La storiografia italiana dell`ultimo trentennio sulla finanzia in età
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La storiografia italiana dell`ultimo trentennio sulla finanzia in età
I. SAGGI La storiografia italiana dell’ultimo trentennio sulla finanza in età contemporanea: borsa, assicurazioni e finanza pubblica di FRANCESCO BALLETTA Premessa Consentitemi di aprire questa rassegna sulla storia finanziaria italiana relativa al XIX e XX secolo con un’affermazione che può sembrare pesante: la storia finanziaria italiana dell’età contemporanea è ancora tutta da scrivere, le ricerche finora condotte hanno solo portato alla luce pochi aspetti e pochi momenti di vicende che, per loro natura, sono complesse ed hanno bisogno di una buona preparazione delle tecniche finanziarie e contabili per capirne il significato. Per chiarire questa affermazione devo prima stabilire cosa intendo per storia finanziaria: è la somma della storia bancaria, della storia delle assicurazioni, della storia delle borse, della storia dello scambio dei titoli azionari e obbligazionari non quotati in borsa e della storia della finanza pubblica, intesa come finanza dello stato e finanza degli enti locali. Le ricerche relative all’età contemporanea hanno avuto un diverso approfondimento. Più numerose e meglio argomentate quelle di storia bancaria, che, comunque, in questa occasione, non tratterò. Sono state solo avviate quelle di storia delle assicurazioni, che, dopo le banche, gestirono la fetta più significativa del risparmio privato e pubblico. Sono avviate, ma spesso condotte male, le ricerche sul mercato borsistico. La storia del mercato dei titoli fuori borsa non è stata neanche iniziata. Le ricerche di finanza pubblica sono state avviate fin dall’Ottocento, ma, negli ultimi decenni, hanno subìto un grave rallentamento. Mi occuperò di ricerche che hanno studiato i capitali veicolati dalle borse e dalle imprese di assicurazione, nonché dal risparmio gestito dagli enti pubblici, mettendo in luce il funzionamento e la trasparenza dei mercati attraverso la libera competizione economica e l’ottimale allocazione delle risorse, cioè evidenziando l’ideologia dell’“ottimo paretiano”, che, alla fine dell’Ottocento, fu teorizzato da Vilfredo Pareto, come perfezionamento logico del mercato. I due 83 elementi che terrò in considerazione sono i seguenti: 1) le decisioni prese dagli individui e dalle famiglie del capitalismo italiano; 2) il sistema istituzionale in cui essi operarono e le politiche economiche attuate dai governanti. Pareto tenne conto delle preferenze degli operatori finanziari non in relazione alla utilità che le loro decisioni ebbero per la società, bensì in base ai rapporti che scaturivano fra gli individui, per cui gli operatori del mercato finanziario agivano, in maniera fredda e precisa, in vista di un proprio vantaggio e in danno per la controparte. In relazione al sistema istituzionale in cui operavano, gli interventi di politica economica e, più specificamente, di politica fiscale, vengono visti in relazione ai vantaggi che arrecavano alla società in generale o creavano favori per alcuni e danni per altri componenti della stessa società. In questo ambito rientrano le valutazioni degli investimenti finanziari, per cui gli economisti si sono divisi fra i sostenitori dell’approccio istituzionale-normativo e quello di tipo economico-positivo. Il primo tiene conto – ai fini della valutazione delle imprese, della distribuzione dei dividendi e delle decisioni di investimento – della organizzazione dell’impresa e delle norme che la regolarono. Il secondo, che si riferisce al modello di Modigliani e Miller – conosciuto anche come New Finance –, è molto più teorico, poiché tiene conto di mercati perfetti di capitali, in assenza di imposizioni fiscali nonché tassi di interesse passivi analoghi per le imprese e per gli azionisti, per cui la struttura finanziaria, con tali condizioni, non avrebbe nessuna influenza sul valore delle imprese societarie, “poiché il maggior rischio conseguente ad un più intenso sfruttamento della leva finanziaria, spinge verso l’alto la remunerazione richiesta dagli azionisti per acquisire titoli della società in misura esattamente equivalente alla maggiore redditività garantita dallo stesso effetto leva”1. Pertanto con modello Modigliani e Miller viene messa in dubbio l’utilità della politica finanziaria aziendale. Partendo dall’ottimo paretiano, in un mercato perfetto, vale il principio del più forte che deve distruggere il più debole, nell’esaminare il contenuto della storiografia italiana sui problemi finanziari abbiamo seguito come filo conduttore gli interventi a livello governativo o della banca centrale o dei responsabili della politica finanziaria (i cosiddetti “gnomi della finanza”), che furono effettuati per mettere delle regole, affinché si attenuassero le conseguenze del principio paretiano. In questo intervento, abbiamo cercato di seguire le tensioni che si crearono fra potere centrale e poteri locali o specifici; se vi fu una sopraffazione delle regole o degli indirizzi di politica economica; quale fu la redistribuzione della ricchezza prodotta dagli interventi centrali. I maggiori artefici degli interventi in materia di finanza, dall’unità d’Italia ai nostri giorni, furono Minghetti, Sella, Depretis, Crispi, Luzzatti, Beneduce, 1 G. BERTINETTI, La finanza dei grandi gruppi aziendali italiani, Egea, Milano, 1994, p. 83. 84 Stringher, Menichella, Mattioli, Cuccia, La Malfa e Carli. Particolarmente interessante sarà la ricostruzione storica del mercato finanziario italiano dal primo dopoguerra ai nostri giorni, allorché si attuò una politica di contenimento del mercato borsistico e di sostegno del mercato bancario. Questo processo, che fu voluto da Beneduce e sostenuto, successivamente, dai suoi seguaci – Menichella, Mattioli, Cuccia, La Malfa e Carli –, si estrinsecò, principalmente, attraverso le leggi bancarie del 1926 e del 1936, in base alle quali il potere monetario – detenuto dalla Banca d’Italia e dal Tesoro – controllò il mercato finanziario italiano ed aprì la strada ad un sempre maggiore intervento dello stato nell’economia. Ciò significò un vero e proprio blocco del mercato finanziario. Solo dall’inizio degli anni Novanta del Novecento, con la creazione della Consob, si cominciò ad avere un mercato borsistico più aperto e informato a regole di controllo, che tuttavia furono insufficienti a contenere le speculazioni spietate. Sull’importanza dello studio del capitalismo finanziario italiano, mi limiterò a qualche considerazione effettuata da Luciano Segreto in un articolo pubblicato sul primo numero della “Rivista di Storia Finanziaria”. Gli studiosi del capitalismo finanziario, egli scriveva, “si muovono controcorrente rispetto agli altri studiosi che hanno offerto interpretazioni generali della storia del capitalismo italiano”2. Si tratta di un’altra immagine del capitalismo, “che fatica talvolta a coesistere con quella già consolidata dagli studiosi precedenti, quasi come se chi se ne occupa parlasse un’altra lingua e si riferisse a un altro capitalismo”3. Per dimostrare questa sua affermazione, Segreto confronta il censimento industriale del 1911 con quello del 1951 e i capitali investiti nelle società per azioni nello stesso periodo. In base ai censimenti, il maggior numero di occupati, nel 1911, si aveva nei settori tessile, alimentare e meccanico; nello stesso periodo, le prime 100 società con maggiore capitale si investito trovano nei seguenti settori: finanziario, bancario, della navigazione, immobiliare e elettrico e chimico. Nel 1951, i censimenti riportavano che le società con maggior numero di operai erano le stesse del 1911. Dal punto di vista finanziario, le società con maggiori capitali, a partire dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta, erano le società elettriche, seguite da quelle meccaniche e dalle banche. Se prendiamo in considerazione le capitalizzazioni di borsa, la situazione non cambia e troviamo in testa le banche e le società elettriche. Ciò significa che questi due settori – rappresentati da Motta, Pirelli, Feltrinelli, Volpi e Beneduce – erano i più forti del capitalismo italiano ed erano quelli che, durante il periodo fra le due guerre, ebbero un maggiore peso sulla politica del fascismo per i capitali che il settore era capace di rimuovere. 2 L. SEGRETO, Assetti proprietari e grandi mediatori in Italia nella prima metà del Novecento, in “Rivista di Storia Finanziaria”, n. 1, luglio-dicembre 1998, p. 9. 3 Ibidem. 85 Tenendo conto dell’importanza finanziaria dell’industria elettrica, Luciano Segreto propone finanche una diversa periodizzazione della storia industriale italiana. La crescita del capitalismo finanziario italiano, dalla fine dell’Ottocento alla fine della prima guerra mondiale, ebbe la sua evoluzione grazie agli investimenti nel settore elettrico effettuati da alcune holding estere. Negli anni Venti, si ebbe il consolidamento di alcuni gruppi finanziari regionali; nel 1933, si ebbe la massiccia presenza dello stato nel capitalismo con l’entrata nell’IRI nel settore elettrico. Nel 1935, le privatizzazioni dell’Edison e della Bastogi durarono fino alla nazionalizzazione del 1962-63. I protagonisti di questo capitalismo furono: Fiat, Pirelli, Edison, Gruppo Sade, SME, Italcable, IRI, Fondiaria, Ras, Generali, Banca Toscana, Monte dei Paschi di Siena e Banco di Napoli. Anche il mondo delle assicurazioni ebbe un ruolo importante nel capitalismo finanziario che si formò fra le due guerre. Nel secondo dopoguerra, non vi furono grandi mutamenti nell’assetto proprietario delle grandi famiglie del capitalismo italiano. Mentre Beneduce fu l’artefice e il garante delle caratteristiche del capitalismo italiano nel periodo fra le due guerre mondiali, Mediobanca, sotto la direzione di Cuccia (genero di Beneduce), operò per la conservazione del potere finanziario di quelle famiglie. I movimenti diretti a scompaginare quegli equilibri furono sempre rapidamente soffocati. Cambiarono i governi, mutarono le politiche, la congiuntura economica subì profonde variazioni, ma il potere finanziario di pochi rimase immutato, ciò dimostra che si trattò di un potere dotato di propri tempi e proprie caratteristiche che si distinguono da altri movimenti4. I. La storiografia sul mercato borsistico 1. Le testimonianze dei protagonisti Le ricerche sulla borsa hanno due facce: quella relativa allo studio delle manovre finanziarie condotte dalle grandi famiglie del capitalismo italiano e quella relativa allo studio delle istituzioni e del mercato borsistico legato al comportamento degli investitori. Le difficoltà relative alle prime ricerche dipendono dall’ermetismo dei protagonisti di quelle manovre e dai contrasti che vi furono fra loro, senza escludere la politica dei governanti, che, attraverso la manovra monetaria, la politica fiscale e quella delle privatizzazioni, regolarono, spesso, quel comportamento. Lo studio del mercato borsistico cozza con le difficoltà per la ricostruzione di una “storia economica dell’informazione”, la quale ebbe un peso determinante sul comportamento del risparmiatore. Determi4 Ibidem, pp. 14-16. 86 nante per comprendere il mercato è la conoscenza degli indicatori fondamentali, i quali dipendono dalla conoscenza della contabilità delle imprese. Appartengono alla categoria delle pubblicazioni relative al comportamento degli attori principali del capitalismo i volumi scritti da giornalisti. Si tratta degli interessanti lavori di Fabio Tamburini sulla vita di due protagonisti del mercato finanziario italiano – Enrico Cuccia e Aldo Ravelli – e i volumi di Stefano Cingolani, Eugenio Scalfari e Giuseppe Turoni sulla borghesia finanziaria italiana5. Fabio Tamburini è un giornalista molto attento all’evoluzione del mercato finanziario, ma non lavora su documenti, né sulle dichiarazioni di Cuccia – d’altro canto raramente mise in pubblico il suo pensiero –, bensì su interviste di numerosi protagonisti dell’economia e della politica italiana. Nel volume dedicato a Cuccia, viene delineata la figura del grande manovratore della finanza italiana, garante della stabilità del sistema, per cui le sue decisioni influirono sugli assetti proprietari delle grandi imprese italiane: Montedison, Pirelli, Generali, Fondiaria, Burgo, Olivetti, Fiat e molte altre. Tutte imprese, spesso, gestite da famiglie, pronte a distruggersi a vicenda pur di conquistare una fetta sempre più grossa del mercato finanziario italiano. L’autore sostiene che è possibile gestire la finanza di un paese senza esserne proprietario. È il caso di Cuccia, che aveva la sola direzione di Mediobanca, ma ha influito per mezzo secolo sulla finanza italiana. Nonostante la pubblicazione di Tamburini, prima di arrivare a chiarire le manovre finanziarie messe in atto dallo “gnomo” della finanza occorrerà scavare molto sui documenti conservati negli archivi delle imprese6. Il secondo volume di Tamburini è dedicato ad un uomo, Aldo Ravelli, che, come Cuccia, riteneva che “il silenzio fosse d’oro”. Nel settore finanziario, bisogna essere molto riservati se non si vogliono commettere errori. Sulla base di questo principio, Ravelli – un uomo di sinistra “con il portafoglio a destra” – fu il grande vecchio e uno dei maggiori protagonisti di “piazza affari”. Morto, nel 1995, all’età di ottantatré anni, fu presente in tutte le grandi operazioni che si fecero alla Borsa di Milano, dal dopoguerra in poi, in qualità di “ribassista implacabile, abilissimo nel guadagnare puntando sul crollo dei titoli azionari”7. Nell’intervista che concesse a Tamburini, racconta le vicende di cui fu protagonista. Viene alla luce uno spaccato nuovo della storia economica e finanziaria 5 F. TAMBURINI, Un siciliano a Milano. Nella storia di un protagonista le vicende della finanza e dell’economia italiana dal dopoguerra ad oggi, Longanesi e C., Milano, 1992; F. TAMBURINI, Misteri d’Italia. Aldo Ravelli, il re Mida della Borsa, racconta come diventare ricchi, i segreti dei potenti, io e la sinistra, Longanesi e C., Milano, 1996; S. CINGOLANI, Le grandi famiglie del capitalismo italiano, Editori Laterza, Roma-Bari, 1990; E. SCALFARI e G. TURANI, Razza padrona. Storia della borghesia di Stato e del capitalismo italiano, 1962-1974, Baldini e Castoldi, Milano, 1998. 6 F. TAMBURINI, Un siciliano a Milano, cit., pp. 7-12. 7 F. TAMBURINI, Misteri d’Italia, cit., p. 7. 87 d’Italia basato sulle vicende di tre borghesie: “quella di Agnelli e Pirelli, quella di Berlusconi e quella di Cosa Nostra”8 e che comunque “c’è una sproporzione enorme – egli afferma – tra l’illecito scoperto dai magistrati e quanto è realmente accaduto. Sono rimasti quasi completamente inesplorati gli intrecci esistenti tra l’alta finanza, la politica, i servizi segreti e la mafia”9. I due volumi di Tamburini, pur non potendosi considerare lavori scientifici, sono testimonianze dei protagonisti della finanza italiana, pertanto costituiscono il primo approccio per le future ricerche. Nello stesso filone riteniamo di includere il volume del giornalista Stefano Cingolani, sulle grandi famiglie del capitalismo italiano nel ventennio 1970199010, dove vengono rilevati i rapporti di forza esistenti fra la proprietà delle imprese e il management. Le vicende dei protagonisti del capitalismo finanziario trovano stretta connessione con l’economia di quel periodo, per cui l’autore rileva una certa minore dipendenza – rispetto ai decenni del fascismo e del periodo della ricostruzione – dei mezzi propri delle imprese accompagnata dal rafforzamento dell’assetto proprietario e la conseguente riduzione del credito bancario; un maggiore ricorso al capitale di rischio; un rafforzamento della grande impresa affidato alla direzione manageriale. In questo processo, si ebbe il sostegno dello stato e la presenza di “un tempio” assieme a un “gran sacerdote” del capitalismo italiano, Mediobanca ed Enrico Cuccia, “l’uno fornì la stanza di compensazione dei maggiori conflitti, l’altro cercò di dirimerli, ma favorì anche quando riteneva necessario che esplodessero”. “Senza conoscere l’uno e l’altro – conclude Cingolani – non si capisce la storia economica di questo dopoguerra e soprattutto del ventennio [1970-1990] più tumultuoso del capitalismo italiano”11. Cingolani riconosce l’importanza degli avvenimenti finanziari per la ricostruzione della storia economica, tuttavia il suo lavoro può essere considerato solo come l’interpretazione di avvenimenti vissuti da giornalista, per cui possono considerarsi, prevalentemente, cronache e non ancora storia. Le stesse caratteristiche possiede il volume di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani dal titolo emblematico “Razza padrona. Storia della borghesia di Stato e del capitalismo italiano 1962-1974”12. Un volume pubblicato, nel 1974, e ristampato dopo venticinque anni, nel 1998, senza alcuna aggiunta o modifica, perché la storiografia finanziaria sull’argomento non ha fatto passi avanti. Il libro potrebbe intitolarsi “una preziosa occasione perduta dal capitalismo ita- 8 Ibidem, p. 202. Ibidem, retro della sovracoperta. 10 S. CINGOLANI, Le grandi famiglie del capitalismo italiano, Editori Laterza, cit., pp. 275-276. 11 Ibidem, p. 87. 12 E. SCALFARI e G. TURANI, Razza padrona, cit. 9 88 liano”, poiché i capitali che lo stato pagò per la nazionalizzazione dell’energia elettrica avrebbero potuto trovare una giusta collocazione per il rafforzamento del capitalismo privato, invece, una metà di quei capitali, attraverso l’IRI e la Montecatini, fu gestita dalla borghesia di Stato e l’altra metà, secondo gli autori, fu “dispersa, polverizzata, dissipata”13. La nazionalizzazione contribuì a far scomparire le famiglie del “gruppo veneto” dell’energia elettrica (Volpi, Cini e Gaggio) della Bastogi e della Centrale. Sotto i colpi di Eugenio Cefis scomparvero quasi tutti i componenti del Consiglio di Amministrazione della Bastogi, che può considerarsi una delle prime società finanziarie italiane. “Il salotto buono dei vecchi padroni era stato brutalmente invaso dalla nuova borghesia di stato guidata dal presidente della Montedison (Cefis). Dei nomi antichi si era salvato solo Pesenti, in forza dell’alleanza contratta con nuovi padroni”14. Il giudizio degli autori sull’utilizzo dei capitali pagati dallo stato per la nazionalizzazione è molto severo: “quei miliardi furono sprecati al vento. Peggio: misero in moto o aggravarono una serie di elementi negativi di carattere industriale, finanziario e politico che contribuirono potentemente alla degenerazione del sistema quale oggi lo conosciamo”15. Si tratta del giudizio di due osservatori della realtà, che hanno vissuto dall’esterno le vicende finanziarie del periodo 1964-74, ma la storia vera di quel periodo bisogna ancora scriverla. Pur rientrando nel filone della storia dei protagonisti del capitalismo italiano, diversa è la pubblicazione di Nicola De Ianni sui rapporti finanziari intercorsi fra Gualino ed Agnelli, fra il 1917 e il 192716. Essa ha spessore scientifico, perché costruita su una documentazione inedita, costituita dalle carte dell’Archivio personale di Gualino. Da questo lavoro si ricava l’applicazione della teoria dell’ottimo paretiano, per cui si ha una ottima allocazione delle risorse, non in base alla loro utilità per le società, bensì in base alle circostanze che al miglioramento della condizione di un individuo corrisponde il peggioramento di un altro. Così vengono alla luce complesse manovre finanziarie compiute da Giovanni Agnelli e Riccardo Gaulino per accaparrarsi delle proprietà della Fiat, ricorrendo, durante la prima guerra mondiale, al mercato dell’azionariato diffuso e, dopo la guerra, alle finanziarie ed ai sindacati di blocco. Un momento centrale dei rapporti fra i due protagonisti del capitalismo italiano fu la vicenda dell’occupazione della Fiat da parte degli operai. Agnelli si oppose alla pressione degli operai e decise di vendere le azioni di sua proprietà. Gualino divenne proprietario della Fiat acquistando il 75 per cento del capitale. Solo quando 13 14 15 16 Ibidem, p. 29. Ibidem, p. 27. Ibidem, p. 22. N. DE IANNI, Gli affari di Agnelli e Gualino (1917-1927), Prismi, Napoli, 1998. 89 passò la ventata di agitazioni, Gualino, che era principalmente impegnato a far quattrini e non gestire una impresa industriale, rivendette la società ad Agnelli. Questo episodio, poco noto alla storiografia sulla industria italiana, chiarisce quanto sia importante ricostruire gli avvenimenti sulla documentazione inedita. Tra le numerose novità del volume di De Ianni vanno sottolineate le scalate che Gualino fece al Credito Italiano, specialmente la terza, quando il governo, presieduto da Mussolini, nel 1924, per bloccare l’operazione, sospese il diritto di sconto, costringendo Gualino a rivendere le azioni della banca. La vicenda mette in luce l’importanza che il potere politico attribuiva alle manovre finanziarie ed ai rapporti esistenti fra potere politico e imprenditori. In questo caso, viene alla luce il rapporto di forza fra potere politico e potere finanziario. Questo rapporto vale anche per Bondi, Perroni, Ravelli, De Benedetti e moltissimi altri che utilizzarono la borsa per le loro manovre finanziarie, influendo negativamente sull’economia reale. 