estratto del libro
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estratto del libro
Introduzione Paola Milani Perché pentolini e resilienza a scuola? La Petite Casserole d’Anatole è un fine albo illustrato, di grande fortuna, uscito in Francia nel 2009, contrassegnato da un’illustrazione netta, ma appena tracciata, che accompagna il testo con delicatezza. Il tema al centro sono i pentolini che certi bambini trascinano con sé. Perché la proposta al pubblico italiano di tradurre l’albo illustrato e di inserirlo nella collana iniziata nel 2010 con l’editore Kite, che affianca l’albo rivolto principalmente a bambini e genitori a un Quaderno Pedagogico rivolto a insegnanti della scuola dell’infanzia - ma anche dei nido e delle scuole primarie - per favorire, come dice il sottotitolo stesso, il ripensamento di alcune pratiche di relazione fra insegnanti, bambini e genitori, nella logica ispirata al pensiero ecologico della co-educazione ? Perché gli ippopotami cui l’autrice sceglie di dare il volto ai personaggi sono quanto di più goffo si possa immaginare e ci introducono immediatamente nell’universo delle “schiappe” (Kinney, 2007), dei “somari” (Pennac, 2008), dei fragili, in cui tanti bambini si identificano, e in cui tanti insegnanti ed educatori identificano i bambini “delicati”, che stanno cioè affrontando difficoltà di varia natura e di cui la scuola di ogni ordine e grado, già dal nido, sembra traboccare, a detta di molti insegnanti, in particolare negli ultimi tempi. Abbiamo scelto di tradurre il titolo originario con Il pentolino di Antonino per rispettare la rima del titolo francese (casserole, Anatole) e perché Antonio è un nome diffuso in Italia quanto Anatole in Francia, ma in più Antonio è anche il nostro Sant’Antonio a Padova, il santo dei miracoli e questo libro racconta di un piccolo miracolo che insegnanti e genitori vedono talvolta compiersi nei bambini. Il miracolo del cambiamento, della pelle che rinasce sopra la ferita, delle potenzialità inesauribili di ogni persona umana che si manifestano quando la persona stessa riesce a far fronte in maniera costruttiva ad una difficoltà che invece avrebbe potuto schiacciarla, il miracolo di cui ci raccontano i tanti brutti anatroccoli che vediamo, nel corso della crescita, trasformarsi, solo apparentemente in maniera inaspettata, in cigni. In una parola: il miracolo della resilienza, che sappiamo, nella realtà, non essere un miracolo, ma un costrutto dovuto all’opera responsabile, coraggiosa e semplice allo stesso tempo, portata avanti in maniera stabile nel tempo dalle tante persone “normali” che si coinvolgono positivamente nella crescita dei bambini contribuendo fattivamente al loro ben-essere. Tale ben-essere è oggi riferito a una situazione generale di soddisfazione dei bisogni materiali, fisici, affettivi, etici e psicologici dei bambini, ma va inteso in prospettiva ecologica, ossia come la risultante di molteplici interazioni fra le relazioni genitoriali, familiari e sociali ed è per questa ragione che è l’insieme di queste relazioni, e non il solo bambino, che va messo al centro: per educare non basta impegnarsi nella relazione individuale con il singolo bambino, ma occorre assumere una logica aperta e partecipativa che implichi prepotentemente i genitori e tutti gli adulti potenzialmente significativi nel progetto educativo. È dunque per questa stessa ragione che ognuno, davvero ognuno di noi, può avere un ruolo chiave nel contribuire ad aiutare un bambino a riprendere positivamente il percorso graduale della crescita. Traîner une casserole è un’espressione figurata utilizzata nella lingua francese che l’autrice dell’albo pone al principio, che ha origine dal gesto di certi monelli che attaccano dei recipienti metallici (ecco le pentole) alla coda di un cane che, impaurito dal rumore che produce, si mette a correre disordinatamente, producendone ancora di più. Questi recipienti diventano così per il cane imbarazzanti e penosi, come certi brutti affari in cui si è caduti proprio malgrado, o come certi ricordi del passato, che possono derivare da traumi che segnano negativamente la vita dei tanti Antonini che sembrano, agli occhi della “gente”, vistosamente differenti. Questa differenza può essere una malattia, una disabilità, una storia familiare difficile, di violenza o di migrazione, un errore, un trauma, un colpo della sorte di varia entità, può riguardare bambini che non riescono ad integrarsi nella vita del gruppo classe, che non stanno al passo con i programmi, che non riescono a 5 costruire relazioni