Cap 2 - lo Specchio delle Brame

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Cap 2 - lo Specchio delle Brame
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LIBRO
PRIMO
Inferno…
LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI CH’ENTRATE
(Divina Commedia - Inf., III, 9)
∞ Lo Specchio delle Brame di Esther Candiotto - CAPITOLO 2
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CAPITOLO 2
Sul concetto tempo esistono diverse e lunghe controversie: si muove in linea retta,
dritto come una freccia? Oppure è rotondo, curvo come un serpente che si morde la
coda? Inoltre, scorre sempre allo stesso ritmo? A volte un’ora passa veloce quanto un
battito d’ali ed altre volte dura quanto un secolo. Questo è dovuto alla soggettività
dell’uomo o è davvero il tempo che accelera e frena?
Ma, in verità, cos’è il Tempo? Quanto ne esiste? Finirà prima o poi, oppure è
eterno? Esisteva già prima degli esseri senzienti? Il Tempo, senza l’uomo, ha uno
scopo? Può essere definito come una quarta dimensione? Vi si può viaggiare
attraverso?
Io ho tutte le risposte a queste domande. Io so tutto sul Tempo. Ho avuto tutto il
tempo del mondo. Sono parte di lui. Lo sento scorrere attorno a me come acqua… Ma
non dirò se è un vortice o un fiume. Ricorderò solo una cosa: tutto, prima o poi, finisce.
Dopo la nascita, solo la morte.
Ma io… Io avrò fine? Come posso morire se non sono mai nato?
Non pensavo a nulla mentre la musica saliva. Mi muovevo piano in quella calca di
corpi. Sempre più veloce. Il cuore sembrava battere a ritmo con la cassa. Bum bum –
bum bum – bum bum. Piano il ritmo avanzava e la mia voglia di saltare cresceva… E
poi la musica esplose ed alzai le braccia al cielo, le abbassai, le strinsi davanti al seno,
ne alzai una mentre l’altra creava forme invisibili nell’aria.
La musica era alta. Non esisteva altro al di fuori del suono e del mio corpo. Non ero
io che muovevo le mie membra, ma una mano incorporea. Non ero padrona dei miei
piedi, dei miei fianchi, del mio petto e della mia testa.
In quel momento mi sembrava di non esistere. Il tempo si annullava ed io non mi
trovavo davvero lì. Ero altrove. Non mi ero fatta, non ero sotto l’effetto di droghe… Era
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semplicemente la musica che mi faceva sentire in quel modo. Il buio, attraversato da
lampi di luce, mi portava lontano. Non avvertivo la gravità che mi schiacciava a terra,
non sentivo i problemi che affollano la mia testa. Percepivo solo il ritmo pulsarmi nelle
orecchie e nel sangue. Mi muovevo senza sapere in che modo, ma sapendo che era
giusto.
Sentii qualcosa dietro di me. Un ragazzo mi si era accostato e mi si strusciava
addosso tenendomi le mani sui fianchi. Mi girai ballando. Lo vidi alla luce dei neon.
Non era male. Gli cinsi il collo con le braccia e lo attirai a me. Mi baciò mentre i nostri
corpi continuavano a ballare in pista. Ma noi non eravamo lì. Ci trovavamo in un’altra
dimensione dove nessuno poteva toccarci. Per qualche minuto fu così. Poi la folla e il
ballo ci separarono e non lo vidi più.
In discoteca era così. In discoteca ero così: passavo da un ragazzo all’altro, da un
bacio all’altro. Qualcuno di più focoso riusciva a portarmi in un angolo, a volte.
Non erano cose che decidevo di fare. La musica mi portava e io mi lasciavo
trasportare. Senza un senso. Seguivo solamente il desiderio del momento.
Un altro ragazzo mi giunse alle spalle e premette il bacino contro di me. Sentii il suo
sesso premere alla base della schiena. Mi posò la bocca all’orecchio e chiese:
«Andiamo in un posto più tranquillo?».
Mi girai a guardarlo:
«Quanti anni hai?», chiesi.
«Trenta, tu?».
