Untitled - Rizzoli Libri

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Untitled - Rizzoli Libri
Todd Burpo
con Lynn Vincent
Il Paradiso per davvero
Proprietà letteraria riservata
© 2010 by Todd Burpo
This Licensed Work is Published under License
© 2011 RCS Libri S.p.A., Milano
© 2016 Rizzoli Libri S.p.A. / BUR Rizzoli
ISBN 978-88-17-09155-8
Titolo originale dell’opera:
Heaven is for Real
Traduzione di Francesco Antoni, Elena Contini e Cecilia Montani
Per le citazioni bibliche © La Sacra Bibbia, CEI e UELCI, 2008
Crediti fotografici:
© archivio famiglia Burpo;
p. 1 (in basso), 3 (in alto), © The Imperial Republican/Ian Schultz
p. 7, © Akiane Kramarik
Prima edizione Rizzoli 2011
Prima edizione bestBUR 2015
Prima edizione BUR novembre 2016
L’Editore ha fatto il possibile per reperire i proprietari dei diritti.
Rimane a disposizione per gli adempimenti d’uso.
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Il Paradiso per davvero
In verità io vi dico: se non vi convertirete e
non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.
Gesù di Nazareth
Prologo
Angeli al fast food
Quando si pensa alla ricorrenza del Quattro Luglio, la
festa dell’Indipendenza americana, vengono in men­
te le parate patriottiche, l’intenso aroma dei barbe­
cue fumanti, il sapore dolce delle pannocchie di mais
e i cieli illuminati da piogge di fuochi d’artificio. Il
weekend del Quattro Luglio 2003, invece, è rima­
sto scolpito nella memoria della mia famiglia per un
motivo ben diverso.
Io e mia moglie Sonja avevamo in programma di
andare con i bambini a trovare lo zio Steve, mio co­
gnato, che vive a Sioux Falls, nel South Dakota. In­
nanzitutto avremmo conosciuto il nostro nuovo ni­
potino, Bennett, nato due mesi prima, e poi sarebbe
stata l’occasione giusta per portare i nostri figli, Cassie
e Colton, a vedere per la prima volta le cascate (Sioux
Falls prende il nome proprio da lì). A dire il vero,
però, lo scopo principale del viaggio era un altro. In
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marzo avevamo fatto una gita a Greeley, in Colorado,
che si era trasformata nell’incubo peggiore che si pos­
sa immaginare, e da allora non ci eravamo più mos­
si dal paesino del Nebraska in cui viviamo, Imperial.
Non userò tanti giri di parole: in occasione di
quell’ultima gita nostro figlio era quasi morto. Vi sem­
breremo paranoici, ma confesso che dopo un’espe­
rienza del genere eravamo diventati un po’ apprensi­
vi, quasi al punto da non voler partire. Ora, essendo
un uomo di chiesa, io non sono superstizioso, ep­
pure una parte di me – una parte imperscrutabile e
ancora inquieta – mi diceva che se fossimo rimasti
nei paraggi di casa saremmo stati al sicuro. Alla fine,
tuttavia, la ragione – unita alla prospettiva di co­
noscere il piccolo Bennett, che a sentire Steve era
il neonato più carino del mondo – ebbe la meglio.
Così preparammo armi e bagagli e stipammo il tutto
dentro la nostra Ford Expedition blu, pronti a fare
rotta verso nord.
Avevamo stabilito che l’ideale sarebbe stato copri­
re gran parte del tragitto di notte: in questo modo
Colton, che dall’alto dei suoi quattro anni sostene­
va di essere già grande e di poter fare a meno del seg­
giolino, almeno avrebbe dormito per quasi tutto il
viaggio. Così, poco dopo le 20, mi misi al volante.
Uscimmo dal vialetto di casa, passammo davanti alla
Crossroads Wesleyan Church, la chiesa di cui sono
pastore, e imboccammo la Highway 61.
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Angeli al fast food
La luna era uno spicchio candido nel cielo di vel­
luto e la notte stava stendendo il suo manto lim­
pido sulle pianure. Imperial è un paesino agricolo
incastonato quasi sul confine occidentale del Ne­
braska. Con solo duemila anime e neanche un se­
maforo, è il genere di posto che conta più chiese
che banche, e dove i contadini, lasciati i campi per
il pranzo, si riversano direttamente nella tavola cal­
da a conduzione familiare con ancora gli scarponi
ai piedi, il cappellino John Deere in testa e un paio
di pinze per aggiustare i recinti appeso alla cintura.
