Classi di verbi come categorie naturali

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Classi di verbi come categorie naturali
Cresti, E. (a cura di) Prospettive nello studio del lessico italiano, Atti SILFI 2006. Firenze, FUP: Vol I, pp. 329-334
Classi di verbi come categorie naturali
Roberta Maschi
Università di Padova
Abstract
L’evoluzione della morfologia flessiva romanza evidenzia alcuni gruppi lessicali, connotandoli come classi a sé stanti nel sistema
verbale. Ci riferiamo in particolare ai verbi fortemente irregolari, come ‘dare’, ‘stare’, ‘fare’, ‘dire’, ‘andare’, ‘essere’, ‘avere’,
generalmente accomunati da fattori fonologici, proprietà semantiche e proprietà sintattiche. Oltre a tali caratteristiche comuni, il
cambiamento morfologico che li riguarda ne accentua ulteriormente la solidarietà. Sono in particolare i fenomeni analogici ad
evidenziarne il carattere di categoria naturale. Lo studio delle categorie naturali prende avvio da Wittgenstein, e viene
successivamente sviluppato sul versante psicolinguistico, ma trae un forte impulso da ricerche linguistiche volte a dimostrare che i
principi cognitivi alla base delle categorie naturali sono anche alla base delle categorie linguistiche. In questo lavoro intendiamo
mostrare l’applicabilità della nozione di categoria naturale ai nostri gruppi di verbi. Attraverso l’analisi dei processi analogici che li
coinvolgono, noteremo come la diffusione di un cambiamento all’interno di un gruppo avvenga secondo le modalità proprie, appunto,
di una categoria naturale: un morfema si può estendere a partire dal verbo-prototipo verso gli altri membri, che a loro volta possono
fungere da prototipo in altri processi. Emergerà il ruolo fondamentale svolto dalla similarità fonologica nella costituzione di classi
naturali di verbi.
1. Introduzione
Nel tentativo di individuare una logica del
cambiamento analogico, ci siamo resi conto che questo
tipo di processo cattura e riunisce, in modo ricorrente,
certi gruppi di verbi piuttosto che altri. Alcune teorie sugli
schemi associativi attivati dalla mente dei parlanti ci
aiutano a capire l’andamento di tale processo; ovviamente
non pretendiamo con questo di spiegare il perché
dell’analogia, ma almeno di fornire qualche spunto per
comprenderne meglio il funzionamento. Approfondiremo
quindi i possibili motivi alla base del costituirsi di una
classe di verbi, se così si può definire, considerando come
un processo cognitivo molto generale (la categorizzazione
degli oggetti del reale) possa essere applicato a oggetti
specificamente linguistici (la morfologia).
2. Dalla lingua al parlante
I processi analogici sono riconducibili a diverse
tipologie, a seconda delle loro origini, svolgimento ed
effetti. Pur nella loro varietà però, tutti questi fenomeni
hanno un denominatore comune: sono innescati da
rapporti paradigmatici.
Nel senso saussuriano del termine, i rapporti
paradigmatici sono rapporti associativi che si instaurano
nella mente del parlante in base al SIGNIFICATO
(appartenenza dei termini coinvolti ad una stessa sfera
semantica), e/o in base alla FORMA. L’analogia, quindi, va
considerata, prima che un fenomeno linguistico, un
meccanismo mentale. Proveremo perciò a centrare
l’analisi sul processo associativo che determina il
fenomeno analogico. L’idea di fondo è che i principi
cognitivi secondo i quali organizziamo la nostra
percezione della realtà si riflettono anche nel nostro
comportamento linguistico: quindi, i parlanti di una
lingua naturale formano categorizzazioni di oggetti
linguistici allo stesso modo in cui formano
categorizzazioni di oggetti naturali e culturali (Bybee e
Moder, 1983; Lazzeroni, 1995). Lo studio delle categorie
naturali prende avvio dal Wittgenstein delle Ricerche
filosofiche, e viene successivamente sviluppato sul
versante psicolinguistico (cfr. i lavori di Eleanor Rosch,
George Lakoff, John R. Taylor), ma trae un forte impulso
proprio da ricerche linguistiche (di Bybee et al.) volte a
dimostrare che i principi cognitivi alla base delle categorie
naturali sono anche alla base delle categorie linguistiche.
