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Estratto da:
Barbara Pym, Amori non molto corrisposti
Titolo originale dell’opera:
No Fond Return of Love
Traduzione a cura di Bruna Mora
© Barbara Pym 1961
© 2014 astoria srl
corso C. Colombo 11, 20144 Milano
Prima edizione: maggio 2014
ISBN 978-88-96919-83-5
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Ci sono vari modi per guarire un cuore spezzato, ma partecipare a un dotto convegno è forse uno dei più insoliti.
Quando capì che il fidanzato non intendeva affatto sposarla
– o che non era degno del suo amore, come diceva lui – Dulcie Mainwaring patì una quieta infelicità per diversi mesi prima
di riuscire a scuotersi. Il convegno, quando arrivò l’annuncio,
sembrò proprio il genere di cosa raccomandata alle donne nella
sua posizione: un’opportunità per incontrare gente nuova e per
divertirsi osservando la vita degli altri, anche se solo per un fine
settimana e in circostanze alquanto inusuali.
Che cosa poteva infatti apparire più bizzarro di un gruppo di
adulti, per la maggior parte di mezza età o addirittura anziani,
radunati in un collegio femminile del Derbyshire allo scopo di discutere erudite sottigliezze che non significavano nulla per quasi
tutto il resto del mondo? Perfino le camere – fortunatamente non
sarebbero stati ammassati in dormitori – sembravano innaturali,
con brandine di ferro gemelle e la prospettiva di compagni estranei a distanza tanto ravvicinata.
Dulcie cominciò a fantasticare su chi le sarebbe toccato, e
attendeva di vederla entrare – perché sicuramente doveva trattarsi di una donna – con una certa apprensione. Ma almeno, si
disse spavalda, sarebbe stato interessante dividere la stanza con
un’estranea, e quando udì dei passi lungo il corridoio si preparò
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spiritualmente, pensando a che cosa si sarebbero dette una volta
aperta la porta. Ma i passi proseguirono, arrestandosi poco oltre.
Allora, guardando di nuovo il secondo letto, Dulcie si accorse che
sembrava basso in maniera sospetta, e quando sollevò la coperta
vide che non era fatto. Si sentì allo stesso tempo sollevata e delusa. Una volta raccolto abbastanza coraggio, sarebbe andata a
vedere chi c’era nella camera accanto.
Era stato un errore venire. Viola Dace lo capì subito, mentre
si guardava intorno nella cameretta simile a una cella, con uno
sgomento che raggiunse il panico quando vide che c’era un secondo letto, coperto come il suo da una trapunta bianca a nido
d’ape. Così, avrebbe forse dovuto dividere quella misera stanza
con una sconosciuta. L’idea era intollerabile! Sollevò cautamente
un angolo della trapunta per vedere se il letto era fatto; con suo
grande sollievo non lo era, perché sotto c’erano solo un cuscino
foderato di tela a righe e una pila di coperte grigie. Almeno,
dunque, avrebbe avuto la camera tutta per sé, e le sarebbe stato
possibile resistere per tre notti.
Accese una sigaretta e si affacciò alla finestra. In un’aiuola
sotto di lei c’era una bella sfilata di dalie, gli alberi erano carichi
di mele e pere, e in lontananza la brughiera si stendeva verso le
colline e quello che sembrava il mondo esterno e la libertà.
Qualcuno bussò piano alla porta. Viola si voltò sorpresa e
disse “Avanti”, in tono piuttosto brusco. Vide, sulla soglia, una
donna alta, poco più che trentenne, con un volto piacevole e
capelli chiari. Indossava un abito di tweed e scarpe sportive che
sembravano troppo pesanti per le sue gambe magre.
Già ben avviata a diventare una scialba zitella inglese, pensò
Viola, consapevole di rappresentare un bel contrasto con il suo
abito nero, il viso pallido un po’ emaciato e la disordinata chioma
scura.
“Sono Dulcie Mainwaring,” disse la donna dai capelli chiari.
“Pare che la mia camera sia proprio accanto alla sua. Mi domandavo se avremmo potuto scendere a cena insieme.”
