PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TANA DE ZULUETA La

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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TANA DE ZULUETA La
Camera dei Deputati
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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
TANA DE ZULUETA
La seduta comincia alle 10,15.
(La Commissione approva il processo
verbale della seduta precedente).
Sulla pubblicità dei lavori.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi
sono obiezioni, la pubblicità dei lavori
della seduta odierna sarà assicurata anche
attraverso l’attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Cosı̀ rimane stabilito).
Audizione di rappresentanti
della campagna « Sdebitarsi ».
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca,
nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle
istituzioni ed i processi di governo della
globalizzazione, l’audizione di rappresentanti della campagna « Sdebitarsi ».
Do il benvenuto alla dottoressa Raffaella Chiodo, coordinatrice della campagna, e al dottor Fabio Marcelli, rappresentante dell’Istituto di studi giuridici sulla
comunità internazionale del CNR.
Suggerisco ai nostri ospiti di svolgere
due interventi di circa di dieci minuti
ciascuno, cosı̀ da acquisire la vostra testimonianza per l’indagine conoscitiva al nostro esame.
Do la parola alla dottoressa Raffaella
Chiodo.
RAFFAELLA CHIODO, Coordinatrice
della campagna « Sdebitarsi ». Signor presidente, innanzitutto vogliamo rivolgere un
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ringraziamento per l’attenzione e la sensibilità dimostrata, anche in questa occasione, da parte vostra. In realtà, nel merito
della questione del debito entreremo sia io
che il dottor Marcelli, come rappresentanti
della campagna. Tuttavia, abbiamo motivo
di credere che sia necessario sollecitare
l’attenzione del Parlamento, in particolare
delle Commissioni esteri della Camera e
del Senato – l’abbiamo già fatto in un’audizione in Senato un paio di mesi fa –
sulla vicenda del debito. Mi riferisco, nello
specifico, all’approccio italiano a tale questione. Infatti, abbiamo la sensazione che
vi sia una sottovalutazione – non voglio
usare il termine « dimenticanza » – di
quanto questo problema, ancora irrisolto,
sia assolutamente all’ordine del giorno e di
come sia necessario che il nostro Paese si
doti degli strumenti necessari – se esiste
volontà in proposito – per affrontarlo nei
termini che noi riteniamo importanti e
giusti.
La nostra campagna si occupa di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sul tema del debito estero, tenendo
costantemente presente un punto politico
per noi fondamentale, ossia la coerenza
degli interventi necessari riguardo alla
lotta alla povertà. La cancellazione del
debito non può essere assolutamente vista
come una questione a sé stante, ma come
parte integrante di una strategia più globale per svolgere un intervento significativo. In questo senso, auspichiamo una
svolta importante con la riforma della
legge 26 febbraio 1987, n. 49 sulla cooperazione, cosı̀ come speriamo che vengano
stanziate risorse significative, all’altezza
degli impegni che il nostro Paese si è
assunto (e speriamo si assumerà) per lottare contro la povertà in modo efficace e
adeguato.
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Esiste, dunque, una questione di coerenza all’interno della quale è necessario
identificare il tema del debito. Nello specifico, la Banca mondiale ufficialmente
riferisce che il debito, ancora oggi, rappresenta l’elemento soffocante per il progresso e lo sviluppo dei Paesi e dei popoli
impoveriti. Affrontando il discorso in
modo sintetico, le entrate verso i Paesi
ricchi e sviluppati, rappresentate dai crediti dovuti al pagamento del debito estero
da parte dei Paesi più poveri, superano la
cifra totale delle risorse destinate a iniziative di sviluppo, ovvero i famosi finanziamenti per lo sviluppo. Pertanto, ad oggi,
è ancora in atto – lo diciamo con uno
slogan – un piano Marshall « rovesciato »,
in cui i Paesi poveri, con il pagamento del
debito estero, garantiscono un’entrata
nelle casse dei Paesi ricchi maggiore rispetto ai contributi allo sviluppo da loro
elargiti. Questo significa, rifacendosi al
concetto di coerenza, che non possiamo
con la mano sinistra cooperare e destinare
risorse per lo sviluppo, mentre con la
mano destra prendiamo non solo quanto
dato, ma addirittura gli interessi.
Se questa è la situazione a livello
mondiale – è la Banca mondiale che lo
conferma, basta consultarne il sito – significa che la questione del debito non
solo non è risolta, ma è ancora all’ordine
del giorno e richiede da parte dei Paesi più
ricchi e fortunati una presa di posizione
politica adeguata. In caso contrario, qualunque campagna, qualunque impegno o
intervento di aiuto allo sviluppo sarebbe
vanificato da una situazione contraddittoria (oppure coerente, a seconda dei punti
di vista).
In questo senso, l’Italia ha approvato
nel luglio del 2000 la legge n. 209, che
disciplina la cancellazione del debito da
parte del nostro Paese. Si tratta di una
legge che abbiamo caldeggiato con una
lunga campagna culminata, nell’anno del
Giubileo, nell’approvazione della stessa,
con grande soddisfazione da parte del
movimento che quella campagna aveva
supportato con una raccolta di firme e con
la sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Basta prendere visione degli articoli di
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quella legge per rendersi conto di come
prevedesse di costruire, unitamente all’intervento volto alla cancellazione del debito, anche un quadro di giustizia sociale
e umanitaria che desse consistenza a tale
scelta. In realtà, nel corso dei sei anni
(ormai quasi sette) seguiti all’approvazione
di quella legge, il suo impatto è stato
purtroppo molto vanificato. Prima di tutto,
essa prevedeva una tempistica, in base alla
quale in tre anni avrebbe dovuto essere
praticata la cancellazione totale dei debiti
contratti con l’Italia; invece, dopo sei anni
– quindi nel doppio del tempo previsto –
stando all’ultima relazione presentata in
Parlamento, è stata praticata solo la metà
della cancellazione stabilita. Questo significa che in termini sia quantitativi, sia
soprattutto qualitativi, quell’intervento ha
subı̀to una vanificazione nella sua spinta
propulsiva di giustizia, cui ovviamente noi
teniamo molto.
Il dottor Fabio Marcelli, rappresentante
dell’Istituto di studi giuridici sulla comunità internazionale del CNR, che aderisce
alla campagna, entrerà nel merito della
questione per affrontare uno dei punti
importanti di questa legge che, a nostro
parere, è quello più sensibilmente vanificato: l’articolo 7. In base a tale articolo
l’Italia avrebbe dovuto promuovere un’iniziativa importante presso i partner internazionali per coinvolgere la Corte internazionale di giustizia nell’affrontare la
questione del debito. L’articolo 7 per noi
è quindi molto importante, in quanto
andava oltre l’applicazione della legge
stessa, proponendo un impegno anche politico nello scenario internazionale da
parte del nostro Paese, che fosse in grado
di sollecitare una svolta adeguata. In
realtà, le relazioni presentate in Parlamento sull’applicazione della legge riportano sempre un’unica frase, secondo la
quale non è stato riscontrato alcun interesse presso i partner internazionali. Questo è l’unico commento che si riscontra
riguardo all’applicazione dell’articolo 7
della legge.