Esaminandoli attentamente si vedrà non qualcosa di comune
a tutti, bensì una serie di somiglianze e connessioni
sussistenti fra essi. [...] si guardino, ad esempio, i giochi
sulla scacchiera, con tutte le loro molteplici affinità. E poi si
passi a considerare i giochi di carte: vi si troveranno molte
corrispondenze con quelli dell’altra classe; ma diversi
TRATTI che questi avevano in comune risulteranno mancanti,
mentre altri consteranno. Passando quindi ai giochi col
pallone, rimangono ancor meno tratti in comune [...]. E così
noi possiamo vedere, passando da un gruppo di giochi
all’altro [...], come le somiglianze volta per volta emergano
e scompaiano.
Il risultato di questa analisi si può riassumere così: noi
vediamo un complicato RETICOLO DI SIMILITUDINI, che si
sovrappongono e si incrociano. [...] non saprei
caratterizzare meglio queste somiglianze che con il termine
“SOMIGLIANZE DI FAMIGLIA”; infatti, in tal modo irregolare si
sovrappongono e si incrociano le diverse somiglianze
sussistenti fra i membri di una famiglia: altezza, lineamenti,
colore degli occhi, andatura, temperamento, ecc. ecc. Dirò
quindi che i giochi formano una famiglia.
(Wittgenstein, 1953)
L’insieme dei “giochi” costituisce, quindi, una
categoria naturale; consideriamo brevemente un altro
esempio di come la conoscenza della realtà possa essere
organizzata in categorie naturali (da Lazzeroni, 1995):
ƒ la categoria degli uccelli è identificata in base a
certi tratti prototipici scelti arbitrariamente (cioè
culturalmente), come “volare”, “avere le piume”,
“deporre le uova”, e così via. Ma sotto l’iperonimo
uccello riuniamo sia entità che rispondono a tutti
questi tratti (il passero, la rondine), sia entità che ne
posseggono solo alcuni (pensiamo allo struzzo, al
pinguino, al pipistrello...);
ƒ la categoria del verde comprenderà una miriade di
sfumature possibili, e ci saranno dei “verdi
prototipici” percepiti da tutti come tali, mentre altre
tonalità saranno riconosciute da alcune persone (o
culture) come verde, da altri come giallo o come
blu...
Roberta Maschi
Ciò che conta è che noi, per ovvi motivi di economia,
raggruppiamo idealmente gli elementi del nostro vissuto,
della realtà, in categorie.
Quali sono le caratteristiche di queste categorie
naturali? Innanzitutto la SCALARITÀ: le categorie che
organizzano la conoscenza raramente sono individuate da
tratti condivisi in egual misura da tutti i costituenti. Esse
sono piuttosto insiemi ordinati intorno ad un PROTOTIPO,
cioè il membro più rappresentativo della categoria che
riunisce in sé i tratti fondamentali, mentre gli altri membri
possono condividere con il prototipo tutti i tratti o solo
alcuni. Possiamo immaginare la categoria naturale come
un insieme di cerchi concentrici il cui nucleo (il prototipo)
catalizza il maggior numero di attributi prototipici;
allontanandosi via via dal nucleo tali attributi
diminuiscono (e i membri sono sempre meno simili al
prototipo), fino ad arrivare ad una periferia sfumata
contenente membri con un minimo di tratti categoriali. I
membri della periferia, meno fortemente legati dalla
somiglianza col prototipo, sono più facilmente esposti ad
eventuali forze di attrazione di altre categorie con cui
condividono dei tratti, e suscettibili, perciò, di essere
ascritti all’una o all’altra categoria. Ad es. il pipistrello,
costituente periferico della categoria dei volatili, può
entrare nella categoria dei topi, come ci indica il nome
stesso in certe lingue: ted. Fledermaus, fr. chauve-souris,
port. morcego; il colore che noi denominiamo verdeacqua, a seconda del contesto culturale o della percezione,
può rientrare nella categoria del verde, oppure in quella
contigua del blu. Notiamo già come questo modo di
organizzare la realtà possa avere delle ripercussioni dirette
sul lessico; è meno evidente, invece, il parallelismo tra
categorie naturali e linguistiche.
