L`attentato a Parigi, Napoleone III e il “Bombarolo”

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L`attentato a Parigi, Napoleone III e il “Bombarolo”
L’attentato a Parigi, Napoleone III e il “Bombarolo”
di LAURA FANO
Tutti i riflettori sono puntati su Parigi.
Sui volti degli attentatori, sui bombardamenti a tappeto ordinati da Hollande; sugli incontri al
vertice tra i capi di Stato e di Governo. L’obiettivo del mondo occidentale è uno, e solo uno:
combattere, con ogni mezzo e ovunque, il terrorismo; un fenomeno tornato con forza alla ribalta
mediatica nell’ultimo quindicennio.
Che la Francia sia sempre stata una piazza calda celo racconta la storia: è lì che nasce, nel
1789, la Rivoluzione.
Ed è proprio nella Francia rivoluzionaria che viene coniato nel 1793 il termine terrorismo che,
allora, indicava inizialmente la politica, detta appunto “del Terrore”, sostenuta dal movimento
giacobino e dal suo esponente più carismatico e celebre, Maximilien Robespierre.
Una strategia che si fondava sulla repressione sistematica violenta nei confronti dei propri
avversari politici o presunti tali, che portò alla condanna a morte di circa 17.000 individui. Il
termine terrorismo, in questa sua prima accezione, indicava più che altro una “politica di Stato”,
ovvero una condotta ufficiale utilizzata dai dirigenti del paese d’Oltralpe per tenere sotto
controllo la delicata situazione nazionale, dato che la Francia di quegli anni si trovava
accerchiata da tutte le maggiori potenze europee. Un fenomeno unico e radicalmente differente
da tutte le forme da esso assunte negli anni successivi, proprio in quanto aperto ed esplicito.
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A partire dal XIX secolo il terrorismo divenne un importante mezzo di lotta politica, e non fu più
appannaggio dei governi, bensì di piccoli gruppi clandestini (come, ad esempio, la carboneria
italiana) che, non essendo dotati di vaste risorse economiche e militari, attraverso tali azioni
eclatanti erano in grado di influenzare notevolmente la politica e l’opinione pubblica.
Durante la prima metà dell’Ottocento, con l’emergere in Europa e Sud America delle cosiddette
“questioni nazionali”, l’elemento patriottico divenne una costante nelle azioni terroristiche.
Nella storia degli assassinii politici e degli attentati commessi nel corso dell' Ottocento, gli
italiani hanno un posto di tutto rispetto. Gli anarchici si servivano soprattutto del pugnale,
mentre i cospiratori carbonari e mazziniani preferivano le bombe.
E’ il caso del celebre attentato all’Imperatore Napoleone III del 1855 ad opera di Felice Orsini,
detto “Il Bombarolo”, il quale mirava a scatenare una serie di rivolte popolari che favorissero
l’unificazione italiana attraverso l’assassinio del sovrano francese, probabilmente il maggiore
alleato dello Stato della Chiesa, e pertanto ostacolo alla nascita di un’Italia unita.
Nato nel 1819 a Forlì, quindi suddito papale, figlio di un ex ufficiale napoleonico, carbonaro e
spia della polizia pontificia nello stesso tempo, dopo una fanciullezza ed un'adolescenza
irrequieta e non facile, lo troviamo protagonista nel biennio 1848-49, quando combatte nella I
guerra d'indipendenza e quando viene eletto deputato all'Assemblea costituente della
Repubblica romana.
Seguace di Mazzini, partecipa a diversi falliti tentativi insurrezionali progettati dal fondatore della
Giovine Italia. Arrestato nel 1854, durante un viaggio clandestino nei territori dell'impero
asburgico, è incarcerato nel castello di San Giorgio a Mantova, una delle fortezze del famoso
Quadrilatero, da cui riesce a evadere in maniera rocambolesca. Riparatosi in Inghilterra, rompe
con Mazzini e prepara l'azione che lo renderà famoso: l'attentato a Napoleone III, cui
rimproverava d'aver affossato la repubblica romana nel 1849, riportando Pio IX sul trono.
Per l'occorrenza progetta e confeziona cinque bombe con innesco a mercurio fulminante,
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riempite di chiodi e pezzi di ferro, poi divenute una delle armi più usate negli attentati anarchici,
col nome di "Bombe Orsini".
Raggiunta la capitale francese con altri congiurati, tra i quali Pieri, Di Rudio, Gomez, il
gruppetto riesce a scagliare tre bombe contro la carrozza dell'imperatore, giunta tra ali di folla
all'ingresso dell'opéra di rue Le Peletier.
Sono le 19:15 di un tardo giovedì pomeriggio parigino del lontano 14 gennaio 1858. Monsieur
Kim, netturbino, incaricato di spargere di sabbia la strada d’accesso al teatro dell’Opèra, ha
quasi terminato il suo lavoro. Gli manca solo quel tratto davanti all’Opera, dove stazionano due
uomini non hanno intenzione di togliersi dalla sua traiettoria. Ostinato e diligente Monsieur Kim
riesce a convincerli e finalmente a concludere la sua commissione. Ma, mentre sta ancora
parlando, i due raggiungono altri due sconosciuti appena arrivati sul marciapiede di via Le
Peletier, in attesa che arrivi l’Imperatore accompagnato dalla sua consorte.
