L`alchimia, antenata della chimica

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L`alchimia, antenata della chimica
elisir, alambicchi e trasmutazioni
Capitolo 2
Elisir, alambicchi e trasmutazioni
L’alchimia, antenata della chimica
La loro dottrina non era solo una mera fantasia chimica,
ma una filosofia che applicavano al mondo,
agli elementi e all’uomo stesso.
W.B. Yeats, Rosa alchemica
Nell’immaginario collettivo l’alchimia è una disciplina in cui
si mescolano procedimenti scientifici, magia e superstizione. Tutti
però sono concordi nel definire l’alchimia l’antenata della chimica
moderna e infatti vedremo che sono molte le scoperte e le conquiste
per le quali la chimica le è debitrice.
L’origine del termine “alchimia”, da cui poi deriva “chimica”, è
filologicamente incerta. Secondo alcuni studiosi, si riferisce al termine arabo usato per indicare l’Egitto (chemie, kmt o chem). Altri hanno invece visto nella parola alchimia la stessa radice del verbo greco
chéo, che significa versare un liquido o fondere un metallo. Il prefisso
al- corrisponde invece all’articolo determinativo nella lingua araba.
Sarebbe sbagliato parlare genericamente di alchimia, come spesso accade; nei secoli, infatti, sono diverse le caratteristiche mostrate dai suoi cultori: si va dall’alchimia greco-alessandrina, fiorita ad
Alessandria d’Egitto, all’alchimia araba, fino a quella latina medioevale, nata in Occidente dopo le Crociate.
La tradizione greco-alessandrina
Fu in età ellenistica, ad Alessandria d’Egitto, che le teorie greche
sulla materia e le conoscenze pratiche degli Egizi (abili nell’imbalsamazione) si incontrarono, dando origine alla prima alchimia, in un
periodo precedente alla stesura del De rerum natura di Lucrezio nel
mondo latino.
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Mentre nella filosofia greca mancavano i riferimenti alla religione, in Egitto l’alchimia primordiale era carica di misticismo e di
significati religiosi: il dio egizio Thoth, detentore delle conoscenze
chimiche, fu identificato dai Greci come Ermes.
Questa aura religiosa e mistica che caratterizzò l’alchimia nei primi secoli (dalla morte di Alessandro Magno, nel 322 a.C., fino al vi
o vii secolo d.C.) in parte ostacolò il progresso scientifico: i cultori
dell’alchimia erano visti con sospetto e timore, come maghi o sacerdoti, e si esprimevano con linguaggi e simboli misteriosi, cosicché la
condivisione delle conoscenze e dei risultati raggiunti da altri scienziati era quasi nulla. Il mistero che circondava gli alchimisti favorì
inoltre l’attività di coloro che, in realtà, erano solo ciarlatani e non si
dedicavano davvero alla tecnica alchemica autentica.
Gli alchimisti alessandrini erano esperti in molte attività pratiche: nella lavorazione dei metalli, nella preparazione di pietre sintetiche e perle, e nella tintura delle stoffe, soprattutto color porpora.
Anche se i testi alchemici di questo primo periodo contenevano
vere e proprie ricette pratiche, superstizione e scienza erano continuamente mescolate; per esempio, dal momento che all’epoca i pianeti
conosciuti erano sette, così come i metalli (oro, argento, rame, ferro,
stagno, piombo e mercurio), a ogni metallo veniva assegnato un pianeta: l’oro allora diventava il Sole, il rame la Luna e così via. Il confine
tra trasformazione chimica e racconto mitologico era molto labile.
Il primo alchimista di cui si hanno notizie visse intorno al 200
a.C. in Egitto: si tratta di Bolos di Mendes, noto anche come PseudoDemocrito. Grazie alle opere di Bolos conosciamo uno dei principali
obiettivi dell’alchimia: la trasformazione dei metalli l’uno nell’altro
e, in particolare, in oro. Bolos basava la sua teoria sulla possibilità di
trasformare i metalli su quella degli elementi di matrice aristotelica:
era infatti esperienza comune che l’acqua evaporando si trasforma
in aria o che il legno bruciando produce a sua volta vapore, cioè aria;
come se le differenze tra le diverse sostanze dipendessero solo dalla
composizione in termini dei quattro elementi. Bolos stesso spiegava
come ottenere l’oro da rame e zinco, ma in realtà seguendo le sue
istruzioni si otteneva una lega, l’ottone, che dell’oro ha solo il colore.
Non siamo oggi in grado di stabilire se Bolos fosse consapevole del
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suo errore o se semplicemente non riconoscesse alcuna differenza tra
l’oro e un metallo dello stesso aspetto.