3. Dalle
unità
morfologiche
lessicali
alle
unità
Gli esempi tratti dal lessico, come abbiamo visto, sono
particolarmente illuminanti perché illustrano in modo
macroscopico il funzionamento e la natura di queste
categorie (nella trasposizione dal piano della realtà al
piano della lingua).
Ma come le unità lessicali, così anche certe unità
morfologiche possono riflettere la costituzione mentale di
categorie naturali: si tratta ancora di rapporti associativi
stabiliti sul piano del SIGNIFICATO.
Ad esempio, i nomi con l’aggiunta di suffissi valutativi
acquisiscono dei tratti semantici prototipici rispetto alla
categoria di appartenenza del suffisso stesso (omino
[+diminut.], omone [+accresc.]...); ma tali suffissi spesso
comportano anche dei tratti periferici rispetto alla
categoria che, in determinati contesti o con certe basi
lessicali, possono prevalere provocando un cambiamento
di categoria del nome suffissato. Ad es., il suffisso -ino
conferisce principalmente un tratto [+diminutivo], ma
anche un tratto [+affettivo], che fa sì che spesso un nome
con suffisso diminutivo sia ascrivibile piuttosto alla
categoria dei vezzeggiativi (micino); oppure i suffissi úcolo e -áccio, tipicamente spregiativi (attorucolo,
donnaccia), possono acquisire valori periferici e
avvicinarsi l’uno alla categoria dei diminutivi
(esamucolo), l’altro a quella degli accrescitivi (esamaccio,
omaccio(ne)), fino a farne parte.
Questi principi sono importanti anche per la linguistica
diacronica: le intersezioni tra categorie potrebbero essere i
punti di crisi di un sistema da cui hanno origine processi
di de- e ristrutturazione. Lazzeroni (1995) sostiene, ad
esempio, che il sincretismo tra alcune desinenze casuali
dell’indoeuropeo potrebbe essere partito proprio dalla
sovrapposizione tra periferie delle categorie rappresentate
dai casi (es.: strumentale andare col carro / locativo
andare sul carro, in cui strumento e luogo di
identificano)1.
Ci sembra quindi di poter affermare che come
mentalmente, per motivi di economia, riuniamo e
organizziamo gli elementi del nostro vissuto in categorie
in base a caratteristiche, o tratti, condivisi anche solo in
parte dai membri, in maniera del tutto simile talvolta
riuniamo ed organizziamo in categorie anche elementi
linguistici (lessemi o morfemi) dotati di significato.
Ora si tratta di verificare se il modello delle categorie
naturali possa essere applicato alle unità morfologiche in
quanto SIGNIFICANTI: è plausibile, cioè, supporre che i
parlanti riuniscano in classi alcuni elementi linguistici
sulla base di tratti anche solo formali?
Se così fosse, un’associazione di questo tipo potrebbe
costituire uno dei possibili presupposti all’azione
analogica: perciò, l’analisi di alcune estensioni analogiche
e del meccanismo associativo alla base di queste potrebbe
rivelare se l’associazione tra i partecipanti all’analogia
viene attuata per motivi semantici e/o formali-fonologici.
4. Dal contenuto alla forma
Compiendo un passaggio ulteriore e fondamentale,
vogliamo dimostrare che le unità morfologiche possono
organizzarsi in categorie naturali non solo in base al loro
significato, ma anche in base alla forma e
indipendentemente dal significato.
Se la somiglianza superficiale tra forme balza
all’evidenza, non è altrettanto evidente che forme simili,
ma dal significato non collegato, possano costituire
categorie naturali nel senso che abbiamo visto. Non
possiamo, quindi, limitarci a delle constatazioni (come nel
caso dei significati), ma dobbiamo ricorrere allo studio di
situazioni dinamiche come l’acquisizione, esperimenti
psicolinguistici e cambiamenti diacronici.
