XXVI domenica del TO - Casa Santa Maria Pagliare Spinetoli AP

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XXVI domenica del TO - Casa Santa Maria Pagliare Spinetoli AP
XXVI domenica del T.O. (C)
Am 6,1a.4-7; Sal 146; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31
La prima lettura denuncia l'ingiustizia dei ricchi che non si
accorgono «della rovina di Giuseppe» (regno del nord) ormai prossimo
alla decadenza. Il profeta si propone come sentinella, per mettere in
guardia chi vuole ascoltare e salvarsi.
Am 6,1a: Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si
considerano sicuri sulla montagna di Samaria! (hoy
hasha'anannim betziyon vehabbotchim behar shomron, lett. «Guai agli
spensierati in Sion e confidanti in monte di Samaria»).
La menzione di Sion in un oracolo contro Samaria crea problemi
nell'interpretazione. Si può con Yofre ritenere plausibile che l'espressione
di 6,1, la quale mette in parallelo Sion e Samaria, sia una polemica contro
coloro che si affidano «a tutto ciò che rappresenta Sion (in Giuda) e Samaria (in Israele): organizzazione politica,
potere economico, sicurezza religiosa».
- spensierati … quelli che si considerano sicuri (hasha'anannim … habbotchim). I termini usati esprimono ottimismo, ma è
la stessa euforica fiducia che, secondo la sapienza d'Israele, connota lo stolto (chesil cf Pr 14,16) o il ricco (ashir cf Pr
10,15).
6,4-6: Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli
cresciuti nella stalla. 5Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti
musicali; 6bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della
rovina di Giuseppe non si preoccupano (hashochvim al-mittot shen useruchim al-arsotam ve'ochlim karim
mitzon va'agalim mittok marbeq. 5 happortim al-pi hannável kedavid chashvu lahem keleshir. 6 hashotim bemizreqe
yáyin vereshit shemanim yimsháchu velo nechlu al-shéver yosef).
- 5Canterellano al suono dell’arpa (happortim al-pi hannável, lett. «improvvisanti su bocca dell'arpa»). La traduzione del
verbo happortim è congetturale. Sulla base del confronto con le lingue siriaca, aramaica e araba, il verbo prt (che ricorre
solo qui) potrebbe indicare la divisione sillabica nel canto o il balbettare ovvero l'agire in modo stravagante. Tenuto
conto dello sfondo conviviale e della menzione dell'arpa, in genere i traduttori rendono con «canticchiare,
canterellare», magari schiamazzando, sotto l'effetto del vino. La Settanta traduce: hoi epikrotoũntes; il verbo epikrotéō
ricorre raramente nel testo greco e in genere indica il battere le mani; il traduttore greco ha quindi probabilmente
interpretato il verbo ebraico come espressione del gradimento dell'intrattenimento musicale dei commensali.
- improvvisano (chashvu). Anche il significato del verbo chshb, che fondamentalmente esprime l'idea del «pensare»,
«stimare», «escogitare», va dedotto dal contesto. Di per sé il senso di «escogitare» contiene l'idea di invenzione, perciò
si potrebbe tradurre: «come David inventano per sé strumenti musicali». Nel contesto di un ambiente conviviale e
gaudente, una tale descrizione è carica di ironia. «Forse si tratta semplicemente di utilizzo di posate e piatti per
accompagnare, come se fosse musica, i loro discorsi di ubriachi» (Yofre). Gli studiosi che non accettano una tale
interpretazione attribuiscono al verbo il significato di «comporre, improvvisare» su strumenti. La traduzione CEI ha
optato per questa traduzione.
- 6bevono il vino in larghe coppe (hashotim bemizreqe yáyin, lett. «i beventi in coppe di vino»). Le coppe di cui si parla
qui corrispondono ai «crateri» (κρᾶτήρ) di tipo greco, usati per mescolare vino e acqua, oppure nei riti sacri per
contenere il sangue di animali o le offerte di farina e olio. Qui ciò che viene messo in evidenza non è la sacralità dei
vasi, ma la loro capienza, per sottolineare la quantità di vino consumato.
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6,7: Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti (laken attah yiglu
berosh golim vesar mirzach seruchim).
- orgia (mirzach). Etimo incerto; nell'AT ricorre solo in Ger 16,5, dove designa la casa in cui si fa lutto e nella quale si
svolge il banchetto funebre.
Nella sezione conclusiva del «libro dei guai» (6,1-14), il profeta annuncia che la sicurezza dei capi
sarà abbattuta. Consta di due brani ben distinti di sette versetti ciascuno: 6,1-7, avente per oggetto un'accusa contro i
benestanti capi di Samaria, gaudenti e infingardi; 6,8-14 annuncio di un castigo provocato dall'orgoglio di Israele.
Entrambi i brani hanno carattere oracolare, come specificato dal «guai» iniziale (6,1a), sottinteso anche in 6,3.13, e dal
giuramento di Dio seguito dalla formula «oracolo di Adonay» (6,8).
Il giorno dei guai (6,1-3). La prima parte della sezione è unificata da una serie di participi, tutti introdotti dal
«guai» iniziale, che descrivono lo stile di vita dei ricchi e gaudenti capi della nazione. È un quadro delle ingiustizie
sociali da essi perpetrate e sintetizzate con una frase lapidaria: «Non si preoccupano (lo' nechlù) della rovina di
Giuseppe» (6,6b). Il verbo ebraico indica il «darsi pena, soffrire» per qualcosa; è usato appositamente per evidenziare
il divario tra lo stile di vita spensierato dei capi e la cura da essi negata alla misera situazione di tanti nel popolo. Un
amaro contrasto emerge tra il v. 1: gli spensierati di Sion e quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria e il v. 7:
andranno in esilio. Il soggetto dei participi sono i «notabili» (nequvé), alla lettera «i designati» (cf Nm 1,17; 1Cr 12,32
ecc.), ovvero coloro che sono stati scelti come capi e guide della nazione (6,1b), sotto il regno di Yorob'am I.
L'orgia dei gaudenti (6,4-6). I vv. 4-6 si dilungano nella descrizione dello stile di vita ozioso dei ricchi notabili
che si dilettano in crapule, in ambienti lussuosi, dove si mangia la carne dei migliori animali, si beve il vino non in
normali coppe, ma in larghi crateri che sottolineano l'abbondanza delle libagioni, si ascolta musica, ci si presenta
cosparsi di preziosi unguenti profumati e sdraiati, secondo l'uso straniero, su letti intarsiati d'avorio. Il brano sembra
riprendere 4,1-4 dove si criticano le donne di Samaria, la cui vita gaudente è descritta in modo analogo a quella dei
capi in 6,4-6; in entrambi i casi la conseguenza è l'esilio (cf 4,2-3; 6,7).
La motivazione della punizione è sintetizzata in un lapidario emistichio: «ma non soffrono per la rovina di
Giuseppe» (6,6b); solo a questo punto giunge l'oracolo di sventura riguardante l'esilio (6,7).
