25 - Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Transcript

25 - Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica
Jacques e i suoi quaderni 25
Periodico semestrale, registrato presso il
Tribunale di Pisa il 3 settembre 1983, n° 16.
Direttore responsabile: Enrico De Angelis
Redazione: Marianne Hepp
……………………………………
Numero 25, 1995
© 1995, Jacques e i suoi quaderni
2
Jacques e i suoi quaderni
________________________________________________________
Enrico De Angelis
Dal mito al progetto
Note su Adalbert Stifter
1995 25
3
4
Indice
p.
Avvertenza
7
Premessa
9
Parte prima
[Studi (Studien)]
11
Il tempo storico-mitico
13
Continuità e frattura
33
Il progetto, il futuro
47
Parte seconda
[Pietre variopinte (Bunte Steine)]
67
Prefazione
71
Un residuo fra due sistemi
77
Granito
85
Pietra calcarea
87
Cristallo di rocca
103
Tormalina
107
Conclusione
113
Appendice
I nomi dell’io (Der Nachsommer)
119
Tour de force e sfida ai tempi (Witiko)
131
5
6
Avvertenza
Tutte le indicazioni di pagina rinviano alle opere di Adalbert Stifter pubblicate dal Winkler Verlag di Monaco di Baviera (1966 sgg.). Ecco i titoli
dei volumi in ordine alfabetico:
Bunte Steine und Erzählungen (s.d.)
[Pietre variopinte e racconti]
Di Bunte Steine è analizzato:
Vorrede [Prefazione] (pp.7-14)
Granit [Granito] (pp.17-52)
Kalkstein [Pietra calcarea] (pp.53-116)
Turmalin [Tormalina] (pp.117-158)
Bergkristall [Cristallo di rocca] (pp.159-210)
Degli altri racconti:
Der Waldgänger [Il viandante nel bosco] (pp.355-448)
Prokopus [Procopio] (pp.455-516)
Die Mappe meines Urgroßvaters.
Schilderungen. Briefe. (1979)
[Le carte del mio bisnonno.
Descrizioni. Lettere]
(A questo volume è stato fatto riferimento solo per le lettere)
Der Nachsommer (1979)
[Tarda estate]
Studien (1966)
[Studi]
(ne vengono analizzati i seguenti racconti:
Der Hochwald [La fustaia] (pp.181-276)
Die Narrenburg [Il castello dei pazzi] (pp.277-380)
Die Mappe meines Urgroßvaters [Le carte del mio bisnonno] (pp.381-578)
7
Abdias [Abdia] (pp.579-673)
Der Hagestolz [Lo scapolo] (pp.793-910)
Witiko (1967)
Dei testi di Stifter esistono varie traduzioni italiane, spesso ottimamente
riuscite. Non ne è stato fatto uso, se non saltuariamente e liberamente (e
quindi senza che ciò comporti un giudizio negativo sul loro valore).
Mi è gradito dichiarare che il primo stimolo alle presenti pagine mi venne
da un seminario tenuto a Pisa nel febbraio 1984 da Horst Albert Glaser,
di cui ricordo l’opera che segnò una svolta nella critica stifteriana:
Horst Albert GLASER, Die Restauration der Schönen. Stifters „Nachsommer”,
J.B.Metzlersche Verlagsbuchhandlung, Stuttgart 1965.
8
Premessa
Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio 1868 Adalbert Stifter, già infermo da
tempo, si vibra una rasoiata alla gola. La moglie, che l’aveva lasciato solo,
lo trova rantolante e fuori conoscenza in mezzo a un lago di sangue. La
morte avverrà due giorni dopo, senza che l’agonizzante abbia ripreso conoscenza. Sul certificato di morte, il medico ne attribuisce la causa a
«febbre etica»; si tenta in tutti i modi di nascondere il suicidio, dirottando
l’attenzione verso la cirrosi epatica, l’atrofia, il catarro e tutto il resto di
cui Stifter da anni soffriva. E così al momento della morte si replicava
una costellazione schizofrenica quale l’aveva accompagnato in vita.
A Oberplan (nella Boemia allora austriaca) da un modestissimo commerciante di lino che morrà dodici anni dopo, nasce l’autore il 23 ottobre
1805. Così dicono i documenti; non però le dichiarazioni autobiografiche, che promuovono la data a 1806, così da rimuovere i due soli mesi
che erano intercorsi tra le nozze dei genitori e quella nascita.
Otto anni Stifter li passa nell’abbazia benedettina di Kremsmünster,
allievo modello nella cui opera non si avvertirà traccia confessionale. A
21 anni s’iscrive alla facoltà di Legge di Vienna, frequentando però non
le lezioni di diritto ma quelle di matematica e scienze naturali, studiacchiando poi per conto suo un po’ di filosofia, storia e fisica. Soprattutto
dipinge, legge Goethe e Hartmann, si entusiasma di Jean Paul.
Si innamora di Fanny Greipel; è vero che né la famiglia di lei (ricchi
commercianti) né lei stessa sembrano tanto convinte. Comunque Stifter
rifiuta di farsi una posizione (il che l’avrebbe potentemente aiutato nel
suo corteggiamento) “dimenticando” di sostenere una prova orale per
avere un posto all’università di Praga, dopo che aveva superato la prova
scritta. E mentre invia a Fanny lettere e versi, conosce una modista di
nome Amalia Mohaupt; con Fanny era l’amore angelico, con Amalia finalmente c’è il sesso (ci sarà - pare - anche una figlia prima del matrimonio, morta dopo poche settimane; e poi gli Stifter non avranno più figli).
Amalia, gelida, dura e ignorante, si scatenerà nel consumismo appena potrà, asseconderà il marito nella pedanteria ... e lo aiuterà a precipitarsi nei
debiti. Fanny dunque è scomparsa dalla scena e Stifter sposa Amalia; i
due adottano una serie di “figlie”, parenti di lei o presunte parenti di lui.
In realtà vengono trattate da serve e ne muoiono tre, una dopo l’altra; la
prima di loro, suicida dopo una vita di oppressione. L’aveva in qualche
9
modo preceduta una sorella di Amalia, che inizialmente viveva coi due
coniugi e che i due avevano fatto morire da sola all’ospizio, senza poi neanche presentarsi al funerale.
I rapporti tra marito e moglie non sono meno schizofrenici: Stifter
sopporta la moglie come un gran peso, ma non può farne a meno. Si lamenta quando lei è lontana (e lei gli risponde, in lettere che sono tutte
una sgrammaticatura, di mandarle i soldi per il viaggio invece di far tanto
il poeta); e poi scappa di notte (letteralmente) quando lei si avvicina troppo. E i rapporti con la madre? A credergli, la ama sopra ogni cosa, ma
nei lunghi anni in cui abitano vicini non va mai a trovarla; e in Granito ne
fa un ritratto gelido. Nel racconto Il villaggio nella landa erige un monumento alla propria nonna; ma il ricordo che ne dà nel frammento autobiografico, sotto forma di complimento, offre il ritratto di una sadica.
Si potrebbe continuare così per un pezzo: recita la parte del borghese
ben pasciuto (mangia fino a diventare così grasso da occupare, a braccetto della moglie, tutta la scala che un entusiasta, ignaro lettore sale a quattro a quattro per un appuntamento col prediletto descrittore di vaghe silfidi) ma è querulo appena può. Non è mai riuscito a concludere gli studi
ma recita la parte del gran didatta. È reazionario e nazionalista, ma progetta di scrivere un romanzo sull’ammirato Robespierre. Vive vent’anni a
Vienna, ma di nessuna città c’è traccia nelle sue opere di livello. E per di
più la cosa non gli serve nemmeno un po’ a sprovincializzarsi.
Ma questo provinciale logorroico e montato, questo nevrotico modello ha creato fra i maggiori capolavori nella letteratura europea del suo
tempo e non solo del suo. Egli - come altri autori di quella fase che nella
letteratura tedesca va sotto il nome di Biedermeier - basa la sua forza sul
concetto di scissione: un mondo ordinato, tutto ben assestato, immobilizzato, gerarchizzato, insomma idillico, nasconde abissi; anzi non semplicemente li nasconde: l’abisso è piuttosto la sua vera struttura.
Come è noto, proprio questa sarà una delle scoperte cruciali della filosofia nietzscheana; e lo sguardo che la scopre (teorizzerà Nietzsche) è lo
sguardo del malato.
Ma, accanto a ciò, in Stifter come in Nietzsche l’aspetto illuminista
sopravvive e si rinvigorisce. Per cui in definitiva la schizofrenia si rivela
come un troppo lento (o addirittura impossibile) tradurre nella prassi
quel che in teoria appare più che digerito. La sfasatura fra i due piani è la
vera malattia mortale di Stifter
10
Parte prima
(Studien)
11
12
Il tempo storico-mitico
Vent’anni dopo aver scritto La fustaia [Der Hochwald] Stifter si vide indotto a un’autocritica che riguardava il rapporto di quella novella con la
storia. Il passo, spesso citato, è il seguente:
Nella Fustaia, da giovanotto sventato, sono stato sbrigativo con la storia
e l’ho pigiata nei cassetti della mia fantasia. Ora quasi mi vergogno di
quel comportamento infantile.
(a Gustav Heckenast, 1861)
Questa autocritica cade nel tempo in cui Stifter lavorava al Witiko. Alla
lettera, essa suona come un richiamo alla fedeltà storica. In realtà fra La
fustaia e Witiko è intervenuto un cambiamento ben maggiore, che investe
tutto il concetto di storia in primo luogo, e poi di spazio, di tempo e di
punto di vista. Più o meno una rivoluzione. Pertanto il giudizio di Stifter
stesso, che ho appena riportato, è fuorviante oltre che riduttivo. In termini veri il problema può essere presentato così: come si passa da una
fuga nei confronti della storia a un attivo inserimento in essa. Tale presentazione è ancora grezza sia perché non enuncia tutti i termini del problema (pur cogliendone il nucleo) sia soprattutto perché nella prima parte va sfumata. Ma è compito delle pagine seguenti dimostrare e precisare.
Un evento storico richiede delle date. Ma chi volesse prendersi la briga di precisare il calendario della Fustaia si troverebbe in un bell’impiccio:
stabilirlo è infatti semplicemente impossibile. Il lettore è pregato di non
infastidirsi subito a quello che gli parrà un gioco inutile. Si tratta infatti di
precisare per quali vie Stifter arrivi alla cancellazione di contorni precisi
nel tempo. La narrazione si svolge su più piani temporali. Uno è l’“oggi”;
prendiamo alla lettera la data indicata nelle Studien e datiamo dunque
quell’“oggi” al 1841. Poi c’è il nucleo principale del racconto che viene
raggiunto andando «indietro di due secoli» (188). Questo salto all’indietro
viene all’inizio datato solo in maniera approssimativa: siamo all’«epoca
della guerra dei Trent’anni» (ivi). E ci sono tutti i motivi per restare così
nel vago (li vedremo altrove); poiché però per un calendario è comodo
avere una data e poiché il testo dà più in là un punto di riferimento preciso, cedo alla pignoleria indicando il 1641 come data dell’evento principale (si cita infatti Torstensohn [255] come comandante dell’esercito svede13
se, il che ci porta appunto all’anno detto); dunque quel salto indietro di
due secoli è da intendere alla lettera. Poi ci sono i fatti narrati da Ronald,
cioè l’innamoramento suo e di Clarissa, i suoi viaggi a Parigi («quella scintillante città [248] [...] in Francia», 246) e in America («nella nuova terra
[246] [...] al di là del gran mare rilucente», ivi e 250), che devono essere
durati un bel po’ perché al ritorno trovò il padre «morto da lungo tempo»
(250); poi c’è stato l’anno, «un lento anno faticoso» (248, 250), in cui ha
combattuto per non diventare re di Svezia: precedentemente c’erano stati
i mesi interi in cui, lasciata Clarissa (248), Ronald aveva vagato per i boschi; dopodiché aveva incontrato Gregor (252) e deve esserci rimasto insieme a lungo. Tutto questo dà un insieme di «anni» (249, 252). Non è
detto quanti (250). Si sa però che nei mesi in cui Ronald aveva soggiornato nel castello di Wittinghausen Clarissa era ancora una «bimba». Ora di
Johanna sappiamo che ha forse sedici anni (189) e che è il momento in
cui si trasforma da bimba in donna (252). Di Clarissa non ci viene mai
detta l’età, solo che è maggiore di Johanna. Non si può arrivare a una datazione precisa; però se mettiamo insieme tutto concludiamo - forzando
il testo - che all’inizio della vicenda Clarissa doveva essere più giovane di
quanto non sia ora Johanna, quindi aver non più di quattordici o quindici
anni. Sappiamo infine che la madre è morta da dieci anni (195) e che a
suo tempo Clarissa la dimenticò per Ronald (249); dunque la vicenda
d’amore è cominciata almeno dieci anni prima, verso il 1631, e Clarissa
deve avere ora almeno ventiquattro anni. Ma allora perché viene detta
“bimba” in lungo e in largo per la novella? Una ventiquattrenne non è
bimba oggi, non lo era certo all’epoca di Stifter, figuriamoci poi nel 1641!
Queste imprecisioni, che si notano poco e non disturbano nel racconto di una vicenda amorosa fatta di costanza nel tempo, almeno da parte
di Clarissa (e questo è un punto importante), ci introducono però ad altre
imprecisioni e inesattezze. Il colloquio iniziale tra padre e figlie ha luogo
in estate: ciò viene detto esplicitamente (197). «Tra otto giorni» (196),
promette dapprima il padre, arriveranno da Augusta stoffe e altre cose.
Poi invece, svelata la verità, annuncia che «tra otto giorni» (200) avverrà il
trasferimento delle ragazze sul Blockensteinsee. Non è l’unica contraddizione del padre: aveva detto anche che il cavaliere era stato a caccia nei
boschi per «più di quattro settimane» (197), ma poi si lascia scappare che
è stato assente per «ben tre mesi» (199) a esplorare la selva in lungo e in
largo. Sono contraddizioni che possono trovare una spiegazione realistica: il padre non dice la verità per non spaventare le ragazze, o la dice solo
quando è costretto. Parla poi, in base alle sue informazioni, di passaggio
14
dell’esercito nemico «tra un mese» (199). Comunque il trasferimento delle ragazze avviene in tempo perché esse vedano dal Blockenstein «i campi di grano già maturo» (223). Il che vuol dire che siamo in estate e più
precisamente (dato il clima e la latitudine) in agosto. Il che vuol dire che
la casa, costruita «in quest’estate» (198), è stata fatta con velocità straordinaria. Passano «molte settimane» (227) e ci si avvicina alla fine
dell’estate: come si vede ci sono troppe cose che non tornano. Tanto più
che l’autunno era già arrivato una pagina prima (226).
All’inizio dell’autunno arriva Ronald. (Ma quando arriva esattamente?
Il bracconiere imperversa fin dall’inizio della novella e da mesi il cavaliere
se ne sta informando; è mai possibile che ci si riferisca all’episodio di dieci anni prima?) Una decina di giorni dopo c’è il suo incontro con Clarissa. Ronald parte dicendo che «ora» (255) avverrà il passaggio dell’esercito: dunque la cosa è imminente. Comunque è passato più tempo di quanto il padre delle ragazze non credesse. Tuttavia, partito Ronald, passano
tanti «soli» (258) che ci troviamo nel «tardo autunno» (ivi), anzi nell’«estate di San Martino», «in autunno così inoltrato» (260): dunque siamo
in novembre. Da qui in poi gli avvenimenti si scandiscono con precisione, anche se noi li viviamo su piani temporali staccati: ricostruiremo che
dall’estate di San Martino (dunque dall’11 novembre) passano «più di
quattordici giorni» (262) di nebbia che impediscono alle ragazze di guardare Wittinghausen; e quelli sono i giorni dell’assedio posto al castello
(272). Poi, nel giorno chiaro, il castello sarà nascosto da quello che dovremo dedurre essere il fumo dell’incendio (a quell’ora Ronald è già morto ed è dubbio che Heinrich von Wittinghausen e suo figlio Felix siano
ancora vivi), il giorno dopo ancora, quando le ragazze temono che nel
castello «proprio in quel momento infuriasse un violento tumulto di
guerra e avvenissero fatti che possono spezzare il cuore di un uomo»
(266), in realtà è già successo tutto.
Passano ancora dei giorni (e siamo in dicembre), finché c’è un salto al
novembre, forse dell’anno seguente (269); ma questa frattura nello scorrere del tempo sembra piuttosto fuori del tempo: «Ora sono tutti negli
accampamenti invernali» (271): come se si parlasse dell’inverno appena
seguito all’incendio, il che non è possibile.
E questo è il punto. Queste scansioni temporali in forma di calendario, tutte ricavate dal testo (e avrei potuto essere anche più pignolo), sono tutte ingannevoli. Stifter finge di dare qua e là scansioni temporali
precise (parla di cinque giorni, tre giorni, due settimane di intervallo), ma
esse sono scansioni limitate all’interno di situazioni statiche, irrelate, pe15
renni. Ciò l’ottiene con molti mezzi. Noi leggiamo di un colloquio tra
Clarissa e Johanna (226), del quale ci viene dato uno scheletrico riassunto, come se fosse un atto ripetitivo, non individuato. Infatti si trova in un
contesto in cui si danno esempi di comportamenti di cui si presuppone
che siano ricorrenti. Servono per illustrare la tesi che le ragazze erano
una fiaba per la natura: e infatti, «quando per esempio» passeggiavano e
parlavano e via dicendo, «le si sarebbe potuto ritenere degli elfi del deserto» (225). Tutto ciò è presentato in maniera ben diversa dall’avvenimento
individuato in cui Johanna si trova faccia a faccia con un cervo, «già il
primo giorno dopo l’arrivo» (221). E invece scopriamo che quella serie di
avvenimenti tipici, quella apparente serie di esempi, costituisce la sequenza precisa di un giorno preciso, perfino databile: Clarissa ci dice a tempo
debito qualcosa di più su quel colloquio (240), che sembrava all’inizio
tutto fatto di buoni sentimenti e che invece rivela all’improvviso i suoi
abissi; e Ronald rivela di esserne stato testimone, oculare se non uditivo:
il che rende tutta la scena più inquietante (247). Egli poi aggiunge che le
sorelle erano vestite di bianco, cosa che nel primo testo non era detta,
ma era detta più su, quando si parlava della passeggiata delle sorelle intorno al lago. Dunque quegli esempi, apparentemente sciolti, non lo erano affatto: erano invece, come già detto, una sequenza dal giorno alla
notte.
Un’altra volta - e siamo in coincidenza con l’assedio, di cui né le ragazze né il lettore lì per lì sanno nulla - si ha un avvenimento ripetitivo,
che cioè si verifica «spesso» («spesso, quando calava la nebbia notturna
sul lago») ma che si trasforma subito in avvenimento individuato («disse
Clarissa a un tratto», 263). Con ciò l’analisi del concetto di tempo non è
finita, però si può già vedere che esso tende a non essere un tempo scorrevole ma piuttosto un tempo statico, o almeno ciclico. Non l’irripetibile
sembra dominare ma ciò che è univoco tende a presentarsi come ricorrente. Per più volte Stifter scompone lo stesso avvenimento secondo più
piani, dandosi così la possibilità di ripercorrerlo sempre di nuovo. Da
una parte l’evento viene così valorizzato: esso è unico ma plurinterpretabile; dall’altra però il procedere dell’azione (il suo scorrere) viene ancorato alla ripetizione di una stessa cosa, sia pure variamente interpretata.
La ripetibilità non è legata solo al concetto di tempo. In primo luogo anzi
essa ci viene incontro, per di più in maniera esplicita, a proposito dello
spazio. Heinrich annuncia alle figlie che le loro stanze nella casa sul lago
16
sono costruite e arredate proprio come quelle nel castello (199). La realtà
supererà la promessa: «le camere erano spaventosamente simili [bis zum
Erschrecken ähnlich] a quelle che avevano abitato a Wittinghausen»
(216).
E questa specie di coazione a ripetere si verifica a più retto titolo negli
atti. Anzi già in certe situazioni di partenza. Per esempio sia Ronald sia
Clarissa provengono da unioni contrassegnate da una disgrazia: la madre
di Clarissa è morta «da dieci anni» (195); e ciò viene dichiarato subito dopo aver detto che la vecchiaia del rispettivo padre e marito è bensì «rischiarata dal mite sole serotino della bontà» (ivi), ma che un tale sole è
«come una tacita estate di San Martino che segue a forti, fragorose tempeste» (ivi). È solo un accostamento, non un rapporto conseguenziale.
Rientra nel procedimento che un critico ha chiamato (con felice espressione) del trompe-l’oeil1: dopo aver lodato l’innocenza dell’infanzia, Stifter
ha dichiarato che un’anima di tale innocenza
è per noi indicibilmente più santa di ogni emendazione ottenuta con
grandi sofferenze; perché nessuno cancella più dal suo volto la nostra
pena sulla passata devastazione e l’energia impiegata a vincere il male che
è in lui ci mostra, quasi minacciosa, quanto volentieri lo commetterebbe.
(194)
E poiché subito dopo segue la descrizione di Heinrich von Wittinghausen come «una rovina di possente forza e grandezza umana» (195), pare
quasi ovvio riferire le due frasi l’una all’altra. Da questi e altri elementi (si
potrebbe continuare infatti per un pezzo) il lettore può ricavare delle
conclusioni ingannevoli. Per il momento è bene dichiarare che comunque tante conclusioni (insisto sul “tante”) non possono essere univoche.
L’accostamento detto acquista però un minimo di credibilità da un parallelismo: mentre la madre delle ragazze è morta, la madre di Ronald non è
morta però è «lontana» (250) dal padre; il quale si è gravato nei suoi confronti di una qualche oscura colpa (ivi). Dunque: il padre delle ragazze vive e la madre è morta; la morte di quest’ultima è presentata secondo
l’accostamento detto. La madre di Ronald invece è viva e il padre è morto in guerra (253). La madre è però ugualmente oggetto (esplicito stavolta) di ingiustizia, mentre occorre impedire che il padre di Clarissa muoia.
Morrà in guerra anche lui. Nell’allontanare Ronald da Clarissa sembra
che il padre di lui voglia impedire il ripetersi della storia fra se stesso e la
madre di Ronald; ma la coazione a ripetersi negli altri non verrà superata:
17
Ronald morrà in guerra come suo padre, Clarissa riceverà un torto come
e più della madre. Per lo spazio invece si ricorre a un artificio: lo si sopprime mediante il cannocchiale. E ogni volta che si ha questa soppressione dello spazio intermedio torna l’espressione: «spaventosamente» [bis
zum Erschrecken]. Così per esempio, quando per la prima volta le ragazze guardano nel cannocchiale verso Wittinghausen, leggiamo il seguente
commento: «Spaventosamente nitido e vicino tutto era evocato davanti a
lei, ma tutto sconosciuto e selvaggio» (223). E quando sarà incendiato,
l’immagine del castello sarà «orrendamente chiara» [zum Entsetzen deutlich]; stavolta con sfumatura di significato (non per nulla Entsetzen è più
forte di Erschrecken) perché il castello è bruciato, ma è pur sempre un
orrore che potenzia lo spavento dato dalla soppressione dello spazio. A
riprova c’è da notare che quando, il primo giorno dopo l’arrivo, Johanna
vede un cervo, esso è «spaventosamente vicino»: la soppressione dello
spazio ha sempre lo stesso effetto. L’effetto di lontananza viene provato
solo per scherzo e solo su ciò che è vicino: si rovescia cioè il cannocchiale per vedere lontano ciò che è prossimo, cioè la casa sul lago (224). Ma
l’unico altro punto concreto, esaminato nella novella, è un indeterminato
posticino nel bosco (204), una piccola radura casualmente attraversata.
Dunque all’indeterminatezza del tempo corrisponde un’ampia cancellazione dello spazio: il posticino nel bosco sta per tanti altri, così come i
tempi della novella stanno per tanti altri. L’indeterminatezza va di pari
passo con la ripetizione: cioè i valori sono simboli.
L’indeterminazione spazio-temporale, che per quanto importante è però
limitata, trova un potenziamento fortissimo nelle zone oscure della novella. Ho detto prima che certe conclusioni non si possono trarre in maniera univoca: la zona di indeterminatezza è costitutiva della novella. Ebbene, c’è da dire qualcosa di più: altre conclusioni non sono né univoche
né ambigue ma semplicemente impossibili. All’inizio troviamo Clarissa
seduta «su un divanetto sul quale ha sparpagliato diverse carte e rotoli di
pergamena tra cui sta rovistando» (189). Che cosa sta cercando e che carte sono? Non lo sapremo mai. Più in là infatti il padre le chiederà qualcosa sui suoi album da disegno e su lettere (196); ma questo non c’entra
niente con i rotoli di pergamena, che semplicemente restano non spiegati, mentre per il resto Stifter spiega ogni minimo particolare.
Più stranamente ancora stanno le cose con il lago. Heinrich von Wittinghausen proclama dapprima la devozione, la lealtà, la fedeltà e tutte le
18
altre virtù di Gregor. Poi parla del lago come di un luogo «di cui forse
nessuno sa» (212). Più in là però veniamo a sapere che, a suo tempo,
Gregor ne ha rivelato l’esistenza a Ronald (246). Perché di ciò Gregor
non ha fatto parola a Heinrich von Wittinghausen? Peggio ancora: costui
ha fatto scandagliare la selva in lungo e in largo per tre mesi: Felix e il cavaliere hanno «cercato prove e confutazioni di tali voci [riguardanti il
bracconiere] presso tutti quelli che abitano ai confini e presso tutte le capanne di carbonai e taglialegna» (199). Il risultato è: non c’è nessun bracconiere; e se ce n’è uno «questi non è altri che un bel vecchio, che sarà al
vostro servizio e che presto amerai come il tuo stesso padre.» (ivi). Dunque il bracconiere è per Heinrich von Wittinghausen nient’altri che Gregor. La conclusione non è ignota a Gregor stesso: il padre gliela comunica prendendo in giro Johanna (208). Gregor sa però esattamente come
stanno le cose: il bracconiere di cui si parla è Ronald, il quale usa quei
pallini piccolissimi che hanno fatto parlare di sé: Gregor stesso ricorda a
Ronald «come ci divertivamo quando fuori correva la leggenda del terribile bracconiere e dei suoi piccoli pallini» (252). E allora perché non ne
ha detto nulla al signore? Non c’è alcuna possibilità di una spiegazione
realistica. Piuttosto si completa il quadro: come il tempo e lo spazio sono
esposti all’indeterminazione, così punti cruciali delle azioni sfuggono a
una spiegazione razionale e completa. Sono le zone di silenzio della novella, che ne potenziano il carattere simbolico. Essa non è basata in primo luogo su rapporti tra cause ed effetti ma su valori eterni.
Le azioni che gli uomini intraprendono scientemente si inseriscono in
questo quadro, e cioè ne soffrono: le previsioni sono sempre e regolarmente sbagliate, gli effetti ottenuti sono tutt’altri da quelli voluti, i mezzi
sono sempre eccessivi. Per i primi due punti (previsioni ed effetti) la cosa
è chiara. Per i mezzi bastano due parole: Heinrich von Wittinghausen ha
predisposto un grosso apparato bellico per la protezione delle due ragazze; esso viene minutamente descritto. Ma ecco quel che ne pensa Gregor:
«Gregor sorrise bonario di queste disposizioni belliche e le rispettò.»
(222). Ronald non è da meno. Arriva a proporre e imporre una soluzione
onorevole all’assedio (274) (a proposito: non doveva andare subito da
Torstensohn? [255]. Non doveva seguire l’esercito svedese per sovrintendere all’assedio? Che cosa ha fatto in quelle due settimane? O si deve
a lui se il progetto originario degli svedesi era di passare da tutt’altra parte? - 272). Ma le trattative erano già in corso! (ivi). E gli svedesi mostravano in esse buona volontà («si offrirono di buon grado a trattative», ivi).
Allora che diavolo è venuto a fare Ronald, per di più dopo due settima19
ne? Ad accertarsi che tutto andasse bene e a ritoccare i particolari? Sia
pure: ma che sia andato a cavalcare personalmente sotto le mura del castello per dire che tutto andava bene era, come minimo, un eccesso.
Gli uomini mancano di equilibrio. Ma a parte queste azioni eccessive
(Heinrich von Wittinghausen non è garantito dalla «innocenza della vecchiaia», tanto che scaglia la lancia contro Ronald, con quel che segue 272), il punto centrale resta il “peccato” di Clarissa (249). Saltiamo tutte
le speculazioni e atteniamoci al testo. Non che esso ci dica molto. Come
già accennato, il colloquio cruciale tra le due sorelle ci viene taciuto (226).
Anzi veniamo ingannati, perché siamo posti nella condizione di credere
di sapere tutto mentre invece siamo in una condizione molto prossima a
quella di Ronald, che non ha inteso niente (247). Qualcosa comunque
sappiamo. Clarissa apprezza di Johanna il fatto che è schuldlos, priva di
colpa (226); il che può indurci a concludere che lei stessa, Clarissa, non lo
è; ma non è un gran passo avanti. Poi possiamo ricavare che Dio la mette
alla prova facendole incontrare Ronald, stavolta però armata di spada invece che di un giglio (242), e dunque che è già stata messa alla prova con
esito negativo. Dunque è stato un amore peccaminoso (che ciò non ci
venga mai detto così brutalmente fa parte dell’arte di Stifter; ma a me sia
concessa la traduzione in prosa). Un tale amore è poi qualcosa che toglie
la pace (257), il rispetto e l’amore di sé, anzi anche la felicità; è sconveniente, spinge all’egoismo (259), impedisce che Clarissa seguiti a essere
«maestra e modello» di Johanna (252), tanto che quest’ultima può avere
compassione della sorella (259, 263). La causa di tutto ciò è una passione
che Clarissa credeva di vincere (piena di «smisurato orgoglio e trionfo»,
242) ma che poi scopre di voler perdere «raggiante di trionfo» (252), perché l’uomo è al tempo stesso «debole e magnifico» (251). Ma tutto questo lo ricaviamo facendo violenza al testo. Che cosa sia successo esattamente, ce lo avrebbe detto quel colloquio tra sorelle che invece ci è stato
nascosto.
Troppe cose non tornano, altre semplicemente ci vengono precluse.
E la motivazione si può dare perentoriamente: il narratore itera in se
stesso la vicenda di Clarissa. Clarissa è lui stesso. Con in più un tocco di
Heinrich von Wittinghausen e di Gregor: il narratore vorrebbe essere
come Gregor, ma di fatto è come Clarissa. E allora trova il compromesso
del silenzio, della rimozione e delle imprecisioni. Dunque il narratore
somma i molti tempi di Clarissa (il primo incontro con Ronald, la vicenda nella selva, la vecchiaia) con i molti tempi di Gregor e di Heinrich von
Wittinghausen. Di se stesso comincia col narrare l’innamoramento gio20
vanile; e lo fa con toni che non includono niente di male, anzi suonano
del tutto positivi: «ci fu concesso» (183) sognare «il doppio sogno» della
gioventù e del primo amore, e la vita era tutta piena di germoglianti, giovanili sentimenti d’amore (186). Analogamente Gregor vorrebbe presentare l’amore di Clarissa: «in tutto questo non c’è niente di male, perché
tale è la volontà di Dio [...]; tale è la natura» (252); parole molto simili a
quelle usate dal narratore in principio. Gregor sbaglia e il narratore fa finta di non voler vedere. La verità sull’amore la dice Clarissa: la passione fa
soffrire, ma la sofferenza è l’unica che può permettersi di innalzarsi a
quell’«arcobaleno di promesse, che così bello rifulge e mai si può raggiungere» (191). Questa gioia non è poi tanto diversa dalla sofferenza ed
è capace di spezzare il cuore. Tali cose però il narratore le fa dire da Clarissa. Per conto suo, nel narrare la storia della selva boema oppone lo ieri
all’oggi esattamente come fa Gregor quando dice che «allora» i boschi erano più grandi e belli di «oggi» (202, 228-30). Al modo di Heinrich von
Wittinghausen parla poi degli animali che li popolano (202-19); ancora al
suo modo parla di zone inesplorate (185-98). E il paesaggio descritto per
oggi e per allora non sembra in nulla cambiato (154-209 e 187-223).
Le imprecisioni cronologiche che abbiamo incontrato acquistano allora un valore preciso: si tratta di non staccare lo ieri dall’oggi in maniera
irrimediabile, come se i fatti del 1641 fossero irripetibili. Quel tempo è
un tempo mitico, con delle sue successioni interne ma non irripetibile,
proprio perché rappresenta una vicenda eterna. E va staccato da noi perché quella vicenda è terribile. Proprio come diceva Clarissa. Dunque la
vicenda non è collocata con precisione nella guerra, come se fosse solo
un culmine nell’eterna vicenda umana. Ed è sì staccata da noi per il motivo detto, ma non in modo preciso perché «nessuno è in grado di stabilire il tempo in cui andava e quello in cui non andava più.» (276).
Finché si resta in quest’ottica lo spazio ci rivela una realtà non diversa.
L’interno si contrappone all’esterno ma verrà comunque espugnato: il
prato boschivo da Ronald, il castello a causa di Ronald. Ma soprattutto la
stanza delle ragazze nel castello (definita una chiesa) (194), la casa nel bosco (definita sacra) (242) non avranno qualcosa in comune con la portantina che, presentata all’inizio come specie di altare, perché «da una cornice si sporgevano due angeli» (210), alla fine rivela di essere una «prigione»? (215).
Tutto sembra portarci a concludere che da quella prigione che è la situazione umana non si può uscire. Stifter nomina anche le cause. Clarissa
ha già detto che l’arcobaleno carico di promesse è irraggiungibile. Ciò
21
viene insistito quando si nomina la causa del peccato di Clarissa che non
è certo banale: è nella qualità di Ronald, dal cuore che
pretendeva di uscire verso l’ignoto, un cuore prorompente che anelava
ad agire. E proprio quest’ultima cosa, che a ogni istante minacciava la
perdita dell’amore, era ciò che così magicamente la teneva avvinta.
(248)
Ronald stesso lo conferma: colpito dalla personalità di Clarissa, dalla sua
«inconsueta pienezza e forza» (249), scoprì presto che «un’anima profonda, selvaggia, grande e poetica come la mia si sollevò dalla bimba verso di
me, tanto che mi spaventai.» (ivi). Nella sua ingenuità, Johanna traduce
tutto ciò (e la più particolare violenza cui si allude dicendo che Ronald
forzò [zwang] l’anima di Clarissa, con forza ne attrasse [riß] le labbra a
sé) accusando tutto il «duro, violento sesso» degli uomini (263).
Ma ecco che nella vecchiaia Clarissa torna «calma e serena» (276) e allora lo spazio si popola diversamente: mentre nel cannocchiale c’era solo
l’immagine riprodotta e inanimata (il Nachbild, lo unbelebtes Bild) del
castello in falsa, ingannevole vicinanza, l’immagine conciliata di Ronald
potrà riempire tutto lo spazio: «nelle stelle d’oro vedeva i suoi capelli, nel
cielo azzurro il suo occhio» (276). La lontananza le permette la poesia, e
lei rivive Ronald con l’aiuto di Oberon, «quella poesia fantastica del cantore bretone» (ivi), così come il distacco dalla creazione poetica permette
al narratore cose analoghe.
Il lettore non resti però deluso: questa è solo una conclusione accessoria. Ha la sua importanza ma è accessoria.
Per arrivare a quella globale e primaria ci occorre ancora una elemento: il
rapporto uomo-natura.
Un esame delle pagine introduttive convince facilmente che il soggetto grammaticale delle descrizioni naturali non è mai l’uomo,
l’osservatore, ma sempre la natura. «Nessuna traccia della mano
dell’uomo» (184) - oggi come allora - può essere il simbolo di questa descrizione: essa cancella l’uomo: l’esterno, «la terra benedetta oltre il Danubio, con i declivi a grano e i frutteti» (187), è spinto il più lontano possibile, «in un nastro di velo azzurro» (ivi) che si confonde con l’orizzonte.
In compenso, però, la natura può prendere aspetti antropomorfici: il
lago è «uno spaventevole [unheimlich] occhio della natura» (185), la valle
22
in cui scorre la Moldava è «un tenero occhio» (186), le rovine del castello
sono popolate «da qualche fiore dagli occhi scuri» (187). Tuttavia sia il
narratore sia Gregor ammoniscono a tutelare il distacco uomo-natura.
Dopo aver definita la natura immacolata come piena di «decoro», anzi di
«virtù», da cui emana un che di «casto» e «divino» (209-10) il narratore
prosegue: «e tuttavia è infine solo l’anima che esprime tutta la sua grandezza interiore nello specchio [Gleichnis] della natura» (210). La posizione di Gregor è più sfumata. Per lui la natura ha senso: «In ogni cosa qui è
senso e significato [Empfindung]» (211). E tale senso non riesce a esprimerlo altrimenti che in termini umani: «la pietra stessa si mette attorno
alla sorella pietra e la tiene stretta; tutto si muove e si insinua, tutto parla,
tutto narra.» (211). Tuttavia questa è la traduzione di qualcosa che contrasta con il linguaggio umano: «e solo l’uomo ha un brivido se gli capita
di percepire una parola.» (ivi). Con un finale per la verità ottimistico, con
la promessa di una conciliazione fra uomo e natura, se il primo non vuole atteggiarsi a dominatore della seconda: «Ma non deve che attendere, e
vedrà che si tratta solo di parole di bontà e d’amore.» (ivi).
Comunque Gregor tiene ferma la differenza di essere fra uomo e natura. Conciliazione sì, ma nella differenza: a proposito della selva, Gregor
dichiara di essersi reso conto «di quanto fosse meravigliosa di per sé,
senza che gli uomini avessero bisogno di intesservi le loro fole» (232).
Occorre guardarsi da una teleologia a pro degli uomini, i quali «altro non
possono ammirare se non ciò che hanno fatto loro e non osservano
niente se non nell’idea che sia stato fatto per loro.» (233).
C’è una lunga fase della novella, in cui pare che l’equilibrio fra uomo e
natura sia stato raggiunto: la natura è una fiaba per le ragazze ... «Ma erano piuttosto loro stesse una fiaba per la natura selvaggia stupefatta intorno a loro.» (225). E lo sono tanto che soggetto grammaticale della descrizione tornano a essere gli elementi naturali. Addirittura essi diventano
protagonisti di azioni:
la notte era ancora in ascolto; la luna piena a perpendicolo nel cielo calava lunghi raggi fra i rami di pino e orlava l’acqua di muti bagliori. (226)
Finché il dramma, il movimento, si sposta dagli uomini ai corpi celesti, di
cui i primi appaiono in balìa:
Nel mentre la massa e la volta della terra, non sentita e non udita dai suoi
abitanti, si dirigeva con impeto a oriente; la luna veniva spinta verso oc23
cidente e con essa le stelle antiche e nuove ne spuntavano a oriente ... e
così via, finché all’ultimo, fra tutte sul ciglio del bosco fioriva un pallido
lattiginoso fascio di luce, un’aria fresca s’increspava sulle cime degli alberi
e il primo grido mattutino usciva dall’ugola di un uccello!
