dal Partito liberale (i cui elettori sono, in gran parte, anglofoni),
contrario ad un Québec sovrano,
hanno infatti vinto con il 45% ottenuto dagli avversari. Per quanto
esiguo sia stato il margine con il
quale è stata ottenuta la vittoria è
di importanza relativa, poiché essa
ha consentito al Parti québecois di
disporre comunque di un’ampia
maggioranza parlamentare con
cui governare e indire il referendum per la secessione.
Tra le cause della sconfitta di
quest’ultimo, determinata anche
dall’indisponibilità dell’elettorato
anglofono residente in Québec di
recepire le istanze indipendentistiche, vi è la pressione degli ambienti economici e finanziari canadesi
(e dei canali, altrettanto influenti,
di cui essi dispongono) che, contrariamente a quanto fecero in occasione del referendum del 1980,
durante la più recente campagna
elettorale, non hanno lesinato la
descrizione degli scenari apocalittici nel caso il Québec fosse diventato uno Stato sovrano, paventando una caduta di benessere socioeconomica non solo nella provincia francofona, ma in tutto il continente. Ed arrivando al punto di
dichiarare, pur con doverosi distinguo, che il Canada non avrebbe intessuto alcun rapporto con un
eventuale nuovo soggetto politico
nato dalla disgregazione del Paese. Una caduta di benessere comunque da verificare, dal momento che il Québec - un paese di
1.540.680 km2 e 7 milioni di abitanti, con vaste foreste, giacimenti di oro, titanio, rame, stagno e
ferro, vivaci industrie cartarie, alimentari, tessili, meccaniche, del
metallo e del legno - contribuisce
con il 22,5% al PIL canadese, è la
ventesima potenza economica al
mondo, esporta la metà di ciò che
produce ed intesse ottime relazioni economico-commerciali con
l’Europa e gran parte degli Stati
Uniti d’America.
Le istanze indipendentistiche
presenti in Québec che, nel corso
degli anni, ha comunque ottenuto una serie notevole, non solo
quantitativamente, ma anche qualitativamente di riconoscimenti,
tanto da essere rappresentato all’estero non da ambasciate o consolati canadesi, ma da apposite
«delegazioni», non sono il frutto
di tensioni esplose dopo la caduta
del muro di Berlino, come invece
è successo per numerosi Stati che
hanno recentemente raggiunto
l’indipendenza in Europa. Ma risalgono agli anni Cinquanta (anche se, a onor del vero, la prima
rivolta québecois contro gli anglofoni risale al 1837). Quando coloro che sino a quel momento si autodefinivano «franco canadesi», e
nei confronti dei quali il governo
di Ottawa praticava una sorta di
«apartheid», cominciarono a farsi
chiamare québecois. Negli anni
Sessanta, le condizioni economiche in cui vivevano i cittadini di
lingua francese erano infinitamente inferiori rispetto a quelle della
rimanente popolazione del Canada. Ed il francese, nei rapporti tra
le province della Federazione canadese non godeva certamente
dello status di lingua ufficiale. Era
solo l’idioma con cui una parte
della popolazione, in una limitata
realtà territoriale, poteva comunicare. Ed è stato questo - il mancato riconoscimento dell’identità etnica e linguistica della propria provincia - a sviluppare nei québecois quel senso di appartenenza che
lo avrebbe condotto sulla strada
delle richieste indipendentistiche
negli anni a venire.
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
Nel 1960 nacque l’Azione socialista per l’indipendenza del Québec, nel 1963 il «Front de liberation québecois, Flq», un movimento politico che, nel corso dei
suoi dieci anni di attività, concentrò le proprie energie per il raggiungimento dell’indipendenza,
compiendo numerosi attentati
contro gli interessi «anglo-canadesi». Gesti gravi e plateali, che
furono, però, la conseguenza di situazioni particolarmente disagiate in cui giacevano milioni di persone di lingua francese. Basti pensare che nel 1970, a Montreal, il
38% dei cittadini viveva sulla soglia di povertà. E nei sobborghi
francofoni della città sulle rive del
fiume San Lorenzo, gli analfabeti
ammontavano a circa 300 mila
persone. O che, sino a metà degli
anni Sessanta, il novanta per cento dei posti di alto livello nella finanza, nell’industria e nelle ferrovie era occupato da canadesi anglofoni.
Nel 1967 si impose all’attenzione dei québecois René Levesque,
l’artefice dei profondi mutamenti
che si verificano negli anni seguenti in Québec. Dapprima militante del Partito liberale (che da
qualche tempo insisteva per un
riordinamento di tipo federale per
il Canada), questo intraprendente
politico in quell’anno fondò il Par-
ti québecois, con il cui programma indipendentista vinse, nove
anni dopo, le elezioni.
Nel 1968 il primo ministro federale liberale Pearson cedette il
posto al québecois Trudeau. Il quale ottenne, con l’approvazione della «legge 22», che il francese venisse considerato, insieme all’inglese, lingua ufficiale in tutto il
territorio del Canada (attualmente, nell’insieme canadese, escluso
il Québec, il francese viene parlato solo dal 3,2% della popolazione). Nel frattempo, le più o meno
numerose formazioni secessionistiche confluirono nel Parti québecois indipendentiste, ed il clima
politico cominciò a surriscaldarsi.
Nel 1970 l’Flq sequestrò l’addetto
economico del consolato britannico a Montreal ed il ministro del Lavoro e dell’Immigrazione del governo del Québec, Laporto, che gli
indipendentisti restituirono cadavere.
Il Front de liberation du Québec venne dichiarato illegale e
sciolto d’autorità. La tensione tra
le comunità francofona e anglofona aumentò ed il paese piombò in
un clima di stato di guerra. Vennero inviati migliaia di soldati in
tutta la provincia nella quale, durante un periodo di sei mesi, furono arrestate migliaia di persone.
A gettare benzina sul fuoco ci pen-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
sò il generale francese De Gaulle
che non esitò a provocare una crisi diplomatica tra Francia e Canada quando, in visita a Montreal,
durante un discorso esclamò l’ormai celeberrimo: “Vive le Québec
libre!”.
Nel corso delle consultazioni
elettorali che si svolsero nel novembre del 1976, il Parti québecois di René Lavesque, di ispirazione social democratica e appoggiato, in particolare, dalla media
borghesia, chiese l’esercizio dell’autodeterminazione per il Québec. E ottenne la vittoria. Nel 1980
Lavesque lanciò il referendum per
chiedere l’indipendenza della provincia francofona dalla Federazione canadese. Ma lo perse e si dimise.
Dopo la sconfitta, il Pq subì una
profonda trasformazione. Migliaia di militanti indipendentisti vennero espulsi e la causa «pour le
Quebéc libre» emarginata. Ma il
Parti québecois, quando nel 1994
si presentò alle elezioni, ottenne i
peggiori risultati della sua storia.
Fu in questa occasione che il Partito liberale ricevette il mandato
per governare la provincia francofona, revocato solo nel settembre
1994, con la vittoria dei secessionisti di Jaques Parizeau, fine economista e leader del Pq.
Corrado Galimberti
41
Quaderni Padani - 43
La secessione della Padania
comincia dalle Regioni
di Alessandro Storti
La rappresentatività delle Regioni
La questione del separatismo padano può rappresentare un caso giuridico e politico di notevole interesse per gli studi di diritto internazionale.
Ciò è dovuto alle particolari condizioni amministrative e socio-politiche in cui si trovano le nazioni padane. Se andiamo infatti a confrontare il
nostro caso con quello dei popoli storicamente
in lotta per l’indipendenza, troviamo notevoli differenze. La prima e più importante è che la Padania non è dotata di un organo rappresentativo generale, ma di ben sette consigli regionali che non
hanno alcun legame istituzionale fra loro. Se pensiamo al Québec, alla Catalogna, alla Slovacchia,
soltanto per citare alcuni esempi, osserviamo che
in quelle terre la popolazione ha ed ha avuto la
possibilità di esprimere la propria volontà autonomista secondo un percorso unitario. Ciò, evidentemente, non è così semplice per la Padania,
che non è giuridicamente rappresentata nella sua
completezza.
Non è qui il caso di soffermarci sui difetti della
ripartizione amministrativa che i burocrati piemontesi tracciarono all’indomani dell’unità. Sarebbe necessario un intero volume per cercare di
stabilire con una certa precisione le reali delimitazioni delle nazioni padane, in base a studi di
carattere linguistico, storico, sociale ed economico. Inoltre la questione della non corrispondenza
è un problema più apparente che sostanziale. Sarebbe infatti sufficiente un movimento secessionista interno alle regioni per modificarne i confini attraverso lo spostamento di Comuni o gruppi
di Comuni. È questa una procedura che, oltre a
dover partire dal basso, è preferibile rimandare al
dopo-separazione. Per il momento un qualsiasi
approccio alla questione del distacco della Padania dallo Stato Italiano deve partire da ciò che già
c’è: le Regioni.
Questi organi rappresentativi territoriali sono
infatti gli unici livelli di governo intermedi fra
44 - Quaderni Padani
42
Comuni e Province da un lato e Stato centrale
dall’altro. La dimensione regionale, sotto il profilo demografico, geografico e politico, è la sola
in questo momento capace di “pesare” istituzionalmente nella grande partita a scacchi che i Padani stanno giocando con il potere romano. Certamente sarebbe stato meglio poter disporre di
una Assemblea sovraregionale, rappresentativa
della macroregione Padania: a questo obiettivo
puntava il percorso costituzionale delineato dal
Professor Miglio nel 1992, quando egli teorizzava la necessità che i nostri Comuni promuovessero i referendum per la fusione delle regioni della
Valle del Po. In quel caso si sarebbe giunti ad avere una sola area amministrativa (ma con una forza politica dirompente) contrapposta allo Stato
centrale. La partita avrebbe assunto i contorni del
braccio di ferro a due. Purtroppo quella strada
non è stata seguita, con la conseguenza che allo
stato attuale la Padania esiste nella realtà, ma non
nel campo del diritto.
Bisogna a questo punto fare alcune considerazioni sul Parlamento della Padania e sul Governo
collegato, creati dalla Lega Nord. In questo caso
ci troviamo di fronte, infatti, a un tentativo di dare
rappresentanza unitaria alla nostra terra. Questi
organi si sono venuti a sovrapporre alle Regioni,
ma finora fortunatamente non vi sono state posizioni vicendevolmente ostili.
I parlamenti regionali hanno “ignorato” l’Assemblea mantovana, che a sua volta non ha assunto posizioni conflittuali verso gli Enti Locali.
Sul rapporto fra queste istituzioni (costituzionali o autoproclamate) torneremo in prosieguo. Ora
è utile fare alcune considerazioni sulle differenze
fra esse esistenti e sulle funzioni che loro spettano di conseguenza.
Le effettive potenzialità giuridiche del Parlamento della Padania sono molto ridotte in conseguenza di due fatti: in primo luogo esso è ancora oggi espressione di una sola forza politica: non
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
c’è stata penetrazione di gruppi esterni, quindi
non è ancora avvenuta una forma di reale legittimazione. In secondo luogo l’appartenenza al Parlamento non si basa su criteri elettivi. Gli organi
padani della Lega Nord hanno pertanto acquisito
l’aspetto di comitati di liberazione. Questo ruolo
si concilia con possibili richieste di autodeterminazione, con relativi appelli all’ONU e agli altri
organismi internazionali. Ma non è adattabile all’esercizio del diritto di secessione. Tale facoltà
appartiene infatti alle comunità politiche, cioè ai
gruppi di cittadini organizzati istituzionalmente
su un determinato territorio. Il carattere di organizzazione si fonda essenzialmente sul consenso, ovvero sul fatto che la stragrande maggioranza degli abitanti di un’area si riconoscano nelle
istituzioni rappresentative dell’area medesima. E
nel caso padano ciò può dirsi delle Regioni, ma
non del Parlamento di Mantova, in cui si identifica una parte, per quanto vasta, comunque minoritaria dei nostri concittadini.