5. Costituzione di un nuovo modello di
regolarità
L’espansione di un’innovazione che, a partire da una o
poche forme, arriva ad estendersi, ad esempio, ad
un’intera coniugazione (o addirittura a tutti i verbi) è, il
più delle volte, difficilmente osservabile nel suo percorso:
1
Questo processo è descritto da Calabrese (2003, ms.) in termini
di cambiamento del valore dei tratti: quando in una lingua la
condizione di marcatezza che definisce i valori di un caso viene
attivata, per cui una certa configurazione di tratti viene esclusa
da quel sistema, per poter esprimere lo stesso significato la
lingua fa ricorso ad un’operazione di riparazione che consiste,
appunto, nel cambiare il valore di un tratto. In pratica, lo stesso
concetto sarà espresso con la marca morfologica della categoria
(del caso) contigua, con la quale il caso soppresso condivideva,
in partenza, almeno un tratto (contiguità tra categorie =
condivisione di tratti).
Classi di verbi come categorie naturali
una sequenza fonologica assunta come morfema
regolarizzante presenta, di solito, di una espansione
relativamente rapida. Tale rapidità rende difficoltoso
osservare, a posteriori, quali tappe ha seguito, o se ci sono
state delle tappe paragonabili alle modalità di espansione
delle categorie naturali. Il problema maggiore è la
documentazione: nei testi spesso le fasi dell’espansione
possono risultare compresse. Ciò che possiamo fare,
quindi, è stabilire il nucleo originario di un’innovazione, e
la “classe naturale” che questo nucleo raccoglie intorno a
sé; nel caso si tratti di un verbo ad alta frequenza, l’ipotesi
sarà quella che l’innovazione sia accolta innanzitutto dai
verbi ad esso più strettamente collegati, prima di passare
ad una generalità di casi (l’ipotesi è talvolta corroborata da
cambiamenti con fasi dilatate nel tempo, oppure
dall’analisi comparata di più varietà, come vedremo).
5.1.
I verbi ad alta frequenza d’uso
All’interno dei sistemi verbali, un’eventuale
associazione tra paradigmi di forma simile può acquistare
una forza tale da innescare processi analogici
interparadigmatici. Gruppi di verbi si trovano così a
rappresentare, nella mente del parlante, una categoria, o
classe naturale. Molti mutamenti morfologici prendono
avvio da uno o più verbi fortemente irregolari (‘andare’,
‘dare’, ‘stare’, ‘fare’, ‘dire’, ‘essere’ e ‘avere’, ‘sapere’), e
spesso il processo estensivo coinvolge proprio i membri di
questo insieme, che si vengono così a configurare come
una classe. Essi rappresentano un gruppo a sé all’interno
dei sistemi verbali un po’ in tutto il dominio romanzo.
Sono infatti accomunati da fattori fonologici (alcuni
dall’atematicità, e comunque da strutture particolari, con
“radicali esili”), e da proprietà di tipo semantico e
sintattico (fanno parte del lessico di base e, di
conseguenza, sono esposti ad un’alta frequenza d’uso e ad
una precoce acquisizione); sul versante sintattico, alcuni
sono implicati nella formazione delle perifrasi romanze,
oltre che dei nuovi tempi analitici sostituitisi a quelli
sintetici del latino (già in latino ricoprivano speciali ruoli
sintattici)2. Ciò favorisce una forte solidarietà nel
comportamento morfologico di questo gruppo (o di
sottoparti di esso), tale talvolta da espandersi oltre i
confini del gruppo stesso, secondo meccanismi che ben si
prestano ad essere descritti dal modello delle categorie
naturali. Tutto questo ci porterebbe a pensare che, nel caso
dei verbi fortemente irregolari, non siamo di fronte ad una
classe naturale costituita sul solo criterio formale, e da una
parte è così: i legami tra questi verbi vanno ben al di là di
una semplice similarità fonologica.
Però vorremmo far notare anche che all’interno del
gruppo si formano sottogruppi di due o tre verbi più
strettamente associati. Lo dimostrano evoluzioni
morfofonologiche comuni e il fatto che certe innovazioni
abbiano un’origine rintracciabile proprio in tali
sottogruppi, che sono: ‘stare’-‘dare’-(‘andare’); ‘dire’‘fare’; ‘avere’-‘sapere’.