2. Le istituzioni e il mercato finanziario Un secondo filone di ricerche relativo al mercato finanziario si è indirizzato all’esame delle istituzioni e del mercato borsistico, evidenziando i seguenti aspetti: i mutamenti delle disposizioni che regolarono i mercati; le caratteristiche del mercato primario e quello secondario; il rapporto fra ciclo di risparmio avviato alle industrie per mezzo del sistema bancario e capitali rastrellati attraverso la borsa; l’esame del risparmio accantonato dagli amministratori, definito “risparmio forzato”, e la conseguenza che tale forzatura ebbe sull’andamento dell’economia e sul funzionamento del “mercato perfetto”, inteso, in termini paretiani, come ottimo allocatore delle risorse. Queste considerazioni vengono alla luce dall’esame del mercato primario e secondario effettuato dalle mie due pubblicazioni sulla storia delle Assicurazioni Generali17, da quella di De Ianni sulla Fiat18 e da quella di Schisani sulla Borsa di Napoli19. Con le ricerche sulla storia delle Assicurazioni Generali, non potendo utilizzare la documentazione archivistica, tenendo conto degli aumenti di capitale effettuati dalla società e dei dati contenuti nei bilanci pubblicati, si è potuto rilevare il rapporto esistente fra risparmio raccolto dagli azionisti e risparmio avuto in prestito dalle banche, ma anche il rapporto fra risparmio volontario e 17 F. BALLETTA, Capitali, borse e assicurazioni in Italia nella seconda metà del Novecento, Arte Tipografica, Napoli, 1997; F. BALLETTA, Mercato finanziario e Assicurazioni Generali, ESI, Napoli, 1995. 18 N. DE IANNI, Capitale e mercato azionario. La Fiat dal 1899 al 1961, ESI, Napoli, 1995. 19 M.C. SCHISANI, La Borsa di Napoli (1778-1860). Istituzioni, regolazioni e attività, ESI, Napoli, 2001. 90 “risparmio forzato”, cioè quella parte di utile non distribuito per favorire gli investimenti nella fase di espansione dell’economia. A questa politica si contrappose quella diretta a distribuire una parte consistente degli utili al fine di consolidare il capitale e tamponare eventuali rischi di perdita del valore dei titoli. Dall’attuazione di queste contrapposte politiche è stato possibile calcolare il guadagno realizzato da coloro che, nell’arco di quasi cento anni, effettuarono investimenti in azioni delle Assicurazioni Generali. Per l’esame dell’andamento delle quotazioni dei titoli è stata utilizzata l’analisi tecnica, che serve a prevedere l’andamento delle quotazioni future, nel breve periodo, tenendo conto dell’andamento storico delle quotazioni. All’analisi tecnica abbiamo contrapposto l’analisi fondamentale, basata sulla capitalizzazione di borsa e sugli indici di redditività delle Generali. A questo mio lavoro si affianca quello di De Ianni sulla storia della Fiat fra il 1899 e il 1961, dove si effettua un’analisi dei dati di bilancio e del mercato primario e secondario delle quotazioni della Fiat. Maria Carmela Schisani ricostruisce le vicende della Borsa di Napoli dalla sua costituzione (1778) fino al momento dell’unità d’Italia. L’obiettivo è quello di valutare le complesse cause socio-politiche ed economiche responsabili dell’arretratezza del mezzogiorno borbonico, attraverso le vicende ed il ruolo svolto dall’istituzione finanziaria. Lo studio si compone di tre livelli di analisi inscindibili: istituzionale, sociale e operativo e si svolge in un contesto – assunto come premessa – in cui il modello economico del regno meridionale assume le seguenti caratteristiche: 1) condizionamento della posizione di debolezza finanziaria dei governanti; 2) controllo di un gruppo ristretto di operatori economici forti avallati da un ordinamento istituzionale di base, che fallisce il suo obiettivo garantista, non riuscendo a creare una struttura stabile di relazioni sociali ed economiche. L’intervento legislativo assume caratteristiche di periodicità e settorialità. Lo stato interveniva con lo scopo di interrompere le operazioni di speculazione, prima che le stesse si trasformassero in definitiva egemonia su un determinato settore di mercato. Tale condotta dimostra che lo stato non si voleva sottrarre alle regole del gioco, cui esso stesso partecipava per le necessità finanziarie derivanti dall’esercizio del proprio potere e per il finanziamento del debito pubblico. Nel corso della storia della Borsa di Napoli, ci si imbatte in cicli di durata molto diversa, i cui punti di inversione sono generalmente scanditi da interventi istituzionali. 1) La prima opportunità che aprì la strada alla formazione della Borsa fu il cambio, nel periodo di transizione settecentesca, in cui la piazza mercantile chiedeva di affrancarsi dalla pratica del cambio indiretto; 2) dopo il decennio francese – che aveva contribuito a proiettare la Borsa nella sua funzione propriamente operativa, con l’allargamento degli affari alla negoziazione dei titoli del debito pubblico –, gli anni ’20 dell’800 furono caratterizzati dall’i91 nizio della speculazione sulla rendita; 3) nel biennio 1833-35, rientrata l’emergenza finanziaria della restaurazione, nel momento in cui i titoli pubblici erano risaliti ad una posizione di relativa stabilità, l’intervento dello stato dirottò, forzosamente, gli interessi verso le società anonime. La speculazione azionaria fu un ciclo di durata limitatissima (dal 1833 al 1835), che fu, bruscamente, interrotto dai provvedimenti regolamentari del 1834 che impedirono lo sconto di “soldi” e pensioni; 4) il 1835 fu un anno di svolta, in corrispondenza del tramonto societario e, contestualmente al fallimento del progetto di conversione della rendita pubblica, l’orizzonte di azione degli operatori napoletani portò in primo piano la borsa merci rispetto ai ridotti margini speculativi della borsa valori. A partire dal biennio 1834-35, l’interesse mercantile si rivolse verso il mercato granario. Il ciclo speculativo sul grano ebbe durata notevole e assunse toni patologici, dal 1840 in poi, dopo il nuovo contratto per le forniture militari di grano e avena (1839), che prevedeva la commisurazione dei prezzi da applicare alle derrate alla media dell’ultimo semestre di Borsa. Queste prime ricerche di Balletta, De Ianni e Schisani aprono la strada a successive indagini di storia delle imprese italiane al fine di costituire un mosaico del mercato finanziario italiano. A questi tre lavori si affiancano le ricerche di Stefano Baia Curioni20, Elisa Boccia21, Gianpaolo Mastroianni22 e Filomena Tartaglia23. Stefano Baia Curioni è stato uno dei primi studiosi del mercato borsistico milanese. Il lavoro più significativo è quello relativo al mercato azionario in Italia, dal 1808 al 1938, dove si affronta la Borsa di Milano come oggetto di ricerca autonomo delineato nelle sue varie sfaccettature: economiche, politiche, istituzionali ed organizzative in un’ottica di lungo periodo, dove confluiscono, sedimentandosi, “usi, 20 S. BAIA CURIONI, Regolazione e competizione, storia del mercato azionario in Italia (1808 1938), Milano, 1995; S. BAIA CURIONI, Modernizzazione e mercato. La Borsa di Milano nella “nuova economia” dell’età giolittiana, Milano, 2000; S. BAIA CURIONI, La Borsa Valori, in “AA.VV., Storia di Milano, vol. XVIII, Il Novecento”, Enciclopedia Italiana, Milano, 1996; S. BAIA CURIONI, La comunità finanziaria milanese e la ricostruzione del sistema finanziario, in “G. De Luca (a cura di), Pensare l’Italia nuova: la cultura economica milanese”, Franco Angeli, Milano, 1997; S. BAIA CURIONI, Riflessioni sui mercati finanziari in epoca giolittiana, in “Pensiero economico italiano”, a. 3, fasc. 2; S. BAIA CURIONI, Il telegrafo e la formazione di un sistema integrato di mercati mobiliari in Italia (1888-1905), in “Società Italiana degli Storici dell’Economia, Innovazione e sviluppo. Tecnologia e organizzazione fra teoria economica e ricerca storica (secoli XVI-XX)”, Monduzzi Editore, Bologna, 1996; S. BAIA CURIONI, Sull’evoluzione istituzionale della Borsa Valori di Milano (1898-1941), in “Rivista di Storia Economica”, 1991, numero unico. 21 E. BOCCIA, La Borsa di Milano tra miracolo e crisi (1958-1978), Prismi, Napoli, 2000. 22 G. MASTROIANNI, Le emissioni obbligazionarie nel mercato finanziario italiano (19261938), Prismi, Napoli, 2000. 23 F. TARTAGLIA, Fisco e mercato finanziario in Italia (1914-1945), Prismi, Napoli, 2000. 92 saperi, poteri”. La principale innovazione consiste nell’impostazione del lavoro, che, affrontando, criticamente, il dibattito internazionale sul ruolo delle istituzioni in generale e sui nodi fondamentali del mercato azionario (vendite a termine e speculazione), arriva, progressivamente, ad un’analisi del significato dell’istituzionalizzazione delle contrattazioni, delle “invarianze” nell’assetto organizzativo e nel sistema decisionale della Borsa di Milano e del condizionamento che operò nella definizione del ruolo del mercato per lo sviluppo economico italiano. Le carenze del mercato borsistico italiano vengono attribuite da Baia Curioni ai ben noti vincoli della dipendenza dell’economia italiana dal ciclo internazionale e della contraddittoria presenza dello stato, da una parte, sostenitore dello sviluppo industriale e, dall’altra, operatore attivo dominante, attraverso i valori pubblici, e dunque antagonista della crescita del mercato azionario. L’autore opera una rilettura di tali nodi del sistema economico italiano trovando significativi raccordi con i risultati ottenuti da Ranald Michie relativamente all’esperienza inglese ed americana. La Borsa di Milano è, in sintesi, nell’accezione dello stesso autore, “un contenitore degli scambi” di cui vengono analizzati gli assetti istituzionali e i relativi processi decisionali che condussero a certi risultati. L’analisi condotta da Baia Curioni evidenzia una periodizzazione mediata con i cicli di borsa. 1) Dal 1808 e fino al 1894, la Borsa di Milano non compì grandi progressi rimanendo in una dimensione localistica. 2) Una fase di ripresa si ebbe dal ’94 in poi, anno in cui, oltre all’avvio di un significativo processo di integrazione tra le piazze (dovuta all’introduzione del telegrafo e della stanza di compensazione), si ebbe la crescita dell’economia e dell’ingresso di nuovi titoli azionari nel listino (bancari e metallurgici). 3) Il periodo della grande svolta, però, fu quello del quindicennio immediatamente precedente il primo conflitto mondiale, allorché fu rotto il “patto” che legava i poteri governativi ed i protagonisti dell’accumulazione finanziaria. Il mercato mobiliare, con la crescita delle attività speculative, attraversò, dal 1900 al 1913, un periodo di prova. Partendo da un significativo decollo del mercato azionario (1903), si assistette alla violenta crisi istituzionale degli agenti di cambio (1904) e al delinearsi di chiari segnali di modifica nelle modalità di raccolta del capitale di rischio (1904-1906), arrivando allo scossone della grande crisi di liquidità e sovrapproduzione. I risultati di queste turbative vennero raccolti nel provvedimento di legge del 1913, che sancì la definitiva vittoria della banca mista sulla borsa. La spaccatura tra la disciplina bancaria e quella borsistica diventò uno strumento formale per consentire i giochi di potere dell’alta banca, che privata di responsabilità pubblica, rimase arbitro, pressoché unico, all’interno della Borsa, consolidando, così, un non semplice movimento già in atto da oltre un decennio. Là dove, formalmente, i monopolisti delle borse erano gli agenti di cambio, la 93 banca mista affiancò ai poteri già acquisiti una legalizzazione alle grida ed una massiccia presenza in Deputazione, identificando, in tal modo, funzioni di controllore e di controllato. 4) La legge del 1913 aveva rimandato la questione della presenza alle grida dei soli agenti di cambio. Nel 1925, un decreto di De Stefani, attuò un maggior controllo sul mercato finanziario, con l’intento di creare un mercato “pubblico” rivendicato dal governo fascista, desideroso di assumere un ruolo autonomo nei confronti dei grandi intermediari e, contemporaneamente, distogliere dal governo dell’economia il ceto degli industriali. In effetti, solo dopo la crisi del ’31 si giunse all’assorbimento in una sfera connessa al potere governativo. Essendosi avviata, sin dal ’25, ma non del tutto applicata, questa tendenza al potenziamento dei pubblici poteri che si realizzò, in termini più pratici, con l’opera del Beneduce e con la legge del ’36. 5) In tal modo, l’attività della Borsa fu molto ridotta ed ulteriormente soffocata da provvedimenti fiscali (tra questi si rammentano: l’imposizione di un’aliquota del 20 per cento sui rendimenti del titoli al portatore, di una patrimoniale progressiva sui titoli azionari, di una sovrimposta del 5 per cento sulle contrattazioni azionarie, della nominatività obbligatoria dei titoli azionari, ecc.). Con la caduta dei grandi intermediari, nel ’36, fu la volta del regolamento che sancì il tramonto della banca universale, instradando il sistema finanziario italiano verso la specializzazione e creando canali di allocazione del risparmio indipendenti dal mercato mobiliare. 6) Il consolidarsi della presenza dello stato e del corpo degli agenti di cambio e la disfatta dei centri intermedi di potere, come le banche miste e le camere di commercio, il listino di Borsa non si ampliò, l’investimento azionario declinò a favore di quello a reddito fisso e in titoli pubblici. Dunque, la borsa italiana andò assumendo la tipologia che la caratterizzò fino alla fine del Novecento. Secondo Baia Curioni, la Borsa di Milano compì un ciclo di “evoluzione al contrario”, in base a un processo che vide un lungo periodo di marginalità rispetto al sistema economico, un periodo di vivace espansione con il coinvolgimento della banca dell’età giolittiana (1897-1906), fino ad arrivare ad un lungo periodo di marginalizzazione. Tra i diversi aspetti del mercato borsistico studiati da Baia Curioni vengono alla luce le influenze che le innovazioni tecnologiche ebbero sull’andamento del mercato borsistico. In particolare, egli prende in esame l’uso del telegrafo e del telefono e l’influenza sul processo di formazione dei prezzi di borsa in alcune piazze italiane: Genova, Milano e Torino. La sua tesi è che l’innovazione tecnica deve essere studiata in relazione alle istituzioni e all’organizzazione dei mercati. Le soluzioni complessive da adottare sarebbero variate in base alla diversa organizzazione e ai rapporti fra istituzioni ed organizzazione. L’obiettivo finale per il mercato borsistico è quello di evitare che, all’interno dello stesso mercato, si formino prezzi differenti da quelli che si sarebbero formati dal94 l’incontro della domanda e dell’offerta complessiva24. Anche in questo caso viene alla luce l’ottimo paretiano dell’allocazione delle risorse. In relazione all’uso del telegrafo, analizzando gli scarti fra i prezzi quotidiani delle borse di Genova, di Milano e di Torino, si ebbe una maggiore integrazione nel loro funzionamento. Contemporaneamente, si creò un sistema di reciproche influenze che misero in luce le carenze delle regole stabilite per il loro funzionamento25. La ricerca di Elisa Boccia, relativa alla Borsa di Milano, nel periodo 19581978, stabilisce il ruolo che svolse il mercato finanziario nell’allocazione delle risorse e nello scambio dei titoli. Tiene conto della politica fiscale e finanziaria adottata dai governi. Il lavoro è basato su una opportuna riclassificazione del listino di borsa al fine di misurare le emissioni qualitative e quantitative dei titoli azionari ed obbligazionari. Viene applicata l’analisi fondamentale ai dati relativi alle emissioni di titoli in occasione di aumenti di capitali e per valutare la redditività delle imprese. Il risultato finale è che il mercato finanziario italiano era inefficiente, per lo scarso contributo all’allocazione del risparmio nelle imprese e la poca attrazione dei risparmiatori verso il capitale di rischio26. Mastroianni studia il mercato obbligazionario in un periodo particolare della storia finanziaria italiana, gli anni compresi fra il 1926 ed il 1938, allorché, per la crisi delle banche miste, che effettuavano finanziamenti a lungo termine alle imprese, si ricorse al credito obbligazionario per mezzo degli istituti creati dallo stato, cioè il Consorzio di credito per le opere pubbliche (Crediop), l’Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità (ICIPU), l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI) e l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI). Il volume contiene un esame della tecnica di emissione, della normativa fiscale relativa ai titoli obbligazionari, i privilegi concessi alle banche pubbliche volute dal fascismo e conosciute come istituti Beneduce, nonché il rapporto intercorso con la politica monetaria deflazionistica dell’epoca27. La minuziosa ricerca compiuta da Filomena Tartaglia mira a misurare l’influenza che i provvedimenti tributari, emanati dalla prima alla seconda guerra mondiale, ebbero sul mercato azionario ed obbligazionario. Dalla ricerca risulta una chiara volontà del fascismo di soffocare l’attività delle borse per mezzo della leva fiscale o con l’emanazione di provvedimenti che non favorivano gli investimenti in azioni, come per le operazioni a termine, la copertura in titoli, o in contanti, per il 25 per cento dell’ammontare dell’operazione. In generale, il fisco ebbe una elevata responsabilità dell’asfittica attività delle borse italiane: 24 S. BAIA CURIONI, Il telegrafo e la formazione di un sistema integrato di mercati mobiliari in Italia (1888-1905), cit., pp. 377-378. 25 Ibidem, p. 385. 26 E. BOCCIA, La Borsa di Milano, cit., pp. 9-10. 27 G. MASTROIANNI, Le emissioni obbligazionarie, cit., pp. 9-10. 95 determinò le scelte degli operatori economici, indirizzò l’allocazione del risparmio e la redistribuzione delle risorse disponibili28. Per ultimo ho lasciato un gruppo di quattro pubblicazioni, di cui tre devono considerarsi un racconto, molto generale, della storia della borsa italiana, dall’Unità ai nostri giorni, e la quarta una preziosa fonte per le future ricerche. I primi tre lavori sono quelli di Alessandro Aleotti29, Giovanni Siciliano30 e Alessandro Volpi31, il terzo è stato curato da Giuseppe De Luca in collaborazione con Giuseppe Poletta e Sara Zanisi32. Il lavoro di Aleotti, pur non essendo il risultato di una ricerca documentale, né la sintesi di un congruo numero di ricerche sulla storia finanziaria delle imprese, può considerarsi una descrizione di lungo periodo del rapporto fra provvedimenti politico – legislativi e fluttuazioni delle quotazioni dei titoli. Secondo Aleotti, il risultato di tale rapporto fu sfavorevole per il mercato finanziario – in aggiunta alla presenza delle banche e di un consistente debito pubblico – per cui non si ebbe la formazione di un mercato borsistico maturo, capace di indirizzare i risparmi verso gli investimenti produttivi33. Anche il volume di Siciliano analizza, nell’arco di cento anni (l’intero Novecento), il rapporto fra operazioni di borsa e politica economica, assieme all’andamento della congiuntura italiana. Anche per tale lavoro si rileva una sostanziale coincidenza fra quotazioni ed eventi più significativi della storia economica italiana: dissesti bancari, nell’immediato primo dopoguerra, scomparsa delle banche miste, creazione degli istituti Beneduce, seconda guerra mondiale, nazionalizzazione dell’energia elettrica e crescita delle imprese pubbliche. È lo stesso autore che non annovera il suo lavoro tra i saggi di storia economica – “poiché non vi è lavoro, egli scrive, basato sull’accesso diretto a fonti documentali e a materiale di archivio” – bensì fra i “lavori di economia finanziaria”34, dove si effettua un’analisi delle serie storiche dei rendimenti delle azioni, confrontati con i rendimenti dei titoli pubblici. Il risultato, nel lungo periodo, fu la maggiore convenienza ad investire in titoli di rischio, che non in titoli pubblici. Dal confronto con il rendimento dei titoli degli Stati Uniti, o di altri paesi europei, il rendimento dei titoli azionari italiani fu inferiore. La ragione del 28 F. TARTAGLIA, Fisco e mercato finanziario, cit., pp. 9-10. A. ALEOTTI, Borsa e industria. Cento anni di rapporti difficili, Edizioni di Comunità, Milano, 1990. 30 G. SICILIANO, Cento anni di borsa in Italia, Il Mulino, Bologna, 2001. 31 A. VOLPI, Breve storia del mercato finanziario italiano dal 1811 ad oggi, Carocci Editore, Roma, 2002. 32 G. DE LUCA (a cura di), Le società quotate alla Borsa Valori di Milano dal 1861 al 2000. Profili storici e titoli azionari, Libri Scheiwiller, Milano, 2002. 