Inoltre il fatto stesso che esistano già dei consigli legislativi regionali toglie spazio all’Assemblea
mantovana, che assume dunque un significato
soprattutto simbolico e ideale.
Territorialità del conflitto
Prima di analizzare le strade giuridicamente
percorribili per il distacco della Padania dallo Stato Italiano, è utile concentrarsi brevemente sul
concetto di “territorialità”.
Da molti anni si parla di riforme in senso federale della Repubblica Italiana. Tuttavia in pochi
hanno sostenuto la necessità che tali processi partissero dalle comunità politiche che avrebbero
dovuto comporre la federazione. Anzi, il più delle
volte si è avuta la sgradevole sensazione che “federalismo” fosse soltanto un termine scelto per
mascherare quelli che in realtà si presentavano
come progetti di puro decentramento. E, come si
capisce dalla parola stessa, “decentrare” significa
che un organismo unitario si ristruttura senza
scomporsi: esattamente l’opposto di qualsiasi
struttura autenticamente federale, formata cioè
da entità di base che autonomamente, liberamente e consensualmente decidono, attraverso un
patto di natura contrattuale, quali funzioni delegare ad un Governo comune (fatta salva la possibilità di revocare tali concessioni e di scindere
addirittura il proprio rapporto con le altre entità).
Il problema reale consiste quindi nel ruolo che
viene assegnato al territorio. Se questo è soltanto
visto come ambito in cui agisce un potere, attraAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
verso una organizzazione e suddivisione amministrativa proveniente dall’alto, allora siamo certamente in uno Stato centralista e unitario. Se,
al contrario, il territorio si autodefinisce come
centro di interessi della comunità politica che in
esso risiede (e che ne è proprietaria), allora ci troviamo in presenza di uno stato che si fonda sulla
territorialità. Oggi la Repubblica Italiana è un
esempio di aggregazione statuale di tipo ultracentralistico, dove il potere sorge dall’alto e si irradia alle comunità che compongono lo Stato;
uno Stato che si autopone dichiarandosi “uno e
indivisibile”, ergendosi dunque a divinità laica intangibile e perfino fuori dalla storia e dal diritto.
Pensare di poter procedere ad una riforma federale in queste condizioni è impossibile (o quasi). I meccanismi costituzionali sono pressoché
inutilizzabili, soprattutto perché si basano sull’attribuzione del potere costituente a deputati che
sono svincolati completamente dal territorio (1).
Lo Stato italiano sembra una cassaforte chiusa
dall’interno. Che fare?
È venuto il momento che sia il territorio a riprendersi il potere sottrattogli dalla Carta costituzionale e dai partiti che la redassero, costruendo un sistema dei partiti medesimi e non delle
comunità politiche. Proprio ad esse spetta in queste ore il gravoso, ma determinante compito, di
adire tutte le strade disponibili e giuridicamente
legittime - ma non necessariamente legali - per
ottenere la propria sovranità. Le Regioni in particolar modo, con il sostegno del Parlamento e del
Governo della Padania, possono far sì che le nazioni padane riacquistino un potere contrattuale
attraverso il quale trattare con lo Stato. Non sappiamo se in futuro le Comunità Padane sceglieranno di dar vita ad un patto federale con lo Stato
Italiano: certo è che soltanto il distacco può permettere loro di scegliere in una posizione di parità, senza dover chinare il capo di fronte a qualsiasi Commissario di Governo.
Referendum, deliberazioni e tesoreria regionali
Cominciamo dunque ad esaminare i vari tipi di
azioni che potrebbero essere promosse dai Consigli e dalle Giunte regionali, al fine di creare un
conflitto giuridico con lo Stato Italiano. Essenzialmente esse sono riconducibili a tre gruppi
(parliamo di gruppi poiché le modalità di applicazione possono variare e le azioni possono esse(1) Su questo specifico tema ci permettiamo di rinviare a Alessandro Storti, “Per la libertà della Padania una Costituente
territoriale”, in Quaderni Padani, n.4, marzo-aprile 1996
Quaderni Padani - 43
45
re molteplici e non singole): i referendum, le deliberazioni in contrasto con l’indirizzo imposto
dalla Costituzione attraverso il Commissario di
Governo, l’apertura di tesorerie e conti correnti
regionali con lo scopo di raccogliervi i versamenti tributari che oggi i cittadini destinano allo Stato.
1) Referendum
In questi mesi la Regione Lombardia ha pubblicamente dichiarato di voler promuovere un referendum regionale consultivo sul tema delle riforme costituzionali, secondo quanto prevede lo
Statuto. Inoltre il Presidente Formigoni ha presentato altri otto referendum di iniziativa regionale che porterebbero all’abolizione di altrettante leggi e articoli di legge allo scopo di avviare
una svolta federalista dal basso (attraverso l’eliminazione di alcuni ministeri e di forme di controllo centralistico sugli enti locali). L’iniziativa
della Regione Lombardia ha suscitato e susciterà
molte reazioni, ma non si tratta soltanto di commenti politici: la decisione di Formigoni infatti
verrà necessariamente a scontrarsi con la Costituzione.
La Carta fondamentale dello Stato Italiano riconosce ai Consigli regionali la facoltà di richiedere consultazioni referendarie per tutto il territorio della Repubblica (2). Tuttavia non è concesso alle Regioni di convocare i cittadini in esse residenti per sottoporre loro quesiti che esulino dalle competenze regionali (esattamente come le riforme istituzionali). Già in passato si sono avute
bocciature in tal senso da parte dei Commissari
di Governo, i quali hanno posto il veto a referendum consultivi riguardanti materie che la Costituzione esclude dalle competenze dei Consigli Regionali. Quindi dell’iniziativa lombarda si salverebbe solo la seconda parte, quella cioè che prevede la indizione di 8 referendum nazionali. Cadrebbe invece la consultazione locale sulla forma
di Stato preferita dai cittadini lombardi.
La partita a questo punto sembrerebbe chiusa,
ma non è così. Bisogna infatti tener conto non
soltanto degli aspetti giuridici, ma anche dei riflessi politici dell’iniziativa della Regione Lombardia. In primo luogo il Presidente Formigoni è
(2) “È indetto un referendum popolare per deliberare la abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente
valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali” art. 75, comma 1, Costituzione
dello stato Italiano
(3) v. Ilvo Diamanti, “I tre bersagli di Formigoni”, su Il Sole 24
Ore del 25 luglio 1996
44
46 - Quaderni Padani
sostenuto da una maggioranza di colore opposto
a quella del Governo centrale. Da parte di Formigoni c’è l’interesse a dimostrare di aver fatto qualcosa di concreto sulla strada delle riforme, sia per
mantenere vitale il proprio schieramento, sia per
contenere la concorrenza politica della Lega Nord,
fortissima in Lombardia (3). È quindi molto difficile credere che la Regione abbassi la testa tanto
facilmente di fronte ad un veto da parte del Governo. E bisogna anche chiedersi come potrebbe
il Governo stesso giustificare un “no” a un referendum esclusivamente consultivo, in un momento in cui le spinte secessioniste in Padania si
sono fatte molto concrete.
In secondo luogo bisogna considerare anche la
valenza che avrebbe un referendum di questo tipo.
Se esso venisse indetto dal Parlamento di Mantova, mancherebbe di legittimazione generale, sarebbe di difficile realizzazione e di non facile controllo: al contrario, provenendo da una istituzione quale la Regione esso avrebbe i requisiti perfetti dell’atto giuridico e legittimo, in quanto promosso da un organo che lo Stato stesso riconosce nella Costituzione e i cui rappresentanti sono
stati eletti dalla grandissima maggioranza dei cittadini in libere elezioni. Inoltre, se andiamo ad
analizzare il contenuto del referendum proposto
dallo staff di Formigoni, notiamo ulteriori potenzialità. Il Presidente ha affermato che i cittadini
dovrebbero trovare sulla scheda tre possibilità di
scelta: Stato unitario attuale, Stato federale, Secessione. Si tratta evidentemente di una terminologia che dovrebbe essere meglio specificata,
soprattutto per evitare che la maggior parte dei
cittadini si dichiarino in favore dell’ipotesi federalista senza nemmeno conoscerne i precisi confini, e quindi rischiando di ricevere in cambio una
riforma svuotata di reali contenuti. Al di là comunque del difetto di forma, la proposta acquista
sfumature realmente rivoluzionarie laddove presenta anche la scelta secessionista.
Ciò infatti significa che, pur restando su un piano consultivo, una Regione si arroga il diritto legittimo di decidere del proprio destino, ponendosi quindi in una posizione contrattuale nei confronti dello Stato Italiano. È indubbio quindi che
una serie di referendum così congegnati, nel momento stesso in cui dovessero essere deliberati (o
addirittura effettivamente votati), genererebbe un
conflitto insanabile con il Governo centrale. E un
Presidente che si dichiari federalista deve puntare proprio a questo risultato. La Regione Lombardia (e possibilmente anche le altre padane) potranno proseguire senza timore su questa strada,
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
dimostrando pubblicamente l’ostilità dello Stato
verso qualsiasi riforma costituzionale che non
parta da esso, sotto forma di concessione ai territori che compongono la Repubblica Italiana (4).
2) Deliberazioni
Nella elencazione su riportata abbiamo accennato alle deliberazioni in contrasto con l’indirizzo imposto dalla Costituzione attraverso il Commissario di Governo. In sostanza si tratta di quelle delibere consiliari o di giunta regionale che esulano dalle competenze determinate costituzionalmente per gli enti locali. Parlando in precedenza
dei referendum consultivi abbiamo di fatto già citato un tipico caso di deliberazioni in contrasto
con la Carta fondamentale.
Abbiamo tuttavia dedicato una sezione apposita a queste azioni poiché esse non vanno limitate
al solo caso delle consultazioni referendarie, ma
anche ad altre decisioni del Consiglio che vengano bocciate dal Commissario di Governo (5). Questi è un organo attraverso il quale lo Stato centrale esercita un controllo preventivo e vincolante sugli atti delle Regioni. Peraltro proprio uno
dei referendum abrogativi promossi dalla Lombardia punta all’eliminazione di tale lacciolo centralista. Ma fino a quando il Commissario resterà, è possibile innestare anche attorno alla sua
figura un conflitto insanabile fra Regioni e Governo centrale. In che modo?
A questa domanda hanno già risposto nel secolo scorso i membri dello Storting, l’autoproclamato Parlamento norvegese ai tempi in cui questa nazione era sottomessa alla Svezia. Lo Storting, nel corso di una lotta giuridico-politica durata decenni, venne più di una volta in contrasto
con la corona svedese, che si serviva proprio di
una sorta di Commissario per controllarne e bocciarne le deliberazioni. E ogni volta lo Storting le
ripresentava, vedendosele regolarmente respingere. Non citiamo certamente questo caso per
puro vezzo: la scelta di prendere continuamente
gli stessi ordini del giorno già cassati ha contribuito al raggiungimento dell’indipendenza della
Norvegia, grazie all’ottenimento graduale di sempre maggiori poteri, fino alla sovranità (6).
Un conflitto giuridico di questo tipo si trasformerebbe velocemente in contrasto politico, capace ancora una volta di mostrare quanto sia pesante il controllo di merito e di legittimità che lo
Stato esercita sugli atti delle comunità politiche
regionali. Come per la Norvegia, anche le Regioni padane potrebbero ottenere moltissimo attraverso questa via, senza peraltro ricorrere ad azioni illegali.
3) Tesoreria
Una delle tematiche puramente autonomiste è
quella dello sciopero fiscale, quale atto di resistenza e di disobbedienza civile. In uno Stato le
tasse e le imposte corrispondono al sangue che
circola nel corpo umano: senza di esse il sistema
crolla. Proprio per questo motivo l’arma della
protesta fiscale va saputa usare con grande intelligenza. Non bisogna abusarne ne prospettarla
come un miraggio. Infatti è bene che i cittadini
non perdano l’abitudine di pagare i tributi, poiché il patto sociale fra uomini si fonda esattamente sul pagamento di quote in cambio di servizi
(primi fra tutti la tutela dell’ordine pubblico e
l’esercizio del potere giurisdizionale, al fine di
comporre i conflitti d’interesse che sorgono fra
cittadini).