La formazione proprio di questi sottogruppi è
giustificabile solo su base fonologica. Ciò emerge con
maggior evidenza nelle lingue in cui l’evoluzione
fonologica ha reso molto similari certi membri del gruppo;
ad es., ‘avere’ e ‘sapere’ in veneto ((g)aver(e), saver(e):
cfr. pres. cong. sapia, ‘sappia’ > gapia, ‘abbia’). Inoltre, a
livello linguospecifico, a questi verbi se ne vengono ad
aggregare altri che non hanno le stesse caratteristiche di
frequenza d’uso o di basicità semantica, ma che per
evoluzione fonologica hanno acquisito una somiglianza
formale con gli irregolari tale da renderli suscettibili anche
di un destino morfotattico comune (ad es., ‘trarre’ in area
iberica).
Fra i numerosi casi di analogia che riguardano questi
verbi irregolari in quanto fonte e oggetto del processo, ne
scegliamo uno che mostri, nella variazione areale, la
progressiva estensione nel lessico di un elemento velare in
un tema del verbo. Nella Tab. 1 possiamo osservare la
prima persona del pres. ind. (per brevità abbiamo omesso
il congiuntivo) del verbo ‘dire’ e la classe naturale che si
costituisce intorno a questo verbo, a partire dagli
irregolari: ‘dare’, ‘stare’, ‘andare’ sono i primi (e talvolta i
soli) a subire il cambiamento (veneto, emiliano,
altamurano); seguono ‘avere’ (umbro), ‘sapere’ (lucano),
‘essere’ e ‘stare’ (aragonese), ‘vedere’ (provenzale,
tarantino), e addirittura tutti i verbi nel barese (la
microvariazione areale delle varietà pugliesi basterebbe
già da sola ad esemplificare l’andamento di questo
processo)3.
La modalità di espansione della categoria naturale
secondo la teoria prototipica ci dà lo strumento per
avanzare
delle
previsioni
sulle
aggregazioni
paradigmatiche possibili in una lingua. Ad esempio, se in
una varietà incontriamo forme in velare per ‘ho’, ‘so’, o
‘vedo’, dobbiamo aspettarci di ritrovarle almeno in ‘do’,
‘sto’ e ‘vado’.
LATINO
ARCHETIPI
(tema con velare etim.)
Ital. dico
Ven. digo, (fago)
Emil. Dig, fag
Umbro (Terni) diko
DICO,
DICAM
(*FACO,
*FACAM)
DO
STO
VADO
Lucano dig, fag
Aragonese (Azanuy)
digo, fago
Provenzale (Castillon)
digu, fagu
Altamura dik
Taranto diku
Bari dik´
VERBI ACQUISITI
(tema con velare analogica)
/
Ven. dago, stago, vago
Emil. Dag, stag, vag
Umbro (Terni) dako, stako,
vako, ako
Luc.: zag, ‘so’, stag, dag, vag
Aragonese (Azanuy): vaigo,
sigo, ‘sono’, estigo
Provenzale (Castillon): stagu,
vagu, vegu, ‘vedo’
Altamura: stOuk, dOuk, wOuk
Taranto: stoku, voku, doku, veku
Bari: pass´k´, ‘passo’, perd´k´,
‘perdo’, cad´k´, ‘cado’,
dorm´k´, ‘dormo’, fazz´k´,
‘faccio’, vok´,‘vado’
Tabella 1: estensione del tema in velare da DICO
2
Il processo di grammaticalizzazione li sottopone ad un'usura
semantica tale da tradursi spesso in usura fonetica e nella
creazione di una flessione funzionale parallela alla flessione in
cui il verbo si riappropria del significato lessicale pieno.
3
I dati sono ricavati dall’AIS e da studi e grammatiche citati in
bibliografia.
Roberta Maschi
5.1.1. Participi forti italiani in -stConsideriamo ora un caso che coinvolge verbi
apparentemente senza alcuna relazione: i verbi italiani di
II coniugazione con participio forte in -sto. Gli archetipi4
sono chiesto < QUAES(I)TUM e posto < POS(I)TUM. Da
questi participi fonologicamente regolari la sequenza -st-,
reinterpretata come morfema participiale5, si estese al
participio di altri verbi, sostituendo o affiancando le forme
etimologiche: visto6, nascosto, rimasto, risposto...