La seconda lettura riprende l'immagine della vita cristiana come una bella battaglia (ὁ καλός ἀγών) che le
comunità dei credenti devono sostenere in un mondo ostile, ma comunque da amare. Il vescovo deve testimoniare la
sua fede anche a costo della vita, come ha fatto Gesù dinanzi a Pilato (cf Gv 18,33-37).
1Tm 6,11: Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede,
alla carità, alla pazienza, alla mitezza (σὺ δέ, ὦ ἄνθρωπε θεοῦ ταῦτα φεῦγε· δίωκε δὲ δικαιοσύνην
εὐσέβειαν πίστιν, ἀγάπην ὑπομονήν πραϋπαθίαν.).
- Ma tu (σύ δέ). La preposizione avversativa segnala il passaggio a un nuovo argomento: dalla denuncia del falso
maestro, che approfitta della religione (6,3-10), l'autore prende a parlare del buon soldato di Cristo.
- uomo di Dio, evita queste cose (ἄνθρωπε θεοῦ ταῦτα φεῦγε). Nell'AT questo sintagma è applicato prevalentemente a
Mosè (cf Dt 33,1; Gs 14,6; 1Cr 23,14; 2Cr 30,16; Esd 3,2; Sal 89,1), ma anche a David (2Cr 8,14), a Samuele (1Sam9,6), a
Shema'ya (1Re 12,22), a Elia (1Re 17,18.24; 2Re 1,9-13), a Eliseo (2Re 4,9.16) e a un angelo (Gdc 13,6). Qui chiaramente è
riferito a Timoteo (gr. Τιμόθεος, Timótheos; composto da τιμάω, timáo, "onorare" e θεός, theόs, "dio". Significa quindi
«che onora Dio») e alla figura del vescovo in genere.
- tendi invece (δίωκε δέ). Il verbo diókō («perseguire»), in questo contesto, indica lo sforzo morale di Timoteo per
guadagnare nella pratica il premio che attende il vincitore; in 1Cor 14,1 Paolo esorta allo sforzo per conseguire la virtù
dell'amore, non il semplice «dono»; un concetto analogo è espresso in Col 3,12-17.
- Mitezza (πραϋπαθίαν). Gli elementi che caratterizzano Timoteo come «uomo di Dio» costituiscono un catalogo di
virtù, anch'esso in contrapposizione a quello di vizi, enunciato nella precedente sezione (1Tm 6,4-5). La δικαιοσύνη,
dikaiosýnē, «giustizia», che apre la lista, non sembra avere le forti connotazioni teologiche di Rm 1,17 e 3,21-26, ma si
limita a designare l'equità nei confronti dei membri della comunità. Tale termine, accostato alla εὐσέβεια, eusébeia,
«pietà», esprime la compiutezza della linea proposta a Timoteo: un comportamento giusto e gradito a Dio. La «pietà»
dice la vita credente orientata a Dio. La triade successiva: πίστις, pístis, «fede», ἀγάπη, agápē, «carità» e ὑπομονή,
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hypomoné, «pazienza» è la descrizione dell'identità cristiana ed ecclesiale, quindi, a maggior ragione, connotazione di
colui che ha il ruolo di guida della comunità. L'ultimo requisito, la πραϋπαθία, praüpathía, «mitezza», è un'ulteriore
indicazione antitetica al catalogo dei vizi dei falsi dottori: all'orgoglio, causa della loro permanente litigiosità, si
vuole ora contrapporre la «mitezza» del pastore, pieno di rispetto e di moderazione. Solo in questo caso «mitezza» è
espresso con il termine πραϋπαθία, praüpatía (solo qui nel NT). Alcuni copisti hanno cercato di sostituirlo con il più
ben attestato πραΰτης, praütēs (cf 1Cor 4,21). Solo in alcuni manoscritti si trova la grafia πραότης, praótēs.
6,12: Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato
chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni
(ἀγωνίζου τὸν καλὸν ἀγῶνα τῆς πίστεως, ἐπιλαβοῦ τῆς αἰωνίου ζωῆς, εἰς ἣν ἐκλήθης καὶ ὡμολόγησας τὴν
καλὴν ὁμολογίαν ἐνώπιον πολλῶν μαρτύρων).
- Combatti la buona battaglia della fede (ἀγωνίζου τὸν καλὸν ἀγῶνα τῆς πίστεως). La metafora della lotta si comprende
alla luce del coronamento finale: la vita eterna. La lotta funzionale alla conquista di una simile meta non è quella di un
semplice guerriero ma quella più impegnativa di un vero atleta. È il linguaggio familiare all'apostolo Paolo (1Cor
9,24s; Fil 2,16; 3,12-14). Come Gesù, Timoteo deve cercare di «raggiungere» (ἐπιλαβοῦ, «afferra, conquista») la vita
eterna (τῆς αἰωνίου ζωῆς), promessa a coloro che riporteranno la vittoria. Anche qui, il contrasto con il catalogo di
vizi precedente è evidente: quel catalogo si completava con l'approdo alla «rovina», alla « perdizione » (1Tm 6,9), ora
l'approdo dell'uomo di Dio è appunto «la vita eterna». Quest'ultima, in realtà, più che una conquista è un dono.
- alla quale sei stato chiamato (εἰς ἣν ἐκλήθης). Con il tema della κλῆσις, klễsis, «chiamata» si intensifica il raccordo con
il pensiero di Paolo, per il quale «eletti» e «credenti» sono termini sinonimi (cf Rom 1,6-7). La bella ὁμολογία,
homología, «professione di fede» fatta da Timoteo davanti a molti testimoni (ἐνώπιον πολλῶν μαρτύρων),
rappresenta la risposta alla chiamata, ricevuta nel battesimo. Non si tratta di una particolare professione di fede
pronunciata durante l'ordinazione, né dinanzi ai tribunali, ma del riconoscimento della dignità di Gesù, di cui il
battesimo è segno: «Se con la tua bocca proclamerai (ἐὰν ὁμολογήσῃς, eàn homologésēs): «Gesù è il Signore», e con il tuo
cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9; cf At 2,38-41; 3,16; 11,16-17; 16,30-33).
6,13-14: Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella
testimonianza davanti a Ponzio Pilato, 14ti ordino di conservare senza macchia e in modo
irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
(παραγγέλλω σοι ἐνώπιον τοῦ θεοῦ τοῦ ζῳογονοῦντος τὰ πάντα καὶ Χριστοῦ Ἰησοῦ τοῦ μαρτυρήσαντος ἐπὶ
Ποντίου Πιλάτου τὴν καλὴν ὁμολογίαν, 14τηρῆσαί σε τὴν ἐντολὴν ἄσπιλον ἀνεπίλημπτον μέχρι τῆς ἐπιφανείας
τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ,).
