Il mio piede sinistro

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Il mio piede sinistro
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N. 8 - Luglio 2004
Il mio piede sinistro
i ero sbagliato: non era un mattone quello lasciato sul tavolo del bar, ma un
panetto di cioccolato. Un cioccolato bello scuro della Lindt con la carta
bianca, quello fondente, proprio quello che piace a me. Allora mi sono svegliato e ho messo fuori prima il piede sinistro, poi un pezzo della gamba e infine,
con un colpo di reni, anche il resto del mio vecchio telaio che ancora regge, nonostante i lustri. E non c’era nessun pezzo di cioccolato né mattoni sul tavolo, il quale
se ne stava sconsolato e solitario nella notte. E per giunta non sentivo più il piede.
Cioè lo vedevo, ma non lo sentivo sul pavimento. Era come se il piede si fosse dimenticato del corpo a cui era attaccato. Evidentemente era successo qualcosa alle centraline ipotalamiche, quelle che regolano gli impulsi sensitivi. Buttai uno sguardo alla sveglia, ma era decisamente presto per prendere il metrò e andare in ufficio.
E allora? Dio e Diavolo avevano scelto la stessa notte per farmi visita, il piede destro lo sentivo, ma quello sinistro era come sparito. Accesi il televisore, ridussi l’audio al minimo, riuscii solo a capire che Ciampi aveva parlato a Lecco; poi le immagini di un grave incidente ferroviario accaduto in Romania e quelle, strazianti, dei feriti da petardi durante una festa nelle vicinanze di Napoli, in mare aperto.
Feci zapping veloce, i soliti noiosi annunci pubblicitari, poi gli invedibili porno,
e altri spezzoni di film interessanti. Ma tutto ciò non mi spostava il problema: il mio
piede sinistro era ormai un arto fantasma. I soliti fischi alla Cisl e a Berlusconi, deve essere stato graziato Graziano Mesina.
Graziano, grazie della grazia. Mi sono svegliato? Ah sì, il mio piede è come una
maglia nera al Giro d’Italia. Rimane indietro, insensibile, e c’è un uomo con il baricentro del corpo spostato in avanti, che ha perso un piede pur avendolo ancora
attaccato.
Grazie, Sicilia, mi fai sognare. Adesso la televisione manda pubblicità sulle vacanze siciliane. Hai un gatto ai piedi dell’Etna? Tienilo! E’ il primo a sentire se la prossima eruzione del vulcano ti seppellirà con la casa oppure no. E grazie ai suoi sensibilissimi baffi. Fuori è ancora buio, ma io non sono ancora guarito, e nasce un albero sulla tomba del mio piede. Dove andranno a pisciare i cani? Ma qui, naturalmente! Tra “i diti” del piede che non sento. So che l’albero e il mio piede sono
ancora vivi, ne avverto la linfa, il sangue, li vedo muoversi l’uno con le fronde e le
foglie, l’altro con le dita che sembrano piccoli tentacoli di un moscardino greco. Vorrei dire al mondo che amo il mio piede sinistro, però vorrei sentirlo come un grido
in fondo al canale, cazzo! Vorrei fare un tango come quello in balera a Ferrara dopo
M
Settembre
utti pensano alla morte. Anche se
non ci si pensa. Molti, credo, immaginano la scena del proprio funerale, quando gli altri, almeno qualcuno piangerà la nostra dipartita. Abbiamo
bisogno di sentirci capaci di creare nostalgia. Vi è chi spende denari per farsi
predire il futuro da prezzolati ciarlatani:
il futuro, quindi anche la morte. Credo
sia pura follia, perché la nostra unica for-
T
tuna di viventi sta nella salutare ignoranza degli eventi tragici in generale, e
della morte in particolare.
Per parte mia, ho invece espresso un
desiderio: se proprio c’è da morire (e proprio c’è da morire) che almeno sia come
piace a me. E cioè così.
Supino, sul duro di una delle due panchine in pietra, poste a vedetta della piana lombarda, insieme ad un obice da
75/13 demilitarizzato, due bombe e ad
una lapide (che fa memoria della Linea
Cadorna del ‘17, e di una tetra quanto
inoffensiva minaccia di invasione austroungarica dal Canton Ticino), sul piazzale-eliporto di una delle cime del Campo
dei Fiori, che ho battezzato ‘del cannoncino’. Sotto la nuca le mani, o tutt’al più
il caschetto da corridore ciclista, quale mi
definisco: ciclista non professionista. Perché sul duro giaciglio devo arrivarci in bicicletta, dopo oltre nove chilometri di salita, percorsi possibilmente sotto i cinquanta minuti, partendo dal rione di
Sant’Ambrogio Olona.
Quando non sommavo l’età che ho
adesso, la salita (da me sempre amata)
era conditio sine qua non per la discesa,
la mia vera passione, che affrontavo spericolatamente, senza tema di morire. Non
pensavo alla morte, allora. Non credevo
possibile che lei, infame, rivolgesse la sua
ingordigia anche contro di me. Oggi è diverso. La salita è il dolce, faticoso cammino verso quell’approdo, cioè il mio distendermi sulla panca. Perché devo toc-
la morte di Gauguin, no, io non
c’entro, dice il povero argentino,
io non c’entro, il tuo piede è a Firenze sulla modulazione di frequenza 100,1 o a Bergamo sulla
seggiovia o in un bacio cinese alla Sars, la polmonite, un bacio
fondente e atipico come il mio
piede sinistro. Potrebbe essere
una sciatica senza dolore, o una
neuropatia diabetica, ma io con
gli zuccheri sono a posto, potrebbe essere la compressione di
un nervo dovuta al fatto che mi
ero coricato in modo scomposto.