Lo soppesai. Era davvero un bell’uomo anche se probabilmente aveva più degli anni
dichiarati.
«Quanti bastano», risposi.
Lui sorrise, mi prese per mano e mi portò fuori dal locale. Uscendo incrociai Arianna
e le urlai dietro senza fermarmi:
«Alle tre fuori dalla disco!».
La vidi annuire e sparire tra la folla. L’uomo che mi aveva adescata, mi portò nel
parcheggio del locale. Aveva una grossa macchina, un SUV di non so che marca. Aprì la
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portiera posteriore e mi fece salire per poi seguirmi. Da dentro, chiuse la macchina.
Notai che i finestrini erano oscurati.
Subito l’uomo mi mise le mani sotto il tubino, tra le cosce. Mi tolse brutalmente
l’intimo appena comprato e prese a toccarmi senza ritegno. Quella crudità mi eccitò
tantissimo. Iniziai ad armeggiare con la sua cintura dicendogli:
«Ho solo mezz’ora, poi devo andare».
Lui non perse tempo. Mentre con una mano continuava a toccarmi, con l’altra mi
aiutò a liberarlo dai pantaloni. Dopo avergli messo il preservativo, che lui mi aveva
passato, mi alzai il tubino fino in vita e gli salii sopra a cavalcioni. Quando entrò in me
non potei non urlare.
Fu una cosa piacevole anche se rapida. Scesi dalla sua macchina con le mutandine in
mano. Mi fermai tra le macchine parcheggiate ad indossarle. Tornando verso la
discoteca tentai di sistemarmi il vestito alla meglio. Ari e Sam erano già fuori dal locale
che mi aspettavano. Arianna prese rapida la macchinetta dalla borsa e mi scattò una
foto:
«Questa va su internet!».
La fissai in cagnesco:
«Provaci e torni a casa a piedi!», poi mi addolcii. «Andiamo, ragazze?».
Sam annuì tentando di sistemarmi i capelli ma ormai lo chignon doveva essere
irrecuperabile. Ci avviammo alla macchina e salimmo sulla Bravo in silenzio. Misi
l’ultimo cd di Tiziano Ferro e ci dirigemmo tranquillamente verso casa.
Il giorno dopo la disco, Samanta sarebbe venuta a studiare da me. Bussò alla porta e
fu Calliope ad aprirle. Io mi trovavo al piano di sopra, stavo finendo di rifare il letto.
Mia madre entrò in camera:
«È arrivata la tua amica con i capelli rossi».
La guardai stizzita:
«Mamma, sono anni che la frequento… Non potresti imparare il suo nome?!».
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Lei fece un cenno noncurante con la mano ed uscì dalla stanza. Sprimacciai i cuscini
del letto ed uscii in corridoio. Sentii Sam che rideva con Calliope, ma non capii cosa si
stessero dicendo di così divertente. Urlai giù dalla rampa di scale:
«Sam, sali!».
«Arrivo!», gridò lei di rimando.
Rientrai in camera ed iniziai a prendere i libri di scuola dalla libreria. Sam arrivò
scortata da mia sorella. Notai che Calliope pendeva dalle sue labbra, ma non ritenni il
fatto importante: tutti pendevano sempre delle labbra di Samanta.
La mia amica indossava un paio di jeans che le calzavano a pennello e una maglietta
scollata bianca. Era meravigliosamente provocante anche se era vestita in modo
comune. La verità era che lei sapeva di essere bella, si sentiva bella, perciò si atteggiava
come se lo fosse: grazie alla sua bellezza tutto le era dovuto, tutti cedevano al suo
fascino… E lei lo sapeva.
Sam si girò sorridendo a mia sorella:
«Grazie, Calliope. Darò a Clio quella cosa che ti ho promesso…».
Calli sorrise andandosene. Dopo che Samanta ebbe chiuso la porta, le chiesi:
«Cos’è che devi dare a mia sorella?».
La mia amica smise la maschera di sorrisi e affabilità, guardandomi schiettamente
disse:
«Una maglia che non uso».
Trattenni una risata:
«Calli vuole una tua maglietta?».