(226-27)
Come si vede la situazione si è ribaltata. Da un equilibrio uomo-natura si
è arrivati al predominio della seconda, soggetto grammaticale non solo
sotto forma di astri ma man mano in molteplici aspetti, finché nemmeno
più l’uccello è soggetto ma solo il suo grido mattutino. Del resto per capire questo equilibrio o addirittura questa sovranità ci vuole non l’indifferenza di un contabile ma la ricchezza di inventiva e di fantasia attribuita a
Gregor (225). E questa - si noti bene - quanto più rende giustizia alla natura tanto più è unheimlich (ivi). Gregor ricrea [dichtet] a tutto spiano, e a
volte quel che dice può far apparire le cose in una luce idillica. Ma abbiamo appena letto la verità: la natura è unheimlich.
Per indicare come questo sia possibile, si cita di solito il passo (appunto il più citato) della novella: il cielo è «amabile e puro, [...] senza nemmeno una nuvoletta» (264) mentre le ragazze, ignare, assistono
all’incendio del castello. Lo stesso quando lo vedono già bruciato:
l’immagine anzi risulta «doppiamente spaventevole per la sua stessa muta
uniformità e chiarezza» (267), su cui per di più si insiste molto.
Per la verità di fronte a questa indifferenza della natura c’è un uso antropomorfico della medesima: quando Gregor e le ragazze si avviano al
Blockenstein in concomitanza con l’incendio del castello, nella descrizione di insinuano «fasce sanguinanti» e si parla di «mestizia del bosco»
(264). Per il giorno dopo sono pronte le «devastazioni» operate dal gelo
(265).
La verità ci viene detta all’inizio. Clarissa paragona la passione a eventi
naturali: nubi, fulmini, pioggia, arcobaleno si legano fra loro come la passione stessa, le sofferenze, le lacrime e la speranza (191). In maniera (è il
caso di dirlo!) unheimlich il discorso di Clarissa verrà ripreso da Ronald,
con un’interpolazione apparentemente slegata ma che il confronto chiarisce. Alla donna che gli ha chiesto come mai sia tornato replica:
Vedete, lì sopra, dove l’arido torrente di sabbia stilla intorno alle due vette rocciose, c’è un albero, ormai è solo un tronco di un pino, una volta
spezzato da un fulmine, di giorno è di sgradevole grigio, ma di notte inizia a scintillare d’azzurro e verde e bianco; per ore sedetti sulla roccia a
guardare il suo quieto sfavillio notturno ... Clarissa! E voi mi chiedete
perché io sono qui?
(247)
24
Clarissa aveva solo nominato il fulmine e l’arcobaleno e li aveva esplicitamente presentati come immagini della passione; Ronald mostra in concreto l’effetto di un fulmine e, senza nominare l’arcobaleno (come del resto nemmeno la passione), ne cita però i colori, apparsi sul tronco abbattuto: l’opera del fulmine e l’arcobaleno sono la stessa cosa, però - e questa è l’aggiunta di Ronald - solo di notte l’identità è visibile, solo di notte
l’irraggiungibile arcobaleno si fa vicino, per tornare a sparire di giorno.
Quelle belle luci precarie sono le luci del dolore; così almeno sembra poter concludere da un’osservazione di Clarissa a proposito della luce lunare, fatta dopo che Ronald si era annunciato con la sua fucilata. «Una luce
dolorosamente bella» [Ein schmerzlich schönes Licht] (237).
Tutto ciò può schiantare il cuore umano, che non può certo competere con l’«impeto» della terra né «lanciare» le stelle da nessuna parte (22627). Ma il narratore ci ha già avvertiti: il castello non è più che un «mesto
monumento» e tuttavia
A colui che si arrampica [su un cumulo di detriti] si offre uno spettacolo
che, per quanto in diretta opposizione con i monumenti funebri d’intorno, dà all’istante la sensazione che proprio lì giunga a compimento il sentimento iniziale
(187);
si tratta di uno spettacolo analogo a quello che vedranno le sorelle dal
Blockenstein: «una visuale infinita», che «sopraffà [gli occhi] per lo splendore» e che si estende sulla natura vergine, incontrando i campi degli
uomini solo nella confusa linea dell’orizzonte. Il panorama parte da un
«luogo malinconico» (ivi) in cui stanno germogliando gli amabili sentimenti della giovinezza (186), per posarsi su «qualcosa di indicibilmente
amabile e malinconico» (188).
Ecco la sintesi: la verginità della natura, il suo respingere l’uomo, è entrambe le cose: cosa cara e cosa triste. Essa ha dunque leggi proprie, tanto da essere unheimlich, ma lo sforzo va fatto in direzione di rapportarci
con questa Unheimlichkeit, di non sottovalutare le leggi più grandi di noi,
ma nemmeno di considerarle incomprensibili.
Se mettiamo ora insieme tutti gli elementi ci appare finalmente il tema
più vero della novella.
25
1. Il non detto è più vasto e importante del detto. Perciò deve mettere in
guardia il lettore che nell’interpretare io ho propriamente detto quel
che non va detto. Non ho saputo evitare di concludere che l’amore di
Clarissa era «peccaminoso», e magari per la chiarezza dell’esposizione
sarà stato anche necessario. Tuttavia è importante rendersi conto che
Stifter non lo dice e quel che dice è invece la causa di questa peccaminosità: è quel voler uscire verso l’ignoto (248), è la eccessiva voglia di
esplorare, è in fondo il non accettare che l’arcobaleno carico di premesse resti «irraggiungibile» (191, 236). Dunque il negativo è più vasto
del positivo, l’«abisso» (190), di cui parla Clarissa a proposito della coscienza di chi non è ingenuo, è più ricco dell’innocenza così di frequente attribuita a Johanna.
2. Il tempo mitico si estende oltre il tempo storico, tanto che è capace di
cancellarne i confini.
Qui non occorre notare che nell’ultimo capitolo gli interventi del presente si infittiscono, proprio allo scopo di raggiungere tale accostamento. Il capitolo comincia col dire che il castello è una rovina «proprio come è ancora oggi» (269) (pur con qualche differenza). E
nell’ultima pagina è tutto un intrecciarsi di ieri e oggi, così che la distanza tende ad annullarsi. Il culmine si raggiunge col cancellarsi del
tempo storico a proposito di Gregor: «nessuno è in grado di stabilire
il tempo in cui andava e quello in cui non andava più.» (276). Queste
sono le parole finali, grazie alle quali il tempo mitico sembra vincerla
definitivamente. Così noi possiamo capire una cosa che le ragazze
trovano unheimlich: che Gregor, «all’estrema soglia dell’età umana,
parlasse di piani e tempi che si proiettavano lontani negli anni» (236):
quei progetti passano da un tempo all’altro. Tuttavia la novella è detta
entro una cornice di distacco. Alcuni interventi del narratore nel suo
corso tendono bensì a colmarlo o assimilando direttamente l’allora
all’oggi (222), oppure - come già avvertito - mimando nella sua contrapposizione dell’allora all’oggi quella che fanno i suoi personaggi
(Gregor in particolare). Resta però la necessità della Rahmenerzählung, dunque della distanza rassicurante. E la novella si muove entro
quella polarità: da una parte il tempo mitico è quello che conta («A
occidente giacciono e tacciono gli smisurati boschi, amabili e selvaggi
come allora», 276), da una parte ci sono tutte le assimilazioni possibili
dell’oggi all’allora, dall’altra però c’è il distacco tentato dalla Rahmenerzählung. E poiché il silenzio, il non-detto è interpretabile anche
26
come difesa, ecco assicurato un doppio distacco. È però un distacco
contraddittorio: il tempo mitico sarà più vasto di quello storico, però
è solo questo a poterlo dire. Dunque è quest’ultimo ad avere vantaggio su quello.
3. Lo spazio riempito da ultimo da Clarissa è più autentico di quello raccorciato dal cannocchiale ... però siamo stati messi in guardia
dall’antropomorfismo.
4. Le leggi della natura hanno un ritmo più oggettivo e vero di quelle
umane. Mentre però da una parte si propongono come modello,
dall’altra sono chiaramente una antitesi.
Ho detto all’inizio che La fustaia propone una fuga dalla storia. Devo
correggermi: essa propone piuttosto tanti dubbi nel conciliare il tempo
mitico con il tempo storico. Ed è qui la verità della novella: nelle lacune
che restano entrano le proposte di conciliazione; entro il non-detto che
resta fra l’una antitesi e l’altra. La verità è l’«abisso» di Clarissa, che partecipa di tutte le antitesi, proponendosi come la loro non dicibile cerniera,
fonte di lutto e di verità, di malinconia e di amabilità. È questo non dire
che alla fine predomina su tutto il resto. La conciliazione stessa è
«l’arcobaleno carico di promesse, che così bello rifulge e mai si può raggiungere» (191), nemmeno nel linguaggio.
Questa non fu l’ultima parola di Stifter. In Witiko, questa straordinaria
impresa, egli cercò proprio la conciliazione fra il tempo storico e il tempo
mitico.
Nella Fustaia Ronald fa una lunga autocritica per aver abbandonato
Clarissa «perché il mio cuore smanioso mi spingeva lontano, errando
stoltamente nel vuoto, quasi fuori ci fossero indicibili, immense imprese
da compiere.» (250). Egli si illude di essere diventato un altro (254), crede
quasi che non ci sia più un mondo esterno, con il quale comunque ha
«chiuso» (249). A parte che le cose dimostreranno tutt’altro, in questo
modo si insisteva su delle contrapposizioni che alla fine si dimostravano
inconciliabili.
In Witiko Stifter farà il tentativo (diciamolo pure: immane!) di arrivare
alla conciliazione senza per questo scontare dei passi indietro, senza ri27
nunciare ad alcuna delle conquiste estetiche e filosofiche della Fustaia e in
generale della sua produzione precedente, ma semmai estendendole. Per
esempio oggettivazione e relativizzazione subiscono una crescita. Basterà
qui accennare a due episodi: al comportamento di Witiko durante la dieta
di Wisehrad e poi al suo comportamento nella battaglia di Holaubkau.
Dopo che Witiko si è presentato all’assemblea dei nobili e ha detto
tutta la verità sulla sua presenza, l’attenzione si sposta da lui e verte sugli
interventi dei nobili. Noi lo perdiamo completamente di vista: il quadro
si frammenta nei tanti interventi. Che cosa faccia o pensi nel frattempo
Witiko non lo sappiamo. Solo più tardi, e solo dal commento di un altro
personaggio, verremo a sapere che il suo contegno è stato valoroso,
standhaft. Così il quadro, già frammentario, si ricompone: la relativizzazione e l’oggettivazione crescono ma invece di divaricarsi, si completano
a vicenda.
Durante la battaglia di Holaubkau Witiko dà «ai suoi cavalieri l’ordine
di una manovra per avvolgere i nemici; ne risultò una falla, i nemici vi
entrarono e fuggirono verso Praga.» (360-61). Sulle prime il lettore è portato a credere che si tratti di un semplice sbaglio di Witiko; perfino
l’amico e combattente Odolen lo crede! (385) Poi invece si chiarisce - e
per bocca dello stesso Witiko - che non era un errore ma una consapevole disubbidienza (386). Ancora una volta, vale la conclusione di cui sopra.
Ma il punto centrale era superare le contraddizioni che conosciamo.
Lo Hinausschwärmen, il dissipato fuoriuscire (248) di Ronald era una
colpa; però il trasformare tutto lo spazio in un sacro «interno» contrapposto all’«esterno» era una soluzione non soltanto inefficace ma dubbia
alle radici perché quello spazio diventava di fatto una «prigione» (215).
Witiko affronta lo spazio; anzi cade la contrapposizione fra esterno e interno. Nel colloquio iniziale con Bertha, questa gli chiede: «cerchi una felicità diversa da quella che si ha a casa?» (27). E Witiko: «Sì [...], vado verso un grande destino, quale si addice al giusto.» Ciò - si noti bene - richiede di affrontare la ricerca nello spazio e richiede l’attività del fare; infatti
non sarebbe una cosa giusta se si sapesse già dove si trova la felicità e bastasse recarsi a raccoglierla. Prima mi farò da solo la mia sorte.
(28)
Che cosa significhi questo per la concezione dello spazio lo si vede - e
credo sia l’esempio più notevole - quando Witiko, non essendosi posto al
servizio di Wladislaw, si ritira a Plan (165-209). Da lì egli fa una serie di
28
visite; ognuna è trattata per conto proprio, come se si ripetesse una frantumazione che noi conosciamo magari non tanto da quella dello spazio
nella Fustaia quanto da quella dei gesti in Abdias. Alla fine però si ricostruisce sia l’insieme dello spazio sia il senso: Witiko ha descritto un cerchio intorno a Plan, allo scopo di visitare tutti i suoi vicini e stabilire
buone relazioni. Egli dunque ha esplorato lo spazio secondo un disegno,
per di più allargando il raggio: infatti a quelle visite di più giorni e settimane era preceduta l’esplorazione quotidiana dello spazio più immediato.
Ora se si dice che nel Witiko non c’è movimento lo si può dire fondatamente in un senso: che cioè non c’è subordinazione di un settore dello
spazio all’altro ma tutti hanno gli stessi diritti. E a ciò rende giustizia lo
stile epico, con le sue note (o famigerate) iterazioni, che apparentemente
segnano il passo e di fatto assestano gli avvenimenti. Dietro tutto ciò c’è
una filosofia. Nei suoi giri tra i vicini, Witiko porta poche certezze, un’indecisione - che poi non si distingue troppo dalla tolleranza - e per il
resto ha da imparare e da stare ad aspettare che i tempi maturino. È comunque certa una cosa: non si lascerà trascinare «dall’impeto degli impulsi» (182), come invece capita ad altri. E poiché questo modo di fare gli
è estraneo può affermare: «Molti uomini non posso capirli e riconoscerli
nel loro agire» (ivi). Ma questa ignoranza è piuttosto l’opposizione di un
tipo di vita all’altro.
Anche il decorrere del tempo appare meno terribile perché il passato
e il futuro vengono riempiti di un contenuto che assicura la continuità: il
passato è reso pieno dai ricordi dei genitori, il futuro dal pensiero dei discendenti, il presente dal bene che si può fare per chi ci è intorno:
«Tutti cercano il loro futuro», disse Boleslawa, «e credono che arriveranno a qualcosa di molto buono.»
«Se non lo facessero», replicò Lubomir, «la vita si fermerebbe. È ancora una fortuna se da parti estranee non vengono cose che smarriscono
l’uomo e lo fanno tralignare.»
«E poi si può ancora cercare di ottenere il bene per chi ci vive intorno», disse Boleslawa.
«Quando io, che non cerco più un nuovo futuro, mi trovo fuori, dalla
gente che ci abita intorno», disse Lubomir, «e loro mi fanno domande o
espongono desideri oppure io parlo con loro, allora quel che succede a
me è proprio quel che io voglio per loro.»
«Quel che l’uomo fa è anche la sua compagnia», disse Boleslawa, «non
è così, venerabile padre?»
29
«Quel che un uomo umilmente compie», disse l’uomo all’estremità inferiore della tavola, «è la discendenza che gli rimane, per quanto incompiuta essa sia.»
«Se però la felicità di questa terra non viene turbata», disse Lubomir,
«e nelle capanne, nelle case e nei campi innocenti non arriva la disgrazia.»
(189)
Allora è possibile leggere in Witiko «Tutti i segni si compiono» (205) perché il tempo e lo spazio sono sotto controllo, mentre nella Fustaia si poteva leggere «Tutti i segni di Ronald ingannavano» (275, cfr. 255).
Si può obiettare che non sempre questa impostazione convince. D’accordo, Witiko non è uno sciocco, e quando viene offeso sa difendersi,
anche con la spada se è necessario (59). E tuttavia i contrasti sembrano
tutti addolciti, così che può nascere qualche dubbio sulla liceità dell’operazione.
A parte questo nodo, che non sono capace di sciogliere, Witiko concilia tempo mitico e tempo storico rovesciandone il rapporto che aveva
tratteggiato nella Fustaia. Ora è il tempo storico a culminare in tempo mitico, così come prima era stato il tempo mitico a sconfiggere quello storico. L’antinomia appare superata; il non-dire è segno di discrezione e di
oggettività, dunque sempre colmabile in un secondo momento; cose analoghe valgono per lo spazio e per il rapporto uomo-natura.
C’è solo da chiedersi - con tutto il rispetto per quel capolavoro che è
Witiko se quelle tensioni non erano più convincenti del successivo assestamento. Certo erano più facili da condividere. O forse per condividere
Witiko fino in fondo c’è bisogno di una superiore saggezza.
Nel lavoro sulla Fustaia ho tentato di far vedere come si oppongono
tempo mitico e tempo storico ma anche come tentano di convivere. Il
tempo mitico è ciò che fonda il tempo storico, ma il tempo storico permette di dire il tempo mitico e così di relativizzarlo, di distaccarlo, insomma di ammansirlo. La contraddizione è insolubile eppure ancora
troppo superficiale: tra i due tempi di inserisce l’«abisso», che partecipa di
entrambi ma sembra privilegiare il tempo mitico, e si incunea fra i due
affinché non si concilino: esso è infatti il non dicibile per eminenza, dunque ciò che vanifica il tentativo del tempo storico di dire fino in fondo
quello mitico. E il mito non è la costante che fonda la storia senza riserve, perché sotto al mito c’è il non-detto dell’«abisso».
30
Note
1 Cfr. John REDDICK, Mystification, Perspectivism and Symbolism in „Der Hochwald“ (in Adalbert Stifter heute. Londoner Symposium 1983, hrsg. von Johann
Lachinger, Alexander Stillmark und Martin Swales, Adalbert StifterInstitutes des Landes Oberösterreich, Linz 1985, p. 44 sgg.)
31
32
Continuità e frattura
Quando nel Castello dei folli [Die Narrenburg] Robert, Heinrich e Ruprecht si trovano di fronte al disvelamento del ritratto del conte Sisto,
che però «era quello di Heinrich linea per linea solo vestito diversamente» (340), mostrano tre reazioni che a loro volta manifestano tre diversi
tipi di conoscenza: Robert, che visitava la rocca degli Scharnast guardando a tutto come a mere «stranezze», è colpito per un attimo da un pensiero «avventuroso»: «era però troppo ridicolo e non poté far altro che
respingerlo immediatamente». Nemmeno Heinrich arriva a una conclusione; è però qualcuno «che comincia a capire»: e capisce in un tale tumulto di sentimenti da farsi all’inizio «mortalmente pallido» e poi lentamente «rosso fuoco». «Solo il vecchio folle era l’unico ad avere perfetta
chiarezza» (340). La conoscenza chiara e certa è dunque riservata alla
pazzia di Ruprecht. La gradazione di conoscenza da Heinrich a Ruprecht
era stata del resto già comunicata al lettore: Heinrich è stato guidato alla
rocca da un presentimento e questo, «che non aveva osato esternare
nemmeno al suo amico, sembrò incarnarsi e rivelarsi nella follia di un
vecchio.» (331).
Entro certi limiti, le ragioni delle diversità sono subito chiare: Robert
è «il nuovo sindaco della città nera» (331), abituato a conoscere le cose
solo «dagli atti giudiziari» (336). E dunque, proprio perché è abituato a
questo tipo di chiarezza, non capisce niente della verità. Per Heinrich
sappiamo il contenuto della sua «rivelazione», e cioè che egli è «un tardo
rampollo» degli Scharnast (335); sappiamo però che la sua «rivelazione»
la deve alla «follia» di Ruprecht (331). È dunque questo tipo di pazzia che
conviene indagare per vederci più chiaro.
Ruprecht appare con un «volto e capelli tanto grigi quanto
l’antichissima opera muraria là vicino» (317), grigio come tutto il castello
che, in sostanza e colore, dà il titolo al capitolo (307). Egli si identifica
dunque col castello, tanto che quando parla del vino nascosto lo definisce «la nostra proprietà» (330). È dunque da sperare che capire il suo tipo
di conoscenza - o, se vogliamo restare alla lettera, il suo tipo di pazzia - ci
faccia capire qualcosa sul modo d’essere del castello. Le prime parole che
Ruprecht dice, rivolto a Heinrich, sono: «Andate subito nella sala verde»
(317); e ripete questo invito due volte, a intervalli (319, 331), fino a dichiarare a tempo debito che questo era il suo invito più pressante e l’uni33
co vero scopo della sua guida (339). A una ripetizione, la sala verde viene
definita quella «dove già tutti aspettano» (331): il che ci fa pensare a
un’attesa di persone viventi. Heinrich viene poi subito chiamato da Ruprecht «Vostra Signoria» (317) e poi esplicitamente «Conte Sixtus» (323).
Nell’identificazione che Ruprecht fa di Heinrich von Sixtus compaiono
poi due tempi: uno - come ricostruiremo poi - antecedente all’adulterio
con Chelion («Vi prego, salvate l’anima vostra, conte Sixtus!», 337); un
altro susseguente all’adulterio - e questo è il caso più frequente (p.e.:
«Non siate più arrabbiato, Bertha è morta da tanto tempo.», 330; e poi:
«ma io ho tenuto i denti della mia bocca chiusi come ferro e non vi ho
lasciato passare parola», 337). Infine c’è un tempo perfino successivo alla
morte di Sixtus («Voi moriste», 338) che però non influisce minimamente
sulla realtà dell’identificazione Heinrich-Sixtus («Oh, vi ho riconosciuto
subito», 342) dal cui ritorno Ruprecht si aspetta una discendenza «da far
dipingere tutta la sala e da riempirci tutto il futuro, fino al giudizio universale» (341), come del resto era nei progetti del fondatore della casata,
che aveva contato «su una eternità della sua stirpe» (339).
Ruprecht ci era stato presentato già all’inizio come uno indifferente al
mutare delle stagioni. La visita di Heinrich e Robert al castello si svolge
d’estate. in un giorno esplicitamente dichiarato caldo (316), anzi in cui il
sole picchia (322). Ebbene, Ruprecht ha per copricapo un berretto di
pelliccia perché, come spiega, «un berretto di pelliccia va bene per questo
[=il sole cocente] tanto quanto per l’inverno.» (ivi). Come se tutto questo
non bastasse, il narratore a un certo punto annota: «Il suo spirito si era
librato in anni in cui Pia non c’era» (331). E così sarà Ruprecht fino alla
fine: apparentemente eterno, seguiterà a raccontare «storie che nessuno
capisce»; ma per raccontarle occorre avere un pubblico. Invece il pubblico non c’è e il narratore annota subito dopo una cosa strana: «del resto
non le racconta a nessuno» (379).
A questo punto possiamo dare un nome alla pazzia di Ruprecht: egli
ha cancellato il tempo, per lui tutto è presente allo stesso momento, magari anche grazie alla reversibilità di un decorso temporale (da definire
ormai non più che apparente). E ha cancellato tutto ciò che potrebbe
mettere in forse questa costruzione, quindi tutto ciò che è esterno al castello. Nessuno capisce le sue storie; uno però che, se non proprio capite,
le ha almeno intuite, c’è stato ed è stato Heinrich. Che sia pazzia, il narratore ce lo vuol far credere manifestamente. Ma la sua dichiarazione in
materia è sibillina:
34
La rimozione di quelle leggi, sulla cui esistenza nella testa altrui si conta
con fiducia quale unica cosa che ha infallibilmente in comune con noi, ha
in sé qualcosa di talmente orrido che non ci si azzarda a toccare questo
strano orologio perché non risuoni ancora più stridulo e non ci confonda
definitivamente sul nostro.
(331)
Il veleno è nella coda: Heinrich e Ruprecht sono portatori di due «orologi»; Ruprecht crede manifestamente all’ora che segna il suo (per proseguire la metafora) e Heinrich teme di cominciare a crederci: non per nulla
i «presagi» da cui è percorso lo sconvolgono (332). Sono a conflitto due
leggi di pensiero, e quella di Ruprecht è la più forte, anzi è l’unica (l’abbiamo già visto) di «perfetta chiarezza» (340).
Ora la sua è la legge del castello. Quando infatti il terzetto arriva finalmente nella sala verde, si trova di fronte ai ritratti di tutti gli Scharnast
(erano loro i personaggi in attesa, di cui Ruprecht aveva parlato come di
esseri viventi). Il lettore sa che la stirpe esiste da settecento anni (327),
ma i ritrattisti nominati sono Rubens, Van Dyck e Murillo (333), tutti notoriamente del Seicento. Esplicitamente il narratore commenta:
Erano tutti ritratti eccellenti, sebbene manifestamente dipinti molto più
tardi di quanto i loro modelli non fossero vissuti, ma probabilmente sulla
base di originali ancora presenti, seppure scadenti
(333-34);
insomma anche i pittori hanno provveduto a rendere omogenea la stirpe,
cancellandone per quanto possibile il fluire del tempo. Anzi si insiste sulla somiglianza degli Scharnast: «tutti segnati da una strana esaltazione,
come da un marchio di famiglia» (334). È vero che a un certo punto comincia una frattura all’interno della continuità (335); ma innanzitutto essa
viene prontamente risanata («L’epoca delle trine e dei codini [...] cessava
improvvisamente con un uomo», 336); e poi ha una funzione che vedremo più in là. Ora chi risana la frattura la risana ad abundantiam perché è
ritratto «in un abbigliamento totalmente forestiero [...], che non apparteneva a nessun secolo della storia» (336): se il tempo per un attimo s’era
infilato, ecco che viene subito cancellato.
Questa legge è conseguenza del «ridicolo fidecommesso» (279)
all’origine di tutta la storia. Attraverso l’obbligo di scrittura delle autobiografie, Hanns von Scharnast aveva voluto stabilire una legge di comportamento unico per tutti; cioè aveva stabilito una continuità e una omogeneità intese (come già sappiamo) eterne. Gli scopi che si era proposto 35
così ci viene detto - erano di fornire uno specchio e ammonimento ai
posteri da una parte, e garantire preventivamente l’esercizio della virtù
dall’altra. Ora noi sappiamo che una omogeneità è stata anche effettivamente raggiunta, però in senso contrario. Dunque omogeneità e continuità, ma degenerate. Il perché di questo ci viene spiegato dalla seconda
legge che vige al castello: accanto a quella dell’omogeneità e continuità
(potenziate fino a cancellare il tempo) ce n’è infatti una contrapposta,
quella dell’estremo individualismo, peraltro in una versione particolare:
esso reintroduce la morte lì dove la prima legge voleva cancellarla.
Quando Heinrich scopre il castello trova che esso «non è costruito
proprio in nessuno stile.» (285). Gli viene precisato che la situazione è
più complessa:
Dentro avrete abbastanza castelli da vedere, tutta una collezione di castelli, una mezza città di castelli, incollati tutt’intorno a ogni specie di pietra rossa.
(ivi)
Quando Heinrich entra nel castello trova come prima cosa delle rovine;
per un obelisco rotto ottiene la seguente spiegazione: «Il conte Johannes
è morto già da trecento o quattrocento anni» (318). Manca cioè una continuità vivificante: chi succede (come verrà ampiamente confermato in
seguito) non si istalla nelle costruzioni precedenti ma ne fa di nuove e lascia andare in rovina le vecchie (e significativamente Heinrich farà eccezione alla regola). Questo è il capo in cui sembra sfogarsi l’individualismo, costretto per il resto a non esprimersi. Per questo tutto il monte ha
un’aria cimiteriale. Contro l’artificiale fissaggio imposto da Hanns von
Scharnast, i successori hanno fatto posto alla morte.
Su questi due punti c’è nella novella assoluta chiarezza. Ecco come si
presenta a Heinrich «la collezione di edifici»:
Tutto era più grandioso, più vasto e anche più confuso di quel che aveva
pensato. Per secoli e secoli tutta una stirpe doveva aver abitato, scavato e
costruito su questo monte. Costruzioni isolate, quasi tanti singoli castelli,
si ergevano in punti diversi, basse mura correvano in qua e in là, parapetti si gonfiavano, la grazia di statue greche inviava i suoi miti sguardi, una
torre a punta si drizzava da un rosso frontone roccioso, una rovina era in
mezzo a un querceto e lontano, su una lunga lingua di terra i cui lembi
cadevano a precipizio, brillava il biancore di costruzioni recenti. E tutta
questa diffusa mescolanza di edifici, giardini e boschi era circondata dalla
medesima muraglia ferrigna, alta, grigia, spessa.
(319)
36
L’impressione è dunque di un groviglio senza legge, di un caos o almeno
di un «miscuglio», reso però compatto verso l’esterno, da cui lo separa la
muraglia che non ha «né portale né ingresso» (208) e di cui si dice: «Come un buio frontale circondava l’ampio monte e ne ritagliava la vetta dal
resto del mondo.» (319). Quel che è dunque disomogeneità e groviglio
all’interno della muraglia, è però compatto verso l’esterno. «Magnifico e
pazzesco» è il commento di Heinrich di fronte al groviglio e al miscuglio.
L’unico restauro operato da uno Scharnast lo si deve a Christoph:
«l’arpa funebre di Prokopus, che aveva fatto rimontare, a volte risuonava
o vibrava, di notte oppure di giorno» (323). L’unico restauro è dunque un
restauro funereo. E della morte gli Scharnast s’intendono, non c’è che
dire. Le uniche parole di lode, oserei dire di complimento, vengono infatti riservate al cimitero, «che quasi invitava alla pace e al sonno», pieno di
«sublimità», semplice, discreto, fuso con la natura (327).
È stato il cozzo di queste due leggi contrapposte a far degenerare la
prima da continuità della virtù a continuità della stoltezza, che è un’altra
parola per dire infelicità e sentimento («la loro felicità è la loro infelicità e
il loro cuore», 372).
Il perché e il percome ce lo spiega l’introduzione alla storia di Jodokus, che consiste in un lungo discorso sul rapporto tra novità (cioè individualità) e continuità. Hanns von Scharnast aveva voluto additare la meta nel passato, cioè nella ripetizione. Invece la meta è ignota ed è nel futuro perché «tutto scorre via; dove va? non lo sappiamo.» (357). Anche
se la legge di continuità non vorrebbe ammetterlo «ogni vita è una vita
nuova» e il passato non ci è di ammaestramento. Esistono delle costanti
umane, non c’è dubbio; ma esse assumono una forma sempre nuova ed è
di questa che bisogna tener conto. Esistono forze che spingono in avanti
(«qualcosa opera attraverso di me», 357), e la continuità che vuole raggelarle non può di fatto vincerle ma solo distorcerle:
poiché il demone delle azioni si erge ogni momento davanti a noi in una
nuova forma e non riconosciamo in lui uno che è già apparso a voi, e i
vostri scritti non mi servono.
(357)
Hanns von Scharnast non voleva far morire nessuno («i dormienti, dal
loro antenato condannati a non morire», 358) e i discendenti si sono di-
37
fesi come potevano da questo congelamento, cioè riaffermando il proprio diritto di morire, cioè di vivere come persone nuove.
Tale ribellione non è però mai uscita dalla cinta del castello; ha logorato gli Scharnast (per le insensate disposizioni «per cui i proprietari devono distruggersi», 371) ma non ne ha cambiato il destino globale, quello di
passare da una follia all’altra: ha capovolto l’immagine della continuità
ma non l’ha spezzata (e dovremo vedere fino a che punto in generale essa possa esserlo.)
Jodok è tra coloro che, entro questo quadro, si sono spinti più in là;
ha infatti tentato una mezza rivoluzione; ha voluto il nuovo (359), in polemica con quanto leggeva nelle autobiografie degli antenati. S’innamora
e sposa una paria, il che nella storia degli Scharnast deve essere stato proprio una novità. Ma questa viene subito negata dall’assimilazione delle
storie precedenti, queste «vite umbratili» di tanti morti, questi «spettri»
persecutori (358):
Lei non conosceva altra felicità che vivere nella foresta [...]; io però ne
conoscevo un’altra, la nostra felicità europea, e a quell’epoca la ritenevo
vera. [...] il mio duro cuore era prigioniero della sua Europa e non sospettava che potesse essere diversamente, che io, il più forte, avrei dovuto e potuto sacrificare quel che la più debole davvero sacrificò ma non
poteva sacrificare.
(361-62)
Da un confronto con la storia di Heinrich e Anna sappiamo che alla base
del fallimento di Jodok c’è un’insufficienza etica, dunque sua personale:
Di fronte alla natura, amatissima, non si può mentire, lo si può solo di
fronte a un’altra menzogna; si lascia solo chi ci ha lasciato ancor prima di
trovarci, perché in noi cercava soltanto la sua felicità.
(303)
Così è spiegato il tradimento di Chelion, la cui colpa è portata però dall’egoismo di Jodok, come appena spiegato. Jodok non ha saputo essere
natura nei confronti di Chelion perché il suo artefatto cuore europeo
glielo impediva. C’è però un’altra ragione del fallimento di Jodok, e conviene anticiparla: la sua ricerca del nuovo è stata individualistica, conformemente alla storia degli Scharnast; niente, al di fuori di lui stesso, interveniva a garantirla. Ma appunto lui - chiuso entro la cinta muraria - non
poteva garantire nulla. Di una garanzia esterna e non individualistica, l’unica efficace, Jodok non disponeva. La sua ricerca del nuovo era dunque
vana e inautentica fin dall’inizio. Del resto suonano funeree le parole di
38
Chelion quando dice «penserò di doverti seguire» (360) perché nel contesto tale «seguire» è assimilato al suicidio della vedova che nell’uso indù
segue la morte del marito. Sotto il peso del suo destino, Jodok impazzisce (338). La sua storia appartiene contemporaneamente alle grandezze e
alle deviazioni del genere umano (371).
Seguendo però così da vicino la storia di Jodokus rischiamo di perdere di vista un’osservazione tenuta in termini generali e che sarà di grande
importanza per lo sviluppo di un’alternativa a questi comportamenti.
Dell’ultimo Scharnast si dice infatti che «era di carattere molto impetuoso» (322), ma già il primo aveva da incolparsi di molte «precipitazioni»
(280); anzi il generale contrassegno di famiglia è una certa «esaltazione»
(334). Jodok fallisce dunque anche per queste caratteristiche. Avremo
modo di vedere che esse non sono soltanto psicologia (né che sono trattate solo come conseguenza dell’urto fra le due leggi dette) ma una filosofia, cui ne verrà contrapposta un’altra.
Dopo Jodok, gli Scharnast sembrano perdere completamente la bussola. Il figlio Christoph - lo sappiamo già - fa restaurare l’arpa funebre di
Prokopus (323) e poi va «tra i mori, per sostenere i pagani contro i cristiani» (289), restando ucciso non si sa se da questi o da quelli. Così il tralignamento e il fallimento degli Scharnast sembra compiuto e irreversibile.
Certamente Christoph è un punto di non ritorno. Con lui finisce tutta
una serie di cose. Tuttavia Christoph aveva anche tentato qualcosa di
nuovo, e di questo non tutto andrà perduto. Però non può essere lui a
svilupparlo. «Ah, tutto, tutto è rimasto incompiuto» lamenta Ruprecht
(328). Del resto le onoranze che Christoph aveva pensato per la premortagli Narcissa erano abusive («Narcissa non può entrare nella sala verde»,
341; «tutto è incompiuto; tutto è falso, il suo onore e il suo innalzamento
sono falsi», 344). Tuttavia ripeto, Christoph si è lasciato dietro qualche
incipiente novità, pur rovinata dal suo carattere impetuoso (322): la sua
fuga in terra pagana non viene paragonata a quella già fallita di Jodok ma
a quella di Julius, da cui invece comincia tutto un nuovo ciclo («perché
vedete, era anche ostinato come il conte Julius, che se ne andò via anche
lui e non è mai più tornato», 322). E poi s’è lasciato dietro la figlia Pia, «la
timida, selvaggia bimba» (327), «con i neri occhi selvaggi [...] timida e selvatica come una giovane agile pantera» (324). È facile rendersi conto che,
fra le altre cose, Pia simboleggia la natura (più selvaggia di quella simboleggiata da Anna) che può rimettere in moto tutto, al di là dell’irrigidimento cadaverico tentato dagli Scharnast.
39
Ma le leggi degli Scharnast sono talmente diverse da quelle del mondo
esterno (da cui il castello è rigidamente separato, come abbiamo già visto) che Heinrich commenta:
Mi pare d’essere in una fiaba antica, tutto è così strano, come se qui sotto
non ci fosse più la Fichtau in cui invece mi trovavo ancora ieri.
(320)
Tanto che per non perdere il contatto con il presenta sale a vedere il panorama, ad accertarsi che il mondo esterno non sia scomparso (321).
Heinrich è un discendente del conte Julius, che un secolo e mezzo
prima (335) aveva abbandonato il castello per non tornarvi mai più. La
sua discendenza «si era perduta nel popolo, da cui del resto un giorno era
emersa.» (288). Perché Heinrich ritorni al castello c’è dunque voluto un
secolo e mezzo di lontananza. ma non di lontananza solitaria e impulsiva,
come era stata - sotto aspetti diversi - quella di Jodok e di Christoph.
Ammessa anche l’impulsività di Julius, la garanzia di riuscita gli veniva
non dall’individualismo ma dalla comunità, dal “popolo”. Ora proprio
mentre gli Scharnast si rinnovavano in questa specie di bagno nel popolo, cominciava invece nel ramo principale quella decadenza di cui testimoniavano i ritratti; appunto dopo la fuga di Julius
si interrompeva la serie fin qui avutasi di teste importanti e ne seguivano
altre di una totale nullità, tutto un edificio di riccioli e merletti e volti cerimoniosi e vuoti
(335),
prima che Jodok e Christoph facessero gli ultimi, disperati tentativi di
salvezza. L’operazione di Julius viene così valutata da Vater Erasmus:
Io pensavo che se Julius ha sposato una contadina, potrebbe essere che,
perché la razza è cambiata, come si fa coi semi dell’agricoltura, per farli
riprendere - potrebbe essere, come si dice ... che ci arrivi un signore più
posato.
(291)
Questo paragone agricolo prefigura anche come andranno effettivamente
le cose. Solo che prima occorrerà una controfuga.
Il castello dei folli è la storia di un avvicendamento al potere e l’esposizione di una filosofia di intervento sulla storia. Ora Erasmus dice quel
che dice intendendolo anche come una critica di Heinrich: il «signore»
che lui si aspetta deve infatti essere «più posato» che non costui, il quale
40
non gli appare affatto «posato». Il suo «fare e affaccendarsi» appare infatti a Erasmus come agli altri «inutile e ridicolo» (294-95). Anche la madre
di Heinrich non la pensa diversamente: «se facessi qualche altra cosa e ti
volgessi ad altro» (354) gli scrive. Heinrich non si nasconde di essere disprezzato da tutti («che qui tutti disprezzano», 299). E a sua volta sa di
avere a lungo vagato senza meta («quanti giorni già non ha oziosamente
vagato per il mondo», 298): è in fuga dal popolo ma non sa ancora verso
dove. Qualcosa indubbiamente ha trovato: «l’imperscrutata fiaba della
natura» l’ha trovata «in un cuore umano» (311). Anna è d’altra parte simile a lui, anche lei compresa in una sua forma di fuga. Se Heinrich è ridicolo già per il suo abbigliamento (281), lei accetta sì di vestirsi in pubblico come tutti, in compenso «a casa indossava però abiti da lei inventati
secondo la sua fantasia» (308), anzi pur vestendosi in pubblico «come le
valligiane» al vederla «si sarebbe giurato che venisse da tutto un altro paese e portasse un vestito che si era inventato» (312). Ella può apparire sufficientemente in fuga o - per dirla con le sue parole - isolata («dovevamo
sempre andare sole», 299), da ispirare a Heinrich «inclinazione e pietà»,
così da desiderarle «sollievo e felicità» (310-11).
