Dio non ama i bambini

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Dio non ama i bambini
LIBRO IN ASSAGGIO
DIO NON AMA I
BAMBINI
DI LAURA PARIANI
Prologo
Buenos Aires, 28 novembre 1908, sabato
GINETTA GOLETTI, 10 anni, lavorante a domicilio
Ginetta sta seduta a guardare sopà Fiore che, dopo aver staccato dal muro la gabbietta
del corvo Miché, l’ha posata sul tavolo per cambiare la scodellina d’acqua, come fa
tutti i sabati. Appollaiata sulla seggiola troppo alta, la bambina dondola, dilòn dilàn, le
gambette nude. Osserva sopà che infila nello sportellino la sua manona pelosa, mentre
l’uccello spaventato cerca di sfuggirgli e urta contro le sbarre di metallo. Una
piumetta nera svola fuori dalla gabbia. L’uomo allora fa uno strano verso,
schioccando due tre volte la lingua contro il palato, come se chiamasse un gatto. A
sopà e a son6nu piacciono i corvi: dicono che sono bestie intelligenti; quanto al
Miché, l’hanno raccolto piccolissimo, un mese fa, di due tre giorni appena: un
batuffolo scuro con due occhietti che erano puntini di carbone acceso. Ginetta guarda
il gesto lento con cui sopà estrae la mano dalla gabbia e, richiuso lo sportello, si volge
verso di lei chinando il viso magro e butterato e alitandole in faccia il fiato acido di
vino.
Da fuori, nel patio, la bambina sente somà che alza la voce contro una vicina:
cominciano i litigi serali per i turni ai fornelli.
«Vado», dice.
«Aspetta un momento», replica l’uomo, contrariato. In un bicchiere, versa da un
fiasco un po’ di vinaccio torbido e lo offre alla piccola che però scuote la testa.
«Stupida», ride storto l’uomo, e nella sua voce pare che tremi uno sfriso di delusione.
Poi tracanna il vino d’un sorso. La sua mano scura di peli si posa sopra il ginocchio
nudo di Ginetta. «Devo andare ad aiutare la mamma», si agita lei sulla seggiola.
«Che fretta c’è?» borbotta l’uomo. E, con una pedata, sbatte la porta d’ingresso, che si
chiude di colpo, precipitando la piccola cucina nell’oscurità: tranne il minuscolo
finestrino con la tenda tirata e il povero moccoletto acceso sulla credenza sotto le
fotografie dei morti di f a- miglia, non ci sono altre luci.
Ginetta si tira indietro, con un timore vago; forse perché ogni oggetto della cucina è
stato all’improvviso ingoiato dalla penombra.
Ansando, l’uomo solleva la piccola mettendola a sedere sul tavolo, davanti a sé. Con
una presa salda ma non violenta. La sua mano torna a posarsi sulle ginocchia di
Ginetta e si spinge in avanti sulle cosce, sollevandole il gonnellino di cotone; poi
rimane lì a cincischiare con la pelle di lei, quasi con precauzione.
La bambina respira appena, paralizzata e sospesa; ascoltando sopà ansimare
rumorosamente con quel suo fiato vinoso.
«Devo andare ad aiutare la mamma», ripete la piccola, e cerca di mettere nella voce
tutta la decisione che i suoi dieci anni le permettono.
L’uomo estrae dalla tasca dei pantaloni un fazzolettone a quadri gialli e blu, si
sbottona la camicia e comincia ad asciugarsi il sudore dai peli del petto. Ginetta
profitta di quel momento per correre verso la porta: riesce ad aprirla e la luce del patio
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entra d’un lampo. Però, veloce come mai si sarebbe aspettata, sopà l’agguanta per la
gonna tirandola indietro. Lo sente ripetere il verso che poco fa ha rivolto al corvo
Miché. Come se lei fosse un gattino da rassicurare.
L’orecchio teso: prima l’uscio della cucina viene chiavato, poi i passi dell’uomo
tornano verso di lei. Le manone di sopà l’afferrano di nuovo e con decisione ostinata
la poggiano al tavolo a pancia in giù. Percepisce le dita dure dì lui salire dal retro delle
cosce fino al suo sedere; estranee ed enormi. Sente il corpo di sopà premere contro di
lei da dietro, quasi soffocandola, e allora agita le gambe scalciando.
D’improvviso qualcuno picchia con violenza sulla porta. La voce alterata di somà:
«Fioree... Ginettaaa... Aprite!»
L’uomo si ritrae, mentre la figlia riprende fiato e scivola giù dal tavolo. Sente sopà
sacramentare e dirigersi verso la porta. Lo vede ravviarsi con le dita della mano, a
mo’ di pettine, i capelli biondi e folti, in disordine. Un attimo dopo, la luce entra
dall’uscio spalancato con furia. Somà, tutta scarmigliata, si aggrappa al marito
insultandolo con voce sibilante. L’uomo retrocede come stordito, per un momento a
Ginetta sembra invecchiato di colpo; ma dopo un attimo Fiore reagisce con rabbia
dando alla moglie un forte manrovescio che la manda a sbattere contro un’anta della
credenza. La piccola si ritira in un angolo, spaventata. Si siede per terra, la schiena
poggiata alla parete, contemplando la scenata dei suoi genitori. I grandi occhi azzurri
velati dalle lagrime. Finché non prende coraggio, si rialza e corre fuori nel patio,
rifugiandosi tra le braccia di sua sorella Margarita.
FIORE GOLETTI, 48 anni, ex lampionaio, disoccupato
Dopo aver finito di battere sua moglie, Fiore Goletti si sente stremato. Si versa un
altro bicchiere: capisce di essere già abbastanza ubriaco, ma che ce ne può un uomo
quando sente il fallimento di tutta una vita pesargli sul cuore?