Nei secoli successivi furono pochissimi i progressi scientifici in
campo alchemico e pochi i personaggi degni di essere ricordati. Tra
loro spiccano l’egiziano Zosimo, che (intorno al 300 d.C.) raccolse
in un’enciclopedia tutte le conoscenze di alchimia di quel periodo,
senza probabilmente aggiungere un contributo personale; e Maria
l’ebrea, a cui secondo la tradizione è attribuita l’invenzione del procedimento di riscaldamento noto come “bagnomaria”.
In epoca romana, gli alchimisti erano guardati con sospetto anche dalle autorità civili e religiose. Nel 290 d.C. l’imperatore
Diocleziano, temendo che qualcuno riuscisse davvero a produrre
l’oro a partire dagli altri metalli provocando quindi uno sconvolgimento dell’economia, ordinò che fossero distrutti tutti i testi di alchimia. I cristiani, invece, a causa del misticismo tipico dell’alchimia,
la consideravano in pratica una setta pagana, i cui seguaci erano da
condannare pubblicamente. Furono gli appartenenti alla setta cristiana dei Nestoriani a preservare i testi e il patrimonio dell’alchimia
greco-alessandrina, che portarono con sé in Persia, dove fuggirono
per evitare le persecuzioni dei cristiani ortodossi nei loro confronti.
Gli Arabi e l’elisir di lunga vita
Nel vii secolo d.C. gli Arabi invasero l’Egitto e la Persia e conobbero così la scienza alessandrina, tra cui la stessa alchimia, che
portarono allo splendore da allora fino al 1100 d.C.
L’alchimia araba aveva due obiettivi principali: la trasmutazione dei metalli in oro e la realizzazione di un rimedio contro tutte le
malattie.
Secondo alcuni alchimisti arabi, per facilitare la trasmutazione
in oro era necessaria una polvere secca e asciutta, che gli europei
chiamavano “pietra filosofale”, i Greci xerion (asciutto). Nel mondo
arabo, xerion divenne al-iksir, da cui “elisir”. Nell’immaginario popolare, questo elisir non serviva solo per la trasmutazione, ma aveva
un potere curativo per moltissime malattie e poteva anche conferire
l’immortalità.
L’importanza di questo periodo nella storia della chimica è testimoniata per esempio dai numerosi termini di origine araba ancora in
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uso nella chimica moderna: alcol, alambicco, alcali, zirconio. Furono
sempre gli Arabi a preparare per la prima volta – o almeno a trascrivere le ricette per la loro preparazione – vetrioli, allumi (sali dell’acido solforico) e salnitro (nitrato di potassio).
Le prime opere tradotte dal greco all’arabo furono, nel vii secolo,
proprio testi di alchimia, ed è grazie a queste traduzioni che il corpus
alessandrino è poi giunto fino a noi. A esso si aggiunge poi la produzione autonoma e originale degli Arabi.
Il più importante e famoso alchimista arabo fu Gabir ibn-Hayam, noto anche come Geber, vissuto a cavallo tra viii e ix secolo.
Di lui e dei suoi discepoli conosciamo numerose opere, in cui sono
descritti procedimenti tuttora usati nella chimica moderna, dalla
fusione alla cristallizzazione. In particolare, Geber era in grado di
ottenere dall’aceto, per distillazione, acido acetico concentrato, probabilmente l’acido più forte disponibile ai suoi tempi.
Anche Geber, come gli alchimisti che lo avevano preceduto, sostenne la teoria dei quattro elementi e propose inoltre una particolare
ipotesi sui metalli, che secondo lui derivavano tutti dalla mescolanza, in opportune percentuali, di mercurio (l’unico metallo liquido) e
zolfo (elemento considerato speciale perché di colore uguale a quello
dell’oro). Questa credenza sui metalli sembrava rendere possibile
la trasmutazione in oro: sarebbe infatti stato sufficiente, secondo
Geber, scoprire le giuste proporzioni di mercurio e zolfo.
Nonostante il clima misterioso e mistico che caratterizzava l’alchimia, nel proemio dell’opera di Geber si può cogliere l’interrogativo se sia giusto o no diffondere a tutti le conoscenze dell’alchimia:
Il mio maestro Giafar – su cui sia pace – si adirò quando gli
mostrai questo libro e disse: «O Geber, hai rivelato il segreto
possente d’Iddio».
Al che risposi: «Volevo soltanto essere largo e generoso e
schietto al servizio della verità, come ho imparato alla tua
scuola che si deve essere. Ma se tu mi comandi, brucerò il
libro». Egli sorrise, soddisfatto delle mie parole: «Non far
ciò, che l’Altissimo Iddio ti ha aiutato in questa impresa e ti
ha spianato la via. Non ti opporrai dunque alla sua volontà,
rivelandolo...».
