Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
scheda tecnica
durata:
111 MINUTI
nazionalità:
GRAN BRETAGNA, AUSTRALIA
anno:
2010
regia:
TOM HOOPER
sceneggiatura:
DAVID SEIDLER
fotografia:
DANNY COHEN
scenografia:
EVE STEWARD, JUDY FARR
musica:
ALEXANDRE DESPLAT
montaggio:
TARIQ ANWAR
produzione:
IAIN CANNING, EMILE SHERMANGARETH UNWIN
distribuzione:
EAGLE PICTURES
attori:
COLIN FIRTH (RE GIORGIO VI), GEOFFREY RUSH (LIONEL LOGUE),
ELENA BONHAM CARTER (REGINA ELISABETTA), GUY PEARCE
(DAVID),
JENNIFER
EHLE
(MYRTLE
LOGUE),
DEREK
JACOBI
(ARCIVESCOVO COSMO LANG), MICHAEL GAMBON (GIORGIO V),
TIMOTHY
SPALL
(WINSTON
CHURCHILL),
ANTHONY
ANDREWS
(STANLEY BALDWIN), CLAIRE BLOOM (REGINA MARIA), EVE BEST
(WALLIS SIMPSON), FREYA WILSON (PRINCIPESSA ELISABETTA),
RAMONA
MARQUEZ
(PRINCIPESSA
MARGARETH),
DOMINIC
APPLEWHITE (VALENTINE LOGUE)
la parola ai protagonisti
Valentina D’Amico intervista il cast
Helena, la tua visione della monarchia inglese è cambiata nel corso della lavorazione del film?
Helena Bonham Carter: Ho sempre rispettato la famiglia reale non tanto nel suo complesso quanto come
singoli individui, ma dopo aver recitato ne Il discorso del re la mia opinione è cambiata perché per
intepretare la regina madre ho dovuto conoscere a fondo il personaggio e con la conoscenza è aumentato
anche il rispetto.
Colin Firth: Non è tanto il cambiare opinione. Durante la lavorazione ho pensato alla monarchia più di quanto
abbia mai fatto nella mia vita. Prima conoscevo la storia pubblica, quella nota a tutti gli inglesi, sapevo che
Giorgio VI era balbuziente e che era succeduto al fratello per via dello scandalo di Wallis Simpson. Non
avevo idea che avrei interpretato un personaggio per il quale alla fine avrei nutrito un così grande rispetto.
Puoi spiegare quale è stato il processo necessario per interpretare il ruolo di Giorgio VI e imparare a
balbettare? E' stato difficile tornare alla normalità?
Colin Firth: Non saprei rispondere. Tom, che cosa ho fatto?
Tom Hooper: Abbiamo fatto un sacco di prove e ricordo di aver visto Colin entrare lentamente nella parte
prova dopo prova. All'inizio eravamo molto preoccupati per la questione del balbettio e abbiamo visionato
molto materiale d'epoca per analizzare il modo di parlare. Sul set abbiamo avuto un meraviglioso voice
coach, ma il processo che porta a balbettare è talmente personale che Colin ha dovuto interiorizzare il modo
di parlare di Giorgio VI.
Colin Firth: Alla fine del training io stesso balbettavo e questa cosa mi ha portato a comprendere la
vulnerabilità del mio personaggio. Mia sorella è logopedista, ma non lavora con le persone che balbettano.
La costruzione del personaggio è nata dentro di me. Dopo la fine delle riprese il mio modo di parlare è
diventato più lento di prima, ma non penso che si tratti di un vero e proprio balbettio.
Helena, nella tua carriera hai interpretato molto spesso delle regine. Quale di queste è la più vicina al tuo
vero essere? Cosa si prova a interpretare una regina?
Helena Bonham Carter: Devo dire che piace interpretare le regine, ma non credo che esista un personaggio
che sia particolarmente vicino a me. Ognuno di noi contiene vari aspetti dei personaggi che interpreta in
maniera un po' schizofrenica. Le mie regine sono tutte diverse, ma forse la mia preferita è regina di Alice
perché somiglia a mia figlia Nell, ma non per la grande testa.