A nostro avviso, questa situazione è
molto grave – in realtà, anche il Governo
in carica, nel suo programma, aveva an-
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nunciato di voler perseguire questo obiettivo – e ci auguriamo che il Parlamento,
e in particolare la vostra Commissione,
abbia la sensibilità di cogliere alcune proposte che noi stiamo cominciando ad
avanzare. In primis, chiediamo di riprendere in esame e di valutare adeguatamente
l’importanza di questo articolo, cominciando a ragionare sulla necessità di rafforzare e attualizzare quella legge. È vero
che essa ha una sua tempistica – i tre anni
che ho richiamato prima – purtroppo già
vanificata, tuttavia possiamo comunque
cominciare a mettere mano ad alcune
proposte di modifica, che possano attualizzarla e inserirla nel contesto presente.
Per noi è molto importante ristabilire una
stretta forma di collaborazione, come del
resto già accaduto in Senato con la Commissione affari esteri. Sono già stati approvati alcuni ordini del giorno – certamente di vostra conoscenza – che vanno
in questa direzione.
Tra l’altro, il 2 ottobre a Roma organizzeremo un incontro – sperabilmente
« ospitato » dalla Camera dei deputati –
con una rappresentante della Commissione di auditoria sul debito dell’Ecuador,
che ha prodotto un lavoro rilevante sulla
questione del debito di quel Paese. Come
sapete, tale questione è stata per molto
tempo sotto i riflettori, dal momento che
il Governo della Norvegia, l’anno scorso,
ha dichiarato di riconoscere il principio di
illegittimità del debito relativo all’Ecuador
e ad altri quattro Paesi. Questa è la strada
che, a nostro parere, dovrebbe essere percorsa. Siamo consapevoli del fatto che la
questione del debito soffoca le economie e
le possibilità di sviluppo autonomo dei
cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Sappiamo anche che gli obiettivi di sviluppo
del millennio non sono perseguibili anche
a causa del debito che questi Paesi sono
costretti a pagare. Esso sottrae loro risorse
che invece potrebbero dirottare per sostenere autonomamente i propri processi di
sviluppo. Pensiamo, dunque, che sia arrivata l’ora di cominciare a ragionare concretamente sui possibili aggiornamenti dell’intervento italiano sul debito.
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PRESIDENTE. Ringrazio la dottoressa
Chiodo. Credo sia opportuno raccogliere
entrambe le testimonianze dei nostri
ospiti, in modo da poter dare successivamente ai colleghi la possibilità di formulare domande congiunte.
Do la parola al dottor Fabio Marcelli,
rappresentante dell’Istituto di studi giuridici sulla comunità internazionale del
CNR.
FABIO MARCELLI, Rappresentante dell’Istituto di studi giuridici sulla comunità
internazionale del CNR. Signor presidente,
vi ringrazio per questa opportunità. Il mio
nome è Fabio Marcelli e sono primo
ricercatore all’Istituto di studi giuridici
internazionali del CNR; pertanto, il mio
campo di interesse scientifico è quello del
diritto internazionale. Di recente ho avuto
modo di approfondire in particolare la
questione del debito estero, tema sul quale
ho scritto anche il libro « I rapporti fra
diritto internazionale e debito estero dei
Paesi cosiddetti in via di sviluppo ». Faccio
parte della rete « Sdebitarsi », in collaborazione con la quale abbiamo istituito
qualche mese fa un osservatorio presso il
nostro Istituto che sta raccogliendo dati e
materiale informativo sul tema del debito
estero.
Il mio intervento sarà dedicato principalmente all’articolo 7 della legge n. 209
del 2000, sul quale, peraltro, la dottoressa
Chiodo ha già espresso i concetti fondamentali. Riteniamo che si tratti di una
norma importante, perché sancisce l’impegno delle istituzioni italiane, in primo
luogo del Governo, in sede internazionale
per promuovere un parere della Corte
internazionale di giustizia sul tema del
debito estero.
Voi sapete che la Corte internazionale
di giustizia ha due ordini di competenze:
contenziosi, qualora insorga una controversia tra due o più Stati, e consultivi, in
base ai quali gli organi internazionali
possono chiedere alla Corte un parere su
questioni che abbiano attinenza col diritto
internazionale. In base al suddetto articolo, il Governo italiano dovrebbe adoperarsi – in sede di Assemblea generale delle
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Nazioni Unite, di Consiglio economico e
sociale e di organizzazioni internazionali
in genere – perché si adotti una risoluzione che chieda alla Corte internazionale
di giustizia di chiarire il quadro giuridico
internazionale applicabile al debito estero.
Tale chiarimento è importante perché, in
realtà, il quadro giuridico internazionale è
abbastanza confuso. In ogni caso, gli elementi che si possono desumere inducono
a dubitare fortemente della compatibilità
dei rapporti debitori in essere con i princı̀pi generali del diritto internazionale. La
disciplina di questi rapporti di debito,
infatti, è racchiusa in contratti autoreferenziali, con i quali gli Stati debitori si
impegnano a pagare somme ingenti ai
propri creditori (altri Stati, organizzazioni
internazionali, come le istituzioni finanziarie internazionali quali la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale,
banche regionali e cosı̀ via nonché, in
moltissimi casi, banche ed istituti di credito privati, finanziarie e fondi internazionali).
Tuttavia, come ha già ricordato la dottoressa Chiodo, il debito estero rappresenta un ostacolo fondamentale allo sviluppo di questi Paesi, perché le somme che
gli stessi devono destinare al pagamento
dei creditori vengono sottratte ad altre
possibilità di impiego. Mi riferisco, ad
esempio, alle spese per la sanità, per
ospedali efficienti, per l’istruzione, onde
garantirla alle giovani generazioni; inoltre,
vengono sottratte alla possibilità di soddisfare elementari diritti delle popolazioni
interessate, come quello dell’accesso all’acqua, all’alimentazione e via elencando. In
altre parole, il pagamento di tali somme
rappresenta un ostacolo al rispetto dei
diritti umani.
Pertanto, va segnalata una prima grossa
contraddizione tra il debito estero e le
norme che impongono agli Stati il rispetto
dei suddetti diritti. Voglio fare riferimento,
in primo luogo, ai patti del 1966, stipulati
in sede di Nazioni Unite, dedicati rispettivamente ai diritti civili e politici e a
quelli economici, sociali e culturali. È
chiaro che senza la disponibilità di risorse
finanziarie adeguate nessuno Stato – spe-
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cialmente quelli poveri – è in grado di
soddisfare in modo adeguato i diritti delle
proprie popolazioni. Vi è, quindi, una
contraddizione tra i diritti umani e il
debito estero.
Un ulteriore tema cui possiamo accennare è quello dell’autodeterminazione, un
altro principio fondamentale che attualmente regge la comunità internazionale,
fortemente legato al principio di democrazia: ogni Stato deve essere in grado di
determinare le politiche da seguire, in base
a un elementare principio di partecipazione democratica. Ebbene, il debito
estero obbliga, viceversa, gli Stati non solo
a destinare somme ingenti – a volte addirittura la maggior parte dei propri bilanci pubblici – al pagamento dei creditori, ma anche a seguire le politiche imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali (Fondo monetario internazionale e
Banca mondiale) che chiedono agli Stati,
per poter avere accesso a determinate
risorse finanziarie, di impegnarsi a sottoscrivere programmi politici, quali, ad
esempio, quelli di riduzione dell’intervento
pubblico, di privatizzazione, di abbattimento indiscriminato dei dazi tariffari, di
compressione delle spese pubbliche, di
apertura indiscriminata e totale agli investimenti esteri, senza alcuna garanzia per
il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente. Si tratta di un altro elemento di
contraddizione che possiamo sottolineare.