A Heinrich, Vater Erasmus nega ogni capacità ed egli si difende rivendicando capacità radicalmente diverse da quelle del popolo: «Ma che
direte, Erasmo, se mi metto a sedere e con vostra meraviglia un bel giorno ci so fare di più di tutti voi e di tutta quanta la Fichtau» - cui peraltro
segue un apprezzamento degli artigiani (291). La sua abilità è quella di ascoltare la voce della natura, si dichiara «destinato a leggere nel libro di
Dio e le pietre, e i fiori, e l’aria e le stelle sono le sue lettere» (304). Così
può vedere in Anna la natura (303), così acquisisce la capacità di interrompere e capovolgere la serie luttuosa degli Scharnast (con quali limiti e
quali rischi, lo vedremo presto). Heinrich è capace di vedere cose «che
nessun altro aveva notato» (282); può anzi contestare a Erasmus e agli
altri di non rendersi conto di quanto hanno intorno, così che «trascurano
il più bel marmo» (284) o ne fanno un uso inadeguato. Poi Heinrich mostrerà tutta una serie di abilità quando si tratterà di riattivare il castello.
Ma può realmente Heinrich sfuggire alla legge degli Scharnast? Il rinnovamento del potere, che egli fa dopo averlo preso, è davvero reale e
totale? O potrebbe essere tale? Indubbiamente Heinrich ha preso delle
decisioni chiare e mirate. Diversamente dai suoi predecessori, non fa costruire per sé un nuovo castello ma fa restaurare quello di Christoph
(373); e poi fa restaurare le serre di Chelion (373, 378): ricomincia insomma da lì dove gli sforzi di rinnovamento erano stati tentati ed erano
41
falliti. Ristabilisce una continuità, senza gli eccessi di un individualismo
frustato. Ma a sua volta è costretto in una continuità che lo preoccupa.
Infatti deve leggere le autobiografie degli antenati; delle sue carte, Jodokus gli consiglia di farle saltare tutte in aria o almeno di dimenticare
immediatamente quanto letto, così che i fantasmi di tutto il loro fare non
si mescolino nella tua vita e non la turbino, piuttosto bevila pura e operosa dalla mano del tuo creatore.
(358)
Heinrich non ne è capace ed esce dalla lettura «col cuore greve», timoroso dei «fantasmi» che gli faranno corteggio (372). Vivrà anzi il proprio
matrimonio assillato dal parallelismo con la storia di Jodok e Chelion
(376, 378). Certo, la sua storia è diversa; alcune ragioni le abbiamo viste:
la mancanza di egoismo ma, soprattutto, la garanzia popolare. Tutti sono
contenti
perché uno dei loro signori aveva scelto una di loro. [...] Il nuovo conte
non aveva una grande famiglia né relazioni altolocate. Perciò i suoi ospiti
erano tutti della Fichtau. Erano suoi sudditi, perciò suoi parenti.
(376)
Heinrich stesso si sente al tempo stesso un continuatore e un rinnovatore, capace di salvare il castello «con tutti i suoi tesori e i suoi quadri dalla
decadenza e dalla spettralità» (350). Ma insomma la buona riuscita non è
sicura al cento per cento. Le preoccupazioni di Heinrich sono serie e lo
steso narratore limita cautamente la verifica ai pochi anni trascorsi (378).
Il semiperenne Ruprecht sembra stia lì ad ammonire sul ripetersi della
legge del potere, lui che se ne sta lì con la sua pazzia (sappiamo quale), a
raccontare a nessuno storie che nessuno capisce (379).
Certo, la garanzia data dal popolo della Fichtau viene ribadita alla fine:
«Fuori nella Fichtau è come è sempre stato e come sarà ancora per centinaia di anni.» (380). Questa costanza è ben diversa dall’artificiale cancellazione del tempo voluta dagli Scharnast. La Fichtau è una vera comunità; non idillica (sia Anna sia Heinrich ne sanno qualcosa) ma pur sempre
comunità. Mentre infatti gli Scharnast conoscono attraverso la loro sospensione del tempo e quella reclusione che è il leggersi le biografie,
mentre il cittadino Robert conosce dagli atti processuali, gli abitanti della
Fichtau conoscono la storia degli Scharnast per essersela tramandata attraverso la tradizione orale, anche con le incertezze che essa comporta,
ma col valore comunitario che essa ha (285 sgg.). Inoltre la comunità po42
polare, come il paragone agricolo di Erasmus ha spiegato, è stato il mezzo di rinnovamento degli Scharnast. Tuttavia, anche se Heinrich sembra
aprire tutto un nuovo periodo storico, la sua opera è pur sempre il risultato di una doppia fuga, prima via dal castello (Julius) e poi via dal popolo (lui stesso). La stessa Anna diventa irriconoscibile una volta entrata nel
castello:
Nella nobile signora, che incede con due fiorenti ragazzi, nessuno riconoscerebbe più la Anna della verde Fichtau; alla scuola di Heinrich infatti
lei diviene quasi un mezzo miracolo.
(379)
La fuga dal popolo è dunque tanto conseguentemente perseguita quanto
quella dal castello. Perciò il ricordo finale della Fichtau rassicura
sull’esistenza di ciò che ha assicurato il rinnovamento.
Chi fa la vera opera di mediazione e ce lo dice esplicitamente non è
Heinrich ma il narratore stesso. È lui il primo a contrapporre il «modesto
presente» della Fichtau al «buio malinconico passato» del castello e subito
dopo a promettere che il «fosco quadro» di questo verrà infine presentato «in una cornice più serena e gradevole» (314). Poiché conosciamo già i
valori simbolici dei due termini, possiamo leggere tale dichiarazione come un programma politico-filosofico. La stessa contrapposizione viene
poi messa in bocca ai personaggi, prima a Heinrich («un sereno presente,
posto intorno a un oscuro passato», 321), poi indirettamente a Robert
(«una vita chiara e benevola sulle rovine di questo passato confuso, forse
peccaminoso», 350). È sempre il narratore che si fa avanti in prima persona a unificare nel suo sguardo il castello e la Fichtau e parteggiando per
la nuova presa del potere (352-53). E infine si congeda dai suoi personaggi lasciandoli vivi, operanti e aperti a sviluppi futuri (378-80). Insomma: il narratore ci fa chiaramente capire di aver organizzato la propria
utopia; anzi nelle ultimissime righe, che promettono ulteriori novelle sugli Scharnast, si identifica con l’autore. Stifter ci ha comunicato una propria utopia, della quale ora possiamo costruire tutti gli strumenti.
Il primo è saper leggere nella natura. Heinrich è un «naturalista» (312),
così come lo era colui che iniziò la fusione con gli Scharnast (347). Una
delle qualità per saper leggere nella natura pare essere la fantasia. Ciò per
la verità non viene detto di Heinrich ma di Anna e dei suoi vestiti (308);
ma Anna è appunto la natura, ha uno «schietto cuore naturale» (303). E
lei legge in libri fantastici, sui quali ricostruisce la realtà, in conflitto con il
padre che invece trova in quei libri «solo follie» (302). (A questo punto è
43
bene inserire una breve parentesi: mentre Heinrich e Anna, leggendo nei
loro diversi libri, entrano fantasticando in contatto con la natura, scrivendo e leggendo invece gli Scharnast del castello se ne allontanano
sempre più: Hanns von Scharnast aveva immaginato il leggere e lo scrivere come fonte di buoni sentimenti e la letteratura - perché in fondo è
di essa che si tratta - come dotata di presa diretta sul mondo. Ma tutto
ciò è artificio, la natura ha altre vie, che vogliono essere conosciute e percorse secondo le proprie leggi, pena la degenerazione.)
Da questa base discende il primo strumento d’intervento sulla storia.
Esso è la Scham, il pudore, che Stifter definisce la prima volta in occasione dell’amore, la seconda volta in occasione del lavoro. Detto del «potere primordiale» dell’amore, Stifter introduce il suo «contrappeso»
tenero ma fortissimo: il pudore. Perciò quel che fa della bestia proprio
una bestia innalza invece l’uomo ad angelo del cielo e del costume e coloro che si amano correttamente sono santi nella sala più affollata come
sotto il pergolato dove solo l’aria notturna freme intorno a loro, anzi lì lo
sono ancora di più e per loro nessun petalo cade troppo presto o immaturamente dal grande fiore della felicità che il creatore aveva loro commisurato; non cade proprio perché non può cadere.
(297-98)
La lettura di questa definizione rischia di ingenerare equivoci se non la si
accosta subito all’altra:
Heinrich, in maniera esattamente opposta all’opinione che se ne aveva,
era pudico in tutto il suo agire e non precipitava nulla finché non era
come lo voleva e come accarezzava il suo cuore - poi però veniva anche
il momento che a tutti doveva manifestare come erano le cose.
(374)
Ora noi sappiamo che gli Scharnast erano tutti esaltati e impetuosi. All’inizio si può leggere anche di Heinrich che egli cade «molto facilmente» in
fervore o impazienza (282). Il pudore [Scham] si contrappone dunque a
tali caratteristiche negative e il suo contrario è l’impazienza. Pertanto il
pudore è il retto uso del tempo. È dunque esso a produrre «l’utile e durevole», il quale deve essere ben pensato e progettato ma realizzato senza
impazienza («era già stato più volte discusso e progettato ma doveva aspettare il suo tempo per svilupparsi gradatamente e durevolmente»,
373). Il misto di frenesia individualistica e staticità artificiale degli Scharnast ha trovato il suo primo contrappeso.
44
L’altro è la fedeltà [Treue]: essa procede da un corretto rapporto con
la natura (il ruscello sfocia nel fiume: «deve farlo ed è beato di doverlo
fare», 302) e dunque dall’apertura sincera nei suoi confronti cioè l’abbiamo già visto - dall’assenza di egoismo (303; quello che invece aveva rovinato il rapporto Jodok-Chelion).
È quindi sempre il rapporto con la natura a essere fondamentale. Non
per nulla alla fine Pia viene contrapposta vantaggiosamente ad Anna;
questa è infatti «quasi un mezzo miracolo» mentre Pia è un «compiuto
miracolo». E mentre Anna ha avuto bisogno della «scuola di Heinrich»,
ciò pare che per Pia non sia stato necessario. Del resto è lei la discendente del ramo principale e Heinrich la prende «in luogo di figlia» (379). «Per
uno strano scherzo della natura» è diventata somigliante ai nonni Chelion
e Jodok, così come in Heinrich si è verificato il «miracolo della stirpe [...],
quando cioè in un membro all’improvviso rispunta la stessa configurazione che una volta c’è stata» (348). La continuità all’interno del potere
ha dunque un suo valore, tanto più che nel caso di Pia sa anche di riparazione del torto fatto a Chelion. Col che Stifter rende anche omaggio a
quello sfrenato individualismo che aveva sì costituito la ragione del fallimento di Jodok, ma anche della sua grandezza.
Agire sulla storia assecondando i ritmi della natura: questo è il pudore
[Scham]. Sapersi sempre in una comunità: questa è la fedeltà [Treue].
Con ciò niente ancora è garantito, anzi pericoli ce ne sono in quantità;
alcuni sono quelli insiti all’esercizio del potere (li testimonia Ruprecht),
altri sono quelli nascenti da un contrasto perenne tra natura e società (li
testimonia Pia). Questi ultimi però sono quelli che garantiscono anche il
rinnovamento più radicale, accanto al rinnovamento storico più tangibile,
rappresentato dal controllo e dal ricambio offerti dalla comunità popolare, anch’essa a suo modo partecipe dei ritmi naturali ma anch’essa dotata
di una sua conflittualità.
Indubbiamente tra La fustaia e Il castello dei folli c’è una grande differenza. Nel secondo non ci sono le aperture abissali della prima. Del resto
i problemi sono diversi. Nella prima si trattava di mitigare il tempo mitico e la sua minaccia di straripare ovunque; il narratore si presentava come vittima potenziale (e forse più che potenziale). Nel secondo si tratta
di ricomporre un tempo storico degenerato; e il narratore si presenta
come l’organizzatore. Pertanto ben poco di misterioso c’è nel secondo (a
differenza della prima): il pazzo Ruprecht come conseguenza di un tem45
po storico che attraverso la staticità ha voluto costruire il proprio stesso
mito; e la selvaggia Pia, testimonianza di quelle forze naturali che nessun
artificio riesce a domare e che anzi vanno coinvolte nelle costruzioni umane. Non si tratta comunque di grandi misteri. Anche se il problema
del Castello dei folli (ricondurre il tempo storico, degenerato, a un conciliato tempo mitico-naturale) è inverso, soprattutto diverso è l’atteggiamento
sia dell’autore sia del narratore (neanche troppo distinti, come si è detto).
La capacità di spiegare tutto fa del Castello dei folli un’opera di Aufklärung.
46
Il progetto, il futuro
Nella critica stifteriana si parla di novelle “matrimoniali”. È giusto; o almeno è un modo di vedere. Ma esse hanno attinenza con la discendenza,
dunque col problema della morte. E questo è un altro modo.
Fondando il tempo in questo modo, cioè attraverso la discendenza, si
fonda anche lo spazio: esso è il luogo dell’azione proiettata (è secondario
se realiter o nell’immagine). E quanto più durevole l’azione, tanto più aperto lo spazio. Esso peraltro ha alla base un elemento minimo (uno
spazio più ristretto); è l’individuazione storica e personale. Di contro c’è
lo spazio vuoto, che è immenso: è il luogo della sregolatezza, del nonamore (l’America e la Parigi di Ronald, la Parigi e altro del colonnello
delle Carte del mio bisnonno [Die Mappe meines Urgroßvaters], le peregrinazioni del Viandante nel bosco [Der Waldgänger]). L’amore fonda un
tempo concreto (pieno di destini umani e destini delle cose, con amore
reciproco) e uno spazio concreto. Accetta il movimento e il progresso
perché accetta la morte.
Il tema delle pagine che seguono può annunciarsi in maniera semplice: il futuro, ovvero la progettazione. Preferisco però avvertire che, seguendo certe opere di Stifter, ci arriveremo in una maniera che non ritengo la più usuale; partendo da una analisi dei rapporti causa-effetto (a
proposito della quale Stifter accenna a discutere il termine “destino”),
vedremo fondarsi - dipendentemente dalla causalità - i concetti di spazio
e di tempo (i quali a loro volta interferiscono reciprocamente), quello
della sessualità come fondazione biologica del futuro e infine il tema della morte.
Per esplorare Abdias dobbiamo attraversare tre livelli di significato: al
primo c’è il problema del rapporto causa-effetto, al secondo c’è quello
della poesia, al terzo ci sarà quello dello spazio e dell’organizzazione del
mondo sulla base della non-loquenza. I primi due sono relativamente
semplici da analizzare: le analisi già fatte da altri in materia ci saranno
d’aiuto e varie sentenze di Stifter completeranno l’opera. Per il terzo si
vedrà.
Le prime due pagine della novella (specie di introduzione tematica subito ritrattata), enunciano il tema della causalità. Parlare di fato quale
«ultima irrazionalità dell’essere» (582) oppure cristianamente di destino
47
(«una cosa mandata da una potenza superiore», 581) non è parlare proprio, poiché essi vanno sostituiti con una «serena catena di fiori, [...] la
catena delle cause e degli effetti». Questa catena ha qualcosa di singolare,
su cui sarà bene fare attenzione: da una parte essa appare quanto di più
oggettivo si possa pensare, distesa com’è attraverso tutto il mondo («si
stende attraverso l’infinito»), in maniera dunque che niente le possa sfuggire. Dall’altra però l’uomo non ne sembra prigioniero: il suo cuore ne
viene illuminato, il che è evidentemente meno forte che inserirlo in un
lungo rapporto causale; ma soprattutto la ragione, che è pur un elemento
della catena, è quella che può fungere da centro prospettico e riannodare
la catena stessa fino al suo compimento, cioè fino a Dio. Cioè la ricostruzione avviene attraverso una prospettiva soggettiva: senza epicentro
nella ragione umana, niente catena. Se ora la catena è ricostruita completamente e correttamente, non c’è caso ma conseguenze (quel che noi
chiamiamo l’inatteso sono soltanto le lacune della ricostruzione); e non
c’è disgrazia ma colpa (quel che chiamiamo sventura è in realtà un uso
scorretto della causalità). Delegato a operare la ricostruzione con completezza è il progresso della conoscenza umana, il quale farà vedere come
perfino il dolore è, in ultima analisi, anch’esso un fiore di quella catena.
E bisogna dire che a questa dimostrazione sembra mirare
l’illuminismo provvidenzialistico di Stifter: il temporale che in Abdias dà
la vista a Ditha provoca altrove devastazione, quello che le dà la morte è
per altri luoghi una benedizione, così come il temporale finale dello Scapolo [Der Hagestolz] provoca da una parte effetti benefici, dall’altra malefici: l’armonia del tutto è fatta di contrari che uno sguardo superiore sa
conciliare. Ma questa modesta sapienza viene fortunatamente interrotta
già nella prefazione, che mette fine ai ponzamenti per limitarsi a raccontare una storia che non risolve il problema ma induce a porselo. Lo dice
lo stesso Stifter. E io voglio prenderlo sul serio non seguitando a pensare
la sua filosofia nei suoi termini, ma prendendolo sul serio come autore,
che nelle sue opere ci dà molto di più di quanto non riesca a far affiorare
nella sua riflessione.
Per prima cosa però voglio prenderlo sul serio nelle sue intenzioni. In
Abdias egli effettivamente costruisce una sequenza completa di cause ed
effetti: ciò che succede al protagonista è sempre riconducibile a una causa, umana o naturale; e, quando la causa è umana, le colpe e i meriti di
Abdias sono attribuibili con certezza. Dialetticamente, se si vuole, ma
con certezza. Da Abdias potremmo addirittura ricavare una specie di catechismo. Anzi, perché no? Dati gli scopi edificanti di quella teoria, direi
48
che se lo merita, perciò eccolo servito iuxta propria principia e iurando in
verba magistri:
D: Perché Abdias, che pure è un sognatore, che anzi sembra avere la
stoffa del profeta, si dedica al commercio?
R: Perché obbedisce a suo padre Aron e alla sua filosofia («poiché l’uomo non ha null’altro al mondo se non ciò che egli si acquista», 587) e
perché questa è la tradizione, che anch’egli accetta («ma allora il figlio
rassegnato e paziente prendeva il bastone del padre», 584) da bravo
figlio obbediente.
D: Perché Abdias è odiato? (592)
R: Perché «Fortuna e ricchezza si accumulavano sempre di più.» (592)
D: Perché sua moglie Deborah lo disprezza e lo fugge?
R: Perché Abdias è rimasto sfigurato dal vaiolo e Deborah «aveva ricevuto solo occhi carnali, per vedere la bellezza del corpo, e non gli spirituali, quelli del cuore.» (592)
D: E allora perché Abdias l’aveva sposata?
R: Perché «quando l’aveva scorta a Balbek anche lui non aveva visto che
la sua grande bellezza, e quando fu lontano non portò con sé che il ricordo di quella bellezza.» (592) (Dunque se l’era voluta.)
D: Perché Abdias si dà sempre più al commercio e sta sempre più lontano da casa?
R: «perché in terre lontane aveva ciò che a casa gli era negato: stima, considerazione, autorità.» (593)
D: Perché Abdias tradisce la sua città?
R: «Perché sei andato in giro nelle loro frivole vesti.» (597)
D: Perché Melek-Ben-Amar saccheggia la città?
R: Perché, quando si era presentato a Abdias come inviato del Bei a trattare un prestito, questi lo aveva trattato dall’alto in basso («assai a lungo l’aveva fatto aspettare e assai insistentemente l’aveva fatto pregare
prima di accondiscendere», 593-94).
E si potrebbe continuare così fino alla fine. Ma penso che basti accennare brevemente ad alcuni punti importanti: Abdias vuole vendicarsi di Melek e piantargli un coltello nel cuore perché questo (584) è l’uso del suo
popolo. Va perciò in Europa perché vuole mettere la figlia al riparo da
49
Melek (639, 644). La nascita di Ditha l’ha allontanato dal commercio perché Abdias vuole dedicarsi tutto alla sua missione di padre (621) e di
vendicatore. La scoperta della cecità di Ditha lo fa però tornare al commercio al fine di assicurare alla figlia quella ricchezza in cui, come già suo
padre, vede l’unica sicurezza. Quando però Ditha riacquista la vista,
cambia anche la vita di Abdias, che abbandona il commercio per darsi
all’agricoltura. E infine quando Ditha muore, Abdias - colpito in quell’affetto che è stato la causa immediata più importante dei tanti cambiamenti
successivamente intervenuti nella sua vita (salvi i condizionamenti culturali) - non regge al colpo e impazzisce.
A parte queste cause, chiare e certe, ci sono relazioni causali più sfumate, meno certe nei meccanismi, ma non meno univoche. Tali sono innanzitutto quelle riconducibili a cause naturali. Le condizioni in cui Ditha
è partorita possono essere state causa della sua cecità (il narratore non ce
lo dice esplicitamente ma ce lo lascia supporre). La motivazione del processo a seguito del quale Ditha riacquista la vista è molto cauta e data
sottolineando la nostra ignoranza delle cause naturali (652); però non è
meno certa, anche se il narratore sottolinea come ne siano sconosciuti i
meccanismi (a livello filologico si sono potute ricostruire le conoscenze
di magnetismo ed elettricità che Stifter aveva e che ha utilizzato per l’occasione1). La ragione della morte di Ditha è ugualmente univoca: l’elettricità di cui lei (661) come suo padre (cfr. 598) sono carichi in maniera
eccezionale costituisce già un pericolo in occasione dell’esposizione a un
temporale; per di più Abdias accumula una quantità di covoni per riparare sé e la figlia da una pioggia che non cadrà (670): tutto questo attira il
fulmine e Ditha muore. Ecco dunque che c’è una causa naturale (attrazione elettrica) e una causa umana (l’accumulo di covoni), dunque una
responsabilità non molto dissimile da quella per cui Abdias aveva ucciso
il cane, fraintendendone il comportamento e credendolo rabbioso (651).
Ci sono poi rapporti causali più complessi. La persecuzione cui Abdias è
sottoposto da Melek causa molti danni, fra cui la morte della moglie Deborah. E tuttavia essa fa in tempo a riportargli l’amore di Deborah e dare
a costei la felicità, anche se l’uno e l’altra durano pochissimo (600, 612).
Anzi dopo il momento distruttivo che vorrebbe fargli gettare la figlia sulle sciabole dei soldati predatori (599), Abdias scorge in quegli affetti «il
principio di quella salvezza, che non era mai venuta e che non aveva mai
saputo dove cercare» (600). Altrettanto complessa - magari anche di più 50
è la ragione per cui Abdias va in Europa. Sappiamo già che vi vuole mettere al riparo Ditha per quando andrà a vendicarsi di Melek. Ma l’attrazione per l’Europa è di molto precedente: Abdias è in realtà attratto da
un altro modo di vivere e da un altro sapere (591, 593). Perciò nella decisione di passare in Europa giocano più motivi: quello della sicurezza è
cosciente e viene enunciato, quello della autoaffermazione è remoto e il
lettore deve ricostruirlo.
Insomma le tesi di Stifter sono ricostruibili con chiarezza e la novella
potrebbe essere rinarrata da questo punto di vista: le cause dei comportamenti di Abdias possono essere ricostruite sia sul piano sociologico
(addirittura per quel che riguarda i moventi più lontani, fino al carattere:
Abdias è taciturno perché vissuto nel deserto, nasconde i suoi pensieri
perché perseguitato da secoli, si dà al commercio perché è obbediente),
sia sul piano più immediato e individuale quando si devono spiegare cose
puntuali. Quindi si possono dare le cause delle distorsioni nelle decisioni,
delle capacità e delle incapacità, delle colpe e dei meriti. Alla fine si ottiene un equilibrio complessivo in quella fiorita catena di cause ed effetti;
basterà ricordare gli esempi dei due temporali (665, 673) che portano sia
vita sia distruzione, così come il saccheggio di Melek aveva portato odio
per Abdias ma anche l’amore di Deborah per lui. Non solo tutto si equilibra, ma alla fine trionfa addirittura il bene: Abdias ha reso fertile quella
valle desolata, e seppure non ne abbiano goduto molto né lui né Ditha, la
terra però è passata a suoi amici (672).
Come se non bastasse, Stifter sembra voler suggerire che noi stessi
possiamo trovare un equilibrio personale all’interno di quella catena che
è la vita. Non lo dice, per la verità, in maniera diretta; i buoni consigli sono affidati ad altre novelle. Tuttavia la nettezza con cui sono individuate
le cause dei comportamenti di Abdias sembra andare in questa direzione.
E non c’è da negare che una tale sapienza non è da disprezzare, anzi che
è utile e - che lo si voglia ammettere o no - costitutiva della nostra vita.
Se però si dovesse limitare Stifter a questo catechismo, sarebbe mortalmente noioso e disperatamente insufficiente. Presumo che il lettore non
abbia bisogno di venir erudito su ciò. Occorre dunque cercare gli altri
strati di significato per vedere se c’è di più.
Il secondo strato di significato è quello simbolico; come ci si può aspettare, vi si accede dal precedente. Occorre infatti chiedersi: quale è la
causa per cui Abdias comincia a deviare dalla retta via per andare incontro al suo destino? La risposta è: l’obbedienza (591; con tutta la dialettica
caricata su questa risposta). In soldoni: Abdias ha represso in sé la sua
51
tendenza fondamentale, diciamo pure la sua vocazione, che perfino il
padre aveva intuito: quella di darsi alle gioie non materiali, alle gioie che
appartengono al cuore; di diventare un profeta e una guida per il suo popolo (586). Il ragazzo - «tenero fiore» (585) - è portato a pensieri del genere. E anche nel deserto Abdias potrebbe diventare quel che per il suo
popolo diventò Maometto: la tendenza alla riflessione (al Sinnen) è analoga nei due, e all’apparenza anche la loro vita è simile (588). Di tale Sinnen ci sarà una reminiscenza quando, schivato da Deborah, Abdias penserà a un nuovo tipo di sapere, quello europeo. Ma è un pensiero per il
quale Abdias non cerca conseguenze reali:
Ma erano solo pensieri fuggevoli; così un fiocco di neve scende davanti
al viso di chi valica l’Atlante, ed egli non riesce ad afferrarlo.
(593)
E finalmente, proprio come Maometto, Abdias riesce a dimostrare le sue
doti di condottiero in battaglia (594-95); solo che ne rifiuta le smodatezze, detesta come i vinti di poco fa si trasformino in belve. «Abdias, che
aveva guidato l’attacco, era impotente a frenarlo» (595). E poi ormai è
troppo tardi per certi pensieri, e possono al massimo aversi delle fantasticherie. Il mancato profeta sembra realizzarsi nella figlia Ditha, in cui si
suol vedere il simbolo della poesia. Riassumo velocemente i risultati cui è
giunta la critica: Abdias e Ditha sono ebrei sia perché nell’Oriente («orientali» sono per Stifter gli ebrei, 585) Stifter vede la fonte della poesia (secondo una affermata tradizione), sia perché, essendo perseguitati e costretti a nascondersi, essi dimostrano entro quali stretti limiti la poesia
possa influire sul mondo. I tanti riferimenti all’Oriente fatti durante il
soggiorno dei due in Europa dovrebbero evidenziare il trapiantarsi della
poesia da Oriente a Occidente (l’Algeria, da cui prende le mosse la novella, non è più a oriente della Boemia, ma sul piano simbolico la cosa non
ha influenza).
Questi pensieri possono essere sviluppati e di fatto lo sono stati, raggruppando intorno a loro gran parte del materiale di Abdias. Giustamente
si è insistito sul carattere ambivalente della poesia: Ditha sboccia alla vita
ma di fatto si ravviva solo quando la natura presenta aspetti distruttivi,
come durante i temporali. Preferisco però saltare a piè pari tutta questa
parte (salvo i pochi cenni dati) perché quanto la sostiene riceve in realtà
la sua luce dal terzo strato. Per arrivarci ipotizzo (stavolta devo limitarmi
a un’ipotesi) ancora un legame causale. Ditha è nata cieca e non cammina; tra queste due cose c’è un evidente legame: Ditha non vuol cammina52
re perché le manca la vista per orientarsi nello spazio. Ditha è nata cieca
e non parla: suppongo che Stifter abbia visto un legame causale anche tra
questi due elementi (il secondo dei quali sarebbe altrimenti ingiustificato
nella novella, contro tutti i principî stifteriani. Perché e percome ce
l’abbia visto però non sono in grado di dire). Su questo non parlare,
l’autore insiste a lungo. Ditha emette suoni fuori del comune, di cui tutti
ignorano il significato:
Anche la sua lingua non parlava ancora, ma quando era molto contenta
emetteva strani balbettii, che non somigliavano ad alcuna lingua umana e
non si sapeva che cosa significassero. [...] Pronunziava le sue ignote parole.
(644; cfr. 646)
E c’è poi quel passo straordinario in cui Abdias, riconosciuta la cecità
della figlia, di cui non si era accorto fino a quel momento, accetta di ricevere da lei un’educazione linguistica, di imparare cioè quella lingua ignota, per cui Ditha inventa sempre nuove parole, e in cui i due si capiscono:
Le insegnava le parole di cui lei ignorava il significato - lei ripeteva le parole e ne inventava altre attinte alla sua condizione interna, che egli non
capiva e che imparava a sua volta. Così parlavano insieme per ore e ore e
ciascuno di essi sapeva ciò che l’altro intendeva.
(649)
Ma è una cosa che già conosciamo! È il risiedere della poesia al di là del
linguaggio. Quel motivo che nella Fustaia si presentava al modo visto, diventa tematico in Abdias. E il discorso vi prosegue sulla natura liminare
della poesia. Se questa ha le radici nella non lingua, è tuttavia nella lingua
che deve avvenire la sua manifestazione. E ciò è possibile grazie alla mediazione che la poesia è in grado di sviluppare. Il lungo processo nel quale Ditha, improvvisamente vedente, si appropria del mondo esterno,
culmina nell’illustrare la peculiarità della sua appropriazione: la vita diurna e la vita onirica sono per lei tutt’uno; e quelle immagini che del mondo si era fatta da cieca - incomprensibili per tutti - si mescolavano ora a
quelle esterne (662). C’è da chiedersi se, oltre a quelle immagini, non ci
sia anche da dire “la sua lingua”. La conseguenza di questa sintesi è:
ne nacque un modo di pensare e di parlare che a chi non la conosceva
appariva altrettanto sconcertante che se avessero davanti a sé un fiore
parlante.
(662)
53
Così viveva in un mondo fatto di vista e di cecità.
(663)
Potrei banalizzare tutto mettendo in evidenza una semplice e schietta ve
rità: in tal modo Stifter vuol fondare il diritto dello scrittore alle sue figure retoriche, delle quali in particolare esemplifica la sinestesia (663). Però
il problema mi pare più serio. E lo era certo anche per Stifter, il quale alla
fine non assegna a Ditha nessuna lingua particolare ma un miscuglio di
ben tre: arabo, una seconda innominata lingua orientale e la lingua del
posto (il tedesco):
Così la fanciulla conosceva in realtà una mescolanza di tutte quelle e in
tale lingua si esprimeva e aveva un modo di pensare adeguato ad essa.
(667)
Non si sarebbe potuto parlare più chiaro sulla natura liminar-mediatrice
della poesia. Ora è questa poesia, non-loquente, mediatrice, distruttrice e
impotente, a ricostruire il mondo. Ma arrivati a questo punto non possiamo più procedere semplicemente allineando dichiarazioni di Stifter.
Dobbiamo fare un salto. La ricostruzione del mondo avviene infatti attraverso la forma della narrazione e qui - per quanto strano sembri a
prima vista - ci incontriamo finalmente con i concetti d progetto, tempo
e spazio. Lo studio dei rapporti causali può infatti giustificare quanto finora detto e quanto ancora ci sarebbe da dire in proposito (col che non
la si finirebbe più) ma non giustifica - almeno non allo stesso modo l’avvicendarsi dei modi della narrazione.
Intanto guardiamo il cammino percorso: dalla fisica (la catena delle cause
e degli effetti) siamo passati alla metafisica (la non-loquenza della poesia)
da cui stiamo ora ritornando alla fisica (alla rifondazione del mondo esterno), che per tal via assumerà un altro aspetto.
Possiamo ora dividere Abdias in quattro parti; la divisione dipende dal
modo della narrazione. Nella prima parte noi seguiamo i pensieri di Abdias, che appunto ci vengono rivelati, e controlliamo i suoi movimenti
sintetizzando il tempo e lo spazio. Per esempio leggiamo:
Quando furono passati alcuni anni dalla morte di Aronne e di Esther, le
cose principiarono man mano a mutare nella casa presso le palme. Fortuna e ricchezza si accumularono sempre di più. Abdias era solerte nel
54
suo lavoro e lo estese maggiormente, e faceva del bene agli animali, agli
schiavi e ai vicini. Ma in cambio quelli l’odiavano. Sulla donna che s’era
scelta secondo il suo cuore riversava i beni di questa terra e, sebbene fosse sterile, da tutti i paesi le portava a casa le cose più diverse. Ma poiché
un giorno a Odessa si ammalò e contrasse la brutta malattia del vaiolo,
Deborah lo ebbe in orrore, quando fu tornato, e si distolse per sempre
da lui.
(592)
Qui noi lettori abbiamo il controllo della situazione: sappiamo cause ed
effetti, azioni e reazioni; niente ci resta nascosto né abbiamo bisogno di
soccorsi esterni per ricostruire la situazione: essa ci viene posta oggettivamente davanti agli occhi. O quando leggiamo di come Abdias a poco a
poco arriva all’episodio che gli farà scaricare sul capo la vendetta (sarà
l’umiliazione di Melek), ci viene fornito il materiale in tutta la sua ampiezza: l’allontanarsi da casa perché Deborah lo sfugge, il godere del potere e della ricchezza come compensazione, fino all’accecamento. Spazio,
tempo, cause, intenzioni, effetti e via dicendo, tutto ci viene fornito in
maniera direttamente controllabile.
Di punto in bianco questo modo di narrare cessa, in coincidenza con
la vendetta di Melek. A partire da quel momento e per un lungo tratto
noi non sapremo più nulla dei pensieri e delle decisioni di Abdias. Anzi
noi non avremo più nessun controllo generale, non ci verrà fornita nessuna sintesi. Le azioni si succedono frammentate e noi sappiamo solo
quel che accade in quel momento e lo sappiamo dall’esterno. per ricostruire le intenzioni di Abdias dobbiamo aspettare o il compiersi
dell’azione o, meglio ancora, una qualche rivelazione del narratore, che
però ci viene fornita solo nella terza fase. Questa comincia al momento
in cui Abdias sbarca in Europa e si caratterizza per essere un compromesso fra le prime due: non veniamo di regola subito in possesso di tutti
i dati che ci permettono di capire un’azione, e tuttavia il narratore fa qua
e là delle eccezioni, rivelandoci qualche pensiero nascosto oppure facendo dei propri commenti i quali, sebbene fatti per così dire dall’esterno
(dal punto di vista dell’ignaro lettore), servono proprio a mettere il lettore sull’avviso. Ciò dura fino al momento in cui Abdias uccide il cane (652).
L’ultima fase riprende il modo della prima.
Il variare di queste fasi non è giustificato da dichiarazioni dell’autore.
Dunque occorre far parlare il testo. E noi vediamo che esse sono caratterizzate da quattro diverse fasi di progettualità.
55
Nella prima noi siamo confrontati con vasti sogni di Abdias, che però
non diventano mai progetti. Del sogno di andare in Europa leggiamo esplicitamente che era un brandello di pensiero, inafferrabile e senza conseguenze (593). Quando Abdias andrà effettivamente in Europa, non sarà per conoscere quel che conoscono i saggi di lassù (come era nel sogno), tanto è vero che nessuna traccia se ne avrà nell’educazione di Ditha, ma per un groviglio di altri motivi. Si tratta però di sogni molto vasti,
che si rinnovano per tutto il mondo della geografia e del possibile, così
come vagante è la vita materiale di Abdias. Dunque sono sogni che fondano grandi spazi e il modo di narrare vi si adegua.
Nella seconda fase Abdias sembra aver scoperto la sua salvezza (600,
621) nei nuovi sentimenti d’affetto che gli nascono per Deborah e soprattutto - morta la moglie - per Ditha. È il momento in cui Abdias fa
passi contraddittori: da una parte rompe con la vita condotta fino a quel
momento (quando gli viene organizzata una carovana perché possa rimettersi in sesto, egli non se ne cura minimamente, 621), dall’altra però
costruisce tutto un progetto basato su un elemento della cultura da lui
ereditata, cioè la vendetta. D’altra parte questo progetto è talmente legato
a un altro essere umano, cioè alla necessità di mettere in salvo Ditha
(639), da venirne ritardato e condizionato, fino al non confessato abbandono.
Ora tutta questa fase (e parzialmente anche la terza) viene trattata da
Stifter in maniera antitetica alla progettualità: il suo modo di narrare non
sintetizza lo spazio e il tempo ma li dissipa. Nel progetto noi ci poniamo
come cause di effetti che vogliamo si rivelino nel futuro. A seconda della
vastità del progetto, esso richiede una serie di rapporti causali e di effetti
intermedi. Il tempo non è solo una unità di misura ma un modo di configurarsi di tutto l’insieme. Finché Abdias non cambia il suo progetto di
vendetta per dedicarsi a guidare Ditha nel mondo delle cose viste (659),
egli non fa che costruire una prigione. Non soltanto egli ripete in Europa
la vita del deserto ma addirittura si sceglie una valle sterile e desolata come il deserto (638; peraltro la valle gli ricorda dei luoghi biblici; il che è
da mettere in relazione col livello simbolico di cui ho già detto). Come se
non bastasse, la casa che egli costruisce vuole essere una fortezza (641),
ma di fatto si presenta come una prigione, al centro della quale è Ditha
(639-40); a chiarire le cose - se ce ne fosse bisogno - Stifter le mette in
camera un uccellino in gabbia (sarà il fulmine a liberare l’uccellino dalla
gabbia [653], e Ditha dalla cecità) e avverte il lettore che quel modo di
costruire non era proprio necessario in Europa (640). Per quel che pos56
sono servire confronti esterni, ricordo che nello Scapolo [Der Hagestolz],
novella di due anni posteriore, c’è una costruzione di cui si parla all’inizio
come di una fortezza (841) ma di cui più volte in seguito si dirà a chiare
note che è una prigione. E poiché la problematica dello Scapolo ha vari
punti di contatto con quella che stiamo vedendo in Abdias, il richiamo
non mi pare inopportuno.