33 A. ALEOTTI, Borse e industrie, cit., pp. 9-11. 34 G. SICILIANO, Cento anni, cit., p. 7. 29 96 minor rendimento dipenderebbe dalla presenza, in Italia, del “rischio di espropriazione” dei titoli, che non esiste in altri paesi. Il basso livello delle quotazioni azionarie avrebbe influito, negativamente, sulla convenienza a quotare in borsa i titoli di molte società. Lo stesso autore riconosce che su tale decisione influirono anche altri elementi, come la pressione fiscale, ma questo – diversamente da quanto sostengono Aleotti ed altri – avrebbe avuto minore influenza rispetto al basso rendimento35. Un altro aspetto che rimane irrisolto è il rapporto fra variazione degli investimenti in capitali di rischio e dividendi distribuiti. In alcuni periodi (dagli anni Venti agli anni Settanta), gli alti dividendi distribuiti non favorirono gli investimenti dei risparmi in titoli azionari. Altra ragione che influì, negativamente, su tali investimenti fu la scarsa difesa degli azionisti di minoranza, per cui, di fronte al prevalere dei potenti gruppi familiari, raramente si formò un azionariato diffuso36. Della carenza di ricerche di base sul mercato finanziario risente anche il volume di Alessandro Volpi. Pertanto, nella ricerca sulle cause che influirono sul magro listino della Borsa di Milano – nonostante la presenza di un consistente numero di società anonime italiane – l’autore è costretto a fare delle supposizioni: mancanza di una classe di intermediari finanziari, cioè carenza di agenti di borsa; mancanza di una “rete di protezione” capace di difendere il mercato dalla volatilità e dai facili assalti degli speculatori; carenza di fondi comuni di investimento arrivati in Italia troppo tardi; carenza di istituti assicurativi che investivano il ricavato dei premi in titoli; frammentazione del mercato finanziario, per cui i titoli emessi per aumenti di capitale, spesso, venivano collocati attraverso circuiti informali; l’accostamento della borsa non ad un luogo per dirottare i capitali verso le imprese, bensì a luogo dove prevaleva il gioco d’azzardo e la speculazione, anche in relazione all’assenza di regole precise che avrebbero dovuto gestire le borse, tenuto conto che la Consob cominciò a funzionare solo all’inizio degli anni Novanta37. La risposta a queste supposizioni, introdotte nei lavori di Aleotti, Volpi e Siciliano, si avrà solo dopo aver condotto numerose ricerche costruite sulla base di una vasta documentazione. Diverso è il lavoro coordinato da De Luca e pubblicato in un grosso volume. Assieme ad un profilo storico della Borsa di Milano sono presentate, in breve, le storie di ben ottocento imprese che, fra il 1861 e il 2000, furono ammesse al listino di quella Borsa. Nella breve storia della Borsa, De Luca mette in evidenza come, con il crescere del mercato finanziario italiano, negli 35 36 37 Ibidem, p. 9. Ibidem, p. 11. A. VOLPI, Breve storia del mercato finanziario, cit., pp. 175-177. 97 ultimi decenni del Novecento, si delineò la separazione fra attività produttiva ed attività finanziaria, cioè fra economia reale ed economia finanziaria. La seconda con proprie caratteristiche e propri profitti38. È questa la stessa considerazione che si ricava dalle ricerche che ho effettuato sulla storia finanziaria delle Assicurazioni Generali, dove l’attività assicurativa era separata da quella finanziaria, con una sua gestione ed utili propri direttamente dipendenti dal mercato finanziario italiano e dalle grandi borse internazionali. In questa ottica, entra la politica dei passaggi di proprietà delle grandi aziende, il sistema delle scatole cinesi, prima la pubblicizzazione delle imprese dagli anni Trenta in poi e la privatizzazione degli ultimi anni. Ma il pregio della ricerca di De Luca va individuato, oltre che nelle tavole di iscrizione e cancellazione delle imprese dal listino, principalmente nella breve biografia delle società quotate: denominazione sociale, capitale sociale, tipo di attività, anno di ammissione e di cancellazione dal listino delle quotazioni. Non è la storia dettagliata di 800 società, che sarebbe stata impossibile realizzare in una pubblicazione di 700 pagine, ma la guida per ulteriori ricerche, potremmo dire la base per avviare una vera storia del capitalismo finanziario italiano. II. Sulla storia delle assicurazioni 1. I primi tentativi di ricostruzione di una storia generale delle assicurazioni Come abbiamo rilevato per la borsa, anche per l’attività assicurativa le ricerche finora compiute, in Italia, sono scarse e con diversa impostazione. Le ragioni del disinteresse degli storici per tale settore non mi sono chiare. Possiamo dare due interpretazioni: la difficoltà di individuare il servizio prodotto dalle compagnie di assicurazione, oppure le difficoltà di interpretazione del settore finanziario, che ha assunto una sempre maggiore importanza nell’ambito delle attività assicurative. Per la prima ragione si tratta della produzione di un bene “immateriale” di difficile valutazione: la sicurezza degli individui e della collettività, ossia il superamento di incertezze e paure che prospettano il futuro ad un individuo o ad una impresa influendo sulla loro qualità della vita. Questo servizio, molto spesso, non è soggetto a una misurazione precisa e lo storico trova difficile avvicinarvisi. Sotto l'aspetto finanziario, la valutazione dell’attività di una impresa assicurativa diviene difficile, perché si tratta dell’utilizzo di capitali altrui che vengono affidati all’impresa assicurativa nella speranza di una buona gestione. La sorte dell’impresa assicurativa, da un lato, è legata alle informazioni che essa è capace di procurarsi intorno al verificarsi dell’evento futuro 38 G. DE LUCA (a cura di), Le società quotate, cit., p. 25. 98 e dall’altro è legata alla buona conoscenza del mercato finanziario in cui opera. Capire come è gestita un’impresa non è cosa facile: occorre una buona preparazione delle tecniche di calcolo e della gestione contabile. Per lo storico è anche difficile avere la disponibilità della ricca documentazione raccolta dalle compagnie di assicurazione, decisamente restie ad aprire i loro archivi agli studiosi. Anche per il settore assicurativo, come per la borsa, dobbiamo rilevare l’esistenza di due tipi di pubblicazioni: una che traccia le linee essenziali dell’evoluzione dell’attività assicurativa e l’altra che riguarda la storia di singole imprese. Nel primo filone, rientra un volumetto di appunti di storia delle assicurazioni di Ennio De Simone39, il volume di Roberto Baglioni sulle assicurazioni in Italia dal medioevo ai giorni nostri40 e l’articolo di Giuseppe Cassandro sui lineamenti storici delle assicurazioni41. Nelle ricerche relative alle singole imprese rientrano le mie due pubblicazioni sulla storia delle Assicurazioni Generali42 e il volume, in due tomi, di Tommaso Fanfani relativo ai cento anni di storia di Alleanza Assicurazioni43, nonché l’articolo di Nicola De Ianni sul lavoro dei colletti bianchi alle Assicurazioni Generali, nel decennio 1968197944. Nei tre volumi di storia delle assicurazioni in generale vengono tracciate, sulla base di una scarna bibliografia esistente sulle singole imprese di assicurazione – costituite, per la maggior parte, di commemorazioni di particolari momenti aziendali –, l’evoluzione dei contratti di assicurazione dal medioevo all’età del mercantilismo e all’età contemporanea. Si tratta della storia dei primi contratti di assicurazione relativi ai trasporti marittimi e delle prime disposizioni di legge, del 1300 e del 1400, che regolarono l’attività assicurativa. Per l’epoca contemporanea, si citano le prime compagnie di assicurazioni che sorsero a Trieste e in Piemonte; si sottolinea il ruolo delle società di mutuo soccorso che 39 40 E. DE SIMONE, Appunti di storia delle assicurazioni, Arte Tipografica, Napoli, 1991. R. BAGLIONI, L’assicurazione in Italia dal medioevo ai giorni nostri, IFA-Publiass, Milano, 1996. 41 G. CASSANDRO, Lineamenti storici dell’assicurazione, in “Diritto e pratica dell’assicurazione”, fasc. 1, gennaio-marzo 1976, pp. 559-580. 42 F. BALLETTA, Mercato finanziario e Assicurazioni Generali, cit.; F. BALLETTA, Capitali, borsa e assicurazioni in Italia nella seconda metà del Novecento, cit. 43 T. FANFANI, Alleanza Assicurazioni. Cento anni di storia, Alleanza Assicurazioni S.p.A., Milano, 1998; Atto costitutivo, uomini, dati e bilanci. Appendice a Alleanza Assicurazioni. Cento anni di storia, Alleanza Assicurazioni S.p.A., Milano, 1998. 44 N. DE IANNI, I mutamenti nel lavoro delle assicurazioni: le Generali da Baroncini a Merzagora (1968-1979), in “Società Italiana degli Storici dell’Economia, Il lavoro come fattore produttivo e come risorsa nella storia economica italiana”. Atti del convegno di studi, Roma, 24 novembre 2000, a cura di S. Zaninelli e M. Toccolini, Vita e Pensiero Università, Milano, 2002, pp. 445-465. 99 ebbero per i lavoratori dell’Ottocento. Per il Novecento, con la presenza sempre più consistente dello stato nell’economia, si rileva il ruolo del welfare state nel settore dell’assistenza e della previdenza. In particolare, Baglioni mette in evidenza le profonde trasformazioni subite dalle assicurazioni con la rivoluzione industriale. Egli sottolinea che era un’attività relegata ai margini della vita economica, poiché l’analisi degli economisti era incentrata, esclusivamente, sulla crescita della produzione. Il miglioramento della qualità della vita, che deriva dalle assicurazioni, veniva marginalizzato con l’evolversi delle società. Il timore di perdite aziendali portò in primo piano l’assicurazione dei risk management, che serve a tranquillizzare l’imprenditore sui risultati del suo operato. Altri temi affrontati da Baglioni sono la specializzazione dell’attività assicurativa, la trasparenza nella stipula dei contratti, i mutamenti degli assetti proprietari delle compagnie di assicurazione e la sempre maggiore internazionalizzazione dell’attività assicurativa. La specializzazione si rilevò una strada obbligata, allorché si passò dalla concezione che l’attività assicurativa fosse legata alla scommessa e alla valutazione di quelle attività con metodi scientifici con la valutazione attuariale dei rischi legati alle leggi del calcolo delle probabilità. Collocando l’assicurato al centro dell’attività assicurativa e l’organizzazione del servizio a favore del cliente, l’informazione, per l’assicurato, è diventata un elemento indispensabile per la trasparenza e per la buona riuscita del servizio. Un provvedimento attuato in tale direzione fu la polizza vita rivalutabile, che pone l’assicurato al riparo dalle perdite derivanti dalla svalutazione della moneta. Dagli anni Ottanta del Novecento, i capitalisti italiani furono interessati ad effettuare investimenti nel settore assicurativo. Per conseguenza, negli ultimi venti anni del Novecento, si ebbe un accelerato balletto di pacchetti azionari di società assicurative, con profondi mutamenti nell’assetto proprietario. Il risultato fu la eliminazione di numerosi ostacoli posti dalla presenza dello stato nel settore e la formazione di grandi imprese capaci di operare sul mercato europeo e sul mercato internazionale. Con la sempre maggiore integrazione dell’Italia nella Unione Europea anche le compagnie di assicurazioni, per tenere testa alle grandi compagnie europee, dovettero allineare i propri standard economici e finanziari ai paesi più sviluppati dal punto di vista economico e finanziario. I nuovi strumenti finanziari adottati dalle compagnie furono i fondi comuni di investimento e i fondi pensione. Nella prospettiva futura, alle banche toccherà il compito di gestire sempre più il risparmio a breve e medio termine e alle assicurazioni la gestione del risparmio a lungo termine con la conseguente “accentuazione e accelerazione del processo di redistribuzione dell’intermediazione del risparmio”. “Dall’indirizzo del risparmio individuale e familiare in titoli di stato e depositi bancari – scrive Roberto Pontremoli, nella prefazione al volume di Baglioni – si passerà in modo sempre più incisivo a forme di gestione indiretta 100 del risparmio e, in questo caso, il ruolo di intermediazione delle assicurazioni sarà determinante, anche in termini di servizi che vengono offerti agli assicurati ben oltre la mera remunerazione finanziaria, garantendo bisogni di sicurezza contro molteplici evenienze”45. 2. Le ricerche di storia delle imprese di assicurazioni I due volumi che ho pubblicato sulla storia delle Assicurazioni Generali – il primo relativo al periodo 1920-1960 ed il secondo al 1960-199546 – sono costruiti nell’ottica della storia finanziaria, un’ottica finora snobbata dagli economisti e rifiutata dagli storici dell’economia. Nel primo, dopo aver tracciato le linee generali dell’assetto organizzativo della società e descritto l’andamento dei premi in relazione all’evolversi dell’economia, è stato messo in risalto l’andamento del capitale sociale, l’assetto proprietario ed i fondi di garanzia accumulati. Su tali fondi sono stati affondati i bisturi separando gli investimenti mobiliari da quelli immobiliari. Sono state esaminate le relazioni intercorse fra i maggiori artefici della gestione finanziaria dell’epoca – Beneduce, Stringher, Morpurgo e Volpi – assieme alle connessioni con il potere politico, nelle mani del fascismo, che seppe intuire l’importanza della gestione finanziaria per l’economia dell’epoca. Nel secondo volume, dopo un esame dell’andamento dell’attività assicurativa, in Italia, fra il 1960 e il 1995, l’analisi dell’attività delle Generali ha riguardato l’attività caratteristica, ma principalmente la gestione finanziaria. Gestione che, gradualmente, prese il sopravvento sull’attività assicurativa. Il capitalismo italiano fu controllato dalle mani forti di poche grandi famiglie – Agnelli, Ferruzzi, De Benedetti, Berlusconi, Romagnoli, Patrucco, Benetton e qualche altro – che non si preoccuparono di migliorare la produttività dell’azienda, ma furono sempre pronti a scalare qualsiasi società debole o solida del settore assicurativo o non; creare o rompere alleanze senza vincoli di dipendenza dai grandi protagonisti della finanza internazionale. La conseguenza di tale comportamento si è vista nel settore automobilistico, con le difficoltà in cui oggi si è trovata la FIAT, per la quale gli amministratori, preoccupati dalla gestione finanziaria, tralasciarono il rinnovo della produzione, necessario per tenere testa alla concorrenza del settore automobilistico europeo e internazionale. A tali conclusioni, per il settore assicurativo, si arriva dall’analisi della valutazione dell’azienda sul mercato borsistico. Dalla capitalizzazione di borsa, dal 45 46 R. PONTREMOLI, Prefazione, in “R. Baglioni, L’assicurazione in Italia”, cit., p. 10. F. BALLETTA, Mercato finanziario, cit.; F. BALLETTA, Capitali, borsa e assicurazioni, cit. 101 pay-out e dagli indici di valutazione dell’attività industriale si è potuto misurare la solidità delle Assicurazioni Generali. Pertanto si rileva che l’utile dell’azienda derivava, principalmente, dalla gestione finanziaria. Gestione strettamente legata al mercato borsistico, che operava in una situazione di quasi monopolio, perché dominato dalla volontà di Enrico Cuccia, che attraverso Mediobanca, era impegnato a mantenere gli equilibri finanziari fra le grandi famiglie del capitalismo italiano. Per consentire la formazione di un libero mercato finanziario, a nulla servì la presenza di un azionariato diffuso per il capitale delle Generali. La gestione della società era affidata ad amministratori dipendenti dalle decisioni di Cuccia, che, attraverso i presidenti delle Generali – Merzagora, Randone, Coppola e Bernheim – influì in misura determinante sulla gestione della politica industriale e finanziaria della compagnia. Tommaso Fanfani ha ricostruito al storia di cento anni di Alleanza Assicurazioni, dal 1898 al 199547. Pur denunciando una certa dispersione di documenti, egli riesce a ricostruire le vicende della compagnia servendosi dei verbali dei consigli e delle assemblee dei soci, della corrispondenza e dei bilanci della società. La prima novità che si ricava dalla ricerca è che la società fu costituita, a Genova, con capitale tedesco, come si verificò, nello stesso periodo, per il Credito Italiano e la Banca Commerciale Italiana. È questo un ulteriore rafforzamento dell’ipotesi, da più parti sostenuta, della dipendenza italiana dal capitale straniero. Una seconda considerazione è la nascita dell’azienda in un momento in cui lo stato cominciò ad intervenire nel settore previdenziale con l’assicurazione obbligatoria, al fine di proteggere i lavoratori contro i danni alla salute derivanti dagli infortuni sul lavoro, con la istituzione della Cassa nazionale per la previdenza per l’invalidità e la vecchiaia e, qualche anno più tardi (1912), accentrando nell’INA le assicurazioni sulla vita. Era la dimostrazione del bisogno di sicurezza. Tuttavia la presenza dello stato nel settore costituiva un ostacolo alla crescita delle assicurazioni private. L’attività della compagnia fu strettamente legata all’andamento dell’economia del paese, ma, principalmente, all’opera dei suoi dirigenti, di cui i più importanti furono Evan Mackenzie e Mario Gasbarri. Un momento importante della vita di Alleanza fu il 1933, allorché la società entrò a far parte della compagnia Assicurazioni Generali, che aveva una maggiore esperienza perché, all’epoca, aveva compiuto i primi cento anni di vita e perché svolgeva la sua attività a livello internazionale. L’evento viene definito da Fanfani come “il fatto più importante, dopo la fondazione, visto che dalla nuova proprietà scaturi[rono] la ripresa e l’affermazione fino al raggiungimento di ambiziosi traguardi”48. 47 T. FANFANI, Alleanza Assicurazioni, cit.; Atto costitutivo, uomini, dati e bilanci. Appendice a Alleanza Assicurazioni, cit. 48 T. FANFANI, Alleanza Assicurazioni, cit., p. 17. 102 Particolarmente significativa fu la gestione da parte di Mario Gasbarri, dal 1935 al 1978, che si fece carico delle difficoltà prodotte alla compagnia dalla seconda guerra mondiale e dalla crescita nel dopoguerra, allorché puntò sulle assicurazioni popolari basate sulla raccolta del piccolo risparmio. Gli anni Ottanta furono caratterizzati da profondi mutamenti introdotti dalla rapidità del movimento delle informazioni e dalla concorrenza, sempre più spietata, che derivò dalla maggiore apertura del mercato europeo e del mercato internazionale. Il giudizio sul lavoro compiuto da Tommaso Fanfani è più che positivo: si tratta della ricostruzione scientifica di una storia d’impresa che prende le distanze da qualsiasi approccio celebrativo, come il titolo del volume potrebbe fare intendere. Altro merito è quello di avere reso attraente la lettura del lavoro facendo un parco uso della mole di dati disponibili. Dati che sono riportati in apposito volume di appendice dal titolo “Atto costitutivo, uomini, dati e bilanci”, dove a Giuseppe Conti49 è toccato il difficile compito della riclassificazione dei dati di bilanci con lo scopo di rendere comparabili cifre che altrimenti avrebbero avuto poco significato. Pertanto l’appendice può considerarsi una buona fonte per la ricostruzione di indici di bilancio dai quali ricavare ulteriori interpretazioni della vita della compagnia. Al convegno della Società Italiana degli Storici dell’Economia che si tenne, a Roma, nel novembre del 2000, sul tema “Il lavoro come fattore produttivo e come risorsa nella storia dell’economia italiana”, Nicola De Ianni si cimentò su un argomento difficile: “I mutamenti nel lavoro delle assicurazioni: le Generali da Baroncini a Merzagora (1968-1979)”50. Si tratta del lavoro effettuato dai colletti bianchi impiegati della più grande impresa del settore, le Assicurazioni Generali. Pur apprezzando l’originalità del tema affrontato, in effetti, De Ianni – servendosi di una interessante documentazione conservata nell’archivio privato di Merzagora – mette in risalto i mutamenti che si ebbero ai vertici dell’azienda e la riduzione dell’importanza dell’attività delle agenzie assicurative volute da Merzagora al fine di ridurre i costi dell’impresa. La relazione, tuttavia, come riconosce lo stesso autore – “un mostro con una grande testa ed un piccolo corpo”51 – ha scarsa importanza per i cambiamenti introdotti nel lavoro, ma conferma i risultati delle ricerche finora da me compiuti sui dati dei bilanci delle Generali, dai quali risulta il peso, sempre maggiore, che ebbe l’attività finanziaria rispetto a quella assicurativa o caratteristica (o con un termine 49 I bilanci di Alleanza dal 1902 al 1995, a cura di Giuseppe Conti, in Atto costitutivo, uomini, dati e bilanci, cit., pp. 45-152. 50 N. DE IANNI, I mutamenti nel lavoro delle assicurazioni: le Generali da Baroncini a Merzagora (1968-1979), cit., pp. 445-465. 