Ulteriore tema da affrontare è quello
relativo al discorso dell’ambiente. Anche
questo è un problema di risorse, ma non
solo. Difatti, è chiaro che le risorse destinate ai creditori potrebbero essere impiegate per politiche ambientali di cui, come
ben sappiamo, vi è oggi un bisogno enorme
e crescente in tutto il mondo. Inoltre,
risorse naturali, come le foreste, il patrimonio della biodiversità e via elencando,
vengono in molti casi vendute sul mercato
internazionale per procurarsi le valute
forti necessarie al pagamento degli interessi sul debito. Si tratta, dunque, di un
ulteriore elemento di contraddizione.
Ultimo elemento sul quale voglio brevemente soffermarmi riguarda il fatto che
la disciplina di questi rapporti si sottrae,
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in molti casi, anche ai princı̀pi generali del
diritto civile. Basti pensare al fatto che
siamo in presenza, come di recente ravvisato dal segretario di Stato vaticano,
monsignor Bertone, ad una vera e propria
usura internazionale: i tassi corrisposti
sono usurai e non hanno riscontro in
alcuna legislazione interna. Si parla di
tassi del 5-6 per cento mensile, il che
equivale addirittura al 72 per cento annuo.
Inoltre, non è prevista alcuna salvaguardia
contro il cosiddetto « anatocismo », per cui
le somme pagate a titolo di interessi vengono poi imputate sul capitale, producendo una crescita esponenziale ed inarrestabile del debito estero.
Vorremmo che tutti questi meccanismi
fossero sottoposti al vaglio preciso della
Corte internazionale di giustizia, che rappresenta il massimo organo giudiziario
mondiale, per stabilirne la conformità ai
princı̀pi del diritto internazionale e del
diritto civile. Il Parlamento italiano si è
assunto tale impegno, approvando pressoché all’unanimità l’articolo 7 della legge
n. 209, che risponde, tra l’altro, ad una
tradizione nazionale abbastanza meritoria
– portata avanti in alcuni casi dall’Italia –
di garantire comunque la promozione del
rispetto del diritto su scala internazionale.
Ebbene, a sette anni dall’approvazione
della legge, tale articolo è rimasto completamente inapplicato, con motivazioni a
volte addirittura risibili. Ricordo che una
relazione di un ministero competente (mi
sembra fosse il Ministero dell’economia e
delle finanze) sosteneva che non è possibile portare avanti questa previsione,
perché fra l’altro essa richiederebbe l’unanimità della comunità internazionale.
Questo non è vero, perché le risoluzioni
che l’Assemblea generale delle Nazioni
Unite adotta normalmente per chiedere il
parere della Corte internazionale di giustizia possono essere assunte a maggioranza. Quindi, il problema è di volontà
politica e consiste nel capire se il Governo
italiano intenda ottemperare o meno a un
preciso obbligo, imposto da una legge
votata all’unanimità, quindi con un voto
assolutamente bipartisan, dal Parlamento
italiano. Inoltre, occorre rendersi conto se
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l’obiezione ricordata in precedenza dalla
dottoressa Chiodo, riguardante l’accordo
fra gli alleati, possa in qualcun modo
ostacolare l’accertamento del diritto, ritenuto invece preminente dal Parlamento
italiano.
Penso che debba essere compiuto ogni
sforzo per garantire che anche il fondamentale articolo 7 della legge n. 209 sia
applicato. La richiesta di parere presso la
Corte internazionale sarebbe una decisione molto popolare e gradita a livello
internazionale, in quanto è stata più volte
avanzata, ad esempio, dal Parlamento latinoamericano. Sono reduce da un convegno internazionale svoltosi la settimana
scorsa a São Paulo, presso la sede del
Parlamento latinoamericano e presso la
facoltà di giurisprudenza, nel corso del
quale è stato riaffermato, nell’ambito del
debito, il fondamentale obiettivo del ricorso alla Corte. Pertanto, se l’Italia riuscisse a compiere questo passo in sede
internazionale, si potrebbe delineare un
nuovo tipo di rapporti anche fra nord e
sud, quindi fra Paesi industrializzati e
Paesi cosiddetti in via di sviluppo, molto
più in sintonia con il diritto internazionale
che consentirebbe senza dubbio uno sviluppo dei rapporti, per il futuro molto più
armonioso e pacifico nonché ispirato a
princı̀pi effettivi di giustizia e di diritto.
PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Marcelli. Do ora la parola ai colleghi che
intendono porre quesiti o formulare osservazioni.
ALÌ RASCHID KHALIL. Signor presidente, ringrazio i graditi ospiti per la loro
esposizione e rinnovo l’impegno del mio
gruppo politico a riprendere questa battaglia. Considerata l’ormai prossima sessione dell’Assemblea generale dell’ONU
(ottobre-novembre), siamo in ritardo per
poter intervenire.
Ad ogni modo, come Commissione, insieme al Ministero degli affari esteri, possiamo fare un tentativo, pensando da subito al prossimo anno per spingere il
Governo in questa direzione e cercare di
trovare una soluzione – in tutto o in par-
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te – per questo problema drammatico che,
come avete ben esposto e delineato, non
solo ostacola lo sviluppo di molti Paesi che
si trovano in condizioni disagiate, ma lede
i diritti fondamentali dei cittadini.
Con il mio intervento ho voluto ribadire questo impegno e ringraziarvi per la
vostra presenza.
PRESIDENTE. Mi associo al ringraziamento formulato dall’onorevole Khalil. A
livello internazionale, immagino che le
energie profuse per la risoluzione sulla
moratoria della pena di morte abbiano in
qualche modo monopolizzato gli sforzi;
del resto, anche in quel caso si trattava di
costruire un fronte nuovo, geograficamente molto trasversale.
Vi chiedo, alla luce della vostra esperienza e dei rapporti che avete con la
campagna « Sdebitarsi » a livello mondiale,
se potete fornire qualche indicazione sui
potenziali alleati. Avete fatto cenno all’America Latina e alla Norvegia. In Europa, in Asia e in Africa quali altri potrebbero esservi ? A vostra conoscenza –
ma si tratta di una domanda che naturalmente rivolgeremo al Governo – quale
potrebbe essere il responso dei partner del
Club di Parigi ?
FABIO MARCELLI, Rappresentante dell’Istituto di studi giuridici sulla comunità
internazionale del CNR. Signor presidente,
noi siamo certi che un’iniziativa italiana in
sede internazionale troverebbe subito consensi in tutti i continenti, anche perché i
Paesi indebitati rappresentano purtroppo
la maggioranza dei componenti della comunità internazionale. Quindi, è chiaro
che la proposta di ottenere un chiarimento
del quadro giuridico internazionale applicabile al debito estero e quindi la salvaguardia dei princı̀pi fondamentali di giustizia e di diritto su questo fenomeno cosı̀
importante, troverebbe subito adesioni, a
livello sia di governi che di opinione pubblica di questi Paesi.