Allora questo progetto, che non fonda lo spazio e il tempo ma li subisce, è un progetto distorto. Tutto cambia nella sua ultima fase: Abdias
accetta il linguaggio di Ditha, anzi l’impara da lei. E questa lingua-non
lingua, questa immersione nel non-loquente da cui si riemerge con una
proposta di mediazione fra linguaggio e non linguaggio, è essa che fonda
il mondo in modo proprio: uno spazio e un tempo progettuali e concreti.
Abdias rende fertile la valle desolata (663-65, 673). È dall’immersione
nella metafisica che la fisica ha avuto un senso; la causalità del progetto
può allora effettivamente fondare il tempo e lo spazio.
La base di tutto ciò è l’amore correttamente inteso. Lo scapolo [Der Hagestolz] lo tematizza con tutta la chiarezza desiderabile. Victor che sta per
recarsi nella sua prigione comincia col perdere il senso del tempo e dello
spazio. Per giorni non parla con nessuno e ha a che fare solo con lo
sconfinato abbandono dell’aria (831, 833); la montagna su cui sale sembra non finire mai, la discesa appare senza un termine; le distanze perdono contorni reali, il lago sembra essere al tempo stesso a portata di mano
e irraggiungibile (837-38), i punti cardinali stessi sono poco chiari (856,
858). Victor si avvia verso una specie di regno della morte, desolato, abbandonato, senza segni umani, in cui le prime parole che gli vengono rivolte sono l’ordine di affogare il suo cane (845). Poi entrerà nella prigione: tutta circondata da un muro invalicabile, la casa dello zio ha anche
cancelli che chiudono i corridoi, porte sempre chiuse e addirittura porte a
trabocchetto, finestre sbarrate o a bocca di lupo.
All’inizio lo zio scapolo, prigioniero nella sua stessa prigione, uno zio
che ci viene presentato la prima volta come preso da tremito alla paura
della morte (799), sembra il grande sconfitto. Quando Victor pensa di lui
come di uno «che ha amato se stesso per innumerevoli anni» (861), sembra dettato il giudizio finale: lo zio sembra dover essere l’immagine della
morte perché è quella dell’egoismo, del disamore, della paura del prossimo. Il seguito della novella si incarica di smentire l’ingenuo giudizio di
Victor. Lo zio gli spiegherà: ciascuno è al mondo per se stesso; l’altrui57
smo può avvenire sulla base di un amore per se stessi, corretto e forte.
L’amore di sé è realizzato se tutte le forze si dispiegano nel mondo. Se
diamo spazio alle nostre forze, se la nostra realizzazione fonda uno spazio concreto e non unilaterale, allora siamo al meglio anche per gli altri,
allora possiamo essere altruisti fino a sacrificare la nostra vita.
Ognuno esiste per se stesso, ma esiste soltanto se tutte le forze che gli
sono toccate vengono applicate al lavoro e all’attività - perché questo è
vita e godimento - e se perciò esaurisce questa vita fino all’ultima goccia.
E non appena è tanto forte da conquistare questo spazio a tutte le sue
forze, grandi e piccole purché tutte, allora esiste anche per gli altri nella
maniera migliore, e può esistere sempre e non può essere altrimenti se
non che agiamo su coloro che ci sono intorno; poiché compassione, partecipazione e disponibilità sono anche forze che esigono di agire. Ti dico
anzi che la dedizione di sé per altri, fino alla morte, se mi è concesso dire,
non è altro che il più forte sbocciare del fiore della propria vita. Ma chi
nella sua miseria tende solo una forza vitale per soddisfare nient’altro che
una singola richiesta, fosse anche quella della fame, esiste per sé in una
maniera unilaterale e miserevolmente sghemba e rovina quelli che gli sono intorno.
(891-92)
Questa progettualità riceve la sua base più forte dalla fisicità. Perciò lo
zio consiglia a Victor di sposarsi e avere figli. Ma, prima ancora, di viaggiare, di non restare nella unilateralità delle forze - cioè nella debolezza e
nel rattrappimento - consigliatagli da chi gli è vicino: il sapere e il naturale
buon senso vanno allargati per un bel tratto di mondo, se non vogliono
trasformarsi in debolezza (893, 895, 896). Questa - gli rivela lo zio - era
stata la debolezza che aveva reso infelice la vita di persone amate: suo
fratello (il padre di Victor) e la donna da entrambi amata. Tutto questo,
chiarisce lo zio, va fatto rispettando la natura. E solo adesso si chiarisce
un’immagine. Quando Victor era sbarcato nell’isola dello zio, aveva notato degli alberi da frutto avvizziti (843), che contribuivano all’immagine
funerea dell’insieme. Lo zio gli spiega l’errore dei monaci che li avevano
piantati: la natura del terreno è tale che quelle piante non possono sopravvivere; lo possono invece le piante forti, le querce e i faggi, che si adattano alla roccia (898). Così deve essere l’amore di Victor: adatto alla
roccia, non dipendente e morbido (889-90). In questo modo Victor sarebbe potuto diventare realmente un figlio («Saresti finalmente divenuto
un figlio», 890).
58
Ecco che cos’è l’amore tra padri e figli, ecco che cos’è la fisicità del
progetto vitale: un cuore da bimbo, ma un intelletto e uno spirito forti
(909). Il consiglio - pure dello zio - di darsi all’agricoltura invece di fare
l’impiegato (894), riassume tutto ciò in un simbolo.
Questo è il modesto modo umano di tener testa alla morte. E se per caso
ci fossero ancora dubbi che Stifter non è un idillico autore dei buoni sentimenti, se non basta a tale scopo la torva storia d’amore che coinvolge lo
zio, Ludmilla e Hyppolite, si potranno leggere Prokopus e Il viandante nel
bosco [Der Waldgänger]. In Stifter le cose finiscono così di frequente in
un matrimonio che c’è da insospettirsi. Che cosa viene dopo ce lo dicono
però queste due novelle.
Gli innamoratissimi sposi di Prokopus si aspettano la felicità. E invece
«La felicità promessa non è venuta» (497). E non perché non si amino.
Ma nonostante l’amore «erano costoro a farsi male e a ferirsi gli animi
come con coltelli affilati.» (506). La loro diversità è inconciliabile e il loro
amore non permette che si separino.
Altri sposi si sarebbero adattati e a loro modo sarebbero stati felici. Essi
erano più elevati; si amavano e si resero infelici. Anelavano - ah! - così
tanto all’unione; si frapponeva solo un piccolo ostacolo, grande quanto
un capello, e questo piccolo capello poteva essere superato ... è tanto
semplice. Ma proprio nelle creature il cui intimo è profondamente diverso il capello è dei più fini poiché ciascuno vede soltanto se stesso, non
l’altro, e crede che l’unione potrebbe realizzarsi subito, basterebbe che il
secondo fosse come il primo, come è naturale. Così il piccolo capello
non può essere annientato, nonostante ogni sforzo; e quanto più ardente
è l’amore, più cocente è il dolore.
(514)
Lo scapolo insegna dunque a non forzare il progetto (lo zio non costringe
a vivere gli alberi che non ce la fanno, 898) ma a dargli una fondazione
sull’amore biologico. E l’amore deve essere forte, adeguato alla vita
(890); altrimenti si finisce traditori come il padre di Victor (889). Inoltre
deve essere un amore esperto del mondo, non limitato alle quattro pareti;
questo è il vero altruismo, in queste condizioni si possono amare gli altri
fino alla dedizione di sé, perché di fatto la base dell’amore vero e altruistico è l’egoismo, il volere la felicità (891-96).
Apparentemente lo zio ha fallito: non ha figli, Victor non diventa suo
figlio; perciò lo zio vive in prigione, nell’isola della morte, dove lo spazio
59
e il tempo non si raccapezzano più. Ma di fatto è lui che ha salvato quanto si poteva delle situazioni altrui. È lui che ama ed è il più forte. Se Victor non intristisce da impiegato, lo deve a lui. Questo è l’egoismoaltruismo.
Il progetto fisico ha ovviamente il sesso come base. Stifter non ne
parla mai. L’unico cenno di una certa prossimità al soggetto lo trovo nel
Viandante nel bosco. Vale la pena citarlo per intero:
Fu augurata la buona notte. Fuori, poiché la primavera era appena trascorsa, si era alzata una bellissima notte d’estate e nel dolce cielo sgombro di nubi c’era una luna velata; qua e là, alberi sui quali di tanto in tanto
brillava una fogliolina, il frusciare del fiume lo si sentiva appena, a volte
un merlo emetteva un grido: tutto era come se nulla fosse successo, ma
per i due che erano entrati in un nuovo rapporto era come se il mondo
intero fosse cambiato.
(420)
Stifter non diventa per questo uno scrittore erotico. Ma la citazione ha la
sua importanza. Il viandante nel bosco è la cronaca di una serie di sbagli: il
sacrificio di sé in nome di un ideale astratto (il sesso senza figli sarebbe
peccato, 438); la menzogna dell’ideale (quando è invece la routine matrimoniale a soffocare tutto; e chi lo intuisce per prima è la donna, anche se
ne dà un’interpretazione ideologica); la pretesa di voler controllare il futuro (i figli avuti dal protagonista Georg in seconde nozze se ne vanno e
il padre resta solo come prima). Il Waldgänger e Corona sua moglie soffocano la naturalezza sotto l’ideologia del progetto, così come la loro naturalezza era stata soffocata dall’ambiente di provenienza: sono dei ribelli
mancati.
L’amore invece deve essere “egoistico” nel senso dello Scapolo e - come vedremo presto - delle Carte: cioè andare e tornare dall’universo. La
colpa di Georg è di non aver accettato la morte, di non aver amato
anch’essa, cioè di non aver saputo vivere anche nel pensiero che niente
sarebbe rimasto dopo la loro morte. Infatti il cruccio che li porta a separarsi è di non aver figli: quella doppia morte su cui Lo scapolo aveva teorizzato. E la colpa sua e di sua moglie è di non aver goduto a sufficienza
del proprio amore in vita.
Col che pare che ci siamo man mano avvicinati a conclusioni opposte a
quelle di partenza. Per ristabilire le cose ricorriamo a Le carte del mio bisnonno
60
[Die Mappe meines Urgroßvaters]. Qui si ha la progettazione del futuro
vista dal futuro, cioè al passato. Le razionalizzazioni e le immedesimazioni nella natura, diciamo pure l’illuminismo di tale progettazione, vengono superate dal concetto di fondazione e dal soggettivismo di cui è
portatore l’ultimo rampollo, il cui punto di vista è non soltanto più ampio ma superiore. Egli accetta ancora l’illuminismo come componente
irrinunciabile; ma non rinuncia a vederne i limiti.
Nella cornice di una Rahmenerzählung non dovrebbero esserci fatti terribili. Così almeno vuole la teoria; e a prima vista essa risulta confermata
dalle stesse novelle di Stifter. A un secondo sguardo le cose appaiono altrimenti; ma nel caso delle Carte è difficile dire dove finisce il primo
sguardo e comincia il secondo. Il tentato suicidio è nella Binnenerzählung, è vero; è cioè nella storia del bisavolo. Entro questa poi c’è la novella del colonnello, che contiene un duello, la morte eroica della moglie
e altre brutte cose (questa poi è doppiamente una Rahmenerzählung: è
contenuta entro il contesto del bisavolo e per di più raccontata dopo che
già ne conosciamo la fine tranquillizzante, cioè la bontà conquistata dal
colonnello). E tuttavia la novella comincia con certe dichiarazioni sul
passare della vita umana, sulla sua indecifrabilità e apparente insensatezza, da chiedersi se non è piuttosto qui il peso del discorso e ciò che lo
rende inquietante. La memoria, le tradizioni, la fondazione di una stirpe
familiare continua, che superino la morte e diano senso e ordine al tutto;
insomma tutti gli sforzi del colonnello e del dottore vengono rimessi in
forse e drasticamente ridimensionati proprio dal narratore più esterno.
La vita del bisavolo si era tramandata a frammenti, finché del suo autore
si erano perdute le tracce e restavano ricordi impropri, più o meno mitici.
La lettura dei diari distrugge il mito, perché quel che gli era accaduto risulta tutto normale. Ma non chiarisce certe cose fondamentali, che forse
sono la ragione ultima di quel mito: se non c’è stata confusione sulla «salvezza» cercata nello scrivere i diari (401), allora quella cercata fuggendo
da Praga (384) è un’altra, di cui non sappiamo nulla. (Il fatto che le altre
versioni delle Carte invece ce ne informino non deve qui riguardarci: qui
parliamo della versione nelle Studien, da cui Stifter ha escluso l’informazione in questione.) La catena ininterrotta non c’è, non c’è comprensione
tra una generazione e quella futura (383), anzi nemmeno c’è all’interno
della stessa generazione, quando si fanno sentire le diverse provenienze
sociali (387). Eppure il terzo narratore fa a modo sua opera affine a quel61
la del bisavolo. Vuol vedere il senso della vita in questa contemplazione
di ombre che si inseguono (388): perché noi amiamo la nostra ombra.
Così dà la spiegazione di un atto che il bisavolo non sapeva giustificare:
perché scrivere un diario quando è certo che non ci sarà nessuno a leggerlo (401)? Per il bisavolo la domanda era contingentemente (ed erroneamente giustificata: pensava infatti che non avrebbe avuto figli. Per il
pronipote più che giustificata è obbligatoria: infatti gli eredi ci sono in
parte (il padre del terzo narratore non conosceva il secondo volume, 577)
e la grafia risulta ora illeggibile: dunque non può essere letto. Ciononostante il terzo narratore afferma con più forza e minore contingenza quel
che il bisavolo aveva oscuramente intuito. Ogni essere è l’anello di una
catena infinita, in cui si trova solo (388). La vita è tenuta insieme da una
catena di amore e dolore. Questo insieme costituisce la «insignificante»
vita quotidiana, il cui propellente è l’amore. La cosiddetta «grande storia»
ne è un pallido riflesso, perché in essa invece l’elemento propulsivo appare costituito dai contrasti (388-89). Effettivamente nella storia sembra
vigere la discontinuità: le memorie - scritte e orali - svaniscono (389), i
nostri stessi ricordi si dissolvono quando a illuminarli interviene la cruda
luce del presente (393); i dati obiettivi non sono tali, perché perdono il
loro carattere infinito (392). E questo è maggiormente vero per il distacco rispetto alle generazioni future: anche i fuochi fatui invecchiano e
scompaiono per le nuove generazioni (390-91).
Ma tutto questo va rigenerato: la tradizione non va semplicemente ripresa ma sempre di nuovo fondata. Quando seguiamo, da adulti, gli impulsi dell’infanzia (e qui è interessante che Stifter distingua tra impulsi di
fondazione [393, 554] e impulsi di distruzione [394, 529]; è dei primi che
si raccomanda il seguito, non certo dei secondi), allora scopriamo che
non esiste caso e che invece tutto si concatena (393). Ed ecco che il passato ricompare e quel che sembrava inabissato riaffiora (il terzo narratore
scopre finalmente le carte del padre dentro quelle del bisnonno, 396-97).
Tutto sarà comune e normale (399): il processo temporale segnerà la tragedia quotidiana di ogni vita (400). Occorre amarla, amando noi stessi in
maniera creativa.
Tale creatività è l’equidistanza in mezzo al terribile (418). E
l’equidistanza è assicurata dalla coscienza del tempo: la fragilità della cose
- prima fra tutte la nostra vita (401) -, l’incostanza di tutto - a cominciare
dai nostri progetti e sentimenti (418) - assicurano non la disperazione ma
la sicurezza (pur tragica) e il sentimento di essere parti del «compimento
del tutto» (401) se le si contempla in base a ciò che se ne deve ricavare: il
62
sentimento della medietà, dell’amore universale nella certezza, sicurezza e
costanza della nostra individualità (v. il colonnello, che sa essere costante
e tenace). È in questo circolo chiuso, volutamente contraddittorio, che
consiste il succo della novella. E tutti gli altri avvenimenti vogliono dire:
che cosa acquisire per stare correttamente nella vita, avendo sempre davanti sia il compimento nella morte - che ovviamente interrompe tutto sia la catena infinita di cui facciamo parte.
Alla medietà serve la letteratura (il motivo dello scrivere, già presente
nella storia degli Scharnast negativamente, viene qui capovolto).
Non è da dire che manchi il progresso: ci si impegna nella costruzione
di strade (446, 549); si introduce la coltura del grano in alta montagna
(511) e poi delle patate (576; ma prima di che campavano?); si dichiara
esplicitamente che occorre «sperare nel tempo» (519). Il passato va rifondato, non subìto (452-54). (La moda, per esempio, non è tutta uguale:
di certi vestiti non ci si può innamorare; 386, 513.) Questo progresso,
cioè questo uso razionale del tempo, va di pari passo con
un’interpretazione razionale della natura. Tale interpretazione si fa luce
particolarmente in occasione di particolari avversità atmosferiche, che risulterebbero fatali se di fronte ad esse non si reagisse con il sapere e con
la capacità di prendere decisioni ponderate, cioè con un insieme di atteggiamenti culturali e morali: la capacità di assicurarsi e dare salvezza sembra allora confinare con l’eroismo (459 sgg.). Tutto ciò si associa a una
saggia amministrazione, che limita i danni arrecati da una natura scatenata, anzi è perfino capace di ricavarne modesti vantaggi economici (483,
487), purché non manchino virtù morali quali il coraggio e la decisione
nell’affrontare i pericoli (486).
Tutto questo però fa parte ancora dello strato illuministico, che la novella si propone di integrare e di superare. Sul piano ideologico-narrativo
abbiamo un primo ciclo che comprende la morte dei genitori del dottore,
la distruzione della capanna paterna e la costruzione della casa di pietra in
cui vengono incorporate parti della capanna, in un progresso che conserva quanto può dei vecchi materiali. Poi si ha la tempesta, il suo superamento razionale e l’innamoramento del dottore per Margarita. A questo
punto si vede come quei presupposti siano insufficienti. Segue infatti un
nuovo ciclo: una sfiducia in sé, un’insicurezza che crea gelosia (527), provoca l’offesa della donna amata, cui segue la rottura del fidanzamento.
L’insicurezza nasceva dal non vedere lontano nei propri scopi e dal non
aver interiorizzato il sapere e il rapporto con la natura; nasceva da un egoismo che si trasformava solo molto limitatamente in altruismo. Ci vor63
rà un di più di amore (534, 574) per superare questa crisi e «riequilibrare»
[ausgleichen] la morte (ivi). Nella fase del superamento soccorre un complesso gioco di paternità spirituali, dopo che il rapporto naturale con i
genitori del dottore si è interrotto per la morte di costoro. Il dottore adotta un sostituto di figlio (491, 544) e a sua volta adotta il colonnello
come proprio padre (487, 489, 563, 577). La molla di queste adozioni è
una fecondità sublimata in produttività: il dottore assicura il benessere
per il proprio figlio adottivo devolvendogli il possesso di beni (521),
mentre dal nuovo padre apprende una serie di abilità e di valori morali,
primo fra tutti l’amore per la libertà (496). Come piccolo esempio, il progetto di uno scrittoio, che si trascinava da anni, maturerà grazie al colonnello (525, 544). Ma soprattutto, superata la crisi, dal nuovo padre il dottore riceverà una moglie che è allo stesso tempo moglie e madre (537,
561). Chi vuole cimentarsi in un’interpretazione psicanalitica può affondare qui i denti. Alla lettera però è importante per Stifter che i rapporti
stabilitisi siano stati cercati, voluti e riflessi, superando l’immediatezza di
quelli naturali. A questo punto il dottore può identificarsi non solo con la
famiglia che si è scelto ma con tutta l’umanità; e allora non può più
scomparire, allora ama tutti, anche se stesso, superando quella aridità e
quella insicurezza che erano state catastrofiche. Ecco così raggiunto il di
più di amore nel senso di quell’egoismo-altruismo che già conosciamo
dallo Scapolo. Il seguente, lungo passo che propongo al lettore lo illustra
bene con il suo contrapporre i grandi scopi ai piccoli scopi:
Il Colonnello non sopportava le cose inutili o, peggio, nocive. Tentava
sempre di riportarle alla funzione per la quale riteneva esistessero, e anche quella primavera mi fece una proposta che dapprima ritenni strana e
poi invece mi piacque molto. Dall’altra parte del Reutbühl, proprio di
fronte al Kirmwald, c’era un posto sassoso che si estendeva per un tratto
abbastanza vasto, nel quale si trovava un po’ di argilla, pochissima terra e
roccia tutta crepe sottili, quasi detriti. La gente chiamava quel posto la
“parete di pietra”, sebbene fosse piano e non ci fosse ombra di parete;
ma nella zona si usa chiamare così posti simili. Orbene, il Colonnello mi
propose di acquistare con lui questa “parete di pietra”, visto che la si poteva avere a buon prezzo. Alla mia domanda su cosa avremmo dovuto
fare di quel terreno sterile, rispose che la sottile frammentazione della
roccia dimostrava che la pietra cominciava a decomporsi e che il fondo
era forse adatto per una piantagione di pini di Scozia. Quando tornai a
chiedergli che cosa avremmo dovuto fare poi dei pini, visto che anche
senza bisogno di piantare pini c’erano foreste dappertutto (con legno an64
che migliore di quello dei pini), lui disse: «Quella piantagione di pini ci
sarà ancora quando molti altri boschi dai quali adesso ricaviamo legna saranno scomparsi e trasformati in campi o in prati. La piantagione di pini
sopravvivrà perché il terreno non risulterà ancora adatto per farne campi
o prati; la gente ne ricaverà legna quando la legna sarà già diventata più
cara di adesso. E quando i pini avranno lasciato cadere i loro aghi, così
che, sotto, possano mantenersi l’umidità e la pioggia, il terreno migliorerà
e diventerà più morbido, e entro un migliaio d’anni, forse, anche la piantagione di pini potrà essere trasformata in campo, se per allora gli uomini
saranno aumentati di numero e a loro il raccolto agricolo sembrerà più
conveniente del legno fornito dai pini».
Mi dichiarai d’accordo con lui, vergognandomi un po’ per le mie domande dettate da una visione un po’ gretta delle cose.
(517-18)
Dalle sue disavventure il dottore avrà imparato una maggiore attitudine
alla costanza, accompagnata da una maggiore capacità di dominare certi
propri caratteri violenti; e, come già accennato, avrà acquisito un rapporto più simpatetico e interiorizzato con la natura (541). Gli si apriranno gli
occhi sul suo prossimo (546) e, conquistata la sicurezza di sé, potrà riappropriarsi del suo tempo individuale, di tutta la sua storia personale a
partire dall’infanzia (554-58), mentre, conscio di amare chi gli è vicino e il
suo stretto spazio, potrà però anche viaggiare, integrando nel suo anche
altri spazi culturali (546, 548, 564): proprio come lo zio scapolo consigliava a Victor. Alla fine il dottore vede se stesso un po’ sub specie aeternitatis: ancora a ottant’anni mantiene «la dolce consuetudine della sua vita e la schiettezza del sentimento» (578) e si fa preparare i fogli per un
diario come se dovesse vivere ancora moltissimi anni (ivi): un po’ come il
Gregor della Fustaia, che faceva progetti eterni, senza però risultare unheimlich come lui. E l’accennata sintesi degli spazi, accanto a questa prospettiva del tempo, ci ricordano anche l’Abdias della progettualità concreta. Questa, come pure ricordiamo, veniva stroncata da una catastrofe
da cui Abdias non riemergeva più, e dunque la sintesi finale era possibile
solo a opera di altri. Ciò resta sempre vero, naturalmente, per la buona
ragione che la morte non è sopprimibile; ma il dottore, a differenza di
Abdias, può concepire questa sintesi futura: l’episodio dei pinastri, precedentemente citato, può essere un esempio sufficiente.
A moderare questo trionfalismo ci sono i ricordati discorsi iniziali, la
stessa parziale illeggibilità dei diari del bisnonno, in breve il pericolo che
la tradizione familiare sia in costante pericolo di essere spezzata e contro
di ciò non si abbia garanzia. Essa è ricostruibile e va ricostruita con un
65
atto etico; non più che frammenti possono sopravvive (frammenti della
capanna del padre nella casa di pietra del dottore, frammenti del suo diario), la nostra conoscenza è per definizione incompleta e si appunta su
ombre. Ma da questa esperienza è pur ricavabile una linea: niente si fa
senza la responsabilità del soggetto, ma questa costruisce su materiale
vissuto. In una grande precarietà, e tuttavia con una grande spinta.
Note
1 Su questi problemi vanni visti i contributi di Johann Lachinger, di cui segnalo in primo luogo Adalbert Stifters „Abdias“. Eine Interpretation. (in: «Vierteljahrsschrift des Adalbert Stifter-Institutes des Landes Oberösterreich», 18,
1969, p. 97 sgg.).
66
Parte seconda
(Pietre variopinte
[Bunte Steine])
67
68
Nelle pagine che seguono viene analizzata la prefazione a Pietre variopinte,
in sé e nel rapporto con i racconti. Ne dò quindi il testo, già organizzato
secondo i criteri dell’analisi; ciò è indicato dalle sigle preposte, dalle parole sottolineate e dai nuovi a capo introdotti (quelli originali sono riconoscibili dalle righe rientranti).
69
70
Prefazione
Si è avuto occasione di osservare polemicamente nei miei confronti che
io sarei solo un creatore di cose piccole e che i miei personaggi sarebbero
sempre personaggi comuni. Se questo è vero, allora oggi sono in condizione di offrire ai lettori qualcosa di ancora più piccolo e di ancora più
irrilevante, e cioè una serie di gingilli per giovani cuori. In essi non si
predicherà nemmeno la virtù e la morale, come è d’uso; al contrario, essi
dovranno presentarsi solo per quel che sono. Se in me c’è qualcosa di
nobile e di buono, allora sarà senz’altro rintracciabile nei miei scritti; ma
se nel mio animo non ce n’è nulla, allora mi sforzerò invano di dar espressione a quanto c’è di bello e alto: in mezzo si darà a conoscere pur
sempre il meschino e il basso. Non ho mai avuto in animo di dar forma
nei miei scritti al grande o al piccolo; a guidarmi sono state tutt’altre leggi. L’arte è per me una cosa così alta e sublime, essa è per me, come ho
già avuto occasione di dire altrove, dopo la religione la cosa più alta sulla
terra, che non ho mai considerato i miei scritti come creazioni artistiche
(Dichtungen). Al mondo ci sono pochissimi artisti (Dichter), essi sono i
grandi sacerdoti, i benefattori del genere umano; di falsi profeti invece ce
ne sono tanti. Però anche se non tutte le parole profferite possono essere
opera d’arte (Dichtung) possono però essere qualche altra cosa cui non
manca del tutto una giustificazione di esistenza. Procurare un’ora di piacere ad amici dal comune sentire, mandare un saluto a tutti loro, sia noti
sia ignoti, e contribuire con un granello di bontà all’edificio dell’eterno,
questa è stata l’intenzione che mi ha guidato nei miei scritti e tale resterà.
Sarei ben felice se fossi certo di aver raggiunto anche solo quest’intento.
Ma dal momento che stiamo a parlare del grande e del piccolo voglio
esporre
1.
le mie opinioni, che probabilmente divergono da
1.1.1 quelle di molti. L’alitare dell’aria, il frusciare dell’acqua, il crescere
del frumento, l’incresparsi del mare, l’inverdirsi della terra, lo
splendere del cielo, il brillare delle stelle, li considero grandi: il
1.2 temporale che irrompe pomposo, il fulmine che fende le case, la
tempesta che agita i marosi, la montagna che erutta fuoco, il terremoto che sovverte le terre, non li considero più grandi dei fenomeni detti sopra, anzi li considero minori perché sono soltanto effetti di leggi molto superiori. Essi si verificano in determinati luo71
1.1
1.1.1
1.2
72
ghi e sono risultati di cause unilaterali. La forza che fa montare e
traboccare il latte nella pentola della povera donna è quella stessa
che spinge in alto la lava nella montagna che erutta fuoco per farla
poi scivolare giù per i fianchi dei monti. Questi fenomeni sono solo più evidenti e attraggono di più lo sguardo dell’inesperto e disattento, mentre
la strategia spirituale del ricercatore muove eminentemente verso
l’intero e universale e solamente in esso può riconoscere grandiosità
poiché esso solo conserva il mondo. I fenomeni
singoli passano e i loro effetti dopo un po’ quasi non li si riconosce. Vogliamo spiegare con un esempio quanto ora detto. Se per
anni e anni un uomo ha quotidianamente osservato a ore stabilite
un ago magnetico di cui un vertice indica sempre il nord e ha annotato le variazioni secondo cui l’ago indica il nord ora più ora
meno chiaramente, di certo un ignaro riterrebbe tale impresa piccola e uno scherzo: ma quanto ammirevole diventa questa piccola
cosa e quanto entusiasmo suscita questo scherzo se veniamo ora a
sapere che realmente tali osservazioni vengono condotte su tutta la
terra e che dalle tavole che ne risultano si manifesta che spesso varie piccole variazioni sull’ago magnetico si verificano contemporaneamente su tutti i punti della terra e nella stessa misura, che dunque una tempesta magnetica percorre tutta la terra, che tutta la superficie terrestre avverte nel medesimo tempo per così dire un brivido magnetico. E se, al modo in cui abbiamo occhi per la luce,
avessimo lo strumento di un senso anche per l’elettricità e per il
magnetismo che ne risulta, quale grande mondo, quale folla di smisurati fenomeni ci sarebbe allora aperta. Ma anche se nono abbiamo quest’occhio corporeo, abbiamo però l’occhio spirituale della
scienza, e questa ci insegna che la forza elettrica e magnetica agisce
su una scena immensa, che è diffusa per tutta la terra e per tutto il
cielo, che essa pervade tutto e che, mite e incessante, si mostra
cambiando, formando e producendo vita. Il fulmine è solo un piccolissimo segno di questa forza, ma la forza stessa è cosa grande
nella natura. Poiché però la scienza conquista solo un granello dopo l’altro, fa solo un’osservazione dopo l’altra, compone l’universale solo con i particolari, e poiché infine la massa dei fenomeni e il
campo dei fatti è infinitamente grande, dunque Dio ha reso inesauribile la gioia e la felicità della ricerca, e anche noi nei nostri labora-
1.3
2.
2.1.1
2.3
2.1.1
2.2
2.1.2
tori possiamo solo rappresentare il caso singolo e mai l’universale
poiché ciò sarebbe
creazione, anche la storia di ciò che nella natura è grande è consistita in un persistente mutamento delle opinioni su tale grandezza.
Quando l’umanità era nella sua infanzia né il suo occhio spirituale
era ancora toccato dalla scienza, gli uomini furono colpiti da ciò
che era prossimo ed evidente e furono trasportati al timore e
all’ammirazione: ma quando la loro mente fu aperta e lo sguardo
cominciò a rivolgersi al nesso, allora i singoli fenomeni decaddero
sempre di più e la legge si innalzò sempre più in alto, le cose stupefacenti cessarono e il miracolo increbbe.
Come è nella natura esteriore, così è in quella interiore, in quella
del genere umano. Tutta
una vita piena di giustizia, semplicità, superamento di se stessi, ragionevolezza, adoperamento nel proprio ambito, ammirazione del
bello, connessa con un morire sereno e tranquillo la ritengo grande: possenti moti dell’animo, terribili esplosioni d’ira, brama di
vendetta, spirito infiammato che tende al fare, che travolge, trasforma, distrugge e nell’eccitazione spesso getta via la propria vita,
non li ritengo più grandi ma più piccoli poiché queste cose sono
praticamente solo prodotti di forze singole e unilaterali, come le
tempeste, le montagne che eruttano fuoco, i terremoti. Noi vogliamo cercare
di scorgere la mite legge da cui il genere umano
è guidato. Ci sono forze che mirano al perdurare del singolo. Esse
prendono tutto e utilizzano quel che è necessario al suo persistere
e svilupparsi. Assicurano la persistenza del singolo e per tal via
quella di tutti. Se però uno si appropria senz’altro di ogni cosa di
cui la sua natura
abbisogna, se distrugge le condizioni dell’esistenza di un altro, allora qualcosa di superiore s’indigna in noi, diamo aiuto al debole e
all’oppresso, ripristiniamo lo stato per cui un uomo possa sussistere accanto all’altro e percorrere la sua via umana, e quando
l’abbiamo fatto ci sentiamo appagati, ci sentiamo molto più innalzati e intimizzati di quanto non ci sentiamo come singoli, ci sentiamo come umanità intera. Ci sono dunque
forze che agiscono per la conservazione dell’umanità intera, che
non possono essere lecitamente limitate da forze singole e anzi agiscono su queste limitandole. La legge di queste forze è la legge del73
2.2
3.
2.3
3.
74
la giustizia, la legge dell’eticità, la legge che vuole che ciascuno sussista rispettato, onorato, indisturbato accanto all’altro, che egli possa percorrere la sua superiore via umana, si conquisti l’amore e
l’ammirazione dei suoi simili, che egli venga custodito come gioiello, al modo in cui ogni uomo è un gioiello per tutti gli altri uomini.
Questa legge è dovunque uomini abitino accanto a uomini ed essa
si mostra quando uomini agiscono nei confronti di uomini. Essa è
nell’amore reciproco dei coniugi, nell’amore dei genitori per i figli,
dei figli per i genitori, nell’amore reciproco di fratelli e sorelle, degli
amici, nella dolce inclinazione dei sessi, nella laboriosità da cui veniamo mantenuti, nell’attività con cui si agisce sia nel proprio ambiente, sia in lontananza, per l’umanità, e infine nell’ordine e nella
forma in cui intere società e stati avvolgono e portano a compimento la loro esistenza. Perciò vecchi e nuovi artisti hanno utilizzato questi oggetti in vari modi per affidare le loro opere al sentire
comune di generazioni vicine e lontane. Perciò chi indaga
sull’umanità vede, dovunque egli ponga il piede, solo questa legge,
poiché essa è l’unica cosa universale, l’unica che conservi e non
abbia mai fine. Egli la vede sia nella più umile capanna sia nel più
alto palazzo, la vede nella dedizione di una povera donna e nel
calmo disprezzo che l’eroe ha della morte per la patria e l’umanità.
Ci sono stati nel genere umani moti dai quali agli animi è stata impressa una direzione verso uno scopo, dai quali intere epoche hanno acquisito alla lunga un’altra
forma. Se in tali moti è riconoscibile la legge della giustizia e dell’eticità, se essi ne sono stati introdotti e proseguiti, allora ci sentiamo innalzati all’altezza dell’umanità in generale, ci sentiamo umanamente universalizzati, sentiamo il sublime
quale esso dovunque si cala nell’anima lì dove nel tempo o nello
spazio attraverso forze smisurate si opera congiuntamente verso
un intero pieno nella forma e consentaneo alla ragione. Se però in
questi moti non è visibile la legge del giusto e dell’eticità, se essi
lottano per scopi unilaterali ed egoistici, allora chi indaga
sull’umanità, per quanto possenti e terribili essi possano essere, se
ne distoglie con disgusto e li considera cosa piccola, indegna
dell’uomo. Tanto grande è la
possanza di questa legge del giusto e dell’eticità che, dovunque essa
sia stata combattuta, alla fine e sempre è però uscita vittoriosa e
magnifica dalla lotta. Anzi perfino se il singolo o intere stirpi sono
2.3
2.1
2.3.1
periti per il giusto e l’eticità, noi non li sentiamo come vinti, li sentiamo come trionfanti, nella nostra compassione si mescola giubilo
e delizia poiché l’intero sta più in alto della parte, perché il buono è
più grande della morte, ci diciamo che sentiamo il tragico e con un
brivido veniamo innalzati nel più puro etere della legge etica. Se
vediamo l’umanità andare nella storia come una quieta corrente argentea verso una grande meta eterna, allora sentiamo il sublime,
l’eminentemente epico. Ma per quanto possenti e in grandi tratti
s’impongano il tragico e l’epico, per quanto eccellenti leve essi siano nell’arte, è però principalmente e sempre nelle azioni consuete,
quotidiane, innumerevolmente ripetentisi degli uomini, che questa
legge si trova nel modo più sicuro come punto di gravità, poiché
queste azioni sono quelle durevoli e fondanti, per così dire i milioni di fini radici dell’albero della vita. Come nella natura le leggi universali agiscono silenziose e incessanti e ciò che è evidente è solo
espressione singola di queste leggi, così la legge etica agisce silenziosa e vivificante l’anima attraverso gli infiniti rapporti degli uomini con gli uomini e le meraviglie dell’attimo nelle azioni accadute
sono solo piccoli segni di questa forza universale. Pertanto questa
legge, così come
quella della natura conserva il mondo, conserva l’umanità.
Come nella storia della natura le opinioni circa il grande sono
continuamente mutate, così è stato anche nella storia etica degli
uomini, All’inizio esse vennero toccate da quanto era prossimo,
vennero celebrate forza fisica e le sue vittorie nella lotta, poi vennero valore e coraggio guerriero al fine di esprimere forti sensazioni e passioni contro masse e aggregazioni nemiche, poi vennero
cantate l’altezza di lignaggio e la signoria familiare, e quindi celebrate anche bellezza e amore come pure amicizia e sacrificio e poi
apparve uno sguardo d’insieme su cose superiori: furono stabiliti
tra gli uomini suddivisioni e rapporti, il diritto dell’intero congiunto
a quello della parte, e magnanimità verso il nemico e repressione
delle proprie sensazioni e passioni a vantaggio della giustizia ritenute alte e magnifiche, come già la moderazione era per gli antichi
la prima virtù virile e infine un vincolo che unisse tutti i popoli fu
pensato cosa desiderabile, un vincolo che scambi tutti i doni di un
popolo con quelli di un altro, promuova la scienza, ne manifesti i
tesori a tutti gli uomini e nell’arte e nella religione guidi a ciò che è
semplicemente alto e celeste.
75
2.3.2
Come è con l’ascendere del genere umano, così è anche col suo
discendere. Popoli in decadenza perdono per prima cosa la misura.
Essi vanno alla ricerca di ciò che è singolo, con miope sguardo si
gettano sul limitato e l’insignificante, pongono il condizionato al
disopra dell’universale; poi cercano il godimento e il sensoriale,
cercano il soddisfacimento del loro odio e dell’invidia del prossimo, nella loro arte viene esposto l’unilaterale, ciò che è valido da
un solo punto di vista, poi il disgregato, l’incoerente, l’avventuroso,
infine ciò che stimola ed eccita i sensi, l’immortalità e il vizio, nella
religione l’interiore decade a pura forma o pomposo fanatismo, la
distinzione fra bene e male si perde, il singolo disprezza l’intero e
persegue piacere e rovina, e così il popolo diventa preda della sua
interiore confusione oppure di un nemico esterno più selvatico ma
più robusto. - Poiché in questa prefazione mi sono diffuso sulle opinioni circa
il grande e il piccolo mi sia anche consentito dire che mi sono preoccupato di raccogliere varie esperienze nella storia del genere umano e da tali esperienze ho messo insieme alcune cose in tentativi
artistici; ma le opinioni che ho appena sviluppato e gli avvenimenti
esperiti negli ultimi anni mi hanno insegnato a dubitare della mia
forza, perciò quei tentativi restino pure nel cassetto finché siano
meglio elaborati oppure distrutti come irrilevanti.