- Davanti a molti testimoni... davanti a Dio (vv. 12-13: ἐνώπιον πολλῶν μαρτύρων … ἐνώπιον τοῦ θεοῦ, henópion pollỗn
martýron … henópion toũ theoũ). Il discorso in 6,12-13 traccia un parallelo tra Gesù, che testimoniò davanti a Pilato (ἐπὶ
Ποντίου Πιλάτου), e Timoteo che dà la propria professione di fede dinanzi a testimoni. Dal punto di vista
grammaticale, però, esiste un collegamento ancor più stretto: come Timoteo fa la propria professione di fede «al
cospetto» (ἐνώπιον, henópion) di molti testimoni, così l'autore gli ingiunge le proprie disposizioni «al cospetto» di
un tribunale divino (5,21). È rilevante che henópion compaia nelle Pastorali solo in riferimento alla Chiesa (1Tm 5,21;
6,12) e a Dio (1Tm 2,3; 5,4.21; 6,13; 2Tm 2,14; 4,1). Il v. 14 si apre invitando a «conservare … il comandamento, 14τηρῆσαί
σε τὴν ἐντολὴν» della fede, che si svilupperà fino al v. 16. Qui, l'attenzione del testo è concentrata sul parallelismo
delle due «professioni-testimonianze» e sul contesto liturgico-battesimale. Il medesimo contesto motiva l'appellativo
di Dio: colui «che dà vita a tutte le cose» (ζῳογονοῦντος, zōogonoũntos). Il battesimo segna il passaggio dalla morte alla
vita, perché, come continua ad attestare Giovanni, «chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio» (1Gv 5,1). A
Timoteo, divenuto creatura nuova in Cristo (cf 2Cor 5,17; Gal 6,15), l'Apostolo ricorda Dio quale artefice di tale
nascita.
- senza macchia e in modo irreprensibile (ἄσπιλον ἀνεπίλημπτον, áspilon anepílēpton). Il primo attributo «senza macchia»,
che non compare altrove nelle Pastorali, è riferito a Cristo agnello (cf1Pt 1,19; Gc 1,27; 2Pt 3,14), mentre la seconda
qualifica «irreprensibile» affiora altre due volte nella lettera e in tutto il NT (1Tm 3,2; 5,7).
- il comandamento (τὴν ἐντολὴν). Il termine entolé nelle Pastorali compare solo qui e in Tt 1,14, dove però ha un senso
molto diverso, riferendosi ai precetti degli eretici. In Gv 10,18 il sostantivo si riferisce al comandamento che Gesù ha
ricevuto dal Padre: dare la vita e prenderla di nuovo; diventa poi il «comandamento dell'amore» che egli consegna ai
suoi (Gv 13,34; 15,12). Questo senso però non sembra congruente con il contesto di 1Tm 6,14. Più che indicare
genericamente le istruzioni di Cristo consegnate ai battezzati, il comandamento a cui si riferisce il nostro autore
sembra riguardare il ministero di Timoteo. Esso è accompagnato dall'articolo, per cui non rappresenta una
particolare mansione. Il riferimento più illuminante è quello della lettera agli Ebrei. Qui si attribuisce un particolare
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«comandamento», nel senso di «mansione», ai leviti (Eb 7,5), e, con il medesimo termine, si definisce l'ordinamento
del sacerdozio levitico che viene superato da un ordinamento nuovo (Eb 7,16.18), quello di Cristo sommo sacerdote al
modo di Melchisedek.
- fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo (μέχρι τῆς ἐπιφανείας τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ). Il
termine usato, ἐπιφανεία, epiphaneía, è mutuato dall'ellenismo, dove indica la manifestazione particolare della
potenza di una divinità o il solenne ingresso di un re vittorioso in una città. Nelle lettere pastorali designa
l'incarnazione (cf 2Tm 1,10), ma più frequentemente la parusia (cf 2Tm 4,1.8; Tt 2,13).
6,15-16: che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e
Signore dei signori, 16il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra
gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e potenza per sempre. Amen (ἣν καιροῖς ἰδίοις
δείξει ὁ μακάριος καὶ μόνος δυνάστης, ὁ βασιλεὺς τῶν βασιλευόντων καὶ κύριος τῶν κυριευόντων, 16ὁ μόνος
ἔχων ἀθανασίαν, φῶς οἰκῶν ἀπρόσιτον, ὃν εἶδεν οὐδεὶς ἀνθρώπων οὐδὲ ἰδεῖν δύναται· ᾧ τιμὴ καὶ κράτος
αἰώνιον, ἀμήν, lett. «che nei tempi propri mostrerà il beato e solo sovrano, il Re degli essenti re e Signore degli essenti
signori, il solo avente l'immortalità, luce dimorante inaccessibile, che non vide nessuno degli uomini, né vedere può:
al quale (sia) onore e potenza eterna, amen».
- al tempo stabilito (καιροῖς ἰδίοις). Il richiamo della manifestazione ultima del Signore consente all'autore di precisare
che il solo protagonista della rivelazione di quell'evento conclusivo del piano salvifico è l'unico Dio. Gli attributi
divini che seguono, danno vita a una dossologia fra le più ricche e originali del NT. I temi sono quelli tradizionali
ma il linguaggio sembra di tenore ellenistico, familiare al giudaismo della diaspora. Nessuna di queste espressioni
può essere definita specificamente cristiana, considerato che è possibile ritrovarle tutte nell'AT. D'altra parte, la scelta
dei titoli sembra intenzionale e riguarda il culto che si rendeva agli imperatori pagani. In aperta contestazione di tale
culto, la dossologia attribuisce tali titoli al Dio unico e vero. L'idea dominante sembra essere quella della sovranità.