51 Ibidem, p. 445. 103 meno preciso “industriale”) con l’obbiettivo di massimizzare i profitti degli azionisti. Ciò ha significato che il risparmiatore fu attirato dalle assicurazioni sulla vita, principalmente, per la funzione previdenziale. Pertanto il lavoro dell’assicuratore si è avvicinato a quello di banchiere e di “consulente globale”, fornitore di più servizi, piuttosto che venditore di sicurezza e tranquillità con la copertura dei rischi. III. La storiografia sulla finanza pubblica Premessa Abbiamo rilevato che le ricerche sulla storia della finanza pubblica sono molto più numerose di quelle sulla borsa e sulla finanza privata. Vi sono ricerche di studiosi della prima metà dell’Ottocento, come Ludovico Bianchini o Luigi Cibrario o della seconda metà dell’Ottocento, come quelle di Achille Plebano, Paolo Carcano e Eugenio Messeri, che sono ancora scientificamente valide, nonostante i profondi mutamenti avvenuti nella impostazione scientifica dei lavori e nella interpretazione dei documenti. Come rivelò Giuseppe Felloni52, in un altro convegno sulla storiografia della finanza pubblica italiana, anche noi abbiamo notato, nell’ultimo ventennio, un calo di interesse degli storici verso la finanza pubblica. Ciò nonostante, suscita grande interesse, fra gli economisti ed i responsabili della politica finanziaria e monetaria, il disavanzo del bilancio dello stato e il forte debito pubblico, per il quale si è temuto che l’Italia non riuscisse ad entrare, fin dal primo momento, nell’area dell’Euro. Sulla base delle ricerche effettuate nell’ultimo trentennio sulla finanza pubblica, ho ritenuto di fare una selezione dei lavori storici più significativi. Essi sono stati raggruppati in sei categorie: 1) le ricerche sulla politica fiscale, che chiameremo “circuito del risparmio forzato”; 2) quelle sul risparmio raccolto dal Crediop e dagli uffici postali, che chiameremo “circuito del risparmio volontario”; 3) la politica della spesa pubblica; 4) la politica del debito pubblico; 5) la finanza pubblica in generale; 6) la finanza locale. 1. Il “circuito del risparmio forzato” La prima segnalazione che mi sento di effettuare è la ricerca compiuta da Gianni Marongiu, professore di Diritto Tributario, sulla storia del fisco, in Ita52 G. FELLONI, Temi e problemi nella storia finanziaria degli stati italiani, in “Rivista di Storia Finanziaria”, n. 2, gennaio-giugno 1999, p. 103. 104 lia, nel periodo della destra storica (1861-1876)53 e in quello della sinistra storica (1876-1896)54. Marongiu, pur essendo un cultore di discipline giuridiche, ricostruì la storia del fisco rifacendosi all’opera dei protagonisti della finanza pubblica dell’epoca e si soffermò sulle teorie fiscali. Nel primo volume, esaltò l’opera svolta dai due ministri delle finanze dell’epoca, Minghetti e Sella, e sottolineò il contributo di Lanza, Ricasoli, Scialoja, Ferrara e Combray-Digny, che furono i maggiori sostenitori della politica liberistica e si fecero carico di assestare il sistema tributario italiano, risultato dall’accozzaglia di più sistemi costruiti in stati con istituzioni politiche contrastanti fra loro. Significativa fu l’introduzione dell’imposta di ricchezza mobile – un tributo che poteva tener testa all’incom tax inglese e ai più moderni tributi analoghi applicati in Francia o in Prussia – che colpiva i redditi della nascente borghesia. Ciò significa che i fautori di quella politica tributaria stavano puntando su una radicale trasformazione dell’economia del paese, da economia agraria in economia industriale e commerciale. Con l’applicazione dell’imposta sul macinato, i governanti furono consapevoli della gravosità del tributo, ma volevano che tutte le classi sociali, ricche e povere, fossero coinvolte nel rinnovamento della società e comunque contribuissero al pareggio del bilancio dello stato. Una politica fiscale severa, accompagnata ad una politica di contenimento delle spese, che, per la maggior parte, erano spese di investimento e dovevano servire a formare le coscienze di cittadini italiani e, principalmente, di cittadini liberi. Informata a questi principi, la politica fiscale della destra riuscì a garantire la copertura delle ingenti spese che doveva sostenere uno stato, giovane e fragile, in fase di organizzazione. Secondo Marongiu, i governanti vi riuscirono “grazie ai rilevanti elementi di novità che connaturarono quell’ordinamento”55. Sulla base di queste considerazioni, l’interpretazione della storia fiscale di Marongiu si allinea all’interpretazione che Richard A. Musgrave diede della finanza pubblica: una finanza che influenza la redistribuzione della ricchezza. Il passaggio dall’economia agricola all’economia industriale e commerciale, la lotta al disavanzo del bilancio dello stato, che vincolò la crescita economica, gli investimenti produttivi dello stato e la riduzione dell’indebitamento dell’Italia verso l’estero, che caratterizzarono la politica della destra storica, contribuirono a ridurre la povertà dei meno abbienti, diversamente da quanto pensava 53 G. MARONGIU, Storia del fisco in Italia. I. La politica fiscale della destra storica (1861-1876), Einaudi, Torino, 1995. 54 G. MARONGIU, Storia del fisco in Italia. II. La politica fiscale della sinistra storica (18761896), Einaudi, Torino, 1996. 55 G. MARONGIU, Storia del fisco in Italia. I. La politica fiscale della destra, cit., p. XV. 105 Adamo Smith con il mantenimento di salari di sussistenza56. Così la redistribuzione della ricchezza fra la popolazione ebbe un ruolo importante per la crescita dell'economia italiana, poiché “la ricchezza delle nazioni dipen[dendo] anche dalla distribuzione è altrettanto certo che tale ricchezza appartiene ai singoli e in tale ottica va correttamente riguardata”57. Nel secondo volume pubblicato da Marongiu, relativo alla politica fiscale della sinistra storica, la politica adottata fu letteralmente capovolta, rispetto al periodo della destra. La politica fiscale e il pareggio del bilancio dello stato, che erano stati messi in primo piano per la crescita economica del paese, passarono in second’ordine, vennero considerati fatti tecnici e non politici. Il programma del governo non ebbe più come obiettivo principale il contenimento e la selezione della spesa pubblica; gli assetti tributari non ebbero più una valenza politica (in termini di efficienza e/o di giustizia e/o di consenso)58, che aveva portato, nei primi decenni dell’Unità, alla maturazione della coscienza di italiani e al convincimento, che, in uno stato moderno, i cittadini devono contribuire alle spese pubbliche. In conseguenza di tale impostazione, allorché Crispi volle attuare l’ardito progetto di riforme amministrative e sociali, che aveva come fine l’ammodernamento capitalistico del paese accompagnato all’attuazione della politica coloniale, come dimostrazione della potenza realizzata dall’Italia, il sistema fiscale non fu più in grado di dare il gettito necessario. Anzi, il mancato ammodernamento dei tributi diede al sistema caratteri di pesante iniquità e incoerenza. All’ordinamento tributario vennero a mancare quei tratti di novità, che gli avevano conferito gli uomini della destra. Il sistema tributario divenne un peso iniquo per i consumi popolari, anche più ingiusto di quanto era stato costretto a fare la stessa destra. “La destra storica – scrive Marongiu –, rispettando le regole che si era posta, ricoprì bene il proprio ruolo di ceto di governo e di maggioranza che chiede, che tassa, che impone e pretende”59. Poiché la sinistra storica non fu in grado di attuare una politica tributaria capace di far fronte alla lievitazione delle spese, fu costretta a ricorrere ad una finanza di emergenza, che si ripropose giorno per giorno, per la quale Crispi non temeva “di contraddirsi, di mentire, di conclamare obiettivi quali la riforma tributaria, alla quale non dedicò mai un intervento, un’analisi specifica”60. La conseguenza fu il disavanzo del bilancio dello stato e la mancanza di una 56 R.A. MUSGRAVE, Finanza pubblica, equità e democrazia, Il Mulino, Bologna, 1995, pp. XXV-XXVI. 57 Ibidem, p. XXVI. 58 G. MARONGIU, Storia del fisco in Italia. II. La politica fiscale della sinistra, cit., p. XIV. 59 Ibidem, p. XVI. 60 Ibidem, p. XV. 106 politica adeguata alla redistribuzione dei redditi e alla crescita economica del paese. Si diede maggiore potere al presidente del consiglio dei ministri, affinché, con la sua abilità, potesse gestire i provvedimenti finanziari approvati dal Parlamento. Ma gli interventi di Crispi e Depretis servirono poco senza avere delle “regole”, una politica intorno alla quale costruire gli interventi. Ciò significò – secondo Marongiu – “un arretramento, rispetto al processo di modernizzazione del paese e quindi un rallentamento al ricongiungimento dell’Europa civile, che aveva giustificato il Risorgimento”61. Un secondo volume sul fisco che desidero segnalare è quello di Paolo Giannotti su “La riforma impossibile”62, dove si mettono a fuoco alcuni momenti significativi della politica fiscale italiana: la riforma della finanza locale, proposta da Magliani, nel 1879, diretta ad assestare i bilanci dei comuni falcidiati dalla politica del governo centrale; il costo della guerra di Libia, del 1911-12, e le conseguenze sulle finanze dello stato; la politica fiscale di Giolitti e Salandra; la crisi del fisco durante la prima guerra mondiale. La linea che si rileva dal lavoro di Giannotti è che vi furono grosse difficoltà, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, ad introdurre riforme democratiche in campo fiscale, perché, secondo Giolitti, non si voleva calcare la mano sulle ricchezze della nascente borghesia. Domenicantonio Fausto, in un grosso saggio, pubblicato nella Collana “Ricerche per la storia della Banca d’Italia”, prende in esame la politica fiscale nel periodo compreso fra la prima guerra mondiale e l’avvio del governo fascista (1914-1922)63. La linea di fondo seguita è che, all’inizio della guerra, non vi era un sistema tributario adatto ad affrontare la finanza di urgenza. Il sistema era lo stesso di quello instaurato dalla destra al momento dell’unificazione, quindi basato sul concetto che, per aumentare il gettito, bisognava inasprire le aliquote. I progetti di riforma, più volte presentati, non avevano trovato l’approvazione del Parlamento. Così, durante il periodo bellico e nel triennio successivo, il governo prese provvedimenti finanziari indipendentemente dall’accertamento dei redditi o del patrimonio. Essi erano dettati solo dalle necessità del momento. Furono aumentate più volte le aliquote delle imposte dirette (sulla ricchezza mobile, sui terreni e sui fabbricati), il loro gettito fu sempre, proporzionalmente, inferiore a quello delle imposte indirette. Negli anni della 61 Ibidem, pp. XVI-XVII. P. GIANNOTTI, La riforma impossibile. Momenti di storia del fisco in Italia (1876-1918), Edizioni Quattroventi, Urbino, 1998. 63 D. FAUSTO, La politica fiscale dalla prima guerra mondiale al regime fascista, in “AA.VV., Problemi di finanza pubblica tra le due guerre (1919-1939)”, Ricerche per la storia della Banca d’Italia, vol. II, Editore Laterza, Roma-Bari, pp. 3-138. 62 107 guerra e al momento della vittoria, non si seppe applicare una “imposta sul patrimonio”, come nuova fonte tributaria. Solo nel 1919, sull’esempio della Germania, si approfittò di quel nuovo strumento di politica fiscale. Il gettito delle imposte dirette crebbe, ma vi era bisogno di una profonda ristrutturazione del sistema, l’ordinamento di tali tributi era caotico e “che, oltre ad essere un ostacolo alla produzione, era anche fonte di aggravio di costi per l’amministrazione finanziaria. Il sistema delle imposte dirette aveva bisogno di una semplificazione e di una razionalizzazione”64. Per il momento particolare creato dalla guerra – compreso il fenomeno del “ribellismo fiscale” –, il gettito tributario non riuscì a colmare il disavanzo del bilancio dello stato, per cui fu necessario fare largo ricorso all’indebitamento con l’emissione dei buoni del Tesoro. “L’emissione dei prestiti contribuiva solo in parte al contenimento del circolante, sia perché i prestiti venivano in parte sottoscritti mediante anticipazioni bancarie, sia perché i titoli del debito pubblico potevano sostituire le monete in alcune delle sue funzioni”65. Attraverso l’inflazione, che colpiva i possessori di titoli pubblici a lungo termine, durante la guerra e dopo, si ebbe la redistribuzione delle ricchezze con il passaggio dei possessori a reddito fisso ai possessori di beni immobili. Nell’immediato dopoguerra fino all’avvento del governo Mussolini, si tentò di approvare una riforma organica del sistema tributario, fu, principalmente, il ministro delle finanze, Soleri, che predispose una riforma comprendente la revisione dei tributi statali e degli enti locali, ma il Parlamento non riuscì ad approvarla per la caduta del governo. Era la continuazione di ciò che era accaduto prima della guerra, per cui “il rapido succedersi di diversi governi, consentirono soltanto che fossero apportate modificazioni al sistema impositivo attraverso ritocchi e approssimazioni successive”66. Comunque è questo un terreno sul quale gli storici dovranno ancora cimentarsi attraverso l’esame della documentazione ministeriale. Lo stesso vale per i rapporti intercorsi fra Banca d’Italia e governo del paese sulla politica finanziaria da adottare relativamente all’emissione di cartamoneta, per la concessione di anticipazioni degli istituti di emissione al Tesoro dello stato e per l’emissione dei titoli del debito pubblico. Secondo Fausto, la documentazione è scarsa, per cui non vi sarebbero state divergenze fra la Banca d’Italia e i governi67, ma non mi risulta che siano state fatte ricerche in tale direzione sui documenti dei tre istituti di emissione dell’epoca (Banca d’Italia, Banco di Napoli e Banco di Sicilia). 64 Ibidem, p. 132. Ibidem, p. 133. 66 Ibidem, p. 135. 67 Ibidem, p. 134. 65 108 2. Il “circuito del risparmio volontario” Nell’ambito dei circuiti creati per raccogliere risparmi e stabilirne la successiva allocazione in connessione con la politica economica dei governanti e alla politica monetaria della banca centrale, vanno ricordati due contributi scientifici originali: quello di Pier Francesco Asso e Marcello De Cecco sulla storia del Crediop (Consorzio di Credito per le Opere Pubbliche)68 e la ricerca a più mani (Pier Francesco Asso, Stefano Battilossi, Leandro Conte, Marcello De Cecco, Giuseppe Della Torre e Gianni Toniolo) sulla Cassa Depositi e Prestiti curata da de Cecco e Toniolo69. Nel primo lavoro, costruito su una documentazione inedita, si esamina l’attività degli istituti voluti da Beneduce (Crediop e ICIPU) autorizzati ad emettere obbligazioni con lo scopo di finanziare opere pubbliche, oppure attività produttive pubbliche o private promosse dallo stato. Gli autori evidenziano che, con la formazione dello stato imprenditore, creatosi in Italia dagli anni Trenta in poi, si formarono due circuiti finanziari paralleli e concorrenziali: quello dello stato che reperiva risparmi attraverso il fisco e con l’emissione di titoli del debito pubblico e il secondo con l’emissione di obbligazioni del Crediop e di altri istituti di credito speciali. “L’esistenza di un doppio circuito, quello statale e quello extrastatale a cui gli enti pubblici partecipavano, – spiegano gli autori – costituiva, nel pensiero del suo ideatore [Beneduce], la garanzia fondamentale che l’intervento dello stato non si sarebbe tradotto in una perdita di efficienza e stabilità per il sistema economico”70. In questo modo, secondo Sabino Cassese, Beneduce avrebbe creato uno stato nello stato, affidandolo ad una burocrazia illuminata e competente capace di fornire servizi specifici. Il circuito finanziario si sarebbe autoalimentato rimanendo estraneo al Tesoro dello stato71, stabilendo una correlazione precisa fra emissione di obbligazioni e obiettivo da realizzare. Della ricerca, minuziosa ed originale, condotta dai due studiosi si rileva che furono realizzate opere pubbliche volute dal governo e legate alla politica economica del momento: bonifiche, servizi marittimi, costruzioni edilizie, grandi infrastrutture, finanziamenti agli enti locali, all’IRI, ma anche mutui al Tesoro, sistemazione di prestiti bellici. I due circuiti – quello statale e quello degli enti speciali – poiché avevano 68 P.F. ASSO e M. DE CECCO, Storia del Crediop. Tra credito speciale e finanza pubblica (1920 -1960), Editore Laterza, Roma-Bari, 1994. 69 AA.VV., Storia della Cassa Depositi e Prestiti, a cura di M. De Cecco e G. Toniolo, Editore Laterza, Roma-Bari, 2000. 70 P.F. ASSO e M. DE CECCO, Storia del Crediop, cit., p. 6. 71 S. CASSESE, Gli statuti degli enti Beneduce, in “Storia contemporanea”, XV, 5, ottobre 1984. 109 lo stesso obiettivo, entravano spesso in concorrenza, per cui, dal momento della costituzione, si ebbe “un braccio di ferro per ridurre le distanze fra i circuiti paralleli e per ricondurre il circuito extrastatale e di mercato in cui operava il Consorzio all’interno del più ampio quadro del finanziamento del debito pubblico”72. Spesso i dirigenti del Crediop e dell’ICIPU si trovarono a dover effettuare scelte difficili, poiché alle richieste di finanziamenti, che venivano dal governo e dal Parlamento, si opponevano i governatori della Banca d’Italia, che dovevano perseguire una politica di stabilità monetaria. Tuttavia, nei periodi di emergenza, che si ebbero fra gli anni Cinquanta e Sessanta, fu giocoforza, da parte dell’autorità monetaria, usare le emissioni obbligazionarie dei consorzi come politica monetaria e comunque favorire una politica comune fra circuito statale e circuito del credito speciale73. In questo panorama, in cui lo stato e gli enti speciali cercarono di rastrellare denaro sul mercato, furono sempre i risparmiatori italiani a dimostrare grande generosità, come un popolo di formiche. Il volume sulla storia della Cassa Depositi e Prestiti, che comprende un arco di tempo che va dal 1850 al 1990, racconta le caratteristiche di un terzo circuito finanziario, che possiamo definire pubblico, perché viene gestito dagli uffici postali al momento della raccolta e dalla Cassa Depositi e Prestiti per l’impiego del risparmio74. Due istituzioni che costituiscono una garanzia per il piccolo risparmiatore – specialmente delle zone periferiche del paese e del Mezzogiorno –, il quale non è in grado di seguire le operazioni di borsa ed ha scarsa fiducia nelle banche. Se a questo si aggiunge la capillarità degli sportelli postali, che arrivano in tutti i centri abitati, dove, ancora oggi, non è arrivato lo sportello bancario, si può comprendere il successo dei flussi finanziari passati per tale circuito. La ricerca, da un lato, può considerarsi la storia delle istituzioni e dall'altro l'esame delle fluttuazioni della gestione del risparmio. Pertanto possiamo considerare questo lavoro come la storia di un mercato alla ricerca dell’ottimo paretiano, poiché la politica di raccolta e di impiego adottata dai governanti trovò in quelle istituzioni – secondo l’impostazione dei ricercatori – uno strumento flessibile capace di adattarsi facilmente alle esigenze della politica monetaria e della politica economica dei governanti. L’attività dei mutui concessi dalla Cassa non può essere assimilato a quello di una banca, poiché essa non ha mai svolto ricerche per stabilire l’affidabilità dei clienti, cioè degli enti locali. “Essa gestisce un circuito di risorse che usa, sì, lo strumento tecnico del mutuo, ma senza ruoli aggiuntivi rispetto a quello di rendere evidente che si tratta di una spesa la cui copertura andrà poi trovata nelle risorse fiscali dell’ente, o in quelle dello stato centrale”75. 72 P.F. ASSO e M. DE CECCO, Storia del Crediop, cit., p. 7. Ibidem, p. 9. 