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L’alchimista persiano Abu Bakr Al-Razi, noto come Rhazes e
vissuto tra 850 e 925 d.C., pensava che, oltre a zolfo e mercurio, anche il sale fosse uno dei principi costitutivi dei solidi. Con Rhazes
inizia l’interesse degli alchimisti per la medicina e nel Libro del segreto dei segreti, infatti, egli spiega come preparare il gesso da presa,
specificando che può essere usato per tenere fermi gli arti fratturati.
Il più grande medico arabo di questi secoli fu però il persiano
Abu Ali Al-Husayn Ibn Sina, vissuto tra la fine e l’inizio del millennio e noto nel mondo occidentale con il nome di Avicenna. Anche
Avicenna, come Rhazes, era interessato all’impiego di sostanze chimiche in campo medico e per questo si dedicò in parte agli studi di
alchimia, pur non credendo, a differenza di molti suoi contemporanei, alla possibilità della trasmutazione dei metalli in oro.
Gli Arabi si distinguevano in questi anni nell’estrazione delle
essenze e dei pigmenti per la preparazione di profumi, saponi e inchiostri colorati, nella lavorazione di vetro, metalli e smalti bianchi
e colorati, e nella raffinazione dello zucchero di canna. Nei testi di
alchimia araba sono descritti con accuratezza diversi apparecchi per
numerose pratiche di laboratorio, dalla calcinazione alla distillazione alla sublimazione.
Secondo alcuni storici, solo la componente misteriosa e segreta, il
cui unico scopo è ottenere la trasmutazione dei metalli in oro o l’elisir di lunga vita, andrebbe chiamata propriamente alchimia, e non
la parte che effettivamente risulta valida anche dal punto di vista
scientifico. Nella classificazione proposta da Avicenna, comunque,
alchimia e medicina sono entrambe considerate discipline derivate
dalla scienza naturale.
Intorno all’anno Mille l’alchimia araba iniziò a sfiorire, complici
il prevalere di Turchi e Mongoli (popolazioni dai tratti barbarici) e
l’inizio delle Crociate.
L’alchimia medioevale
Fu al tempo delle Crociate (la prima ebbe inizio nel 1096) che l’Europa conobbe la scienza araba, nello stesso periodo in cui la Spagna si
stava riappropriando dei territori che erano caduti in mano islamica.
Ben presto gli europei capirono che dovevano agli Arabi non
solo la memoria di testi greci (come quelli di Aristotele), ma anche
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una produzione originale. I primi testi arabi vennero quindi tradotti
in latino: per convenzione, l’inizio dell’alchimia latina medioevale
si pone nel 1144, l’anno in cui venne tradotto in latino dall’inglese
Roberto di Chester la prima opera di alchimia, il Liber de compositione alchimiae di Morieno Romano.
Con la diffusione delle idee alchimistiche mutuate dagli Arabi,
anche gli scienziati europei iniziarono a elaborare nuove teorie e ricette: il primo fu probabilmente Alberto di Bollstadt (1200-80), noto
come Alberto Magno, che diffuse la filosofia aristotelica nel mondo
occidentale e si occupò in particolare delle proprietà dell’arsenico.
L’alchimia ormai era considerata una scienza a tutti gli effetti,
molti strumenti di laboratorio (per esempio il sistema di refrigerazione degli alambicchi) venivano perfezionati, aumentavano i composti conosciuti e studiati. Non solo: nonostante le iniziali diffidenze
nei confronti della cultura islamica, l’alchimia inizia a essere accettata anche dall’occidente cristiano. Secondo la tradizione, persino
Tommaso d’Aquino, filosofo, santo e dottore della Chiesa, scrisse
un’opera sulla pietra filosofale: l’alchimia non era patrimonio solo
dei ciarlatani e dei pagani.
Un altro importante alchimista medioevale fu il monaco inglese
Ruggero Bacone (1214-92), che cercò di convincere, invano, i suoi
contemporanei di come per progredire nella scienza fosse necessario
adottare un metodo sperimentale. Il sogno di Bacone si sarebbe poi realizzato quasi quattro secoli dopo. Bacone, che per volere della Chiesa
fu imprigionato per oltre dieci anni, nelle sue opere descrisse per la
prima volta la polvere da sparo, di cui però non fu lo scopritore.