È evidente che una Padania federale e libera
dovrà puntare ad avere un sistema fiscale razionale e quanto più possibile “leggero”; ma non si
può far credere alla gente che pagar le tasse è cosa
per i meno furbi (col rischio di “meridionalizza-
(4) Questo punto è di fondamentale importanza. Lo dimostrano ampiamente le reazioni che studiosi e costituzionalisti hanno avuto. Per tutte riportiamo le dichiarazioni di Livio Paladin e di Ilvo Diamanti:
“(...) andrebbero precluse in partenza consultazioni come i
referendum, sia pure consultivi, mediante i quali l’elettorato
di alcune o di tutte le regioni del Nord fosse chiamato a pronunciarsi sull’ipotesi di una secessione. In quanto il solo fatto
di consentirne lo svolgimento legittimerebbe giuridicamente
le aspirazioni dei secessionisti. Vanno dunque bloccati anziché incoraggiati i propositi referendari della Regione Lombardia.” (Livio Paladin, citato in Antonio Socci, “Quando Mazzini
difendeva il libero diritto alla secessione”, su Il Giornale del
25 agosto 1996);
“(...) il problema vero è che un referendum darebbe legittimità istituzionale e costituzionale alla secessione (quella politica è ormai un dato), promuoverebbe la Lega quale rappresen-
tante del disagio e della voglia di autonomia del Nord, facendone un solo, unico territorio socio-politico. (...) Meglio, allora, lasciare -se proprio non se ne può fare a meno- alla Lega lo
sforzo di promuovere referendum” (Ilvo Diamanti, “La trappola del referendum”, su Il Sole24 Ore del 17 agosto 1996)
(5) “Un commissario del Governo, residente nel capoluogo della
Regione, sopraintende alle funzioni amministrative esercitate
dallo Stato e le coordina con quelle esercitate dalla Regione”
art. 124 Costituzione dello stato Italiano
“Ogni legge approvata dal Consiglio regionale è comunicata
al Commissario che, salvo il caso di opposizione da parte del
Governo, deve visitarla nel termine di trenta giorni dalla comunicazione” art. 127 Costituzione dello stato Italiano
(6) Per una analisi storica più specifica si veda la scheda di
Gilberto Oneto sul caso della Norvegia, riportata su questo
stesso numero dei Quaderni Padani, pag. 21
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
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Quaderni Padani - 47
re” la Padania). È interessante invece studiare la
possibilità che il prelievo fiscale possa essere deviato in favore delle Regioni. Questo potrebbe avvenire in una fase avanzata del processo separatista, in un momento in cui lo Stato dovesse mostrarsi assolutamente debole e incapace di negoziare il distacco. Se dovessero prevalere, in seno
al Governo di Roma, spinte ultranazionaliste e
centraliste le Giunte regionali avrebbero il diritto di invitare i cittadini residenti a versare le tasse in conti correnti appositi, facenti capo a Tesorerie speciali. Si tratterebbe di un legittimo esercizio del diritto di resistenza. In questo modo le
Regioni, che in quel momento potrebbero già essersi unite in un patto interfederale, sarebbero in
grado di assumere in pieno tutte le funzioni prima riservate allo Stato, garantendo il pagamento
dei pubblici dipendenti e dei pensionati.
Questi sono infatti due dei maggiori problemi
di carattere finanziario che si prospettano non
appena si discute di secessione della Padania dallo Stato Italiano: chi pagherà pensioni e lavoratori dei servizi pubblici? e con quali fondi? La risposta sta proprio nel procedimento che abbiamo sopra illustrato. Certo si tratta di una azione
che va al di là dell’ordinamento costituzionale;
ma è chiaro che una separazione, se non è consensuale, non può svolgersi secondo un percorso
di piena legalità. D’altronde ciò non toglie che gli
atti compiuti da Governi e Assemblee regionali
siano comunque legittimi e perfettamente giuridici, poiché assunti da organi che, come detto,
godono del requisito della piena rappresentatività di tutta la popolazione residente. E in questo
sta la forza delle Regioni, nel fatto di essere comunità politiche a tutti gli effetti.
Azioni del Governo della Padania
Fin qui abbiamo elencato le azioni che potrebbero essere compiute dalle Regioni al fine di procedere verso un distacco dallo Stato Italiano (o
comunque al fine di posizionarsi su di un piano
di parità, con la prospettiva quindi di essere in
grado di contrattare direttamente con il Governo
centrale). È ora il momento di concentrarsi sui
compiti che spettano invece agli autoproclamati
Governo e Parlamento della Padania. Già in precedenza abbiamo detto che tali organismi hanno
una funzione soprattutto simbolica. Non si deve
però pensare che con tale termine se ne voglia
sminuire l’importanza. Al contrario, è grazie alla
presenza del Governo della Padania che è possibile una politica di accelerazioni da parte delle
Regioni.
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48 - Quaderni Padani
Noi crediamo che lo specifico ruolo delle istituzioni create della Lega Nord sia quello di dare
una legittimazione politica e ideale alle azioni regionali che sono state sopra individuate. Se le
istanze secessioniste per la Padania non avessero
trovato una materializzazione nel Parlamento di
Mantova, oggi probabilmente i Consigli e le Giunte regionali si troverebbero in posizione di difesa
rispetto al Governo di Roma: oggi invece le Regioni possono condurre una politica di “attacco”,
proprio perché sanno che lo Stato dovrà dare loro
ascolto se non vuole lasciare tutto lo spazio dell’iniziativa alle posizioni più radicali rappresentate dal Parlamento della Padania.
Tuttavia è possibile individuare anche per il
Governo di Venezia delle specifiche azioni che ora
andremo ad esaminare: procedura per il riconoscimento internazionale attraverso il diritto di
autodeterminazione e invito a non sottoscrivere
titoli di Stato.
1) Autodeterminazione
Nel corso dell’ultimo cinquantennio molti paesi del terzo mondo hanno acquistato la propria
indipendenza attraverso il riconoscimento internazionale. Tali comunità si sono appellate al principio di autodeterminazione, come sancito da
numerosi trattati e documenti sottoscritti dalle
Nazioni. Di fatto, però, proprio perché soggetto
ad una valutazione di altri Stati, il principio di
autodeterminazione si è ridotto ad una concessione fatta a quei territori che avevano subito una
dominazione coloniale e che non avevano legami
storici con le potenze dominatrici. Pertanto sono
state riconosciute, ad esempio, le nazioni africane, ma non quelle che lottavano per l’indipendenza nel continente europeo (baschi, bretoni, irlandesi, ecc.) o nell’ex-blocco sovietico (emblematico il caso della Cecenia). Per tali motivi è ben
difficile credere che alla Padania possa essere riconosciuto lo status di nazione sovrana e indipendente giuridicamente dallo Stato Italiano. Al
contrario, è prevedibile che le richieste fatte in
tal senso all’Organizzazione delle Nazioni Unite
non vengano nemmeno prese in considerazione.
Ciò comunque non giustifica la scelta di scartare a priori tale percorso. E crediamo che a farsi
carico di queste procedure possano essere proprio gli organismi creati dalla Lega Nord. Essi
infatti hanno la pretesa di rappresentare unitariamente la Padania, al di là delle divisioni amministrative regionali. Il Governo della Padania
incarna quindi l’ideale di un popolo che aspira
alla libertà, e come tale è giusto che si rivolga
all’ONU per sottoporre il caso delle comunità paAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
dane al consesso delle Nazioni. Questo atto non
contrasta con le azioni regionali: semplicemente
le integra, laddove quelle sono limitate al territorio di competenza e, quindi, non adatte a rappresentare tutta la Padania.
2) Disinvestimento dei Titoli di Stato
Così come le Regioni potrebbero, ad un certo
momento, decidere di raccogliere direttamente
le imposte, ugualmente il Governo di Venezia
avrebbe un’arma formidabile per togliere ossigeno allo Stato: invitare i cittadini a disinvestire i
propri Titoli di Stato, deviandoli su altre forme di
risparmio (ad esempio buoni ordinari comunali
o regionali, oppure fondi obbligazionari esteri).
Questa strada non avrebbe soltanto la funzione
di indebolire il Governo centrale; tale obiettivo
potrebbe essere addirittura di secondaria importanza. In realtà il disinvestimento dei Titoli di
Stato avrebbe il fondamentale scopo di ridurre
l’incidenza del debito pubblico in previsione della secessione. Quando uno Stato si divide, esattamente come in una società o in una coppia di coniugi, sorgono i problemi relativi alla separazione dei debiti e dei crediti. Pochissimi questi ultimi per la Repubblica Italiana. Moltissimi invece i
primi, e purtroppo concentrati soprattutto in Padania, dal momento che i nostri concittadini sono
i maggiori sottoscrittori di Titoli di Stato.
L’unica soluzione per non trovarsi nella più fitta delle tempeste, o almeno per contenerne gli
effetti, sarebbe quella di far capire ai cittadini che
è bene rinunciare a rendite più alte preferendo
una maggior garanzia di restituzione del denaro.
Certo questa azione si scontra con la paura delle
persone, con le minacce dell’Autorità centrale e
con il senso di disfatta economica che dichiarazioni del genere fanno prevedere. Ma nel caso dello
Stato Italiano e della prossima ventura Unione
Federale delle Comunità Padane vale proprio il
detto “prevenire è meglio che curare”.
Relazioni fra Regioni e Governo della Padania
Siamo così giunti all’ultimo punto della nostra
trattazione. Un punto cruciale per il futuro della
Padania, poiché dai rapporti che il maggior movimento autonomista saprà avere con le Regioni
dipende forse l’esito del conflitto giuridico e politico fra Comunità padane e Stato centrale.
Nel corso dell’esposizione abbiamo già avuto
modo di sottolineare come il Governo della Padania possa svolgere un ruolo di copertura nei
confronti dei Consigli e delle Giunte regionali
della nostra terra. Questa posizione dipende essenzialmente dal fatto che le Istituzioni leghiste
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
sono rappresentative al tempo stesso di un partito e di una istanza territoriale molto sentita: il
Governo non può attaccarle con troppo rigore,
poiché rischierebbe di sconfinare nella messa al
bando di un movimento politico, senza peraltro
dare adeguate risposte alle legittime richieste dei
cittadini padani. In questo senso sono quindi più
esposte le Regioni, che potrebbero essere bloccate dallo Stato attraverso lo scioglimento dei Consigli regionali per attività lesiva dell’interesse nazionale (7).
Ci sembra evidente, perciò, che una politica padanista e libertaria del Governo di Venezia debba
fondarsi sul sostegno a tutte le iniziative autonomiste delle nostre Regioni, stimolandole e incentivandole. Immaginiamo infatti che il Governo di
Roma vieti l’indizione del referendum consultivo
della Regione Lombardia: l’organo della Lega
Nord avrebbe buon gioco ad attaccare l’autoritarismo della Repubblica Italiana; se invece il referendum si facesse, si otterrebbero al contempo
due risultati: legittimazione giuridica della opzione secessionista e assunzione di una posizione contrattuale da parte delle Regioni verso lo
Stato. Entrambi i fattori avvantaggerebbero la
lotta per la libertà della Padania. Non va dimenticato infine che il Governo della Padania ha anche
la possibilità di alzare il livello dello scontro giuridico, avanzando sempre maggiori richieste, e
legittimando così sul piano politico ulteriori azioni delle Regioni.
Conclusioni
Per evidenti motivi questa trattazione non può
che considerarsi come un primo passo nel dibattito sulle problematiche tecniche della scelta separatista. Gli spunti offerti sono numerosi e certamente non esauriscono la questione. Riteniamo peraltro che la strada aperta dai referendum
regionali sia l’unica che possa offrire la concreta
opportunità di discutere sulla secessione: non solo
in linea teorica, ma anche, e soprattutto, nel merito degli aspetti di applicazione pratica. Da parte
nostra, comunque, ci ripromettiamo di svolgere
ulteriori analisi, anche in vista della auspicabile e
decisiva campagna elettorale sulla consultazione
referendaria promossa dalla Regione Lombardia.