- Sovrano (δυνάστης). Dynástēs è presente solo qui in tutto il NT, ed è un titolo sicuramente ripreso dal giudaismo
ellenistico, come anche l'attributo μακάριος, makários, «beato», che lo accompagna. L'altro attributo, μόνος, mónos,
«unico», nonostante le sue ovvie radici anticotestamentarie, sembra essere usato come formula stereotipa, come
accade in altri passi di carattere innico. Anche le altre due formule: ὁ βασιλεὺς τῶν βασιλευόντων καὶ κύριος τῶν
κυριευόντων, «Re dei re e Signore dei signori», pur presenti nell'AT (Dt 10,17; Sal 136,2s; Dn 2,47) e riferiti a Cristo
nell'Apocalisse, richiamano gli attributi dei sovrani orientali. I due ultimi attributi presenti nel v. 16 sottolineano
ancora di più la sovranità e l'assolutezza di Dio: 16ὁ μόνος ἔχων ἀθανασίαν, φῶς οἰκῶν ἀπρόσιτον, «il solo che
possiede l'immortalità e abita una luce inaccessibile». Il primo, athanasía, «immortalità» sottolinea l'incomparabilità
(hapax nel NT ma affine ad áphthartos cf 1Tm 1,17 Rm 1,23). L'idea di inaccessibilità, che integra la precedente, è
evidenziata dalla definizione della dimora di Dio, che abita φῶς οἰκῶν ἀπρόσιτον, phỗs aprósiton «una luce
inaccessibile». L'immortalità di Dio è chiaramente affermata in polemica contro l'apoteosi degli imperatori e
soprattutto contro la loro pretesa di partecipare alla vita divina. Parimenti, il richiamo della dimora di Dio sottolinea
la consapevolezza che solo lui è la luce vera che illumina e salva, che può rivelarsi agli uomini per manifestare la sua
trascendenza, che può volgere verso l'uomo la luce del suo volto e riempirlo dei suoi benefici. L'uomo non può
reggere allo splendore del suo volto, perché la luminosità divina lo annienterebbe. Solo Cristo, immagine perfetta di
Dio (cf 2Cor 4,4), può irradiare la sua gloria (cf Eb 1,3), perché è egli stesso la luce che illumina ogni uomo (cf Gv 1,9;
8,12; 9,5). La dossologia propriamente detta, che chiude il v. 16 («A lui onore e potenza per sempre. Amen»), è vicina a
quella di ITm 1,17, con la sostituzione di doxa (gloria) con kratos (potenza), in conformità al contesto incentrato sulla
sovranità di Dio
- A lui onore e potenza per sempre. Amen (ᾧ τιμὴ καὶ κράτος αἰώνιον, ἀμήν). La dossologia conclusiva è introdotta,
come sovente avviene nel NT, dal pronome relativo ᾧ, «a lui» (cf Rm 16,27; Gal 1,5; 2Tm4,18; Eb 13,21; 1Pt 4,11).
L'autore, dopo aver proferito la censura ai falsi maestri, passa a esortare Timoteo (6,11; 2Tm 3,17).
Lo schema «fuggi, tendi» crea un collegamento con ciò che precede; invece le distorsioni elencate in 6,3-10 vengono
sintetizzate nel solito rimando a «queste cose» da cui Timoteo dovrà fuggire.
Con il primo imperativo si ingiunge a Timoteo di evitare «le cose» cattive appena menzionate. Con altri tre
comandi gli si prescrive una linea di condotta. Il primo di questi tre ulteriori imperativi riguarda il perseguimento di
sei qualità morali (6,11). Sono diversi i modi in cui si potrebbero leggere, ma è preferibile vederli come binomi: la
«giustizia» rimanda al concetto di «pietà», la fede va in coppia con l'amore (cf 1,5), di cui la pazienza e la mitezza
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rappresentano degli aspetti particolari (cf 2Tm 2,25; 3,10; Tt 3,2). Con il secondo imperativo si esorta al buon
combattimento della fede (6,12a), mentre con il terzo al perseguimento della vita eterna (6,12b).
L'invito a «combattere il buon combattimento» (6,12) richiama il bisogno di fermare l'espansione delle eresie
di «alcuni» e promuovere la carità nella Chiesa. In 6,12 l'autore ricorre al vocabolario sportivo («combattimento» nel
senso di lotta greco-romana), mentre nel c. 1 i termini erano soprattutto di ambito bellico; sovente, però, queste due
metafore risultano intercambiabili nell'epistolario paolino. In 6,11 l'immagine agonistica è rafforzata dal verbo
«tendere» che può alludere allo sforzo dell'atleta proiettato verso il premio. Anche in 6,12 come in 1,18 il
combattimento è definito alla lettera «bello»; lo stesso aggettivo qualifica, in 6,12, la «professione» di fede (in greco,
homología) fatta da Timoteo davanti a molti «testimoni»; subito dopo (6,13), si dichiara «bella» anche la «testimonianza»
(in greco, marturía) di Gesù dinanzi a Ponzio Pilato. Tutte queste parole-gancio inducono a ravvisare un collegamento
tra i concetti espressi in questi tre versetti (1,18; 6,12.13).
Affermando che Timoteo «ha professato la sua bella professione» (così alla lettera in 6,12) l'autore usa
l'aoristo, indicando quindi una specifica circostanza. Una buona parte di studiosi pensa al battesimo, ritenendo che
questo riferimento e le varie esortazioni contestuali alla condotta virtuosa possano applicarsi alla vita cristiana in
genere; si vede così un collegamento tra la professione di fede battesimale e la testimonianza resa da Gesù davanti
a Pilato. L'autore esorta Timoteo a cercare di raggiungere «la vita eterna» alla quale è stato «chiamato» (6,12). La «vita
eterna» è indicata in 1,16 come approdo del credente in Cristo; la chiamata si riferirebbe semplicemente alla
vocazione cristiana (1Cor 1,26). La professione di fede è l'opposto del pavido nascondimento di chi arrossisce.
La chiamata alla vita eterna coinvolge la vocazione al ministero (1Tm 6,12), forse persino in termini di
mandato profetico. Infatti, la profezia connota l'ordinazione del ministro (4,14); inoltre, proprio alla chiamata
profetica allude Paolo descrivendo gli inizi della sua vicenda in Cristo (Gal 1,11- 17). Un altro aspetto rilevante emerge
dal confronto con Eb 3,1; 4,14 dove la professione di fede ha come riferimento Cristo «apostolo e sommo sacerdote».
Proprio in Eb 3,1-6 si sviluppa il raffronto tra Gesù e Mosè: riprendendo Nm 12,6-8, l'autore colloca entrambi nella
«casa di Dio», dichiarando che «la sua casa siamo noi» (Eb 3,6). È la terminologia utilizzata in 1Tm 3,15, secondo cui
Timoteo dovrà comportarsi autorevolmente nella «casa di Dio» che è la Chiesa. Quindi, quando il nostro autore
qualifica Timoteo come «uomo di Dio» sta forse alludendo alla funzione attribuita a Mosè.
In ogni caso, «la bella professione» allude a una circostanza solenne, a motivo della presenza di «testimoni» che
tornano nel ricordo della trasmissione del deposito da Paolo a Timoteo (2Tm 2,2) oltre che nei procedimenti contro i
presbiteri accusati di colpe (1Tm 5,17). L'ordine solenne espresso «al cospetto di Dio» e «di Gesù Cristo» (6,13-14)
indica l'importanza di quanto viene comandato dall'autore.
In 6,15-16 il discorso confluisce in una dossologia contenente sette frasi che designano Dio. Alcuni titoli e
qualifiche che affiorano qui gli sono stati già riferititi nel c. 1, soprattutto nella dossologia di 1,17 («Re», «unico»,
«eterno», «invisibile»; cf anche «beato» in 1,11). Si rafforza così l'inclusione tra inizio e fine della lettera. Invece, il
titolo «Signore» è attribuito a Dio solo in 6,15, mentre in 1,2 era applicato a Cristo; analogamente i titoli «Re dei re» e
«Signore dei signori» sono riferiti qui a Dio, ma altrove (Ap 17,14 e 19,16) descrivono Cristo. Alcuni di questi titoli
venivano attribuiti agli imperatori e a figure eroiche; menzionando l'immortalità, però, l'autore chiarisce la differenza
assoluta che sussiste tra i dominatori terreni e l'unico Sovrano eterno, definito già in 1,17 «incorruttibile». Nell'AT la
«luce inaccessibile» indica la sfera del divino (Es 33,17-23); le teofanie e le epifanie bibliche sono sovente
accompagnate da fulgore splendido e fenomeni simili. Pure nel NT Dio è definito «luce» senza tenebre (1Gv 1,7).