Ho citato i Paesi latinoamericani
perché in essi è in atto un processo di
integrazione più avanzato rispetto ad altri
terreni. Su questo tema si stanno impe-
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gnando fortemente diversi Paesi, con i
quali fra l’altro l’Italia ha rapporti storici
molto forti. Penso, ad esempio, all’Argentina, al Brasile, all’Ecuador, che ha compiuto ultimamente scelte molto avanzate
sul terreno del debito, ma anche ad altri
Paesi dell’America latina. Indubbiamente,
anche in altri continenti vi sono governi
che sarebbero molto sensibili e disposti ad
appoggiare questa scelta, qualora il Governo italiano si impegnasse finalmente ad
attuare l’articolo 7 della legge n. 209.
In sede europea, la Norvegia ha compiuto, nel passato più recente, scelte molto
avanzate su questo terreno. Con la dichiarazione di Soria Moria del 2006 si è
impegnata a perseguire questi princı̀pi di
giustizia su scala internazionale. Di conseguenza, penso che sarebbe raccomandabile un coordinamento con il Governo
norvegese, ovvero un Paese creditore al
pari del nostro. Quanto alle reazioni degli
altri Paesi del Club di Parigi, penso che
essi si siano ispirati, al contrario della
pronuncia del nostro Parlamento, alla
gretta osservanza dell’interesse immediato.
Purtroppo, non cogliamo in questi governi
un’ispirazione a più ampio respiro, vòlta a
mettere in primo piano gli interessi globali
della comunità internazionale. Tuttavia,
resta indubbio che anche in questi Paesi
esistano forze politiche, sociali e culturali
che potrebbero essere sollecitate da una
mossa del Governo italiano a uscire allo
scoperto e, quindi, a scatenare, anche in
queste realtà, un dibattito che risulterebbe
senz’altro molto utile e che potrebbe portare, in alcuni casi, all’adozione di posizioni più avanzate di quelle registrate
finora. Infatti, finché la politica estera di
questi Paesi – e, a quanto pare, anche del
nostro – si ispirerà solamente alla salvaguardia degli interessi a breve termine
delle banche e delle società finanziarie, è
chiaro che continuerà l’attuale andazzo
del debito estero, per niente positivo, per
i motivi cui abbiamo accennato. Una
mossa politica del Governo italiano in
questo senso sarebbe, dunque, di grande
spessore, sia politico che culturale e po-
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trebbe aprire prospettive nuove anche all’interno dei Paesi membri del Club di
Parigi.
Non so se in questo modo ho risposto
alla sua domanda.
PRESIDENTE. Credo di sı̀.
GIANNI FARINA. Signor presidente,
voglio spendere poche parole per esprimere il mio augurio affinché l’articolo 7
venga immediatamente applicato. Infatti, il
problema mi sembra di straordinaria importanza, anche con riferimento ai risvolti
drammatici che potrebbero determinarsi
se non fosse messa in atto una politica
ferma nella direzione da lei indicata.
Vorrei qualche chiarimento ulteriore.
Ad esempio, i Paesi dell’America latina
sono indebitati, però hanno anche enormi
potenzialità. Penso al Brasile e all’Argentina, per esempio, che non sono Paesi
sottosviluppati, ma con potenzialità evidenti; vivono momenti di crisi, ma anche
momenti di grande trasformazione e di
grande progresso. Inoltre, vorrei qualche
chiarimento sui Paesi dell’Africa, perché è
proprio lı̀ che si vive il dramma di un
continente alla rovina totale.
Sono convinto che l’Italia dovrebbe essere in prima fila per condurre una battaglia molto più avanzata, cui si è accennato anche in questa occasione. Il problema dell’azzeramento del debito, secondo me, si pone per la quasi totalità dei
Paesi africani. In poche parole, quel debito
non verrà più restituito o, se verrà restituito, provocherà conseguenze ben illustrate in questa sede.
Credo che l’Italia dovrebbe porsi il
problema di perseguire una politica coraggiosa – anche cercando alleanze in
Europa disponibili in tal senso – vòlta
all’azzeramento del debito di una serie
impressionante di Paesi e legando tale
azione al problema della democrazia e dei
diritti. Questo legame mi convince molto.
Credo che l’Italia sia in grado di stare
in prima fila per portare avanti una battaglia di diritti, di democrazia, di superamento del sottosviluppo e di riconoscimento di una realtà non risolvibile se non
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con l’azzeramento del debito, mettendo a
fuoco il passato e riprendendo un cammino che non può che essere diverso.
Tengo a sottolineare questo punto e credo
che sia compito della Commissione e dei
gruppi parlamentari fare in modo che
questa sensibilità si allarghi sempre più.
SABINA SINISCALCHI. Signor presidente, intervengo innanzitutto per scusarmi del ritardo, dovuto ai mezzi di
trasporto, senza tuttavia che ciò rappresenti un alibi. Mi scuso, dunque, con i
rappresentanti della campagna « Sdebitarsi » e mi auguro che lascino della documentazione a disposizione di tutti i commissari.
Vorrei un giudizio – non so se abbiate
già trattato questo punto nella vostra relazione – sulle iniziative di riconversione
attuate dall’Italia in alcuni Paesi, come ad
esempio il Kenya. Immagino si tratti di
iniziative complesse da realizzare, dal momento che passano attraverso l’accordo
con il Governo del Paese debitore. Tuttavia, mi pare che ci sia anche la volontà di
coinvolgere la società civile. A distanza di
quanto tempo – non saprei dirlo – sono
state avviate queste iniziative in applicazione della legge n. 209 ?
RAFFAELLA CHIODO, Coordinatrice
della campagna « Sdebitarsi ». In realtà entrambi gli onorevoli che sono intervenuti
da ultimo hanno perso la parte iniziale del
discorso, nella quale abbiamo affrontato
questi aspetti.
GIANNI FARINA. Mi dispiace, ma ho
avuto gli stessi problemi della collega Siniscalchi.
RAFFAELLA CHIODO, Coordinatrice
della campagna « Sdebitarsi ». Non importa, per fortuna sarà disponibile il resoconto stenografico e dunque non mi
ripeterò su argomenti già trattati all’inizio
che inquadravano la necessità di affrontare la questione del debito in maniera
coerente.
Le ragioni richiamate poco fa dall’onorevole Farina, che portano oggi la stra-
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grande maggioranza dei popoli africani a
soffrire dell’impatto che il pagamento del
debito estero comporta, sono un fatto
appurato. Preciso, inoltre, che non si tratta
di qualcosa in procinto di verificarsi, ma
di un avvenimento già in corso da decenni.
Se vogliamo essere ancora più precisi,
come direbbe l’ex presidente del Sudafrica,
Nelson Mandela, sono secoli che i popoli
africani pagano in maniera drammatica la
sottrazione di risorse al loro continente, e
quindi al beneficio dei popoli. Si è partiti
con il processo di deportazione degli
schiavi per proseguire con la colonizzazione, che ha sottratto all’Africa materie
prime preziosissime. Ancora oggi, peraltro,
l’economia di questi Paesi sarebbe potenzialmente molto forte se essi non avessero
subı̀to questo processo devastante, di cui
noi siamo responsabili. Non solo le società
civili dei Paesi africani, ma molti governi
impegnati in un dialogo con la società
civile ci chiedono un’inversione dell’ottica,
perché ritengono che sarebbe opportuno
rovesciare la visione e cominciare a pensare che forse i veri creditori non sono i
Paesi ricchi, quanto piuttosto – e non solo
sul fronte economico – i popoli che oggi
pagano il costo dei processi di indebitamento.