All’inizio del Trecento visse poi colui che è considerato il più importante alchimista medioevale, di cui però non si conosce il nome:
si parla di lui come Pseudo-Geber o Falso Geber in onore del più
grande alchimista arabo. Nelle opere dello Pseudo-Geber si trovano
per la prima volta la descrizione e la preparazione di acido solforico e
acido nitrico concentrati (probabilmente l’acido nitrico era noto già
dal secolo precedente). La scoperta e l’utilizzo di questi due primi
acidi forti, di origine minerale e inorganica, aprì nuove possibilità
agli scienziati medioevali rispetto ai limiti dell’acido acetico, organico e più debole, che era stato utilizzato fino ad allora: con questi
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acidi era possibile sciogliere moltissime sostanze e quindi si poteva
ottenere un numero notevole di reazioni in più.
Nonostante questo grande passo avanti, non ci fu chi seppe approfittare del nuovo patrimonio di conoscenze alchemiche. Tra
Duecento e Trecento le opere di Arnaldo da Villanova e di Raimondo
Lully sembrano più mistiche che scientifiche e si concentrano soprattutto sul tentativo di realizzare la trasmutazione dell’oro.
In questo clima mistico e spirituale, dominato, in ambito cristiano, dalla predicazione di san Francesco d’Assisi, le autorità, ancora
una volta, ostacolarono chi voleva praticare l’alchimia. Il clima era
cambiato: l’alchimia, con la sua matrice pagana e il mistero legato
alla trasmutazione dei metalli in oro, che sembrava quasi magia, veniva considerata una pratica pericolosa.
Nel 1317 papa Giovanni xxii vietò di dedicarsi all’alchimia, nel
1380 il re Carlo v emise un analogo divieto in Francia impedendo
ai suoi sudditi anche di possedere strumenti utili alla pratica alchemica. Nel 1404 il re Enrico iv d’Inghilterra e nel 1414 il Gran
Consiglio di Venezia bandirono l’alchimia dai loro territori. Questo
clima non impedì che qualcuno, pur nella clandestinità, continuasse
gli studi alchemici, anche tra personaggi di rilievo come l’imperatore
Rodolfo di Praga.
Gli alchimisti tentarono allora di riempire la loro scienza di contenuti cristiani: si parla dell’oro cercato attraverso la trasmutazione
ma anche di Cristo e si diffonde l’idea che per essere dei bravi alchimisti sia necessario essere devoti e religiosi quasi come un monaco.
Paracelso e il risveglio dell’Europa
La crisi del mondo arabo è strettamente collegata alla decadenza
di Costantinopoli, saccheggiata dai Crociati prima e poi conquistata dai Turchi: da qui molti scienziati fuggirono in Occidente, portandosi il loro patrimonio e i loro testi. Intanto, i viaggi dei grandi
esploratori, culminati nel 1492 con l’approdo in America da parte
di Cristoforo Colombo, contribuirono a ridare fiducia ai dotti: forse
gli antichi Greci non avevano ragione su tutto e non avevano scoperto tutto. L’invenzione della stampa da parte di Johann Gutenberg
facilitò poi la diffusione del sapere e non a caso uno dei primi libri
stampati fu il già citato De rerum natura di Lucrezio.
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Le prime discipline a risentire dell’acquisita consapevolezza degli europei che la scienza dei Greci non era infallibile sono l’astronomia e la biologia. Nello stesso anno (1543) vengono pubblicati De
revolutionibus orbium cœlestium (La rivoluzione dei corpi celesti) il
libro in cui Niccolò Copernico proponeva la teoria eliocentrica e De
humani corporis fabrica (La struttura del corpo umano) di Andrea
Vesalio, il primo testo dettagliato sull’anatomia umana.
L’alchimia ora non è più solo ricerca dell’oro o della pietra filosofale, ma acquista importanza anche per i vantaggi tecnici che può assicurare: ricordiamo, per esempio, il toscano Vannoccio Biringuccio
(1480-1539), esperto di metallurgia.
I due maggiori protagonisti dell’alchimia di questi anni, però,
sono di formazione medica: Georg Bauer (1494-1555), conosciuto
con il nome di Agricola, e Theophrastus Bombastus von Hohenheim
(1493-1541), passato alla storia con il nome di Paracelso.
Si deve al medico Georg Bauer il De re metallica, il primo trattato di mineralogia, completo e accurato sia per quanto riguarda le
proprietà dei minerali sia per le varie tecniche di metallurgia. Anche
Agricola era attento alle possibili applicazioni pratiche legate alle
proprietà dei minerali, e molte indicazioni presenti nel suo libro rimasero valide fino al xvii secolo: con Agricola nasce in pratica la
mineralogia.
Paracelso (che scelse questo nome con un esplicito riferimento al
medico latino Celso del i secolo d.C.) era figlio di un medico: si può
considerare il padre della iatrochimica, ramo della chimica basato
sulla convinzione che questa disciplina debba essere al servizio della
medicina e i metodi chimici debbano essere utilizzati per preparare
composti terapeuticamente efficaci.