“Se vuole,” rispose Viola piuttosto sgarbatamente. “A proposito, mi chiamo Viola Dace. Come ci si dovrà vestire?”
“Immagino che nessuno lo sappia veramente,” disse Dulcie.
“Potrebbe essere come la prima sera a bordo di una nave, quando non ci si cambia per la cena. Credo sia la prima volta che un
convegno del genere viene tenuto qui. So che ci sono ‘personalità
religiose’, e anche scrittori, credo. Presumo che in un certo senso
noi siamo scrittori.”
“Sì, potremmo definirci tali.” Viola aveva estratto il rossetto e
se lo stava mettendo quasi selvaggiamente, come se fosse decisa
a rendersi meno somigliante possibile a chi lavorava ai margini
polverosi del mondo accademico.
Dulcie fissò affascinata il risultato; nel viso giallastro, la bocca
smagliante color corallo appariva senz’altro bizzarra e singolare, e la fece sentire leggermente insoddisfatta del proprio cauto
trucco “naturale”.
“È un’idea insolita tenere un convegno per gente come noi,”
disse Dulcie. “Qui tutti correggiamo bozze, prepariamo bibliografie e indici, e svolgiamo tutti quei compiti piuttosto monotoni
e ingrati per gente più brillante di noi.”
Sembra indugiare sulle parole quasi con piacere, pensò Viola,
come se fosse decisa a creare un’impressione di estremo squallore.
“Oh, la mia vita non è per niente così,” disse in fretta. “Io ho
fatto ricerche per conto mio e ho già cominciato un romanzo.
In realtà, sono venuta qui perché conosco uno dei relatori, e…”
Esitò, sentendo montare di nuovo il senso di sgomento, perché era stato di certo un errore venire. Questa degna signorina
Mainwaring, facile da immaginare mentre eseguiva tutti i lavori
malinconici che aveva appena descritto, non era tuttavia il genere
di persona con la quale avrebbe ambito confidarsi.
“Io faccio solo lavori occasionali e compilo indici,” esclamò
allegramente Dulcie. “Quando si ammalò mia madre, trovai più
comodo lavorare a casa, e dopo che è morta non ho mai veramente pensato a cercarmi un impiego a tempo pieno.”
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Cominciò a suonare una campana, che a Viola parve accrescere il senso di depressione causatole da Dulcie.
“Dev’essere la cena,” disse. “Scendiamo?” Sicuramente, nel
corso della serata, le sarebbe stato possibile liberarsi di lei.
Aylwin Forbes estrasse dalla valigia una mezza bottiglia piatta
di gin, togliendola dalle pieghe del pigiama, dove aveva viaggiato
sana e salva da Londra fino a quel remoto villaggio del Derbyshire. La mise innanzitutto sulla toeletta, ma non s’intonava con
le pastiglie di lievito di birra e la polvere per lo stomaco e il tonico
per i capelli, perciò, visto che non c’era un altro mobiletto, finì
per riporla nell’armadio, quel tradizionale, sebbene un po’ vergognoso, nascondiglio per liquori.
Mise l’altro articolo importante del suo bagaglio – gli appunti
per la relazione che avrebbe tenuto su Alcuni problemi di un direttore
– sulla sedia accanto al letto.
A quel punto si accorse che c’era, in effetti, un mobiletto sopra il lavandino, presumibilmente destinato alle medicine, perciò
prese la bottiglia di gin e la sistemò lì. Fu colto da un pensiero, e
si domandò se le cameriere fossero oneste, immaginando una di
loro portarsi la bottiglia di gin alle labbra e scolarsi una rapida
sorsata mentre rifaceva la camera al mattino. Be’, doveva correre il rischio, decise, e ripose il gin con le compresse di lievito
e la polvere per lo stomaco nel mobiletto; ma non aveva idea
di dove avrebbe potuto trovarsi al momento di usare la lozione
per i capelli, così la lasciò dov’era. Poi prese dalla sedia accanto
al letto gli appunti per la relazione e li appoggiò sulla toeletta,
vicino alle spazzole e alla scatola per gemelli in cuoio fiorentino.