Di nuovo penetrano dall’esterno voci femminili che battibeccano dal fondo del patio
per la precedenza ai fornelli. Solo otto fuochi per le quaranta famiglie del conventillo:
ogni giorno un inferno. Sempre a gridare, quelle gazze. Le donne se tacciono crepano.
Ah, Signùr dei puaritti,, che quel di òltar al gh’ha i curnitti... Cosa diavolo è venuto a
fare ventisette anni fa in Argentina? Un tempo era un bargnìff-bargnàff, con braccia
forti e risata pronta, povero in bolletta, ma almeno laggiù in Italia la vita era più
semplice: non che nella corte, al paese dov’è nato, si stesse più larghi e comodi, però
uno viveva tra la sua gente. Invece qui ci sta un inferno di famiglie di tutte le risme:
gallegos, napolitani, turchi, mangiapulenta e bacicci, perfino quei bagascioni di
polacchi. E lui? Quarantotto anni e nove figli, no otto, ché la prima, la Severina, è
morta in Italia... E stato proprio in quel momento che la sua storia l’è cominciata a
marcire e la Lucia, sua moglie, è andata fuori di testa. Nove figli lui le ha fatto, ma lei,
cramégna, a pensare sempre a quella prima morticina. La Lucia ha perfino costruito in
suo onore un altarino in cucina, sulla credenza: con la fotografia listata a lutto, il
lumino sempre acceso che attira da ogni parte mosquitos, il mazzolino di fiori
nell’acqua che dopo un po’ spuzza fetente.
Si guarda intorno. Eccola li, infatti, la Lucia, con la solita faccia da miserere: dopo
aver incassato le botte, si è messa ginuggiùni davanti all’immagine della Severina,
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come sempre, a biasciare requiemmeterna. Fiore ne prova rabbia: così non bada ai
figli, che i maschi soprattutto hanno bisogno dì correzione, stanno venendo su male,
lei gliele dà sempre vinte. Delle tuse, la Pina la Giulia la Rosa la Margarita la Ginetta,
gli importa poco: le femmine, si sa, nascono tutte zoccole e devono semplicemente
stare in casa a faticare, è inutile che sbragi a dire il contrario quella io-so-tutto della
Maestrina del secondo patio, che con il nome che ci ha, Bonifica, l’è meglio che stia
zitta, neh... Il lavoro è la scuola delle femmine, «chi non sa rammendare e rassettare
non sa partorire», dice Padre, che Domineddio lo tenga in buona salute dal momento
che col suo carrettino di strasciarolo a volte è l’unico che porta in questa casa qualche
palanca... Le tuse, invece, tutta una manica di ingrate: si sposano e chi s’è visto s’è
visto. Ché Fiore non ha mai perdonato alle figlie maggiori di essersi maritate appena
hanno incontrato il merlo. Cramégna, è al pisciare che si conoscon le vacche... Il suo
pensiero per quanto concerne le figlie è semplice: un padre prova un qualche piacere a
concepirle, spende meno denaro possibile per tirarle grandi e poi le mette a lavorare al
più presto perché guadagnino soldi da portare in famiglia. Lo manda perciò in bestia
che le figlie maggiori se ne siano andate di casa sui diciott’anni per maritarsi: ha
l’impressione che l’abbiano derubato di qualcosa.
Per i maschi è una questione del tutto diversa. I maschi, Madonna Santissima, devono
farsi strada nella vita e imparare un mestiere, una disciplina, la firma. Ché quando non
sai adoperare la penna, i padroni ti imbrogliano con le parole scritte, tu non sai cosa ti
mettono sulla carta e dopo hai un bel protestare, quel che è scritto è scritto, che la
croce in fondo al foglio sia tua o di un altro come te fa lo stesso. E invece quei tre
lazzaroni non valgono un carajo... A scuola li ha mandati, ma l’Antonio ci ha il mal
frenetico e quando gli vengono le crisi gli si arrovesciano gli occhi e la lingua, che
quasi non basta la forza di tre persone per tenerlo fermo; così s’ciau. Il secondo,
l’ognissanti, l’hanno cacciato perché era un barabba scatenato, neanche il maestro
Brusa con tutte le sue bacchettate ce ne ha potuto; e l’ultimo, il Peppino, viene su
copiando il malesempio. Eh, chi disse figliuoli disse duoli, tanto più che l’Antonio già
comincia a farsi benedire troppo spesso da Santa Ciuccina appena lo si perde
d’occhio, e perfino l’Ognissanti: ché Fiore li ha trovati più di una Volta nello spaccio
della Paolona, ciucchi traditi.
A pensarci, a Fiore viene una tale furia che si alza dal tavolo e d’un balzo è
nuovamente sulla moglie inginocchiata: ricomincia a pestarla di santa ragione,
smaniando eccitato, ché con le donne non c’è altra maniera di farsi intendere.
«Smettila di piangere bambaluga, — le urla negli orecchi, — mi dai fastidio... E
morta, la Severina, son passati i seculorum, non la resusciti con i tuoi strilli». Poi si
ritrae, la testa in un gran stordimento: inutile parlare con la Lucia, ci ha il resagusc al
posto del cervello. Maledetto conventillo con gli occhi degli altri sempre puntati
addosso, e neanche nel letto uno si può godere la sua donna perché il più delle volte
lei non fa che sfogarsi delle cattiverie della vicina-di-qui della vicina-di-là, rogne
femminine che a un uomo rovinano la poesia in certi momenti: e così uno resta a
bocca asciutta, gli occhi aperti dalla mancanza di sonno, ché a badarle, le femmine,
bisogna baruffare ogni momento.
© 2007 Giulio Einaudi Editore S.p.A.
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