Studiò in Italia, dove si avvicinò alla filosofia neoplatonica e al
vitalismo che poi sarebbero entrati nella sua concezione del mondo.
Il centro dell’universo di Paracelso è l’uomo: quello che la natura
produce deve poi essere perfezionato e lavorato per l’utilizzo dell’uomo. L’alchimia è proprio la disciplina che permette la trasformazione dei prodotti della natura in prodotti della tecnica. È in virtù della
grande dignità attribuita all’uomo da Paracelso che la branca dell’alchimia che merita più attenzione e impegno è quella al servizio della
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medicina, il cui oggetto di studio è il corpo umano. L’alchimia è, infatti, una delle quattro colonne su cui, nella concezione di Paracelso,
si regge la medicina: le altre sono la filosofia, l’etica e l’astrologia.
Non deve stupire che sia presente anche l’astrologia: secondo le
credenze del tempo, gli astri possono influenzare la salute umana.
Paracelso porta all’estremo questa teoria: parla infatti di corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo e quindi gli eventi del mondo
astrale sono collegati a ciò che avviene all’interno dell’organismo.
Scopo principale dell’alchimia, ora, non è più la trasmutazione dei
metalli, che pure Paracelso considera possibile, ma la preparazione di composti chimici da impiegare in ambito medico, più efficaci
dei tradizionali farmaci galenici di origine vegetale. Nella sua opera
Paragranum, Paracelso spiega il rapporto tra alchimia e medicina:
Pensiamo ora al terzo fondamento su cui riposa la medicina: questa è l’alchimia. Se il medico non è particolarmente e
sommariamente attento e competente su questo punto, tutta
la sua arte è inutile. [...] Colui dunque che realizza in tutto
quanto cresce nella natura a beneficio dell’uomo, la destinazione della natura, è un alchimista. [...] Può esserci un medico più rozzo nell’arte medica e si può agire nella medicina in
maniera più grossolana di colui che fa cotture nella farmacia?
[...] Il tema della preparazione alla medicina, in quanto fondamento su cui si deve poggiare l’arte medica, è trattato in
queste pagine: sappiate che questo fondamento deve scaturire dalla natura, e non dalle teste almanaccanti, come accade
quando un cuoco cucina del pepe.
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organica, spesso con successo, come nel caso del ferro per curare l’anemia. Anziché scientifiche, però, le giustificazioni delle sue scelte erano
spesso simboliche: per esempio, il ferro contro l’anemia era usato perché legato al pianeta Marte, a sua volta dio della guerra, legato quindi
anche al sangue. Ancora senza giustificazioni scientifiche, egli aveva
intuito che non esiste un’unica panacea per qualsiasi male, ma che è
necessario curare ogni singola malattia con un composto specifico.
Paracelso tentò di divulgare le proprie conoscenze, scrivendo anche diversi libri in tedesco, e non in latino come i suoi predecessori e
contemporanei, utilizzando neologismi e termini tecnici non sempre
comprensibili nemmeno ai suoi seguaci. Come aveva fatto Lutero
in campo religioso con la bolla papale che lo condannava, Paracelso
bruciò le opere di medicina di Galeno e Avicenna, tanto da meritarsi
anche il nome di Lutero della chimica.
Nonostante il nuovo impulso alla preparazione di composti, l’impegno nella pratica chimica – che lo portò anche a scoprire lo zinco
metallico e a negare la credenza diffusa che l’aria fosse costituita da
una sola sostanza – e il parziale accantonamento della trasmutazione,
Paracelso non si svincola completamente dal passato: riprende sia la
teoria aristotelica dei quattro elementi sia quella araba proposta da
Rhazes dei tre principi (mercurio, zolfo, sale). I quattro elementi di
Paracelso, però, non sono le basi di un sistema cosmologico, sono
enti spirituali da cui ha origine tutta la materia. Anche zolfo, mercurio e sale non sono visti come composti chimici veri e propri ma
come enti metafisici:
Non è già come dicono, che l’alchimia fabbrichi oro o argento: in essa imprendi a fabbricare gli arcana e dirigili contro le
malattie; quel che allora ne esce è il fondamento.
Tu vedi la struttura ossea, l’esteriorità, ma quando possiedi
il suo Zolfo specifico, il suo Mercurio specifico, e il suo Sale
specifico, allora conosci che cos’è l’osso e come si ammala,
che cosa gli manca, che cosa aderisce a esso, da dove proviene,
quanto soffre. [...] Ora tu hai l’Uomo che nel suo corpo non è
altro che uno Zolfo, un Mercurio, un Sale. In questi tre risiedono la sua salute, la sua malattia e tutto ciò che gli compete.