Ora nella valigia restavano solo l’ultimo numero della rivista
letteraria di cui era direttore e il grande portafoto – pure di cuoio
fiorentino – con la foto della moglie, Marjorie. Prese la rivista e
la appoggiò sulla sedia vicino al letto, con un leggero senso di
ripugnanza, come immaginandosi coricato a leggerla, ma per
Marjorie non c’era un luogo adatto, così rimise di nuovo il por4
tafoto nella valigia, la chiuse e la spinse sotto il letto. Dopotutto,
non aveva senso tenerla fuori ora.
Aprì cautamente la porta e guardò il lungo corridoio, domandandosi dove fosse il bagno. Aveva perfino accennato qualche
passo esitante in una direzione, quando vide una donna anziana in pince-nez, retina sui capelli e vestaglia trapuntata con un
disegno a grandi fiori rossi, munita di un asciugamano e di una
busta da toeletta, avanzare risoluta verso di lui. Dovunque fosse
stato diretto, lei sarebbe di certo arrivata per prima. Si ritirò in
fretta nel rifugio della camera, profondamente disturbato. Non
era prevista nemmeno la separazione dei sessi?
I passi felpati della donna si allontanarono e parvero fermarsi
davanti alla camera dopo la sua. In quel momento si rese conto
che si trattava della signorina Faith Randall, una collega relatrice. Con la mente vide il titolo della lezione che avrebbe tenuto:
Alcuni problemi nella stesura degli indici. Ogni relazione avrebbe riguardato “alcuni problemi di qualcosa”? si chiese uscendo nel
corridoio, questa volta con più coraggio.
Quando tornò in camera, si versò del gin nel bicchiere dello
spazzolino, aggiunse acqua dal rubinetto e bevve piuttosto velocemente, quasi fosse una medicina: il che, in un certo senso, era
vero. Devo scendere a cena, si disse, confortato al pensiero che
i relatori avrebbero occupato un tavolo separato dagli altri partecipanti al convegno. Gli tornò in mente la signorina Randall
con la retina sui capelli e il pince-nez, e si domandò se sarebbe
capitato accanto a lei e di che cosa avrebbero potuto parlare. So
qualcosa di indici? Aborto, adulterio, amministrazione… gamberi, granito, gravidanza… Santo cielo! Forse aveva bevuto il gin
un po’ troppo in fretta.
“Chi è quel bell’uomo?” sussurrò Dulcie a Viola, mentre attendevano nell’anticamera che il gong finale annunciasse la cena.
“Bell’uomo… dove?” Viola si era persa in contemplazione
dei colleghi del convegno, che non erano, nell’insieme, di bell’aspetto. In realtà si stava domandando quale convegno avrebbe
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mai potuto essere composto da persone avvenenti, a meno che
non fosse un raduno di attori o stelle del cinema. Ma non appena
Dulcie ebbe parlato, capì di chi si doveva trattare, e fu infastidita
e quasi delusa di non aver avvertito, per qualche via misteriosa,
la sua presenza.
Guardò e vide la bionda testa leonina, il naso ben fatto e gli
occhi scuri, così insoliti con i capelli chiari.
“È Aylwin Forbes,” rispose.
“Ah, sì. Alcuni problemi di un direttore,” citò Dulcie. “Ha l’aria di
poterne avere anche altri, di problemi… essendo così attraente,
voglio dire. Di che cosa è direttore? Non riesco a ricordarlo. Sa
davvero qualcosa dei nostri problemi?”
Viola disse il nome della rivista diretta da Aylwin Forbes. “Si
dà il caso che io lo conosca piuttosto bene,” aggiunse.
“Sì?”
“Io e lui un tempo eravamo…” Viola esitò, tormentando la
frangia della stola nera e argento.
“Capisco,” commentò Dulcie, ma naturalmente non capiva.
Che cos’erano un tempo, o che cos’erano stati l’uno per l’altra?