Sulla questione sollevata dall’onorevole
Siniscalchi, devo dire che noi – parlo della
campagna « Sdebitarsi », ma in generale
delle campagne sul debito con cui noi
manteniamo rapporti (prevalentemente
africane, ma anche latinoamericane ed
anche asiatiche) particolarmente forti e
impegnati – esprimiamo un giudizio molto
« tenero » nei confronti non tanto della
cancellazione del debito, quanto della conversione del debito, con tutto il processo
che essa prevede. Come sapete, nel caso
specifico del Kenya, richiamato dall’onorevole Siniscalchi, il processo è iniziato più
di qualche anno fa, promosso da una
realtà come quella di padre Alex Zanotelli,
che dal Kenya, con le associazioni presenti
sul territorio e soprattutto nella baraccopoli di Korogocho, ha iniziato a sollecitare
il Governo italiano affinché affrontasse la
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questione della conversione. È stata una
proposta effettivamente nata dal basso,
ovvero dalla società civile.
Tuttavia, dietro la conversione del debito si intravede un principio di fondo
forse non corretto. Ovviamente sono ben
accetti tutti i processi di conversione, tanto
più laddove siano costruiti con la partecipazione della società civile; tuttavia il
principio politico che la stessa campagna
per la cancellazione del debito del Kenya
ha ribadito, anche con una certa stizza, è
appunto la necessità di veder cancellato il
debito. Infatti, nel momento in cui viene
riconosciuto un debito che ha maturato gli
interessi usurai di cui parlava poco fa il
dottor Marcelli – senza dimenticare le
altre questioni che abbiamo richiamato
all’inizio dei nostri interventi – va sancito
un principio. Una volta riconosciuto tale
principio, si deve procedere in modo coerente con esso. Quindi, la conversione può
anche andare bene all’interno di un meccanismo vòlto a cercare soluzioni – abbiamo detto che la legge italiana, peraltro,
ne offre – alla questione del debito dal
punto di vista politico. Non bisogna inseguire gli effetti, bensı̀ lavorare sulle cause
che hanno prodotto l’attuale situazione
debitoria. Occorre affrontare la questione
in termini politici e quindi è necessaria,
come suggeriva il presidente della Commissione, un’iniziativa di respiro internazionale e di alto profilo politico da parte
del nostro Paese, che riprenda in mano la
questione del debito.
L’esempio dell’iniziativa contro la pena
di morte è certamente molto concreto, con
tutte le problematiche che conosciamo.
Tuttavia, anche sul debito esiste una disponibilità e un interesse fortissimo da
parte di alcuni Paesi, anche se non di tutti.
Come sappiamo, infatti, alcuni Paesi preferiscono pagare il debito, proprio per
poter ricevere altri crediti e inseguire il
meccanismo imposto in questo momento
dalle istituzioni finanziarie grazie alle regole attualmente in vigore.
Noi chiediamo, invece, che venga compiuto un gesto coraggioso. L’esempio della
Norvegia è concreto; chiaramente si tratta
di un Paese piccolo, i cui crediti maturati
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sono inferiori rispetto a quelli dell’Italia.
Tuttavia, la sua iniziativa (tra l’altro sviluppata nel nostro continente) trova simpatia in Spagna e nel mondo cosiddetto
« ricco » dell’Europa, ma anche disponibilità e interesse non solo nei Paesi dell’Africa australe come il Mozambico, ma
anche in quelli dell’Africa occidentale e
centrale. Alcuni di essi, membri dell’Unione africana, certamente sono interessati a costruire un percorso di questo
tipo, con le caratteristiche richiamate dal
dottor Marcelli. Non c’è necessariamente
bisogno di raggiungere la maggioranza
assoluta o l’adesione della totalità dei
membri dell’assemblea delle Nazioni
Unite, perché basta una decisione presa a
maggioranza semplice per interpellare la
Corte internazionale di giustizia e chiedere
un suo parere sui meccanismi del debito,
quindi sulle sue cause e non solo sui suoi
effetti.
PRESIDENTE. Credo che questa audizione potrà risultare molto utile ai colleghi
della Commissione per portare avanti
l’azione politica già iniziata al Senato, per
quanto riguarda l’aggiornamento di questo
capitolo molto importante della nostra
politica estera, sul quale, come giustamente richiamato all’attenzione della
Commissione, si è avuto negli ultimi tempi
un certo silenzio.
Chiedo ai nostri ospiti di consegnare
alla Commissione la documentazione predisposta, come suggerito dall’onorevole Siniscalchi, affinché possa essere messa in
distribuzione.
Dichiaro conclusa l’audizione.
Audizione di rappresentanti del Forum
sociale mondiale in Italia.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca,
nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle
istituzioni ed i processi di governo della
globalizzazione, l’audizione di rappresentanti del Forum sociale mondiale in Italia.
Anche in questo caso, come per la precedente audizione, suggerisco un’esposizione
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di circa dieci minuti, prima di lasciare la
parola ai colleghi per eventuali domande e
integrazioni.
Do la parola alla dottoressa Raffaella
Bolini, rappresentante del Forum sociale
mondiale in Italia.
RAFFAELLA BOLINI, Rappresentante
del Forum sociale mondiale in Italia. Ringrazio il presidente e i membri della
Commissione per l’invito a partecipare
all’audizione odierna.
Mi chiamo Raffaella Bolini e sono la
responsabile internazionale dell’ARCI. Insieme ad altri colleghi, impegnati in alcune
organizzazioni della società civile italiana,
faccio parte del Consiglio internazionale
del Forum sociale mondiale, che è l’argomento del quale mi propongo di parlavi
oggi.
Purtroppo, avendo avuto il computer
rotto per quindici giorni, non ho potuto
portare documentazione scritta, che comunque potrò inviare in un secondo momento.
Immagino che nelle sedute precedenti
diversi miei colleghi, esponenti di organizzazioni della società civile, abbiano avuto
modo di illustrarvi i contenuti delle principali campagne globali di critica alla
globalizzazione neoliberista. Per quanto
mi riguarda, provvederò a descrivere il
Forum sociale mondiale che, con le sue
articolazioni continentali e regionali, rappresenta lo strumento attraverso il quale
tutte queste campagne si sono potute sviluppare in maniera più efficace, a partire
dal gennaio 2001. In questo modo spero di
poter contribuire alla vostra indagine conoscitiva, relativamente a due aspetti: le
forme e la metodologia della rete globale
del movimento altermondialista e l’impegno a rinnovare ed estendere democrazia
e partecipazione, ovvero il contenuto forse
più trasversale.
Non a caso i primi momenti in cui è
comparso il movimento no global hanno
coinciso con le contestazioni di grandi
istituzioni, organismi e vertici internazionali, come la Banca mondiale, il Fondo
monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale per il commercio o il G8.
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Al centro di tali contestazioni, sin dall’inizio, non figuravano solo i contenuti specifici delle agende di questi organismi o di
questi eventi, ma proprio il grande tema
della democrazia.