Ma chi mi ha seguito attraverso questa prefazione, voglia non disdegnare di godere dei prodotti di forse modeste e passi con me alle innocue cose che seguono.
Autunno 1852
Adalbert Stifter
76
Un residuo fra due sistemi
Secondo dichiarate intenzioni, nella prefazione a Pietre variopinte [Bunte
Steine] Stifter vuole semplicemente esporre le proprie opinioni su determinati concetti, niente di più. Ci si può dunque aspettare che la prefazione non sia impiantata come un trattato filosofico ma che invece si limiti a
informare su opinioni dandone una giustificazione presumibilmente succinta e non elaborata in tutte le sue premesse e implicazioni. Ciò (così
sembra potersi ulteriormente argomentare in limine) suggerisce al lettore
un certo atteggiamento interpretativo; viene infatti indotto a tenere in limiti le proprie aspettative. D’altra parte, poiché le opinioni espresse verteranno su concetti e su valori, il lettore è anche autorizzato a tenere un
atteggiamento diverso da quello che presumibilmente avrà nei confronti
dei racconti del volume e che Stifter pare suggerirgli quando gli augura
un’ora piacevole sulla base di una omogeneità del sentire, esortandolo a
considerare i racconti come contributo alla costruzione dell’eterno mediante l’apporto di un granello di bene. Al lettore dei racconti Stifter propone dunque un atteggiamento comunitario, etico-estetico. Sia come sia
(e su questa proposta di Stifter comunque torneremo), né al lettore sfugge né Stifter ignora che la prefazione stessa richiede altro atteggiamento
di lettura (Stifter stesso introduce uno stacco con le parole «ma dal momento che»). Fatto salvo quel che si diceva poco fa, l’atteggiamento che
ci si può aspettare non sarà molto diverso da quello che richiede un saggio filosofico. È vero che di non tutte le opinioni verrà data la fondazione, oppure non verrà data a sufficienza e che la trattazione sarà quanto
mai succinta; tuttavia le poche pagine della prefazione riassumono un sistema di pensiero, pur tacendone parti essenziali. La prefazione ha dunque diritto a dei riguardi perché non si può pretendere che dica quel che
non vuol dire ma ha diritto anche a essere considerata come pertinente al
genere filosofico. Sotto questo secondo aspetto si applica a essa il metodo che si applica all’analisi di un sistema di pensiero: esame del rapporto
fra premesse e conseguenze in quanto sviluppate all’interno del sistema e
previsione delle conseguenze non sviluppate ma indotte o inducibili; esame del sistema nella sua globalità come risposta a sollecitazioni esterne.
Nel caso specifico occorre considerare che il sistema in questione è esposto come prefazione a un volume di racconti che (con molti distinguo da
vedere a suo luogo) si danno come solidali col sistema stesso; Stifter del
77
resto lo avverte nelle ultime righe della prefazione in modo non equivocabile seppure un po’ tortuoso. Ma tra filosofia e opera narrativa c’è un
tale salto di genere e di atteggiamento che esaminare quel nesso di solidarietà ci pone davanti a problemi ulteriori. D’altra parte tale esame sarà
decisivo per rendere conto di una caratteristica assai importante del sistema di Stifter: quello di essere esposto in una prefazione. Considerare il
modo della presentazione del sistema è infatti essenziale alla sua analisi.
Le sue lacune di cui si diceva (incompletezza della fondazione e delle implicazioni) possono infatti apparire giustificabili in una premessa: ma a
quel complesso che è costituito da premessa e da ciò che a essa segue
sembra lecito porre delle domande in più. Con la difficoltà - giova ripeterlo - che ciò che segue appartiene a un genere diverso; e quindi occorrerà decidere il metodo per passare da un genere all’altro considerandoli
nella loro autonomia, e tornare poi a confrontarli fra loro.
Per quante risapute obiezioni si possano muovere a una pretesa omogeneità di rapporto tra premesse e conseguenze - soprattutto lì dove le
une e le altre appartengano a campi coì diversi come appunto nel nostro
caso - da una parte quella pretesa va pur sempre verificata; e dall’altra, nel
caso concreto, la prefazione rielabora e (nei suoi limiti) sistematizza idee
messe per iscritto da Stifter a partire dal 1846, dunque da una data antecedente alla stesura di tutti i racconti di Pietre variopinte, così che quella
prefazione testimonia almeno della cultura dell’autore, attiva al momento
della stesura; per cui si pone il problema di constatare quale rapporto ci
sia fra tale cultura e i racconti messi sotto la sua egida. A ciò va aggiunto
che tutti i racconti, già pubblicati si riviste (tranne uno), furono rielaborati, in parte anche profondamente, per essere ripubblicati insieme; e che
nella revisione vennero curate le linee per una realizzazione stilistica dei
presupposti teorici. Ciò pone il problema del rapporto tra prefazione e
racconti come quello tra premesse e loro sviluppi. Cosa cui però non ci
incoraggia nessuna esperienza estetica.
Finché restiamo in limine rischiamo di muoverci indefinitamente in cerchio. Forse l’esame della prefazione ci avvia a fare il primo passo per vedere se le idee espresse indichino qualcosa sul condizionamento culturale
dell’autore, indotto a osservare certe cose invece che altre e in un modo
invece che nell’altro, oppure se indichino qualcosa di più. A tal fine la
prefazione va rimessa in forma, mostrandone con chiarezza la natura sistematica o almeno parasistematica. La riordineremo così in tre sezioni:
78
1. la prima concerne le leggi del mondo fisico.
1.1 Il mondo fisico è governato da leggi. Queste sono tali in quanto
si verificano sempre e dovunque e sono perciò «l’intero e universale», oggetto vero della «strategia spirituale dello studioso».
1.1.1 Sono ciò che «conserva il mondo».
Esempio dell’azione di tali leggi: «l’alitare dell’aria, il frusciare
dell’acqua, il crescere del frumento, l’incresparsi del mare, l’inverdirsi della terra, lo splendere del cielo, il brillare delle stelle».
1.2
I fenomeni violenti ed eccezionali che si verificano nella natura
sono particolari, «fenomeni singoli», «effetti di leggi molto superiori», «risultati di cause unilaterali». Essi passano presto e i loro
effetti non sono durevoli; solo l’«inesperto e disattento» dedica
loro tutta la sua attenzione.
Esempi: «il temporale che irrompe pomposo, il fulmine che
fende le case, la tempesta che agita i marosi, la montagna che
erutta fuoco, il terremoto che sovverte le terre».
Le leggi agiscono «miti e incessanti, [...] cambiando, formando e
producendo vita». Ciò che non risponde a tali requisiti è solo un
evento trascurabile, al massimo un piccolissimo segno della forza della legge e niente di più.
1.3
La deduzione di quanto sopra è affidata all’esperienza storica:
oggi la nostra «mente» e il nostro «sguardo» sono cresciuti, così
che siamo maturi per «l’intero e universale»: per la «legge» e per
il suo «miracolo», tralasciando «le cose stupefacenti».
2. La seconda sezione concerne le leggi morali.
2.1
Anche le leggi morali, come quelle fisiche, «conservano», e precisamente sono ciò che «conserva l’umanità». Esse - così pare di
potersi evincere dal discorso di Stifter - non regolano il rapporto uomo-natura (o almeno ciò non viene detto); regolano invece il divenire del singolo e il rapporto uomo-comunità (dei rapporti fra singoli non si fa ugualmente parola). Si dividono in due
classi:
79
2.1.1 «Ci sono forze che mirano al perdurare del singolo», «assicurano
la persistenza del singolo e per tal via quella di tutti».
L’universalità della legge è inoltre confermata dal senso morale
di chi agisce a loro modo, poiché allora «ci sentiamo come umanità intera». L’universalità assume dunque la forma concreta
dell’umanità nel suo complesso.
2.1.2 Ci sono poi leggi che «agiscono per la conservazione dell’umanità
intera», cioè si riferiscono direttamente al generale e non possono venire limitate dalle singolarità anzi all’opposto le limitano.
Queste leggi (2.1.1 e 2.1.2) sono «l’unica cosa universale, l’unica
che conserva e non ha mai fine». E sono l’oggetto vero di «chi
indaga sull’umanità».
Esempi di 2.1.1: «Tutta una vita piena di giustizia, semplicità, superamento di se stessi, ragionevolezza, adoperamento nel proprio ambito, ammirazione del bello, connessa con un morire sereno e tranquillo».
Esempi di 2.1.2: «La legge di queste forze è la legge della giustizia, la legge dell’eticità, la legge che vuole che ciascuno sussista
rispettato, onorato, indisturbato accanto all’altro, che egli possa
percorrere la sua superiore via umana, si conquisti l’amore e
l’ammirazione dei suoi simili, che egli venga custodito come
gioiello, al modo in cui ogni uomo è un gioiello per tutti gli altri
uomini. Questa legge è dovunque uomini abitino accanto a uomini ed essa si mostra quando uomini agiscono nei confronti di
uomini. Essa è nell’amore reciproco dei coniugi, nell’amore dei
genitori per i figli, dei figli per i genitori, nell’amore reciproco di
fratelli e sorelle, degli amici, nella dolce inclinazione dei sessi,
nella laboriosità da cui veniamo mantenuti, nell’attività con cui
si agisce sia nel proprio ambito, sia in lontananza, per l’umanità,
e infine nell’ordine e nella forma in cui intere società e stati avvolgono e portano a compimento la loro esistenza.»
2.2
80
Quando qualcuno «distrugge le condizioni dell’esistenza di un altro» (dunque quando vengono violate le leggi di cui in 2.1.1) «ripristiniamo lo stato [di convivenza e] ci sentiamo come umanità
intera». Quando osserviamo grandi movimenti umani che alla
lunga cambiano la «forma» di un’epoca ed eventualmente non vi
rinveniamo «la legge della giustizia e dell’eticità» (dunque quando vengono violate le leggi di cui in 2.1.2) ne distogliamo lo
sguardo quali studiosi dell’umanità e li consideriamo pochezze;
se invece vi rinveniamo «la legge del giusto e dell’eticità», «allora
ci sentiamo innalzati all’altezza dell’umanità in generale, ci sentiamo umanamente universalizzati, sentiamo il sublime».
Esempi negativi rispetto a 2.1.1: «possenti moti dell’animo, terribili esplosioni d’ira, brama di vendetta, spirito infiammato che
tende al fare, che travolge, trasforma, distrugge e nell’eccitazione spesso getta via la propria vita: [...] prodotti di forze singole e unilaterali, come le tempeste, le montagne che eruttano
fuoco, i terremoti». Esempi negativi rispetto a 2.1.2 non vengono
dati.
2.3
2.3.1
2.3.2
È compito dello studioso dell’umanità cercare «la mite legge da
cui il genere umano è guidato. [...] la legge etica [che] agisce silenziosa e vivificante l’anima attraverso gli infiniti rapporti degli
uomini», ricordando bene che nelle imprese compiute «le meraviglie dell’attimo [...] sono solo piccoli segni di questa forza universale», o, peggio ancora, unilaterali, «cosa piccola, indegna
dell’uomo».
Conquistare lo «sguardo d’insieme su cose superiori» è stato anche qui un fatto storico: finalmente «furono stabiliti tra gli uomini suddivisioni e rapporti, il diritto dell’intero congiunto a
quello della parte, e magnanimità verso il nemico e repressione
delle proprie sensazioni e passioni a vantaggio della giustizia ritenute alte e magnifiche». Si può sperare di più per il futuro
poiché, se non realizzato, almeno «un vincolo che unisse tutti i
popoli fu pensato cosa desiderabile, un vincolo che scambi tutti
i doni di un popolo con quelli di un altro, promuova la scienza,
ne manifesti i tesori a tutti gli uomini e nell’arte e nella religione
guidi a ciò che è semplicemente alto e celeste.»
C’è qui però un’aggiunta. Mentre non si parlava di un decadere
delle scienze naturali, pare che le cose stiano altrimenti con le
scienze morali. Si crea infatti anche la realtà di popoli in decadenza i quali perdono la misura del giudizio e del comportamento morale, fino al culmine in cui «il singolo disprezza
l’intero».
81
3. La terza sezione concerne le leggi dell’estetica.
I poeti prediligono come loro temi quelli in cui si manifestano le forze
morali per affidare le loro opere a un sentire affine, presupposto in
lettori sia vicini sia lontani. Se il singolo o tutto un popolo patiscono
per «il giusto e l’eticità» noi li concepiamo non come vinti ma come
trionfatori, e ci solleviamo verso il «puro etere della legge etica» perché avvertiamo il sentimento dell’intero. Questo è il sentimento del
tragico. Quando invece sentiamo che nella storia l’umanità va incontro a «una grande meta eterna», allora abbiamo il sentimento
dell’epico. Entrambi (epica e tragedia) sono sottospecie del sublime.
Questo si insedia nell’animo «dovunque [...] nel tempo o nello spazio
attraverso forze smisurate si opera congiuntamente verso un intero
pieno nella forma e consentaneo alla ragione»; specificamente esso
viene esaminato come risultante dalla contemplazione dell’umanità
mossa dalla legge del «giusto» e dell’«eticità».
L’impianto kantiano-schilleriano dell’insieme è indisconoscibile; per di
più esso è stato anche dimostrato analiticamente. Elementi singoli del discorso stifteriano, come già detto, sono testimoniati per iscritto fin dal
1846, cioè da sei anni prima della data in calce alla prefazione. Questa
stessa ha avuto un’occasione contingente; c’è però verso la fine una frase
singolare su cui occorre richiamare l’attenzione: le esperienze degli scorsi
anni. Stifter si riferisce alla rivoluzione del 1848. Stavolta all’inizio della
prefazione egli scrive che la poesia si basa sulle esperienze del genere
umano e che lui stesso ne ha fatte alcune rielaborandole in tentativi poetici. Però abbassa di livello le sue pretese, dichiarando che i racconti qui
presentati non sono poesia, pur presumendo quella comunità del sentire
su cui costruisce anche il poeta, che presuppone una «omogeneità di sentire» nel lettore. Ma noi sappiamo da altra fonte, e cioè da una lettera dello stesso Stifter, che Pietre variopinte sono proprio una risposta alla rivoluzione del 1848; dunque quella frase delle esperienze va presa sul serio: sia
i racconti sia la prefazione, dunque tutte le Pietre variopinte nel loro complesso, sono una risposta a un fatto esterno. Scrive infatti Stifter, giustificando la scelta di un pubblico infantile o - come scriverà poi nel sottotitolo della raccolta - di «giovani cuori»: «I bambini non fanno la rivoluzione e le madri nemmeno» (da una lettera datata 6 marzo 1849). Ab82
biamo così le sollecitazioni culturali (Kant e Schiller) e le sollecitazioni
storiche (la rivoluzione) cui il sistema di Stifter vuol dare una risposta. Il
sistema di risposta si costruisce attraverso un insistito parallelismo tra
leggi naturali e leggi morali. È però piuttosto agevole constatare l’imprecisione di tale parallelismo. La seconda sezione straripa infatti rispetto
alla prima. Zoppicano gli esempi di 2.2: la brama di vendetta non può essere «esattamente come un’eruzione vulcanica» poiché di quella si può
dire che è male, di questa invece no. L’obiezione non è troppo esterna.
Abdias nelle Studien era costruito sul concetto di una natura che rispetto
all’uomo è indifferente, non maligna; e Cristallo di rocca [Bergkristall] non
rinnega quella tesi, anche se la sviluppa in altro modo. Inoltre la classificazione di 2.1.1 e 2.1.2 non corrisponde a 1.1.1. poiché il fare dell’uomo
sull’uomo (invece che dell’uomo sulla natura) porta a conseguenze più
complesse. E infine il parallelismo è clamorosamente smentito dall’aggiunta di 2.3.2.
Possiamo dire che qui c’è una contraddizione. Essa non dipende dalla
mancata fondazione del parallelismo (su cui non c’è molto da dire poiché
sapevamo in anticipo che la prefazione non ci avrebbe detto tutto) ma
dal dinamismo del sistema. La prospettiva storica, quella dello sviluppo
delle forze conoscitive e operative dell’uomo, prende man mano il sopravvento e finisce con l’usare la fisica a mo’ di esempio parziale e subordinato. Il sistema dimostra la sua vitalità aprendosi oltre le proprie
premesse. È in questo senso, nel senso della sua vitalità, delle sue aperture, delle sue «contraddizioni», che il sistema della prefazione può pretendere la solidarietà dell’intera raccolta e costituire con essa un sistema unico, posto pur sempre che si riesca a passare congruentemente da un genere all’altro.
La conseguenza non può essere data dal replicarsi della prefazione nei
racconti, altrimenti non saremmo più nel sistema vivo. La replica c’è e va
notata, ma da sola dice troppo poco: non dice perché c’è stato bisogno di
racconti, perché mai non è bastata la prefazione da sola. In Pietra calcarea
[Kalkstein] si trovano replicate varie tesi: la tempesta è «piccola» mentre
la vita composta e la morte serena del parroco sono «grandi». Ma oltre a
ciò Pietra calcarea dice ben altro ed è questo altro a fare la vita del sistema.
Eppure anche se dicesse solo quello, ciò sarebbe comunque altro, poiché
apparterrebbe al mondo delle immagini invece che a quello dei concetti.
Per decidere sul rapporto prefazione-racconti, occorre pur sempre pronunciarsi su questioni di principio.
83
Nessuna tecnica vuole insegnare ad analizzare un testo in maniera
non precisa; e ciò significa pur sempre ridurlo a concetti esatti, al più con
l’avvertenza che è possibile anche un’altra interpretazione, dunque ricavarne altri concetti.
L’alterità radicale non è questione dell’interpretazione testuale ma è
un postulato esterno a essa; solo la riflessione globale può farsene carico,
e non più che ricordandola nella sua genericità; quando infatti la si dovesse mostrare essa cesserebbe di essere alterità ma sarebbe risultato interpretativo, sarebbe concetto univoco.
Il livello più basso di questa univocità è dato dalla verifica del programma nei racconti, cioè dalla replica della prima nei secondi. Per Pietra
calcarea si è già accennato, per Cristallo di rocca la riconciliazione tra famiglie e l’integrazione nel villaggio, entrambe avvenute a causa del sacrificio
(mancato ma rischiato) di due bambini, sembra dare un assaggio di quella
conciliazione universale tra popoli di cui si parla nella prefazione. Volendo si può trovare altro materiale di verifica. Ma non è l’impresa più interessante, anche se è dovuta. Un secondo livello di univocità è trovare nei
racconti quei concetti che non sono già nella prefazione, accentuando
così le «contraddizioni», cioè la vitalità e il dinamismo, del sistema. Ciò
richiede qualche sforzo in più, che però risulta premiato.
84
Granito
Da Granito [Granit] apprendiamo dapprima che cosa voglia dire coartare
l’altrui dignità umana (secondo uno dei peccati previsti nella prefazione);
il comportamento gelido - per non dir peggio - della madre si allarga fino
al simbolo epocale della peste: la peste è quando «i figli non amano più i
genitori e i genitori non amano più i figli». Noi lettori, stando alla prefazione, dovremmo avvertire il sublime perché con le reazioni ripristiniamo lo stato di giustizia. Sin qui c’è (o ci sarebbe) la conferma della prefazione. Ma rispetto a quella ci sono due cose in più: la prima è la famiglia
dei venditori di morca, che al di là della peste ha conservato lo stato di
persone giocose e libere. La «peste» dei rapporti umani egoistici da una
parte, il gioco e la libertà del romantico Wanderer dall’altra. E soprattutto
c’è il modo della riconciliazione: questa avviene attraverso un battesimo
generale della contrada, che nel dialogo tra nonno e nipote viene chiamata rinominando tutti i suoi componenti. La conciliazione è nel nome che
dà e riconosce individuatezza. Già in Pietre variopinte - per tacere del successivo romanzo Nachsommer (1857) - questa funzione del nome (che vedremo ancora) è fondamentale; e subito nel primo racconto c’è una specie di orgia denominativa. L’appropriarsi della natura attraverso i nomi
apre la via alla riconciliazione fra gli uomini. Che la libertà giocosa e la
denominazione abbiano un rapporto non viene detto esplicitamente. Però esse hanno una funzione analoga: si pongono infatti rispettivamente
prima della «peste» tra madre e figlio e dopo la «peste»; ciò che veniva
prima, però, è a sua volta conseguenza di una peste superata. Dunque ci
viene suggerito, anche se non detto esplicitamente, che forse anche la
denominazione è da considerare come libertà giocosa, che porta all’appropriazione tra gli uomini. Tutte connessioni che sono un di più rispetto alla prefazione.
85
86
Pietra calcarea
In Pietra calcarea la vita del parroco virtuoso (quasi santo) sembra confermare punto per punto la prefazione. Ma abbiamo subito il riempimento
di una sua lacuna; lì infatti si diceva che acquisire il giusto concetto di
grande e piccolo era questione di progresso storico ma non si diceva nulla sulla natura dei processi storici pertinenti. La storia del parroco insegna
che per arrivare allo «sguardo sulle cose» occorre passare tra sofferenze
inumane, risultare sconfitti e vivere una sola metà della propria vita. Stavolta la conciliazione con la vita non avviene più attraverso un processo
denominativo; al contrario, né il parroco né l’agrimensore suo interlocutore ricevono mai un nome. In Pietra calcarea la denominazione procede
secondo una logica multipla; ricevono un nome solo le donne, delle quali
una (Luise) rappresenta la continuità nella storia di una famiglia, un’altra
(Sabine) è simbolo dell’eternità, una terza (Johanna) è la possibilità di un
destino personale. Chi, come il parroco, rappresenta le radici della vita,
cioè la chiarezza del destino generale, non ha un nome. Quanto ai luoghi
naturali, un nome proprio (al femminile, chissà se è una coincidenza) l’ha
il ruscello che straripa (secondo 1.2 della prefazione) e poi bisogna arrivare fino al centro amministrativo di Karsberg per trovarne un altro, con
un interessante processo di potenziamento rispetto a Kar [conca] e
Steinkar [Conca Petrosa]. Che cosa c’è dunque di nuovo rispetto alla prefazione? Il togliere ogni aura di trionfalismo alle sue tesi, mettendo in risalto la sofferenza che fa loro da veicolo; il mostrare come quelle tesi così sofferte - si sviluppano attraverso una manipolazione dello spazio
(indeterminatezza spaziale della zona finché non si arriva al nome Karsberg) e del tempo (le donne lo simboleggiano), cioè attraverso un sacrificio dell’individuatezza, che sola porta a cogliere la verità esistente nell’abisso di dolore, passioni e imprevedibilità che è l’uomo. Esiste inoltre
(confermando la fine del trionfalismo) la cessazione di garanzia dell’esito:
il racconto a cornice è fatto in modo che primo narratore, secondo narratore e lettore arrivino quasi a identificarsi abolendo così lo schermo
rassicurante della cornice e rischiando di cadere nelle sofferenze e nella
sconfitta del parroco. Modesto contraltare a ciò è la denominazione Karsberg.
Ma questo racconto merita un’analisi più ampia.
87
I due non potrebbero essere più diversi. Entrambi al servizio di istituzioni - l’agrimensore dello stato, il parroco della chiesa -, dovrebbero avere
entrambi comportamenti e atteggiamenti ognuno commisurato a quello
che l’agrimensore chiama condizione sociale e dignità; invece tanto si
mette in mostra l’agrimensore quanto inappariscente si rende il parroco.
Ed è proprio questa polarità ad attrarre l’attenzione del primo. Questi ci
si presenta quasi come un uomo di avventure: dice di frequente a che cosa mai la sua professione non l’abbia abituato. Ci si può dunque aspettare
che un bel temporale sia di suo gusto; ci ha presto dichiarato, infatti, di
essere attratto da paesaggi selvaggi, da abissi e cascate impetuose. E ora
che c’è quella che lui chiama addirittura tempesta, ce ne dà una descrizione partecipe fino all’entusiasmo, comunicandoci la propria eccitazione
in maniera indiretta ma tuttavia inequivocabile. Il parroco invece resta
calmo e mantiene la sua semplicità per tutto il tempo: quel che sta succedendo rientra nelle sue abitudini e si lascia inquadrare in esperienze e osservazioni durate ventisette anni. Passata la tempesta (che per il parroco
è stata un semplice temporale), i due cenano: pane, latte e fragole; tutto
quello che il parroco ha da offrire. Per l’agrimensore è evidentemente
troppo poco; egli conosce l’abbondanza e le meraviglie della tecnica e
s’incarica di darne subito una dimostrazione, facendo una specie di controfferta di cena. La semplicità del parroco lo costringe a vergognarsene.
L’agrimensore ama l’eccezionale e l’appariscente; il parroco ama ciò che è
costante. Il primo si lascerebbe sorprendere dalla tempesta, il secondo
non è attratto dall’elemento sorpresa ma piuttosto dall’osservazione continuata e minuziosa.
L’agrimensore trova terribili e repellenti le colline di calcare, tutte piccole e uguali; il parroco ne conosce le peculiarità e le diversità. Il primo
quasi si vanta dei disagi della sua vita - ma si capisce che li ama solo come oggetto di vanteria -, il secondo ha conquistato una sua penetrazione
del concetto di abitudine, conquistato con dolore e fatica. I due, insomma, hanno concetti opposti della vita.
Ma la serata passata con il parroco comincia a cambiare l’agrimensore.
Questi ci comunica sue nuove riflessioni sul temporale, in scarso accordo
col suo atteggiamento precedente: il temporale non gli appare più l’evento isolato ed eccezionale cui andava la sua predilezione, ma come anello
di un ciclo, per di più derivato da componenti delicate fin quasi l’impalpabile e l’importanza primaria tocca al ciclo, a quell’avvicendarsi di pioggia e sole che assicura la vita: dunque l’evento eccezionale è una conseguenza di leggi molto superiori. da ciò incoraggiato, l’agrimensore apre
88
gli occhi su quelle colline di calcare che gli erano parse orrende e per la
prima volta ne coglie la varietà e le delicate scansioni di colore. Ciò potrebbe capovolgersi nel banale, nel credere che nella natura tutto sia
buono e bello; niente infatti sembra impedire di estendere le stesse osservazioni ai campi inondati, trovare in quel paesaggio analoga armonia
di colori tra il verde, il grigio e l’argento e definire «bello» lo spettacolo,
cosa cui l’agrimensore tende realmente, facendo passare in seconda linea
le conseguenze negative del temporale, pur da lui ricordate, e cioè lo straripamento di un piccolo fiume, la Zirder. Ma in quello spettacolo - dovrà
presto accorgersi, sia pure da spettatore esterno - è di casa la morte: l’inondazione presenta pericoli mortali per i bambini che devono attraversare il prato inondato. Nella natura infatti c’è tutto, la vita e la morte. La
natura è però innocente, esattamente come quei bambini, i quali non conoscono la morte e possono sì morire, ma seguitando a ignorare tutto
dell’essenza della morte.
Quest’ultima osservazione però viene in mente all’agrimensore solo
dopo che il parroco gli ha in sostanza spiegato lo spettacolo cui il primo
ha assistito senza capire, anzi spaventandosi per la bella pretesa espressa
dal parroco, che l’agrimensore fosse lì per dare una mano. Perché - a parte la pretesa - l’agrimensore non aveva capito che lì ci fosse pericolo di
morte; un primo interrogatorio dei bambini l’aveva portato a fare riflessioni sugli assurdi ordini dei genitori che si curano delle scarpe asciutte
ma non dei vestiti bagnati; solo quando ha visto e capito deve ammettere
che non era lì il punto, anzi che gli ordini non erano poi tanto assurdi,
visto che i vestiti si asciugano così presto (le scarpe presumibilmente no).
E quando il parroco lo ringrazia la seconda volta per essere venuto,
l’agrimensore non la trova più una bella pretesa; finalmente vede il pericolo e, anche se in lui non ne scaturisce nessuna azione, almeno si mette
a riflettere nella direzione giusta, cioè sulla morte.
Per quanto lo concerne, il parroco equilibra le varie osservazioni.
Quando sarà malato e non potrà più osservare direttamente quel paesaggio che conosce in tutte le sue differenziazioni, porrà all’agrimensore
domande che dimostrano come egli ne sappia cogliere le bellezze, ma
come non si illuda di vivere in un idillio. S’informa così sulle more e sulle
rose di macchia, ma anche sulla quantità di sabbia nella Zirder;
l’agrimensore aveva bensì notato che nell’inondazione la Zirder aveva
deposto sabbia sul prato e l’aveva danneggiato, ma era passato oltre questa osservazione per definire bello lo spettacolo, nonostante tutto. Per il
parroco un tale modo idillico di vedere le cose non sembra esserci. E an89
zi egli fa una osservazione sorprendente, che ci aspetteremmo piuttosto
dall’agrimensore, dato il suo mestiere: s’informa su come proceda
l’erosione delle colline di calcare. Non se ne era mai parlato prima, anzi la
prima descrizione del paesaggio, fornita dall’agrimensore, escludeva esplicitamente delle screpolature e dunque non poneva connessioni tra il
calcare e la sabbia, che pure menzionava.
Quando infine l’agrimensore lascia la contrada, lo fa con profonda
malinconia. Tornatovi cinque anni dopo, trova tutto immutato, nelle cose come nelle persone. Dopo ancora molti anni interverranno dei cambiamenti; e saranno quelli giusti, nati dalle piccole cose, dalla semplicità e
- paradossalmente - dall’abitudine e dalla costanza. Essi avranno origine
dall’ordine morale e avranno a garanzia quella opposizione all’evento eccezionale, che l’agrimensore aveva all’inizio stentato ad accettare.
Qui però comincia a profilarsi un pericolo che è bene sceverare fino
in fondo, a evitare che si creino equivoci. Tutta la vicenda rappresenta
indubbiamente un episodio importante nella vita dell’agrimensore. Che
egli vi impari delle cose, si è detto. Egli è inoltre il narratore della vicenda
stessa, presentata come risposta esemplare a certi quesiti moralpsicologici dibattuti in apertura (complessivamente egli è il narratore di
seconda istanza ma questo aspetto, di cui vedremo più in là quanto sia
inquietante, possiamo ora tralasciarlo); dunque la personalità del parroco
lì è parsa tanto esemplare da restargli bene impressa. Nel parroco l’agrimensore ha avuto una guida che nel corso della propria vita ha imparato
a distinguere l’importante apparente dall’importante reale, il singolare dal
costante, il vitale dal letale. Per quanto diversi siano i due personaggi, l’agrimensore sembra avere già nel proprio mestiere una base che lo prepara al meglio: egli deve infatti dare al paesaggio una forma e un ordine attraverso misurazioni e disegni. Dopo il temporale, va a vedere quali
cambiamenti abbia provocato lo straripamento della Zirder, motivando
questo passo con l’amore per il paesaggio, e questo a sua volta come
conseguenza del suo mestiere. Dunque il parroco sembra avere nell’agrimensore una specie di allievo predisposto. Questi viene introdotto all’ordine morale dall’abnegazione della sua guida, il cui testamento commuove e porta grandi frutti: viene costruita una nuova scuola, in una
nuova posizione che elude il pericolo di morte corso dai bambini messi
in pericolo dalle inondazioni. È un cambiamento nel paesaggio, ma è in
primo luogo un cambiamento di ordine morale e a favore di un’istituzione pubblica. Così sembra giustificarsi la morale espressa verso la fine ancora dall’agrimensore secondo cui il male non ha una meta né ha effica90
cia nell’ordine cosmico, mentre invece il bene matura sempre frutti. Se a
ciò aggiungiamo che il buon parroco è stato derubato tre volte (cosa che
viene detta anche tre volte) e tuttavia questo male non impedisce il bene
finale, si può temere di essere capitati nel bel mezzo di una predica parrocchiale.
Ebbene, questo timore è fondato. Il fondamento esplicito lo ha fornito Stifter stesso. Ma aggiungerò subito - in attesa di veder meglio le cose -,
che esso è solo una parte della verità, e dunque una mezza bugia. Intanto, ecco i primi indizi che c’è bisogno di maggiore riflessione. L’episodio
del parroco è indubbiamente importante nella vita dell’agrimensore, però
resta un episodio. L’agrimensore resta curioso di questo mondo eterno e
immutabile; scambia lettere col parroco, torna a visitare questi e la zona
dopo cinque anni. Però vuole restarne fuori. E quando il parroco prima
gli fa scrivere da altri che lo vorrebbe al suo capezzale e poi personalmente gli scrive - con discrezione ma senza possibilità di equivoco - che
sta per morire, l’agrimensore non accorre. Ha evidentemente paura.
Nel frattempo infatti è successo qualcosa: il parroco ha raccontato la
sua vita. Tale racconto spiega come egli abbia imparato le distinzioni di
cui si diceva: spiega anche ciò che l’agrimensore verrà a sapere dopo, e
cioè l’andare del parroco incontro alla morte come a una cosa usuale,
comportandosi come sempre e parlando come sempre; spiega, insomma,
quale immenso dolore sia alla base di tutto ciò. Siamo in un racconto a
cornice, quali furono molto frequenti nella cultura del cosiddetto Biedermeier e di cui Stifter stesso ha offerto molti esempi. La cornice esterna offre un esempio di vita rassicurante, quella dell’agrimensore, entro il
quale se ne colloca una più inquietante, la vita del parroco. Questa ha
come presupposto non l’abitudine, la costanza, l’immutabilità, ma il cambiamento impetuoso: assistiamo alla nascita e allo sviluppo di una città, al
crescere di una ricchezza e al suo crollo improvviso. Tutto succede un
po’ come nella tempesta, cui però l’agrimensore ha assistito da una posizione sicura. Conseguenze della storia raccontata dal parroco sono la
morte, capovolgimenti improvvisi nei destini, incomunicabilità fra i ceti
sociali, separazione dalla donna amata. In quella vita il parroco (allora
non ancora tale) non si trova al suo posto. È una vita basata sulla concorrenza e obbediente a categorie di giudizio orientate sul successo. Il
giovane non sa concorrere e non sa avere successo. Messo a confronto
con gli altri, fallisce ancora prima di cominciare; le sue capacità si sviluppano solo quando sono inutili.
91
La sua vita acquista un senso dal momento in cui si capovolge. Lui
non è fatto per la «tempesta», non possiede uno «spirito divampante, che
urge verso l’azione e travolge, cambia, distrugge, spesso gettando via
nell’entusiasmo la propria vita». Al contrario, vivrà «tutta la vita secondo
giustizia, semplicità, autocostrizione, equanimità di intendimento, impegno nel proprio piccolo», coronandola «con una morte serena e tranquilla». Conoscerà così la vera grandezza, mentre la vita in cui è rimasto
sconfitto si dimostra «prodotto di forze singole e unilaterali», cioè «non
più grande ma più piccola».
Le parole che son venuto citando non si trovano nel nostro racconto
ma nella prefazione a Pietre variopinte. Tale prefazione è un manifesto; esso non si riduce al predicozzo dell’agrimensore perché è, tutto sommato,
un testo più teorico e più nobile, però il predicozzo ne viene confermato
punto per punto.
Ricordiamo che la prefazione ha anche una parte dedicata all’estetica:
la legge dell’ordine morale - legge dolce perché vitale, ma pur sempre
legge - è l’oggetto vero della poesia; essa è l’unico universale, l’unico sostegno della vita, ciò che non ha mai termine. Essa pertanto detta anche
le leggi dell’estetica. Si ha il tragico quando sia il singolo sia interi popoli
periscono per il giusto e il morale, risultando però vincitori «perché
l’intero sta più in alto della parte e il bene è più grande della morte»; si ha
l’epico quando «l’umanità procede nella sua storia come un placido fiume
argenteo verso un eterno, grande fine». Pietra calcarea però non è tragico
né epico: non è tragico perché il suo protagonista non muore combattendo per il giusto e il morale, non è epico perché non concerne la storia
di intere stirpi umane; Stifter promette di affrontare l’epica ma le sue parole non possono riferirsi a nessuno dei racconti delle Pietre variopinte; si
riferiscono invece manifestamente al suo grande romanzo Witiko (cominciato forse nel 1850, pubblicato in tre volumi dal 1865 al 1867). Il
nostro racconto si colloca bensì in direzione di quella sfera ma restando
nella zona delle origini della poesia; infatti secondo Stifter per quanto
grandi siano le tragedie e l’epica, la legge fondamentale dell’ordine morale
è riconoscibile con la maggior certezza «nelle consuete, quotidiane, innumerevoli e ripetute azioni umane [che] sono durevoli e fondamentali,
per così dire i milioni di filamenti alle radici dell’albero della vita». Per
dirla con l’altra metafora che il titolo della raccolta suggerisce, Stifter allinea le tante pietruzze, colorate nella loro individualità, che costituiscono
il paesaggio mineralogico del mondo: granito, pietra calcarea, tormalina,
92
cristallo di rocca, biotite bianca, calcite compaiono nell’ordine come titoli
di sei racconti.
L’apparenza può far propendere ad accostare Stifter a residui di fisicoteologia; ma al di là di essa si colloca la fedeltà di Stifter alla tradizione
illuminista: l’ordine morale ha una logica corrispondente a quella
dell’ordine naturale e all’interno di entrambe sono distinguibili la legge,
l’ordine e la forma, la cui presenza è giusta mentre la loro mancanza è ingiusta. Però Stifter non scrive prima della Rivoluzione francese ma dopo
la rivoluzione del 1848; e il suo è un illuminismo molto sui generis, come
vedremo più in là.
Intanto già l’andamento del racconto porta delle complicazioni nel
quadro sopra schizzato. Dapprima nel senso di banalizzarlo. Il parroco
sembra aver deciso di darsi alla promozione di quelle forze che conservano la vita di tutti e lo scrive, con parole appena un po’ cambiate,
all’inizio del suo testamento; l’agrimensore continua questo pensiero sostenendo che il bene vince sempre mentre il male è inconsistente. Dunque la banalizzazione non è opera di un solo personaggio; lo è almeno di
due e corrisponde al pensiero dello stesso Stifter.