Non per niente Cassie e Colton erano tutti eccita­
ti alla prospettiva di andare nella «grande città» di
Sioux Falls a incontrare il nuovo cuginetto.
I bambini non smisero di parlare per quasi cen­
tocinquanta chilometri, fino a quando arrivam­
mo a North Platte. Nel frattempo i pupazzetti dei
supereroi che Colton aveva portato con sé furo­
no impegnati in una lunga battaglia, e salvarono
il mondo diverse volte. Non erano ancora le 22
quando ci fermammo nella cittadina che deve la
sua fama al fatto di aver dato i natali a Buffalo Bill
Cody, il celebre artista circense del Selvaggio West.
North Platte sarebbe stato l’ultimo avamposto ci­
vilizzato – o perlomeno l’ultimo con qualche loca­
le ancora aperto – che avremmo incontrato quella
sera, prima di attraversare vaste distese di granotur­
co completamente deserte, a eccezione di qualche
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cervo, dei fagiani e, di tanto in tanto, una fattoria.
Ne avremmo approfittato per riempire il serbatoio
e mettere qualcosa sotto i denti.
Dopo aver fatto il pieno in una stazione di servi­
zio, mi accorsi che stavamo attraversando un incro­
cio dall’aria familiare: se al semaforo avessi girato a
sinistra, saremmo arrivati al Great Plains Regional
Medical Center. L’ospedale dove in marzo avevamo
trascorso quindici giorni da incubo, la maggior parte
del tempo a pregare Dio perché risparmiasse la vita
di Colton. Alla fine eravamo stati esauditi, ma io e
Sonja ogni tanto scherzavamo ancora dicendo che
quell’esperienza ci aveva rubato qualche anno di vita.
A volte ridere è l’unico modo per superare un
trauma, così decisi di stuzzicare un po’ mio figlio.
«Ehi, Colton, se svoltiamo qui possiamo torna­
re all’ospedale. Che ne dici, ci facciamo un salto?»
Sentii il nostro piccolino ridere nell’oscurità. «No,
papà, non ci voglio andare! Portaci Cassie, ci va lei
in ospedale!»
Anche lei scoppiò a ridere. «No­ooo! Non voglio
andarci neanch’io!»
Sonja si girò a guardare Colton, nel seggiolino
alle mie spalle. Immaginai i suoi capelli biondi e
corti, gli occhi azzurri che brillavano nel buio. «Te
lo ricordi l’ospedale?» gli domandò.
«Certo, mamma, che me lo ricordo. È dove ho
sentito cantare gli angeli.»
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Angeli al fast food
Dentro la macchina il tempo si fermò. Sonja e
io ci scambiammo un’occhiata, insieme a un muto
messaggio: Hai appena sentito anche tu quello che
ho sentito io?
Poi mia moglie si sporse verso di me e sussurrò:
«Ti ha mai parlato di angeli prima d’ora?».
Scossi la testa. «E a te?»
Stessa risposta.
In quel momento vidi l’ingresso di un fast food
Arby’s, parcheggiai e spensi il motore. Nell’abitaco­
lo filtrava la luce bianca di un lampione. Mi girai
a sbirciare Colton: mi stupì vedere quanto era pic­
colo, il nostro bambino. Un cucciolo che si espri­
meva ancora con un candore spiazzante, in grado
di suscitare immensa tenerezza (e a volte un po’ di
imbarazzo). Se avete dei figli, sapete di che cosa
parlo: quell’età in cui un bambino è capace di in­
dicare con il dito una donna incinta e chiedere a
voce bella alta: «Papà, perché quella signora è così
cicciona?». Colton si trovava in quella stretta fine­
stra temporale della vita in cui non si conosce an­
cora la discrezione né la malizia.
Questi pensieri si rincorrevano nella mia mente
mentre cercavo le parole per rispondere alla sua di­
chiarazione sconcertante. Alla fine trovai il corag­
gio: «Hai detto che hai sentito cantare gli angeli
mentre eri in ospedale?».
Annuì con decisione.
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