N°ventiquattro - New York, New York

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N°ventiquattro - New York, New York
Manhatthan Rapsody
Traffico internazionale, unico da tutte le parti, ritardo, delay e poi di corsa sempre. Fast food e polpette
ucraine, da solo come tanti, tutti per uno tutti di corsa. Fast food made in Pakistan come il punching
ball. Buongiorno e arrivederci, italian bread al micronde, la sirena dei pompieri.
Quarta quinta sesta strada e poi le avenue e i pedoni e poi la puzza, la doccia, il loft.
Il silenzio della stanza, le finestre sulla strada e poi silenzio, mai lo stesso e il letto sfatto.
La fila per il telefono e quella per le ali di pollo, quanto tempo quanto tempo.
E qui da solo, come tutti, come quell'attimo al di là del vetro.
Un'altra sirena e ancora un'altra e odore di cibo coreano.
All'angolo sfila l'esercito della salvezza, magliette e televisori.
Tutti insieme.
Tutti soli.
Tutti qui, nella Manhattan Rapsody.
/Alessandro Corazzi/
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LE STRABILIANTI E PROLISSE AVVENTURE DEL BACHECO
Bacheco, bacheco!
La fama dei supereroi si spande spesso a macchia d'olio nei luoghi dove essi compiono le loro imprese,
ma il nostro Bacheco era in procinto di cimentarsi in una nuova eccitante prova che lo avrebbe reso
noto addirittura oltre oceano.
Era sua intenzione infatti partire alla volta di New York!
Così notevolmente entusiasta per la prossima partenza egli si accingeva ad organizzare l'avventura.
Purtroppo però il nostro beniamino non poteva prevedere che la prima impresa che lo aspettava era
proprio la preparazione del viaggio stesso.
Come dice il proverbio infatti è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un Bacheco
entri nel regno degli yankee.
Per prima cosa Don Backy decise di cercare il biglietto aereo, ma non potendo stabilire ancora con
certezza le date del viaggio diede solo un' occhiata a titolo informativo e così scoprì che il viaggio
sarebbe costato almeno 300 euro. La cosa lo meravigliò perché si aspettava molto peggio (era pur vero
che doveva viaggiare con una compagnia di cui non aveva mai sentito il nome e avrebbe fatto un veloce
scalo di più di otto ore a Madrid). Per quel giorno il Bacheco si sentì appagato così. In fondo aveva già
fatto la fatica di connettersi a internet.
La settimana seguente il supereroe si decise a farsi rilasciare il passaporto.
Ma ottenere quell'indispensabile documento non fu cosa facile per richiederlo bisognava compilare una
domanda e soprattutto allegare 3 fototessera; una marca da bollo da 41,42 euro, e versare 48 euro sul c/
c postale datogli dalla polizia. Per quel giorno il Bacheco si sentì appagato così. In fondo aveva già fatto
la fatica di andare in questura.
Il dì successivo si svegliò di buon ora (le dieci) per andare alle poste. Arrivò e prese il numeretto C64 il
display segnava C39 solo due sportelli erano aperti il Bacheco pensò C vostra!
Ad un tratto un lampo di genio scosse l'annoiato supereroe: poteva usare quel tempo per andare a
comprare la marca da bollo.
Si recò dunque dal tabacchi di fronte alle poste che fu però spiacente di comunicargli che non
possedeva tale marca da bollo, fu così costretto a girare l'angolo e recarsi ad un altro Tabacchi.
Fatalmente il nostro eroe non si ricordò che il tabacchino era suo conoscente ed era un tale che egli
soprannominava “il mago dei convenevoli” per il suo talento nell'intavolare discussioni incentrate sul
più e sul meno, il futuro supereroe dei due mondi fu perciò costretto a spiegargli in (non molto) rapida
successione motivo dell'acquisto della marca da bollo , motivo richiesta passaporto ed infine motivo del
viaggio a New York, dopo un succulento aneddoto del tabacchino su di un suo viaggio negli States il
bacheco fu finalmente libero di tornarsene alle poste, dove l'infame display segnava C67 e Backy pensò
C sua. Nonostante tutto per quel giorno il Bacheco si sentì appagato così. In fondo aveva già fatto la
fatica di comprare una marca da bollo( e si era anche accollato una fila inutile)
Il dì successivo al nostro supereroe giravano le palle e non andò alle poste, il giorno dopo ancora aveva
un impegno, poi arrivò il fine settimana e così Don Backy si ripresentò alle poste dove dopo 113 minuti
di attesa (gli balenò anche quel giorno l'idea di avvantaggiarsi andando a fare le fototessera, ma
desistette per non correre il rischio di fare brutti incontri). Dopo le poste ebbe anche il tempo di fare le
foto inutile dire che si sentì appagato così.