La strada comincia a essere animata: i giornali hanno annunciato che all’Opéra saranno
presenti l’Imperatore Napoleone III e sua moglie, Eugenia de Montijo. Una moltitudine di donne
e uomini aclamano la carrozza blindata, che una volta entrata in rue Le Peletier si dirige verso il
teatro. La folla, ingrossata per salutare il loro passaggio, si accalca trattenuta dai gendarmi.
Giunge quasi a destinazione, ma quando si ferma, tre boati scuotono l’aria: sono bombe. La
folla grida, i cavalli scalciano terrorizzati tra vetri rotti e schegge di legno e metallo. Uno dei
cavalli ha la testa tranciata, un altro, ferito, sbanda prima di stramazzare al suolo dove alla fine
si contano dodici persone dilaniate dalla deflagrazione.
Centocinquantasei i feriti che dal quel giovedì sera avranno per sempre la vita segnata, e un
marciapiede ricordato da tutti i testimoni come “pieno di sangue”. La paura e il terrore dilaga tra
le persone presenti, la carrozza con l’imperatore e l’imperatrice Eugene rimane intatta, ma le
vittime sono moltissime, i feriti cominciano così a fuggire in via Rossini e a trovare soccorso
nella farmacia Vautrin di via Laffitte. Medicati alla svelta vengono riportati in strada per lasciare
posto agli altri. Monsieur Dually vedendone uno in difficoltà, gli porge il proprio braccio e lo aiuta
a raggiungere la stazione delle vetture che si trova all’incrocio con la rue de Provance
consentendo la fuga a quello che sarà il principale indagato dell’attentato: Felice Orsini.
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Era dalla primavera di due anni prima che pensava all’attentato. Un folle gesto fallimentare che
provocò morti e feriti e che costò la vita allo stesso organizzatore, un episodio però, che spianò
la strada a Camillo Benso, conte di Cavour, nel chiedere aiuto alla Francia. Fu infatti, lo stesso
Felice Orsini a porre su un piatto d’argento la firma di quelli che passeranno alla storia come i
patti di Plombieres.
Dopo il fallimento dell’attentato, gli esecutori furono individuati a tempo di record, nel giro di
sette ore. A sbloccare le indagini fu il ventiseiene Antonio Gomez, il più giovane del gruppo di
attentatori. Fu arrestato nella trattoria italiana “Brogi”, dove s’era rifugiato cercando di
confondersi tra gli avventori.
L’avvocato di Orsini tentò di trasformare il processo in un atto di accusa contro la tirannide che
soffocava la libertà dei popoli di tutta Europa, mentre i complici di Orsini scaricarono su di lui
tutta la responsabilità. Fu un processo-spettacolo. L’imputato seguiva il processo in abiti di buon
taglio che ne mettevano in risalto l’elegante figura, conquistando così i cuori di molte donne,
compreso quello dell’Imperatrice che si spese presso il marito per salvare la vita di
quell’italiano. Lo stesso Napoleone III miracolosamente scampato all’attentato, in cuor suo,
avrebbe voluto graziare quell’idealista venuto dalla Romagna.
Fu quella che oggi chiameremmo “l’opinione pubblica” a condurlo alla ghigliottina. Il popolo di
Francia volle una punizione esemplare per quello straniero che aveva minacciato la vita di un
sovrano amato e che aveva seminato morte e terrore per le strade di Parigi. Napoleone III non
poteva non tener conto dell’opinione dei sudditi. Insomma, Orsini compì un attentato in nome di
un popolo che lo disconobbe e lo volle condannato a morte.
La condanna a morte fu estesa anche ad Andrea Pieri, mentre gli altri complici furono
condannati all’ergastolo sull’Isola del diavolo.
Dal carcere, prima di essere ghigliottinat il 14 marzo del 1858, Felice Orsini, senza chiedere la
grazia, scrive un'accorata e nobile lettera al sovrano francese. In essa, sconfessando
l'assassinio politico, invitava Napoleone III a rendere all'Italia quell'indipendenza perduta nel
1849 per colpa dei Francesi.
Napoleone III fu colpito da questa lettera e ne autorizzò la pubblicazione. La stampa italiana
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presentò Felice Orsini non più come un terrorista, ma come un eroe. Cavour colse allora
l'occasione per denunziare il pericolo di nuovi attentati di marca rivoluzionaria, e convinse
Napoleone III che l'Italia era una polveriera pronta ad esplodere ed a mettere sottosopra
l'equilibrio europeo.
L’attentato a Napoleone III fu di fondamentale importanza nello sviluppo successivo del
terrorismo, poiché, prendendo di mira un influente personaggio pubblico, lo rendeva un simbolo,
l’oggettivazione di un “male” contro cui lottare; di conseguenza l’attentato terroristico perdeva la
sua utilità contingente, particolare, diventando invece l’azione esemplare di un’avanguardia che
potesse fungere da modello per le masse.
Orsini fu ghigliottinato il 13 marzo a Parigi assieme all'amico Pieri. Quando arrivò il momento
dell’esecuzione, Orsini si avviò con passo deciso al patibolo e, una volta sotto la ghigliottina,
urlò:” Viva l’Italia, Viva la Francia!”
Nel suo testamento aveva chiesto di essere seppellito a Londra, ma il suo corpo finì in una
fossa comune a Parigi. Di Rudio evase e Gomez fu graziato, il primo emigrò negli Stati Uniti e
del secondo non si seppe più nulla.
Napoleone III romperà in seguito gli indugi ed inviterà Cavour a recarsi segretamente in luglio
alle terme di Plombieres, dove si getteranno le basi per la tanto auspicata alleanza
franco-piemontese.
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