L'impossibilità umana di vedere Dio, fortemente enfatizzata in 1Tm 6,16 con ben due espressioni, è concetto
tipicamente biblico (Es 33,20; Gv 1,18), peraltro già enunciato in 1,17. La dossologia del c. 1 è evocata anche
dall'attribuzione a Dio dell'«onore», per la sua estensione eterna e per la chiosa di sapore liturgico (cf 2Tm 4,18).
Il vangelo ci propone la storia del ricco epulone e del povero Lazzaro, tipica di Luca. Si tratta di una
contrapposizione non solo sociale, ma anche religiosa ove si esalta la povertà come modello di protezione divina.
Lc 16,19: C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si
dava a lauti banchetti (Ἄνθρωπος δὲ τις ἦν πλούσιος, καὶ ἐνεδιδύσκετο πορφύραν καὶ βύσσον
εὐφραινόμενος καθ’ ἡμέραν λαμπρῶς).
- C’era un uomo ricco (Ἄνθρωπος δὲ τις ἦν πλούσιος). Questa parabola si trova solo nel Vangelo di Luca. Come il
«ricco stolto» (12,16-21), quest'uomo non è un personaggio simpatico. Il suo modo di vestire ricorda la descrizione dei
ricchi in 7,25. «Porpora e lino finissimo» rappresenta il lusso che solo i reali e i ricchi si possono permettere (cf Gdc
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8,26; Sir 45,10; Est 1,6; 8,15). L'uomo ricco è presentato senza nome. Epulone è un termine generico per indicare
«ghiottone, mangione, persone ricca ed egoista». Questo termine deriva dai Tresviri epulones (in latino: tre
banchettatori) cioè tre sacerdoti, il cui collegio fu creato nel 196 a.C. per organizzare le cerimonie in onore di Giove,
che erano l’elemento fondamentale dei Ludi Magni. È possibile che s. Pietro Crisologo (406–450), vescovo di Ravenna,
sia stato il primo a usarlo in relazione al ricco della parabola. La descrizione del ricco è convenzionale. I suoi vestiti
sono confezionati con i tessuti più preziosi: il vocabolo πορφύρα, porphýra designa innanzitutto una chiocciola di
mare (murex) da cui si estrae il liquido, poi la secrezione stessa, la tintura, la porpora, infine qualsiasi sopravveste o
mantello, tinto con questo colore caldo. Nella letteratura rabbinica la «porpora» (il termine ebraico è uguale al greco) è
riservata ai re e a Dio. Nell'impero romano era privilegio esclusivo degli imperatori. Quanto al βύσσον, býsson, si
tratta di un lino particolarmente fine di provenienza egiziana o indiana, con il quale si confezionavano sopravvesti.
Il colore del «bisso» sembra abbia oscillato tra il bianco e il rossiccio. Le vesti lussuose del ricco, il suo mantello di
porpora e la sua tunica di bisso, erano quindi di un'eleganza perfetta e di colori armoniosi. L'imperfetto
(ἐνεδιδύσκετο, «era vestito») indica un'abitudine e non un'eccezione nel vestire, a confermare così una ricchezza
oltraggiosa.
- ogni giorno si dava a lauti banchetti (εὐφραινόμενος καθ’ ἡμέραν λαμπρῶς, lett. «facendo festa ogni giorno
splendidamente»). Il verbo εὐφραίνω, euphraínō, «far festa, celebrare» in 12,19 e 15,23-32 è usato per delle occasioni
speciali. Ma quest'uomo lo fa ogni giorno! Ogni dettaglio suggerisce il genere di opulenza e di esagerato sfarzo
descritti in Am 6,4-7 o nella «Cena di Trimalchione» nel Satyricon di Petronio (I sec. d.C.) (cf Giovenale, Satire 11,120160; Luciano di Samosata, Il sogno 7-15). Il ricco stolto della parabola precedente (Lc 12, 16-20) diceva alla sua anima:
«Ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti (εὐφραίνου)» (12,19). Si ritrova qui lo stesso verbo εὐφραίνομαι, «rallegrarsi»,
tradotto con «divertirsi», che associa i godimenti erotici con i piaceri della tavola. Per completare il quadro, il testo
aggiunge l'avverbio λαμπρῶς, lamprỗs che denota brillantezza e splendore: «banchettava splendidamente, in modo
sontuoso». La parabola non esprime la colpevolezza del ricco, ma il giudizio è lasciato al lettore. Il torto del ricco non
consiste unicamente nell'aver trascurato il povero Lazzaro, ma anche di essere vissuto in un lusso esagerato.
16,20-21: Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe,
21bramoso
di
sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le
sue piaghe (πτωχὸς δὲ τις ὀνόματι Λάζαρος ἐβέβλητο πρὸς τὸν πυλῶνα αὐτοῦ εἱλκωμένος 21καὶ ἐπιθυμῶν
χορτασθῆναι ἀπὸ τῶν πιπτόντων ἀπὸ τῆς τραπέζης τοῦ πλουσίου• ἀλλὰ καὶ οἱ κύνες ἐρχόμενοι ἐπέλειχον τὰ
ἕλκη αὐτοῦ).
- Un povero, di nome Lazzaro (πτωχὸς δὲ τις ὀνόματι Λάζαρος). L'uso di πτωχὸς, ptōchós, «povero» subito dopo
πλούσιος, ploúsios, «ricco» richiama la prima beatitudine e il primo «guai» di 6,20-24. Il nome «Lazzaro» è la forma
greca di Eliezer, «il mio Dio aiuta» (cf Eliezer servo di Abramo, previsto come suo erede, Gen 15,2-4). La ricchezza del
povero sta nel portare un nome ricco di promesse. È l'unico personaggio di una parabola che è identificato con un
nome. Luca ama identificare col nome i suoi personaggi: Zaccheo (19,2), Cleopa (24,18).
- 21bramoso di sfamarsi (ἐπιθυμῶν χορτασθῆναι). Lazzaro «giace» davanti alla porta del ricco, perciò probabilmente è
anche storpio. È coperto di piaghe. Ha fame. Invece di ricevere qualche aiuto dalla mensa del ricco, sono i cani che
leccano le sue piaghe. Questo non è un tocco sentimentale; ciò che ha a che fare con i cani è immondo, perciò questo
è un altro segno della condizione di emarginato del povero Lazzaro (cf Mt 15,26-27; Mc 7,27- 28; cf m.Kila'yim 1,6; 8,6;
Ned. 4,3; Sot. 9,15; Tohorot 3,8; 4,3; 8,6).