Il giorno dopo si dimenticò di andare dalla polizia. Si ricordò però il mattino successivo e inesorabile
andò dai tutori dell'ordine e finalmente inoltrò la richiesta. Fu informato da un agente che avrebbe
potuto ritirare il passaporto venti giorni dopo. Si ripresentò dopo più di un mese (non è mai stato
costume del Bacheco mettere fretta alle persone men che meno ad un pubblico ufficiale).
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Nel frattempo mentre attendeva di ritirare il passaporto stabilì finalmente le date del viaggio e ricercò
nuovamente I biglietti aerei rimase sgomento nel constatare che il biglietto era arrivato a 440 euro
inoltre il prezzo aumentava ogni volta che il nostro povero acquirente cliccava ok sullo schermo ed alla
fine tra un cazzo ed un altro pagò 483 euro. Non fu molto appagato, forse lo furono di più quelli della
compagnia aerea.
In un modo o nell'altro il nostro eroe aveva in mano biglietti, passaporto e un posto dove dormire
nella grande mela, ma Bacheco non aveva fatto i conti con i maledetti yankee.
I tracotanti statunitensi richiedevano per autorizzare l'ingresso nel loro paradossale insieme di stati un
inutile documento chiamato dichiarazione ESTA. “ e mò 'ndò ESTA stà dichiarazione?” penso il
nostro povero amico, ma con la tempra che caratterizza i supereroi egli si buttò a capofitto nel per lui
sconosciuto mondo di internet, alla fine dopo un giorno di infruttuose ricerche riuscì nel trovare la
fanciullesca dichiarazione (chiaramente in inglese....e non è che Bacheco fosse proprio un
madrelingua.....) dove doveva promettere sul suo onore di non essere un terrorista, non avere esplosivi
e non avere intenzione di causare stragi, Bacheco diede anche la sua parola di lupetto e fu così che
l'appagatissimo supereroe dopo mille peripezie era pronto a sbarcare a NEW YORK!
/Lorenzo Galieni/
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STARBUCKS
È da stamattina alle 08.00 che me ne sto qui dentro lo Starbucks accanto all’Empire State Building sulla
Fifth Avenue. L’aria fuori è fresca e ancora non c’è il caldo afoso che renderà questa città
insopportabile nelle settimane estive.
Appena si entra in questo locale la prima cosa che ti colpisce è l’odore del caffè tostato ed è veramente
atipico per gli States. Qui a New York in genere l’odore che più ti prende è quello dell’olio fritto di Mc
Donald nelle ore notturne oppure di cipolla nella zona Coreana e Cinese o peggio ancora quella del
traffico (sempre intenso). C’è ovviamente quello degli hot dogs e quello raffinato e profumato dei
negozi lussuosi della 5Th Avenue.
Ma torniamo allo Starbucks. Oltre al profumo di caffè, che mi ha catapultato al Bar romano dove vado
a fare in genere colazione, vengo rapito dai colori pastello del locale (il colore primario è il verde), dai
sorrisi delle persone che vi lavorano e dall’efficienza con la quale prendono le ordinazioni e vieni
servito.
Si entra piano piano a far parte di un micro sistema dove convive lo
studente che con il suo Ipod studia tomi e tomi di libri, il manager con
il suo Pc portatile e micro stampante e l’indiano con il turbante in testa
che si confronta con un suo compaesano. In questo micro sistema
puoi trovare turisti che studiano le mappe complicate del metrò,
giovani padri con i bimbi a tracolla sul marsupio che si riposano senza
fare assolutamente nulla.
Entrato in simbiosi con l’ambiente che mi circonda, mi siedo al tavolo
vicino alla vetrata che da sulla strada, cullato dalla musica di John
Coltrane mi leggo il mio giornale, mi gusto il mio caffè con molta
lentezza e osservo, come un pesce in un acquario il mondo esterno,
non sentendo affatto la mancanza della mia povera patria!