(7) “Il Consiglio regionale può essere sciolto, quando compia
atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge, o
non corrisponda all’invito del Governo di sostituire la Giunta
o il Presidente, che abbiano compiuto analoghi atti o violazioni. (...)
Può essere altresì sciolto per ragioni di sicurezza nazionale”
art. 126, comma 1 e 3, della Costituzione dello Stato Italiano
47
Quaderni Padani - 49
Appendice: altre vie per raggiungere
l’indipendenza della Padania*
1) Misure adottabili in campo internazionale.
Fermo restando che assoluta priorità va assegnata alle
misure e alle azioni regionali descritte da Alessandro
Storti in questo numero dei Quaderni Padani, possono essere affiancate ad esse misure supplementari in
campo internazionale volte a insistere in direzione
dell’ottenimento del diritto di autodeterminazione.
Oltre alla via classica della proclamazione dell’indipendenza - referendum per le popolazioni interessate
(ma come si è visto, plasmata e rimeditata partendo
dalle regioni), vanno affiancate immediate misure internazionali quali:
a. La richiesta di una missione OCSE di esperti sul
territorio padano.
Questa misura serve a presentare agli esperti OCSE
la realtà delle discriminazioni e delle violazioni dei
diritti naturali dei cittadini padani da parte di uno
Stato iper-centralizzato come quello italiano.
In particolare, i temi da porre al centro dell’attenzione degli osservatori internazionali sono:
- la violazione del par. 1 dei Covenants sui Diritti dell’Uomo (1966) relativo alla «libera disponibilità da
parte di ogni popolo delle proprie ricchezze e delle
risorse nazionali»;
- la rapina fiscale, che diminuisce, consuma ed esaurisce le ricchezze, dissangua l’economia, abusa del
lavoro, della fatica, del sudore e dei beni dei cittadini,
soffoca i rapporti di scambio;
- i trasferimenti squilibrati di risorse a favore di una
sola parte della popolazione;
- il fatto che i territori dello Stato unitario italiano
siano stati acquisiti con la forza e per conquista. Questo infatti pone sullo stesso piano logico il caso dei
baltici e quello padano;
- Tutte quelle discriminazioni che sono state ampiamente visualizzate dalla “Rubrica silenziosa” dei Quaderni Padani. In particolare assumono rilievo le discriminazioni dei padani nell’accesso ai posti pubblici, ragione che è stata alla base anche della secessione
fra Slovacchia e Repubblica Ceca (si veda l’analisi riportata in questo stesso numero dei Quaderni Padani), ma non solo: basterebbe analizzare lo stesso fenomeno nei Paesi Baltici e in Croazia e Slovenia, per
rendersi conto di quanto sia stato determinante nel
fondare un vero e proprio sistema coloniale.
Tutti questi elementi infatti sono stati parte integrante
* A cura della redazione
48
50 - Quaderni Padani
del riconoscimento delle nuove indipendenze dell’Est
europeo.
b. Correlativamente, il ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia, competente per tutti questi casi
di discriminazione.
c. La ricerca di un supporto internazionale negli
altri popoli che aspirano all’indipendenza, sia occidentali (baschi, catalani, irlandesi, scozzesi, ecc.) che
orientali, le cui esperienze vanno assimilate, poiché è
fonte di grave ingiustizia il riconoscimento di alcune
indipendenze all’Est e non in Occidente, dove sussistono spesso simili condizioni di discriminazione palese.
Occorre lavorare soprattutto con gli indipendentisti
occidentali per una continua azione di distruzione
logica della politica, adottata in campo internazionale, dei “due pesi e delle sue misure”.
Con queste minoranze etniche vanno scambiate sempre più strettamente esperienze comuni e strategie
per ovviare al farraginoso meccanismo internazionale di riconoscimento del diritto di autodeterminazione, praticamente precluso nei casi riferiti all’Occidente.
d. La ricerca di un supporto internazionale negli
altri Paesi maggiori dell’Occidente.
Come si è visto nel caso della secessione dei Paesi
Baltici, ma soprattutto in quello della Slovenia e della Croazia, ben più determinante dell’assenso delle
Istituzioni Internazionali (in alcuni casi mai arrivato) si è rivelato l’appoggio di singoli Paesi occidentali, in particolare della Germania, alle giuste rivendicazioni dei popoli. Se nel caso della Croazia e della
Slovenia non fosse giunto tempestivamente il riconoscimento tedesco, anche in quei due Paesi di recente indipendenza si sarebbe assistito ad un massacro di vaste proporzioni, in tutto simile a quello avvenuto in Bosnia.
Pertanto vanno studiate forme di ambasciata padana
permanente in Paesi come la Germania, sebbene quest’ultimo tema fortemente la concorrenza di una regione economica padana omogenea, che balzerebbe
in breve tempo ai primi posti in Europa.
Del pari, vanno studiate forme di rappresentanza commerciale padana all’estero e in particolare in quelle
regioni dell’Est europeo di recente indipendenza, confinanti con la regione padana, che stanno decollando
economicamente. Alcune addirittura (come la Slovenia, ma anche la Croazia), sono costrette a rivolgersi
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
a Roma per instaurare relazioni con la Padania, subendo oltre tutto il ricatto nazionalistico dovuto a contenziosi vecchi, sciovinistici e mai risolti: una cosa
che finisce per danneggiare gli interessi padani. A riprova di questo basterebbe ricordare gli ostacoli vergognosi che Roma ha sempre frapposto all’iniziativa
Alpe Adria, che coinvolgeva numerose regioni padane.
Gli organi di rappresentanza della Padania, per quanto imperfetti o non pienamente legittimati, devono
funzionare fin da ora come punti di riferimento per
questi Paesi, al fine di instaurare rapporti stabili con
la Padania stessa. In numerose conferenze di studio
svoltesi in questi Paesi, infatti, gli esponenti di questi
ultimi hanno rilevato l’impossibilità di avere un interlocutore esclusivamente padano e il conseguente,
automatico fallimento delle iniziative, per quanto ben
programmate.
2) Misure interne alla Padania
a. Propaganda.
Questo settore va particolarmente curato, primariamente per far giungere ai cittadini padani la verità su
alcuni elementi fino ad oggi passati sotto silenzio e in
particolare:
- la Padania non abbandona affatto l’opzione federale, ma la ri-orienta laddove possibile, cioè sul territorio padano, fa le entità nazionali (venete, lombarde, piemontesi ecc.) e sub-etniche (ladini, friulani,
sud-tirolesi, romanci, occitani, liguri ecc.) che vogliano federarsi.
Questo “spostamento” della scelta federale alla sola
Padania indipendente avviene perché si è constatata
l’impossibilità di adottare un sistema federale su scala nazionale e soprattutto la volontà di ingannare i
cittadini padani con già enunciate pseudo-riforme
spacciate per “federalismo” quali quella dell’importazione di un sistema “alla tedesca” (che non è affatto
un sistema federale), regionalista, di decentramento
amministrativo, delle “autonomie”, che con il federalismo non hanno niente a che fare e che ne sono anzi
l’opposto.
- le istituzioni della Padania possono ottenere in
termini di legittimità una forza di gran lunga maggiore rispetto a quelle nazionali. Attorno ad esse si
può coagulare un forte consenso e la stessa identità
di popolazioni legate da un sistema economico fortemente integrato e da abitudini, tradizioni, storia comuni.
- questione delle énclaves: le aree che decidessero di
non aderire alla confederazione padana rimarrebbero
“schiave di Roma” indipendentemente dalle scelte del
resto della Padania.
In una confederazione padana, nata per consenso, si
colloca per forza di cose la questione delle énclaves
formate da cittadini che non vogliono aderire al contratto confederale. Va messo bene in chiaro che queste comunità che rifiutano l’adesione rimangono énAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
claves di Roma interne alla Padania, che rimangono
suddite della vecchia capitale.
Prima che si formassero gli Stati moderni in Europa,
l’organizzazione per énclaves era la regola. La pretesa di costituire Stati territorialmente omogenei non
appartiene allo spirito della rivoluzione federale contemporanea.
Il rifiuto della contiguità e dell’omogeneità territoriale da conseguire a tutti i costi (che invece è un argomento tipico dei nazionalisti), potrebbe costituire
un forte elemento di rottura nel campo internazionale e dimostrare la profonda coerenza di una comunità politica come quella padana, nata realmente per
consenso. Inoltre va tenuto conto che l’effetto di trascinamento della Padania sulle eventuali énclaves di
Roma che non volessero aderire alla confederazione,
sarebbe (soprattutto per motivi economici), dirompente.
- propaganda per la libertà di scelta di utilizzazione
di una qualsiasi delle monete europee.
Questa azione va affiancata all’obiezione monetaria
(vedi di seguito), e deve comprendere anche il rifiuto
della moneta unica europea, strumento di un nuovo
maxi-Stato nel quale si riproduce il monopolio della
produzione monetaria, che finisce per legare i cittadini ad un potere politico ancora più lontano e incontrollabile. I cittadini devono invece poter scegliere la
moneta che rende il maggior numero di servizi.
b. Rifiuto sistematico, a fronte di qualsiasi problema, di far ricorso ai poteri pubblici per vederne la
soluzione.
La soluzione delle questioni tradizionalmente ritenute
“pubbliche”, va ricercata quanto più possibile mediante l’auto-organizzazione e l’autogestione, facendo il
più possibile ricorso a fondi privati.
Solo in questo modo è possibile dimostrare l’inutilità
delle istituzioni “pubbliche” e il carattere di “rapina”,
senza alcuna contropartita, del prelievo fiscale.
c. “Obiezione monetaria” per favorire la “doppia
moneta”.
Il processo di “denazionalizzazione della moneta” si
rivela indispensabile per ottenere la “doppia moneta”
e per slegare i cittadini padani dalle gravi conseguenze in termini economici provocati dal monopolio della produzione monetaria detenuto dallo Stato nazionale, dagli effetti distruttivi dell’inflazione (che ha cause principalmente politiche), da tutti quei fenomeni
di “pervertimento” della moneta che gravano pesantemente sull’economia della Padania.
L’ “obiezione monetaria” corrisponde di fatto ad una
vera e propria “obiezione di cittadinanza” (individuale e di gruppo). Si tratta pertanto di una misura di
grande portata, decisiva nei suoi effetti dirompenti,
ma che va studiata in modo approfondito, sia per i
suoi risvolti economici, sia per individuare le strategie adottabili, che comportino una efficacia minima
nella perseguibilità da parte dei detentori del potere
politico e delle forze di repressione ad essi soggette.
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Quaderni Padani - 51
Intervista a Gianfranco Miglio
a cura di Alessandro Storti
P
rofessor Miglio, Lei ha introdotto il termine “Padania” nel dibattito politico già molti anni
fa. Questo nome ha avuto peraltro una certa fortuna soprattutto in pubblicazioni di storici stranieri e di nostri economisti di inizio secolo. Ma
anche in tempi più recenti è stato utilizzato da
studiosi come Camporesi e da ricercatori come
quelli della Fondazione Agnelli; e ancora prima,
il compianto “bardo” padano Gianni Brera, nelle sue “Storie”, parlò proprio di Padania.
Tuttavia, da quando il maggior movimento indipendentista, e al contempo federalista, ha proclamato la nascita delle istituzioni padane e la
Dichiarazione d’Indipendenza, la generalità dei
mezzi d’informazione e dei politici nazionalisti
hanno cominciato una lenta opera di demolizione del concetto; dopo le virgolette, si è passati al
“cosiddetta Padania”, e poi alle esplicite affermazioni che tendono a negare l’esistenza della
Padania stessa. Secondo Lei la Padania è finzione o realtà?