Paracelso, a differenza di quello che si credeva fino ad allora, capì
che le malattie possono essere provocate anche da agenti esterni, tanto che individuò alcune malattie del lavoro, come la tubercolosi e la
silicosi. Curava le malattie con composti di origine minerale e non
Non è chiaro, però, se siano gli elementi a derivare dai principi,
o viceversa.
Per molti secoli, Paracelso rimase una figura emblematica nella
storia della chimica e dell’alchimia; in particolare, è stata criticata
Poco dopo, Paracelso ribadisce con forza che scopo dell’alchimia
non deve essere ottenere l’oro, ma guarire dalle malattie:
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la tendenza dei suoi discepoli ad accentuare la componente mistica
dei suoi insegnamenti, a scapito di quella più scientifica. È indubbio
poi che, nonostante le numerose intuizioni valide scientificamente,
Paracelso non fu in grado di giustificarle e dimostrarle e anzi, proprio per le sue teorie fantasiose e simboliche relative anche a molte
sue cure pur efficaci, è difficile dire se fu un mago o uno scienziato.
La visione del mondo di Paracelso era una sintesi della filosofia
platonica, delle tendenze ermetiche e magiche dell’epoca e del risveglio scientifico dell’Europa: si spiega così perché il fondatore della
iatrochimica è stato considerato dai posteri, a seconda dei casi, un
mago, un medico o un alchimista illuminato.
L’eredità di Paracelso
La corrente ermetica e mistica della chimica paracelsiana è fatta propria dagli esponenti della società segreta dei Fratelli della Rosacroce, tra cui spicca in particolare l’inglese Robert Fludd
(1574-1637): secondo Fludd la chimica mistica può essere la chiave
di lettura per l’Universo.
Come Paracelso, anche il suo contemporaneo Cornelio Agrippa
di Nettesheim pensava che le varie parti dell’Universo fossero in
relazione tra loro e che l’uomo dovesse essere il centro di tutto. A
differenza però di Paracelso, nella vita di Agrippa l’aspetto magico è senza dubbio prevalente su quello scientifico. Agrippa, che fu
filosofo, medico e alchimista, credeva nella magia, che considerava
la «scienza più perfetta» e che distingueva in magia naturale (quella
che risveglia le forze nascoste nella materia), magia celeste (legata
all’influsso degli astri) e magia religiosa o magia nera (quella in grado di risvegliare e contrastare le forze demoniache). Secondo lui, il
sapiente non deve mescolarsi con il volgo e deve utilizzare il linguaggio oscuro e tenebroso tipico degli alchimisti del passato per tenere
nascoste le proprie conoscenze.
Uno dei più famosi oppositori di Paracelso fu il tedesco Andrea
Libavius (1540-1616), noto come Libavio, autore del trattato
Alchemia, da alcuni critici considerato il primo libro di chimica della
storia. Libavio, in realtà, credeva sia nella possibilità della trasmutazione dei metalli in oro sia nella necessità che la chimica fosse al
servizio della medicina: quello che il tedesco contestava di Paracelso,
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e soprattutto dei suoi discepoli, erano il misticismo e la superstizione
che pervadevano le loro teorie, anche per questo oscure. La prosa di
Libavio, al contrario, si distingue per chiarezza e rigore. Nella prima
parte del suo libro (Encheria), c’è spazio per i dettagli più sperimentali; nella seconda e ultima parte (Chymía), si trovano invece le proprietà di alcuni dei composti più importanti allora noti, dall’acido solforico al tetracloruro di stagno, di cui è spiegata anche la preparazione.
Libavio eseguì anche diverse analisi sulle acque. Forse non è un caso
se pochi anni dopo la pubblicazione della sua opera la chimica per la
prima volta entrò ufficialmente in una università, a Marburg.
Nel 1604 venne poi pubblicato un nuovo testo in cui erano presenti sia le teorie della iatrochimica sia molti dettagli tecnici sulla
preparazione di diverse sostanze e sulla lavorazione dei vetri: Il carro
trionfale dell’antimonio, attribuito a un monaco noto come Basilio
Valentino, forse pseudonimo dell’editore tedesco che ne curò la pubblicazione. Come dice il titolo stesso, l’opera parla dell’antimonio
e dei suoi possibili impieghi in medicina, e analogamente descrive
proprietà e usi del bismuto e di numerosi acidi.
Anche l’opera di un medico italiano, Angelo Sala (1576-1637)
contribuì a preparare il terreno per la nascita della chimica moderna: nel libro Anatomia vetrioli pubblicato nel 1617 Sala, che pure
si considerava un seguace di Paracelso, descrive nei dettagli molti
esperimenti sul rame che aveva compiuto sperimentalmente.