serene con i loro insegnanti e i loro genitori, ecc.. Sono insomma bambini che si portano in giro un pentolino, un qualcosa di inadeguato e rumoroso, che genera inquietudine, imbarazzo, senso di impotenza negli adulti che si prendono cura di loro. Nonostante si possa aver imparato a dissimulare il dolore che il pentolino arreca, esso è là, ma come la storia di tante persone ci insegna, vi è la possibilità di trasformare, non di negare o dimenticare, questo dolore in nuova sensibilità e traino per la propria crescita umana: ciò che più ingombra e crea problema può divenire il fondamento della nostra identità; perché introdurre l’approccio della resilienza in educazione non significa mettere a fuoco il tema dei bambini in difficoltà e delle conseguenti azioni terapeutico-riparative, ma significa piuttosto perseverare nel lavoro sull’interrogativo chiave: che cosa vuol dire educare bene oggi? che era alla base anche del Quaderno precedente e che ci conduce all’interno del paradigma pedagogico che già in-forma il modo di stare e di fare scuola per e con tutti i bambini, i loro genitori nella comunità educante. In questo senso, gli studi sulla resilienza non hanno apportato granché di nuovo al “vecchio” discorso pedagogico, ma hanno aggiunto una evidenza empirica a tante intuizioni sulla forza e il potere dell’educazione. Ci motivano cioè non solo ad avere più fede nel cambiamento, ma a capire concretamente come possiamo promuoverlo, rendono motivata e praticabile una concezione ottimista delle possibilità di cambiamento e ricostruzione identitaria della persona umana; perché proporre questo approccio può contribuire a superare l’attuale tendenza a etichettare i bambini con vecchi e nuovi disturbi, e il conseguente rischio che il bambino sparisca dietro il suo “disturbo”. La psicologizzazione talora dilagante può depauperare gli insegnanti dei ferri del mestiere, come capita quando per ogni bambino che ha un problema si chiama subito lo psicologo, prima di chiedersi da dove nasca il problema, se il problema è tale e come mai noi ce lo rappresentiamo così, quale è la rappresentazione di esso che hanno i genitori e il bambino stesso, in un atteggiamento di ascolto delle loro voci e di reale partenariato in cui si evidenziano piccole, concrete, praticabili soluzioni condivise che diano la possibilità di monitorare, passo passo, gli invisibili cambiamenti, non delegando al clinico ma riappropriandosi di quanto può fare l’educazione. La signora Margherita che incontriamo nell’albo ci mostra proprio il senso di tutto ciò attraverso il suo essere una presenza adulta vigile, sensibile, dinamica, competente, 6 incoraggiante, talora anche audace, divertita e divertente, un po’ contro-educativa, che non teme cioè di fare cose un po’ bizzarre nel senso di imbarazzanti per la “gente”; perché una comunità scolastica positiva è tale quando sviluppa la propria missione educativa nei confronti di tutti i bambini offrendosi come ambiente non solo di apprendimento, ma anche di relazioni fra bambini, famiglie e comunità, creando l’opportunità per tutti di essere coinvolti in una serie di attività, in cui ciascuno può esprimere il proprio punto di vista e contribuire alle decisioni. In questo modo, la scuola stessa può costituire un fattore di protezione in quanto gli insegnanti vengono ad assumere la funzione del tutore di resilienza, ossia di un adulto supportivo che si coinvolge nella crescita del bambino anche compensando, attraverso forme di attaccamento leggero, l'attaccamento insicuro vissuto da alcuni bambini con i care-givers di riferimento. Così la scuola crea nel quotidiano uno spazio di intervento in cui il bambino è riconosciuto a tutti gli effetti soggetto, che va rispettato e accolto nella sua individualità, riconosciuto nel suo bisogno di avere uno spazio specifico di espressione delle proprie emozioni e dei propri pensieri, favorendo così sia la stimolazione dello sviluppo senso-motorio, linguistico, affettivo e cognitivo, sia l'apprendimento di abilità sociali ed emotive, sia l'aumento dell'autostima; perché negli ultimi anni abbiamo lavorato intorno al tema della resilienza sia nella ricerca (Milani, Ius, 2010) che nella formazione di insegnanti e operatori sociali e abbiamo costatato la necessità di una traduzione applicativa di tale lavoro di ricerca, data anche la poca letteratura scientifica sulla resilienza nel contesto scolastico. Questo Quaderno risponde dunque a tale esigenza e per questo, ponendosi in forte continuità con il primo, mette al centro i bambini e le difficoltà della