74 AA.VV., Storia della Cassa Depositi e Prestiti, cit., p. V. 75 Ibidem, p. XII. 73 110 Anche da questo lavoro vengono alla luce le tensioni sorte fra potere centrale e autonomia delle istituzioni locali; fra gestione del debito pubblico e risparmio raccolto dagli uffici postali; fra politica di raccolta delle casse di risparmio postali e quella delle casse di risparmio private. Nonostante il governo avesse sempre dimostrato preferenza per i titoli del debito pubblico, il cui ricavato gestiva liberamente, sostenne la crescita del risparmio postale con incentivi ai dirigenti dell’Ente Poste per accrescere la raccolta del risparmio. Addirittura l’importanza di un ufficio postale non si misurava tanto sulla base del servizio di corrispondenze, quanto sulla quantità di risparmio che gli impiegati erano capaci di raccogliere. Ciò perché vi era convenienza per il Tesoro, che raccoglieva risparmio sostenendo costi molto bassi, e per gli enti locali, che ricevevano crediti a basso tasso di interesse. Le tensioni sorte fra la Cassa Depositi e Prestiti – che voleva mantenere autonomia di gestione – ed il Tesoro – che voleva asservirla alla sua politica – spesso furono risolte con specifiche interpretazioni sulla natura giuridica della Cassa o con “interventi di riassetto effettuati, al prevalere dell’esigenza di farne uno strumento di uso molteplice in mano al Tesoro; il che necessariamente richiedeva – secondo l’interpretazione di Maria Teresa Salvemini, direttrice generale della Cassa – di rinunciare all’idea di creare, invece, una istituzione dalla missione e dai connotati precisi”76. Una contraddizione esiste nella gestione del risparmio, che, raccolto a breve termine o legato al diritto del rimborso anticipato, veniva impiegato a lungo termine e a tasso fisso. Ciò causò, nella lunga storia della Cassa, delle crisi di liquidità o crisi di bilancio “non dovute a errori nella originaria fissazione della costellazione dei tassi di interesse attivi e passivi, ma ad eventi successivi, capaci di influenzare l’uno o l’altro lato del bilancio”77. Pertanto, la politica dei tassi di interesse attivi e passivi fu strettamente legata all’andamento del mercato monetario e finanziario, ma anche alla volontà degli organi politici. Ciò dimostra le difficoltà della Cassa di perseguire un’autonoma politica, che fu legata, comunque, al debito pubblico e all’andamento dei flussi finanziari dello stato. “Tra la politica di bilancio dello stato – scrive Maria Teresa Salvemini – basata sull’uso di trasferimenti verso altri soggetti pubblici e sull’accentramento dell’acquisizione di entrate fiscali, e l’uso del circuito di risorse finanziarie affidato alla gestione della Cassa si verifica così una sinergia di natura complessa, e di grande rilevanza”. In alcuni momenti, lo stato stabilì quali erano i crediti che la Cassa poteva concedere agli enti locali; in altri, fu lo stato che si fece carico dei mutui degli enti locali78. 76 77 78 Ibidem, p. VIII. Ibidem, p. X. Ibidem, p. XI. 111 La storia della Cassa è costellata dall’insorgere di continue tensioni fra potere centrale dello stato e autonomie locali. Tali tensioni furono più numerose nella seconda metà dell’Ottocento, quando il potere statale era ancora debole; scemarono nel Novecento, quando quel potere si rafforzò, anche se le tensioni non scomparvero. Con il rafforzamento dei poteri degli enti locali (regioni, province e comuni), non è ancora chiaro quali saranno le conseguenze sulla stessa natura della Cassa. Fin quando era lo stato che controllava le risorse dei comuni e delle province stabilendo anche i loro investimenti, la Cassa, in questa fase, era interamente “uno strumento utilizzato per il controllo sulle disponibilità di queste risorse, sulla realizzazione delle priorità assegnate alla creazione di infrastrutture, nonché sulle strutture del debito dello stato”79. Ma quando tale potere finirà quale sarà la sorte della Cassa? 3. Le ricerche sulla spesa pubblica Se si lamenta carenza di ricerche sulla finanza pubblica in generale, quelle relative alla spesa pubblica sono ancora più esigue. Ci soffermeremo su due lavori che sono abbastanza significativi per le diverse conclusioni a cui arrivano. Si tratta degli studi compiuti dagli economisti Giorgio Brosio e Carla Marchese sull’evoluzione della spesa pubblica dall’unità d’Italia agli anni 90 del Novecento80 e il lavoro di Daniele Franco sulla espansione della spesa pubblica nel trentennio 1960-199081. Riconosciamo che vi sono altre ricerche sull’argomento, in particolare quelle di Pedone, Luzzatti e Portese, Fratianni e Spinelli, quelle di Fossati82, ma il loro contributo rimane comunque limitato alla descrizione dei dati disponibili e non ad una ricostruzione documentale e lontano dalla modellizzazione dei risultati. D’altra parte – secondo Brosio e Marchese – la spesa pubblica “è una manifestazione così complessa da rendere molto difficile la modellizzazione della sua crescita”83. 79 Ibidem, p. XI. G. BROSIO e C. MARCHESE, Il potere di spendere. Economia e storia della spesa pubblica dall’unificazione ad oggi, Il Mulino, Bologna, 1986. 81 D. FRANCO, L’espansione della spesa pubblica in Italia. Un’analisi rigorosa e sistematica dello sviluppo della spesa pubblica in Italia dal 1960 al 1990 nelle sue interne circolazioni, Il Mulino, Bologna, 1993. 82 A. PEDONE, Il bilancio dello Stato e lo sviluppo economico italiano 1861-1963, in “Rassegna economica”, XXXI, 1976, n. 2, pp. 285-341; E. LUZZATTI e R. PORTESE, La spesa pubblica in Italia (1862-1980), in “La pubblica amministrazione”, a cura di S. Cassese, Utet, Torino, 1984; A. FOSSATI, La spesa pubblica in Italia dal 1951 al 1980, in “Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze”, XL, 1981, pp. 322-375; M. FRATIANNI e F. SPINELLI, The Growth of Government in Italy. Evidence from 1861 to 1979, in “Public Choice”, XXXIX, 1982, n. 2, pp. 224-245. 83 G. BROSIO e C. MARCHESE, Il potere di spendere, cit., p. 11. 80 112 In altre pubblicazioni, sociologi e giornalisti si sono occupati della sempre crescente presenza dello stato nell’economia, quello che gli inglesi definiscono Growth of Government, cioè crescita del settore pubblico, che è un problema più ampio di quello finanziario, cioè esso comprende anche l’intervento dello stato per regolare i mercati o la gestione statale di imprese industriali, che, in Italia, è avvenuto principalmente attraverso l’IRI. Il nostro obiettivo è limitato ad esaminare l’andamento della spesa pubblica e stabilirne le cause e le conseguenze in relazione alle istituzioni, alla società e all'economia. La ricerca di Brosio e Marchese parte dal presupposto che la spesa pubblica “è essenzialmente un fenomeno redistributivo della ricchezza”. Alle variazioni della spesa pubblica parteciparono coloro che, in vario modo, avevano una motivazione per provocarla (politici, pubblici funzionari, sindacati, gruppi di pressione); il contesto istituzionale sociale ed economico influì sulle aggiunte o riduzioni di spesa; non poche furono le interazioni fra gli interessati e il contesto84. Secondo Brosio e Marchese, “sono i sistemi istituzionali e i movimenti individuali da questi condizionati che determinano la direzione in cui avviene il processo di redistribuzione e fissano il limite entro cui il processo ha luogo”85. Con tale impostazione, la ricerca dei due autori si avvicina ai modelli di Musgrave e Rostow86, che tengono conto delle trasformazioni societarie prodotte dalla spesa. Nei primi anni di costituzione di uno stato, come si verificò per l’Italia, e nel primo periodo di crescita dell’economia, le spese servono a creare infrastrutture, cioè svolgono un ruolo nel processo di accumulazione delle ricchezze, successivamente cresce la spesa per trasferimenti e per consumi sociali. In questa politica di redistribuzione, che si può realizzare attraverso la politica fiscale o altra manovra di politica economica, i governanti trasferiscono una parte delle ricchezze, che si è concentrata nelle mani di pochi ricchi, ad una maggioranza di cittadini poveri, o meno ricchi. In questo processo, rimane incontrollato, o di difficile controllo, la crescita demografica e le innovazioni tecnologiche, che possono aumentare la produttività e ridurre l’occupazione. Anche Gino Borgatta, in una rassegna sull’evoluzione della finanza pubblica, sottolineò il mutamento della proprietà e della gestione delle ricchezze che si ebbe nella prima metà del Novecento, prima, con il mutamento dell’ordine giuridico, poi, con trasformazioni rapide e violente causate dalle due guerre mondiali che impoverirono alcuni ed arricchirono altri87. 84 Ibidem, p. 8. Ibidem, p. 13. 86 Ibidem, p. 26; R.A. MUSGRAVE, Finanza pubblica, equità, democrazia, Il Mulino, Bologna, 1993; W.W. ROSTOW, Politics and the Stages of Growth, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.), 1971. 87 G. BORGATTA, Appunti sull’evoluzione della finanza pubblica, Estratto da “Studi economici”, a. XIX, n. 1, gennaio-febbraio 1964, pp. 6-7. 85 113 Sulla base di questa impostazione, gli autori rilevano che l’aumento della spesa pubblica, in Italia, anche tenendo conto delle inefficienze dei servizi pubblici e dell’elevata quota di spese destinata al pagamento degli interessi del debito pubblico, consentì la formazione di uno stato assistenziale, che, nella redistribuzione delle ricchezze, ridusse notevolmente le situazioni di povertà individuali. Questa caratteristica generale trovò una diversificazione nella divisione dei periodi considerati e nella destinazione obbligata che molte spese avevano, come quelle militari, per le opere pubbliche e per il mantenimento dell’ordinamento amministrativo. Le spese prese in considerazione dagli autori sono quelle dello stato, degli enti locali (comuni, province e regioni) e degli enti pevidenziali (INPS, INAM e INAIL); vennero escluse le spese del settore pubblico allargato, cioè quelle delle aziende autonome, delle municipalizzate, dell’ENEL e di altre piccole aziende dipendenti da enti pubblici88. Nel periodo compreso fra l’unificazione e la fine della prima guerra mondiale (1866-1918), poiché molte spese furono dirette a creare infrastrutture, la funzione redistributiva ebbe un andamento irregolare: crescita limitata, nel periodo di governo della destra (1866-1876); incremento rapido fino al 1918, anche se, rispetto ad altri paesi europei, aveva ancora una funzione molto limitata (0,7 per cento del PIL). Comunque, anche se la parte di spesa destinata alle pensioni sociali fu limitata, l’Italia fu il paese che, per primo, si indirizzò verso la politica del welfare state con una consistente spesa previdenziale89. Fra il 1919 e il 1922, si ebbe una forte espansione delle spese redistributive; un rallentamento fino al 1925; e una forte ripresa negli anni Trenta, allorché furono costituiti gli istituti previdenziali (INPS e INAIL). Comunque, rispetto alla crescita delle spese militari e quelle per le infrastrutture, la crescita delle spese previdenziali fu minore. In questo periodo, bisognerà considerare anche l’influenza che ebbero le specifiche istituzioni create dal fascismo (in particolare con il corporativismo), che differenziò l’Italia dagli altri paesi democratici90. Nell’immediato secondo dopoguerra, le spese redistributive fecero un notevole balzo in avanti, tanto che, nel 1948, erano il doppio di quelle del 1939; ancora più accelerata fu la crescita fra il 1948 e il 1980. È stata calcolata una crescita del 9 per cento l’anno, cioè superiore alla crescita della spesa complessiva. L’incidenza sul PIL fu del 10 per cento. La componente più dinamica fu sempre la spesa previdenziale. Un rallentamento nella crescita si ebbe solo nel biennio 1973-74, “rallentamento tuttavia inferiore a quello che caratterizz[ò] il prodotto interno e quindi associato ad un balzo del rapporto spesa / prodotto”91. 88 Ibidem, p. 15. Ibidem, p. 60. 90 Ibidem, pp. 67-70. 91 Ibidem, p. 74. 89 114 La seconda ricerca che abbiamo preso in esame riguarda l’espansione della spesa pubblica in Italia fra il 1960 e il 1990. La metodologia adottata dall’autore, Domenico Franco, è quella della disaggregazione delle spese, per cui esamina solo tre categorie di spese – l’istruzione, la sanità e la previdenza e assistenza –, che rappresentarono circa il 50 per cento delle erogazioni pubbliche italiane al netto degli interessi sul debito. Le ragioni della disaggregazione sono dovute al fatto che la spesa era molto “eterogenea sia sotto il profilo economico sia sotto quello funzionale”; gli enti che effettuavano le spese avevano caratteristiche ed obiettivi diversi; che la capacità dei cittadini, dei politici e dei burocrati di influire sulle spese variavano allorché si passava da una categoria di spese ad altre; i fattori demografici, congiunturali ed ideologici influivano, in modo diverso, a seconda del tipo di spesa. In generale, sulla crescita delle spese influivano diverse decisioni prese in tempi e da soggetti diversi con differenti obiettivi da realizzare e dal loro interagire con gli eventi macroeconomici92. Le categorie di spese prese in considerazione, per il trentennio 1960-1990, determinarono i due terzi dell’incremento della incidenza delle stesse sul prodotto interno. La crescita delle spese per l’istruzione si ebbe in conseguenza di un fattore di tipo strutturale, cioè per la sempre maggiore diffusione della scolarizzazione, connessa al processo di crescita economica e sociale della popolazione. A questa ragione si unì una causa di natura politica: aumentò il numero degli insegnanti per perseguire obiettivi occupazionali. Comunque, vi fu carenza di controllo delle spese e le tensioni sociali contribuirono alla crescita93. Le spese per la sanità aumentarono per l’aumento della quantità dei servizi forniti ai cittadini. Si prolungò la durata media della degenza, che, comunque, fu inferiore a quella registrata in altri paesi europei. Crebbe il costo dei servizi, maggiormente per il miglioramento delle tecniche mediche e per la maggiore attitudine dei cittadini verso la cura della salute. In altri termini, l’aumento della spesa sanitaria fu dovuta a fattori inevitabili. In questa prospettiva, contribuì il prolungarsi della vita media e del costo dei servizi, tra i quali, maggiormente, il costo per il personale che lavorava nel settore94. La lievitazione della spesa per la previdenza e assistenza fu dovuta, principalmente, alla crescita delle pensioni. La “politica sociale” andò sempre più identificandosi con la “politica delle pensioni”95. L’aumento fu determinato dall’allungamento della vita media della popolazione; dall’estensione del sistema pensionistico alla globalità dei cittadini; dal largheggiare nella concessione di 92 93 94 95 D. FRANCO, L’espansione della spesa pubblica, cit., p. 9. Ibidem, pp. 76-77. Ibidem, pp. 112-113. Ibidem, p. 170. 115 pensioni di invalidità da parte dell’INPS. Anche la normativa, molto favorevole ai pensionati, sostenne la crescita della spesa. Le norme più dispendiose riguardarono: 1) le condizioni per l’erogazione della pensione (età, anzianità contributiva e reddito); 2) possibilità di cumulo di più pensioni; 3) collegamento fra retribuzione e pensione96. In conclusione, mancò una programmazione e un controllo sulle spese che si effettuavano. Crebbero gli organici nel settore dell’istruzione, senza controllo; la spesa sanitaria non si riuscì a contenerla per l’evoluzione delle tecniche mediche e l’invecchiamento della popolazione; la somma di più provvedimenti nel settore pensionistico non favorì l’attuazione di una riforma organica. Pertanto, l’autore consiglia al governo la necessità di “programmare più efficacemente la dinamica delle spese e al Parlamento e all’opinione pubblica di controllare più strettamente la gestione della stessa e il rispetto dei programmi”97. 4. Il debito pubblico Il disavanzo del bilancio dello stato e il conseguente debito pubblico, spesso, condizionarono la politica economica dei governanti, sia prima che dopo l’unità d’Italia. Questa circostanza ha suscitato l’interesse degli storici per lo studio del debito pubblico. In qualche caso, essi furono chiamati a dare il loro contributo alle ragioni dell’indebitamento e alla necessità del riordino dei conti pubblici, come fece Paolo Baffi, all’inizio degli anni Novanta, con la ricerca pubblicata a cura dell’Ente per gli Studi Monetari, Bancari e Finanziari “Luigi Einaudi”98. In tale ricerca, Vera Zamagni ricostruì la storia del debito pubblico italiano nei primi quindici anni dell’unità d’Italia (1861-1876)99 e Gianni Toniolo, assieme a Piero Ganugi, trattarono gli anni compresi fra il 1876 e il 1947100. Nel primo lavoro, viene evidenziata la crisi della finanza pubblica italiana nel primo decennio dell’Unità (1861-1870) e la politica di rientro attuata da Sella e Minghetti, nel quinquennio successivo, attraverso un aumento delle 96 Ibidem, pp. 174-175. Ibidem, pp. 210-211. 98 AA.VV., Il disavanzo pubblico in Italia: natura strutturale e politiche di rientro, vol. I, Alle radici del deficit: politica della spesa e politica fiscale. Vol. II. Le politiche di rientro: problemi macro e microeconomici: dell’aggiustamento, a cura dell’Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari “Luigi Einaudi”, Il Mulino, Bologna, 1992. 99 V. ZAMAGNI, Debito pubblico e creazione di un nuovo apparato fiscale nell’Italia unificata (1861-1876). Come la Destra Storica affrontò e risolse un caso di debito pubblico in rapida espansione, in “AA.VV., Il disavanzo pubblico in Italia”, vol. II, cit., pp. 9-95. 100 G. TONIOLO e P. GANUGI, Il debito pubblico italiano in prospettiva secolare (1876-1947), in “AA.VV., Il disavanzo pubblico in Italia”, vol. II, cit., pp. 103-143. 97 116 imposte dirette. La tesi di Zamagni – alla quale si allineò Marongiu – è che il pareggio del bilancio e il contenimento del debito pubblico si ebbe per la decisa volontà dei governanti, per la loro coerenza e perché erano convinti che il pagamento dei tributi avesse una motivazione etica, cioè contributiva a creare la coscienza contributiva degli italiani101. Questa tesi, però, venne contestata da Giuseppe Tattara, che, partendo dall’ipotesi dello storico Luigi Luzzatto, per cui “l’unificazione del regno fu fatta con il capitale straniero”, ritenne importante l’influenza che ebbe l’andamento del ciclo finanziario internazionale sulle decisioni di politica economica dei governanti. Egli dava importanza al grado di apertura dell’Italia nei confronti dell’estero e agli acquisti di titoli del debito pubblico italiano effettuati sui mercati di Parigi e di Londra. Poiché l’Italia divenne una nazione dalla quale entravano ed uscivano i flussi dei capitali esteri, attraverso l’acquisto e la vendita di titoli italiani, la sua attività interna fu legata dalla disponibilità di capitale straniero. “L’attività interna va spiegata – scrive Tattara – principalmente attraverso gli eccessi e le contrazioni dei capitali disponibili a livello internazionale, quindi attraverso mutamenti di offerta”102. Pertanto, poiché, negli anni Settanta dell’Ottocento, divenne più costoso, per l’Italia, procurarsi capitali stranieri fu necessario aumentare la pressione fiscale. Il lavoro di Toniolo e Ganugi sul debito pubblico italiano, nel periodo 1876-1947, individua, sulla base di dati statistici, le cause dei momenti di crescita del debito e i successi ottenuti con le politiche di rientro103. Nel primo periodo esaminato (1876-1888), la crescita del debito pubblico fu di 3 punti percentuali in più, rispetto alla crescita del PIL. Le ragioni dell’aumento sono da attribuire alla crescita della spesa per la costruzione delle ferrovie, al ristagno dell’economia e perché non fu possibile attuare manovre monetarie per i vincoli posti dal gold standard alla lievitazione della circolazione monetaria. L’indebitamento continuò ad aumentare, nel periodo 1888-1897, per la crisi economica e finanziaria, che non consentì l’aumento della pressione fiscale, e per la crescita delle spese militari dipendenti dall’attuazione della politica coloniale. Nel periodo 1898-1914, la crescita economica fu quasi continua, rallentò solo durante la crisi del 1907, per cui si ebbe il calo dell’indebitamento. La prima guerra mondiale portò una nuova impennata dell’indebitamento, che si riuscì a frenare solo nel 1927 (dall’1,20 per cento del PIL, nel 1920, allo 0,61 nel 1927). Successivamente, fu difficile porre un freno al debito pubblico per la grande crisi, la guerra per la conquista dell’Etiopia e la seconda guerra mondiale. 101 V. ZAMAGNI, Debito pubblico e creazione di un nuovo apparato fiscale, cit., pp. 9-95. G. TATTARA, Commento, in “AA.VV., Il disavanzo pubblico in Italia”, vol. II, cit., p. 100. 103 G. TONIOLO e P. GANUGI, Il debito pubblico italiano in prospettiva secolare (1876-1947), cit., pp. 103-143. 