Miglio - Una delle cose che mi irritano di più è
la polemica che fa una certa “cultura” (cultura è
già un’espressione elogiativa non meritata) contro la nozione di “Padania”. Ora, che ci sia stata
una evoluzione storica nella Valle del Po abbastanza omogenea in certi momenti storici è un
dato certo. Basti pensare per esempio alle Repubbliche urbane medioevali che sono padane: gli
storici tedeschi usano da sempre infatti il termine “padanische”. Se si trova un altro nome per
indicare la valle del Po si può essere d’accordo;
tuttavia è assurdo negare che nella valle del Po ci
siano popolazioni, indubbiamente dotate di loro
particolarità, ma al contempo piuttosto omogenee, e che esse abbiano avuto una vicenda istituzionale in certi periodi molto simile, come accade in quelle fasi storiche in cui è spontanea, e
non determinata da conquiste esterne che impongono divisioni fittizie.
Ed è strano che non si riconosca questo; così
come naturalmente non si può non riconoscere
che c’è oggi un’unità geopolitica della Padania,
cioè geografica e socio-economica. Basta percorrere da Occidente a Oriente o viceversa la Valle
50
52 - Quaderni Padani
Padana, per vedere come ci sia una continuità di
nuclei urbani, tanto da far pensare, a un certo
punto, a una grande “metropoli lineare”, per usare il concetto definito negli anni ’70 da una scuola
di studiosi di insediamenti.
T
utti i progetti federalisti dell’ ‘800 e del ‘900
(fino a quello di Assago della Lega Nord) prevedevano la presenza, fra gli Stati membri della
Federazione Italiana, del “Cantone padano”. Si
è sempre dato per scontato, cioè, il fatto che la
Padania non dovesse essere smembrata con divisioni amministrative forzate. È evidente quindi che qualsiasi disegno federalista non potrebbe prescindere da questo dato di fatto. Ma se non
si arriva ad un assetto autenticamente federale
a livello nazionale (Federazione Italiana), quale
possibilità resta alla Padania per conquistare il
completo autogoverno, che è un elemento essenziale del federalismo?
Miglio - Noi del gruppo dei cattolici federalisti
del Cisalpino, durante e dopo il secondo conflitto mondiale, non abbiamo mai avuto dubbi sull’unità del cantone settentrionale, perché è un
dato storico, socioeconomico e politico.
Venendo alla questione dell’autogoverno l’alternativa è: o il distacco e la creazione di uno
Stato autonomo, oppure l’inserimento della Padania in un contesto federale. Nell’ambito dei
progetti federalisti attuali c’è stata una tendenza
a dire che, almeno in una fase iniziale, bisognerà
dare una struttura bipolare (Nordovest e Nordest), e questo però soprattutto perché i veneti
hanno il terrore di andare a stare sotto Milano.
Ma qui bisogna superare il concetto di capitale, e
con l’idea di una “capitale reticolare” questo problema dovrebbe essere superato. Per quanto riguarda l’ipotesi di completamento del progetto
di secessione, bisogna che la Padania mantenga
relazioni con tutti i vicini, non solo quelli che la
contornano geograficamente, ma anche con entità più lontane; perché oggi l’idea dello Statonazione chiuso, come è stato teorizzato alla metà
del secolo scorso da Fichte, lo Stato commerciale chiuso, autarchico, non sta più in piedi.
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
L
e autorità autoproclamate della Padania
hanno dichiarato di volersi appellare al principio di autodeterminazione, sancito dai trattati
internazionali, per raggiungere l’indipendenza.
Tuttavia l’esperibilità di queste procedure giuridiche si è rivelata difficoltosa e non certa. Le esperienze dell’Est europeo, dove si sono verificate
numerose secessioni nei pochi anni che ci separano dalla caduta del muro di Berlino, hanno
dimostrato che il riconoscimento internazionale dei neonati Stati è avvenuto sulla base di una
situazione di fatto - pur trattandosi di paesi assolutamente privi di omogeneità etnica - dal
momento che si trattava di processi extralegali
ed extracostituzionali.
Secondo lei, dunque, quali prospettive giuridiche esistono perché il Governo della Padania
possa concretamente procedere lungo la strada
del ricorso al principio di autodeterminazione?
Miglio - Vede, non esiste una dottrina a questo
riguardo. Helsinki ha scolpito il principio dell’autodeterminazione, però non ha fornito indicazioni di quali vie giuridiche si debbano seguire. È
una strada tutta da inventare, mentre per quanto riguarda il principio della resistenza, del diritto di insorgere quando la Costituzione non è libera, ci sono delle vie che storicamente si conoscono; anche per la secessione ci sono stati una
quantità di esempi (ultimi quelli della Slovacchia,
e della Slovenia e Croazia, forme da una parte
pacifiche, dall’altra cruente). Ho letto delle osservazioni molto ineressanti, in un recente volume francese, sul referendum, dove si nota che
di questo istituto si è fatto poco uso a livello internazionale, per staccare una parte di un paese
dal resto, mentre dovrebbe trattarsi di un procedimento rientrante nella norma. C’è una storia
poco conosciuta di un principio nel diritto internazionale europeo moderno; inizialmente vigeva la concezione patrimoniale dello Stato, per cui
il principe era proprietario dei territori e li scambiava, insieme con la popolazione che li abitava
contro altri, oppure li affidava in dote a una figlia che si sposava, come farebbe un cittadino
privato che dispone dei suoi beni. Gradualmente
si è affacciato il principio che si dovessero consultare le popolazioni, ma non si è affermato
molto facilmente e dando luogo a strutture e a
forme precise. Ecco perché le vie per arrivare a
rendere normale la secessione sono ardue. Lei,
per esempio, si è mai domandato perché certi
Stati resitono con ogni mezzo al tentativo di una
parte della comunità statuale ad andarsene? Perché gli spagnoli fanno fuoco e fiamme per tenere
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
i baschi, perché i russi hanno fatto quello che
hanno fatto della Cecenia? O i canadesi con il
Québec? Se vogliono andare se ne vadano, dice
qualcuno; generalmente l’attaccamento a mantenere unito un territorio è dovuto al fatto che
questo ha delle ricchezze naturali, economiche,
che interessano allo Stato; ma questo allora è
semmai un motivo in più per andarsene. Se sono
risorse che si trovano soltanto lì, spettano alle
popolazioni che abitano in quella terra; chi lo dice
che devono essere usate dagli altri? È un problema, questo della secessione, che coinvolge capitoli mai chiusi della storia del diritto internazionale, e poi una serie di problematiche che non
sono mai venute a galla, mai venute alla superficie in maniera che se ne possa discutere pacificamente. Anche Buchanan non tocca questi temi;
affronta problemi di natura psicologica, ma non
questi di natura istituzionale, che spiccano perché, mentre da una parte si è moltiplicata la letteratura sulla democrazia, le sue forme e le garanzie di democraticità o meno di una comunità
politica - e c’è una montagna di libri inutili su
questo-, sul distacco, che è sempre stato un grosso problema nella storia della comunità delle
genti europee, non esiste letteratura, non esiste
quanto meno una dottrina abbastanza sviluppata a tale riguardo.
A proposito della secessione padana, qualcuno
ha detto che “devono essere d’accordo tutti gli
italiani, la maggioranza degli italiani”; e perché?
Allora quello che si comincia a capire, e voglio
vedere come si fa a sostenerlo, è che esiste l’idea
di un diritto di tutti quelli che stanno intorno ad
un territorio a trattenerlo all’interno dello Stato. Questo dà un’idea dell’abisso di problemi che
si apre a tal proposito; e sono tutte questioni che,
prima o poi, dovremo affrontare, anche se noi
non avessimo i padani che vogliono secedere.
Perché, quando si dice “l’Europa deve trovare un
suo assetto istituzionale”, ecco che tutti questi
problemi ritornano fuori. Quindi noi proponiamo una serie di tematiche alle quali comunque
dovremo dar risposta.
Analizziamo il punto del referendum e della
delimitazione dello stesso, cioè se andrebbe fatto
fra la sola popolazione che vuole andarsene o con
tutti gli altri. Nell’articolo 132 della Costituzione dello Stato Italiano c’è l’idea della procedura
con cui una regione può dividersi o unirsi ad
un’altra: “si può con legge costituzionale, sentiti
i consigli regionali, disporre la fusione di regioni
esistenti o la creazione di nuove regioni”. La procedura è fatta con referendum che calcola la mag51
Quaderni Padani - 53
gioranza delle popolazioni interessate; poi però
interviene il Parlamento (si parla di legge costituzionale), il che significa che devono essere d’accordo anche tutti gli altri, e questo vuol dire allora che si presuppone una specie di diritto patrimoniale di tutta la comunità su una parte della popolazione e del suo territorio: è una patrimonializzazione che naturalmente, una volta
posta sul tavolo, diventa difficile da sostenere.
Come si fa ad ammettere che dei cittadini abbiano dei diritti sugli altri? Abbiamo modificato profondamente l’istituto del matrimonio e della famiglia e non arriveremo domani a concepire le
comunità come paritarie su un piano giuridico e
dei diritti di scelta? Se avessi tempo, sarei tentato di scrivere un libretto sulla secessione e metterei in campo problemi tali da sollevare un vero
pandemonio, e vorrei vedere poi le reazioni degli
intellettuali. Sarei tentato di farlo perché si sollevano problemi di diritto delle genti, di diritto
internazionale, di diritto comune che mettono
in crisi l’idea di “democrazia” che siamo stati
abituati a conoscere; cioè si scopre che la nostra
“democrazia” è una povera cosa, e non ha ancora
affrontato i veri problemi della convivenza fra
uomini e dei rapporti fra comunità politiche.
L
ei ha parlato della famiglia; già in passato
aveva citato il caso del divorzio come possibile
paradigma per spiegare la secessione, un tema
quasi sempre affrontato retoricamente e senza
lucidità, come dimostra chi, in risposta alle spinte separatiste della Padania, propone di far esporre obbligatoriamente il tricolore con appositi
progetti di legge.
Miglio - Certo, mentre una volta c’era l’idea
che la moglie era un’appendice del marito, oggi
la visione è completamente mutata. Nel diritto
romano il marito poteva tranquillamente ripudiare la donna, per il codice fascista essa dipendeva giuridicamente dall’uomo; erano cose inconcepibili. Oggi diciamo: “Come si è potuti vivere in una situazione in cui uno dei partner che
contribuiva a creare la prole e sostenere la famiglia, la moglie, era considerata come un oggetto?”, e abbiamo considerato un grande guadagno
di civiltà la parificazione dei ruoli e dei diritti dei
coniugi. Però non abbiamo ancora fatto un ragionamento simile sulle comunità politiche.
Q
uale è, a suo parere, il ruolo delle Regioni
nel processo di riacquisizione dei poteri da parte
del territorio?
Miglio - È notorio che le Regioni sono state il
52
54 - Quaderni Padani
tentativo che i Costituenti hanno fatto per affrontare, senza risolverlo, il problema del carattere
composito dello Stato nazionale. Lo sapevano tutti che lo Stato nazionale si era rivelato, proprio
durante la seconda guerra mondiale, un qualcosa di appiccicato, e andava affrontato; così è sorta quella contraddizione tra l’enunciazione del
principio “Italia come Stato unitario”, e però con
larghissime autonomie, con la porta aperta a tutte
le forme di pluralismo: cioè la contraddizione tra
l’ossequio al principio dell’unità e l’ossequio al
principio del pluralismo.
In proposito ho fatto tradurre e pubblicare nella
mia collana “Arcana Imperii” il libro di Patrick
Riley “La volontà generale prima di Rousseau”
sul rapporto fra unitarismo, come idea di unità
di volontà dello Stato, e pluralismo. L’esasperazione dell’unità statuale è nata nel ‘600 e, come
mi diceva il Vescovo Maggiolini, dalla seconda
Scolastica. Sono stati soprattutto i teologhi francesi, i quali erano al servizio della monarchia assoluta, a sviluppare questa idea; hanno riletto ad
esempio alcuni passi del neotestamentario, Lettere di San Paolo, per cui un membro conta solo
se è parte di un “corpo” unitario; era una teoria
che aveva già pericolosamente introdotto Platone, quando aveva detto che, in fondo, lo Stato, la
comunità politica, la polis è come un corpo: ma
aveva detto (e qui sta la differenza) «è come» un
corpo, non «è» un corpo. A tale conclusione arrivano invece nel ‘600.