16,22-23: Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco
e fu sepolto. 23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro
accanto a lui (ἐγένετο δὲ ἀποθανεῖν τὸν πτωχὸν καὶ ἀπενεχθῆναι αὐτὸν ὑπὸ τῶν ἀγγέλων εἰς τὸν κόλπον
Ἀβραάμ• ἀπέθανεν δὲ καὶ ὁ πλούσιος καὶ ἐτάφη. 23καὶ ἐν τῷ ᾅδῃ ἐπάρας τοὺς ὀφθαλμοὺς αὐτοῦ, ὑπάρχων ἐν
βασάνοις ὁρᾷ Ἀβραὰμ ἀπὸ μακρόθεν καὶ Λάζαρον ἐν τοῖς κόλποις αὐτοῦ).
- Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo (ἐγένετο δὲ ἀποθανεῖν τὸν πτωχὸν καὶ
ἀπενεχθῆναι αὐτὸν ὑπὸ τῶν ἀγγέλων εἰς τὸν κόλπον Ἀβραάμ, lett. «avvenne poi che morì il povero e fu portato
dagli angeli nel seno di Abramo»). La traduzione tradizionale di κόλπος, kólpos è «in seno», nel senso di «tra le
braccia» o «sulle ginocchia». In Gv 1,18 e 13,23 κόλπος denota una posizione di intimità. L'espressione «nel seno di
Abramo» si trova solo nel Vangelo di Luca e potrebbe derivare dall'antica idea biblica del «ricongiungersi agli
antenati» al momento della morte (Gn 49,33; Nm 27,13; Dt 32,50; Gdc 2,10). Qui Abramo sta per il «padre» di questo
popolo (cf 1,73; 3,8; 13,16.28; 19,9). Gli epigrammi funerari così come le iscrizioni sepolcrali documentano paralleli
all'espressione lucana εἰς τὸν κόλπον, «nel seno di...».
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- Morì anche il ricco e fu sepolto (ἀπέθανεν δὲ καὶ ὁ πλούσιος καὶ ἐτάφη). I due uomini condividono per una volta la
medesima sorte: l'uno e l'altro muoiono e muoiono nello stesso momento. Ma i loro destini sono totalmente diversi.
La connotazione calorosa riservata a Lazzaro, il sostegno degli angeli psicopompi e il seno accogliente di Abramo,
contrasta con la fredda notizia «e fu seppellito», riferita a epulone. Il trasporto del povero non corrisponde al
rapimento di Enoc e di Elia, poiché i due eroi dell'Antico Testamento sono sfuggiti alla morte. Corrisponde in
compenso al destino dei giusti dopo la loro morte.
- 23Stando negli inferi fra i tormenti (ἐν τῷ ᾅδῃ … ὑπάρχων ἐν βασάνοις, lett. «nell'Ade essendo tra i tormenti»). Ade o
Ades è una divinità della mitologia greca, fratello di Zeus, nonché dio degli Inferi; la sua sposa è tradizionalmente
Persefone. Il corrispondente latino è Plutone e Averno. Corrisponde grossomodo all'ebraico sheol. La frase mette in
netto contrasto il ricco «tra i tormenti» con Lazzaro «nel seno di Abramo» per indicare il capovolgimento delle
rispettive sorti.
16,24: Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere
nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”
(καὶ αὐτὸς φωνήσας εἶπεν• πάτερ Ἀβραάμ, ἐλέησον με καὶ πέμψον Λάζαρον ἵνα βάψῃ τοͅ ἄκρον τοῦ δακτύλου
αὐτοῦ ὕδατος καὶ καταψύξῃ τὴν γλῶσσαν μου, ὅτι ὀδυνῶμαι ἐν τῇ φλογὶ ταύτῃ).
- Padre Abramo, abbi pietà di me (πάτερ Ἀβραάμ, ἐλέησον με). Il ricco usa questo titolo qui e nel v. 30. Ma già Giovanni
Battista aveva messo in guardia che non bastava vantarsi di avere «Abramo per nostro padre»; bisognava anche «fare
opere degne della conversione» (3,8). Il grido ἐλέησον με, eléēson me, «abbi pietà di me» verrà rivolto a Gesù in 17,13 e in
18,38-39. L'ironia della parabola è che colui che adesso chiede «pietà» (éleos) è lo stesso che non ha mostrato nessuna
pietà nel fare l'elemosina (eleēmosýnē) al povero Lazzaro. Il ricco, che ha perduto un po' della sua superbia, si mette
quindi a chiedere con insistenza lamentosa. Prudente o con astuta malizia adotta il linguaggio delle persone pie e
invoca: «Padre Abramo» (πάτερ Ἀβραάμ). I dannati dell'apocalittica soffrono spesso le fiamme della fornace o il gelo,
la fame o la sete; supplicano allora i custodi o i visitatori di accordare loro una tregua o un sollievo. Il ricco, che sembra aver interiorizzato la propria colpa, si limita a chiedere un leggero sollievo. Il verbo ὀδυνῶμαι, «sono
tormentato», fa parte del lessico apocalittico.
16,25: Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i
suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti (εἶπεν δὲ
Ἀβραάμ• τέκνον, μνήσθητι ὅτι ἀπέλαβες τὰ ἀγαθά σου ἐν τῇ ζωῇ σου, καὶ Λάζαρος ὁμοίως τὰ κακά• νῦν δὲ ὧδε
παρακαλεῖται, συ δὲ ὀδυνᾶσαι).
- Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni (τέκνον, μνήσθητι ὅτι ἀπέλαβες τὰ ἀγαθά σου ἐν τῇ ζωῇ
σου). In questo caso, il tema caro a Luca del capovolgimento divino è espresso in termini di escatologia individuale:
«i beni» (τὰ ἀγαθά) del ricco si tramutano in sofferenza, mentre «i mali» (τὰ κακά, tà kaká) di Lazzaro sono diventati
«una consolazione» (νῦν δὲ ὧδε παρακαλεῖται, nỹn dè hỗde parakaleĩtai, «ma ora qui è consolato»). Abramo risponde
con tatto: τέκνον, «bambino». Abramo accetta il suo ruolo paterno e non rifiuta al ricco qualunque relazione con il
popolo dell'alleanza. La strategia del testo conduce il lettore a compiere la scelta etica, a decidersi in favore della
condivisione e dell'equità. La consolazione di Lazzaro corrisponde al ristabilimento dell'equità che crea un sentimento di benessere e di giustizia (cf 6,24). Per Luca i ricchi sono degli sventurati perché si accontentano della
«consolazione» solo durante la vita terrena, mentre Lazzaro è beato, poiché gode della «consolazione» eterna. La
legge del contrappasso (dal latino contra e patior, «soffrire il contrario») è un principio che regola la pena che colpisce i
rei mediante il contrario della loro colpa o per analogia ad essa. Lo scrittore e filosofo stoico latino Seneca (4 a.C. –
Roma, 65) fa uso della legge del contrappasso nella sua unica satira Ἀποκολοκύντωσις, Apokolokýntōsis. Il titolo
implica un riferimento al termine greco κολόκυνθα (kolókyntha, "zucca"), forse come emblema di stupidità, ed è intesa
come "trasformazione in zucca", cioè "deificazione di uno zuccone", con riferimento alla fama non lusinghiera di cui
l'imperatore Claudio godeva. Claudio nell'oltretomba viene affidato ad uno dei suoi liberti, perché aveva fama di
esser vissuto in mano dei suoi potenti liberti. Il contrappasso risiede anche nel fatto che Claudio viene condannato a
giocare a dadi, gioco da lui molto amato, perché barava per vincere sempre. Ora viene condannato a perdere per
l'eternità. Dante (Firenze 1265 - Ravenna 1321) adotta la legge del contrappasso nella Divina Commedia.