Nel fiorentino del ’200 possiamo notare l’innovazione
nella sua fase iniziale: una ricerca nella base dati
dell’Opera del Vocabolario Italiano7 ci rivela che, rispetto
a (n)ascoso, si riscontrano ancora poche occorrenze di
nascosto, ascosto; visto è in assoluta minoranza (poco più
di una decina di occorrenze) rispetto alla forma
regolarizzata veduto (più di un centinaio), e per le prime
occorrenze di rimasto dobbiamo inoltrarci ben oltre il
1300 (nel ’200 abbiamo solo rimaso); risposto invece è
già in netta maggioranza su risposo8.
Ma se confrontiamo i verbi che anche attualmente
hanno questo participio, vedremo che ciò che li accomuna
sono delle somiglianze formali, distribuite nel paradigma:
notiamo in particolare la consonante finale del tema del
presente, sempre dentale, che in italiano ha spesso un
legame ben preciso con la formazione del perfetto forte,
quasi sempre sigmatico, e del participio forte.
Abbiamo inserito nella Tab. 2 una riga in cui figurano
alcune nuove potenziali acquisizioni alla classe dei verbi
con participio forte in -st-: si tratta di paradigmi con tema
del presente in consonante dentale e tema del perfetto in s; secondo la teoria prototipica, le forme di participio
asteriscate sono un’ipotesi del tutto plausibile. Ebbene, se
allarghiamo la nostra analisi ai dialetti, scopriamo che
alcune di queste forme esistono, o sono esistite!
Es.: chiusto a Montale, ant. lomb. cresto, march. misto
/mesto, ant. senese risto (‘riso’).
Riepilogando quanto è avvenuto, data una sequenza
etimologica -st- reinterpretata come morfema participiale,
le vie possibili (oltre alla regolarizzazione del participio)9
erano:
ƒ far rientrare il participio passato in -sto in uno dei
due modelli disponibili di participio forte, nella
fattispecie il participio in -so (per parallelismo con
un altro gruppo di verbi con tema del pres. in
4
Per archetipo intendiamo il prototipo di una categoria
diacronicamente definito.
5
Del resto i morfemi participiali forti a disposizione erano -s- e t-, quindi un morfema -st- non poteva che far guadagnare in
iconicità, riunendo in sé due esponenti del passato.
6
Per visto c’è chi presuppone un volgare *VIS(I)TU al posto di
VISU, forse influenzato dall’iterativo VISITARE.
7
Disponibile in rete al sito www.csovi.fi.cnr.it.
8
Ciò non ci stupisce: a causa della somiglianza di certe celle del
‘rispondere’
viene
reinterpretato
come
paradigma,
pseudocomposto di ‘porre’ (perfetto: ris-posi - posi).
9
In realtà nei testi toscani, o di influsso toscano, abbiamo
rinvenuto solo sporadiche occorrenze di questi participi
regolarizzati: nella base dati OVI si registrano le forme chieduto,
risponduto, ascondutto, permanuti, rimanuta.
dentale, tema del perf. e participio in -s).
Ovviamente possono essere coinvolti in questa
“normalizzazione” non solo gli archetipi, ma anche
gli altri membri più o meno assidui della classe, ad
es.: chieso, poso, creso ‘creduto’ (Jacopone 1300;
Anonimo romano, Cronica 1400), viso, miso (fior.
sec. XIII)10;
ƒ rafforzare l’alternanza morfofonologica presente in
dentale - perfetto forte sigmatico - part. pass. in –
sto estendendola ad altri verbi similari, e formando
una microclasse idiosincratica (come in italiano e
in alcuni dialetti, in cui la microclasse è più estesa).
Un altro esempio: il participio di ‘parere’ e composti
(ap-, (s)com-parire...), attualmente di tipo forte ((-)parso),
presenta in italiano antico la sola formazione debole:
apparito; apparuto; paruto, ecc.