Sam fece spallucce e si sedette sul tappeto che copriva la maggior parte del
pavimento della camera. Aprì la borsa che si era portata e, tirando fuori il diario, disse:
«Per domani c’è…».
«Italiano», l’interruppi.
Letteratura italiana. Presi il libro, mi stesi sul tappeto a pancia in giù e presi a
sfogliare il grosso volume. La carta era nuova, di quella da poco prezzo che usano le
case editrici per i testi scolatici. Ma, in quelle pagine economiche, erano nascosti tesori
incommensurabili: Verga, Leopardi, Manzoni, Carducci,… Insomma, tutti i grandi
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scrittori dell’ ’800 e del ’900. La letteratura era la mia grande passione. Non andavo
certo bene a scuola! Anzi, nella maggior parte delle materie rasentavo la sufficienza, ma
in letteratura eccellevo. Ero la migliore della classe.
Adoravo leggere. Molta gente, vedendomi, avrebbe visto quello che volevo mostrare:
una bella ragazza, piccola e bionda. Dicono che le bionde siano sciocche… Che la gente
creda ciò che vuole. Io ero bionda, bella, alla moda ed amavo la letteratura. L’avevo
sempre studiata con passione e naturalezza.
Sam si accigliò:
«Ma vuoi studiare davvero?! Dai Clio, chiudi quel libro! Tanto italiano ti basta
leggerlo sta notte prima di dormire e domani ti ricorderai tutto… Come sempre».
Percepii una note di fastidio nella sua voce. Chiusi il volume di letteratura:
«Non ti farebbe male leggere un po’, tesoro! Dicesi “cultura”…».
«Dicesi “che due palle”!», Sam si stiracchiò sul tappeto. «Piuttosto, raccontami di
ieri sera! Arianna mi ha detto che ti sei imboscata con un tipo che poteva essere suo
padre!».
Alzai le spalle:
«Che esagerata! Al massimo poteva essere suo zio! Mah, avrà avuto trentatrentacinque anni».
Sam si appoggiò sui gomiti:
«E com’è andata?».
«Mi ha portato nel parcheggio. Aveva una macchina grande, un SUV nero, stile “ho
la macchina grossa perché ho l’uccello piccolo”…».
«E ce l’aveva piccolo?!».
Sorrisi:
«No, anzi, era ben messo! Più che altro aveva una voglia assurda di scopare: a
momenti mi strappava le mutandine nuove!».
Sam si morse un labbro:
«A me la cosa avrebbe solo fatto eccitare di più!».
«Infatti è ciò che mi è successo, ma se mi rompeva le mutandine nuove lo
castravo…».
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La mia amica rise:
«Io invece mi sono fatta due tipi e una tipa, roba tranquilla».
«Baciavano bene?».
«I ragazzi normale. La tipa mi è piaciuta un sacco: era tutta timida, comincia con
quelle storie “sono etero”… Le faccio “anche io, è per divertirmi”. Dopo il bacio, se
avessi voluto, si sarebbe fatta fare di tutto, secondo me».
«Perché non hai insistito?».
Mi fece l’occhiolino:
«Perché mi preservo per te!». Sbuffai infastidita, fatto che la mia amica notò. «Eddai,
Clio… Perché non ti lasci mai andare? Siamo amiche… Ci divertiamo solo un po’».
Sam mi guardava con gli occhioni da Bambi. La sera prima mi ero scopata uno che
aveva forse il doppio della mia età. Perché non starci con la mia migliore amica?
Mi alzai in piedi, andai alla porta della camera e la chiusi a chiave, senza una parola.
Samanta si alzò in piedi e sedette sul letto. Fissando lo sguardo nel suo, mi avvicinai a
lei. Mi chinai e posai le labbra sul suo collo. La sentii sussultare, credo non si aspettasse
quel mio comportamento. Seguii con la lingua la curva della sua mascella, il suo
mento… Arrivai alla sua bocca e le morsi un labbro. Lei mi prese i fianchi e mi attirò a
sé mentre la baciavo. Mi sedetti sul letto a fianco a lei, senza separarmi dal bacio. Ci
allungammo sulle coperte mentre le nostre labbra premevano le une sulle altre. La sua
lingua era prepotente e cercava la mia come se, entrando in me, avesse potuto rubarmi
l’anima.