Le teorie mistiche, però, faticano a essere sradicate: Johann
Rudolf Glauber (1604-70), tedesco che era riuscito a preparare e
purificare composti dalle proprietà terapeutiche (ricordiamo in particolare il solfato di sodio, noto anche come “sal mirabile” o “sale di
Glauber”), li vendeva con lauti guadagni spacciandoli per elisir con
virtù miracolose. La figura di Glauber è particolarmente significativa perché egli progettò e perfezionò impianti chimici e si occupò
dei rapporti tra produzione chimica ed economia. Probabilmente la
commercializzazione del suo sale come elisir di lunga vita era dovuta
più a interessi di tipo economico che a una reale adesione alle teorie
dell’alchimia antica.
Anche se i semi per la nascita della chimica moderna erano stati
gettati, al nuovo fervore scientifico rimanevano mescolati anche gli
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L’elisir d’amore
Un’indimenticabile figura di ciarlatano che vende un elisir miracoloso è Dulcamara, personaggio dell’opera lirica di Gaetano
Donizetti, rappresentata per la prima volta nel 1832 ma ambientata nel Settecento. Dulcamara, che poi ricorderà «dell’alchimia il poter», arriva all’inizio dell’opera nel villaggio vendendo un elisir panacea per tutti i mali e presentandolo così:
È questo l’odontalgico / mirabile liquore, / dei topi e delle
cimici / possente distruttore, / i cui certificati / autentici
bollati / toccar vedere e leggere / a ciaschedun farò. / Per
questo mio specifico, / simpatico mirifico, / un uom, settuagenario / e valetudinario, / nonno di dieci bamboli /
ancora diventò.
Per questo Tocca e sana / in breve settimana / più d’un afflitto giovine / di piangere cessò.
O voi matrone rigide, / ringiovanir bramate? / Le vostre
rughe incomode / con esso cancellate. / Volete voi, donzelle, / ben liscia aver la pelle? / Voi, giovani galanti, / per
sempre avere amanti? / Comprate il mio specifico, / per
poco io ve lo do.
Ei move i paralitici, / spedisce gli apopletici, / gli asmatici,
gli asfitici, /gl’isterici, i diabetici, / guarisce timpanitidi, /
e scrofole e rachitidi, / e fino il mal di fegato, / che in moda
diventò.
ultimi rantoli di quella che era stata l’alchimia, in particolare nelle
opere, tutte influenzate dalla scuola di Paracelso, di Johann Baptista
Van Helmont (1577-1644), Nicolas Le Febvre (1610-69) e Georg
Stahl (1660-1734).
Alcune scoperte che si possono a tutti gli effetti definire di importanza chimica sono state compiute nel corso di pratiche alchimistiche. Il fosforo, infatti, fu scoperto nel 1680 dal tedesco Hennig
Brand nell’urina. Brand è considerato anche l’ultimo degli alchimisti: era alla ricerca della pietra filosofale, che pensava di trovare proprio nell’urina.
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La chimica è una scienza?
Agli inizi del Seicento la chimica, pur non essendo ancora una
scienza autonoma a tutti gli effetti, si diffuse nelle università. Aumenta
infatti l’interesse dei suoi cultori per le attività pratiche: non è più solo
la contemplazione a essere un’occupazione degna di rispetto.
Nel 1604 Jean Beguin, autore di Tyrocinium chymicum e naturae
fonte et manuali depromptum, libro tradotto con il nome Les éléments
de chymie in varie lingue, istituì una scuola di chimica e farmacia;
nel 1647 William Davidson divenne professore di chimica a Parigi
e Le Febvre nel 1660 a Londra. In realtà, non esistono ancora dei
veri e propri chimici: spesso, infatti, chi insegna questa disciplina
è medico o farmacista ed è difficile sradicare il principio della iatrochimica secondo cui la chimica deve essere al servizio di medicina e
farmacia.
Lo stesso Beguin, che cerca di definire il campo d’interesse della
chimica, continua a indicare la preparazione di composti terapeuticamente efficaci come uno dei suoi fini:
La chimica è un’arte che insegna a dissolvere i corpi misti naturali e a coagularli, una volta dissolti, per ottenere medicamenti gradevoli, sani e sicuri.
[...] Tutte le scienze sono teoriche o pratiche. Poiché la chimica non si limita alla contemplazione e alla conoscenza dei
corpi misti (come fa invece la fisica), ma ha per scopo l’operazione, o la maniera di produrre ogni tipo di magistero, tintura, quintessenza e cose simili, senza dubbio va annoverata tra
le scienze pratiche. [...]