Molte di queste sedi – come avrete
sicuramente appreso dai miei colleghi –
non hanno basi democratiche. Alcune di
esse, come l’Organizzazione mondiale per
il commercio, sono addirittura costruite
per censo, mentre altre affidano scelte di
importanza globale solo ai governi più
importanti del pianeta. La teoria democratica non legittima i poteri forti a governare il mondo sulla base dei rapporti di
forza esistenti. La democrazia, al contrario, si fonda su un principio di uguaglianza fra i cittadini, si pone l’obiettivo di
garantire a tutti almeno i diritti di base e
uguali diritti di cittadinanza e affida alla
politica e alle istituzioni il compito di
comporre in modo equilibrato i diversi
interessi, per ottemperare agli impegni di
principio enunciati dalle carte fondamentali: in Italia la Costituzione, a livello
internazionale la Dichiarazione universale
dei diritti umani delle Nazione Unite
nonché le altre basi fondanti del diritto
internazionale.
Il pensiero neoliberista teorizza esattamente il contrario. Afferma che i diritti
non si possono imporre al mercato e,
quindi, mette in un angolo e sottrae poteri
alla politica e alle istituzioni democratiche.
Molte decisioni fondamentali sono oggi
prese dalle banche centrali, dalle istituzioni finanziarie internazionali, senza
neanche consultare i Parlamenti. È
enorme il peso dei grandi gruppi economici e finanziari, delle multinazionali,
molte delle quali hanno bilanci più consistenti di quelli di intere nazioni. I cittadini non possono partecipare a scelte
che neanche conoscono: non solo i cittadini dei Paesi poveri, ma neppure quelli
dei Paesi ticchi, compresi noi italiani. Se
consideriamo che molte scelte cruciali
vengono assunte da organismi e istituzioni
che non rispondono ad alcun Parlamento
e, spesso e volentieri, neanche alla maggioranza dei governi del globo, si aprono
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ovviamente molti interrogativi sul tasso di
democrazia consentito da questo sistema.
La carenza democratica che oggi affligge il pianeta aumenta il livello di ingiustizia, la disuguaglianza, lo sfruttamento e la povertà. Infatti, senza il contrappeso della partecipazione popolare e
del controllo democratico i grandi interessi economici, finanziari, commerciali e
militari riescono ad imporre scelte magari
funzionali ai propri profitti, ma spesso
completamente inadatte o addirittura controproducenti per la realizzazione di giustizia sociale, pace, convivenza e tutela
dell’ambiente.
Nessuna società, neppure quella più
avanzata e ricca, può sentirsi immune dai
danni prodotti dalla carenza democratica.
La sensazione di non contare nulla induce
tanta parte della cittadinanza a ritenere
superflue e perfino parassitarie le istituzioni democratiche e la politica. La frustrazione di tanto sud del mondo è un
ottimo brodo di cultura per integralismi
ed estremismi. L’aumento dell’esclusione
sociale produce solitudine, individualismo,
rottura dei legami comunitari, aumento
della paura, e quindi dell’aggressività.
Innovazione democratica e democrazia
globale non sono certo temi che hanno
facili risposte a disposizione. È un terreno
di ricerca e di sperimentazione in cui
ciascun soggetto dovrebbe fare la propria
parte. Non è esattamente questa la condizione in cui ci troviamo, perché la stessa
discussione italiana sulla crisi della politica, che pure occupa tanto spazio nel
dibattito pubblico, è assai silente su tali
nodi che a noi paiono essere quelli cruciali. In questa situazione assolutamente
non facile, la società civile democratica di
tutto il mondo sta provando, in questi
anni, a investire energie e risorse su questo tema, sperimentando, innanzitutto su
sé stessa, la costruzione di un nuovo
laboratorio democratico.
Il Forum sociale mondiale è lo strumento principale che ci siamo dati, convinti innanzitutto del fatto che per rispondere alle sfide globali sia necessario, per
parte nostra, costruire una società civile
globale, ossia una rete dei diversi soggetti
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di società civile che, partendo e comunicando la propria esperienza, possano insieme produrre una capacità di pensiero e
di azione che sia in grado di agire sulle
scelte globali.
Il Forum sociale mondiale nasce nel
2000 dall’intuizione di alcune organizzazioni brasiliane. È interessante ricordare
queste organizzazioni, anche perché il loro
elenco spazza via l’idea, spesso macchiettistica, del movimento altermondialista e
no global creatasi anche nel nostro Paese.
Le organizzazioni brasiliane che hanno
dato vita al Forum sociale mondiale sono
la rete delle organizzazioni non governative, la Commissione giustizia e pace della
Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani, una grande associazione di imprenditori, il sindacato, istituti di analisi sociali
ed economici, il Movimento dei lavoratori
senza terra e ATTAC.
La prima edizione del Forum sociale
mondiale si è tenuta a Porto Alegre, nel
sud del Brasile, nel gennaio del 2001. Negli
anni successivi si sono svolte altre tre
edizioni a Porto Alegre e una a Mumbai,
in India. L’ultima edizione, nel gennaio di
quest’anno, si è svolta a Nairobi, in Kenya.
È stato il più grande evento autorganizzato
di società civile mai realizzato in Africa. Vi
hanno partecipato più di 60 mila persone,
il 70 per cento africane, con la presenza di
tutti i Paesi africani. Tale evento ha dimostrato che in Africa esiste una società
civile e democratica e che su di essa la
politica internazionale dovrebbe contare.
La prossima edizione si terrà a Belém, in
Amazzonia, nel 2008. Il comitato organizzatore è costituito dalla rete delle associazioni indigene di tutti i Paesi amazzonici e, ovviamente, il Forum avrà al centro
il tema dell’emergenza ambientale, del
clima e della biodiversità.
Dall’esperienza mondiale nel tempo
sono nate, a catena, moltissime esperienze
continentali, regionali e nazionali. Ne segnalo solo una: il Forum sociale degli Stati
Uniti, che si è tenuto per la prima volta ad
Atlanta nel giugno di quest’anno e che ha
visto una grande partecipazione popolare
di classe media impoverita. Si è trattato di
un importante momento di denuncia della
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totale assenza di ammortizzatori sociali
nel Paese più ricco del mondo, dove non
esiste l’assistenza sanitaria e alle donne
vengono sottratti i figli se, una volta licenziate, non riescono più a pagare l’affitto.
Il processo del Forum sociale mondiale
è gestito da un consiglio internazionale cui
partecipano i rappresentanti di moltissime
realtà della società civile di tutti i continenti. Penso sia interessante sottolineare
che, fra gli altri, sono membri effettivi e
permanenti di questo consiglio la Federazione internazionale dei sindacati, la CARITAS internazionale, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei
popoli, Oxfam e molte altre autorevoli
organizzazioni.
Provo a esporvi brevemente la metodologia del Forum sociale mondiale. Il
Forum è uno spazio aperto. Il consiglio
internazionale, dunque, si limita a costruire un contenitore in cui ciascuna
organizzazione, o rete di organizzazioni,
che lo desideri, può collocare i propri
incontri. Il Forum in quanto tale non
assume mai alcuna decisione, non firma
documenti, non lancia campagne, né manifestazioni. Le organizzazioni e le reti che
vi partecipano possono, al contrario, utilizzare il Forum per proporre le proprie
iniziative, che rimangono comunque di
titolarità delle singole organizzazioni e che
portano la firma di chi le promuove e non
del Forum. Questo è un aspetto fondamentale del laboratorio democratico che si
sta sperimentando.