Lentamente Sam si spostò sopra di me. Teneva un ginocchio tra te mie gambe e
faceva pressione dov’ero più sensibile. Desideravo che mi sbottonasse i pantaloni e che
mi toccasse. Ma lei mi baciò solamente. Lo fece a lungo, per tutto il pomeriggio.
Dopo molto tempo, sentii mia madre bussare alla porta:
«Ragazze, è pronta la cena».
Sam urlò contro la mia bocca:
«Ora scendiamo».
Fece per staccarsi da me, ma non ero ancora sazia di lei. Mi rotolai sul letto finendole
sopra, la baciai con passione mentre con una mano mi facevo spazio sotto la sua maglia.
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Le alzai il reggiseno e presi a giocare col suo seno. Subito Sam si accese e tentò di
slacciarmi i pantaloni.
Allora fui io a ritirami. Scesi frettolosa dal letto:
«No, scusa. Questo è troppo».
Samanta si sistemò stizzita reggiseno e maglietta:
«Fanculo, Clio».
Raccolse in fretta la sua roba, girò la chiave aprendo la porta della camera. La udii
scendere le scale incazzata nera. Dabbasso, salutò brevemente la mia famiglia
accampando una scusa per cui doveva andarsene via subito. Quando sentii il portone di
casa richiudersi alla sue spalle, presi a riordinare la camera.
Dopo trenta secondi, Calliope era appoggiata allo stipite della mia porta:
«Allora, hai litigato con Samanta?».
«Non sono affari tuoi».
«Certo che lo sono: se Sam non ti vede più non può darmi ciò che mi ha promesso!».
Guardai mia sorella:
«Se vuoi qualcosa, chiedi a papà di comprartela».
Lei incrociò le braccia sul petto:
«Non sono viziata come te! Io vorrei solo entrare nelle grazie di Sam».
Alzai un sopracciglio e risposi cinica:
«Samanta non frequenta le bambine capricciose, scordatelo».
Calliope pestò un piede per terra:
«Beh, a quanto pare non la vedrai più neppure tu, almeno per un po’!».
Detto ciò, se ne andò. Per la rabbia quasi strappai un cuscino. Detestavo mia sorella
quando faceva così.
Giunse subito la voce di mia madre:
«Clio, Calliope, a cena!».
Mi imposi calma ed uscii dalla camera. Scesi le scale, attraversai il corridoio ed
entrai in cucina. Mia sorella si stava sedendo mentre mia madre metteva in tavola tre
piatti di pasta. Sedetti anche io e presi a torturare il cibo con una forchetta. Mamma
prese a discutere allegramente:
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«Oggi ho fatto un test a sorpresa ai miei alunni. Ho un sacco di compiti da
correggere per la prossima settimana. Calli, mi passi il sale? Quando ho fatto la spesa,
oggi pomeriggio, ho comprato le carote come mi avevi chiesto, Clio. Prima ha chiamato
vostro padre…».
Subito la guardai entusiasta:
«Papà? Quando torna?».
Lei sospirò:
«Giovedì viene a casa, ma riparte venerdì sera. Vi ho detto che domenica prossima
siamo a pranzo dalla nonna?», e riprese a parlare come una macchinetta.
Non badavo più alla cena, a mia madre o a Calliope. La mia concentrazione era tutta
per papà. Nell’ultimo anno lo avevo visto raramente: aveva preso un impiego come
primario di neurologia a Milano e tornava a casa assai di rado. Era sempre stato molto
occupato e non avevo mai passato tanto tempo con lui. Essendo uno dei medici più
acclamati sul piano nazionale ed internazionale era spesso all’estero, ma recentemente
era quasi inavvicinabile. Più del solito, insomma.
Eppure gli volevo un gran bene. Non vedevo l’ora di rivederlo.