Amanti? Colleghi? Direttore e vicedirettore? O l’aveva semplicemente afferrata fra le braccia, un pomeriggio di primavera,
in qualche biblioteca polverosa in un angolo opportuno accanto
allo schedario? Impossibile stabilirlo dalla cauta allusione di Viola. Quant’era irritante, talvolta, la delicatezza delle donne!
“È sposato?” chiese Dulcie, audace.
“Oh, naturalmente… in un certo senso, cioè,” rispose Viola,
impaziente.
Dulcie annuì. La gente di solito era sposata, e molte volte “in
un certo senso”.
Ora Aylwin Forbes si stava avvicinando a loro.
“Guarda guarda, salve, Vi! Mi domandavo se ci saresti stata
anche tu,” esclamò in un tono cordiale che sembrava essere stato
assunto appositamente per il convegno.
“Salve, Aylwin,” disse Viola, inibita dalla presenza di Dulcie
e seccata di sentirsi chiamare “Vi”. Non amava che qualcuno le
ricordasse di essere stata battezzata Violetta, per via di qualche
confusa fantasia wordsworthiana del padre – una violetta presso una
pietra muscosa, un po’ celata allo sguardo – un’immagine così affascinante, doveva aver pensato, senza accorgersi che il nome Violetta
non suggeriva esattamente questo. A diciassette anni, lei si era
ribattezzata Viola.
“Vedo che terrai una relazione,” proseguì Viola. “Senz’altro
ci vedremo, più tardi.”
“Sì, dobbiamo fare una bella chiacchierata,” rispose Aylwin,
ma in quel momento echeggiò un gong e il gruppo procedette
nella sala da pranzo, guidato da un vecchio con la barba bianca.
Il salone era ampio e in grado di ospitare una folla ben maggiore di quella raccolta alle due lunghe tavolate. In disparte c’era
un tavolo più piccolo per gli organizzatori e i relatori, e Aylwin
vi si diresse rapidamente, felice di avere una scusa per lasciare
le due donne. Disse una battuta piuttosto fiacca su pecore e capre, sentendo che difficilmente avrebbe potuto fare di peggio,
e prese posto tra due uomini di mezz’età dall’aria innocua, in
uno dei quali riconobbe un dotto collega che avrebbe tenuto una
relazione sui terrori e sui trionfi della corretta stesura di una bibliografia.
Dulcie e Viola, nel frattempo, si ritrovarono all’estremità di
uno dei lunghi tavoli, dove una donna alta e dall’aspetto bonario
aveva cominciato a scodellare una minestra da un’ampia zuppiera. Sembrava divertirsi, mentre tuffava il mestolo nel brodo
fumante e saporito come una monaca o un frate medievale occupato a sfamare i poveri lì raccolti.
“Pare che chiunque si trovi in quest’angolo debba sbrigarsela
con il cibo,” esclamò allegramente a voce alta. “Vi dispiacerebbe
passare i piatti?”
Dulcie e Viola fecero com’era stato detto loro e il pranzo iniziò. Dopo la minestra, furono portati un vassoio di carne affettata
e alcuni piatti di verdure, e anche in questo caso aiutarono a
servire.
“Che cosa fa lei di preciso?” domandò Dulcie a Viola, con
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una certa schiettezza. “Prepara indici o è redattrice aggiunta di
una rivista o cosa?”
Viola esitò, quindi rispose: “Ho fatto ricerche per conto mio.
Studiavo per un dottorato all’Università di Londra, ma ho avuto
problemi di salute. In realtà,” aggiunse con noncuranza, “una
volta ho svolto del lavoro per Aylwin Forbes”.
“Dev’essere stato piacevole.”
“Be’, è stata un’esperienza stimolante, certo,” rispose, con una
sfumatura di rimprovero. “È parecchio in gamba, sa?”
“Sì, e molto attraente,” disse la donna che aveva distribuito la
minestra. “Ho sempre pensato che la cosa sia d’aiuto.”