La storia è piena di esperienze democratiche naufragate nella lotta per l’egemonia o per il potere. Noi crediamo,
invece, che la ricerca di un pensiero
nuovo, capace di traghettare l’umanità
verso un futuro migliore, sia appunto una
ricerca. Nessuna delle culture esistenti, o
già sperimentate, può dire di avere la
ricetta pronta e solo la capacità di ascolto
fra le diverse tradizioni culturali e la
disponibilità alla contaminazione possono
aiutare, camminando insieme, a identificare, passo per passo, la strada del cambiamento necessario.
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La critica radicale al neoliberismo, alle
politiche di esclusione sociale che porta
con sé, alla disuguaglianza, al militarismo,
alla guerra, al razzismo è patrimonio di
culture ed esperienze molto diverse tra
loro. Da questo punto di vista, il Forum è
una sorta di piazza che cerca di aiutare
l’incontro e lo scambio tra chi condivide
questa critica e cerca un’alternativa. Il
Forum ha una sua carta dei princı̀pi che
ciascun partecipante deve sottoscrivere. Si
tratta di un documento di quattordici
punti che, oltre al richiamo agli obiettivi
comuni che ho appena enunciato, propugna il principio della non violenza e nega
l’accesso al Forum ai partiti politici e alle
organizzazioni militari in quanto tali.
Nel corso degli anni, in contemporanea
al Forum sociale mondiale, sono stati
organizzati forum sociali delle autorità
locali e dei parlamentari, con l’idea di
provare a rafforzare l’incontro e l’alleanza
con le forme della rappresentanza democratica. In questi anni, all’interno del contenitore Forum, si sono create e rafforzate
molte reti di società civile e hanno preso
il via tante campagne e vertenze. Ne cito
solo alcune: contadini e consumatori che
si occupano dei temi della sovranità alimentare e dell’accesso alla terra; operatori
e utenti che difendono i servizi pubblici
come l’educazione alla sanità; comunità
che in tutto il mondo difendono i beni
comuni, in primo luogo l’acqua; ecologisti
del nord e popoli indigeni del sud impegnati a difendere l’ambiente; gli esclusi; i
sindacati; le organizzazioni per i diritti
umani che lottano per i diritti sociali, dalla
casa al lavoro; i pacifisti e le vittime dei
conflitti impegnati per la pace; le comunità del sud e le organizzazioni antirazziste che lavorano per i diritti dei migranti. Le organizzazioni pacifiste di tutto
il mondo hanno potuto organizzare, grazie
alla rete del Forum sociale mondiale, la
più grande manifestazione mai realizzata
sul pianeta. Mi riferisco a quella contro la
guerra in Iraq tenutasi il 15 febbraio 2003
quando, nella stessa giornata, 110 milioni
di persone scesero in piazza in tutto il
mondo.
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Prima di concludere, mi soffermo su
due limiti del processo Forum, che mi
sembra importante sottolineare. In Europa, dove esiste un Forum sociale europeo – ha tenuto la sua prima edizione a
Firenze, per poi incontrarsi di nuovo a
Parigi, Londra, Atene e, a settembre del
prossimo anno, a Malmö, in Svezia – il
processo ha una grande debolezza nei
Paesi dell’Europa dell’est. La causa di
questa situazione è l’enorme fragilità della
società civile in quelle zone. Crediamo che
questo problema riguardi tutti, non solo
noi, quindi, ma anche la politica e le
istituzioni. L’Unione europea si va allargando a nazioni in cui vi è poco spazio per
esercitare un controllo democratico. Paesi
essenziali e fondamentali, come la Russia,
senza una cittadinanza attiva e consapevole rischiano di essere molto facilmente
preda di poteri forti, della corruzione e
della mafia.
Anche in Medio Oriente esistono esperienze di forum, ma sono deboli. La cultura forum ancora non riesce a produrre
un linguaggio capace di parlare alle società
civili democratiche arabe, mediorientali e
islamiche, molte delle quali vivono situazioni difficili dal punto di vista dell’agibilità democratica o dei conflitti. Anche
questo problema riguarda tutti. Da questo
punto di vista, di particolare interesse per
noi è il percorso di costruzione del Forum
sociale del Maghreb, che dovrebbe tenersi
quest’anno.
Per concludere, riepilogo gli obiettivi
che il processo Forum sociale mondiale si
pone e che in questi anni ha realizzato:
fornire un’occasione permanente di autoformazione per la società civile e democratica di tutto il mondo, attraverso la
conoscenza delle esperienze che si vivono
in altri continenti e il confronto con esse;
rafforzare le società civili che vivono in
condizioni difficili e di isolamento, dando
ad esse la possibilità di legittimarsi e
crescere nella rete con altre esperienze;
produrre comunicazione alternativa, e
dunque educazione popolare, con gli strumenti a nostra disposizione, da Internet
alle manifestazioni, che sono per noi innanzitutto un mezzo per comunicare, in
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una realtà che di fatto nega alla società
civile l’accesso ai mezzi di comunicazione
di massa; costruire e rafforzare vertenze e
campagne politiche, sia di opposizione,
come quelle alla guerra, che propositive,
come quelle per la ripubblicizzazione dell’acqua; procedere nella ricerca di un
disegno di società alternativo al neoliberismo, capace di intervenire sia su singoli
e specifici contenuti che sul tema trasversale della democrazia globale.
Quest’anno il Forum sociale mondiale
invita a partecipare alla Giornata mondiale di azione che si terrà il 26 gennaio
prossimo. Sarà un evento speciale; non si
tratterà di una grande riunione, né di una
grande manifestazione, ma a ciascuno – a
casa propria e sui propri contenuti – si
chiederà di costruire qualcosa che renda
visibili le proprie vertenze e le proprie
proposte. Questo vuole essere un modo
per cercare di valorizzare la rete diffusa di
società civile che si batte per la pace, la
giustizia e i diritti in tutto il mondo e che
si impegna ogni giorno, anche quando i
riflettori sono spenti e le iniziative sono
piccole e diffuse.
Visto che molti argomenti all’esame,
oltre ai contenuti specifici di questioni che
ovviamente investono anche il Parlamento,
si riferiscono anche al problema più generale di come ricostruire le istituzioni
democratiche nell’era della globalizzazione, credo che sarebbe interessante trovare una modalità di relazione (ad esempio di informazione permanente) con la
vostra Commissione sul percorso sviluppato dal Forum sociale mondiale.
PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi
che intendano porre quesiti o formulare
osservazioni.
GIANNI FARINA. Ho molto apprezzato
l’esposizione della dottoressa Bolini e
quindi mi limiterò a svolgere una riflessione in riferimento alla sua affermazione
circa la debolezza complessiva dei Paesi
dell’est europeo. Come membro della delegazione parlamentare dell’OSCE ho già
avuto modo di appurare personalmente
tale situazione, avendo avuto molte occa-
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sioni per visitare questi Paesi. Naturalmente, in tali circostanze è emerso in
maniera evidente il problema della debolezza della società civile e delle stesse
istituzioni democratiche.