Potrebbe anche darsi che il mio
piede me lo sia sognato, che sia
ancora sul letto e da un momento all’altro mi sveglierò e dirò: eccomi, sono ancora sano, sono in
Nunzio Gulino, Ricordi 1993 - Acquaforte
un posto con centoventi persone
Proprietà Comune di Cocquio.
che vengono a chiedermi di fargli
veder il mio piede miracolato. Ma adesso veramente dove sono? Dove siamo? Urlo
anche un po’ incazzato. Sto urlando veramente?
Silenzio. Silenzio da brividi. Io non ci sono più. Non sento neppure la mia voce,
è un come avere due contrasti, uno a sinistra e uno a destra, uno con la voce e la sensibilità e uno con il corpo pesante. Mi piacerebbe dirvi com’è bello questo silenzio,
invece sono come un ebete che non capisce, perché entra ancora gente e si siede intorno e mi fissa in fronte. Adesso accendo la musica.
Invece Dio vuole che preghi. Spengo il televisore, è terribile, il televisore sembra
che ti faccia compagnia e invece aumenta i tuoi incubi. Meglio il letto, torno di là sul
mio catafalco di ciliegio e coperte, mia moglie naturalmente non si è accorta della
mia momentanea sparizione. (Allora non ho gridato?) Niente programmi demenziali su chi l’ha visto, lei giace tutta raggomitolata come se difendesse il grembo.
Mi metto orizzontale, allungo una mano e le faccio una carezza sull’anca. Sento
la sua cresta iliaca sinistra. Lei si muove, ma non si gira. E mentre sto per addormentarmi sento il mio piede sinistro “toccato” da quello di mia moglie.
Dino Azzalin
care la meta affaticato (quel giusto), ma
soprattutto sudato, affinché appaia benefico il getto d’acqua che, sgorgando
dalla borraccia, si spande in rivoli sul mio
volto; se d’estate, anche sui capelli e sulle braccia. Così mi distendo. Lo sto facendo anche ora, che un robusto ma non
violento vento settembrino mi ha condotto quassù, a tratti appesantendomi la
pedalata, a volte facilitandola. Sono giunto al piazzale che è quasi mezzogiorno.
Non c’è nessuno. Fermo il cronometro:
quarantasette minuti primi, quaranta minuti secondi. Bene. Compio un paio di
evoluzioni intorno al triangolo in vernice, che contorna la grande H (sempre in
vernice), segnale per l’elicottero, che una
volta sola ho visto atterrare lì. Due circonferenze, sempre più ristrette, poi lascio il mezzo, mi bagno e mi distendo,
cercando il sole, come le lucertole. E oggi c’è, appeso ad un cielo senza foschia,
a tinte forti. Sento il vento che s’arrampica da nord-ovest, struscia sui boschi e
sulle rocce, va a sfrangiarsi contro un arbusto, incastonato fra le ultime pietre
sommitali. Soffia il vento, ma si disperde
verso l’alto, non arriva alla panca.
Morire così, dentro questo fresco mormorìo, nel silenzio, sentendo che la pelle
s’asciuga, le guance, il mento, il naso, infine, ultime, le sopracciglia. Morire così,
con quelle vallate e quei colli, quelle acque e quei boschi che non ho più neppure il bisogno di ammirare, tanto li ho mandati a memoria. Mi costituiscono, ormai.
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Oggi non ho guardato verso ovest, ma
so benissimo che il lago Maggiore avrà
pressappoco lo stesso colore dei boschi,
blu notte lui, verde cupo loro. Siamo ai
primi di settembre, le foglie hanno appena iniziato la policroma metamorfosi, ciò che senz’altro appare è un esteso
manto verde punteggiato di case, raggrumate in paesi che si chiamano Brinzio,
Arcumeggia, Bedero, Castello Cabiaglio,
su e giù sino a Luino, borgo di confine fra
la terra e il lago.
Morire così, ad occhi chiusi aspettando
gli occhi chiusi della fine, senza soffrire:
perché davvero si è già sofferto abbastanza. Con la pace dentro e il bello fuori, un volo d’aliante che accarezza la cupola dell’Osservatorio, i tanti laghi della
pianura, le rocce, le nuvole, i ghiacci a disegnare l’orizzonte lontano.
Davvero vorrei morire così, se dipendesse da me. Adagio adagio, respirando
il vento che sale e si disperde, ad occhi
chiusi, nel buio dei pensieri che tutto
contengono. In alto, dopo aver abbracciato e baciato le mie molte donne, che
in quello stringere forte sospetteranno
un eccesso di romanticismo, e non il mio
saluto più radicale. La pedalata e insieme il sonno, uno sciogliersi dentro il settembre più accogliente. Un addio senza
dolore, disteso sopra il duro della pietra;
un ritorno alla terra, mendicante ai piedi di Dio.
Carlo Zanzi
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