16,26: Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare
da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi” (καὶ ἐν πᾶσιν τούτοις μεταξὺ ἡμῶν καὶ ὑμῶν
χάσμα μέγα ἐστήρικται, ὅπως οἱ θέλοντες διαβῆναι ἔνθεν πρὸς ὑμᾶς μὴ δύνωνται, μηδὲ ἐκεῖθεν πρὸς ἡμᾶς
διαπερῶσιν).
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- Per di più (ἐν πᾶσιν τούτοις). L'espressione ἐν πᾶσιν τούτοις, en pãsin toútois ha funzione di transizione grammaticale, ma potrebbe anche essere un riferimento «a tutte queste cose» dell'escatologia, dell'oltretomba. Qui c'è un
χάσμα μέγα, chásma méga, «grande abisso» «tra noi e voi»: i pronomi sono al plurale, eppure la comunicazione non
esiste. Il testo insiste sul passaggio impossibile da una parte all'altra (διαβαίνω, «passare», διαπεράω, «attraversare»)
e sulla differenza dei luoghi μεταξὺ ἡμῶν καὶ ὑμῶν, «tra noi e voi»). Questa situazione invalicabile non è necessariamente eterna; è quella - certamente implacabile - del tempo dell'attesa degli avvenimenti ultimi, del giudizio finale
e della risurrezione dei morti.
16,27-28: E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre,
28perché
ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di
tormento” (εἶπεν δὲ ἐρωτῶ σε οὖν, πάτερ, ἵνα πέμψῃς αὐτὸν εἰς τὸν οἶκον τοῦ πατρός μου, 28ἕχω γὰρ πέντε
ἀδελφούς, ὅπως διαμαρτύρηται αὐτοῖς, ἵνα μὴ καὶ αὐτοὶ ἔλθωσιν εἰς τὸν τόπον τοῦτον τῆς βασάνου).
- Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre (ἐρωτῶ σε οὖν, πάτερ, ἵνα πέμψῃς αὐτὸν εἰς τὸν οἶκον
τοῦ πατρός μου). Il ricco non si scoraggia e rivolge ad Abramo una nuova richiesta. La preghiera è meno egoista, ma
rimane nondimeno interessata, giacché al ricco preme proteggere il suo clan o la sua famiglia in senso esteso: «a casa
di mio padre», dove ha «cinque fratelli», probabilmente più giovani di lui, di «cui deve» avere la responsabilità a
partire dalla morte del loro padre. Ciò che il ricco chiede non è la risurrezione di Lazzaro, ma un'apparizione del
defunto.
- Li ammonisca severamente (διαμαρτύρηται αὐτοῖς). È lo stesso verbo usato per dire «rendere testimonianza»
(διαμαρτύρομαι, diamartýromai) che Luca usa costantemente negli Atti per la testimonianza resa a uno che è
risuscitato dai morti (At 2,42; 8,25.40.42).
- in questo luogo di tormento (εἰς τὸν τόπον τοῦτον τῆς βασάνου). L'espressione si adatta perfettamente a una
descrizione del regno dei morti. Si tratta proprio di un «luogo» dove si subiscono tormenti a titolo di punizioni.
16,29-30: Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”.
30E
lui replicò: “No, padre
Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno” (λέγει δὲ Ἀβραάμ• ἔχουσιν
Μωϋσέα καὶ τοὺς προφήτας• ἀκουσάτωσαν αὐτῶν. 30ὁ δὲ εἶπεν• οὐχὶ, πάτερ Ἀβραάμ, ἀλλ’ ἐάν τις ἀπὸ νεκρῶν
πορευθῇ πρὸς αὐτοὺς μετανοήσουσιν).
- Hanno Mosè e i Profeti (ἔχουσιν Μωϋσέα καὶ τοὺς προφήτας). Cioè, hanno le Scritture con tutta la loro forza
profetica. Soprattutto, in questo contesto (cf 16,16), hanno il dovere di aver cura dei poveri e dei bisognosi tra la
popolazione (cf Es 22,21-22; 23,9; Lv 19,9-10; 19,33; 23,22; Dt 10,17-19; 14,28-29; 15,1-11; 16,9-15; 24,17-18; 26,12-15; Am
2,6- 8; Os 12,7-9; Mi 3,1-3; Sof 3,1-3; Ml 3,5; Is 5,7-10; 30,12; 58,3; Ger 5,25-29; 9,4-6). Quest'obbligo fondamentale della
fedeltà all'alleanza è un inconfondibile insegnamento della Torah in ogni sua parte. Abramo risponde in maniera
giudaica. La Scrittura, intesa nelle sue due parti essenziali (Torah, Nevi'im) è ancora percepita come annuncio orale
trasmesso dai testimoni che Dio si è scelto. Vi sono quindi tre richieste successive del ricco sottoposto ai tormenti. Se
la prima fa parte della parabola originaria, la seconda (vv. 27-29) corrisponde a un primo sviluppo della parabola in
un ambiente giudeocristiano che mantiene l'obbedienza alla legge come condizione di salvezza. La testimonianza
efficace nella quale il ricco spera (ὅπως διαμαρτύρηται αὐτοῖς, «affinché li ammonisca») non è né il richiamo ai
comandamenti di Dio né l'evocazione del kerygma cristiano, ma la dimostrazione convincente compiuta da un
prodigio. Abramo rifiuta ogni segno miracoloso che fosse separato dalla fede e che soprattutto mettesse da parte
l'obbedienza.
- si convertiranno (μετανοήσουσιν). Il termine usato è metanoeĩn, «convertirsi», che descrive la risposta da dare
all'ascolto della parola di Dio pronunciata da un profeta (cf 10,13; 11,32; 13,3-5; 15,7-10). L'abisso che lo ha inghiottito è
il non aver dato ascolto ai profeti e il non essersi «ravveduto» mentre era in vita.