Ma c’è anche ben altro. La prefazione a Pietre variopinte descrive brevemente come sono cambiate nella storia le concezioni degli uomini riguardo al grande sia nella natura sia nella morale. Non dice però attraverso quali processi ciò sia avvenuto. La storia del parroco ce ne dà un esempio: prima di conseguire la saggezza ha dovuto essere uno sconfitto,
ha dovuto veder crollare intorno a sé ricchezze, persone e affetti. La solitudine, la morte, la sofferenza non soltanto l’hanno maturato ma l’accompagnano ancora e «l’abitudine diventa molto lieve, molto lieve» come
dice il parroco stesso, quando per antifrasi lascia capire quale continua
lotta sia la sua vita. La storia del parroco è modellata su un racconto di
Franz Grillparzer, quasi il solo grande scrittore coevo con cui Stifter abbia avuto qualche contatto personale: Il suonatore povero [Der arme Spielmann] (1847). È questa un’allegoria dell’artista che è inutile al mondo,
perfino al mondo dell’arte, e la cui realizzazione consiste in un colloquio
diretto con Dio, non usufruibile da nessun altro. Sfruttato da tutti, lascerà come unica traccia l’affetto di una donna andata sposa a un altro e che
ricomparirà comunque in tempo per piangere sulla sua morte eroica, avvenuta per disinteressato amore del prossimo. Rispetto al modello, Stifter
opera pochi ma importanti cambiamenti. Sul piano personale il parroco
resta ancora più isolato perché la donna da lui amata scompare senza
tracce. Di un colloquio diretto con Dio non si parla mai; e la cosa è dop93
piamente notevole perché Stifter, trasformando il suonatore in parroco,
ne avrebbe avuto molte più occasioni. Però il parroco ha scoperto la legge che governa e conserva l’umano e sa vivere secondo quella; perciò la
sua efficacia finale, dopo morto ma anche parzialmente in vita, è maggiore. Né ha bisogno di una morte eroica ma, al contrario, di una morte
semplice e, per così dire, usuale, quotidiana. Il parroco è inutile ma, radicato com’è nell’umano, fa parte delle radici dell’albero della vita.
È però la sofferenza continua e la sua vita dimezzata che Stifter tratta
con la maggiore maestria. Il parroco non vuole liberarsi di Johanna: «sarebbe troppo triste», dice, rinunciare alla biancheria così fine e costosa.
Tale biancheria ha dunque un significato simbolico. Esso è complesso;
possiamo supporre che vi rientri la fedeltà del parroco a qualcosa che ha
a che fare con Johanna e con se stesso. Quella biancheria, gli aveva spiegato Johanna, è il nostro vestito più bello e più intimo. Pur vergognandosene (cercheremo più in là di capire perché) il parroco conserva su di
sé questa bellezza e questa intimità. Quando il fratello fallisce, gli mette a
disposizione il denaro e l’argenteria, non la biancheria, cui pure attribuisce anche un valore commerciale perché all’agrimensore dichiara che dopo la sua morte renderà pur qualcosa (sarà proprio l’agrimensore a comprarla e conservarla, perpetuando così il simbolo). La biancheria, che secondo Johanna viene in casa subito dopo l’argento, ha una dote che dell’argento vero e proprio non viene detta: può sì sporcarsi e così cessare
di essere “argento”, ma può essere lavata e così riportata all’argento;
dunque sembra partecipare intimamente della vita, delle sue colpe e dei
suoi splendori, restando legata a quanto della persona è magari nascosto
all’esterno ma tanto più importante. Essa infatti viene contrapposta
all’oro, che è certo prezioso ma puramente decorativo. Sembra quasi che
la biancheria sia assimilabile a quanto viene falsamente creduto piccolo
ma in realtà è grande, mentre l’oro è il preteso grande, che in realtà è piccolo. Stifter per la verità non estremizza le cose in questo modo, però
sembra muoversi verso quelle equiparazioni.
Qui però occorre dire qualcosa di più su questo fratello e anzi sulla storia
della famiglia del parroco, per renderci conto di come il simbolo della
biancheria significhi di più di quanto detto, e cioè simboleggi anche la
sostanza contro l’apparenza, la perennità e inesauribilità dell’elementare
contro la tumultuosità della storia, vista quest’ultima nella sua realizzazione più moderna: la società industriale.
94
Col parroco siamo alla quarta generazione nella storia di una famiglia.
Il bisnonno ne ha fondato la fortuna, proveniente dal nulla: era addirittura un trovatello, il punto di partenza era proprio zero. Lo sfondo storico
è indicato in maniera sommaria ma i pochi cenni sono precisi e chiaramente allusivi. Siamo intorno alla metà del Settecento, il bisnonno è svevo: il che ci riporta alle migrazioni sveve che, incoraggiate da Maria Teresa d’Austria, si diressero verso la Boemia e il Banato. L’imperatrice non
viene citata e la sua politica per lo sviluppo di quei territori nemmeno;
ma l’allusione è inequivocabile.
Il bisnonno impara un mestiere grazie alla carità altrui; si dimostra ingegnoso e fa la sua scalata sociale fino a diventare proprietario, impresario, datore di lavoro. Il nonno, unico suo figlio, porta la famiglia alla ricchezza. Il padre, anche lui figlio unico, continua semplicemente la tradizione: ormai non c’è più niente da fondare ma solo da proseguire e amministrare. Mentre il bisnonno e il nonno cambiavano, il mondo intorno
cambiava insieme a loro e tutti sembravano portati in armonia dalla stessa ondata. Non si ha notizia di distinzione tra osservatore e osservato:
tutto va insieme. Ma col padre qualcosa comincia a cambiare; egli diventa
osservatore: viene ricordato mentre contempla un albero o le nuvole;
oppure - cosa poco usuale per uno della sua posizione - intento a scrivere al suo tavolo. E col padre si interrompe anche la tradizione dei figli
unici: egli ha due gemelli; il parroco, vita dimidiata, comincia a essere metà fin dall’inizio. Ed è la metà non brillante. Dal precettore il fratello impara tutto velocemente, il parroco invece fa la figura dello scemo, non
riesce a imparare oltre le nozioni elementari e si fa bocciare all’esame finale. Il padre vuole proseguire la tradizione del nonno e del bisnonno e
quindi i suoi figli devono imparare il mestiere allo stesso modo per poter
dirigere un giorno l’azienda; anche qui, il fratello impara, il parroco no. È
di conseguenza il fratello a dirigere l’azienda quando il padre si ammala e
poi muore. Il parroco, rimasto solo, ricomincia i suoi studi. E adesso finalmente impara, supera gli esami. Certo, è troppo tardi, sono conoscenze (latino, greco, geografia) che non servono agli affari, insomma è tutta
una cosa inutile, fatta senza scopo pratico. La morale pare evidente: il
parroco, che non imparava niente finché era col fratello, non regge il
principio della concorrenza; gli manca un caposaldo della civiltà industriale. Il fratello brilla; il parroco non è per nulla appariscente.
E poi c’è la storia con Johanna. Nella Genesi, si sa, Eva porge ad Adamo il frutto proibito; nella nostra storia, è il parroco che attrae Johanna con un frutto. La conoscenza che se ne ricava è il disvelamento del
95
significato della biancheria: la nostra veste più prossima e più distinta,
bianco argento che torna sempre tale a ogni lavaggio. (E il “diavolo” tentatore che viene cacciato da questo paradiso terrestre viene spedito in
quello che all’agricoltore si presenta bensì come una specie di inferno e
cioè nel deserto dello Steinkar; ma agli occhi del parroco quel deserto è
bello e vario; non è l’inferno, è la terra; l’uomo Stifter poteva fare il bigotto, lo scrittore non disdegnava l’eresia.) Il fratello del parroco è appariscente, il parroco no; e nemmeno il suo simbolo è appariscente: la biancheria, infatti, è il vestito che non si vede. Ma è il più distinto. Il fratello
fallisce, e muore vittima del suo mondo appariscente e basta. Nello spazio di quattro generazioni la famiglia ha conosciuto fondazione, ascesa,
splendore e fine. Anche in questa misurazione dei tempi Stifter dimostra
ancoraggio storico. L’enigma del padre, uomo d’affari prospero e solitario meditabondo, si è chiarito nei due gemelli. Ma quel che resta alla fine
è il rifiuto del ritmo storico: della concorrenza, della ricerca dell’utile. Sopravvive l’elementare, l’osservazione del costante, quello che forse il padre cercava nell’albero e nelle nuvole.
Il parroco, che indossa biancheria finissima, è dunque fedele a una
scoperta, anzi a una rivelazione. È la rivelazione di un “vestito” destinato
a restare nascosto, mediata da un frutto che ricorda tanto lo scambio del
frutto proibito, e per di più avvenuta su biancheria femminile (Johanna
accudiva la biancheria di una contessa), dunque con sottili risvolti erotici
per di più all’interno di una storia d’amore proibita; la madre rimprovera
infatti Johanna dicendole: «Johanna, vergognati!» Ed è solo qui, in connessione con questo rimprovero con cui hanno termine i colloqui, che
Johanna riceve il suo nome. Una specie di battesimo della colpa e della
rivelazione. È stato dunque l’eros a svelare il segreto, cioè l’elementare.
Ragioni sufficienti ad avvolgere di pudore la scoperta e la fedeltà conservatale. La biancheria è l’argento che si rinnova perennemente: quella scoperta è dunque perennemente produttiva. È forza vitale. Ed è anche sofferenza incessante.
Come se non bastasse, la figura di Johanna sembra raddoppiarsi (o
almeno non spegnersi) in quella ragazza che abita al piano superiore della
sua parrocchia; questa è orfana di madre, Johanna era orfana di padre,
entrambe lasciano la loro abitazione per sposarsi in un’altra città. Compare alla fine, fuggevolmente, la figlia del maestro di scuola, cui la domestica del parroco regala ciò che questi le aveva lasciato, quasi a simboleggiare un incontro, ma soltanto postumo.
96
Né il parroco né l’agrimensore hanno un nome. Di tutta la famiglia
del parroco, solo il padre riceve un nome, ma è il generico nome di padre, che pure viene trattato quasi come nome proprio, perché se lo è
conquistato. Un vero nome tocca solo a tre donne. Una è Luise, la governante; costei rappresenta la continuità nella case del padre, essendo a
servizio già della madre, quando questa non era ancora sposata, ed essendo rimasta dopo che la madre è morta. Un’altra è Sabine, che rappresenta una continuità ancora maggiore: lei, che accudisce il parroco, è
l’unica a non mutare nella zona anche quando dei mutamenti sono intervenuti; è un simbolo dell’eternità: nessuno conosce la sua età e non la
conosce nemmeno lei. La terza infine è Johanna: il suo nome lampeggia
una volta sola, dopodiché la ragazza scompare. Lei è l’ultimo legame con
la possibilità di un destino personale; scomparsa lei, tutto crolla,
nell’intimo del parroco ma anche intorno a lui, e gli resterà la via verso
l’immedesimazione con un destino generale. Questo non è legato a nomi,
nemmeno di luoghi. All’inizio l’agrimensore ne dice alcuni: nomina la cittadinanza di Wengen, il villaggio di Schauendorf. Ma la storia del parroco
si svolge in luoghi che non hanno nomi per così dire assoluti, bensì nomi
relativi: c’è una conca montana abitata (Kar) e una conca petrosa (Steinkar). Questo è tutto. Anzi no: c’è un nome proprio, e tocca al ruscello, la
Zirder. Questa, che l’agrimensore ci aveva presentato, oltre che col nome, con lodi per l’unica gradevolezza che rappresentava in un paesaggio
ingrato, compirà un’impresa apparentemente grande ma in realtà piccola
perché «localizzata e risultato di cause unilaterali» (come si legge nella
prefazione): strariperà, portando pericolo di morte; e verrà domata
dall’opera vitale (dunque grande) dell’anonimo parroco. A parte quel
nome tutto scompare nel destino generale. Ma con una sua forma: da
quei nomi non appariscenti e anzi neanche veri nomi si forma a poco a
poco un nome vero; è quello della cittadina di Karsberg, che di per sé
vuol dire “il monte della conca”, ma che si è conquistata quel nome proprio perché sede di un tribunale, cioè di un’istituzione, cioè di una traccia
di stato. È proprio in esso, come abbiamo visto, che culmina l’ordine
morale del presente (e al futuro, dice ancora la prefazione, si apre
l’auspicio che i popoli si uniscano e i doni dell’uno si scambino con quelli
dell’altro).
All’indeterminazione spaziale, che dei luoghi fa quasi simboli di una
rifondazione, si associa un’indeterminazione temporale anch’essa con valore simbolico, quasi figurazione dell’eterno. Di Sabine ciò viene detto
esplicitamente. Oltre a ciò, ci sono tante generiche e contraddittorie indi97
cazioni di un passaggio di anni, che è impossibile stabilire un calendario
del racconto. Basti citare due esempi.
Come primo la morte del padre. Questi muore improvvisamente, e
nessuno pensava fosse così vicino a morire. Eppure si era letto, solo una
riga prima, che la situazione durò più anni; evidentemente ci si riferisce
solo alla situazione del figlio (tornato a vivere nella stanza dei bambini):
pare che i destini si rendano autonomi e la cronologia non possa più legarli. Il secondo esempio concerne l’agrimensore. Quando questi incontra il parroco la prima volta sembra già versato nel suo lavoro da molto
tempo; rivede il parroco «dopo molti anni» (poi si scoprirà che sono otto); quindi lo rivede ancora dopo cinque; e infine il parroco muore dopo
che per «lunghi anni» non si sono visti; quando il racconto termina, la
scuola voluta dal parroco è stata eretta «da lunghissimo tempo». Perché
allora l’agrimensore apre il racconto col dire che «da molti anni» fa il suo
lavoro? È un vecchio decrepito o anche lui una figura che non invecchia
mai? Ma la domanda sarebbe proponibile solo se lo scorrere del tempo
non avesse valore simbolico.
Il parroco aveva un fratello gemello. Costui era buono e l’aiutava; ma
era per l’utile, per il singolare, per il tangibile: un po’ come l’agrimensore
all’inizio. I due fratelli non erano riusciti a educarsi a vicenda. Con l’agrimensore le cose andranno un po’ meglio, perché nel frattempo il parroco
ha scoperto la verità. E questa è indubbiamente una delle morali della vicenda.
Però, come già accennato, l’agrimensore è solo un narratore di seconda istanza. Il suo racconto viene introdotto da una disputa morale, che
esso a sua volta dovrebbe aiutare a decidere. Il parroco è un «virtuoso»
dell’altruismo e per il resto un incapace? Oppure è stato altruista solo per
caso e fondamentalmente un uomo completo? Era un altruista con le doti che competono a ciò ma senza niente d’altro? O è impossibile giudicare? Così, applicandole al caso concreto, suonano le questioni dell’inizio.
Il racconto sposta il problema: il parroco aveva conosciuto la legge e agito in base a quella, senza magniloquenza, anzi addirittura maldestramente, nel preteso piccolo e non nel preteso grande (dunque, in realtà, nella
grandezza vera). Non lui ma la legge stessa aveva fatto il resto. La legge
non si subordina a noi ma noi a essa. Una “morale”, come si diceva, di
evidente matrice illuminista.
Ma chi è l’agrimensore? La disputa morale dovrebbe essere la prima
cornice; con un’abile allusione, essa conferma fin dalla prima riga i concetti di piccolo e grande più volte illustrati (nella storia - si dice - non ac98
cade niente di eccezionale e tuttavia essa è indimenticabile). Dunque la
sua distanza dalla prima narrazione interna viene diminuita subito. Ma la
cornice non è nemmeno veramente tale perché sul finale non si chiude:
Pietra calcarea termina infatti con le parole dell’agrimensore, non del narratore. C’è però qualcosa di strano. Il narratore profetizza che su dieci
ascoltatori (si badi: ascoltatori, non lettori) nove biasimeranno il parroco
e uno vi penserà spesso. L’agrimensore narra la storia appunto a degli ascoltatori e conclude ipotizzando che a volte qualcuno preghi per il parroco e che qualcuno ne abbia acquistato un buon concetto. La simmetria
di questa conclusione con l’introduzione è evidente. Dunque la distanza
tra narratore e agrimensore tende a sparire, e con essa a sparire la distanza tra prima e seconda cornice. Data la solidarietà che viene a proporsi
inizialmente tra narratore e lettore, quasi coinvolto nel circolo dei dialoganti, e dato il rovesciarsi della funzione dell’agrimensore sul narratore,
ecco che l’agrimensore diventiamo un po’ tutti noi: la comprensione e
l’incomprensione dell’agrimensore diventa la nostra, la funzione di giudici partecipanti a un disimpegnato colloquio teorico ci viene negata. Ci
viene invece chiesto se facciamo o no il salto entro la narrazione più interna, quella da cui per definizione dovevamo essere protetti, che è quella
alle radici del dolore, caratterizzata dalla comprensione nata dalla cancellazione individuale; per di più siamo stati sbeffeggiati, perché solo di un
decimo di noi è previsto che capirà qualcosa. Si può parlare ancora di illuminismo?
E se ne può parlare ancora dopo le rivoluzioni del 1789 e del 1848? Il
Biedermeier nasce sulle ceneri del romanticismo e all’epoca di Metternich; pretendere di individuare una legge che conservi l’umano, con le
indicazioni che ne derivano, ha significato restaurativo (con buona pace
di tutto l’illuminismo) oppure tutt’altro, magari addirittura l’opposto? E
un tentativo di storicizzare Stifter ce lo allontana definitivamente o aiuta
a chiarire gli equivoci?
Nel 1843 Stifter era entrato come precettore in casa Metternich. Nel
1844 aveva progettato un romanzo in tre volumi su Robespierre, di cui
pare desse un giudizio positivo. Prima del 1848 aveva manifestato opinioni liberali e all’inizio della rivoluzione di marzo si era espresso favorevolmente sui suoi fini. Ma subito dopo si era spaventato per gli eccessi
della «feccia». Ne nacque un progetto pedagogico il cui primo passo fu
Pietre variopinte, un regalo destinato alla gioventù per il Natale 1852 (ma
99
uscito nel 1853 per ritardi dello stesso Stifter). Vi sono raccolte storie di
bambini perché (scriveva Stifter al suo editore nel marzo 1849, giusto un
anno dopo la rivoluzione) «i bambini non fanno la rivoluzione e le madri
neppure».
Sulla rivoluzione in genere aveva già pubblicato le sue riflessioni un
altro autore dell’epoca: nel 1835 era uscito La morte di Danton [Dantons
Tod] di Georg Büchner, che Stifter non avrà certo letto. La sofferenza
umana vi smentiva la pretesa sensatezza dei sistemi filosofici; l’idea della
storia come luogo in cui il progresso cresce sensatamente, come un ciclo
naturale si sviluppa dall’altro, viene liquidata come buona per i banchi di
scuola, ma solo finché non si hanno i calli al sedere. Il quadro nichilista
che ne risultava misurava tutta la distanza fra le illusioni passate e la realtà. «L’uomo è un abisso», scriveva ancora Büchner (nel Woyzeck, un testo
che Stifter non avrebbe potuto leggere comunque perché era morto da
undici anni quando nel 1879 venne pubblicato per la prima volta). «La
vita è lo spreco», riassumeva invece Niklas Lenau nel suo Faust (lo pubblicò nel 1836 e Stifter avrebbe potuto leggerlo; ma non risulta che l’abbia fatto). Lenau viene classificato come autore Biedermeier, Büchner no
ma, qualunque cosa si voglia pensare di queste classificazioni, la spinta
nichilista veniva evidentemente da più direzioni e coincideva nel negare
una fede a leggi morali e storiche cui era invece sembrato impossibile
non credere.
Un tratto comune che si riconosce agli autori del Biedermeier è di aver cercato la sensatezza nel piccolo. Ciò poteva avvenire con tratti pii
oppure valorizzando sì il piccolo ma senza nascondere l’atteggiamento
nichilistico nei confronti del grande. Stifter ne ha dato l’interpretazione
personale che abbiamo visto. Un ordine di leggi generali è caduto: sono
quelle che hanno sviluppato con continuità la città natale del parroco
quasi come in una fiaba del capitalismo: un trovatello svevo comincia dal
nulla e cresce gradatamente ma irresistibilmente insieme con tutta la città
finché la terza generazione pare saldamente impiantata fra i successi
dell’industria. Leggi razionali, conseguenziali, solidissime e onnicomprensive, che danno luogo a un tracollo del tutto irrazionale, originato da
qualche insofferenza e un po’ di panico, letali nei loro effetti ultimi. La
vita, che pareva così ben organizzata dalle leggi, viene invece dilapidata,
messa in pericolo, dispersa. Per sfuggire a tale spreco si tenta di ritrovare
la sensatezza nell’elementare, intorno al quale si organizzano piccoli sistemi, non molto al disopra del grado dell’elementare; la sensatezza viene
però ottenuta attraverso la negazione del dinamismo, cioè immobilizzan100
do il tempo e omogeneizzando lo spazio. Tutto ciò vuol dire togliere individuatezza e dunque perpetuare la sofferenza. Ma sembra che ci sia da
scegliere fra due mali: le leggi generali generano anch’esse sofferenza e
perdita di individualità (per esempio nel rendere muti fra loro i ceti sociali) e per di più si rivelano irrazionali; la nuova legge cercata non elimina la
sofferenza - che è stata comunque inferta dall’esterno, dalle leggi che si
vuole abbandonare - ma, assuntala, cerca di riorganizzare qualcosa da
quel centro che siamo noi. Tuttavia ciò sarebbe solo un far buon viso a
cattivo gioco. Nasce francamente il sospetto che ci sia altro; che quella
esigenza di stasi, nata storicamente ed esistenzialmente al modo detto,
ma sviluppatasi poi cognitivamente attraverso una manipolazione dello
spazio e del tempo, sia quasi un presupposto di platonismo: essa avvia
alla contemplazione di quelle che è certamente sbagliato chiamare idee,
tanto umbratile e periclitante è la loro natura, ma che forse conservano
un qualche ricordo dell’idea. La loro metafisica vive in quell’abisso che è
l’uomo: abisso di dolore, di passioni, di imprevedibilità. Tale abisso è in
tutti: basta togliere un piccolo frammento di cornice per precipitarci dentro.
Mi chiedo se al lettore del racconto viene fatto di pensare, come a me,
a un altro agrimensore, comparso in letteratura una settantina d’anni più
tardi, a opera d’un altro boemo: a quello del Castello di Kafka. Capitati entrambi in un paese senza nome e dalle leggi incomprensibili, i due agrimensori affrontano una battaglia per venire a capo della situazione; solo
quello di Stifter ne esce vivo, seppure non vincitore, e grazie a una guida.
Ma difficilmente resterà in mente il predicozzo che scaturisce dal sia pur
parziale saldarsi di pupillo e guida; forse «penserà spesso» alle immagini
ferite: al giovane inutile e incapace, al paesaggio lunare delle colline di
sabbia e calcare, alla tempesta (anche se questa, attenendosi all’ideologia,
dovrebbe piuttosto dimenticarla), al parroco immerso nell’acqua: figura
che sarebbe un po’ ridicola se non suggerisse piuttosto l’idea di uno che
deve quotidianamente tagliar via metà di se stesso. Quando, successe tante altre cose, cadrà anche l’ideologia che persuadeva a cercare il senso nel
piccolo, resteranno sulla pagina le sole immagini ferite: sarà il mondo di
Kafka, che non abitava poi tanto distante da Stifter.
101
102
Cristallo di rocca
La prefazione presentava le leggi morali come parallele a quelle naturali;
ma di questo parallelismo non si vede traccia nei racconti. Per di più sia
Pietra calcarea sia Cristallo di rocca presentano una natura di per sé indifferente alla sorte dell’uomo. Quest’ultimo vi compare solo come osservatore della natura, dunque assumendo un punto di vista estetico. Quanto
all’etica, si fa vedere come sia necessaria la solidarietà per vincere quello
che la natura ha di pericoloso. Messe così le cose, che senso ha ancora
quel dualismo? E che senso ha dire che l’estetica si basa sull’etica? È pur
vero che Cristallo di rocca (come già accennato) ha una morale chiaramente
consona con la prefazione. Anche l’attività denominatoria le è consona.
Dei due bambini sappiamo subito i nomi; così pure della madre, grazie
all’omonimia con la figlia. Ma il padre resta a lungo innominato e solo la
madre gli darà alla fine il suo nome, quando se lo sarà meritato attraverso
la ricerca dei figli su per la montagna. Tutto occupato nella cocciuta lotta
a distanza col suocero, Sebastian si era fino a quel momento occupato
poco dei figli e non aveva mostrato di amarli come avrebbe dovuto. La
duplicazione della coppia padre-madre nei due figli (di Konrad si dice
che è serio come il padre e Sanna viene esplicitamente associata alla madre) permette che tutto vada a buon fine. La denominazione avviene
dunque al termine di un processo di conciliazione generale: l’individuatezza è un conquista sociale al modo in cui lo è Karsberg in Pietra
calcarea. Tutto questo però è ripetizione oppure completamento della prefazione. Quel che c’è di nuovo sono la scissione e la ripetizione. Di
quest’ultima si ha un segno nel celebre «Sì, Konrad» che la bambina ripete ben diciassette volte. Ma ripetizioni ci sono anche nella tessitura del
racconto; e mentre le prime indicano la fiducia e la compattezza fra due
esseri, primo esempio di quella più ampia fra le due famiglie e i due villaggi che si instaureranno alla fine, le altre indicano il persistere della minaccia: «era ghiaccio - solo ghiaccio»; «volevano ridiscendere dall’altra
parte. Ma non c’era un’altra parte»; «[...] scendere dal muro di ghiaccio
[...] ma non scesero»; «ma non videro valli [...] solo ai bambini non saliva
alcun suono»; «ma non giunsero ad alcun limite, non guardarono in basso»; «ma anche quel giorno c’era ghiaccio, solo ghiaccio. [...] Ma là trovarono di nuovo il ghiaccio»; «La neve riprese a salire [...] si arrampicarono
dunque di nuovo»; «neve e soltanto neve. [...] Non si vedeva altro che
103
neve, la bianca e luminosa neve»; «sempre attraversando la neve, sempre
la neve». E via dicendo, infittendosi man mano.
Conviene considerare a parte altre ripetizioni. Sono quelle dei segni
fraintesi: i bambini mostrano ripetutamente la loro gioia di fronte a quei
fenomeni che costituiscono minaccia di morte e che loro non intendono
al verso giusto: il sole mostra un’immagine «fosca e rossastra», è «rosso
sangue» e ciò vuol dire che minaccia tempesta. Ci sono segni di «pioggia
imminente»; ma siccome il colore dell’acqua nel ruscello mostra che «sulle vette più alte doveva regnare già il freddo», forse non sarà semplice
pioggia. Ebbene a questi e a vari altri segni i bambini reagiscono regolarmente con manifestazioni di gioia. Ma questa ripetizione introduce
una scissione: il rapporto con la realtà non si basa sulla saggezza che viene dall’esperienza. È vero che Konrad ammette a un certo punto: «ho
pensato subito che avremmo avuto neve»; ma l’atteggiamento fondamentale è quello della beata incoscienza. Consideriamo ora che il già ricordato «Sì, Konrad» viene pronunciato per confermare le scelte del fratello,
che però risultano regolarmente sbagliate; dunque anche questo tipo di
ripetizione - indice di fiducia e solidarietà - non assicura la presa corretta
sulla natura. Stavolta il valore etico della denominazione è forte, ma il
suo valore conoscitivo è nullo. Dei bambini si dice che vanno avanti con
tenacia e forza esattamente come gli animali, «poiché non sanno cosa li
attende e quando le loro riserve si esauriranno». Anche se il paragone
con gli animali non ricorre più, sull’ignoranza dei bambini si insiste ancora; è grazie a tale incoscienza che essi compiono addirittura l’impresa temeraria di attraversare il ghiacciaio e il crepaccio. Dunque i bambini
hanno una natura animalesca. Ebbene anche il villaggio di Gschaid sembra una copia della natura; a questo proposito viene ripetuta quasi identica una frase della prefazione: «gli abitanti della valle chiamano i piccoli
mutamenti grandi, li osservano con attenzione e calcolano in base a quelli
il progredire dell’anno». Se si confronta ciò con l’esempio delle misurazioni magnetiche illustrato nella prefazione si potrebbe concludere che ci
siamo: ecco assicurato il parallelismo fra etica e natura. E invece non è
così. Il mondo chiuso («un mondo proprio») e pressoché immutabile
(«sono molto costanti e tutto resta com’è») è quello che li separa dal
mondo, che impedisce gli scambi con l’esterno, che non accetta i momenti del gioco perché non finalizzato all’utile, non controllabile, imprevedibile (da qui la condanna della vita condotta dal calzolaio in gioventù,
e che infine porta all’isolamento della moglie e dei figli di Sebastian). Gli
abitanti di Millsdorf hanno invece più contatti con l’esterno; anzi tra co104
storo il suocero del calzolaio, «cosa inaudita nella valle, [lavorava] con
macchine»: a Millsdorf è addirittura arrivato il progresso tecnologico. Ma
questo non sembra aver influito positivamente sui sentimenti di solidarietà umana: il suocero sfida il genero a fare la stessa scalata sociale e i
due uomini non si vedono fino al momento della sfiorata tragedia. I segni di tempesta fraintesi dai bambini erano stati visti anche dagli adulti:
all’inizio si cita un’opinione della «gente di campagna», ma la nonna, che
pure era parsa preoccupata dai segni visti da lei, solo alla fine grida: «Mai
più, mai più [...] in tutta la loro vita i bambini dovranno scavalcare il valico in inverno».
La natura non è un idillio; all’inizio le montagne sembrano antropomorfizzabili: il ghiacciaio quasi invia un saluto ai valligiani; ma quando lo
si va a vedere da vicino tutto si rivela «selvaggio», «confuso» e «sporco».
Così come succede ai colori, sui quali da lontano ci si sbaglia e che da vicino non aiutano meglio.
Che resta, dopo tutto ciò, del parallelismo tra leggi naturali e leggi etiche? Non se ne vede più traccia; tutto viene spostato a favore del primato dell’etica sociale, degli sforzi comuni per superare i pericoli della natura; solo grazie a ciò si può arrivare all’individuatezza e Sebastian ricevere
il suo nome. La scissione di cui si diceva è scissione tra uomo e natura,
da ricomporre mediante l’etica sociale, visto che quanto di naturale è rimasto nell’uomo è o ingannevole (nelle valutazioni dei bambini) o addirittura perverso (nel comportamento degli adulti).
105
106
Tormalina
Tormalina [Turmalin] invece sembra nascere con la dichiarata intenzione
di confermare la prefazione: all’inizio si dice infatti che si vogliono mostrare gli effetti deleteri della perdita dell’«intima [mite] legge». Di conseguenza il racconto è stato interpretato come denuncia del comportamento di un padre che rovina la figlia e come denuncia del soggettivismo, del
dilettantismo, del culto della mera apparenza. Non c’è dubbio che tale
interpretazione sia fondata; al pensionato viene fatta esplicitamente colpa
di aver rovinato la salute fisica e mentale della figlia (che resta sempre
senza nome) e quanto al suo dilettantismo e all’amore per l’«apparenza»
basti rinviare al suo collezionismo guidato dalla sola categoria «uomini
importanti», che nemmeno conosce bene, tanto che spesso deve andarsi
a informare su chi siano gli uomini di cui ha raccolto i ritratti1. Eppure
questa interpretazione lascia perplessi su più di un punto; proviamo a vedere se nel racconto, oltre alla conferma della prefazione arricchita dalla
polemica contro il soggettivismo e a un forte richiamo all’etica, sola base
di un’estetica giusta, non ci sia anche tutt’altro.
La seconda parte del racconto è affidata a una narratrice che a prima
vista sembra la versione cittadina di chi si trova alle radici della vita. In lei
si duplicano alcuni tratti apparsi nella vita del pensionato, ma con opposta funzione. Per esempio appare in entrambi i casi un’«anziana serva»;
però quella del pensionato sembra poco più che una mummia mentre la
narratrice ci dice, della propria, una serie di particolari che nella storia
non hanno alcuna funzione ma che servono a dare un minimo di spessore e di vita anche a quel secondarissimo personaggio. Così la narratrice ci
parla della curiosità da cui è spinta a osservare la strana coppia che vede
dalla finestra, ci dice qualcosa sui motivi contingenti che l’hanno spinta
alla finestra. Ci dà insomma un quadro di vita solida e serena, contro
quella imbalsamata del pensionato della prima parte.
Ma perché introdurre una seconda narratrice mentre per la prima parte è bastato un primo narratore? E perché tra le due parti e i due narratori si apre nella vita del pensionato una lacuna che non si riesce a colmare?
Se proviamo a sviluppare l’ipotesi che la narratrice (come l’agrimensore
di Pietra calcarea) non sia in grado di capire le cose fino in fondo ci si chiariranno molte stranezze.
107
Le chiacchiere della seconda narratrice non hanno solo la funzione
sopra detta; la narratrice sembra parlare perché considera importante tutto ciò che la riguarda e misura gli altri su se stessa. Se lei non capisce nulla dell’arte poetica della figlia ciò vuol dire in primo luogo che è lei a non
capirle; ciò che risulta obiettivamente non è che quelle arti siano assurde
ma che non le si comunicano. La musica del pensionato è diversa da
«tutto ciò che abitualmente viene chiamato musica»; non carezza l’orecchio ma lo provoca perché dopo aver «indotto l’orecchio a seguirla,
giungeva sempre qualcosa di diverso da ciò che uno si aspettava». La narratrice ne è irritata perché assicura che lei «aveva il diritto di aspettarsi». E
invece no, occorre sempre ricominciare da capo, fino a una «confusione»
quasi «folle». Al di là di questo, però, in quella musica c’è qualcosa; «irritava», d’accordo, però alla fine «si era quasi commossi». Il marito della
narratrice, che pur concorda nel vedere un’«anima» in quella musica, sposta tutta la cosa sul piano tecnico, cioè sullo sbagliato impiego del fiato.
Ha ragione? È possibile; certo che il narratore della prima parte, quello
stesso che media la narrazione della donna, non ce ne aveva detto nulla.
Anzi dalla descrizione della prima parte sembra di poter ricavare l’impressione che la musica del pensionato sarà stata magari futile e dilettantesca, però di certo non incomprensibile. Di più: tutte le sue attività di
artista dilettante (musicista, pittore, poeta, parascultore) sembrano avere
un che di prevedibile e in questo senso di più che comprensibile. Ma certo non commuoveva nessuno. Nella seconda parte la figlia parlerà «la più
pura lingua letteraria» però non si capirà niente lo stesso, tanto che quanto dice sembra «stupido, se non fosse stato, in parte, molto intelligente».
Quando la ragazza parla alla taccola le dà «nomi bizzarri e incomprensibili» e in generale quei colloqui erano «per noi incomprensibili». Ebbene,
questi colloqui, come le poesie che la ragazza scrive, «contenevano frasi
simili» a quelle dei classici che vengono recitati alla ragazza dalla pedagogizzante narratrice; e addirittura la musica del padre sembra «nello stesso
spirito». Tuttavia gli scritti della ragazza non sono poetici perché, analogamente alla musica del padre, manca loro «fondamento», origine e sviluppo di quanto espresso. Per di più le citazioni insegnatele la ragazza le
ripete come si trattasse di un’«esibizione» e considerandole comunque
come «eccitanti». Tutto da condannare, dunque? Se si tenta un confronto
con Ditha, la figlia di Abdias, nasce qualche dubbio; anche lei ha un difetto fisico: è cieca e senza orientamento nello spazio. Da qui ella sviluppa una lingua incomprensibile a tutti. Suo padre, il similmente isolato
Abdias, arriva infine a comprenderla e a svilupparla con lei; finché da
108
quella lingua così privata se ne forma una quasi comunicabile, in base a
un compromesso fra più lingue. Si aggiunga che Abdias ha le sue colpe
per la condizione della figlia e infine che i due hanno rotto con l’ambiente di provenienza e girovagato a lungo prima di trovare un insediamento
definitivo.
Saltano agli occhi le somiglianze con la storia del pensionato e di sua
figlia. Nella storia di costoro c’è per di più una parte mai chiarita, anzi
rimasta nella «leggenda»: «Una volta circolò la leggenda che il pensionato
fosse nelle foreste boeme, che abitasse là in una spelonca, vi tenesse nascosta la bambina, uscisse per procurarsi di che vivere e vi tornasse la sera.» L’unica spelonca che a noi lettori è mostrata è l’abitazione malsana di
periferia; resta però il fatto che un’epoca della vita del pensionato presenta lacune e che queste sono colmate dalla leggenda.
Da ultimo: la fonte esterna di Stifter, il racconto Il suonatore povero di
Grillparzer, presenta un analogo musicista, inetto alla vita, produttore di
una musica che non si comunica. Ditha è notoriamente simbolo della
poesia. Difficile non vedere nel pensionato e sua figlia, oltre al rapporto
distorto di cui si è detto, anche due esemplificazioni di un’arte non comunicabile perché troppo essenzializzante. Essa ha origine da una sfera
non attingibile alla ragione (perciò avvolta nella leggenda) e con cui invece mettono in comunicazione l’isolamento, la sofferenza, la vita dimenticata. Ricordiamo che il pensionato aveva (nella prima parte) due violini e
due flauti. Egli porta via un solo flauto (semplificando dunque sui mezzi
della sua produzione musicale) e per di più appunto il flauto, «che maneggiava per proprio diletto e allo scopo di migliorare in quest’arte»:
proprio lo strumento che sapeva usare di meno e che suonava solo per
sé, dunque non per gli ospiti. Di conseguenza fin dalla scelta dello strumento il pensionato sceglie la semplificazione radicale e la non comunicazione. L’arte non si concilia mai a pieno con la vita: costretta a fare una
vita per così dire normale, la ragazza sembra venir privata di tutte le sue
facoltà spirituali, cosa che per la narratrice è il successo di «trasformare
[...] quell’ammaestramento [...] quasi inquietante in pensieri semplici, coerenti e logici e di dare inizio in lei a una comprensione delle cose del
mondo»; l’estorta rassegnazione della ragazza si chiama per la benefattrice «abituarsi al normale andamento delle cose». Alla fine la ragazza vive
di una carità mascherata: la gente, commossa del suo destino, le compra i
prodotti del suo lavoro femminile. È una carità ottenuta diversamente
che dal padre accattone; e pur sempre carità. Questo è il rischio cui pongono capo gli sforzi della narratrice. Una persona di buon senso, non c’è
109
che dire: è lei a ridimensionare la notizia della morte del pensionato (che
non si è suicidato ma è morto per un incidente), è lei a ricondurre a taccola l’avventuroso corvo visto dal figlio. E infine lei subentra al primo
narratore quando questo stesso pareva voler lasciarsi prendere la mano
dalla leggenda: quando parlava di una spelonca nella selva boema, mentre
in realtà c’è solo una stamberga di periferia. Dunque perfino il primo
narratore (quello che nella terminologia corrente si dovrebbe chiamare
voce autoriale) non ha uno statuto superiore a quello della seconda narratrice: lui cede ai sogni, lei no. Lei è integrata perfettamente nel proprio
mondo, col solido buon senso; non riusciremmo a immaginare che potrebbe mai toccarle la sorte del pensionato. La «serva anziana» di costui
era poco più che una mummia, mentre delle cameriere della narratrice
veniamo a sapere tutto. E che dire degli atteggiamenti della narratrice rispetto alla musica? La narratrice non possiede le cognizioni tecniche necessarie per criticare le violazioni delle regole che devono presiedere alla
strutturazione tonale della frase, tuttavia esercita con sicurezza la sua critica perché difende i propri diritti di ascoltatrice. Non possiamo definirla
una dilettante come il pensionato della prima parte perché in lei niente è
così mobile come nel pensionato; costui le provava tutte, il che lasciava
presagire una certa instabilità, poi puntualmente verificatasi nel variare
del suo atteggiamento rispetto a Dall dopo il tradimento e la scomparsa
della moglie. La narratrice non è una dilettante perché è inconcutibile e
inamovibile nel suo buon senso; è inconcepibile, dal suo punto di vista,
che se possa vivere al di fuori. Al contrario, lei è capace di integrarvi tutto. E così la ragazza ne diventa la vittima.