Dulcie la guardò con curiosità. Ai partecipanti al convegno
era stato richiesto di portare un cartellino con il proprio nome,
e notò, accanto a un grosso cammeo elegantemente cesellato
con Leda e il cigno, un piccolo cerchio di cartone sul quale era
scritto in stampatello jessica foy. Lo riconobbe come il nome
della bibliotecaria di una famosissima istituzione culturale, e
istintivamente si ritrasse un poco, incapace di conciliare una
simile eminenza con la donna allegra che aveva servito la minestra.
“Ricerche, con un bell’uomo,” proseguì la signorina Foy. “È
una sorte invidiabile. Qual era l’argomento delle sue ricerche?”
“Oh, solo un oscuro poeta del Settecento,” rispose in fretta
Viola.
“È stata fortunata a trovarne uno così oscuro che nemmeno
gli americani lo avevano già ‘fatto’,” commentò la signorina Foy,
sarcastica. “È decisamente seria questa carenza di oscuri poeti.”
“Forse verrà il momento in cui sarà permesso fare ricerche
sulla vita delle persone comuni,” intervenne Dulcie, “su gente
che non ha diritto a nessun tipo di notorietà.”
“Ah, quello sarà un bel giorno!” esclamò la signorina Foy, gioviale.
“Mi piace scoprire cose sulla vita della gente,” proseguì Dulcie. “Immagino che sia una sorta di compensazione per lo squallore della vita quotidiana.”
Viola la fissò, meravigliata che una donna potesse confessare
una debolezza come la necessità di compensazione.
“Potrebbe sposarsi,” disse dubbiosa, ricordando le scarpe pesanti sulle gambe magre.
“Sì,” convenne Dulcie, “potrei, ma anche se accadesse non
credo che il mio carattere cambierebbe molto.”
“Lei non permetterebbe a un uomo di plasmarla,” commentò
la signorina Foy in tono soddisfatto, “e nemmeno io lo farei.”
Dulcie voltò il capo per nascondere un sorriso.
Viola sembra un po’ infastidita, pensò Dulcie, come se non le
dispiacesse l’idea di poter essere plasmata. Ma, naturalmente, il
problema non si poneva. A volte accadeva il contrario. Maurice,
l’ex fidanzato di Dulcie, sarebbe stato assolutamente incapace di
plasmare chicchessia, dal momento che aveva un carattere piuttosto debole – poteva davvero ammetterlo, ora? – e oltretutto tre
anni meno di lei.
“Forse le vite degli altri sono una sorta di rifugio,” suggerì. “Si
può godere della loro serenità.”
“Ma non sono sempre serene,” intervenne la signorina Foy.
“No, e allora ci si ritrova a contemplare l’orrore o l’infelicità
con distacco, e questo di per sé è spaventoso.”
La signorina Foy rise, un po’ incerta. “Mi domando se qui
troverà qualche soggetto.”
“Probabilmente no. Sembra un terreno di caccia troppo ovvio, non so se mi spiego.”
“Sì… troppi eccentrici,” disse la signorina Foy, mentre si rendeva conto che per lei il massimo del piacere della vita era un
caso difficile di classificazione o di voce bibliografica. “Ecco, arriva il dolce. Lo servo io o vuole occuparsene lei?”
“Oh, lo faccia lei,” rispose Dulcie. “Non sono molto brava nel
fare le parti.” Percepiva che il compiere quella semplice mansione poteva soddisfare una necessità profondamente sentita dalla
signorina Foy, qualcosa che andava oltre il mero autoritarismo.
Alla fine del pasto, i tavoli vennero sparecchiati; sembrava
che nessuno potesse andarsene senza portare via qualcosa, fosse
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pure un bricco di crema o una forchetta non adoperata. Quindi
si avviarono verso la sala delle conferenze per ascoltare il programma per il fine settimana. Fu annunciato che in quella prima
sera non si sarebbero tenute relazioni o dibattiti, ma una sorta di
“incontro sociale”, affinché i partecipanti potessero conoscersi
meglio. Avrebbero servito del caffè.