102 117 Questo ciclo, così descritto da Toniolo e Ganugi, non si discosta dal ciclo dell’economia italiana del periodo considerato, gli autori non dicono nulla di nuovo. Essi attribuiscono le cause della crisi di maggior rilievo, quelle del 188893, alla “debolezza della posizione italiana sui mercati finanziari internazionali e alla fragilità del sistema di intermediazione finanziaria”104. Gli autori fanno un confronto con la crisi del 1975 che non sarebbe “nemmeno lontanamente paragonabile, per gravità ed esiti, a quella culminata nel 1893”105. Comunque si tratta di un confronto arbitrario, poiché per la prima crisi sono state solo descritte le cause, senza un’adeguata dimostrazione; la seconda crisi, relativa agli anni Settanta del Novecento, non è stata neanche descritta nelle sue caratteristiche essenziali. Giustamente, commenta Marcello De Cecco riferendosi alle affermazioni di Toniolo e Ganugi, “non si possono fare confronti con il passato, non solo per motivi metodologici, ma anche perché la situazione è molto diversa”106. Tuttavia, dall’infelice confronto effettuato è il meno che si possa dire del lavoro di Toniolo e Ganugi. Sono molte le ragioni della poca attendibilità della ricerca: l’andamento del debito pubblico è visto solo in relazione al PIL, il cui calcolo è difficile e quelli esistenti vanno rivisti; non sono state consultate le fonti documentali, le sole che potrebbero rivelarci se la politica di indebitamento fu dovuta alla finanza internazionale e alle incapacità dei governanti a trovare altre soluzioni per aumentare le entrate; non si evidenziano le relazioni con la politica monetaria, né l’influenza sulla formazione del risparmio. Questi parametri avrebbero chiarito le ragioni del disavanzo del bilancio dello stato e del conseguente indebitamento. La difficoltà che si ha per la ricostruzione della storia della finanza pubblica italiana, l’abbiamo detto, è la mole e la disorganicità della documentazione disponibile. Contrariamente al lavoro di Toniolo e Ganugi, bisogna apprezzare il lavoro di Antonio Confalonieri ed Ettore Gatti sulla politica del debito pubblico in Italia, nel periodo 1919-1943, confrontata con quella della Gran Bretagna, della Francia e della Germania107. Si tratta di un lavoro ricco di dati commentati solo in parte dagli autori. La prima considerazione deriva dal rapporto di preferenza dei governanti, allorché hanno bisogno di capitali, fra queste tre fonti: a) anticipazioni da chiedere alla banca centrale; b) emissione di cartamoneta; c) debito pubblico. Le tre fonti di finanziamento furono usate, di volta in volta, in Italia e negli altri paesi europei, secondo le circostanze. Altra scelta riguardò 104 Ibidem, p. 138. Ibidem, p. 138. 106 M. DE CECCO, Commento, in “AA.VV., Il disavanzo pubblico in Italia”, vol. II, cit., p. 145. 107 A. CONFALONIERI e E. GATTI, La politica del debito pubblico in Italia (1919-1943), voll. I e II, Cariplo, Laterza, Bari, 1986. 105 118 l’uso del debito fluttuante o redimibile o consolidato. Al terzo tipo di debito si fece ricorso nei momenti più difficili, come la grande crisi o le due guerre mondiali. Più facile fu il ricorso al debito fluttuante – intendendo questo per debito a breve termine, depositi nel conto corrente della Cassa Depositi e Prestiti ed emissione di biglietti per conto dello stato –, che, comunque, rappresentò una percentuale minima del debito pubblico complessivo. Continua fu la tensione dei governanti per trasformare il debito fluttuante in consolidato, poiché si temeva che, arrivando un momento di difficoltà dell’economia, lo stato, avendo bisogno di capitali, in presenza di un elevato debito fluttuante, avrebbe ottenuto con difficoltà nuovi prestiti. La ricerca di Confalonieri e Gatti si sofferma anche sul rapporto fra saggi di interesse e scadenze del debito pubblico. Gli autori sottolineano la incapacità dei governanti dell’epoca a gestire l’andamento dei saggi di interesse del debito pubblico. Per i saggi da applicare si ebbero contrasti fra banca centrale e banche ordinarie, fra Tesoro dello Stato e Parlamento e fra Tesoro e banca centrale. La banca centrale, allorché il Tesoro fissava i saggi di interesse, si sentiva privata della libertà di manovre degli stessi, perché non riusciva a gestire la politica monetaria. La conseguenza era che i governanti e la banca centrale, dovendo combattere su più fronti, non furono in condizioni di controllare il livello dei prezzi, specialmente nei momenti più difficili, come la grande crisi del 1929-33108. Un ulteriore problema affrontato da Confalonieri e Gatti riguarda il collocamento del debito pubblico. Problema di non facile soluzione, perché non vi sono dati sul classamento del debito pubblico italiano e non è facile stabilire quale parte delle disponibilità finanziarie fu investita in titoli pubblici dalle banche, dalle compagnie di assicurazione, dagli enti statali (Cassa Depositi e Prestiti, istituti di previdenza) e dalle imprese in genere. Dai pochi dati disponibili risulta una preferenza per gli investimenti in buoni del Tesoro pluriennali; nei debiti consolidati grossi investimenti furono effettuati dalla Cassa Depositi e Prestiti e dai risparmiatori privati, mentre, molto scarsi furono gli investimenti effettuati dalle banche, coscienti dell’inflazione che corrodeva i prestiti a lungo termine e i fondi pensione aziendali109. In conclusione, il lavoro di Confalonieri e di Gatti può considerarsi una fonte preziosa per ulteriori ricerche sulle tecniche di emissione dei titoli del debito pubblico, sulla scelta di politica monetaria, sulla regolazione dell’andamento dei prezzi e sulla collocazione del risparmio. Interessanti sono quelle ricerche – costruite sulla base di dati statistici e documenti – dirette a chiarire le interazioni esistenti fra politica monetaria, 108 109 Ibidem, vol. I, p. 23. Ibidem, vol. I, pp. 34-35. 119 politica bancaria e finanziaria ed economia reale. Un tentativo in tale direzione viene fatto nel lavoro di Panteghini e di Spinelli, dal titolo: “Un buon rientro dal debito pubblico: l’Italia tra ’800 e ’900”110. In esso, la politica monetaria e quella fiscale dei governanti dell’epoca non vengono viste slegate. Negli anni compresi tra la fine dell’Ottocento e lo scoppio della prima guerra mondiale, si ebbe un’interazione fra strategia monetaria e politica fiscale. Gli autori partono dal presupposto che si ebbe una stabilizzazione dei cambi, grazie alla riduzione dello stock di titoli italiani quotati all’estero. Ciò fu una conseguenza anche del riequilibrio della bilancia dello stato, grazie ad un maggior gettito fiscale e il conseguente freno alla crescita dell’emissione dei titoli del debito pubblico (dal 1896 al 1913, il rapporto debito pubblico PIL scese dall’1,32 allo 0,78 per cento)111. Pertanto, la stabilità dei cambi comportò la stabilità dell’emissione monetaria. “Il legame fra la politica monetarie e la politica fiscale risulta biunivoco, dal momento che la stessa politica monetaria svolge un ruolo fondamentale nell’equilibrio del bilancio statale e sulla riduzione dello stock del debito pubblico”. Grazie a tale interazione e alla conseguente stabilità finanziaria fu possibile il ritorno alla convertibilità della cartamoneta e la conversione del debito pubblico (nel 1906) fu subito consolidato. Gli autori sono convinti che i governanti dell’epoca, assieme ai responsabili della politica bancaria, seguirono una teoria fiscale–finanziaria con una duplice applicazione: il cambio della lira influì sulla politica fiscale nei suoi aspetti di movimenti di capitali; lo stock del debito pubblico, collocato all’estero, costituiva un veicolo di perturbazione sul cambio delle lire e sulle riserve degli istituti di emissione, ciò, a sua volta, influiva sulla politica monetaria da adottare112. A conclusioni molto vicine a quelle di Panteghini e di Spinelli giunge Paolo Pecorari nel suo lavoro dal titolo: “La politica finanziaria di Luigi Luzzatti, Ministro del Tesoro nei governi Rudini (1896-98)”113. Il periodo preso in considerazione da Pecorari è più breve, ma egli subito fissa l’indirizzo di politica finanziaria voluto da Luzzatti: “riequilibrare la bilancia dei pagamenti, risanare la circolazione e raggiungere il pareggio”, aumentando la pressione fiscale e controllando le spese al fine di ridurre il debito pubblico. Nell’attuare quella politica, Luzzatti insistette, innanzitutto, sul risanamento monetario, per cui riuscì a ridare alla lira di 110 P. PANTEGHINI e F. SPINELLI, Un “buon” rientro dal debito pubblico: l’Italia tra ’800 e ’900, in “Politiche macroeconomiche, gestione del debito pubblico e mercati finanziari”, a cura di M. Bagella e L. Paganetto, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 145-182. 111 Ibidem, p. 147. 112 Ibidem, pp. 151-152. 113 P. PECORARI, La politica finanziaria di Luigi Luzzatti, Ministro del Tesoro nei governi Rudini (1896-98), in “Finanza e debito pubblico in Italia tra ’800 e ’900”, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, Venezia, 1995, pp. 13-97. 120 carta la convertibilità in oro. Ciò passò attraverso il risanamento patrimoniale degli istituti di emissione, fiaccati dalla crisi finanziaria del 1893-94. Luzzatti riuscì a risanare il Banco di Napoli, che fu particolarmente coinvolto nella crisi, rafforzò le riserve degli istituti di emissione ed avviò quel processo di consolidamento della Banca d’Italia, che, nel giro di un quarto di secolo, acquistò il monopolio dell’emissione della cartamoneta e prese le redini della politica monetaria del paese contrastando la politica dei ministri del Tesoro. Risanata la moneta si favorì anche il risanamento delle finanze dello stato e la riduzione del debito pubblico, che si ebbe anche grazie all'aumento del gettito tributario e all’aumento delle rimesse degli emigrati. Quest’ultimo è un fattore positivo della bilancia dei pagamenti, per la quale Luzzatti si impegnò a combattere le frodi che si commettevano, in Italia e all’estero, allorché gli emigranti spedivano i loro risparmi in Italia114. Nell’ambito delle ricerche sul debito pubblico, vanno segnalati i saggi di Giancarlo Salvemini e di Vera Zamagni, di Giuseppe Felicetti e di Andrea Ripa di Meana pubblicati nella Collana storica della Banca d’Italia. Giancarlo Salvemini e Vera Zamagni hanno ricostruito la storia dell’indebitamento statale italiano nel periodo fra le due guerre115. Si tratta della determinazione del fabbisogno di cassa dello stato attraverso serie storiche (per il periodo 1918-1939) relative ai titoli del debito pubblico emessi dallo stato a breve, medio e lungo termine; la raccolta del risparmio postale; le anticipazioni che gli istituti di emissione concessero al Tesoro; i biglietti emessi per conto dello stato; i debiti esteri; altri finanziamenti concessi allo stato. La disponibilità di questi dati consente di analizzare la politica fiscale e monetaria adottata dai governanti nel periodo fra le due guerre. Per un giudizio attendibile sugli effetti del fabbisogno finanziario e del debito del settore statale, secondo gli autori, “richiederebbe che queste grandezze fossero analizzate in relazione alle altre variabili economiche nazionali e internazionali, che influenzavano nel periodo in esame la finanza pubblica italiana e, a loro volta, erano influenzate da queste”. Ciò non è stato fatto dagli autori che hanno voluto dare solo un “contributo conoscitivo” per coloro che vogliono esaminare l’economia dell’epoca in forma critica. Il saggio di Salvemini e Zamagni viene completato da un’appendice curata da Alberto Baccini, dove si effettua un’analisi critica comparata delle serie ricostruite e di altre ricostruzioni esistenti in tema di bilancio pubblico, offrendo un’interpretazione del dibattito sulla finanza pubblica116. 114 Ibidem, pp. 64-65. G. SALVEMINI e V. ZAMAGNI, Finanza pubblica e indebitamento tra le due guerre mondiali: il finanziamento del settore statale, in “AA.VV., Problemi di finanza pubblica tra le due guerre (19191939)”, Ricerche per la storia della Banca d’Italia, vol. II, Editore Laterza, Roma-Bari, 1993. 116 A. BACCINI, Appendice A2. Sulla ricostruzione del bilancio dello stato, con particolare riferimento agli anni 1918-39, in “AA.VV., Problemi di finanza pubblica”, cit., pp. 237-283. 115 121 Nello stesso volume relativo ai “Problemi di finanza pubblica tra le due guerre (1919-1939)”, pubblicato nella Collana di “Ricerche per la storia della Banca d’Italia”, vi è un saggio di Giuseppe Felicetti, nel quale si riportano i dati, prima non disponibili, sui rendimenti, all’emissione, dei titoli pubblici, sulle quantità emesse e sui rimborsi effettuati117. “I dati ricostruiti consentono – secondo Franco Cotula – di studiare la gestione del debito pubblico italiano; la scelta dei tassi di interesse all’emissione; l’ammontare, la durata e le altre caratteristiche dei titoli emessi118. Andrea Ripa di Meana, sempre nel volume della Collana di “Ricerche per la storia della Banca d’Italia”, pubblica un saggio su “Il consolidamento del debito pubblico e la stabilizzazione Mussolini”. L’autore, partendo dal presupposto che bisogna trovare la ragione del successo di ogni politica di stabilizzazione, si riaggancia alla teoria di T. Sargent, in base alla quale la politica di pareggio del bilancio, perseguito dai governi, porta alla stabilizzazione del valore della moneta e quindi crea un clima di fiducia nei possessori di titoli del debito pubblico. Questa fiducia dà successo all’operazione di consolidamento del debito. Partendo da questo presupposto, Ripa di Meana ricollega il successo del consolidamento del debito pubblico – attuato da Mussolini, nel 1926, con il prestito Littorio – alla riforma fiscale, che avrebbe ridotto il disavanzo del bilancio dello stato, e alla politica di stabilizzazione della lira con il ritorno all’oro. Il consolidamento del debito consentì al governo di avere pieno controllo monetario, tagliando la spirale che si era creata tra rifinanziamento del debito, cioè continua emissione di titoli pubblici, creazione di moneta, fuga di capitali per la svalutazione della lira e aspettative di svalutazione. Le conseguenze della moneta forte non influirono eccessivamente sui cambi, grazie al contenimento degli scambi internazionali. Molto negativo fu, invece, il permanere dell’elevato costo del denaro, che produsse effetti restrittivi sugli investimenti industriali. “Il consolidamento – conclude Cotula – al di là del breve periodo, avvantaggiò i detentori dei titoli pubblici, che conseguirono guadagni in conto capitale in termini ‘reali’ perché la caduta del corso dei titoli fu più che compensata dalla riduzione del livello dei prezzi, di riflesso, il consolidamento contribuì ad accrescere gli oneri finanziari reali del Tesoro”119. In conclusione, apprezziamo i lavori di Salvemini e Zamagni, di Felicetti e di Ripa di Meana, poiché si pongono obiettivi di ricerca limitati e ben docu- 117 G. FELICETTI, Le emissioni di titoli pubblici nel periodo 1919-1939, in “AA.VV., Problemi di finanza pubblica tra le due guerre”, cit., pp. 333-356. 118 F. COTULA, Introduzione, in “AA.VV., Problemi di finanza pubblica tra le due guerre”, cit., p. XI. 119 Ibidem. 122 mentati. Anzi possono considerarsi il primo passo per ulteriori ricerche. Salvemini e Zamagni riconoscono che i dati raccolti vanno interpretati alla luce di altri dati sull’economia e sulle finanze, altrimenti non possono dare risultati degni di considerazione. Felicetti si propone di misurare la quantità e descrivere le caratteristiche dei titoli emessi, il loro rendimento, nonché i rimborsi effettuati. Anche questa ricerca è prevalentemente informativa. Solo il saggio di Ripa di Meana è interpretativo di un evento ben delimitato, come la conversione del debito fluttuante, che diede buoni risultati grazie al fatto che fu attuato in un momento di politica monetaria deflazionistica. 5. La finanza statale Nell’ambito delle ricerche sulle finanze dello stato, dall’inizio dell’Ottocento alla fine del Novecento, abbiamo ritenuto di soffermarci sul lavoro di Nicola Ostuni, relativo alle finanze del regno delle Due Sicilie120, sul lavoro di Paolo Frascani riguardante i rapporti fra finanza ed economia dall’unità d’Italia agli anni Trenta121, sul mio lavoro relativo all’opera di Marcello Soleri come Ministro delle Finanze e Ministro del Tesoro122, sul lavoro di Giancarlo Morcaldo relativo alle finanze italiane nel trentennio 1960-1992123 e sugli atti del convegno relativo alla finanza pubblica in età di crisi124. Il lavoro di Ostuni percorre, attraverso una complessa analisi bibliografica e documentale, le vicende economico-finanziarie del regno delle Due Sicilie, a partire dalla restaurazione post-murattiana. I risultati portano alla revisione dei giudizi, sulla politica economica della restaurazione borbonica, formulati, in particolare, da Ludovico Bianchini sulla base degli stati discussi dello stato. L’autore dimostra che, in termini reali, in presenza di prezzi decrescenti, rispetto al decennio francese, il bilancio dello stato mostrava le seguenti caratteristiche: 1) rilevanti incrementi in entrata, ottenuti con una pressione tributaria quasi insostenibile; 2) stazionarietà (o comunque modesta crescita) in tutti i settori della spesa, con inevitabile conseguenza della stagnazione. Il forte drenaggio fiscale ed il ricorso all’indebitamento pubblico accentuarono (anche con la rarefazione del circolante) la depressione dei prezzi interni e causarono la sva- 120 N. OSTUNI, Finanze ed economia nel regno delle Due Sicilie, Liguori, Napoli, 1992. P. FRASCANI, Finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni Trenta, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 1988. 122 F. BALLETTA, La politica finanziaria in Italia nel primo e nel secondo dopoguerra. L’opera di Marcello Soleri, ESI, Napoli, 1993. 123 G. MORCALDO, La finanza pubblica in Italia (1960-1992), Il Mulino, Bologna, 1993. 124 AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi, a cura di A. Di Vittorio, Cacucci Editore, Bari, 1993 121 123 lutazione del ducato sui mercasti esteri, dove la moneta napoletana veniva inviata per far fronte ai pagamenti internazionali125. Ostuni, ponendosi sulla linea del modello teorico di Wallerstein, relativamente al funzionamento dell’economia di un’area periferica, dimostra, affrontando anche una importante componente sociale, come, la struttura bancaria napoletana, monopolio di pochi grandi mercanti, gestisse il circuito finanziario, che consentiva un temporaneo rientro dei capitali monetari che venivano riesportati dal governo per far fronte ai suoi impegni internazionali. Il ceto oligarchico dei mercanti banchieri, in tal modo, raccoglieva i frutti dei differenti tassi di interesse tra mercato estero (bassi) ed interno (alti) e beneficiava di alcune scelte di politica economica, che il governo era costretto a compiere per facilitare il compito dei prestatori spesso collegati, con vincoli societari, a importanti banche estere. In tal modo, l’autore sottolinea il fenomeno della preminenza del ceto mercantile nell’economia del regno di Napoli. L’analisi delle vicende politico–finanziarie e socio-economiche del regno borbonico rappresentano i piani strettamente interrelati su cui si costruisce l’impianto del lavoro. Il libro di Frascani raccoglie scritti inediti e già pubblicati sulle finanze dello stato italiano e la finanza locale in connessione con lo sviluppo economico e con i mutamenti sociali che si ebbero dall’Unità alla vigilia della seconda guerra mondiale126. Non trattandosi di capitoli di una stessa ricerca, i lavori difettano di coordinazione, tuttavia sono legati da un comune intento: mettere in evidenza i meccanismi di finanziamento del sistema finanziario, al fine di stabilire le connessioni fra i mutamenti della finanza pubblica e le scelte effettuate dai responsabili della politica nazionale e locale. “Tale angolazione – secondo Frascani – consente di delineare la centralità delle problematiche finanziarie nella storia economica dell’Italia contemporanea, ma anche di evidenziare la complessità e la poliedricità in un quadro interpretativo più ampio”127. Per il governo della destra storica, Frascani sottolinea le difficoltà che furono incontrate per l’applicazione del sistema di riscossione delle imposte dirette, poiché la maggior parte della popolazione considerava il pagamento dei tributi un atto imposto, una violenza o un’ingerenza dello stato nella vita privata. Il compito degli esattori dei tributi fu quello di mediare fra le esigenze e le aspettative dei contribuenti, i quali si dovettero convincere che quel pagamento era il corrispettivo di servizi sociali che ricevevano. Un altro aspetto sottolineato dall’autore riguarda la redistribuzione dei redditi attuata dalla politica fiscale della destra storica128. Redistribuzione sotto125 N. OSTUNI, Finanza ed economia nel regno delle Due Sicilie, cit., pp. 20 e sgg. P. FRASCANI, Finanze, economia e intervento pubblico, cit., p. XII. 127 Ibidem, p. XIV. 128 Ibidem, pp. 3- 5. 