A far da involontario intermediario fra la narratrice e il pensionato è
introdotto un nuovo personaggio, il professor Andorf. Anche costui è un
dilettante, ma di una specie particolare: è un esteta; anzi è un esteta decadente (è uno dei momenti profetici di Stifter). Quel che gode di più è lo
spettacolo del progressivo imputridire altrui, o almeno delle cose. Ha
scelto una casa fatiscente per il piacere di assisterne alla lenta morte. La
narratrice racconta ciò in tono laudatorio. Lei, per quanto riguarda le sue
reazioni, è più moderata; ma quando visita la casa del professore si sofferma ad ammirare quello spettacolo di decadenza che a costui dà gioia, e
nella sua reazione non si coglie alcuna nota di biasimo. Certo, l’appartamento del professore è tutt’altra cosa: vetri puliti, bianche tende alle finestre. Ma lo spettacolo della morte altrui (o almeno della morte delle cose)
non pare proprio dispiacerle.
110
Il pensionato e sua figlia vivono - al contrario del professore e della
narratrice - nella morte vera. Il padre le fa scrivere componimenti su solo
due temi: sulla futura morte di lui, sull’avvenuto suicidio della madre disperata. Solo così noi veniamo a sapere di questo suicidio e non avremo
mai la certezza che esso sia avvenuto e non sia una trovata retorica. Se è
avvenuto, allora la ragazza sa più di quello cui porteranno le ricerche del
marito della narratrice, che non verrà mai a saper nulla della sorte della
madre; ma, appunto, restiamo nell’incertezza: che la ragazza sappia di più
resta solo un’ipotesi.
Indubbiamente l’educazione artistica della ragazza risente di tutto il
dilettantismo del padre. Di costui pare aver ereditato - almeno mima - le
reazioni epidermiche; recita brani dei classici, ma come un’attrice. E poi
conosce solo dei brani, non sa di contesti; né ha alcun rapporto in generale conoscitivo con le opere. Non può averle lette ma solo aver imparato quei brani: a casa sua non c’erano i libri da cui recitava.
A ogni buon conto la narratrice le toglie questa fisima: non legga più
classici ma solo libri “facili”.
L’attività denominatoria non riesce in questo racconto a compiere il
miracolo che fa in altri: non istituisce una comunità, i nomi che la ragazza dà alla taccola restano «incomprensibili». Per agire socialmente la poesia deve uscire dalla sua incomunicabile essenzialità e scendere a patti, diventare comprensibile, prestarsi allo sviluppo che la narratrice può comprendere. Forse è vero, forse Stifter condanna sul serio una poesia che
non si pieghi; ma la poesia per sua natura non si piega e il compromesso
è giudicato dal suo stesso nome. Per la realizzazione di un programma ci
vuole bensì l’«immedesimazione» e occorrono «amici omogenei nel sentire», come dice la prefazione; ma la poesia stessa sgorga da altre fonti, più
o meno inspiegabili. Anche per questo verso siamo ben oltre la prefazione.
Note
1
Il ritratto del dilettante pare poggiare su due testi di Goethe e su uno di
Goethe e Schiller. Eccoli: Goethe-Schiller, Über den Dilettantismus (appunti
scritti nel 1799, pubblicati per la prima volta in Goethes Werke, vol. 44,
Stuttgart-Tübingen 1832); Goethe, Der Sammler und die Seinigen, 1799; Goethe,
Die Wahlverwandtschaften, 1809.
111
112
Conclusione
Solo dopo aver partecipato agli sforzi comuni per strappare i propri figli
all’orrido, invece di seguitare nella battaglia solitaria e disumana contro il
suocero, Sebastian riceve il proprio nome. E l’orrido era il sempreuguale
dello spazio. Il sempreuguale quale ripetibilità infinita è un segno del mito, quindi la denominazione è un superamento del mito. Ma la Sabine di
Pietra calcarea è il sempreuguale del tempo e come tale riceve un nome: è
la rivendicazione della costanza della natura e del mito all’interno del
progetto umano. Se poi supponiamo che l’attività denominatoria sia funzione eminente della poesia, allora essa (in Tormalina) si contrappone agli
sforzi integrativi, cioè riduttivi ma - a quel che pare - eticamente preziosi
della comunità. Invece in Granito l’attività denominatoria assicura il contatto con la natura e quindi la pace fra gli uomini nel rispetto della libertà
giocosa.
Forse possiamo tentare di unificare tutto ciò ipotizzando che attraverso gli sforzi comuni - dunque attraverso l’etica sociale - la poesia si dimostra ed è domesticabile. Ma di per sé isola. Dunque il mito dà luogo alla
storia passando però attraverso l’abisso del cuore umano; la metafisica
sorregge la scienza delle cose ma passando attraverso la non loquenza o
l’incomunicabilità. Abbiamo così ricavato un sistema più complesso che
all’inizio.
Eccolo in breve.
A. Le leggi della natura sono tali perché costanti, universali, globali e intese a conservare il mondo.
B. Anche le leggi etiche rispondono agli stessi requisiti.
C. La comprensione delle leggi fisiche e la comprensione e l’applicazione
sempre più complessa delle leggi etiche sono conseguenze dello sviluppo storico.
D. Nella storia dell’etica è concepibile un tracollo.
E. L’etica offre la base all’estetica.
F. Nell’interscambio ra uomini e natura la denominazione occupa un
grande posto: essa consente l’appropriazione della natura e il riconoscimento dell’individuatezza.
113
G. La natura non è fatta in vista dell’uomo.
H. La conquista della verità e della poesia avviene a prezzo di grandi prove, che compromettono per sempre chi le supera, fino a sacrificarne
l’individuatezza e a respingerlo dalla comunità umana.
I. La naturalezza non può essere un modello di vita.
L. L’attività denominatoria è funzione di quella poetica, che di per sé sola
non fonda alcuna comunità, anzi isola chi la pratica a fondo.
La natura contraddittoria del sistema così ottenuto non ci imbarazza;
sappiamo infatti che cosa pensarne. Dobbiamo però chiarire in linea di
principio come sia stato possibile ottenere un sistema omogeneo (cioè
tutto di concetti) quando invece avevamo a disposizione due grandezze
disomogenee, e cioè da una parte già un sistema di concetti (nella prefazione) e dall’altra una raccolta di racconti. Dunque avevamo per base due
diversi sistemi di organizzazione e due diverse basi materiali: da una parte
concetti, dall’altra sia dei concetti (più o meno relativizzati a seconda del
da chi e del come venivano espressi) sia delle immagini organizzate. Perciò c’è da render conto anche di un’altra cosa: pur avendo detto all’inizio
che le immagini dicono altro dal concetto anche quando paiono esserne
una conferma, questo postulato sembra essere andato perduto nell’univocità della soluzione sistematica.
Prima di render conto del primo punto (in che modo è stato ottenuto
il sistema finale) anticipo che la soluzione ottenuta viene messa in discussione dalla sua stessa base: dalle immagini. Queste sono il motore per arrivare a sempre nuovi concetti, anche a quelli che io come interprete non
sono stato in grado di vedere poiché, mentre le immagini sono qualcosa
che li sostiene e li provoca, sono anche ciò che non vi si lascia ridurre. Il
mio discorso, a considerarlo nella sua autonomia, è stato un’organizzazione di concetti, solidale in ciò ai concetti espressi da Stifter come tali.
Ma per esprimere quell’organizzazione (nei due aspetti di concetti “raccontati” e “immagini”) io ho dovuto riorganizzarmi e un po’ scomporre,
un po’ mimare l’organizzazione che vedevo in Stifter. Riorganizzarsi vuol
dire non coincidere perfettamente con la prima organizzazione; la non
coincidenza può essere più grave nel caso delle immagini e meno nell’altro, però è pur sempre non coincidenza. Dunque finiamo con l’avere due
sistemi diversi: quello del critico e quello dell’autore. Nella non coincidenza c’è la possibilità dell’“errore”. Ma la stessa non coincidenza permette di riaggiustare continuamente il discorso critico, cioè di riparare
114
all’“errore”, ovviamente mediante un riaggiustamento del sistema critico,
che per una tal via - non coincidendo in modo nuovo - darà luogo ad altri “errori”. Per analogia però indurremo che anche nel doppio sistema di
partenza (prefazione + immagini) c’era una qualche non coincidenza; anzi che questa era entro le immagini stesse, per quel tanto che esse sono
rapportabili a concetti: potremo così spiare nel non-detto del testo, senza
che tale non-detto ci si riveli mai fino in fondo, ma sfidandoci ogni volta
a tentare di dirlo.
Abbiamo ricostruito un sistema di pensiero e a ciò sono stati utili vari
procedimenti. È stato importante ricostruire (sia pure solo con rapidi
cenni) uno sfondo storico e una motivazione da esso dettata. Stifter voleva scrivere un’opera alternativa ai moti rivoluzionari, un’opera per i
bambini e le madri, che non fanno la rivoluzione, e atta a favorire, attraverso un processo pedagogico, lo sviluppo dell’etica, già favorito all’agire
di una «dolce legge». Questo intento permette di capire una sutura che
Stifter introduce nel suo sistema di immagini e cioè in particolare l’introduzione di una seconda narratrice in Tormalina: costei consente di allontanare il più possibile sia dall’autore sia dal lettore la rivelazione della natura dionisiaca dell’arte, quella che sembra compromettere le tesi esplicitate con riferimento agli esempi della tragedia e dell’epica e che vogliono
convogliare l’arte verso un esito etico-sociale. In questo modo una tesi
sull’arte e una forma narrativa vengono fatte interagire fino a rivelare
quello che doveva esserci nascosto e che nella vicenda interpretativa di
Tormalina è rimasto effettivamente nascosto. Per capir questo, dunque,
ho bisogno di più confronti esterni: con le intenzioni storiche, con le intenzioni estetiche, con le versioni dello stesso racconto (tra la prima e la
seconda, più problematica versione, la narratrice interviene per spezzare
l’unità del racconto, cioè per allontanare, nascondere e quasi sopprimere
- ma a distanza dal primo narratore, quindi prendendosene la responsabilità - quanto di conturbante c’è da dire). All’interno della stessa versione
confronto luoghi del testo esaminandone sia la similarità sia la diversità
di posizione e quindi di funzione. Tutto ciò si lascia fare con metodi
“scientifici”, cioè verificabili e “falsificabili”. Tutto ciò dà luogo a un sistema di concetti con cui ho indubbiamente forzato quello di Stifter. È sì
omogeneo a questo poiché ne mima il rapporto posto fra etica ed estetica; ma non vi coincide poiché sussiste grazie alla frattura che ha stabilito
nel secondo. E inoltre come interprete mi trovo al di fuori del suo sistema di metafore; se volessi mimare quest’ultimo non sarei un interprete
ma costruirei qualcosa di interpretabile e sua volta e allo stesso modo.
115
Qui non è questione di sfasatura di tempi storici ma di campi d’azione; la
creatività dei concetti crea solo un sistema di concetti.
Non molto dissimile è stato il procedimento per tradurre in concetti
l’attività denominatoria. È stato decisivo collocare i luoghi di questa attività nei vari racconti: nulla avremmo potuto ricavare dal nome Sebastian
in Cristallo di rocca se l’avessimo trovato già all’inizio. Nel confrontare però gli esiti di queste analisi nei racconti non siamo arrivati a un risultato
univoco: le conclusioni valide per Granito e Cristallo di rocca non lo sono
state per esempio per Tormalina, in cui sulla denominazione fa aggio il filtro della seconda narratrice ben sicura di poter distinguere tutto ciò che è
“incomprensibile” (ma che a sua volta non riceve un nome); né sono valide per Pietra calcarea o Mica [Katzensilber], in cui le cose stanno ancora
diversamente.
Abbiamo attribuito un valore concettuale alle stesse forme, sia nel loro esserci sia nel loro non esserci: così la periclitante cornice di Pietra
calcarea ci ha portati a un discorso sulla parziale identificazione di lettore
e narratori, rimettendo in discussione una tesi di Stifter e così portandoci
a un altro concetto, non esplicitato dall’autore.
Qui non siamo più alle intenzioni di Stifter quali sono ricostruibili dal
suo sistema concettuale (quello della prefazione e delle lettere); anzi in
esso non sembrano inscrivibili, o solo con difficoltà. Questi concetti vogliono essere una traduzione delle leggi poetiche, cioè di immagini e loro
organizzazione, in un’organizzazione di concetti, che trova in quelle la
propria base. Siamo a un circolo vizioso: il sistema concettuale dell’interprete si basa su un sistema che risponde a leggi proprie, la cui riducibilità
a quei concetti viene dimostrata solo da questi mentre il sistema base si
rifiuta di dimostrarla. Un sistema pretende così di tutelare ciò cui pretende di dovere la propria materia, che però gli è estranea. A sua difesa può
rilanciare solo oltre se stesso sostenendo di essere un’accumulazione di
pensiero detto e organizzato, che consente l’accesso a quel che è il nondetto e fonte e materia dell’organizzato; ma questo rilancio porta solo a
un altro sistema, che a sua volta sosterrà di far scorgere un altro nondetto e così via.
Il sistema qui ottenuto risente della prospettiva etico-estetica teorizzata da Stifter. Dunque è comunque avvenuta una mimesi. E perciò è molto discutibile che questo complesso di ragionamenti sia senz’altro trasponibile a un autore fuori da quella prospettiva. È concepibile che in tal
caso sia necessaria tutt’altra mimesi. La ricostruzione del sistema concet-
116
tuale intenzionale dell’autore resta un prius e il rapporto (cioè eventualmente la distanza) fra quello e il nostro detta il metodo di indagine.
117
118
Appendice
I nomi dell’Io
(Der Nachsommer)
119
120
Dopo qualche istante, Natalie, Clotilde e io venimmo chiamati in sala,
e Matilde disse: il signore e la signora Drendorf hanno chiesto la tua mano per loro figlio Heinrich, Natalie.
Queste parole, molto semplici, si leggono a pagina 692 di un romanzo
che conta poco più di settecento pagine; quindi grosso modo alla fine del
romanzo. Non hanno bisogno di particolare commento: c’è una richiesta
di matrimonio e la madre sta comunicando alla figlia che due signori
hanno chiesto la mano di costei per conto del proprio figlio. La cosa un
po’ buffa è che soltanto a pagina 692 si viene a sapere che il pretendente
si chiama Heinrich Drendorf; per 691 pagine e mezza il nome di Heinrich Drendorf non era mai stato fatto, sebbene questo signore comparisse fin dalla prima riga del romanzo, di cui è sia protagonista sia narratore.
La cosa è stata oggetto di scherno. Noi oggi siamo abituati a ben altro.
La Recherche di Proust è più che un lunghissimo romanzo, è un’intera collana di romanzi, e lì il narratore non viene mai citato (a parte quelle due o
tre volte, residualmente rimaste perché l’autore non ha dato l’ultima mano agli ultimi volumi).
Il romanzo da cui ho tratto la citazione è Der Nachsommer1.
Cosa ci dicono ancora quelle parole? Siamo di fronte a un atto istituzionale, a un prossimo matrimonio, ed esso viene preparato in tutte le
forme; non sono soltanto due persone che decidono di sposarsi, ma sono due famiglie che, nei modi appena visti, convengono su questo matrimonio. Un atto istituzionale e un nome. Perché ci vogliono 692 pagine
per arrivare a una cosa che sembra ovvia? Perché questa interminabile
rincorsa per mettere in risalto questo atto così frequente?
Stifter aveva cominciato a scrivere il romanzo nel 1853, pochi anni
dopo la rivoluzione del 1848, e un anno dopo la prima risposta che Stifter aveva tentato di dare a quella rivoluzione. Nel 1852 infatti erano uscite le già ricordate Pietre variopinte; era una risposta coscientemente, dichiaratamente presentata come tale e che, evidentemente, a Stifter non era
bastata.
Il romanzo è raccontato in prima persona. C’è dunque un soggetto,
soggetto grammaticale e protagonista, che muove dei passi nella vita (fino al matrimonio, come già accennato) e che scopre man mano se stesso.
In altre parole, il suo nome se lo è finalmente conquistato. Anche la conquista del nome non era in Stifter un tratto nuovo. Già vari racconti della
raccolta citata giocavano con la possibilità di dare un nome a qualcosa e
di acquisire un nome: lo abbiamo ampiamente visto. Possiamo dare a ciò
121
una maggiore ambizione teorica se invece di “nome” per un attimo diciamo “io”, cioè se diamo al soggetto la denominazione filosofica che già
da una sessantina di anni esso riceveva nello spazio linguistico tedesco.
Stifter non è certo il primo autore a trattarne in un’opera letteraria. Büchner e Lenau sono stati anch’essi ricordati. Avevano svolto eminentemente un’opera demolitrice. Avevano concluso che il soggetto legislatore, il centro propulsore della natura, il dio vero del creato, l’io insomma,
non è sostanza. È invece un gioco di relazioni. Lenau se ne era uscito in
un verso appassionato, mettendo in bocca a Faust la seguente esclamazione: «il mio io mi tiene prigioniero come una bara» [Mein Ich, das hohle,
finstre, karge, umschauert mich gleich einem Sarge.]. Büchner nella Morte
di Danton (1835) aveva avuto espressioni molto più pittoresche, in cui però il termine “io” non compare. La sua espressione è «che cosa è che
dentro di me fa tante azioni» che vengono elencate [Was ist das, was in
mir hurt, stiehlt und mordert?]. Lo Stifter che lavora alla sua risposta,
tenta di costruire presupponendo quelle negazioni. Non ripropone un Io
signore e legislatore del creato; per lui l’io non è più questo. Esperienze
come quelle che erano state di Lenau e di Büchner sono ormai acquisite.
Ciò che era stato il nichilismo della fase fino al 1848 è anche per lui cosa
ovvia, si tratta adesso di proporre una base di ricostruzione che facendo
tesoro di quelle esperienze vada però oltre di esse. A pagina 692 l’io, finalmente nominato, è un nome in cui si riassume la globalità di un processo capace di spaziare attraverso la forma del mondo. Quanto è avvenuto per 692 pagine è stato il formarsi di una persona, che ha attraversato quella che per Stifter è l’enciclopedia delle cose da fare: la conoscenza
della natura, la pratica dell’arte, la conoscenza delle forme sociali, della
storia, attraverso l’itinerario lungo il quale per Stifter si esplicano le forme umane. Il nome è diventato finalmente pronunciabile, e cioè si possono fondare forme di convivenza, quali il matrimonio, che a loro volta
si reimmettono nel processo: l’io non è il legislatore e creatore del mondo, ma è il riassunto di ciò che ha capito e fatto per dare impulso a nuove relazioni di capire e fare. Allo stesso tempo, il nome pronunciato dimostra la traducibilità linguistica del processo.
Queste tesi, che ho enunciato con tanta sicurezza, pongono in realtà
una serie di problemi e possono essere facilmente contestate nella loro
volontà di proporsi come soluzione. Ciò che dirò in seguito sarà pertanto
una confutazione di questo mio riassunto, per dimostrare come ciò che
resta quale nucleo del discorso stifteriano è la sostituzione della razionalità del processo con la vitalità del progetto, cioè la sostituzione di una in122
terpretazione del mondo che pretenda di essere tutta riportata a termini
razionali con quella che Stifter chiama la reverenza nei confronti delle
cose, posta su una base vitalistica e orientata verso la coltivazione del
particolare.
Nel 1857 esce dunque un romanzo che non ripete la pars destruens
dell’esperienza nichilista e che in questo senso si pone come un romanzo
positivo. Ciò è stato molto contestato all’interno della storiografia e della
critica stifteriana. Occorre però dire che se si vede in Stifter non semplicemente il tentativo di restaurare quello che c’era prima della rivoluzione,
ma il tentativo di proporre soluzioni a due fallimenti, al fallimento rivoluzionario e alla negatività della critica alla rivoluzione, se cioè si vede in
Stifter il positivo che viene dall’esperienza stessa del negativo, allora occorre dire che il suo tentativo si oppone alla smania di trovare sia un
punto finale della storia sia un momento in cui ricominciare tutto da capo. Ma occorre aggiungere subito, (anche se propongo di vedere Stifter
in questo modo, cioè non come un restauratore, ma come uno che trae la
conseguenza da certi fallimenti, e non da disperato, ma come uno che
vuole costruire) che egli paga dei prezzi molto alti. La devozione nei confronti delle cose diventa descrizione maniacale di qualunque atteggiamento. Il porgere una scodella di minestra, cosa che si può dire con tre
parole, in Stifter prende mezza pagina, perché descrive la piega che fa la
manica di un vestito, l’ombra che getta questa piega sulla manica e tutto
insieme poi sul tavolo, il colore del polsino che si vede attraverso la manica, la posizione della figura sul tavolo, il mestolo che viene impugnato,
la scodella che viene avvicinata, la minestra che viene versata, la scodella
che viene posata, la zuppiera che viene posata, e tutto questo con frasi
inscatolate l’una nell’altra, per cui la descrizione di ogni cosa minima diventa un avvenimento epocale. Il prezzo dunque è stato pagato da Stifter
in termini di assenza di dinamismo, dicono alcuni. In realtà il prezzo è
ancora maggiore: esso è stato pagato in termini di repressione di ogni
movimento, pur puntando Stifter alla proposizione di un progetto su base vitale, cioè biologica. Il fatto che quel romanzo culmini in un matrimonio non ha il senso della commedia in cui tutto finisce bene, ma il
senso di due che fonderanno nuove vite.
Alla fine dei fallimenti rivoluzionari si faceva il bilancio dei fallimenti
della cultura che aveva portato a quelle rivoluzioni; e una delle cose che
dopo il 1848 è stata più massicciamente rilevata è stata quella che
all’interno della nostra cultura da secoli è l’incapacità di pensare il nuovo.
Una celebre definizione di Nietzsche definisce la conoscenza come il ri123
condurre l’ignoto al noto, il che vuol dire che l’ignoto, cioè il nuovo, viene dichiarato inesistente, perché ogni volta ricondotto al noto. Ci sono
stati dei tentativi per aggirare questo scoglio. Un tentativo è stato quello
di ricorrere all’intuizione: se le catene del ragionamento deduttivo, quelle
che vengono identificate per eccellenza con la ragione, sembrano non
dar luogo al nuovo, allora tocca all’intuizione intervenire. Quanto poi
l’intuizione sia un fenomeno storico e quindi condizionato a sua volta,
questo è un altro discorso, molto meno considerato. Ben diverso tentativo è stato quello rivoluzionario, che rimanda tutto a un’epoca talmente
separata da noi, attraverso una frattura talmente profonda, che di questa
nuova epoca non possiamo dir nulla. E che a proporre questo nuovo sia
Marx o sia Nietzsche, essi non ci dicono in che cosa consiste perché per
definizione non può esser detto.
Stifter non riconduce semplicemente l’ignoto al noto, riconduce addirittura a degli ordini: vuol fondare degli ordini. Ci ha provato per tutta la
vita in maniera quasi maniacale; ha rielaborato quattro volte lo stesso
racconto - Le carte del mio bisnonno - in cui tentava, in maniera sempre diversa, la fondazione di ordini sociali. Parallelamente a questo, nel romanzo da cui abbiamo preso le mosse, fa invece il tentativo di fondare insieme ordini sociali - matrimonio come istituzione - e rispetto delle cose,
più precisamente delle particolarità. L’una cosa dovrebbe contraddire
l’altra; ma Stifter non era certo un ingenuo; sapeva benissimo che le interrelazioni umane, per quanto maniacalmente fondate, sono imprevedibili. E la loro imprevedibilità consiste nella loro inconoscibilità; da qui il
nuovo. Mentre però lo diceva, ne era contemporaneamente spaventato e
cercava in tutti i modi di ricondurre l’ignoto almeno a una forma accettabile, e cioè alla forma della cosa particolare. Il nome, finalmente pronunciato, dovrebbe riassumere un processo capace di spaziare attraverso la
forma del mondo. Ma c’è da chiedersi se esiste un processo; chi lo mette
in moto; chi lo gestisce; se è contemplabile in una globalità o soltanto nei
suoi anelli; chi è l’osservatore; se realmente un processo del genere è riassumibile, cioè riconducibile a unità.
Stifter non risponde a queste domande, ma risponde a un’altra: che
cos’è la forma del mondo. La risposta è la seguente: nel penultimo capitolo - e siamo a zona di pagina 613 sgg., quindi c’è stata anche qui una
lunga rincorsa - un personaggio rivela il proprio nome - all’interno di
questo romanzo c’è tutta una serie di rivelazioni di nomi - e in
quell’occasione racconta la propria storia, racconta la propria irrequietezza e dice come, per ragioni biografiche, a un certo punto fosse entrato
124
nel servizio statale. In esso non era riuscito a conciliare una parte della
sua educazione, l’amore per le forme belle, con quello che invece si richiede a uno che sia in quella professione, cioè lo sguardo generale sulle
cose (per cui si fa un determinato lavoro, anche se esso nel particolare
non dice niente di interessante a chi lo fa, ma serve alle relazioni generali). Queste relazioni generali non sono forme belle, sono relazioni vuote.
Chi ama le forme non può amare questo tipo di relazioni: «le forze che si
muovevano in lui pretendevano forme, e si muovevano soltanto intorno
a delle forme». Perciò abbandona il servizio di stato, per dedicarsi a «venerare le cose, non a guardare l’utilità di chi venera le cose, ma soltanto a
obbedire a quello che le cose pretendono». Tuttavia all’interno di questa
stessa dichiarazione si parla di una qualche utilità che dalle cose si può
tuttavia ricavare. Le cose in questione sono, romanticamente, le rose; il
nostro narratore è diventato un coltivatore di rose.
Non sappiamo niente, a questo punto, della forma del mondo; sappiamo che la forma è in contrasto con il processo del mondo. Come può
allora il nome riassumere la forma del mondo? Non lo può. Ma può accettare che la forma delle cose, cioè l’amore della vita realizzata nella materialità, dia un qualche utile; metta in moto delle relazioni che in qualche
modo, e cioè attraverso la fondazione delle relazioni infraumane, siano di
utilità generale. Ciò che però salta particolarmente agli occhi è che dopo
il fallimento della rivoluzione il processo generale come processo razionale non è più oggetto di discussione; la pretesa di determinare
l’andamento generale del mondo sulla base di un’idea del mondo non c’è
più; c’è, al suo posto, l’amore per la forma concreta; e forma concreta significa contemporaneamente forma particolare.
Non è una soluzione che lasci completamente soddisfatti. Resta pur
sempre il problema dell’istituzione, resta pur sempre che le parole con
cui abbiamo aperto queste considerazioni si riferiscano a un atto matrimoniale. Un processo può essere interpretato con vari criteri, per esempio con la misurabilità di un accrescimento (o anche di una diminuzione);
dunque con un tempo vuoto (come contenitore) e una quantificabilità
(interscambiabile). Secondo modo di concepire un processo: esso può
consistere nel cambiamento di costellazione, cioè nell’aspettativa cambiata rispetto all’accoglienza che certe proposte potranno avere, dunque nel
mutamento di valori e quindi nell’attendersi risultati diversi ma pur sempre misurabili. Questo era effettivamente successo a quel personaggio
che a pagina 200 risulta ancora innominato, il quale dopo un primo rapporto col signore di cui abbiamo già visto un pezzo di autobiografia poco
125
fa, comincia a ricavare delle conseguenze. Esse consistono in una prima
maturazione, ma ecco in che termini: si accorge che nella casa da lui frequentata il valore del tempo era considerato grandemente e che veniva
utilizzato con molto scrupolo. «Allora» continua il narratore «anche se
finora non potevo rimproverarmi di essere uno che sciupa il tempo, tuttavia cominciai a procedere con più ordine che in precedenza verso uno
scopo unico, durante un tempo determinato, in maniera da poter finalmente raggiungere un effetto adeguato allo sforzo che impiegavo, e mi
proponevo risultati esattamente delimitati». Come si vede, qui siamo alla
misurabilità: sia del rapporto causa-effetto sia del tempo. Contemporaneamente siamo all’interno di una nuova costellazione, cioè di aspettative
diverse. «I miei subordinati trovarono un punto di riferimento concreto
nel nuovo ordine, e crebbe la loro fiducia in me [sembra un discorso morale? ma ecco la sorpresa:] così che il lavoro risultò meglio commisurato
e funzionale allo scopo». Ancora una volta la costellazione introduce dei
valori misurabili.
Dunque, questo secondo modo di intendere il processo è pur sempre
riconducibile al primo modo. E su quale base avviene poi il processo?
L’io sviluppa esclusivamente se stesso? Sviluppa la propria essenza?
Questo vorrebbe dire non tener conto dell’esperienza nichilista; se così
fosse, infatti, l’essenza sarebbe già data e, poste certe circostanze esterne,
si svilupperebbe necessariamente: un seme dà luogo necessariamente a
una pianta se c’è la quantità di luce, di umidità e altre cose esterne che gli
occorrono. Ma se è così, vuol dire che c’è una sostanza che si chiama
“io”, vuol dire che questo io produce necessariamente un certo mondo; e
se allora è così, si può reintrodurre tutta la legislazione del processo.
Facciamo una seconda ipotesi: che lo sviluppo avvenga per influsso di
forze esterne, scomodando il concetto etologico di “imprinting” (un uccello canta in un certo modo perché sente cantare in quel modo gli uccelli della sua specie, e sceglie il proprio canto fra quelli che gli vengono
proposti). Oppure potrebbe aversi la creazione di una nuova essenza, il
che però ci riporterebbe a nuove difficoltà. O infine, sempre stando nell’ottica dell’influsso di forze esterne che determinano il processo, potremmo fare l’ipotesi di un processo di tipo gestaltico, di forme che si
rapportano fra di loro in maniera diversa dando quindi luogo a costellazioni di forme diverse. Anche qui la critica ha litigato ampiamente su
Stifter. L’impressione generale è che non avvenga un accrescimento di
sostanza esistenziale, ma che si abbia piuttosto un rapportarsi diverso di
forme fra di loro e che quindi il movimento venga il più possibile blocca126
to. Probabilmente questa interpretazione è sostenibile analizzando almeno questa fase del discorso di Stifter. Se ne analizzassimo altre dovremmo ricavare ben altre conclusioni, ma in questa fase probabilmente la cosa è giusta. È uno dei prezzi che Stifter ha pagato: bloccare il movimento
il più che è possibile. La reverenza per le cose porta sul piano simbolico a
un tipo di narrazione quale descrivevo dianzi, inoltre a una determinata
selezione di argomenti e quindi alla messa sotto tabù di tutta un’altra serie di argomenti.
Un processo avviene nel tempo; c’è da chiedersi se è necessaria la conoscenza e dunque la memoria di ciò che precede. Questo comporterebbe la necessità di una guida soggettiva. Stifter risponde decisamente in
senso positivo: c’è necessità di una guida soggettiva; la memoria è la prima tutela di questo processo. Ma se è così, la memoria a cosa rimanda?
Stifter su questo è perentorio: rimanda a delle forme, cioè rimanda alla
concretezza delle cose. A partire da un certo anno in poi, appunto dal
1848 in poi (peraltro con forti residui nelle Pietre variopinte) Stifter sembra
aver dimenticato (per paradossale che sia) una sua tematica, l’aver cioè
accentuato una fase non controllabile, una fase che è contemporaneamente vitalismo e forma e da cui si generano sempre nuove esperienze;
insomma, il nuovo c’è, esiste, è minaccioso, è terribile, ed è il nuovo
dell’esperienza sessuale e dell’esperienza poetica; la prima dà la base vitalistica (l’esperienza sessuale è sempre intesa come fonte di vita), la seconda è il luogo in cui si generano le forme. Queste esperienze le aveva riassunte in un rapporto padre-figlia, che a un certo punto scompare dalla
zona del misurabile, entra forse nella leggenda, forse nel mutismo, dunque in ciò che non si può dire, in ciò che non si può nominare, e che è
fonte continua di ciò che in qualche modo, per approssimazione, per
compromesso, viene detto e nominato. Si noti: è un rapporto padrefiglia, la madre è scomparsa di solito in circostanze tragiche; resta quindi
una polarità sessuale (sono un uomo e una donna) non però, com’è ovvio, erotica (sono appunto un padre e una figlia); questa polarità è il tentativo mai istituzionalizzabile di nominare sempre nuove cose. Questa
che era la base di terribilità del nuovo, Stifter ha tentato più volte di addomesticarla. Ma non c’è mai riuscito: alla fine l’ha semplicemente abbandonata. Era lì la fonte che poteva sempre riproporre tentativi di controllare il nominabile, ma anche tentativi di renderlo processuale, e cioè
di appiattirlo a livello di relazione misurabile.
Le parole citate all’inizio di queste pagine fondano un matrimonio. Si
aprirebbe la via a tante domande. Per esempio se le forme di convivenza
127
possono essere fondate; se la fondazione è unica o molteplice; ci si può
chiedere chi la fa; se meriti il nome di fondazione; in che modo le forme
di convivenza si reimmettano nel processo; si può chiedere se quando
l’io viene nominato, come riassunto di ciò che ha capito e fatto, ciò sia
possibile in base a leggi del capire; oppure in base a leggi del riassumere,
cioè del dire; e, posto che tutto questo comporti il concetto di legge, se
non risiamo all’interno dell’io legislatore; se invece il concetto di legge
non c’entra, allora che cosa ne prenda il posto; se l’io dà impulso a relazioni di capire e fare, occorre decidere tra chi sono queste relazioni: se
tra sostanze o fra altro; come avviene l’impulso; dove è il motore. Ripeto
che Stifter aveva dato una risposta, ma che quella risposta è stata abbandonata dopo il fallimento della rivoluzione. La risposta ora tentata è un’altra. L’autobiografia da cui prima è stato citato qualche brano è fatta
da qualcuno che ha rivelato il proprio nome; si tratta dell’educatore di
Heinrich. A lungo, molto a lungo non si sapeva come si chiamava; non si
era presentato, e in un primo momento si crede di conoscere il suo nome
ma il nome creduto è sbagliato; non era il nome della sua casata ma quello del terreno da lui posseduto. Il suggerimento che viene fatto è che si
può arrivare a un nome proprio, quindi a dispiegare ampiamente il proprio soggettivismo, se si è prima passati attraverso un processo di oggettivazione, se ci si è identificati stabilmente con una cosa. Solo in un secondo momento, si suggerisce, ci si può storicizzare esaltando la propria
soggettività. Come spiega però la biografia di questo signore, tale esaltazione è contemporaneamente delimitazione: ha rinunciato alla donna
amata, ha abbandonato il servizio di stato a vantaggio delle cose, e quindi
da una parte si è delimitato, dall’altra si è doppiamente oggettivato, prima
in ciò che possiede e poi nelle singole cose che produce. C’è, come si vede, uno scambio tra oggettività e soggettività, che però passa necessariamente attraverso una drastica, dolorosa, rinunciataria delimitazione.
E a questo punto si danno i nomi; in questo romanzo, Stifter ripete
pari pari l’esperienza già fatta nelle novelle precedenti. Denominare significa fondamentalmente due cose. La prima è: mettere ordine nel mondo,
testimoniare una raggiunta consapevolezza, una raggiunta formazione,
un rapporto positivo con le istituzioni; cioè significa testimoniare interrelazioni sociali giuste. La seconda è quella che non viene più ripetuta: denominare significa creare un’essenza, cioè dar luogo alle forme poetiche.
Nel ripensamento che Stifter sta facendo di questa sua stessa esperienza
dopo il fallimento della rivoluzione, restano da una parte le interrelazioni
e dall’altra l’oggettivazione, l’identificarsi con singole cose. Quello che è
128
stato accantonato era l’elemento inquietante, e cioè che il denominare
mettesse in contatto con una zona mai controllabile.
Ho elencato prima tante possibili domande e ho detto più volte che le
risposte di Stifter non sempre soddisfano; forse è un’altra, però, la cosa
da dire: che a non soddisfare è la forma delle domande. Domandare in
quel modo è infatti un domandare a priori, cioè pianificare, mettere le
cose in maniera che poi si controlli ciò che sta per succedere: negare il
nuovo, che deve essere già tutto contenuto nella forma della domanda.
Ma nella realtà, ed è questo che Stifter suggerisce, noi domandiamo soltanto a posteriori, soltanto dalla forma delle cose venerate, e poi ci inganniamo volutamente sulla forma del nostro domandare. Quello che era
il domandare concreto lo riproponiamo come domandare formale, come
domandare di carattere astratto. Con tutte le sue contraddizioni, il tentativo che Stifter fa nel Nachsommer è di cambiare la forma del domandare,
e in questo senso era una sforzo più che grandioso. Ebbene, anche se noi
ci inganniamo sulla forma del domandare e riproponiamo sempre di
nuovo un processo, in realtà non rinunciamo al progetto, cioè non rinunciamo a quello che è un lancio biologico appoggiato dalla nostra cultura. Di questo Adalbert Stifter ha dato una esemplificazione nel Viandante nel bosco, fatto tutto di sbagli di personaggi, i quali non hanno capito
che il rapporto fondamentale non è quello fra amante e amata, ma tra
padre e figlio: il progetto è una costituzione biologica che crea di fatto il
nuovo, anche quando la denominazione, come è più che possibile, gli
sfugge. La creazione, dunque, è creazione di errore, cioè falsa creazione,
o può esser tale; la biologia da sola non basta, e non basta nemmeno se è
semplicemente unita alla progettualità amorosa. La spinta verso il futuro
non può stare senza l’acquisizione avutasi grazie alla spinta in senso contrario, cioè senza il contatto con l’oltre-tempo e l’oltre-linguistico che veniva dato dalla zona oscura del denominare. Ma è appunto questa zona
oscura che aveva inquietato Stifter, ed è questa che aveva voluto abbandonare. Il nome assicura che tutto è traducibile in termini; ebbene, la risposta che Stifter non ha dato, ma che ci autorizza a dare con altre parti
del suo stesso romanzo, è che la traducibilità linguistica è solo una parte,
e cioè quella cosciente, della cultura; appartiene più al processo, ricostruito a posteriori come la forma stessa della domanda, che non al progetto.
Stifter non è stato certo un autore erotico; alcuni vedono in lui piuttosto
un autore della repressione sessuale. Ma il suo tentativo, si è visto quanto
contraddittorio, è stato pur sempre, con i suoi limiti ma anche con la sua
129
grandezza, quello di fondare una possibilità di progetto vitale dopo i fallimenti di un processo rivoluzionario.
Note
1 Il termine indica giorni caldi e sereni alla fine dell’estate o all’inizio
dell’autunno, tali da ricordare l’estate piena.