Il cellulare iniziò a vibrarmi in tasca riscuotendomi da quei pensieri. Lo presi e lessi
il messaggio. Era di Arianna:
SAMANTA MI HA SCRITTO CHE LE HAI FATTO GIRARE LE PALLE… COSA
È SUCESSO? VUOI CHE LE PARLI?
Sospirai: Ari era diventata amica mia e di Sam da poco tempo, non conosceva tutta la
storia e non stetti lì a spiegargliela. In fondo, se la mia rossa inviperita avesse voluto
farglielo sapere, gliel’avrebbe detto lei stessa. Risposi laconica:
TRANQUILLA, UNA DELLE NOSTRE SOLITE SCARAMUCCE. VEDRAI CHE
DOMANI LE SARÀ GIÀ PASSATO TUTTO… HAI STUDIATO ITALIANO?
Mangiai di malavoglia un po’ di pasta. Mia madre e Calliope stavano adorabilmente
discutendo dello spettacolo teatrale a cui avevano assistito qualche sera prima. Guardai
l’orologio appeso alla parete della cucina. Erano le sette e mezza di sera.
«Calli, hai tutto pronto?», chiesi spazientita interrompendo la discussione di mia
sorella.
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Lei alzò il mento all’orologio, si riempì velocemente un bicchiere d’acqua, lo
tracannò e si alzò di scatto:
«Scusa mamma, ne parleremo dopo: devo finire il borsone», disse sparendo oltre la
porta della cucina.
Mi vibrò nuovamente il cellulare, era Arianna:
FIGURATI! IL PROF HA GIUSTO FINITO DI SPIEGARE! NON PENSO
PROPRIO CHE INTERROGHERÀ DOMANI… PERCIÒ NON HO NEMMENO
APERTO LIBRO!
Scossi il capo rispondendole:
SE FOSSI IN TE DAREI UNA LETTA… VABBÈ… CI SENTIAMO DOPO CHE
ORA DEVO CORRERE IN TEATRO: IO E CALLIOPE ABBIAMO UNO
SPETTACOLO STA SERA. BACIO
Mia madre stava raccogliendo i piatti. Mi chiese:
«A che ora devo venire lì? Tu hai tutto pronto?».
Mi alzai stiracchiandomi:
«Sì. Ho già la borsa in macchina. Non occorre che tu venga».
Uscii senza dir altro. Mi affacciai alle scale urlando:
«Calliope, siamo in ritardo!».
Lei mi urlò in risposta:
«Non riesco a fissare lo chignon!».
Spazientita, corsi su dalle scale, superai la mia camera ed entrai in quella di mia
sorella. Calli stava facendo un disastro. Le tolsi di mano spazzola e forcine.
Acconciandole i lunghi capelli biondi, così simili ai miei, ripensai a quando anch’io
facevo danza classica. Mia sorella doveva avere cinque anni, io uno di più, quando
nostra madre decise di farci prendere lezioni di ballo. In tutti gli album fotografici della
nostra infanzia, io e Calliope eravamo rappresentate come due bamboline: con gli
occhioni azzurri, le boccucce a bocciolo di rosa e i lunghi capelli biondi. Nostra madre
c’agghindava realmente come bambole di porcellana.
Era stato sempre così: mamma ci aveva sempre trattate come due tesori da mettere su
un piedistallo. Quando ero piccola adoravo mia madre: le sue attenzioni, il suo amore
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per la bellezza, la sua ricerca di tutto ciò che era antico e prezioso, erano aspetti del suo
carattere che mi affascinavano.
Feci danza classica con mia sorella fino all’età di dieci anni. Poi tutto cambiò. O,
perlomeno, io cambiai. Così, lasciai la danza classica per un genere più moderno: l’hip
hop. Quasi non uccisi mia madre per la delusione. Fortunatamente, la graziosissima
Calliope aveva continuato nella danza classica.
«Ho finito, vedi se ti va bene», dissi.
Calli studiò allo specchio i suoi lineamenti resi ancor più slanciati dalla rigida
acconciatura:
«Va bene. Andiamo».
Prese il suo borsone rosa ed uscì dalla camera. La seguii svogliata. Uscimmo di casa
in un silenzio religioso.
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