126 124 lineata da Rosario Romeo, Valerio Castronovo e Franco Bonelli nei loro lavori sulla interpretazione del capitalismo italiano129, per cui la politica della destra storica comportò un trasferimento di ricchezze dal comparto agricolo a quello dei servizi e delle infrastrutture. Saltando alle finanze dello stato nel periodo di passaggio dall’economia bellica all’economia di pace (1918-1922), Frascani attribuisce un ruolo determinante all’intervento pubblico, ruolo segnato dall’alternarsi di inflazione e deflazione, effetti monetari solo in parte favorevoli alle industrie, ma che avvantaggiarono le banche pubbliche con particolare riguardo agli istituti di emissione finanziatori delle attività industriali. La presenza dello stato nell’economia, durante il primo dopoguerra, si rafforzò “a partire da un’idea di integrazione dei circuiti finanziari pubblici e privati che tenne conto dell'assetto produttivo e delle esperienze maturate nella gestione della politica economica durante la fase della riconversione”130. Nella fase liberistica, l’intervento si consolidò e fu demandato “alle alte sfere di una tecnocrazia che, proveniente dalle esperienze del decennio giolittiano, attraversò senza traumi significativi il periodo bellico e postbellico per approdare, durante il periodo fascista, a nuovi e più significativi traguardi nella gestione esecutiva dell’economia pubblica”131. Comunque, secondo Frascani, queste tematiche, incentrate principalmente sulla posizione che il capitale finanziario ebbe nell’economia pubblica, attendono ancora di essere studiate, anche in relazione al processo di sviluppo economico132. Il problema della influenza della finanza locale sullo sviluppo economico italiano viene affrontato da Frascani per il periodo liberale e in età crispina “si riaggancia sia alla prospettiva spesa pubblica – modernizzazione – sviluppo che al modulo fiscalità – consumi – crisi agraria”133. Le conclusioni dell’autore sono molto significative, poiché rilevano che, nel periodo considerato, i comuni italiani furono impegnati ad adeguare i loro servizi all’evoluzione dell’economia locale. Tuttavia, tale tendenza – secondo Frascani – andava “commisurata ad una varietà di situazioni geografiche ed economiche che nella nostra indagine appare solo tratteggiata a grandi linee. Ribadendo ancora una volta l’esigenza di ricostruire sul metro di analisi locali le situazioni economiche e politiche a cui possono essere riferite le scelte delle amministrazioni locali”134. Comunque, tali 129 R. ROMEO, Risorgimento e capitalismo, Bari, 1959, p. 122; V. CASTRONOVO, La storia economica, in “Storia d’Italia”, vol. 4, t. 1, Torino, 1975, p. 26; F. BONELLI, Il capitalismo italiano. Linee generali d’interpretazione, in “Storia d’Italia”, Annali, Torino, 1978, pp. 1202 e sgg. 130 P. FRASCANI, Finanze, economia, cit., p. 153. 131 Ibidem, p. 153. 132 Ibidem, p. 112. 133 Ibidem, p. XIV. 134 Ibidem, pp. 62-63. 125 scelte andavano ricollegate alla politica finanziaria generale del paese, sia per gli enti locali che per gli enti statali. Ciò dimostra che la strada della ricerca storica in fatto di finanza locale è ancora molto lunga. Il mio lavoro sull’opera compiuta da Marcello Soleri, in materia di politica finanziaria135, vuole essere un contributo di chiarificazione sull’operato di un uomo della “sinistra liberale” – alla quale appartennero Maffeo Pantaleoni, Antonio De Viti De Marco e Luigi Einaudi –, che, nel primo dopoguerra, fu prima commissario per gli approvvigionamenti e consumi e poi ministro delle Finanze; nel secondo dopoguerra, fu ministro del Tesoro. Il lavoro è impostato con l’intento di stabilire quanto Soleri si adoperò per eliminare le distorsioni del capitalismo italiano derivanti dagli sconvolgimenti economici e finanziari prodotti dalla guerra. I provvedimenti urgenti che fu necessario prendere per gli eventi bellici in atto, accompagnati alle distruzioni inutili di ricchezze, favorirono la corruzione, l’evasione fiscale, lo smantellamento delle direzioni amministrative delle aziende pubbliche e private e, principalmente, aiutarono l’arricchimento di alcuni a danno di altri. In qualità di commissario per gli approvvigionamenti e consumi, nel primo dopoguerra, a Soleri toccò il non facile compito di liquidare, gradualmente, l’apparato annonario costruito durante la guerra, intorno al quale si effettuavano non poche operazioni speculative, fonte di arricchimento per i fornitori dello stato e per gli addetti alla distribuzione di generi di prima necessità. Per le finanze dello stato, lo smantellamento dell’apparato annonario significò riduzione delle spese. Nella stessa direzione andò l’abolizione del prezzo politico del pane, che si traduceva in una spesa inutile per lo stato e un beneficio eccessivo per le classi ricche. Come ministro delle Finanze preparò un progetto di riforma generale del sistema tributario statale, che si era strettamente correlato con la finanza locale. Il progetto, tuttavia, non fu approvato per la caduta del governo. Soleri introdusse numerosi correttivi ai tributi al fine di eliminare le sperequazioni esistenti fra imposte ordinarie e imposte straordinarie. In particolare, migliorò l’imposta sul patrimonio, per la quale era contrario in linea di principio, perché, in un paese civile, le imposte devono colpire esclusivamente i redditi e non taglieggiare i patrimoni, che sono la fonte per la realizzazione di altre ricchezze. Egli riusciva ad accettarla solo come imposta straordinaria e ne vedeva l’applicazione come imposta reale, proporzionale e secca, non personale e progressiva. Comunque, con l’introduzione delle sue modifiche riuscì quasi a trasformarla in imposta sul reddito, poiché dilazionò il pagamento in un arco di tempo di venti anni, in modo che il peso ricadeva sul reddito senza taglieg- 135 F. BALLETTA, La politica finanziaria in Italia nel primo e nel secondo dopoguerra, cit., pp. 1-185. 126 giare il patrimonio. Nel primo dopoguerra, Soleri riuscì nel difficile compito di operare il passaggio dalla finanza straordinaria di guerra a quella ordinaria di pace. Passaggio che andava attuato gradualmente per evitare scossoni alla economia ancora troppo fragile. Così non fu facile evitare il calo delle entrate e, contemporaneamente, allentare la pressione tributaria al fine di non scoraggiare gli investimenti. Nel secondo dopoguerra, a Soleri, come ministro del Tesoro, toccò il compito di attuare una politica antinflazionistica attraverso il contenimento delle spese dello stato e la riduzione della circolazione monetaria. I provvedimenti più significativi che prese riguardarono ancora l’abolizione del prezzo politico del pane e il difficile riconoscimento, da parte del governo alleato, del credito italiano relativo alle am-lire. Ma il provvedimento più coraggioso fu preso, nel 1945, con il lancio di un prestito in buoni quinquennali del Tesoro, in un momento in cui l’economia era distrutta e bancari, finanzieri ed economisti erano contrari. Il prestito ebbe un grande successo, Einaudi riconobbe che vi fu un “plebiscito” dei risparmiatori a favore del provvedimento. Ciò significò un notevole freno al dilagare dell’inflazione, un rafforzamento della fiducia degli alleati nella capacità di ripresa dell’Italia e fu il primo passo serio per la ricostruzione economica del paese136. Tra i saggi sulla finanza pubblica in generale ritengo di segnalare il lavoro di Giancarlo Morcaldo sulla finanza pubblica in Italia fra il 1960 e il 1992137. Un periodo di profonde trasformazioni del tessuto economico-sociale, caratterizzato, negli anni Settanta, dall’inflazione galoppante favorita dalla spinta salariale, dalla crescita del costo delle materie prime e delle fonti energetiche. Negli anni Ottanta, l’inflazione diminuì per la riduzione del costo dei prodotti energetici, per l’azione della politica monetaria e del cambio. In questo quadro, l’autore si chiede in che misura la finanza pubblica influì sull’evoluzione dell’economia. In particolare come l’economia risentì del peso dell’intervento pubblico, dell’elevato fabbisogno di entrate e dell’accumulo del debito pubblico. Alla crescita della spesa pubblica e del disavanzo, nel trentennio considerato, contribuirono fattori di fondo – come la crescita demografica e il miglioramento della sicurezza sociale già avviato nei decenni precedenti –, ma anche la dissociazione di responsabilità tra i centri decisionali di spesa e quelli incaricati di reperire le entrate necessarie a far fronte alle spese; l’irrigidimento della spesa connessa con l’introduzione di meccanismi automatici di crescita delle variabili demografiche e macroeconomiche; l’incapacità delle strutture del bilancio ad adeguarsi al fabbisogno finanziario dello stato. A poco serviranno le politiche di 136 137 F. BALLETTA, La politica finanziaria in Italia, cit., pp. 158-160. G. MORCALDO, La finanza pubblica in Italia (1960-1992), cit., pp. 5-265. 127 bilancio per il riequilibrio dei conti pubblici, in particolare fu “posto in rilievo come gli obiettivi dell’azione sul saldo ‘primario’ nel corso del tempo [furono] resi più stringenti, per far fronte agli elevati tassi d’interesse pagati per il debito pubblico”138. I riflessi dell’intervento pubblico e del disavanzo del bilancio dello stato – esaminati attraverso il sistema tributario e nei principali comparti della spesa – vengono visti da Morcaldo in relazione al reddito disponibile delle famiglie e all’andamento dei prezzi. In proposito, vengono analizzati i diversi canali attraverso i quali si può influire sui prezzi e sui redditi: la politica di sostegno della domanda; il ricorso al mercato del credito; la creazione di moneta; gli inasprimenti fiscali. L’autore, inoltre, esamina gli effetti dell’espansione della spesa pubblica e dei disavanzi di bilancio sul settore privato. In particolare, studia gli effetti del costo dei loro finanziamenti (crowding aut) e quelli sull’attività produttiva attraverso il sostegno del cambio, che, in conseguenza del divario d’inflazione, rispetto agli altri paesi, causò rilevanti perdite di competitività. Le ultime conseguenze del dissesto della finanza pubblica vengono viste in relazione alla formazione del risparmio, prendendo in considerazione la crescita dei consumi e il miglioramento del sistema pensionistico. Nel presentare il volume di Morcaldo, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, sottolinea i fattori che influirono sul grado di efficienza e controllabilità della spesa. “Tra questi – egli scrive – alcune modifiche istituzionali che hanno interessato i vari livelli di governo – da cui è derivata una dissociazione di responsabilità tra gli enti preposti all’attuazione degli interventi e quelli incaricati di reperire i mezzi finanziari occorrenti; l’introduzione di meccanismi automatici di determinazione della spesa – che ne hanno rafforzato i legami con le variabili macroeconomiche e demografiche; la rigidità della struttura dei bilanci pubblici e la farraginosità delle procedure amministrative – che hanno ridotto la capacità delle pubbliche amministrazioni di far fronte all’evolversi dei bisogni”139. Un richiamo all’importanza della storia della finanza pubblica fu fatto nel convegno che si tenne, a Bari, nell’autunno del 1991, su “La finanza pubblica in età di crisi”140. In quella occasione, Luigi De Rosa sottolineò le “modeste presenze della storiografia finanziaria”, rispetto alla storiografia economica generale. Sull’importanza della finanza pubblica, De Rosa disse che si tratta di “un tema centrale della storia economica; non solo un capitolo di straordinario interesse, suscettibile di un vastissimo campo di indagine, ma uno strumento per intrecciare relazioni fra l’uno e l’altro fenomeno, per trarre dall’esperienza sto- 138 Ibidem, p. 19. A. FAZIO, Prefazione, in “G. Morcaldo, La finanza pubblica italiana”, cit., p. 7. 140 AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi, a cura di A. Di Vittorio, cit., pp. 1-345. 139 128 rica la conferma del probabile successo o fallimento di certi provvedimenti, per valutare il grado di indipendenza degli altri paesi, per definire il grado di giustizia o di efficienza sociale che caratterizza il paese; in breve: il livello stesso della libertà degli strati sociali e dei fattori che lo sostengono”141. Il tema del convegno era circoscritto ai momenti di crisi e abbracciava un arco temporale piuttosto vasto: dalla fine del ’500 alla metà del ’900. I relatori che trattarono l’epoca contemporanea furono Leandro Conte, Daniela Felisini, Luigi De Rosa e Paolo Frascani. Leandro Conte trattò del rapporto fra finanza pubblica e domanda di credito negli stati sardi nel 1857142. La crescita delle spese statali, in Piemonte, si pensava di coprirla con le riforme del fisco, in particolare con la riduzione dei dazi doganali e il miglioramento del sistema di riscossione dei tributi, eliminando gli appalti. Poiché la riforma fiscale non fu approvata, complessivamente, dal Parlamento, ma per pezzi, la frantumazione la privò di efficacia e il rinnovamento mancò. Pertanto, il governo dovette cercare la collaborazione dell’istituto di emissione. La Banca Nazionale garantì liquidità alle finanze statali con il ricorso a prestiti sull’estero e con l’introduzione del corso forzoso della cartamoneta. La novità consisteva nell’avere trasferito la gestione della crisi finanziaria dallo stato ad una istituzione privata, la Banca Nazionale, che si poteva avvalere del diritto di emissione ed effettuare operazioni di drenaggio di capitali per il fabbisogno finanziario dello stato. Ciò si riuscì a realizzare solo quando furono eliminate le norme sull’usura, che rendevano poco elastico il sistema finanziario. “In conclusione – rileva Conte – l’insieme degli scompensi seguiti alla riforma del sistema fiscale e all’indirizzo produttivistico cui i governi Cavour orientarono l’economia piemontese si caratterizzò in un’alta mobilità di capitali, in una costante esposizione sull’estero”143. La relazione di Daniela Felisini affronta le crisi che si ebbero nello Stato Pontificio: quella del 1831 con caratteri politico-sociali e la carestia nel 184647, che continuò con gli avvenimenti rivoluzionari del 1848-49. Per la fragilità e la rigidità del sistema finanziario, lo stato non seppe adeguarsi al fabbisogno di nuove entrate per coprire le spese militari e per far fronte alla riduzione delle entrate, conseguenza della crisi economica. La politica finanziaria, non riuscendo a trovare nuovi tributi, seppe solo aumentare ulteriormente l’indebitamento con l’estero144. 141 L. DE ROSA, Prefazione, in “AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi”, cit., p. XVI. L. CONTE, Finanza pubblica e domanda di credito, la crisi del 1857 negli stati sardi, in “AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi”, cit., pp. 51-61. 143 Ibidem, p. 61. 144 D. FELISINI, Le finanze pontificie nell’Ottocento tra inquietitudine politico-sociale e crisi economica, in “AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi”, cit., pp. 181-211. 142 129 Luigi De Rosa traccia un panorama delle crisi finanziarie che interessarono l’Italia dalla Unificazione agli anni Settanta del Novecento145. Egli esamina le ragioni delle crisi e sottolinea i sacrifici che furono compiuti dagli italiani per il loro superamento, “sempre tramandando alle generazioni successive gravose eredità”. Spesso le crisi furono causate da errate politiche interne, ma anche da fattori economici esterni. “Quel che si vuole sottolineare – egli scrive – è che la finanza pubblica di uno Stato, in particolare lo stato italiano, non ha mai vissuto, né può vivere, fuori del mondo, ma è immersa, anche con le sue più recondite fibre, nel tessuto economico nazionale e internazionale, e risente profondamente dei suoi movimenti. La finanza pubblica riflette cioè, nel bene e nel male, quanto accade nella realtà in cui il paese è collocato e soprattutto esprime le premesse di valore, o le pubbliche scelte, come oggi si dice, della classe politica che lo controlla e lo guida”146. Paolo Frascani esamina l’influenza che la finanza locale ha avuto sulla evoluzione dell’economia italiana nella seconda metà dell’Ottocento147. Rileva i rapporti fra enti locali e Cassa Depositi e Prestiti, che finanziò molte spese pubbliche. Così il risparmio raccolto dalla Cassa muoveva concorrenza ai capitali che dovevano servire alle industrie. Si tratta di una interferenza fra finanza locale e assetti produttivi, proprio nel momento in cui si stava riducendo l’indebitamento dello stato per favorire il credito alle imprese. “La politica di bilancio dei comuni fa registrare un andamento sostanzialmente opposto (a quello dello stato), dispiegando effetti meno vistosi sul piano quantitativo, ma probabilmente più mirati ed efficaci, in quanto riconducibili ad una miriade di situazioni locali”148. 6. La storiografia sulla finanza locale Per la storia della finanza locale la letteratura esistente è ancora più scarna rispetto agli studi sulla finanza statale. Tra le poche ricerche serie che sono state realizzate, nell'ultimo trentennio, prenderemo in considerazione due pubblicazioni di Piola Caselli sul bilancio del comune di Cagliari, dal 1837 al 1848149, e 145 L. DE ROSA, Crisi e risanamento della finanza pubblica nell’Italia unita, in “AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi”, cit., pp. 281-304. 146 Ibidem, p. 304. 147 P. FRASCANI, Crisi economiche e finanza locale nell’Italia liberale, in “AA.VV., La finanza pubblica in età di crisi”, cit., pp. 305-323. 148 Ibidem, p. 323. 149 F.P. CASELLI, Il bilancio del comune di Cagliari (1837-1848), in “Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari”, Milano, 1976. 130 le finanze del comune di Domodossola nel Novecento150; una ricerca di Maria Carmela Schisani sulle finanze del comune di Piedimonte d’Alife, dal 1830 al 1859151; una mia pubblicazione sulla politica tributaria del comune di Napoli, dal 1861 al 1883152, e il recente lavoro di Rosa Vaccaro su comuni e stato nell’Italia liberale153. I temi di maggiore interesse per la storia della finanza locale sono le relazioni intercorse fra governo centrale ed enti periferici. Il dibattito teorico sui rapporti fra stato e comuni ha riguardato sia le entrate che le spese. Nei primi decenni dell’Unità, erano i comuni che riscuotevano il maggior gettito tributario derivante dai dazi e ne trasferivano una parte allo stato; dal 1881, con il dissesto finanziario dei comuni più grossi – Roma, Napoli, Torino, Milano – la riscossione passò allo stato, che si impegnò a trasferire una parte del gettito ai comuni. In effetti, il modello dell’autonomia impositiva degli enti locali durò fino agli anni Settanta del Novecento. Un modello che prevedeva l’ente locale come “prelevatore efficiente”. Ciò, tuttavia, si attuò solo per aree imponibili ristrette (es.: imposta sugli immobili), molto più difficile risultava l’accertamento dei redditi a livello locale. Dagli anni Settanta in poi, con la riforma della finanza locale, si passò al modello del prelievo centrale e il trasferimento di una parte delle entrate statali agli enti locali154. Anche dal lato delle spese, le posizioni sono profondamente mutate. La legge del 1865, che regolò le finanze municipali e provinciali, attribuì agli enti locali compiti importanti nell’ambito della sanità, dell’assistenza, dell’istruzione, dell’ordine pubblico e della tutela dell’ambiente. Le spese relative a tali compiti subirono un calo solo durante gli anni della prima guerra mondiale. Dal 1929, per la politica di accentramento dei poteri nello stato, si ebbe un ridimensionamento delle funzioni dei comuni e delle province, per cui molti servizi passarono alla competenza del governo. Il Testo Unico della finanza locale, approvato nel 1931, trasferì allo stato molte spese per l’istruzione, per la giustizia e per le opere pubbliche. Con l’avvio della politica del welfare state, alcune spese sociali ricaddero sui comuni. Fino agli anni Cinquanta del Novecento, per la politica accentratrice dei poteri del fascismo, le spese degli enti locali furono molto contenute155. 150 AA.VV., Domodossola nel Novecento, a cura di F.P. Caselli, Edizione Grassi, Domodossola, 2000. 151 M.C. SCHISANI, La finanza pubblica napoletana tra centro e periferia. Piedimonte d’Alife durante il regno di Ferdinando II (1830-59), ESI, Napoli, 1995. 152 F. BALLETTA, Economia e finanze a Napoli dopo l’Unità. I. La politica tributaria municipale, Arte Tipografica, Napoli, 1983. 153 R. VACCARO, Comuni e stato nell’Italia liberale, Cedam, Padova, 2001. 154 Ibidem, pp. 13-14. 155 A. FRASCHINI, La finanza comunale in Italia: uno schema interpretativo, Franco Angeli, Milano, 1991, pp. 11-12. 