crescita, ma tenendo il fuoco sulle possibilità di resilienza che possono essere costruite, attraverso l’educare, in contesti quali nidi e scuole. Come il precedente, anche questo Quaderno è uno strumento leggero, di immediato utilizzo per gli insegnanti, che nelle 3 parti che lo compongono trovano: la cornice teorica che crea le coordinate per una lettura della storia; la storia di Antonino letta dal punto di vista pedagogico, con alcune voci di insegnanti nei riquadri, e una terza parte in cui si propongono delle piste concrete di riflessione sull'agire educativo a scuola a partire dalla stessa storia. Una cornice teorica per leggere la storia di Antonino 1) Che cos'è la resilienza Il termine resilienza, la cui etimologia risale al verbo latino resilio (rimbalzare, tornare indietro), afferisce alla fisica dei materiali in cui è utilizzato per definire la capacità di un corpo di assorbire un urto senza rompersi. Da circa cinquant'anni esso viene utilizzato anche nelle scienze umane per indicare quelle persone che, nonostante nella vita abbiano subito un "urto", abbiano cioè dovuto affrontare situazioni traumatiche di varia natura e intensità, hanno vissuto in seguito in modo inaspettatamente "positivo" senza incrementare fattori di rischio o giungere ad esiti psico-patologici. Per addentrarci nella teoria e comprendere meglio il concetto, ci affidiamo metaforicamente ad una bambola immaginando che essa venga lasciata cadere a terra: come reagirà all'urto? Sono molti i dipende da considerare: innanzitutto le sue caratteristiche, il materiale di cui è composta (porcellana, plastica rigida o morbida, pezza,ecc.), le sue dimensioni, la sua forma, l'altezza da cui cade e se viene lasciata cadere in modo involontario, oppure deliberatamente lanciata con forza a terra, il punto in cui urta e la tipologia di materiale con cui urta: un pavimento di legno, di pietra, un tappeto, un materasso, un cuscino di piume, la superficie dell'acqua, l'erba di un giardino. È diverso per una bambola di porcellana cadere sulla pietra o su un cuscino; al contrario per una di pezza la caduta non rappresenta di per sé un rischio, come invece potrebbe essere la trazione delle braccia o delle gambe. Anche le condizioni atmosferiche concorrono nel determinare la risposta: un ambiente molto freddo o molto caldo, o subacqueo contribuisce a rendere il materiale più o meno fragile, oppure ad aumentare o attutire la forza di gravità. Le caratteristiche interne ed esterne, la forza e la tipologia dell'urto concorrono a definire l'immediata reazione della bambola, ma sono necessari altri elementi, di natura soggettiva, per comprendere quella che sarà la sua ripresa a lungo termine, il suo futuro. In primo luogo la comprensionedel valore affettivo che ci dice della relazione tra lei e la/ il bambina/o: non è la stessa cosa se a cadere, e magari a rompersi, è una delle tante bambole di cui si dispone, o se, al contrario, è la propria bambola, quella preferita da cui non ci si separa mai, un Marco Ius, Paola Milani regalo ricevuto da una persona cara. La bambola potrebbe mostrare la sua resilienza non rompendosi, ma potrebbe anche rompersi in un primo momento e mostrare la sua resilienza in un adattamento successivo, grazie a qualche risorsa utilizzata, per esempio l’atto di aggiustarla. Dopotutto, per un bambino, il suo pupazzo preferito, che dopo essere "sopravvissuto" a tanti giochi e a tante avventure, si trova ora con un bottone al posto dell'occhio caduto, con il braccio rattoppato o la testa tenuta insieme con lo spago, è ancor più il suo pupazzo, e i segni che porta su di sé, le ferite, sono occasione per raccontare la sua storia e la sua unicità. Dopo le prime definizioni che delineavano il concetto di resilienza come l'assenza di psicopatologia a seguito di un trauma o di situazioni stressanti ad alto rischio di esito patologico (Rutter, 1999), gli studiosi hanno assunto un approccio più complesso distanziandosi dal riferimento in termini così netti all'assenza di patologia definendola piuttosto come "la capacità di una persona o di un sistema sociale di vivere e svilupparsi positivamente, in modo socialmente accettabile, nonostante le difficili condizioni di vita" (Vanistandael, 1998, p. 8), o come un ‘‘processo dinamico che comprende l'adattamento positivo in un contesto di significativa avversità’’ (Luthar et al., 2000, p. 543). Attualmente il concetto viene studiato da diverse discipline (psicologia, pedagogia, neuroscienze, sociologia, ecc.) in cui due principali correnti di pensiero si distinguono tra chi