Dall’idea della somiglianza si era passati alla
realtà, per cui ogni individuo o gruppo sarebbero parte dello Stato come lo sono le braccia e le
gambe rispetto a un corpo; ma questo corpo dov’è? È un’invenzione, perché io quando guardo
una comunità politica vedo i cittadini, vedo le
istituzioni, i titolari di pubbliche funzioni, ma
questo “corpo” non lo vedo. Neanche quando
questo presunto “corpo” combatte è un’unica
entità, ma è invece un coacervo di guerrieri, di
soldati che si battono.
Dunque esiste questo conflitto fra l’unità e la
pluralità, che i Costituenti non hanno mai risolto, limitandosi a porli uno di fronte all’altro. Da
qui deriva poi la conseguenza che non tocca ai
magistrati scegliere quale dei due principi difendere, come fanno adesso. Tocca al potere politico
perché è lo stesso Parlamento che può cambiare
tutta la Costituzione e può risolvere finalmente
quella contraddizione. Con le Regioni si è immaginato di mettere insieme il diavolo e l’acqua
santa; lei sa che le Regioni sono state scelte con
la trasposizione pura e semplice delle circoscriAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
zioni fiscali dell’amministrazione centrale. Peraltro qui si aggiunge il fatto che tale trasferimento
di delimitazioni amministrative fu operato senza interpellare le popolazioni: ritorna così il problema del non utilizzo dei referendum, ed è curioso che adesso qualcuno dica “ah, se volete fare
tre grandi cantoni bisogna che nascano dalla
base”: già, perché forse le regioni sono nate dalla
base?
In qualche caso comunque i limiti territoriali
corrispondevano storicamente, ma molto spesso
no, e quindi si può tranquillamente affermare che
le Regioni sono state fatte senza alcun criterio; è
su queste però che bisognerà puntare, perché la
struttura esistente è quella. I governi regionali
sono nati e cresciuti male, ma ogni discorso autonomista e finanche separatista deve vederli in
prima fila.
Minghetti, che per primo parlò di regioni in
Italia, pensava ad una controclasse politica locale che facesse da dialogo, “check and balance”
meglio ancora, con la classe parlamentare. Minghetti si accorse immediatamente infatti di come
il parlamento stesse rapidamente deformando il
principio di rappresentanza , e allora immaginò
una struttura radicata sul territorio. Lui già conosceva la letteratura al riguardo, il libro di
Gneist, e tutto quello che era stato lo studio dell’introduzione delle libertà locali in Germania.
Gneist aveva studiato il “selfgovernment” inglese, e Minghetti sapeva tutte queste cose, però il
suo progetto è fallito. Quando sono nate, le Regioni sono diventate lo sgabello della carriera
politica nazionale della stessa classe politica, purtoppo. Si cominciava, secondo la vecchia mitologia liberale, come si diceva, ad “imparare l’amministrazione nel Comune, prima come Consigliere comunale, poi Assessore, poi Sindaco”: e
così cominciavano a imparare a rubare; “poi pian
piano si doveva accedere a Provincia, Regione,
fino ad arrivare in Parlamento” dove, diciamo, si
facevano i grandi furti.
I
l ruolo che Lei descrive per le Regioni è stato
il risultato di un disegno centralizzatore che mirava ad eliminare ogni forma di controllo del territorio sul centro; allo Stato regionale di Minghetti si preferì la struttura prefettizia francese.
Un’altra grave conseguenza di questo sistema è
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
stata pertanto l’inesistenza di una concorrenza
istituzionale, con un vuoto di responsabilità dei
rappresentanti eletti ad ogni livello. Insomma, i
cittadini sono stati costretti a tenersi i politici,
senza avere la possibilità di scegliere fra differenti amministrazioni, per esempio in materia
fiscale. Il bilanciamento forzato di tutti i centri
di governo ha portato al sostanziale annullamento delle capacità di amministrare.
Miglio - È così. Le Regioni conterebbero soprattutto come apparato di governo, con quel po’
di burocrazia che hanno e quel po’ di classe politica di quelli che non hanno voluto, e sono pochissimi, o non sono riusciti a fare il salto in Parlamento. Ecco perché io ho immaginato che i
grandi cantoni debbano nascere dalla unione, dal
consorzio delle regioni.
N
el quadro delle azioni possibili da svolgere
da parte degli organi territoriali della Padania
si inserisce di forza il referendum consultivo sulla
forma di Stato che la Lombardia sta per deliberare. Lei è stato il principale ispiratore della svolta referendaria regionale, volta ad instaurare un
conflitto giuridico con il governo centrale. Pensa che la consultazione lombarda possa rappresentare una tappa decisiva sulla strada delle riforme radicali in senso federale e/o indipendentista?
Miglio - La fortuna è che lo Statuto della Regione Lombardia incorpora l’istituto del referendum conoscitivo e su questo punto si accenderà
la mischia con la Corte Costituzionale, perché
questa dirà che le regioni possono fare consultazioni referendarie solo su materie di interesse
locale. Ma la struttura federale è una cosa che ci
interessa direttamente come popolazione lombarda, dunque noi affermiamo il nostro diritto a
esprimere la scelta sulla forma di Stato che preferiamo. Il referendum consultivo sulla forma di
Stato che la Regione Lombardia delibererà in ottobre, sarà un momento fondamentale nel processo verso l’autogoverno della nostra terra. Sul
conflitto giuridico che ne verrà fuori con gli organi dello Stato, si innesterà una campagna per
sensibilizzare i cittadini; se la maggioranza si recherà alle urne noi avremo già ottenuto una grande vittoria e da lì ripartiremo all’attacco dello Stato centralista.
53
Quaderni Padani - 55
Intervista a Ettore A. Albertoni
a cura di Alessandro Storti
P
rofessor Albertoni, da qualche mese i politici dei partiti centralisti hanno iniziato una
preconcetta opera di “demolizione comunicativa” che ha per oggetto la Padania: il sociologo Ilvo Diamanti continua a ripetere, nei suoi
interventi su ilSole24Ore che “la Padania è
un’invenzione di Bossi”; il parlamentare ulivista Furio Colombo ha urlato in aula “La Padania non esiste!”; ultimi in ordine di tempo -ma
primi per gravità dell’atto- i Presidenti di Camera e Senato, Luciano Violante e Nicola Mancino, hanno ufficialmente bandito il termine
“Padania” dai verbali delle sedute, vietandone
la trascrizione.
Tuttavia risulta evidente che tali interventi
sono la dimostrazione di una tremenda paura
da parte dello Stato verso le istanze di libertà e
di identità della nostra terra, una paura malamente dissimulata dai tentativi di minimizzare il fenomeno. Secondo lei la Padania è una
realtà virtuale o storicamente esistente?
Albertoni - Innanzitutto bisogna partire da
una ovvia considerazione storica. I popoli padani e alpini che sono collocati territorialmente nelle attuali Regioni Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Veneto e,
in parte, Marche da secoli costituiscono, pur con
le innegabili diversità esistenti, una comunità
naturale fondata su un condiviso patrimonio di
valori e di cultura. In secondo luogo è certo che
l’analisi economica e sociale più aggiornata ed
attendibile ha da tempo individuato nella mappa delle “regioni economiche d’Europa” una ben
esistente e reale Padania (come si evince infatti
dallo studio della Fondazione Agnelli pubblicato nel 1992 e significativamente intitolato “La
Padania, una regione italiana in Europa”). La
Padania, quindi, esiste eccome!
Va anche ricordato che alcune Regioni del
Centro-Nord sin dalla metà degli anni ’70, come
ha dichiarato pubblicamente e recentemente
Guido Fanti, diedero vita ad iniziative di studio
e di approfondimento proprio di quella precisa
e vivente realtà che è la Padania. È piuttosto
56 - Quaderni Padani
54
singolare che si voglia affrontare oggi il federalismo che è, per una parte considerevole, problema territoriale, negando validità ad una posizione come quella della Lega Nord, che ha il
merito di reintrodurre nel dibattito sulla riforma costituzionale (sia in ambito italiano che
europeo), il tema della Padania; tema che è, stranamente, considerato valido ed elogiato solo se
studiato da Fondazioni legate al potere economico o da politici ed amministratori emiliani
appartenenti all’ex partito comunista. Occorre,
perciò, parlare sempre di più di Padania perché
è un modo assai pragmatico, democratico e
coinvolgente di affrontare il presente e il futuro.
I
n tutti i casi di indipendenza acquisita da
noi esaminati, una delle ragioni principali della lotta per l’autogoverno è stata quella della
provenienza territoriale prevalente dei dipendenti pubblici da una sola area dello Stato. Che
significato istituzionale ha questa motivazione centrale e così importante e quali considerazioni si possono fare sul caso padano?
Albertoni - Il problema della burocrazia è cruciale, in particolare nel nostro caso. Nello Stato
Italiano vi sono circa 4/5 milioni di funzionari
pubblici (non si sa bene neppure quanti) e si
parla di oltre 200 mila leggi. Questa pesantissima realtà burocratica e normativa blocca un
processo che parte dal basso, perché alla base
territoriale e sociale non ci sono forze adeguate
per poter avviare processi di cambiamento incisivo: la struttura statale è enorme, pachidermica e fondata sull’esasperazione predatoria del
fiscalismo rapace dello Stato centralista. Ecco
dunque che nasce la necessità urgente di avere
dei nuovi quadri concettuali e operativi di riferimento (e in questo caso la Padania è un quadro di riferimento molto importante) per una
significativa azione. Non possiamo, infatti, pensare a microsoggetti istituzionali e a microentità giuridico-politiche. Nel processo di federalizzazione “per separazione” proposto dalla Lega
Nord vi devono essere delle strutture autosuffiAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
cienti a tutti i livelli (partendo dai comuni, passando attraverso le associazioni di comuni, o
ex-provincie, e le regioni economiche), fino ad
arrivare all’Europa, in una dinamica che deve
comunque partire dal basso, dalla base naturale che sono i popoli con i loro bisogni, interessi
ed ideali. È evidente quindi che il problema delle
burocrazie non territoriali ma reclutate altrove genera enormi scompensi a danno di tutti.
Nel caso italiano il problema non è tanto quello di una semplice dualità fra Nord e Sud, ma
piuttosto quello di una differenziazione fra le
diverse grandi aree che compongono lo Stato
(aree insulari, area padana, area toscana, ecc.,
ciascuna con proprie caratteristiche). L’elemento paradossalmente unificante l’attuale Repubblica centralista, uniformatrice e, tendenzialmente, illiberale ed autoritaria (nel senso dell’autoritarismo poliziesco), è una classe politica che ha ormai un peso sempre più ridotto e
una burocrazia che ne ha uno sempre maggiore. La classe politica conta sempre meno ed è
diventata istericamente e acriticamente “unitaria”; l’appello a Silvio Pellico è dichiarazione
di impotenza. La burocrazia poi ha due strati:
da un lato i “peones”, che provengono prevalentemente dal Sud, dove si è sviluppata come
naturale sbocco lavorativo una classe di funzionari di bassa qualifica, di scarso peso, ma di
grande fedeltà centralista; dall’altro il grande
“generone alto-burocratico romano”, che è il
vero problema della democrazia italiana. Quest’ultimo strato ha un peso specifico enorme a
livello di direzioni generali di ministeri, di alti
comandi, di strutture tecnico-amministrative,
bancarie e, soprattutto, dell’economia diretta
dallo Stato. Esso costituisce l’elemento cementificatore più consistente della nostra fatiscente ed arcaica organizzazione pubblica.
L’attuale squilibrio territoriale si è sempre basato sul vecchio principio “al Nord gli affari, e a
tutto il resto d’Italia, Sud e Roma cioè, la Pubblica Amministrazione”. Così oggi è pacifico che
la Padania si trovi in una condizione di inferiorità, direi senz’altro di tipo coloniale. Certo la
Padania, popoli ed élites, ha le sue responsabilità, poiché ha abdicato completamente alla
guida della Repubblica per anni, pensando che
fosse sufficiente sviluppare la propria vocazione economica, imprenditoriale e commerciale
e che tutto il resto sarebbe automaticamente
seguito. Anche la politica ha comunque una
grandissima colpa, perché non è mai stato affrontato seriamente (diversamente da altri PaAnno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
esi) il tema della cultura della Pubblica Amministrazione che, oggi più che mai, dovrebbe
basarsi sui risultati, l’efficienza e la responsabilità etica nei confronti dei cittadini.