Secondo Beguin è necessario
capire la profondità dell’errore di coloro che associano al
nome di alchimista l’oggetto di un uomo che si dedica solo
alla trasmutazione dei metalli e al mistero ammirabile della
pietra filosofale. Il fine della chimica consiste nel preparare
i medicamenti in modo tale che essi siano gradevoli al gusto,
salubri e non pericolosi. Questa arte differisce però dalla farmacia volgare che prepara, in verità, i medicamenti ma senza
perfezione e senza virtù.
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sposare gli elementi
A questo periodo risale poi il dibattito sulla natura della chimica, a metà strada tra scienza e arte. L’arte è considerata, infatti, un
processo di imitazione della natura, e proprio in quest’ottica viene
giustificato l’aspetto pratico insito nella chimica. Nicolas Le Febvre,
nel suo Traité de la chymie, risolve questo problema stabilendo che la
chimica è sia scienza che arte e specifica poi come esistano tre distinti
rami della disciplina:
La chimica ha una grande estensione e ha, di conseguenza, molteplici finalità: il suo oggetto è l’intera natura. [...]
Esistono tre specie di chimica. La prima, scientifica e contemplativa, e che può quindi essere denominata filosofica, ha
per scopo soltanto la contemplazione e la conoscenza della
natura e dei suoi effetti, perché considera come suo oggetto
le cose che non sono in nostro potere. [...] La seconda specie
di chimica può essere denominata iatrochimica, termine che
indica la medicina chimica. [...] La terza specie si chiama chimica farmaceutica e ha per scopo la sola operazione poiché il
farmacista deve operare sotto la direzione degli iatrochimici,
seguendo esclusivamente i loro precetti. [...]
Da questa discussione è possibile concludere che la chimica,
in quanto è costituita da tre diverse branche, è scienza e arte.
La chimica filosofica di cui parla Le Febvre è una vera e propria
filosofia della natura, il cui oggetto non è solo la natura della materia,
degli elementi e dei metalli, ma anche quella degli astri e degli esseri
viventi. Questa filosofia sarà poi contrapposta sia alla scolastica sia
alla nascente filosofia atomistica e corpuscolare: tra i suoi esponenti
si possono ricordare due chimici di matrice paracelsiana come Van
Helmont e Johann Joachim Becher (1635-82).
Nonostante il nuovo clima e fervore scientifico, i dotti del
Seicento non hanno dimenticato Aristotele: la scienza, infatti, deve
avere come fine proprio la ricerca dei principi ultimi che sono nascosti ai sensi e possono essere rivelati solo con la pratica scientifica.
Qui l’influenza di Paracelso è ancora forte, tanto che in Les éléments
de chymie Beguin individua i principi della chimica nelle tre entità
zolfo, sale e mercurio:
elisir, alambicchi e trasmutazioni
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In tutte le scienze e le arti non vi è conoscenza più necessaria di quella dei principi poiché da questi dipende ogni altra
conoscenza, né più difficile poiché i principi si mantengono
sempre all’interno degli oggetti, nascosti ai sensi e noti solo
alla natura. [...]
Aristotele e tutta la filosofia insegnano che due arti o scienze
possono avere per oggetto una stessa sostanza o uno stesso
oggetto materiale, ma non possono considerarlo secondo gli
stessi principi intrinseci e secondo una medesima formalità.
La chimica è un’arte diversa dalla fisica e dalla medicina, i
medici e i fisici devono perciò concordare con noi che essa
deve possedere principi propri e intrinseci, formalmente costitutivi del suo oggetto.
[...] Il chimico ha individuato questi principi (mercurio, zolfo, sale) e ha compreso, grazie all’esperienza, che la risoluzione chimica e artificiale poteva spingersi fino a questi tre
principi in quanto punti d’arrivo.
Le Febvre precisa poi che i principi che la chimica ricerca non
hanno alcuna concretezza:
La chimica ha trovato che la fonte e la radice di tutte le cose
è una sostanza spirituale, omogenea, simile a sé stessa, che
è designata dai filosofi antichi e moderni con diversi nomi.
È stata denominata sostanza vitale, spirito di vita, mummia
vitale, caldo naturale, umido radicale, anima del mondo, entelechia, natura, spirito universale, mercurio di vita e con altri
nomi che non è necessario ricordare qui dato che abbiamo indicato quelli principali.
La tradizione magico-ermetica e il neoplatonismo propri dell’alchimia permearono in parte anche le altre discipline scientifiche, che
pure ebbero un’evoluzione più rapida. Lo stesso Niccolò Copernico,
per esempio, chiamò in causa, oltre ai neoplatonici, quell’Ermete
Trismegisto che gli antichi consideravano padre della conoscenza,
mentre è noto che Newton si dedicò anche all’alchimia. La nuova
scienza non è più solo speculazione intellettuale: come abbiamo visto anche nel campo della chimica, la scienza ora riunisce in sé sia
teoria che pratica.