considera la resilienza in termini di outcome o esito, cioè il doing ok, il "fare bene" o l'avere successo, a seguito dell'evento traumatico (Masten, Powel, 2003) e chi la ritiene un processo, cioè l'interazione tra l'insieme di fattori (genetici, individuali, familiari e ambientali), presenti prima, durante e dopo l'evento stressante, che confluisce in un esito globale positivo (Rutter, 1999). Tali fattori non riguardano qualità rare e speciali, tantomeno magiche, ma consistono in risorse umane presenti nella mente e nel corpo dei bambini, nelle loro famiglie, nelle loro relazioni e nella loro comunità, le quali, interagendo tra loro nell'ordinarietà di tutti i giorni, permettono alla "magia ordinaria" di compiersi (Masten, 2001). 7 Qualunque sia la definizione che si assume, ciò che pare significativo sottolineare è che la resilienza: non consiste in una capacità di resistenza, tantomeno in una sorta di caratteristica genetica che rende invulnerabili; permette la costruzione di qualcosa di nuovo e sensato a partire da "pezzi rotti" a seguito di un urto; non rimuove o cerca di negare la sofferenza, le ferite e le cicatrici che l'evento difficile o traumatico comporta, ma le utilizza come opportunità; non propone una prospettiva dello sviluppo senza problemi (Walsh, 2009), ma evidenzia come sia possibile, a partire dalla difficoltà, assumere una prospettiva di speranza che coinvolge la persona nelle sua globalità (aspetti individuali, relazionali, sociali, educativi, psicologici, fisici, …); non è sinonimo di salute, tantomeno di perfezione e non consiste in una buona performance; indica una prospettiva contro il determinismo nello sviluppo umano dalla quale si evince come sofferenza e infelicità non siano legati tra loro da un nesso di causalità lineare. Sembra dunque che i bambini che incontrano particolari difficoltà nel loro percorso di crescita, sviluppano resilienza non perché sono o diventano invulnerabili: non si tratta di bambini né di ferro, né di vetro, ma di carne e di anima, che, come tutti i bambini, sono vulnerabili ma, in più rispetto a coloro che non sono stati feriti dalla vita, sono riusciti a rendere tale ferita un'occasione per dare pienezza e senso al loro divenire umano (Cyrulnik, 2003). In altre parole, hanno potuto trasformare l'urto in un'opportunità, un trampolino dal quale lanciarsi verso il proprio futuro di speranza e possibilità, pronti a vedere il lato luminoso di sé, quando fuori tutto è scuro, e a divenirne consapevoli. 2) I fattori che proteggono la crescita dei bambini L'accento posto dai ricercatori sul tentativo di comprendere quali siano i fattori che proteggono lo sviluppo invece di ostacolarlo ha portato a risultati importanti, ma occorre tenere presente che la resilienza, come abbiamo poco sopra affermato, non si dà deterministicamente a partire da alcuni di questi fattori, allo stesso modo per cui i fattori di rischio non determinano in modo lineare lo sviluppo di disagi o patologie. 8 Sembra comunque utile evidenziare un elenco di principali fattori protettivi, considerandoli possibili "ingredienti" da mettere in gioco e da porre in relazione tra loro e con altri, nelle varie situazioni in cui si opera a partire dalla singolarità di ciascun bambino. Li proponiamo a partire dalla tripartizione proposta da Garmezy (1985), suddividendoli in fattori: Individuali caratteristiche personali buone capacità intellettive e sociali autostima, senso di autoefficacia, ottimismo successo scolastico capacità di far fronte alle situazioni (coping) umorismo Familiari struttura educativa adeguata: equilibrio tra aspetti affettivi (attaccamento sicuro, clima affettivo stabile) ed etico-normativi (regole chiare e appropriate all'età e alla crescita dei figli; sistema valoriale che caratterizza la famiglia) clima familiare affettuoso e caldo (ambiente stimolante, scambi affettivi frequenti, condivisione di momenti piacevoli di vita quotidiana) interazione positiva dei genitori con i bambini Ambientali ricca rete sociale di pari presenza di un "tutore di resilienza" (Cyrulnik 2002): un adulto significativo al di fuori della famiglia (insegnante, educatore, vicino, parente, animatore, ecc.) con il quale stabilire una relazione di reciproca appartenenza, duratura nel tempo sostegno ai genitori nell’educazione dei figli struttura sociale positiva (relazioni informali, comunità supportante, ecc.) ambiente scolastico pronto a riconoscere le potenzialità dei bambini e a integrare la storia difficile all'interno di una prospettiva esistenziale di possibilità e riuscita.