16,31: Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno
risorgesse dai morti”» (εἶπεν δὲ αὐτῷ• εἰ Μωϋσέως καὶ τῶν προφητῶν οὐκ ἀκούουσιν, οὐδ’ ἐάν τις ἐκ νεκρῶν
ἀναστῇ πεισθήσονται).
- non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti (οὐδ’ ἐάν τις ἐκ νεκρῶν ἀναστῇ πεισθήσονται, lett. «neppure
se qualcuno dai morti risorgesse sarebbero convinti»). Il verbo πείθω, peíthō significa «convincere» (cf At 13,43; 14,19;
17,4; 18,4). Al passivo, «essere convinto», «essere persuaso», è affine a «credere» o «fidarsi di» (11,32; 18,9; 20,6; At
5,36-37), e infatti alcuni manoscritti hanno «crederanno». Il verbo «risorgere» (ἀνίστημι, anístēmi) è lo stesso usato di
frequente da Luca per la risurrezione di Gesù (9,22; 18,33; 24,9.46; At 2,24.32; 3,22.26; 13,32). Alcuni manoscritti hanno
ἐγείρω, egeírō («innalzare, sollevare») che Luca usa altrettanto spesso nello stesso senso (7,14; 9,7.22; 20,37; 24,6.34; At
8
3,7.15; 4,10; 5,30; 10,40; 13,30.37). Il significato e l'allusione sono gli stessi in entrambi i casi: la dichiarazione guarda
oltre la parabola, a Gesù che Dio ha risuscitato, come verrà proclamato nel racconto degli Atti.
Ecco, raccontata diligentemente una storia bella e triste, una storia immaginaria. Al pari delle
narrazioni che l'accompagnano, le parabole del buon samaritano e del figliol prodigo, questa storia invita alla buona
azione e all'imitazione di Lazzaro, alla conversione e all'etica dei primi discepoli di Gesù. Di qui la sua classificazione
come storia esemplare.
Malgrado questa semplicità e bellezza, i lettori sono stati incuriositi o sconvolti da diversi elementi. La
durezza di Abramo è compatibile con la misericordia cristiana? La descrizione dell'aldilà è reale e normativa?
Esiste un'allusione alla risurrezione di Cristo nel v. 31? Lazzaro è consolato a causa della sua povertà o della sua
pietà? Inversamente, il ricco è punito per la sua ricchezza o per la sua mancanza di carità? Perché il povero ha un
nome e il ricco no? Si può attribuire un racconto, tanto insolito, al Gesù storico?
La parabola del ricco e del povero ha qualche altra analogia nella letteratura antica. Il tema della ricchezza che
dopo la morte subisce un capovolgimento è stupendamente espresso, ad esempio, nei Dialoghi dei morti di Luciano di
Samosata (120 circa – Atene, tra il 180 e il 192). Lo scenario escatologico, invece, e in particolare l'atteggiamento negativo verso il ricco oppressore, trovano un migliore parallelo nello scritto apocalittico ebraico 1Enoch 94-99. Questo
«guai» di 1 Enoch 94,8 potrebbe fare da commentario alla parabola di Luca: «Guai a voi, o ricchi, perché avete fatto affidamento sulle vostre ricchezze, ma dalle vostre ricchezze vi dovrete separare, perché non vi siete ricordati
dell'Altissimo nei giorni della vostra ricchezza».
Si può dire che la parabola di Luca in 16,19-31 rappresenta una perfetta esposizione narrativa della sua
stessa beatitudine e del «guai» in 6,20.24. I personaggi rappresentano categorie generiche: «c'era un uomo ricco», «un
mendicante». Di nessuno dei due è data in modo diretto una valutazione morale. La parabola è l'esempio di un
drammatico capovolgimento delle sorti che raggiunge il suo culmine espressivo nei vv. 25-26. Colui che ha «ricevuto i
suoi beni» nella vita, adesso è nei tormenti; colui che nella vita ha avuto solo «i suoi mali», adesso è «così consolato».
Niente moralismi, ma solo il capovolgimento divino promesso dal discorso della pianura.
Ma, come nella parabola del figlio ritrovato, c'è un'appendice che complica un po' la storiella e le dà un
risvolto polemico. Il ricco chiede che Lazzaro venga mandato a mettere in guardia i suoi fratelli. Questa richiesta
non solo rivela la perdurante arroganza del ricco, ma suggerisce anche al lettore che, di fatto, c'era una motivazione
morale per questo capovolgimento. Quest'uomo non era stato solo ricco e stravagante, ma anche duro di cuore. La sua
ricchezza lo aveva reso insensibile agli obblighi della Legge e dei Profeti: l'alleanza richiede la condivisione dei
beni con i poveri. L'espressione concreta di questa inosservanza della Legge era stata la sua noncuranza per il
mendicante seduto alla sua porta. C'è infatti un detto nel Talmud secondo cui «chiunque distoglie lo sguardo da uno
che chiede la carità è considerato come se servisse gli idoli» (bT Bava' Batra' [«Ultima porta». Leggi sulla proprietà].
10a). Perciò, la risposta di Abramo: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro» vale in primo luogo per questo ricco.
Questo significa che se avesse dato da mangiare al mendicante che bramava di «sfamarsi di quello che cadeva dalla
mensa del ricco», avrebbe potuto evitare di trovarsi in questa situazione.
Le parole di Abramo fanno intendere che la situazione di quest'uomo, come pure dei suoi fratelli, è
insanabile. Sono tutti ugualmente immischiati nel rifiuto della Legge e dei Profeti, perché vivono con la stessa
noncuranza che aveva dimostrato lui. Le parole conclusive della parabola mettono il sigillo al loro rifiuto: «neanche se
uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi» (16,31).
La parabola quindi ha per tema il rifiuto. Presentando Gesù che la propone ai farisei, che ha già definito
«attaccati al denaro» (16,14), Luca la applica direttamente al loro rifiuto. Come il ricco della parabola ha conculcato il
precetto della Legge e dei Profeti di fare l'elemosina, così essi si sono «fatti beffe» dell'insegnamento di Gesù sul valore
dell'elemosina (16,9-13). E nonostante la loro pretesa di essere osservanti dei precetti della Legge, essi trascurano i
diseredati presenti tra loro (15,1-2), esattamente come il ricco ha trascurato il povero Lazzaro. Pertanto, come al ricco
della parabola è stato negato un posto tra il popolo («nel seno di Abramo»), così anch'essi saranno esclusi dal
popolo. Infine, la parabola guarda oltre il suo contenuto alla più ampia narrazione di Luca-Atti. Il lettore non può fare
a meno di notare il riferimento in 16,31 alla risurrezione di Gesù, che i capi rifiuteranno per l'ennesima volta, quando
si rifiuteranno di ascoltare le parole degli apostoli nel racconto degli Atti.
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