La BT pars- è stata successivamente acquisita da
questo verbo proprio sulla base di un’associazione formale
con altri verbi di II con. con presente in -rr- o -rd- (part.
morso, corso, arso...), e trasferita anche ai composti di III
con. (ma non tutti: sparito, trasparito) e al perfetto
(apparve > apparse; nel fiorentino del sec. XIII si registra
solo quello etimologico con tema parv-).
PERFETTO FORTE
TEMA DEL
PARTICIPIO PASSATO
PRESENTE
ChiedPonVedRimanNascondRispondUccidChiudCredRidMett-
Verbi originari
Chiesi
Chiesto
Posi
Posto
Verbi acquisiti
(vidi)
Veduto / visto
rimasi
Rimaso > rimasto
nascosi
Nascoso > nascosto
risposi
Risposo > risposto
Potenziali acquisizioni?
Uccisi
Ucciso > *uccisto
Chiusi
Chiuso > *chiusto
(credei)
Creduto > *cresto
risi
Riso > *risto
misi
Messo > *mesto
Tabella 2: verbi italiani con participio forte in -sto
6. Conclusioni
Le associazioni tra elementi linguistici possono
verificarsi, quindi, non solo sul piano semantico (per
appartenenza ad uno stesso campo semantico, similarità,
opposizione...), ma anche sul piano fonologico (per
condivisione di segmenti nella stessa posizione, per rima
prosodica, isosillabismo, condivisione dello schema
accentuale...)11.
10
Si tratta di opzioni non solo registrate in testi antichi, ma
tuttora vive nelle varietà dialettali. Per alcuni di questi participi
abbiamo rinvenuto anche forme in -to: lomb. creto ‘creduto’
(Bonvesin, 1280; frequente anche in testi veneti del ’300),
veneto sconto ‘nascosto’.
11
A questo proposito segnaliamo lo studio di Kilani Schoch e
Dressler (2002) sulle affinità fonologiche nell’organizzazione
della morfologia statica nella flessione verbale francese (per
Classi di verbi come categorie naturali
Queste associazioni vengono definite nei lavori di
Bybee schemi associativi che facilitano l’accesso al
lessico. Tali schemi rappresentano per noi una
trasposizione sul piano linguistico delle categorie
naturali12. La loro coesione interna13 determina la forza
degli schemi associativi stessi, che equivale per noi alla
probabilità di estendersi innescando un processo di natura
analogica. Quindi, a partire da una o da poche unità
lessicali prototipiche, possono propagarsi delle
innovazioni ad altre unità associate con i prototipi da una
similarità anche solo formale. Ciascuna delle unità della
categoria inoltre può, a sua volta, fungere da prototipo per
altre, contribuendo all’espansione dell’innovazione.
Concludiamo citando Lazzeroni:
La diffusione lessicale di un mutamento morfologico non è
un processo caotico, ma ordinato secondo i ritmi o i modi
dell’espandersi delle categorie naturali: segue un percorso
cognitivo riconoscibile.
(Lazzeroni, 1995)
7. Riferimenti
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Fanciullo, F. (1998). Per una interpretazione dei verbi
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“morfologia statica” si intende l’insieme delle forme irregolari e
improduttive, immagazzinate tali e quali, secondo gli autori, nel
lessico mentale; è complementare alla “morfologia dinamica”
che raccoglie, invece, la flessione produttiva). Lo studio rivela
l’importanza delle relazioni di similarità fonologica organizzate,
per il francese, intorno alla rima prosodica.
12
Bybee in altri lavori definisce schema anche quello che nella
categoria naturale è il prototipo, cioè un’astrazione
(esemplificata concretamente da un membro) da un insieme di
forme lessicali esistenti, delle quali contiene e riassume i tratti
più ricorrenti nella loro posizione di occorrenza (Bybee, 1988).
13
Definita da Bybee (1988) in termini di fattori come la
connessione lessicale, la forza lessicale e l’indice di probabilità.
Italiano, 83, pp. 188-239.
Giralt Latorre, J. (1992-93). El paradigma verbal de
presente en el habla de Azanuy. Archivio de Filología
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