In ogni caso anche il problema del “corpo
burocratico” dello Stato va letto in una nuova
ottica; è necessario ragionare in termini di precisa localizzazione ambientale e territoriale
(guardando alla dimensione padana, sarda, siciliana, ecc.) e di contesto europeo. A identità
precise e consapevoli di popoli, territori ed istituzioni deve corrispondere un funzionariato
adeguato e in sintonia.
N
ella sua risposta ha accennato al “federalismo per separazione”. Già in altri interventi
scientifici e culturali ha avuto modo di sviluppare questo concetto; che cosa intende esattamente con tale espressione? E come si concilia
il suddetto percorso giuridico e politico con il
diritto di secessione e il principio di autodeterminazione?
Albertoni - Per poter capire appieno il significato dell’espressione “federalismo per separazione” è prima indispensabile analizzare storicamente e comparativamente i diversi fenomeni di federalizzazione. In passato il federalismo
è sempre stato una formula di unione; gli esempi al riguardo sono evidenti. Il caso peculiare
dell’epoca moderna è quello delle 13 colonie
dell’America del Nord di lingua inglese che diventano 13 Stati, si confederano tra loro e poi
danno vita ad una federazione (“e pluribus
unum”). Anche la vicenda della Svizzera è significativa, poiché fino al 1848 ebbe un assetto
altamente confederativo, e successivamente
passò ad una pur moderata centralizzazione federalistica dei poteri. Sono esperienze queste
di “federalismo per aggregazione”, cioè formule politico-istituzionali che portano alla sintesi
di quel ricordato principio tipico americano che
dice “e pluribus unum”.
Oggi però i processi di federalizzazione non
sono più improntati al raggiungimento di una
unità e omogeneità sedicente “nazionale”; al
contrario essi si basano sulla tutela e sulla coesistenza delle diversità (“ex uno plures”). Le
radici di questa inversione di tendenza si possono cogliere già nella nascita dello Stato tedesco del secondo dopoguerra. La Germania del
1949 era un paese lacerato per gli eventi della
seconda guerra mondiale e che usciva dalla
esperienza totalitaria e centralista in massimo
grado del nazismo; il nuovo Stato non elaborò
Quaderni Padani - 57
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una costituzione federale ma una legge suprema, il Grundgesetz (peraltro mai accettata dal
Land più grande, la Baviera), che incominciò a
separare tra loro delle entità istituzionali reali
che erano state concentrate coattivamente nella struttura monolitica e statuale del nazionalsocialismo: la logica dei Länder si contrappose
palesemente al principio nazional-centralista:
“un Popolo, un Reich, un Führer”. È altrettanto importante il recente caso della federalizzazione belga, frutto di un lavoro progettuale durato oltre 20 anni, che ha prodotto una divisione netta fra le due aree etno-linguistiche, con
l’organizzazione ordinata in cinque livelli di potere istituzionale retto dalla sussidiarietà.
Questi nuovi processi istituzionali dimostrano che, più si procede verso quella che io chiamo la “società plurale”, la “società multipla”,
dove il grado di complessità sociale aumenta,
più i passaggi di separazione, delimitazione e
nuova articolazione territoriale dei poteri di
governo e gestione si fanno complessi, difficili
e non schematizzabili “a priori”. D’altronde
l’elemento determinante nella destrutturazione degli Stati nazionali è stata ed è l’Europa.
L’unione continentale rappresenta un momento di profonda svolta nella concezione giuridica e politica dei rapporti fra individui e comunità. Infatti appare ormai chiaro che l’Europa
sta nascendo come aggregazione non di realtà
statuali classiche, ma di entità in cui, su una
storia comune, una geografia e una economia
accomunanti, uno scambio culturale e sociale
continuo, si inseriscono dei processi di alto sviluppo socio-economico e di nuove integrazioni, tali da generare, come già avviene, la nascita di veri e propri soggetti istituzionali (come
la Padania, la Catalogna, la regione Rhones-Alpes, il Baden-Wurttemberg e altre).
In questo quadro dunque si può più che legittimamente parlare di “federalismo per separazione”, e cioè di un percorso che afferma come
prioritaria e preliminare per la costruzione federale l’autonomia e l’identità delle comunità
che dovranno successivamente federarsi in una
prospettiva che, però, non è più quella dello
Stato-nazione ma dell’Europa-continente. Si
tratta di una strada che ha al tempo stesso un
notevole valore di innovazione nei processi riaggregativi in ambito italiano ed europeo, e che si
basa sul principio internazionalmente riconosciuto dell’autodeterminazione dei popoli. La
fase che stiamo vivendo presenta quindi caratteristiche di novità assolute rispetto al passato,
56
58 - Quaderni Padani
soprattutto per i fenomeni di mutamento che
sono velocissimi e in corso nelle strutture economiche e sociali. Abbiamo la stupefacente possibilità di assistere ad una globalizzazione dei
rapporti umani che procede su due gradi: da un
lato la ricordata integrazione fra territori, al di
là delle frontiere statuali classiche, fondata sullo scambio e sui rapporti culturali e commerciali; dall’altro l’impoverimento del concetto
portante degli Stati nazionali, cioè la caduta
della sovranità. Se combiniamo assieme questi
due fattori di libertà e di identità otteniamo
appunto come risultato politico-istituzionale
quello che io chiamo “federalismo per separazione”. Esso comporta anzitutto una scomposizione degli Stati nazionali tradizionali e contemporaneamente una riaggregazione regionale
a livello europeo e, auspicabilmente, in futuro,
mondiale. Questo processo, a mio parere, coinvolge pienamente la Padania, che ora deve solo
assumere coscienza del suo ruolo e della sua
forza.
L
o scenario che ha disegnato si basa, come
detto, sul declino dello Stato nazionale così
come lo abbiamo conosciuto. Ma con la fine
degli Stati di ispirazione filosofica giacobina
vengono messi in discussione soprattutto i concetti di sovranità e di nazione, fulcro dell’ideologia nazionalista che ha causato circa 100
milioni di morti nelle grandi guerre europee e
mondiali. Come vede il passaggio al mondo
nuovo?
Albertoni - Lo Stato, così come si è formato e
si è sviluppato dal ’500 in poi, ha avuto come
suo connotato essenziale la sovranità, sempre
più invadente e ramificata del potere pubblico.
I dati propri della sovranità sono la legislazione
uniformante e centralizzante, la forza armata,
la moneta, il mercato diretto e chiuso, la burocrazia. Le sovranità nazionali, dopo la seconda
guerra mondiale, si sono ridotte notevolmente, perché con il Patto Atlantico (1949) è stata
limitata completamente la sovranità dal punto
di vista militare; lo sviluppo delle istituzioni
comunitarie ha diminuito i poteri dei singoli
governi, così come ha fatto la creazione di un
mercato prima comune e poi unico. Il colpo finale verrà tra breve dalla moneta europea. Perciò quando Umberto Bossi parla di doppia legalità dice una cosa vera, perché se è innegabile
l’esistenza della legalità dello Stato italiano, è
altrettanto certo che i processi di aggregazione
europea sono tali per cui le dinamiche sociali,
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economiche e culturali portano a cercare altre
e ben diverse dimensioni istituzionali. La Padania è, quindi, molto più di un’ipotesi politica, è una via di salvezza al disastro italico.
Tengo molto a sottolineare questo aspetto
spontaneistico e volontaristico perché, secondo me, la visione puramente normativa di un
secessionismo, ma anche di un “federalismo per
separazione”, che si cerca in ogni modo di giustificare con le leggi non è sempre applicabile.
Può avere un senso in casi come quello della ex
Cecoslovacchia o, forse in futuro, del Belgio,
dove si hanno situazioni fortemente duali; in
società invece come la nostra, di tipo molto articolato e complesso, i procedimenti di separazione seguono vie che prescindono dal già conosciuto. Occorre perciò che si individuino
mezzi e procedure efficaci e democratici al riguardo anche per il rapporto Padania/Europa.
Venendo alla “nazione”, bisogna dire che si
tratta di un concetto in termini giuridico-politici fortemente datato, elaborato a partire dalla
Rivoluzione Francese e sviluppatosi soprattutto nell’ottocento. Si tratta di una autentica invenzione, di una ideologia molto coinvolgente
ed emotiva per tenere insieme le parti e gli interessi spesso eterogenei dello Stato. Questo è
un elemento importantissimo, perché la crisi
seguita alla esasperazione nazionalista sia del
nazifascismo che del comunismo sovietico porta
oggi a fare considerazioni ben precise; assistiamo infatti al declino di quelle strutture (gli Stati), che avrebbero dovuto contenere le nazioni,
e che invece non sono più in grado di rispondere alla nuova dialettica economica, sociale e
culturale che investe ormai le nazioni stesse.
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
Basta guardare alla realtà italica: circa 5 milioni di imprese economiche, che corrispondono ad un rapporto di 1 impresa ogni 10/11 abitanti, formano un tessuto sociale impossibile
da controllare da parte di uno Stato nazionale
centralista ed omologante classicamente inteso, e da noi purtroppo ancora dominante. Le
imprese economiche in un mercato chiuso vivono e muoiono d’autarchia, mentre in un mercato europeo unico e aperto, con rapporti globali con il resto del pianeta, hanno una possibilità di moltiplicazione e insediamento che prescinde completamente dalla logica delle frontiere. È questa l’autentica ed inedita frontiera
delle “regioni economiche” che non corrisponde ormai più a quello degli Stati nazionali. In
questo senso io vedo una federalizzazione che è
lontana dal provincialismo italico e che è invece prima di tutto europea. In questo ambito gli
Stati devono chiudere la loro esperienza di tipo
nazionale (e quindi tendenzialmente sempre
centralistica), e devono ricomporsi in un processo che vede come protagoniste nuove entità
e nuove aggregazioni. Le regioni economiche
sono e sempre più saranno i soggetti attivi della nuova frontiera del federalismo interno ed
europeo, poiché esse seguono l’indicazione naturale dell’economia e dello sviluppo, di una
nuova ed inedita cultura civile, di un’etica individuale e comunitaria assai profonda. Certamente si tratta di un processo piuttosto complesso dal punto di vista giuridico, perché parte
dal basso ed è attraversato da una forte dinamica revisionistica delle strutture esistenti. Ma è
il solo processo vitale perché l’Europa effettivamente viva e noi con lei.
Quaderni Padani - 59
57
Il nome vero dei nostri paesi
Dopo avere creato tutte le cose, il Buon Dio
cominciò a dare loro dei nomi e disse loro:
“Siete vive perché avete un nome. Il vostro
nome è la vostra anima. Non fatevi togliere
il nome perché sareste morte. Non fatevi
cambiare il nome perché sareste schiave di
chi ve lo ha cambiato”.
(Da un racconto ossolano)
Prosegue su questo numero il lavoro sistematico di divulgazione dei nomi in lingua
locale dei comuni e delle località padane. Si tratta di elencazioni inevitabilmente
incomplete: preghiamo chiunque possa farlo di darci informazioni su eventuali imprecisioni e di farci avere indicazioni su nomi mancanti.
Le grafìe indicate sono quelle normalmente impiegate nelle varie lingue locali.
