La Sconosciuta di Eleonora Calamandrei
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La Sconosciuta di Eleonora Calamandrei
La sconosciuta Il mondo non mi conosce. D’altronde, anche nell’evoluto Terzo Millennio capita di non essere mai usciti dalla propria città. A me è successo perché già qui ne ho prese tante e non mi va di scoprire quali altri guai esistano fuori dal mio limitato universo. Ebbene sì, sono vigliacca. Non per natura, ci tengo a precisare. Eppure spero di essere un po’ migliorata. Ora sto meglio, in effetti. Forse perché l’unica felicità della mia vita è un gesto per me audace, che compio ogni giorno: arrivare fino al mio posto di lavoro. Trovo bello timbrare il biglietto, sedermi e guardare tutta quell’accozzaglia di colore e di grigio, di delusione, dopobarba, sudore, speranze. Soprattutto mi piace che, comunque siano il tempo ed i telegiornali, alla fine salga sempre qualcuno sorridente. È quello che mi fa sentire il mio viaggiare, il mio andare da qualche parte: l’idea di un’occasione, la sensazione di una felicità a pochi passi, che nonostante sia appiccicata alla gente più diversa e stramba non se ne va. Anzi, aumenta ad ogni sterzata del mezzo! La gioia continua anche quando il sorriso svanisce, portato via dalle porte automatiche e polverose. Dopotutto, adesso sono io a perpetrarla con i segni della mia allegria. Resiste, tenace, fino alla mia fermata, per poi sparire, garbata, dalla mia esistenza. In quell’attimo sono davvero triste: ogni volta sono tentata di non scendere, di lasciar chiudere le porte automatizzate sulla mia vita per raggiungerne una nuova. Una volta l’ho fatto: è il mio più grande segreto. Sono andata avanti: ho seguito l’autobus fino a che non è sceso anche l’ultimo passeggero, probabilmente un giovane universitario. Era lui il sorriso del giorno. Volevo parlargli ed io, spaventata dalla vita e dai fantasmi umani che la abitano, l’ho fatto: “Salve! Dov’è diretto?” Ero convinta. Lui mi ha sorriso. Questa volta ero sicura che il Sole baluginante nei suoi occhi fosse per me. Non ricordo che nome inutile pronunciò e neanche lui sembrò farci caso: aveva capito. Non contava la destinazione: contava quel secondo di colore. “E lei, dove sta andando?” “Oh, veramente mi sono persa.” “No.” “Perché?” “Chi si è perso non sa dove stia andando, ma chi viaggia arriva sempre da qualche parte.” “Ma se non fosse quella prescelta?” “Impossibile: si può sempre ripartire. È tutto molto dinamico. A volte si perde il treno, ma poi siamo pronti per riprenderlo.” “Come la vita?” “Come la vita.” Non ha detto altro: la sua fermata era lì. Aveva ragione: oggi so il mio desiderio, la mia destinazione. È strano anche dirlo, perché non mi importa più di arrivare: continuo a sorridere anche quando scendo dall’autobus. Vorrei ridere, ridere, ridere e continuare a seguire quel mezzo nel suo eterno scorrere, sedermi ancora, osservare tutti i passeggeri uno ad uno, fino a scorgere, fra loro oppure fuori dal finestrino opaco, la fonte della mia felicità. Capisco che il difficile non sarà essere in eterno movimento, ma fermarmi all’occasione giusta. Chissà se la riconoscerò. Chissà se sarò in grado di piangere di gioia, in quel momento. Ma il vero dubbio che mi tormenta è se non temerò la stabilità: se, davanti alla felicità, avrò il coraggio di fermarmi.