130
Appendice
Tour de force e sfida ai tempi
(Witiko)
131
132
1. Premessa
Nel 1842-44 Stifter scrisse un racconto, uno dei capolavori della letteratura europea di quell’epoca (Der Hochwald, La fustaia), ambientandolo
nella guerra dei Trentanni. La storia di questo racconto era completamente inventata. Tra il 1865 e il 1867 apparve invece il romanzo storico
Witiko, che nelle intenzioni doveva effettivamente rispettare la storia e
per il quale Stifter aveva compiuto studi preparatori lunghi e, a suo stesso
dire, faticosi. Sappiamo che cosa ha dato la spinta decisiva alla stesura del
romanzo: da una parte la critica rivolta all’autore di occuparsi di cose minute come fiorellini e altre quisquilie, dall’altra la paura provata per la rivoluzione del 1848. C’era dunque da una parte la voglia di mostrare la
capacità per cose serie, dall’altra il proposito di un progetto politico. Data
l’epoca, effettivamente il romanzo storico poteva apparire a un letterato
il veicolo più adatto.
La vicenda tratta del fondatore (o preteso fondatore) di una dinastia
della Boemia meridionale, accompagnandolo dall’anno 1138, quando ha
ventanni, al 1144, quando inaugura il suo castello e prende moglie. Segue
una lunga coda che ci fa arrivare al 1184. A parte qualche data e qualche
ricorrenza storica verificabile, di propriamente storico questo romanzo
non ha nulla. Addirittura gli sono stati imputati errori storici madornali,
sui quali sorvoliamo perché non è lì l’essenziale. Witiko è un poema epico
in prosa, con elementi sia (e soprattutto) dell’epica classica sia dell’epica
medievale; e con tutto ciò è un romanzo moderno. Dall’intrecciarsi di
queste dimensioni nascono i suoi problemi e il suo interesse. Insieme col
lettore cercheremo dunque di vedere le relazioni che Witiko intrattiene
con l’epica classica e con quella medievale, e poi quali siano le sue prospettive estetiche, morali e politiche.
2. 1.
Già attraverso le parole dell’eroe eponimo il lettore è avvertito che il riferimento all’epica classica è cercato. Witiko paragona infatti il proprio
modo di vestire con quello antico: come i popoli antichi ha i capelli lunghi, diversamente da loro invece veste solo di cuoio invece che portare
133
anche gli schinieri. Il lettore dunque è avvertito. E così forse comincia a
spiegarsi certe lentezze e ripetizioni, che mettono tutti i particolari in eguale risalto, cioè tutti sullo stesso piano. Si spiega le reiterate, inesauribili
liste di nomi, che sembrano la riproposizione del catalogo delle navi
nell’Iliade. Con un po’ di buona volontà può spiegarsi anche passaggi
come il seguente (nel secondo volume):
- Lo conosciamo – disse Bohemil.
- Lo conosciamo – disse Lubomir.
- Lo conosciamo – disse Otto.
- Lo conosciamo – disse Zdik.
- Lo conosciamo – dissero molti.
Un tipo di passaggio che non sta da solo, perché Stifter lo ripete almeno
ancora un paio di volte. Oppure ci si spiegano i menu, puntuali e meticolosi ogni volta che qualcuno si mette a tavola. In qualche caso le indicazioni paiono avere valore sociologico, indicando la differenza di cibi per
padroni e servitori; così per esempio mentre i primi mangiano un prosciutto affumicato arrostito e crauti, o addirittura pesce, pollame, cacciagione e dolci, gli altri mangiano una minestra con pezzi di maiale oppure
carne di montone; mentre i primi bevono vino, gli altri bevono birra.
Tuttavia lo scopo principale dei menu e degli altri usi della tavola non
può essere sociologico, quanto piuttosto imitare i pranzi dell’epica classica; troppo da vicino, per esempio, le ancelle che versano acqua da bacinelle d’argento sulle mani dei commensali ricordano scene simili
dell’Odissea.
Poi ci sono le predizioni. Il romanzo ne è pieno. Ce n’è una avvolta
dalla leggenda, così come ci sono previsioni umane. Tutte si avverano,
come viene ripetutamente ed esplicitamente dichiarato.
Infine ci sono i particolari rituali, apparentemente inutili e invece essenziali a una concezione epica. Nell’epica classica ci sono aggettivazioni
che non hanno lo scopo di descrivere la situazione del momento, con la
quale non hanno relazione alcuna. Per esempio nell’Odissea (nei libri IV e
XV si trovano tutti gli esempi desiderabili) ci viene ricordato che Menelao è forte nel grido, forte nell’asta e capo di eserciti, quando certamente
non sta gridando, non sta vibrando l’asta e di un esercito non si vede
nemmeno l’ombra. Di Elena poi si dice che ha un lungo peplo proprio
quando il peplo non ce l’ha, perché s’è messa a letto (IV, 305). Dunque
l’aggettivazione non descrive la situazione ma ha altra funzione. In que134
sto modo sono da vedere anche certe descrizioni in Witiko. Certamente,
essendo esso un romanzo storico (almeno all’apparenza), tante descrizioni di vestiti, di edifici e di usanze appartengono al repertorio di tale
genere letterario. Ma altre no, altre sono destinate a caratterizzarlo come
epica. Tutte le ritualizzazioni che ricorrono nella battaglia della Vysoká si
mostrano come chiari riferimenti all’epica classica: i messi che parlamentano, le minuziose, iterative istruzioni loro impartite, i gesti simbolici (peraltro adattati alla situazioni e proveniente da altre tradizioni; per esempio il gesto di condanna che è il gettare da cavallo la bandiera bianca
sull’erba, tutti questi sono particolari dei quali non è difficile rintracciare
precedenti nei poemi omerici. Più di tutte impressiona forse la scena in
cui vengono descritte le vesti dei cavalieri quando per un attimo si fronteggiano e poi si sfidano. Stifter abbonda in colori. Poi si arriva al combattimento, che è un combattimento all’antica, fatto di eroi che «assetati
di vendetta, fanno rabbiosamente strage fra i nemici», invece che di
schiere, come invece la tecnica e le armi comporterebbero. E quindi le
morti sono individualizzate. «Il sangue sgorgò sulla bella veste e sul cavallo bianco», una lancia «macchiò di sangue la veste verde, tramata
d’oro»; e via di questo passo. Sembra d’essere nell’Iliade, dove il poeta
arma gli eroi per il combattimento a schiere, ma poi li fa duellare. E dove
le descrizioni, come già detto, non sono funzionali alla situazione ma sono rituali.
Infine: l’eroe dell’epica classica non ha sviluppo: è sempre lo stesso,
dall’inizio alla fine. Cambiano le avventure, non lui. Le vicende non gli
insegnano niente perché lui non ha niente da imparare. Così è anche Witiko. Fin dalla prima comparsa è deciso, morigerato, riservato, modesto,
prudente, equilibrato, pianificatore. Insomma ha tutte le virtù. Ha
vent’anni, in più di un’occasione dice di avere molte cose da imparare,
ma non è vero, è solo modestia; infatti i principî dell’agire che enuncia
dopo qualche decina di pagine li seguirà e li ribadirà, ogni volta che sarà
necessario, per tutti e tre i volumi. Una volta soltanto, ma indubbiamente
nella volta decisiva, agirà in maniera giuridicamente sbagliata perché si
arrogherà poteri decisionali non suoi. Ma non se ne pentirà mai perché il
suo agire è lungimirante, saggio, generoso, patriottico e giustificato dal
successo. Insomma Witiko ha tutte le virtù; e siccome fin dall’inizio non
gli manca niente, non ha bisogno di cambiare in niente. Al massimo diventerà più bello agli occhi di chi lo ama, o addirittura più alto (restando
il mistero di come faccia a crescere dopo i vent’anni).
135
2. 2.
Ma nell’era moderna non è riproponibile l’epica classica e di questo
grandioso tentativo Witiko porta tutte le cicatrici. La ritualizzazione, nella
quale rientra per esempio l’aggettivazione non funzionale alla situazione,
sottolinea la signoria assoluta e indiscussa di un solo tempo: il presente.
Nel rito non c’è passato irrecuperabile né futuro che porti sconvolgimenti tali da far cambiare tutti i punti di riferimento. Il rito assicura che tutto
è presente e vicino. I morti non sono morti ma lì ripresentati, gli dèi non
sono lontani ma lì invocati e rispondenti. C’è pertanto da presumere che
quelle che a noi lettori moderni appaiono incongruenze, nell’epica non
siano tali perché (per così dire) può permettersele. Nell’Odissea per esempiol’autore ci dice che uno degli itacesi piange il figlio ucciso dal Ciclope, molto prima di narrare quell’avventura e quella morte (II, 19-24).
Questa forse è un’anticipazione impossibile solo per noi moderni, affezionati a scansioni narrative più strette nei tempi; l’autore antico poteva
contare su un pubblico che quelle cose le conosceva già. Se una cosa del
genere la facesse un autore moderno non lo giustificheremmo allo stesso
modo.
La funzione degli aggettivi nell’epica classica va capita (a parte il suo
eventuale valore metrico e mnemotecnico) nella stessa maniera. Menelao
è comunque forte nel grido e capo di eserciti anche se non grida e non
ha esercito, perché Menelao è presente tutt’intero, con tutte le caratteristiche che la storia del suo personaggio gli ha cucito addosso, anche se al
momento non ne mostra nessuna. Elena è comunque donna dal lungo
peplo perché è divina, anche se al momento il peplo se l’è tolto. Analoga
funzione dovrebbe avere in Witiko il ricordo delle vesti verdi, blu, grigie e
via colorando, ricordate come tali al momento in cui si macchiano di
sangue. Dunque il rito dice che tutto è presente e che tutto si ripete,
dunque che non scompare definitivamente. Inoltre dice che tutto è al suo
posto e sempre disponibile, poiché il rito è ordinatore, assegna a ogni cosa il suo posto. E lo assegna per sempre.
Tutto ciò è fuori luogo quando il passato e il futuro si impongono almeno tanto quanto il presente. E ciò è particolarmente il caso quando
siamo confrontati con una progettualità, quando cioè un’azione non ha
valore per sé ma in vista di altro, e cioè di una nuova fondazione, capace
di far cambiare i punti di riferimento e di conseguenza lo stesso fondatore. La progettualità abolisce la ritualità. Essa ha tutto un altro rapporto
con la durata. Io progetto perché ritengo costanti determinati elementi di
136
base, sui quali introdurre dei cambiamenti; ma devo sapere che questi potranno cambiare, e anzi in un progetto importante necessariamente cambieranno quegli stessi elementi sui quali il cambiamento è costruito; perciò la costanza del presente cederà il passo al mutare del futuro, il quale
dovrà superare il presente sfruttandone quel che in esso è certo e costante, fino a sconvolgerlo. Dunque il progetto è dialettica, il rito non lo è.
Non è che a Stifter queste cose potessero sfuggire; il lettore tenga presente che prima del romanzo storico effettivamente scritto, Stifter nel
1844 ne aveva progettato uno su Robespierre, nel quale di cambiamenti
avrebbe dovuto trattare in abbondanza. In Witiko i cambiamenti sono
più lontani e meno sconvolgenti, ma la pianificazione è marcatamente
presente, tanto quanto il dibattito politico. Witiko segue un progetto, eccome! Anzi l’opposizione fra lui e tutti gli altri (a parte il duca Vladislav
in certi momenti) è che tutti gli altri hanno propositi e prospettive settoriali, lui invece vede in grande. I suoi progetti politici si differenziano
perché non sono mai particolaristici, al contrario degli avversari e spesso
e volentieri anche di coloro che si troveranno dalla sua parte. C’è chi
vuole espandere i propri beni verso una certa direzione, chi comunque
vuole difendersi dai grandi e dagli ambiziosi, chi ha come preoccupazione suprema quella di fondare una grande stirpe. E costoro consigliano a
Witiko di proporsi scopi del genere. Witiko non risponde. Non che lui
non abbia anche qualche progetto nel piccolo: lì va costruito un castello,
lì un altro. Tutti progetti che si avverano, manco a dirlo. In questo romanzo si avvera tutto, basta aprir bocca. Si avvererà perfino la promessa
iniziale, fatta a un brigante di strada, di rendergli un giorno un servigio; il
servigio consisterà nel non impiccarlo per un agguato, perché si tratta
appunto di un banditello autarchico, non di uno strumento politico in
mani altrui. Ma a parte questo, Witiko ha una visione grandiosa delle cose. A una quindicina di pagine dall’inizio incontra la allora sedicenne Bertha. Il lettore capisce subito che si sposeranno; e sarà così, anche se ci
metteranno tre volumi. Ma i patti tra i promessi sposi sono chiari: lui le
assicura che sta andando verso un grande destino, che farà cose supreme
e le farà fino in fondo. Anzi è ancora più chiaro: non va a prendersi un
destino bell’e fatto, va a costruirselo. Insomma va a fare cose nuove di
sana pianta, sconvolgenti, radicali e supreme. Posso anticipare al lettore
di che cosa si tratta: va a rifondare l’idea stessa di stato e a porre le basi
per la sua realizzazione. Progettualità e non ritualità, romanzo moderno e
non poema epico: tutto questo in un romanzo scritto epicamente. (Ma
mi sento di anticipare anche che la veste epica ha le sue motivazioni, pur
137
restando problematica.) Bertha non è da meno. Innanzitutto gli risponde
a tono fin dal primo incontro. Nel secondo è esplicita: lui vuol fare cose
supreme e fino in fondo, d’accordo; ma deve portare anche gli altri a fare
cose grandi e deve essere superiore a tutti, nessuno deve stargli alla pari.
Witiko ne è un po’ preoccupato perché questa Bertha non chiede poco;
anzi avrebbe le carte in regola per diventare una lady Macbeth. Ma per
fortuna tutto finisce bene. Il progetto ha successo. E ciò cambia gli elementi dell’epica, assegnando loro una nuova funzione.
3. 1. Il come e il dove dell’epica classica.
Quello che viene ora trattato è il cuore del problema.
Nell’Iliade è un continuo litigio: tutti i re greci litigano con tutti i re.
Agamennone è il capo, d’accordo, ma non comanda poi tanto da risolvere tutti i contrasti. Tuttavia, trattandosi di una coalizione, la cosa non ci
sorprende più che tanto. Nell’Odissea il problema si pone in maniera più
chiara: chi comanda a Itaca? Odisseo è lontano, quindi di fatto non comanda. Ma chi è al suo posto? Non il figlio Telemaco, il quale ogni volta
che può si lamenta dei Proci, che a casa sua fanno e disfano. Per diritto
ereditario dovrebbe essere lui il nuovo re (I, 387), ma invece non è neanche padrone a casa sua (I, 397). Ma appunto a casa sua che cosa stanno a
fare i pretendenti della madre? Sorge il sospetto che le nozze con Penelope portino il regno. Uno dei pretendenti dice che giace sulle ginocchia
degli dèi chi sarà il re di Itaca (I, 400-01); si riferisce alle nozze, cioè a chi
Penelope sceglierà? Telemaco, che pure lascia intendere proprio questo,
aggiunge tuttavia una spiegazione che modifica il quadro di riferimento: i
pretendenti non hanno il coraggio d’andare alla casa del padre di Penelope, Icario, il quale avrebbe il potere di rimaritare la figlia a chi vuole (II,
52-53). Perciò restano lì, a divorare i beni e cercando di forzare Penelope. Ma a divorare i beni di chi? Quelli dotali di Penelope sembrano al sicuro; se Telemaco dovesse rimandarla lui alla casa del padre, dovrebbe
restituirli, a quanto pare di capire (II, 132-33). I pretendenti si spartiranno i beni di Telemaco solo se lui morrà (II, 335, 368). Certamente i Proci non puntano solo ai beni dotali di Penelope, che pure possono far gola; troppo infatti si parla anche di comando. Il quale nel frattempo sembra essere spartito fra le famiglie che contano: Telemaco può ordinare
agli araldi di convocare l’assemblea (II, 6) e questi gli obbediscono
senz’altro. A loro volta gli itacesi obbediscono alla convocazione senza
138
sapere chi ne è l’autore (II, 28). Altrettanto ovviamente però uno dei pretendenti ha il potere di sciogliere l’assemblea (II, 257). È l’assemblea a
governare? Per certe cose sì, poiché è nell’assemblea che si decidono le
multe (II, 192). E Odisseo? Telemaco in assemblea ne occupa il posto,
ma la cosa pare essere solo un fatto di cortesia (II, 14). A Odisseo stesso,
se tornasse, i pretendenti promettono di non riservare alcun riguardo,
anzi di ammazzarlo per seguitare a contendergli la moglie (II, 246-51).
Ma allora è Penelope la via verso il trono? Telemaco, come accennato, lo
lascia intendere: il più nobile dei pretendenti, Eurimaco, è anche colui
che più di tutti desidera sposare Penelope e così avere la dignità di Odisseo (XV, 521-22). Il padre di Penelope a un certo punto si fa vivo (così
racconta Atena, che dovrebbe saperlo) e forza la figlia a sposare Eurimaco, il quale manifestamente non punta ai beni dotali, perché invece è lui a
pagare la dote e anzi la aumenta sempre di più (XV, 16-18). E se non
vuole i beni, che cosa può volere se non il potere? Dunque la via verso il
regno passa attraverso Penelope, anche se non sappiamo come. Alla fine,
quando ci saranno nuovi patti, Odisseo regnerà per sempre (XXIV, 483).
Sarebbe eccessivo sostenere che il suo fosse un regno a tempo, ma di
certo la stabilità e la certezza lasciano a desiderare.
Insomma non c’è certezza sul potere. Si può obiettare che ciò importa
poco quando ci sono istituzioni funzionanti; e tale è l’assemblea. Essa
però sembra avere poteri limitati e inoltre lì sono troppi a comandare.
Per esempio (ed è un esempio dalla portata facilmente intuibile) i morti
vanno vendicati dalle famiglie e l’assemblea ci può poco.
Quando non c’è certezza non è neanche possibile un progetto. Esiste
un solo tempo, il presente. E su questo si regge l’epica. Dunque l’epica
ha per condizione l’eroe individuale che non scompaia in una struttura di
potere. L’incertezza di un potere, la sua mancata ramificazione in istituzioni certe, la sua incerta identificabilità appaiono essere condizioni
dell’epica classica. Tutto punta sull’eccellenza, l’eccezionalità, l’eccesso
dell’eroe perché la rete istituzionale che dovrebbe interessare, assicurare e
limitare tutti è troppo debole. Il presente del rito sostituisce quel mancato presente che in una società più strutturata è assicurato dal potere certo. Nel tutto presente del rito, nel pochissimo, quasi nullo presente del
potere certo e strutturato ha il suo posto l’eroe dell’epica classica.
139
3. 2.
A prima vista la realtà storica presentata in Witiko (lasciamo stare se storicamente esatta) presenta tali punti di somiglianza con quella classica da
poter far credere che l’epica vi sia al suo posto. Ma solo a prima vista. Vi
sono infatti incertezze nella successione. Il duca Sob?slav ha fatto quanto
era in lui per assicurare la successione al figlio Vladislav. Dal punto di vista giuridico le cose sono certe. Ma alla morte del duca i nobili della Boemia e della Moravia non si ritengono più vincolati dall’impegno preso.
Molti infatti adducono che il padre non abbia avuto tempo di educare il
figlio a governare e che questi non sia adatto a governare a causa della
sua giovane età. (Tra parentesi: al pignolissimo Stifter sfugge un errore.
Durante la dieta al Vyšehrad il figlio viene detto ventunenne; ma da un
calcolo sulla base di un passo del secondo volume risulta che non può
avere più di diciotto anni e mezzo.) Prevarrà questa tesi, la quale in realtà
è un pretesto: i nobili vogliono avere in mano l’elezione del duca al fine
di contare più del duca e di poter ampliare i loro privilegi a spese sia del
duca stesso, sia della nobiltà minore, sia del popolo. A farsi portatore di
queste tesi, in discorsi grandiosi in cui esse vengono suggerite e mai dette
esplicitamente, è il nobile Na?erat, grande elettore del nuovo duca e poi
elettore ancora più decisivo del pretendente che gli sobillerà contro. I
suoi discorsi, soprattutto il secondo, sono fra le pagine grandiose del romanzo.
Dietro questa incertezza c’è un’incertezza più generale: non esiste una
legge di successione. In passato ne è esistita una, ma è stata abolita. Ripetutamente viene espressa l’esigenza di farne una, ma per tutti e tre i volumi non viene soddisfatta. Dunque la successione non è certa, e ciò per
radicale carenza giuridica. Fin qui la situazione sembra coincidere con
quella sul cui sfondo si colloca l’epica classica. Ma ecco subito differenze
essenziali. Stifter presenta la situazione come un momento di svolta, in
cui si tratta di decidere fra potere centralizzato con istituzioni funzionanti
e precise, e potere diffuso e incerto; insomma fra stato moderno e un
feudalesimo quanto mai parcellizzato e paralizzante. Dunque in tale caso
non c’è tanto incertezza quanto necessità di scegliere. Inoltre, pur data la
carenza giuridica che si diceva, nel caso specifico la successione è stata
assicurata e giuridicamente garantita da una serie di misure, ultima delle
quali l’impegno dei nobili. Eleggere un duca diverso da quello già riconosciuto è rompere un patto. Ci sono bensì delle ambiguità, che il duca
Vladislav farà rilevare nel terzo volume: chiedere l’impegno dei nobili è
140
come mettere l’elezione nelle loro mani. Tuttavia nel complesso la situazione è chiara: c’è stato un impegno e quello va mantenuto. Su ciò Witiko ha idee precise e, avvenuta l’elezione di un duca diverso da quello che
i nobili avevano già riconosciuto, si ritira a vita privata. Dice di voler raccogliere i suoi pensieri, di non conoscere abbastanza le questioni politiche, di non saper giudicare l’agire di molti uomini, di aver molto da imparare e così via. Lo ripete per tre volumi. Ma sono soltanto espressioni
di modestia e di prudenza. In realtà prevede che quel tipo di elezione
porterà la guerra, e a essa si prepara. Per sapere definitivamente da che
parte stare ha bisogno che venga fatto un ultimo passo; e il figlio di
Sob?slav lo farà, rinunciando al proprio diritto a favore di un pretendente
che a sua volta si vincolerà stringendo patti con i nobili del regno, vogliosi di meno centralismo e quanto più diritti particolari possibili. A
questo punto anche l’ultimo tassello va a posto e sulla legittimità del duca
eletto al Vyšehrad Witiko non avrà più dubbi. L’incertezza è abolita, il
progetto di Witiko è giusto e avverato. L’esito ultimo sperato è la certezza nella successione, la certezza nella convivenza tra i popoli, infine
(nell’ultimo volume) la certezza dell’unione dei vari stati in un impero.
Oltre a ciò c’è anche un progetto sul modo concreto di organizzare lo
stato attraverso i poteri delle assemblee e la struttura economica. Tutto il
contrario dell’epica classica. Ciò comporta ulteriori difficoltà perché, volendo essere Witiko un romanzo storico, questo progetto può collocarsi
all’epoca dell’azione solo a patto di errori storici, incongruenze e compromessi poco credibili. Ma questo è un altro problema. Per quanto riguarda la relazione con l’epica, stando le cose come stanno, il procedimento letterario dovrebbe testimoniare la fine dell’epica. Invece assistiamo alla sua ripetizione.
4.
Nell’ultima pagina del romanzo alcuni celebri Minnesänger vengono introdotti a cantare il Cantare dei Nibelunghi. Dunque alla fine c’è un’esplicita
citazione dell’epica medievale tedesca, così come all’inizio c’è stata una
chiara allusione al mondo classico. Del resto Witiko si presenta alla futura sposa Bertha come ci si aspetta da un cavaliere dell’epica medievale,
uscito nel mondo a cercare – cioè, come precisa, a costruire – il proprio
destino. E altri luoghi paiono mandare segni nella stessa direzione, a cominciare dalle descrizioni e assegnazioni di bandiere. Perciò appare sen141
sato, dopo aver visto il rapporto con l’epica classica, indagare sul rapporto con l’epica medievale tedesca.
Questa introduce almeno due novità epocali: l’approfondimento psicologico e lo sviluppo dell’eroe. Sulla prima dobbiamo sorvolare, poiché
Witiko non ne fa uso. Possibilità di svilupparne ce n’erano, soprattutto
nella figura di Bertha, in qualche misura anche in quella di Na?erat. Ma
Stifter ha lasciato cadere queste possibilità. Perciò ci limiteremo a ricordare, dell’epica medievale, i tratti più celebri: l’ambiguo rapporto a tre Sigfried – Krimhild – Brünnhild nei Nibelunghi, l’intreccio fra eros e thanatos nell’amore adolescenziale come nel libro VII del Parzival di Wolfram
von Eschenbach. Quanta psicologia è stata dimenticata da allora e quanta
ha dovuto riscoprirne Freud che invece per i poemi medievali era cosa
acquisita! Ma dobbiamo tralasciare questo aspetto per la ragione detta.
In realtà dobbiamo tralasciare anche il secondo. Nel Tristan di Gottfried von Straßburg l’eroe eponimo e Isolde sono all’inizio un civilissimo, seducente e valoroso cavaliere di corte il primo, una specie di maga
lei. Ma quando si innamorano interessano tutt’altre cose e cioè la loro
trasformazione in amanti. E allora approfondimento psicologico
(sull’amore l’autore scrive cose che etichettare sotto “amore cortese” sarebbe un rifiutarsi di capirle, mentre invece la nostra epoca di amorepassione avrebbe tutti i motivi per meditarle) e trasformazione degli eroi
vanno di pari passo. Della trasformazione dell’eroe in Parzival si è parlato
di più: lo «sciocco» iniziale attraversa un complesso itinerario che lo porta alla consapevolezza di sé e del mondo, fino a diventare un cavaliere
cristiano.
Di ciò non c’è traccia in Witiko. L’eroe eponimo (ma la cosa vale in
generale) non si trasforma, tranne che per qualche particolare esterno. Al
massimo si adatta. A Vienna (nel secondo volume) accetta alla lunga le
benevoli critiche dei Minnesänger, pertanto indossa abiti belli e alla moda, partecipa a tornei (anche se li disapprova) e impara a fare complimenti alle signore. Insomma per un po’ di pagine fa il cavaliere di corte. Ma è
un adattamento, non una trasformazione. Tornato a casa, si veste come
prima, rozzamente e alla pari delle persone umili con cui vive. E non fa
tornei ma addestra alla guerra vera. La sua parentesi cortese può essere
vista come concessione agli usi del romanzo storico e alle attese del lettore. Dal punto di vista funzionale, è solo una prova di duttilità del personaggio. Il quale però non è uscito nel mondo al modo dello «sciocco»
Parzival, che deve ancora imparare tutto di tutto, cominciando col distinguere la fantasia dalla realtà. È bensì vero che il Witiko iniziale ricor142
da in qualche modo il Parzival ai primi passi, ma con quante differenze!
Entrambi sono subito coinvolti in una lite. Parzival però perché non sa
come ci si comporta, Witiko invece perché lo sa e non si lascia né ingiuriare né intimidire dai nobili cavalieri che ha incontrato. Parzival non sa
niente, Witiko sa tutto. Dopo sì e no trenta pagine enuncia principî di
comportamento che non si smentiranno mai e che sono addirittura legati
a valutazioni giuridiche, altro che ingenuità! Entrambi gli eroi vanno incontro al destino. Parzival non sa a quale, Witiko dice di non saperlo, ma
intanto vuole diventare un comandante, poi si vedrà.
Ma se Witiko non è soggetto a cambiamento, non per questo è un eroe dell’epica classica. Infatti è capace di quella progettualità di cui abbiamo già parlato e per la quale è un personaggio del romanzo moderno.
5. Romanzo
Ci sarebbe una terza caratteristica fondamentale dell’epica medievale,
quella del cavaliere quale componente essenziale della vita di corte. Ma
ne abbiamo già visto il valore episodico nel romanzo di Stifter. Dovunque ci volgiamo, all’epica classica come a quella medievale, non riusciamo a trovare giustificazioni per l’epicità di Witiko. Eppure essa ha dato
luogo a splendide pagine, pur se anche a pagine non riuscite (del resto
quandocumque dormitat bonus Homerus). Giustificazione e funzionalità
ci sono. Esse risiedono in primo luogo nell’omogeneità del modo di narrare col progetto politico di Stifter, che pare volere essere un progetto
eterno, rispondente a criteri morali prima che storici o (a dirla con parole
molto vicine alle sue) consono a una storia dell’uomo intesa come realizzazione della legge morale. In secondo luogo con la generale prospettiva
armonizzante dell’autore, talmente pervasiva (non solo in questo romanzo) da poter far adottare nei suoi confronti l’etichetta di «dolce mostro»
coniata per lui (con altri intenti) da quello scrittore fantasioso che è stato
Arno Schmidt.
5. 1. Romanzo storico.
Witiko si presenta come romanzo storico. Con ciò, data la tipologia di
questo genere letterario, contrae l’obbligo di narrare, oltre alla sua fabula,
anche il contorno storico, e questo in maniera veridica. Stifter soddisfa
143
tale obbligo in vario modo: poco attraverso la narrazione della voce autoriale, molto invece mettendo lunghi racconti in bocca a questo o quel
personaggio. Nel primo volume, per esempio, il cavaliere rosso narra gli
antefatti della storia boema più recente fino al momento della vicenda in
corso. Ciò permetterà di capire la lotta per la successione; il cavaliere rosso sarà eletto duca nella dieta del Vyšehrad, con quel che seguirà. A volte
tali racconti sono puramente didascalici, come quello di cui si è appena
detto, a volte saranno vibranti e trascinanti, come quello che nel secondo
volume farà Anna, la madre del margravio d’Austria, narrando delle lotte
intestine fra l’imperatore Enrico IV e suo figlio. Questa è una delle parti
meglio riuscite del romanzo: affidato alla bocca di una madre e collocato
nel momento e nel luogo in cui madre e figlio Witiko si rivedono, per di
più prima che costoro si salutino privatamente, il racconto assume in sé
più di una tensione.
Ma il culmine Stifter lo raggiunge nella dieta del Vyšehrad. Qui i discorsi storici sono funzionali alle prese di posizione, ai progetti e alle passioni. Si è rimproverato a questa e a simili scene di falsare il medioevo
immettendovi dibattiti da epoca parlamentare. La scena resta stupenda lo
stesso. Per di più in essa vengono posti i fondamenti degli sviluppi futuri,
quando alcuni più lungimiranti prevedono le conseguenze, nefaste fino
alla guerra, di un procedimento elettivo quale quello che viene adottato,
mentre chi lì per lì prevale ha detto chiaro quello che vuole e per cui la
guerra scoppierà: condizionare il duca a vantaggio dei privilegi diffusi
della nobiltà, che vanno accresciuti insieme col suo potere e con le sue
ricchezze.
Stifter assolve inoltre un altro obbligo, che molti romanzi storici nella
seconda metà dell’Ottocento assolvevano addirittura con gioia: quello
delle narrazioni folcloriche. Nel terzo volume le feste per l’inaugurazione
del castello, la cerimonia della richiesta di matrimonio e le nozze stesse
occupano decine e decine di pagine e paiono proprio voler assolvere a
tale obbligo. Forse anche troppo, perché a volte si ha l’impressione di
leggere una guida folclorica attraverso il passato boemo.
5. 2. Romanzo moderno.
Già con l’essere romanzo storico Witiko è romanzo moderno, collocandosi in una tendenza specifica di quest’ultimo. Ma usa mezzi stilistici
dell’epica classica, primi fra tutti l’iterazione e la descrizione rituale. Ab144
biamo anche anticipato che, spostandosi il romanzo sul terreno della
progettualità e pertanto della temporalità dinamica, gli elementi dell’epica
cambiano funzione. L’iteratività e la ritualità diventano frammentazione.
Il lettore ne fa l’esperienza fin da subito. L’inizio è tradizionale: una descrizione del paesaggio, che comincia in generale e poi man mano si restringe su un punto specifico; una descrizione del personaggio, una precisazione del tempo (ora mattutina di un giorno di tarda estate già inclinante all’autunno del 1138). Il cavaliere cavalca verso nord. Ci viene detto che il cavallo (si badi: non il cavaliere ma il cavallo) andò su per «una
lunga altura, poi in piano, poi giù per un monte, un pendio in su, un
pendio in giù, dentro un boschetto, fuori da un boschetto, finché si fece
quasi mezzodì.» Non è semplice pignoleria: Stifter parcellizza un percorso, non ci dà il movimento continuo ma i suoi momenti, non l’unità ma
le sue parti, non la meta ma il percorso. Così per tre volumi. Uno dei capitoli nei quali tale tecnica dà il meglio di sé è il quarto del primo volume.
Witiko lascia Praga e il nuovo duca per (dice) raccogliere le idee; possiamo intuire, e ci verrà detto esplicitamente in seguito, che lo fa perché
considera illegittimo il nuovo duca. Nella località in cui si reca compie
una serie di atti dei quali solo molto più tardi ci verranno detti gli scopi:
si occupa dell’andamento quotidiano del suo possedimento, vivendo la
vita dei più semplici. Più tardi si mette in viaggio, cercando l’ospitalità di
un suo vicino e poi passando man mano presso altri possidenti. (E qui gli
incorre un’altra incongruenza. In ogni tratto di viaggio viene accompagnato da un qualche dipendente messogli a disposizione dall’ospite. Ogni
volta viene detto il momento, il luogo e il modo in cui Witiko lo rimanda
indietro. Per il primo tratto si era fatto accompagnare da un proprio dipendente, e solo si questo non ci viene detto come viene rimandato. Eppure costui non si perde, anzi ricomparirà più volte nel romanzo sempre
con funzioni analoghe. È una di quelle incongruenze che l’epica classica
avrebbe potuto permettersi, ma che nel romanzo moderno passano per
distrazioni di autore.) Solo alla fine il lettore scopre che Witiko ha fatto
un giro completo intorno al proprio possedimento. Solo più tardi capirà
che il comportamento di vita è costruzione della sua missione (stare dalla
parte del popolo) e preparazione delle alleanze (dalla parte della piccola
nobiltà contro la preponderanza, per non dire la prepotenza, della nobiltà
maggiore). Il particolare, l’apparentemente non finalizzato, iterativo, segnante il passo, si rivela qualcosa che va a posto da sé; ma questo andare
a posto da sé è la progettualità che si rivela alla fine. Insomma prevale il
progetto come volontà nascosta. Durante le visite Witiko parla poco
145
mentre gli ospiti si sbottonano ampiamente. Appartengono a tendenze
diverse, ma Witiko dice di non appartenere ad alcuna, di non saper bene
le cose, di non capire bene certe situazioni. Se non fosse un cavaliere
senza macchia e senza paura la sua modestia e la sua prudenza andrebbero chiamate diversamente.
Questa frammentazione viene usata in lungo e in largo. L’uso che ne
fa Stifter altrove, per esempio nel terzo volume descrivendo la battaglia
di Znaim, mette in luce un altro aspetto. A farla breve: la battaglia viene
decisa da una manovra di aggiramento guidata da Witiko. Il lettore, anche se l’ha intuito subito, ne viene informato solo alla fine, poiché la manovra viene descritta per frammenti.
Ma questa è la tecnica allora ampiamente usata nel romanzo di avventure, avendo lo scopo di creare suspence. Così ci consente di rispondere
alla domanda che cosa resti di un’epica frantumata: ne risultano il romanzo di avventure e il romanzo del mistero. Messa a confronto con
l’altro aspetto della frantumazione visto in precedenza, questa conclusione ci porta a una conclusione più generale: che tutto vada a posto e che il
progetto provvidenzialmente si adempia è solo un atto di fede.
Stifter aveva usato quella tecnica fin dai suoi primi racconti, dando
luogo al suo primo capolavoro, Abdia (1843). Solo che lì, come altrove,
niente andava a posto. La rifunzionalizzazione di questa tecnica ne capovolge il senso. A tutto ciò noi lettori possiamo dare un valore cui è improbabile che Stifter pensasse: la frammentazione ha valore di memoria,
ricordandoci che il moderno romanzo di avventure nasce dallo scomparire dell’epica.
Altra caratteristica essenziale al romanzo moderno è la psicologia. Ma
abbiamo già visto che in Witiko Stifter vi rinuncia. L’occasione primaria
sarebbe data da Bertha, civettuola, autoconsapevole, innamorata e sfrenatamente ambiziosa. Se Witiko vuole sposarla deve diventare il primo
fin dove gli occhi vedono. Non è così facile, e Witiko glielo obietta. La
risposta di Bertha è: se lui si propone di puntare a mete supreme, intanto
cominci, lei non può pretendere che arrivi subito alla meta, ma vuol vederlo su quella via. Come detto, questa possibilità di approfondimento
psicologico non viene sfruttata.
Né viene sfruttata quella offerta da Na?erat, il grande elettore di cui si
è detto. Però gli viene messo in bocca un discorso di sobillazione degno
di quello di Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare.
146
Dunque Witiko rinuncia a molti lati essenziali del romanzo moderno.
Ma la sua progettualità e il suo progetto politico lo fanno rientrare a pieno titolo in questo.
5. 3. Il progetto politico
Se avesse scritto il suo romanzo su Robespierre, Stifter avrebbe dovuto
misurarsi con questioni brucianti riguardanti lo stato, la politica e
l’organizzazione sociale in genere. Spingendo tutto a sette secoli più indietro, le questioni risultavano più ovattate, i problemi da affrontare potevano essere resi elementari, anche a costo di anacronismi, che non
sembrano aver preoccupato l’autore né punto né poco. Soprattutto si evitava il problema della rivoluzione. Stifter dibatté così di come si fonda
la certezza della fonte del potere e del diritto e pertanto la continuità del
potere senza rimettere in discussione i patti. L’elettività pare una buona
cosa per certi livelli ed essere confermata per le cariche basse e medie.
Witiko è eletto capo dalla gente che volontariamente l’ha seguito e viene
confermato dal duca, dal re, dall’imperatore. I capi dei singoli reparti
vengono eletti dal basso e (a quanto pare) da Witiko confermati con
quello che si direbbe un atto dovuto. La non elettività del potere supremo forse non è rivolta contro la democrazia ma è dovuta alla fusioneconfusione che all’epoca regnava tra potere esercitato e continuità dello
stato. Coloro che eleggono Witiko loro capo lo fanno dichiaratamente
perché non vogliono essere schiacciati dai potenti e, per quel che riguarda i meno abbienti, perché non vogliono essere servi della gleba. Witiko
infatti abolisce le corvées, introduce il lavoro salariato e favorisce industria e commercio. Dunque chi lo elegge sceglie una forma di stato moderno contro il feudalesimo. Così ovviamente influenza la natura del potere senza che su ciò ci sia una riflessione. Essendo poi Witiko pur sempre un romanzo storico, l’autore è costretto a compromessi con i fatti.
In ogni caso al progetto politico vengono dedicati molti passaggi. Essi ci
mostrano nell’autore un uomo speranzoso in una democrazia molto
buona e temperata, tutta armonia. Tanto armoniosa che tutti fanno guerra a tutti. E non crediate che in guerra sian tutte rose, perché capitano
anche fatti gravi, che bisogna punire, perfino tra le proprie file! No, non
è qui che possiamo trovare il meglio del romanzo.
147