/Alessandro Ibba/
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Green Line
(Un racconto da Brooklyn)
Di solito il cous cous mi piace.
Però svegliarsi alle cinque di mattina con il soffritto di cipolla, cumino e coriandolo dritto nel naso non
è il massimo. Said ha il turno di mattina e si sta preparando il pranzo. Io pure lavoro questa mattina, ma
a differenza del mio coinquilino ripiegherò su qualcosa di economico da mangiarmi in giro mentre
cammino un po’. Sono arrivata a New York da un mese e a parte Ground Zero, ché lo avevo promesso
a mia nonna di andarlo a vedere e di raccontarle quanto era grosso il buco, non mi sono concessa altro.
La ricerca della casa, prima e del lavoro poi, mi hanno letteralmente rapita.
Il gorgoglio della moka mi distoglie dai pensieri e l’odore del caffè si fonde a quello del cous cous
dando forse la più azzeccata definizione olfattiva del temine meltin pot.
- Giao Martina see you later.
Mi dice Said sforzandosi di parlare qualche parola in italiano e chiudendosi la porta di casa alle spalle,
col suo pacchetto all’aroma d’Africa sotto braccio. Non ha ben chiaro il perché io sia arrivata a New
York. Ieri mi diceva che lui non sarebbe mai andato via dall'Italia. Che c’è il sole, si mangia bene, c'è
Totti e c'è pure il mare. Di cos'altro avevo bisogno?
Invece io che amo il freddo, non apprezzo il buon cibo, odio Totti e pure il mare me ne sono andata
via sbattendo la porta e urlando. Gridando al mio capo che se la mia vita doveva essere precaria allora
avrei deciso io dove e come stare in equilibrio. Ho pianto davanti al mio ragazzo quando l'ho lasciato,
senza neanche avere il coraggio di dirgli che sarei partita dopo una settimana e poi mi sono
addormentata tra le braccia dei miei genitori quando accarezzandomi e baciandomi mi hanno detto che
stavo facendo la scelta giusta, che loro erano con me.
Così eccomi qui, in questa città che sembra nata esclusivamente per fare da cornice a qualche telefilm.
Ciambelle con la glassa, caffè acquosi in bicchieri di cartone, buste marroni con la scritta big brown bag,
poliziotti che mangiano in macchina e gente di tutte le razze che ti investe ad ogni semaforo pedonale.
Non ci sono le risate finte e le quattro telecamere fisse, tipiche delle sitcom americane. Ma questo può
essere solo un vantaggio in un quella che dovrebbe essere una vita reale.
E poi qui tutto è più facile. O almeno così pare. Mi hanno chiesto se ero disposta a fare turni da 8 ore
ed eccomi qui al lavoro tutti i giorni. Nel centro del mondo, in una delle più importanti librerie della
città. Mi hanno chiesto se avevo un lavoro ed ecco il contratto di tre anni per la casa. In un palazzo di
Brooklyn che sembra quello della famiglia Robinson, che poi loro vivevano al Queens ma in questo
discorso credo che c'entri poco questo dettaglio. Qui persino scopare è facile. Se ci si piace si scopa.
Fine della storia. Senza paranoie e senza implicazioni sentimentali.
Suona il telefono. È mia madre. Quando sa che ho il turno di mattina mi fa uno squillo prima di
addormentarsi. È il suo modo di augurarmi buona giornata. Prendo il cellulare e con un sorriso le
rispondo allo squillo mentre esco di casa.
Mi incammino velocemente verso la metro, la linea verde mi aspetta. Oggi fa troppo freddo per
raggiungere Manhattan a piedi attraversando il ponte. Sorrido. Ho un paura fottuta per tutto ciò che
accadrà. Ma sono felice. Penso alla mia vecchia vita, al mio vecchio lavoro, al mio capo.
Penso vaffanculo.
Amo questa città.