La Grafia del Ligure
a, e, i
o
u
x
z
ö
ä, ë, ï
ç
eu
ô
òu
â,ê,î,û
sc-c
nnæ
j
come in italiano
u italiana ma, se accentata, come o italiana
u francese ma, se accentata, come u italiana
come j francese
come s sonora (es. it. “rosa”)
oo oppure ou
aa, ee, ii
come la s dell’it. “sera”
come in francese (ö tedesca)
come u accentata in fine di parola e con suono strascicato
come in it. in fine di parola
in finale di parola indicano un rafforzamento del tono della vocale
e un suo prolungamento, strascicandola
come sc dell’it. uscio, seguita da c di ciao
precede la vocale in finale di parola, che va letta distaccata
e aperta e lunga
come i consonantica
N.B. tutti i digrammi (eu, æ) sono sciolti da accenti gravi e acuti
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Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
Toponomastica dell’area linguistica ligure
a cura di Flavio Grisolia e Carlo Stagnaro
La provincia di Savona
Nome italiano
Nome ligure
Nome italiano
Nome ligure
Alassio
Albenga
Albissola Marina
Albissola Superiore
Altare
Andora
Arnasco
Bellestrino
Bardineto
Bergeggi
Boissano
Borghetto Santo Spirito
Borgio Verezzi
Bormida
Cairo Montenotte
Calice Ligure
Calizzano
Carcare
Casanova Lerrone
Castel Bianco
Catelvecchio
di Rocca Barbena
Celle
Cengio
Ceriale
Cisano sul Neva
Cosseria
Dego
Erli
Finale Ligure
Garlenda
Giustenice
Giusvalla
Laigueglia
Loano
Arasce
Arbenga
A Moenn-a d’Arbisseua
D’äto d’Arbisseua
Latê
Andeua
Arnasco
Barestin
Bardënei
Berzezzi
Boinzan
O Borgheto
Bòrzi e Veresso
Bormia
Cairi
Carxi Ligure
Carizan
Carcre
Casaneuva
Castregianco
Magliolo
Mallare
Massimino
Millesimo
Mioglia
Murialdo
Nasino
Noli
Onzo
Orco Feglino
Ortovero
Osiglia
Pallare
Piana Crixia
Pietra Ligure
Plodio
Pontinvrea
Quiliano
Rialto
Sassello
Roccavignale
Savona
Spotorno
Stella
Stellanello
Testico
Toirano
Tovo San Giacomo
Urbe
Vado Ligure
Varazze
Vendone
Vezzi Portio
Villanova d’Albenga
Zuccarello
Majeu
Malëre
Mascimin
Mërexo
Mieuja
Moriaodo
Naxin
Nöi
Onso
Orco e Fegin
Ortoê
Oseria
Palëre
A Ciana
A Prïa
Ciòi
O Ponte
Cuggiæn
Riaoto
Ei Sascê
Ròcavignâ
Sann-a
Spotorno
A Steja
Stananelo
Testego
Tojan
O Tô
L’Orba
Voæ
Väze
Vendon
Vessi
Vilaneuva
Sucarê
Castreveglio
Çelle
Cengë
O Çejâ
Cixan
Cosceria
O Dê
Erli
O Finâ
Garlenda
Giustexine
Giusvala
L’Aigheuja
Leua
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Biblioteca
Padana
Flavio Grisolia
Il popolo Ligure tra etnia e nazione
Padova: Editoriale Clessidra,
1995
Pagg. 103. Lire 12.000
Per la prima volta il tema del
popolo Ligure viene trattato
nella sua globalità, sia pure in
forma sintetica e succinta, da
un libro che si può porre come
l’inizio di una serie di studi e
pubblicazioni su argomenti finora poco trattati o affrontati
disorganicamente.
In particolare l’autore si sofferma ad accennare alla storia e
alle origini dell’antico glorioso popolo dei Liguri che tanta
parte ha avuto nella formazio-
60
62 - Quaderni Padani
ne della Comunità padana.
Non esistono studi sistematici
sugli antichi Liguri e quello
che si sa è il risultato delle descrizioni (quasi sempre parziali
o faziose) degli scrittori contemporanei greci o latini, di indagini archeologiche e di supposizioni indiziarie.
La sovrapposizione dei Liguri
alle preesistenti popolazioni
Garalditane ha fatto spesso sorgere confusione fra i due popoli (che sicuramente si erano
intimamente fusi) fino a fare
dubitare delle origini indoeuropee dei primi. Anche nei rapporti con i Celti (e soprattutto
con i Protocelti) la confusione
è grande; spesso erano gli stessi
storici a confondere i Liguri
con quei popoli e di certo non
ci sono tracce documentarie di
scontri ma solo di una convivenza sicuramente basata su
caratteri di grande comunanza e similitudine.
Dove mancano tracce documentarie “normali” sopperiscono i più recenti studi sui residui genetici che ci parlano
della sopravvivenza degli antichi Liguri, della loro primaria
influenza nella formazione delle attuali popolazioni padane:
alla loro espansione l’autore
giustamente fa cenno.
Interessanti ed importanti considerazioni vengono dedicate
alla lingua ligure, alla formazione sociale di quel popolo (e
in particolare al fondamentale
ruolo giocato dalla struttura familiare degli antichi feughi),
all’architettura popolare e alla
cultura di gestione del suolo
che ha creato il moderno paesaggio ligure.
Riferimenti non potevano non
essere fatti alla vocazione commerciale di quel popolo e al
ruolo che questa ha giocato
nella storia della Repubblica di
Genova, una delle maggiori
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
Biblioteca
Padana
Componente ligure nei caratteri genetici della Padania
potenze (non solo) commerciali che hanno dominato vaste
parti del Mediterraneo (e non
solo) per quasi mille anni.
Purtroppo sono solo appena accennati alcuni importanti episodi storici come le insorgenze dei “Viva Maria” contro giacobini e bonapartisti, l’occupazione del 1 gennaio 1815 quando tristemente cessava di esi-
stere la gloriosa Repubblica, la
sollevazione indipendentista
del 1849, il bombardamento
della città e il suo saccheggio
da parte delle truppe del Lamarmora coadiuvate dal mare
dalla flotta inglese: un episodio
quest’ultimo che ha visto centinaia di genovesi uccisi e che,
con la sollevazione di Torino
del 1864, fa parte di quella “sto-
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
ria negata” delle lotte dei popoli padani per la loro autonomia e delle vergognose violenze che hanno accompagnato
l’unità d’Italia.
Alla Liguria non è neppure mai
stata concessa una farsa di plebiscito.
L’autore si dilunga poi in considerazioni sulla condizione attuale e sulle prospettive di autonomia del popolo ligure.
Si tratta di argomenti che necessitano di un ulteriore approfondimento all’interno di quel
processo di revisionismo storico che deve fare riscrivere la
storia dei popoli padani di cui
quello Ligure costituisce una
delle componenti più importanti. È uno dei popoli più antichi che abita queste terre da
sempre e la cui eredità genetica praticamente ogni padano
porta dentro di sè, nel proprio
sangue.
Ottone Gerboli
Quaderni Padani - 63
61
Musica
Padana
Negli ultimi anni la musica
etnica, a livello discografico,
non ha proposto tante novità.
Abbiamo però individuato alcuni lavori veramente interessanti, che potranno accontentare, da una parte i palati più
fini, dall’altra l’esigenza di sentire cose nuove, legate però alla
tradizione e all’humus
socio-culturale proprio della Padania.
estinguere nel tempo lingue e
tradizioni dell’antica cultura
sviluppatasi fra le montagne
occidentali della Padania. Bella e significativa anche l’immagine di copertina, che ritrae
“bambini delle valli alpine di
Cuneo in Provenza che tengono al guinzaglio la marmotta
catturata sui loro monti.”
Li Troubaires sono un gruppo formato da otto elementi i
quali, alla strumentazione tipica classica (violino, violoncello, flauti), affiancano strumenti
L
a prima raccolta
di canzoni, “A toun
soléi” de “Li Troubaires de Coumboscuro”
(Polygram Italia S.r.l.
- 1995 - L. 21.900),
contiene i suoni tradizionali tipici delle valli in Provincia di Cuneo, arrangiati in maniera suggestiva dal
gruppo stesso.
Si assiste oggi al rilancio della cultura di
area provenzale per
mezzo della musica etnica, attraverso la quale un vasto pubblico
può riavvicinarsi a una
lingua che i fermenti
autonomistici degli ultimi anni investono di una
nuova dignità culturale.
“Nell’arco alpino occidentale la lingua e la cultura provenzale e franco-provenzale, rischiano di scomparire dimenticate. Li Troubaires suonano
perché queste lingue e queste
culture non muoiano”.
Così recita la copertina del
CD, a sottolineare come i testi
dei brani, tutti in lingua, abbiano appunto lo scopo di non fare
62
64 - Quaderni Padani
nanza delle stagioni): è una vita
fatta di lavoro, di amarezze ma
anche di gioie, soddisfazioni e
speranze.
Alla registrazione del CD
hanno partecipato artisti del
calibro di Fabrizio De Andrè,
Franco Mussida, I Tazenda e
Alan Stivell, con la sua ormai
leggendaria arpa celtica.
Tra i dodici brani che compongono la raccolta evidenziamo Mis amour, una ballata di
delicata musicalità, interpretata da Fabrizio De Andrè e Dori
Ghezzi, che riprende
un tema di carattere
arcaico del XIV secolo
e Pastret di uei risents, un motivo dal testo
bucolico, in cui emerge lo struggente desiderio di legare a sè la
persona amata; in questo brano, la musica
popolare celtica, saltellante e compatta, lascia ogni tanto voce a
vivaci virtuosismi di violino.
L
della tradizione popolare (fisarmonica, chitarra) e strumenti
contemporanei (chitarra elettrica, basso elettrico, batteria)
ottenendo una sonorità originale, in una sorta di fusione tra
la musica tradizional-popolare
(con richiami celtico-provenzali) e i ritmi più attuali.
I temi che alimentano le canzoni dell’album sono le vicissitudini della vita quotidiana
(natura, amore, morte, alter-
a seconda raccolta che Vi proponiamo
è un vero esempio di
musica popolareggiante.
“El contacantastorie nomer dù” è il titolo della musicassetta contenente dodici
brani composti, arrangiati, eseguiti ed interpretati da Iris
Mario Perin, un cultore della
“lingua” bresciana che da tempo si dedica allo studio e alla
rivalutazione delle tradizioni
della sua terra.
Le canzoni proposte sono
estremamente motivate e alternano un sottile filo ironico-sarcastico a momenti di chiara e
palese delicatezza o ad altri di
malinconica nostalgia.
Anno II, N. 7 - Settembre-Ottobre 1996
Da segnalare El scarpulì pelandrù, tipica e simpatica ballata sull’alternarsi dei giorni
della settimana nel corso dei
quali il calzolaio lazzarone trova sempre una scusa per rimandare il lavoro e Serenada
a Luisa, una delicata canzone
che parla d’amore in maniera
semplice ma efficace..
Si tratta di atmosfere di vita
quotidiana della Padania, che
propongono sentimenti e valori di un tempo andato che è
più che mai attuale e sicuramente proponibile come modello per la salvaguardia di una
tradizione che vuol resistere
alla globalizzazione dello stile
di vita. Le musiche e gli arrangiamenti richiamano le sonorità della melodia etnico-popolare padana, il cui strumentobase è la fisarmonica. E proprio con la fisarmonica il Perin gioca, raccontandoci le sue
storie e proponendoci le sue atmosfere.
I
nfine, e non perché sia
meno degna di nota, segnaliamo “La famiglia Guerini”
(1995), raccolta di canti di tradizione familiare. I canti sono
stati “traghettati” a noi dall’im-
pegno dei Guerini di Ponte Zanano, da sempre pronti a difendere la conservazione di un patrimonio culturale che rischia
di essere depauperato dalla spersonalizzazione delle valli a favore dei nuovi modelli di costume sociale.
La Val Trompia è, infatti, preda di una forte industrializzazione e di una relativa massiccia immigrazione
che favoriscono il
disagio e, per contro, il bisogno di
arrestare questo
processo inesorabile che soprattutto negli ultimi
decenni ha aggredito il semplice
modo di vivere
contadino.
Pasqua e Tilio
Guerrini, con i
loro amici, ci ripropongono alcuni dei più noti
canti popolari
della Padania in
versione integrale. Tra questi i famosissimi “Mamma mia voi maritarmi” e “Mariet-
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Musica
Padana
ta Mariettina”, che appartengono alla Storia della musica
etnica padana.
Nando Uggeri
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