Viola ascoltò con sgomento, perché non era di natura socievole. Se non fosse riuscita a parlare con Aylwin Forbes sarebbe
andata a letto a leggere, ma il pensiero della cameretta simile a
una cella non l’allettava e si ritrovò a procedere con gli altri in
una sorta di sala riunioni, stipata di poltroncine e pervasa dal
profumo del caffè e dal tintinnio dei cucchiaini.
“Sarà carino bere un caffè,” disse Dulcie.
Viola pensò con irritazione che Dulcie era proprio il tipo di
persona capace di definire “carino” il fatto di bere un mediocre
caffè in compagnia di un nugolo di gente dall’aria strana. L’aveva
già classificata come una “disponibile”, il genere di donna che
interferisce nella vita degli altri con le cosiddette “migliori intenzioni”. Decise di liberarsene appena possibile. Era una sfortuna
che le loro camere fossero contigue. Viola esaminò anche l’ipotesi
di chiedere un’altra stanza, ma non sembrava valerne la pena per
un fine settimana. Oltretutto, non avrebbe saputo a chi rivolgersi.
Un’estremità della sala riunioni terminava con una porta a
vetri, oltre la quale sembrava aprirsi una specie di serra. Viola
trovò il modo di allontanarsi da Dulcie nella coda per il caffè e di
scivolare oltre la porta; inosservata, sperava.
Era davvero una serra, con palme in vaso e il fusto nodoso
di una vite che in alto si allargava in una profusione di foglie.
Viola sedette su una sedia di vimini e guardò il soffitto verde da
cui scendevano grappoli di uva nera. Era meraviglioso fuggire
da quella gente orribile. Che cosa mai l’aveva spinta a venire
a quel convegno? Chiuse gli occhi a disagio, immaginando che
qualcuno potesse entrare e trovarla lì. Ma Aylwin Forbes, spiando dalla sala riunioni, si ritrasse in fretta quando la vide, e avviò
un’animata conversazione con la signorina Foy e la signorina
Randall sulle conoscenze comuni nel mondo accademico. Infine
fu la voce di Dulcie, insieme a quella di altre due donne, a interrompere la solitudine di Viola, dicendo: “Guardate, c’è una serra
incantevole, con una vera vite. E anche uva, che meraviglia! Le
dispiace se ci uniamo a lei?”.
“Certo che no,” rispose Viola con freddezza. “Chiunque può
entrare, immagino.”
Così la serata volse al termine, con Dulcie, Viola e le due
donne in abiti sintetici a fiori sedute sulle sedie di vimini, a offrirsi sigarette e a fare congetture sulla durezza dei letti. Dopo
non molto tempo, la conversazione si esaurì, e Dulcie e Viola si
ritirarono nelle loro camere confinanti.
Prima di addormentarsi, Dulcie pensò alla grande casa di
periferia dove aveva vissuto con la sorella e i genitori, che era diventata ormai la sua, essendo i genitori morti e la sorella sposata.
Oltre la finestra della camera da letto c’era un pero, carico di
frutti maturi; poteva quasi vederli in una perfezione preraffaellita
di colori e particolari, foglie e frutti. Settembre era il suo mese
preferito: il giardino fitto di dalie e zinnie, prugne da mettere in
conserva, pere e mele da “sistemare”, frutti caduti per il vento da
radunare e scegliere. Era stato un anno buono per la frutta e ci
sarebbe stato parecchio da fare. La casa era grande, disordinata
quasi, ma molto presto sua nipote Laurel – la figlia della sorella –
sarebbe venuta a Londra per frequentare un corso per segretarie
e avrebbe vissuto con lei. Dulcie non vedeva l’ora di prepararle la
camera. Le sarebbe piaciuto avere la casa piena di gente; avrebbe
potuto magari affittare delle stanze. C’erano così tante persone
sole al mondo. Qui le riflessioni di Dulcie imboccarono un’altra
direzione: cominciò a pensare a ciò che davvero la preoccupava
nella vita. Mendicanti, gentiluomini bisognosi, solitari studenti
africani cui venivano sbattute le porte in faccia, gente trattenuta
per errore in cliniche per malattie mentali…
Doveva essere molto più tardi – perché si rese conto di essere
stata svegliata –, quando udì bussare alla porta.