/Federico Vergari/
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BRONX
Siamo qui all'angolo, al baretto di Sonny, a guardare la gente che passa qui davanti, quella che sta
dentro, quella che muore e quella che vive. Qui siamo importanti ma quasi invisibili la gente che
conosciamo ci fa un cenno con la testa, sa già che sappiamo quello che fanno, con chi stanno andando
a parlare, quindi poi non ci guarda più, neanche quando esce; quella poca che non conosciamo pensa
che non serviamo a niente, pensa che non avrà mai niente a che fare con noi, ma invece non sa che tra
poco ci conoscerà, e non ci guarda per non scoprire il loro futuro nei nostri occhi. Questo è il punto
più interessante della zona, niente parchi, niente fiume, niente palazzi art decò, questi sono dietro un
paio d'isolati, noi bazzichiamo poco l'altra parte del quartiere. Qui passano i colored che vanno ad
Harlem, qui gli italiani, gli irlandesi, gli ispanici si mischiano come in nessun altro posto, la gente non sai
più da dove viene, e non sai mai in che misura hanno preso pregi e difetti delle loro razze. Padrini,
gangsters e senores, palazzi bruciati ad ogni isolato, causati dalle speculazioni assicurative. Qui il
governo ha latitato per tanti anni, e il governo si è chiamato cosca, gang o banda. Il resto del quartiere
non interessa a nessuno,la faccia pulita è sempre la meno pubblicizzata. Oggi comunque è una giornata
tranquilla, il quartiere è vivo si, ma non iperattivo come tanti anni fa, nel dopoguerra, quando si
guardava con rabbia lo snobbismo di Manhatthan, lì, dall'altro lato di quella melma verde che forse
allora era ancora fiume. Anche a noi, tutto sommato, questa zona piace di più, è più vera, nonostante le
tracce visibili di un passato di degrado, nonostante le vecchie abitudini siano dure a morire; la
familiarità, l'ambiente da piccolo paese rende comunque tutto più trasparente, non come quelle perfette
strade alberate nelle quali passa la gente che nei suoi fuoristrada a vetri oscurati chissà cosa nasconde,
quelle casalinghe disperate che con la brillantezza degli interni delle loro case e le loro rigide formalità
nascondono desideri repressi e peccati inconfessabili. Qui la gente non è ipocrita, magari si sentono un
po' troppi fuck, bloody, sonnamabitch, uoddahell, uotzap, yo, bro e tante altre cazzate del genere, ma
tutto quello che succede prima o poi si viene a sapere, magari non si viene proprio a sapere chi lo fa
succedere, ma, in qualche modo, qualcuno paga sempre. Allora è qui che veniamo a respirare l'aria di
strada, è qui
che ci facciamo scivolare addosso occhiate vuote, è qui che ci disintossichiamo da liti
coniugali, multe per divieto di sosta, insulti di gente incravattata e impomatata che sbraita se gli
facciamo perdere 2 min del loro
preziosissimo tempo. È qui che veniamo
per stare a contatto con la gente, noi
poliziotti nel Bronx...
/Ivan Cusella/
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TRACCE/ E quando furono le dieci
E quando furono le dieci lasciai l'ufficio diretto a casa.
Avevo ventott'anni, possedevo una Nissan due porte e pesavo un centinaio di chili.
Tutto convergeva con puntualità e la vita non smetteva di sorridermi.
Quella sera avevo lavorato parecchio: quasi tre ore di straordinario per portare un po'
d'ordine nell'archivio. La Nissan andò subito in moto, premetti sull'acceleratore e
imboccai la seconda, all'altezza della Cinquantaduesima rallentai, misi la freccia e voltai a
destra. Spuerai Lexington, Park Avenue e la Madison, poi la Quinta, e mi ritrovai ad
attraversare il parco diretto verso il West Side, il Washinton Bridge, fino a Jersey, dove
abitavo. Fu allora che ebbi nettissima la sensazione di essere seguito. Ero fermo a un
semaforo, subito dopo un curvone, solo, i fari accesi,quando vedo nel retrovisore
arrivare tre auto, in testa una Ford bianca. Ma ecco che, invece di affiancarmi, la Ford
rallenta, cercando di farsi superare dalle altre due per non dovermi venire troppo vicino.
Forse non si aspettava di trovarmi lì fermo al semaforo. Fatto sta che l'improvvisata
manovra suggerisce alcuni colpi di clacson da parte di una delle due auto, che mi si
affianca. Al verde riparto, l'occhio fisso sul retrovisore, ed esco dal parco. Quando
incrocio Broadway giro a destra, poi di nuovo a destra, sulla Cinquantaquattresima,
accosto, rallento, mi fermo.
Tac, rieccoli! Arrivano a velocità sostenuta, pensando di avermi perso. Non mi vedono
fino all'ultimo, quando gli frullo tra le ruote come una quagli in una ristoppia, e do gas
mentre le tempie pulsano e le labbra mi diventano secche.