131 Negli anni Cinquanta e Sessanta, sull’onda dello sviluppo economico e l’inurbamento nelle città del Nord della popolazione proveniente dalle campagne del Sud, crebbero le spese dei comuni per i servizi sociali con alto contenuto di bene pubblico o strettamente necessario al miglioramento della produttività industriale (acqua, viabilità, trasporti, pulizia, illuminazione, ecc.). Negli anni ’70 e ’80, le spese furono indirizzate più verso i servizi personali (assistenza agli anziani, ai disabili, ai più poveri, per la costruzione di abitazioni popolari, ecc.), per cui ebbe una funzione redistributiva delle ricchezze. In sintesi, pur crescendo gli oneri pubblici, si ebbe la riduzione delle spese militari e l’aumento delle spese sociali redistributive156. Il lavoro di Piola Caselli sui bilanci del comune di Cagliari, pur essendo limitato al periodo 1837-1848, costituisce un modello di ricerca significativo per un giudizio sull’economia e sull’amministrazione di una città. I legami finanziari fra le casse dello stato e la cassa comunale si risolsero positivamente, tanto che possono considerarsi, secondo Caselli, una partita di giro. Lo stesso Caselli sottolinea la funzionalità della prassi amministrativo-contabile attuata, che si concretizzò in tutti gli atti dovuti e di controllo. Gli amministratori non furono tentati ad effettuare spese facili, ma neanche “si irrigidirono in un pungoloso fiscalismo”. Riuscirono a tenere il bilancio in pareggio o si indebitarono per la costruzione di una importante opera pubblica, come l’ospedale, o per l’approvvigionamento di grano e carne per la città nei momenti di carestia. Nella gestione ordinaria, non si pensò a grandi opere, ma l’amministrazione si impegnò per il mantenimento della viabilità, del verde, delle forniture di acqua e per la sicurezza delle abitazioni. Anche il personale municipale, pur essendo numeroso, fu più impegnato per i servizi esterni che non per il lavoro negli uffici. L’attività del comune, pur essendo condizionata dall’assenza di dinamismo dell’economia della Sardegna e dall’isolamento, rispetto al continente, si rivelò scrupolosa e gli amministratori operarono con “intelligente parsimonia nella distribuzione delle risorse”157. Diverse da quelle di Caselli sono le conclusioni della ricerca effettuata da Maria Carmela Schisani sulle finanze di un importante comune del regno delle Due Sicilie, Piedimonte d’Alife, relative agli anni 1830-1859158. Pur trattandosi di un comune che aveva una buona attività industriale e godeva di una buona posizione geografica – poteva fare da cerniera per il commercio interno del regno di Napoli fra la provincia di Caserta ed il Molise – per la politica attuata 156 Ibidem, pp. 12-13. F.P. CASELLI, Il bilancio del comune di Cagliari, cit., p. 59. 158 M.C. SCHISANI, La finanza pubblica napoletana tra centro e periferia. Piedimonte d’Alife, cit., pp. 7-140. 157 132 dai Borbone e per la politica degli amministratori locali, l’ente non ebbe la forza di favorire la crescita dell’economia locale. Le innovazioni istituzionali introdotte dai francesi, nel Mezzogiorno, all’inizio dell’Ottocento, non avevano sostituito completamente l’apparato istituzionale settecentesco. Il governo centrale forte non era in grado di far fronte alla varietà di esigenze che si presentavano a livello locale; le amministrazioni comunali, governate dal decurionato – un organo nominato dal re –, non furono in condizione di ribellarsi alle politiche dei Borbone. Pertanto, mentre a Cagliari si riuscì a realizzare un ospedale cittadino, a Piedimonte d’Alife, coloro che coprivano le cariche politiche si erano così insteriliti da non avere la forza di ribellarsi al piano di costruzioni stradali, distrettuali e provinciali che lasciava Piedimonte d’Alife fuori da importanti vie di comunicazione commerciali. Dal punto di vista amministrativo-contabile, i preposti al governo della città ebbero poche possibilità di gestione delle entrate, poiché vincolati alle necessità del pareggio del bilancio. Le entrate comunali, costituite per la maggior parte dal gettito dei dazi di consumo, non aumentarono in proporzione all’aumento dei bisogni. Lo stesso dazio creò buoni margini di favore per l’elite locale – costituita principalmente dagli amministratori comunali –, che cercarono favori personali al momento del pagamento dei tributi. In conclusione, la cattiva amministrazione e le farraginose regole istituzionali impedirono qualsiasi crescita dell’agricoltura locale, sfruttata dal circuito commerciale, né favorì la crescita della produzione industriale, che viveva sotto la serra calda della protezione statale159. Nel mio lavoro sulla politica tributaria del comune di Napoli, dal 1861 al 1883160, espongo i primi risultati di una ricerca che in futuro riguarderà anche le spese del comune. L’indagine – costruita sugli atti del Consiglio Comunale e sui bilanci preventivi e di cassa – rileva le tensioni che si ebbero fra il governo centrale e gli amministratori napoletani. Il primo impegnato a realizzare il pareggio del bilancio e quindi a rastrellare, il più possibile, entrate tributarie, i secondi preoccupati dell’eccessivo peso fiscale che ricadeva sui contribuenti. I risultati di tale contrasto ebbero riflessi sulle frequenti variazioni delle tariffe dei dazi di consumo e sull’ammontare del canone daziario, che il comune doveva versare allo stato. Altra conseguenza fu il passaggio da un sistema tributario semplice, basato principalmente sui dazi di consumo e sulla sovraimposta – che esisteva nel primo decennio dell’Unità –, ad un sistema complesso e confuso, per cui si moltiplicarono i piccoli tributi – sulle insegne, sul suolo pubblico, sulle vetture, ecc. –, che erano di difficile e costosa riscossione. Quando gli amministratori comunali dovettero scegliere fra imposta di famiglia e imposta sul valore locativo optarono per la seconda, che creava ingiustizie, ma era di facile riscossione. 159 160 Ibidem, p. 98. F. BALLETTA, Economia e finanze a Napoli, cit., pp. 7-355. 133 Nel primo ventennio dell’Unità, la finanza locale fu regolata dalle leggi del 1859 e del 1865. Successivamente, si aggiunsero nuove disposizioni che contribuirono a rendere difficile e caotica la gestione finanziaria dei comuni. Vi era la necessità di una riforma organica della finanza locale, che fosse ben coordinata con quella dello stato. A queste difficoltà oggettive si aggiunse la preoccupazione degli amministratori locali, che cercavano di non aggravare la pressione sulle imposte dirette e in particolare quella sulle proprietà fondiarie, che erano nelle mani degli elettori municipali. Spesso non furono approvati i regolamenti per la riscossione dei tributi, per conseguenza i contribuenti che si rifiutavano di pagare non erano sottoposti a sanzioni e gli appaltatori, con l'appoggio degli assessori, spadroneggiavano nella riscossione dei tributi, commettendo abusi e ruberie. Altra piaga che colpiva il gettito tributario fu il contrabbando, che arrivava fino al 50 per cento del dazio di consumo (maggiormente su generi di prima necessità: farina, latticini, carne e legumi). D’altra parte, la stessa legge che regolava la riscossione dei dazi conteneva elementi di ingiustizia, poiché il canone che i comuni dovevano versare allo stato cresceva con il crescere della popolazione ed era proporzionale ai consumi. Per Napoli questa regola si traduceva in un peso ingiusto, poiché si trattava di una delle maggiori città italiane per densità demografica ed i consumi erano contenuti per il disagio economico in cui versavano molti cittadini. Per la carenza nel gettito daziario, il comune, spesso, non riusciva a versare allo stato il canone stabilito, così aveva accumulato un debito che non era in grado di pagare. Solo, nel 1879, grazie all’intervento di Magliani, una legge mise ordine nelle finanze della città e la riscossione del dazio passò dalla città allo stato. In conclusione, il dissesto delle finanze napoletane dipendeva dalle leggi che regolavano la finanza locale, dalla politica di pareggio del bilancio attuata dal governo centrale, e dalla incapacità e disonestà degli amministratori locali. Un secondo lavoro di Fausto Piola Caselli sulla finanza locale riguarda la storia di un comune del Piemonte, Domodossola, dal 1901 al 1999161. All’inizio del 900, i rapporti fra stato e comune furono piuttosto freddi. Domodossola fu gestita con autosufficienza finanziaria. Lo stato si fece sentire solo in occasione di grandi opere pubbliche di interesse nazionale, come l’apertura del traforo del Sempione. Durante il fascismo, la presenza dello stato fu avvertita solo per il comportamento del podestà, per manifestazioni del partito o per l’imposizione del calmiere dei prezzi, che comunque influivano poco sulle finanze comunali. Il rapporto fra periferia e centro cambiò radicalmente, dal 1970 in poi, allorché una nuova legislazione attribuì ai comuni nuovi compiti e una maggio- 161 F.P. CASELLI, Domodossola nel Novecento. Finanza comunale ed economia cittadina, in “Domodossola nel Novecento”, cit., pp. 55-134. 134 re autonomia amministrativa e finanziaria. Per gli enti locali, comunque, fu stabilito il legame con le regioni. Dal punto di vista fiscale, si ebbe una profonda rivoluzione, perché furono aboliti i dazi di consumo e l’imposta sui redditi delle famiglie, sostituiti con tributi sui fabbricati. Lo stato si assunse il compito della riscossione dei tributi e trasferì ai comuni la maggior parte del loro fabbisogno. La ragione dell’accentramento della riscossione dei tributi era dovuta alle “efficienze nella raccolta del gettito, semplificazione e unificazione del sistema tributario, ‘perversità’ degli enti locali nei riguardi dell’attività di stabilizzazione effettuata dal governo centrale, gerarchizzazione degli indirizzi di politica fiscale redistributiva”162. Per il comune di Domodossola, nel 1990, i trasferimenti rappresentavano circa il 60 per cento delle entrate. Nel settore delle spese, ai comuni fu affidato il gravoso compito della redistribuzione dei redditi, poiché furono potenziati gli aiuti agli anziani, ai disabili e alle classi sociali più deboli, contemporaneamente, si potenziarono le spese per il miglioramento dell’ambiente e per i lavori pubblici. L’indebitamento del comune di Domodossola fu rivolto, nel primo ventennio del secolo, più verso le banche locali – che chiedevano alti tassi di interesse – che verso la Cassa Depositi e Prestiti. Durante il fascismo, l’indebitamento diminuì, poiché molti oneri, come quelli per la scuola, passarono allo stato. Nel secondo dopoguerra, continuò l’indebitamento con le banche e fu esteso a diversi settori amministrativi163. Dai dati riportati da Caselli, relativi a tutto il Novecento (dal 1900 al 1999) – depurati della svalutazione della lira e del movimento demografico – risulta un crescente intervento del comune nella vita cittadina e, in valore reale, le spese crebbero da 80 mila a 140 milioni di lire164. In una recente pubblicazione, Rosa Vaccaro studia il ruolo svolto dagli enti locali nello sviluppo economico italiano in età liberale165. L’autrice non si pone l’ambizioso compito di esaminare, in generale, quale fu il peso che ebbero gli enti locali sull’economia dei primi decenni dell’Unità, bensì effettua una selezione geografica e tematica, cosciente delle profonde differenze delle strutture produttive e delle differenti condizioni economiche che componevano il territorio unificato e ancor più della presenza di differenti élites che controllavano la politica e l’economia locale. Di tale divisione furono coscienti i parlamentari italiani, che approvarono la legge del 1865 sull’unificazione amministrativa, la quale diede ai comuni e alle province autonomia nella gestione delle risorse e ai prefetti, come rappresentanti del potere centrale, il compito del controllo delle 162 G.C. ROMAGNOLI, Nuove politiche di finanziamento degli enti locali in Italia. Confronto con l’esperienza nord-americana, Franco Angeli, Milano, 1985, p. 184. 163 Ibidem, p. 72. 164 Ibidem, p. 74. 165 R. VACCARO, Comuni e stato nell’Italia liberale, cit., pp. 1-234. 135 leggi e dei regolamenti. In questi termini, fu estesa a tutta la penisola unificata la legge Rattazzi del 1859, con l’intento di creare un mercato unico abolendo le sacche di arretratezza. Ma, passato il momento dell’unificazione, la legge non fu più rivista. Solo negli anni Settanta del Novecento si ebbe una profonda revisione delle finanze provinciali e comunali. La selezione effettuata dall’autrice riguarda tre aspetti della finanza locale: le costruzioni stradali, le finanze del circondario di Velletri e le opere di sanità ed igiene realizzate nella provincia di Roma. Sul primo punto Rosa Vaccaro rivela gli errori della politica della destra, con la quale si pretendeva, attraverso la costruzione delle strade, di dare un impulso all’economia, viceversa dovrebbe essere l’incremento della produzione a favorire il miglioramento della viabilità. Così, in Italia, la costruzione di una nuova rete viaria e la manutenzione di quella esistente si mossero con lentezza, perché lo stato pretese un largo contributo dai comuni, che, spesso, non erano in grado di sostenere, specie quando si trattava di piccoli centri montani, con scarsissime risorse. Obbligati a pagare il contributo, i comuni furono costretti ad indebitarsi, oppure elevarono la pressione tributaria. In alcuni casi, costruite le strade, in breve tempo, si resero inutilizzabili, perché i comuni non possedevano i mezzi per la manutenzione. Nel secondo saggio – dal titolo “Unificazione amministrativa e finanza locale. Il circondario di Velletri (1871-1897)” – l’autrice esamina gli effetti della legge comunale e provinciale del 1865, nei 18 comuni che componevano il circondario di Velletri. Si tratta di un’area limitata, che, tuttavia, riflette la varietà delle condizioni economiche esistenti nel paese. Dei comuni esaminati, alcuni avevano un ricco patrimonio, per cui non avvertivano le conseguenze delle nuove leggi; in altri, i nuovi tributi esasperarono le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi. È la conferma di ciò che accadde per il comune di Napoli, che, all’inizio del Novecento, venne denunciato dall’onorevole Majorana: “grande sperequazione che si verifica non solo fra comune e comune, ma ben anco fra l’una e l’altra classe di contribuenti dello stesso comune”166. Nel terzo saggio di Vaccaro – dal titolo “Comuni, sanità ed opere igieniche nella provincia di Roma (1870-1913)” – viene dato un giudizio sul funzionamento della sanità in Italia. Nei primi anni del Novecento, in tutto il regno, si ebbe una consistente riduzione della mortalità per malattie infettive, minore, però, fu la riduzione per la provincia di Roma, dove, nel quadriennio 19071911, si registrò addirittura una recrudescenza di quelle malattie (morbillo, tifo e scarlattina). La cura dell’igiene e della sanità pubblica dalla legge del 1865 fu affidata ai comuni. Tuttavia, per le ristrettezze dei mezzi finanziari a loro disposizione e per incuria o incapacità degli amministratori locali non si riuscì ad eli166 Atti, parlamentari, Camera dei Deputati, Legislazione XXII, sessione 1904-1905, documento n. 339, p. 12, citato in “R. Vaccaro, Comuni e stato”, cit., p. 146. 136 minare le cause igieniche della persistente mortalità. Secondo il medico provinciale di Roma, Raffaele Zampa, bisognava “restituire gli agricoltori alle campagne”, cioè bisognava vietare l’allevamento del bestiame nei centri abitati. Secondo l’interpretazione dell’autrice, l’alta mortalità dipendeva dalla scarsa produttività del lavoro agricolo, che si traduceva nelle misere condizioni economiche dei contadini, ma ancora più dalla malaria che imperversava nelle paludi. Gli scarsi guadagni degli agricoltori dipendevano dai piccoli appezzamenti che coltivavano o dalla presenza del latifondo mal coltivato e con scarsissima produttività. Pertanto, le cattive condizioni sanitarie erano il risultato “del degrado del territorio, della bassa produttività della terra e dello scarso reddito dei contadini”167. Problemi che saranno affrontati solo dopo la prima guerra mondiale. Conclusioni Gli studi che si sono avviati sulla storia del mercato borsistico italiano assieme alle ricerche di storia delle assicurazioni hanno fatto compiere un notevole salto di qualità alla storiografia italiana degli ultimi decenni, consentendogli un netto distacco dal giudizio negativo pronunciato da Giuseppe Galasso nel volume “Nient’altro che storia”, dove si afferma che la recente storiografia non ha compiuto “nessun grande volo; pochi svolgimenti realmente importanti del già detto: molta superficialità e incertezza di prospettive, insieme con una diffusa supponenza verso alcuni dei maggiori indirizzi e tradizioni della cultura europea”168. La ragione di tale deficienza sarebbe legata all’ansia del “moderno” e le nebbie del “postmoderno”, che hanno sconvolto e depresso la tradizione della storiografia europea169. Viceversa, la ricostruzione della storia della borsa attraverso alcune significative imprese del mercato italiano hanno rilevato l’importanza della ricerca fondata su nuovi documenti, fondamento dell’evoluzione dell’impresa al fine di costruire ed approfondire gli indicatori fondamentali, che determinano la realtà del mercato e le manovre che le grandi famiglie del capitalismo hanno compiuto per rimanere al comando dei grandi gruppi industriali e finanziari. La strada delle ricerche sull’importanza degli investimenti di rischio è aperta. Ora bisogna percorrerla fino in fondo con nuovi e più approfonditi studi che prendono le distanze dalle conclusioni a cui sono arrivati alcuni editoriali167 R. VACCARO, Comuni e stato, cit., p. 228. G. GALASSO, Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 7. 169 Ibidem, p. 8. 168 137 sti di giornali sulla necessità di regolamentare i mercati finanziari nazionali e internazionali al fine di scoraggiare le bolle speculative ed attenuarne le conseguenze170. Forse potrebbe essere anche questa la soluzione per ridurre l’area del rischio, ma le proposte potranno farsi solo dopo una profonda conoscenza dei mercati. Secondo Giuseppe Felloni, il minor numero di pubblicazioni di storia finanziaria italiana degli ultimi decenni sarebbe derivato da una “certa stanchezza per questo genere di studi, da una certa insoddisfazione per i risultati ottenuti con le metodologie e le problematiche tradizionali171. Io aggiungerei, per la storia della finanza pubblica postunitaria, che – dopo le ricerche di Achille Plebano172, Giuseppe Parravicini173 e Francesco A. Repaci174, che hanno tracciato le linee essenziali degli eventi – occorre passare ad approfondimenti per periodi limitati e per argomenti specifici; creare connessioni fra la politica monetaria e la finanza pubblica; misurare, con indagini quantitative, gli effetti che la politica fiscale produsse sulla redistribuzione della ricchezza; stabilire le ragioni di una maggiore o minore pressione fiscale; valutare la politica della spesa pubblica, calcolando il miglioramento di produttività che ricevettero le imprese; esaminare i diversi tipi di indebitamento che lo stato effettuò stabilendo la convenienza dei debiti a breve rispetto a quelli a lungo termine. Per impostare ricerche di questo tipo, ed altre che non è il caso di elencare, occorre avere prima una profonda conoscenza delle tecniche contabili, al fine di dare la migliore interpretazione della politica finanziaria adottata. A ciò bisogna aggiungere la mole di documenti da consultare. Consultazione non facile, perché si tratta di carte raccolte in modo disorganico. “Sussiste infatti – scrive Paolo Roberti nella prefazione del volume sul debito pubblico pubblicato dal Ministero del Tesoro – una molteplicità di fonti e di aggregati di riferimento che, a loro volta, si sommano a una frammentarietà dell’informazione e a una mancanza o difficoltà di reperimento dei criteri di raccordo tra i diversi dati”175. Dello stesso parere era Luigi Einaudi, che, nel ricordare i numerosi bilanci di previsione, i consuntivi, i conti mensili del Tesoro, i documenti della Ragioneria 170 F. GALIMBERTI, Economia e pazzia. Crisi finanziarie di ieri e di oggi, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. XIV-XV. 171 G. FELLONI, Temi e problemi nella storia, cit., p. 103. 172 A. PLEBANO, Storia della finanza italiana nei primi quaranta anni della unificazione, Ristampa a cura di S. Buscensa, voll. 3, Padova, 1960. 173 G. PARRAVICINI, La politica fiscale e le entrate effettive nel regno d’Italia (1860-1990), Torino, 1958. 174 F.A. REPACI, La finanza italiana nel secolo 1861-1960, Bologna, 1962. 175 P. ROBERTI, Obiettivi, previsioni, andamenti di finanza pubblica e politica fiscale, in “Ministero del Tesoro, Politica fiscale e debito pubblico”, Poligrafico dello Stato e Zecca dello Stato, Roma, 1993, p. 26. 138 Generale dello Stato, della Corte dei Conti, della Giunta per il Bilancio della Camera dei Deputati e del Senato scrisse: “Soltanto a guardare quelle pile di volumi particolareggiati, compiuti, ammirandi per lo scrupolo di dire tutto, cascano le braccia …. chi ha bisogno di precisione, dopo qualche giorno di scartabellamento dei documenti ufficiali, comincia a sentirsi girare la testa”176. Einaudi, comunque, parlava di soli documenti ufficiali, pubblicati, ma ad essi bisognerà aggiungere la corrispondenza accumulata dai ministeri del Tesoro e delle Finanze e i documenti degli archivi privati. Il lavoro di ricerca non dovrà riguardare un solo storico, ma intere generazioni. Solo allora potremo dare dei giudizi seri sulla politica fiscale, sulla politica delle spese e sull’indebitamento dello stato, stabilendo connessioni fra finanza pubblica e finanza privata, fra finanze e politica economica e politica monetaria in particolare. 176 Ibidem, p. 33; L. EINAUDI, Del fare statistiche finanziarie, in “La Riforma Sociale”, maggio-giugno 1934. 139 140 FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI GIUGNO MMIII NELLO STABILIMENTO «ARTE TIPOGRAFICA» S.A.S. S. BIAGIO DEI LIBRAI 141 - NAPOLI ISSN 1721-6060 ISSN 1721-6060 142