“Chi è?” esclamò, più curiosa che allarmata.
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Una figura apparve sulla soglia: come Lady Macbeth, fu l’incoerente pensiero di Dulcie. Era Viola, i capelli scuri sciolti sulle
spalle, con indosso una veste da camera di una stoffa che luccicava appena nella semioscurità. Dulcie vide che era raso lilla.
“Mi scuso moltissimo, devo averla svegliata,” disse Viola. “Ma
non riesco a prendere sonno. Sembra proprio che io abbia dimenticato le pillole per dormire, è terribile. Non capisco come
possa essere successo. Non vado mai in giro senza…” Sembrava
disperata, sull’orlo delle lacrime.
“Ho un Alka-Seltzer,” disse Dulcie, alzandosi a sedere sul letto.
“Oh, non ho fatto indigestione,” replicò con impazienza Viola, irritata che Dulcie avesse ipotizzato un disturbo di stomaco
come causa della sua insonnia.
“Di solito un bel libro rilassante mi fa addormentare,” disse
Dulcie, con l’intenzione di esserle utile. “Ma c’è qualcosa che la
preoccupa? Penso di sì. È Aylwin Forbes?” domandò gentilmente.
“Sì, credo di sì.” Viola sedette sul letto.
“Lo ama, o qualcosa del genere?” Forse Dulcie non sceglieva
le parole con molta accortezza, ma erano, dopotutto, nel cuore
della notte.
“Non so, davvero. Vede, la moglie lo ha lasciato, è tornata
dalla madre, e io avevo pensato, in fin dei conti, che lui si sarebbe… be’, rivolto a me.”
“Rivolto a lei? Per conforto, sì, capisco.”
“Avevamo fatto questo lavoro insieme… eravamo tanto amici,
perciò, naturalmente, credevo…”
“Forse lui pensa che sia un po’ presto… voglio dire, per rivolgersi a qualcuno.”
“Ma confortare… questo almeno lo si potrebbe fare. Sarei
così contenta di poter fare qualcosa.”
“Sì, certo, lo si vorrebbe fare, forse le donne provano piacere
soprattutto in questo, nel sentire che si ha bisogno di loro e che
fanno del bene.”
“Non si tratta del mio provare piacere in qualche cosa,” disse
Viola bruscamente. “Io voglio fare quello che posso per lui.”
Dulcie avrebbe voluto chiedere qualcosa di più sull’abbandono della moglie – era stata costretta da qualcosa che aveva fatto
lui? – ma le sembrava di non poterlo ancora fare. Dal modo in
cui ne parlava Viola, sembrava che fosse Aylwin Forbes la parte
offesa.
“Forse è troppo addolorato,” suggerì.
“Ma è venuto al convegno.”
“Sì, per distrarsi. Potrebbe benissimo essere così.”
“Ma sento che mi evita,” proseguì Viola. “Era molto imbarazzato quando ci siamo incontrati prima di cena, non se n’è
accorta?”
“Be’, il gong è suonato quasi subito e tutti hanno cominciato
a spingere… sarebbe stato imbarazzante per chiunque.”
“Poi, mentre ero sola nella serra,” Viola sembrava pensare a
voce alta “credo che abbia guardato attraverso la porta a vetri e
non sia entrato perché mi ha visto.”
“Può avere pensato alle correnti d’aria, o che lei non volesse
essere disturbata,” disse Dulcie, sempre più debole nelle rassicurazioni mentre il sonno minacciava di vincerla. “Sono certa che
domattina tutto andrà meglio,” proseguì, sentendo che la sua, in
realtà, era una fuga vigliacca. “Pensa di riuscire a dormire, ora?”
Che peccato non ci si possa preparare una tazza di Ovomaltina, fu il suo ultimo pensiero cosciente. I problemi della vita sono
spesso alleviati da bevande calde al latte.
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