Non mi era mai successa una cosa del genere: perdo la testa. Giro a destra, dov'è senso
unico, poi ancora a sinistra, in un negozio di elettrodomestici.
Azzoppo il proprietario, e mi schianto contro un enorme frigorifero.
/Andrea Pazienza/
Estratto da PAZ – Scritti, disegni, fumetti.
A cura di Vincenzo Mollica
Einaudi Tascabili Stile Libero
Tutti i diritti riservati
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REV&THE CITY
In che periodo e con chi sei andata a New York?
Dal 20 al 30 marzo con 2 mie care amiche
Cosa vi aspettavate da questo viaggio, con quale stato d'animo siete partite?
Volevamo immergerci nell'atmosfera dinamica di una città cosmopolita come la grande mela, a detta di
molti una meta imperdibile. L'immagine che avevamo della città era stata molto condizionata dagli
innumerevoli film e telefilm che la usano come location, tutti conoscono il mitico Sex&the city...
Cosa avete visitato in particolare, avete ripercorso le location viste in tv?
Tutti i classici musei come il Moma, il Gugghenheim, il museum of natural history (quello del film “
una notte al museo”), il metropolitan... poi ci siamo dedicate soprattutto a Manhatthan: la 5th avenue
con i suoi negozi (dove ci soffermavamo ogni giorno almeno un paio d'ore, per spulciarli bene tutti.
Una nota di merito va ad Abercrombie, in particolare per l'accoglianza ricevuta dagli indimenticabili
commessi-modelli), Broadway (dove siamo state anche a vedere uno dei musical più in voga del
momento: “wicked”), e tutti i quartieri che rendono così vitale ed eterogenea l'isola che è il cuore di
New York.
Vi siete spinte fuori da Manhatthan o vi siete concentrate solo su questa zona?
In realtà siamo rimaste sempre sull'isola, ci siamo però spinte fino ai suoi confini dove si trova Harlem,
il quartiere divenuto famoso per esser stato una sorta di ghetto per gli afroamericani, anche se ora non è
più totalmente così. In particolare abbiamo assistito ad una caratteristica messa gospel, esperienza
davvero unica, che ha contribuito a trasmetterci la forte identità comunitaria e l'autenticità della vita di
questo quartiere meno consacrato ai turisti.
Quindi avete potuto constatare che Manhatthan ha tante facce, era così che te la aspettavi? C'è
qualcosa che ti ha deluso o al contrario che ti ha colpito favorevolmente?
Sapevo di questa eterogeneità che ho effettivamente riscontrato, credevo però di rimanere più stupita
dall'impressione generale della città, mentre piccoli angoli di semplicità mi hanno inaspettatamente
affascinata.
Puoi farci qualche esempio più specifico?
È che forse New York è una città fin troppo abusata da film e mezzi d'informazione, tanto che una
volta arrivata sul posto mi sembrava di esserci già stata, e anche la tanto decantata imponenza dei suoi
grattacieli mi sembrava piuttosto familiare. Probabilmente molte città ormai, grazie o a causa della
cosiddetta “globalizzazione”, cominciano ad avere strutture simili o addirittura più spettacolari rispetto
a quelle che fino a qualche anno fa ci facevano camminare a bocca aperta o col naso sempre all'insù.
Per questo sono rimasta più rapita dai variegati profumi dei pranzi domenicali che aleggiavano per le vie
di Harlem che dal mosaico olfattivo della modernità.
Si può dire quindi che sei rimasta delusa da questo viaggio?
No, perché comunque NY è una città che offre tanto sia a livello di divertimento che a livello culturale,
ti fa vivere bene un viaggio in compagnia di amici con i quali è bello scoprire le innumerevoli
sfaccettature che la caratterizzano. Penso però che se l'avessi visitata qualche anno fa, quando ancora
non eravamo abituati all' “extra large”, ne sarei rimasta veramente scioccata.
/Ivan Cusella/
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Credits
Hanno partecipato al numero 24 di Rev
Alessandro Corazzi
Ivan Cusella
Carmine Fiume
Lorenzo Galieni
Alessandro Ibba
Federico Vergari
Valerio Nasetti
Francesca Minonne
Alessandra Scamurra
Giorgia Castagna
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La copertina New York New York è stata realizzata da Alessandra
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