Credo che i parlamentari più sensibili
possano utilizzare queste occasioni per far
crescere una nuova sensibilità. L’OSCE
svolge una funzione molto importante, che
non si esaurisce solo nell’attività del monitoraggio. Esiste un problema relativo al
monitoraggio delle occasioni democratiche
come lo svolgimento delle elezioni; le prossime saranno in Ucraina, il 28, 29 e 30
settembre e, successivamente, in Russia
nei primi di dicembre. Dato che ci sono le
elezioni, tale monitoraggio si effettua nel
momento in cui il processo democratico
trova applicazione concreta.
Durante l’anno si svolgono una serie di
iniziative che trattano i problemi più diversi. Il prossimo incontro, ad esempio, si
terrà in Slovenia. Il problema è legato
specificamente al rapporto tra l’OSCE, i
Paesi europei e i Paesi del Mediterraneo
sudorientale come Egitto, Israele, Libia e
via dicendo. Quindi, si tratta di una occasione di straordinaria importanza. Queste occasioni possono rappresentare il momento per avvicinare i parlamentari di
quei Paesi a un problema drammatico e
difficile.
Come ho detto, dunque, ho apprezzato
molto l’esposizione della dottoressa Bolini.
Inoltre, per quanto mi riguarda – ma
credo che questo valga per tutti noi –
ritengo che questa attività, nell’ambito
delle organizzazioni internazionali, possa
essere molto utile a sviluppare ulteriormente una nuova sensibilità.
SABINA SINISCALCHI. Ringrazio anch’io la dottoressa Bolini che ci ha illustrato una realtà di cui spesso si è poco
consapevoli, ma che negli ultimi dieci anni
è stata l’unica voce forte di critica a un
processo economico globale che oggi sta
preoccupando le stesse istituzioni finanziarie internazionali e molti governi.
Prima di altre si è levata questa voce che,
vorrei ricordare, è stata definita dal New
York Times, dopo Seattle, come la « se-
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conda potenza mondiale ». Pertanto, è importante per la nostra Commissione ascoltare questa voce nelle sue varie articolazioni, che sono davvero numerose e diverse, come ci ricordava la dottoressa
Bolini.
L’intervento dell’onorevole Farina mi
consente di introdurre la mia domanda. Il
collega ha citato il ruolo dell’OSCE e la
mia domanda riguarda la relazione tra
questa società civile organizzata su scala
planetaria – che appunto rappresenta voci
e settori sociali anche molto diversi fra
loro, ma che riesce a trovare un luogo e un
momento di sintesi dal 2001 ad oggi – e
le istituzioni internazionali. Mi riferisco
sia alle istituzioni che vengono criticate da
questa società civile (la dottoressa Bolini
ha citato in precedenza il Fondo monetario, la Banca mondiale e l’Organizzazione
mondiale del commercio), sia a quelle con
cui, invece, ha un dialogo più facilitato
come ad esempio, alcune agenzie delle
Nazioni Unite che partecipano attivamente
ai forum internazionali. Chiedo, dunque, a
che punto sia questa relazione e se la
stessa venga ritenuta utile e produttiva dal
Forum sociale mondiale, anche ai fini
della democratizzazione da lei evocata.
PRESIDENTE. Do la parola alla dottoressa Bolini per la replica.
RAFFAELLA BOLINI, Rappresentante
del Forum sociale mondiale in Italia. Vi
ringrazio perché avete colto il « tema dei
temi », ovvero quello della relazione con le
sedi istituzionali, per il raggiungimento dei
nostri obiettivi che cominciano ad essere
comuni alla società civile e che stanno
penetrando anche all’interno di istituzioni
e sedi della democrazia internazionale. In
sintesi, potrei dire che esiste un limite
della società civile organizzata e del processo Forum e un limite che, invece,
riguarda il lato istituzionale. Il limite del
processo Forum è che al suo interno
esistono realtà molto diverse. Alcune di
esse non hanno assolutamente paura ed
anzi ricercano il rapporto con le istituzioni, comprese quelle a cui riservano le
maggiori critiche e addirittura quelle che,
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secondo il loro pensiero, non dovrebbero
neanche esistere, perché dovrebbero cedere il proprio mandato alle Nazioni
Unite. Vi sono, però, anche numerose
organizzazioni della società civile che, in
qualche maniera, ritengono di non dover
ricercare il dialogo per paura di essere
integrate in un sistema o di perdere la
propria radicalità.
Per quanto mi riguarda, credo che più
si espande il processo del Forum sociale
mondiale e delle reti di movimento che
rappresenta, più vengono conosciuti i contenuti, più è fondamentale entrare in relazione, dialogare (eventualmente anche
scontrarsi con tutti) ed essere capaci di
costruire, da pari a pari, tavoli (anche di
discussione e controversia), che possano
essere utili all’avanzamento del pensiero.
Come ho detto, si tratta di un problema
nostro.
Dall’altro lato, esiste un problema legato al fatto che molte realtà e istituzioni,
pur riconoscendo le forme tradizionali
della società civile (le ONG tradizionalmente intese e via dicendo), non riconoscono quelle più nuove. Queste ultime non
sono strutturate solo attraverso le organizzazioni formalmente costituite, che
vantano una tradizione di riconoscimento
istituzionale, ma si costruiscono anche su
campagne e nella dinamica dei movimenti
sociali che sono per loro natura labili e
non riconducibili a statuti o a permanenze. Tuttavia, nel momento in cui si
costituiscono, rappresentano un’ampia varietà e rappresentanza di interessi e di
settori della società. Da questo punto di
vista, credo che sia necessario cogliere un
elemento di riflessione che vada dal livello
locale, ai Parlamenti nazionali, per arrivare al Parlamento europeo – organo che
pur dando grande spazio alla società civile,
fa riferimento ad un modello che deve
rientrare dentro certi canoni non idonei a
molti movimenti sociali – fino ai livelli
superiori, ovvero quelli delle Nazioni Unite
che ovviamente rappresentano una sede
fondamentale.
Forse si può pensare, anche attraverso
un lavoro da svolgere insieme, a rendere
più fluida questa modalità e a costruire
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meccanismi di riconoscimento che non
obblighino la società civile e le sue espressioni di movimento a trasformarsi in soggetti stabili, dotati ad esempio di un presidente o di un comitato centrale. Se
avessimo agito in questo modo, l’esperienza del Forum sociale mondiale non
sarebbe neanche cominciata. Il Forum
sociale mondiale non ha neanche un riconoscimento giuridico proprio per non
creare una struttura in cui la volontà di
stare in rete venga in qualche maniera
resa subalterna a logiche di organizzazione. Insomma, è in atto un dibattito
interessante sulle nuove forme di organizzazione dei movimenti. In tale prospettiva,
penso che un contributo importante potrebbe venire anche da una sperimentazione sviluppata in sede italiana.
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PRESIDENTE. Ringrazio la dottoressa
Bolini che ha toccato un problema che
investe non solo l’OSCE, ma anche il
Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare euromediterranea, organizzazioni
che si stanno tutte interrogando sul modo
più fruttuoso per tenere in piedi questo
dialogo.
Dichiaro conclusa l’audizione.
La seduta termina alle 11,30.
IL CONSIGLIERE CAPO DEL SERVIZIO RESOCONTI
ESTENSORE DEL PROCESSO VERBALE
DOTT. COSTANTINO RIZZUTO
Licenziato per la stampa
il 23 ottobre 2007.
STABILIMENTI TIPOGRAFICI CARLO COLOMBO
*15STC0005790*
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