Colin, il tuo re affronta le sue paure e trova dentro di sé il coraggio di combattere contro il suo difetto. Quale
è il tuo rapporto con le paure?
Colin Firth: O mio Dio. Per rispondere citerò Omar Sharif in Lawrence D'Arabia quando esclama: "My fear is
my concern (la mia paura è affar mio)".
Oggi Geoffrey Rush non è presente, ma sarebbe interessante sapere come avete creato quella forte
relazione che è il fulcro del film.
Colin Firth: Quando ti trovi a recitare in una pellicola come la nostra diventi dipendente dai tuoi colleghi. E'
una cosa che capita nella recitazione, ma anche nella regia e nella scrittura. Devi usare l'energia e
l'imprevedibilità dell'altro per creare un rapporto dinamico ed è ciò che ho fatto io con Geoffrey Rush.
Abbiamo tratto forza l'uno dalla performance dell'altro, soprattutto nelle scene come chiave come quella in
cui leggo Shakespeare con le cuffie. La forza di quella scena dipende dal lavoro di montaggio, di regia, di
recitazione. Tutti questi elementi sono interdipendenti.
Quale credi che sia la scena più importante del film?
Colin Firth: E' difficile rispondere a questa domanda. Ciò che il personaggio di Geoffrey Rush fa non è
combattere le paure del re, ma fornirgli gli strumenti adeguati per affrontare le proprie paure che risalgono
all'infanzia. In un momento importante del film si cita la governante crudele che maltratta il piccolo Bertie, ma
non abbiamo abusato di questo tono perché buttando tutto sull'autocommiserazione avremmo ucciso la
storia perciò le scene chiave, per me, sono quelle in cui Geoffrey aiuta Bertie a trovare fiducia in se stesso.
Tom Hooper: Colin è un attore straordinario ed è riuscito a fornire una perfomance amata da persone di tutte
le età senza indulgere nella pietà e nell'autocommiserazione del suo personaggio.
Come è nata la decisione dei realizzare una pellicola sulla balbuzie di Giorgio VI?
Tom Hooper: Le persone non conoscevano la storia del terapista di Giorgio VI, perciò quando abbiamo
trovato i diari di Lionel Logue nove mesi prima delle riprese ci siamo resi conto di aver trovato una storia
completamente nuova. Le dinamiche tra il re e il suo terapista australiano sono l'anima del film e permettono
al pubblico di essere testimone di un pezzetto di storia ignota fino a oggi. Nella realtà Colin non somiglia
molto al re, soprattutto dal punto di vista fisico, e questo mi fa molto piacere, ma sia lui che Helena hanno
incarnato i reali per le nuove generazioni.
Tom Hooper
Alla Gran Bretagna, il regista Tom Hopper piace così tanto che ha la benedizione della regina Elisabetta II in
persona, soprattutto dopo averlo visto trattare con grande maestria del mezzo di ripresa la storia della sua
ava, la prima regina Elisabetta d'Inghilterra. Uno dei migliori registi britannici televisivi sulla piazza, che è
capace di rendere invisibile e dimenticata la sua presenza allo spettatore, sebbene i suoi movimenti di
camera siano ricchi di sadico piacere nel seguire i personaggi dei quali deve narrare le gesta. Serio e
pessimista, ha incantato tutti con una bellissima Helen Mirren che né buona né cattiva, indugia su uno dei
personaggi più seri, meno sexy e crudelmente vittima di loro stessi della Storia: la regina Elisabetta I. Anche
se il vero canto del cigno nel genere fiction, lo lancia con Longford, vita meno eccessiva di un Lord inglese
che dal fango delle campagne, prende il sopravvento per fare a botte con la politica. Stilisticamente, si affida
molto al montaggio, anche se ogni tanto la sua regia presenta guizzi d'avanguardia. Nato nel 1972 a Londra,
figlio del direttore della United News & Media, studia alla Highgate Prep School e poi alla Westminster
School di Londra, laureandosi in inglese alla Oxford University. È nel periodo in cui era uno studente
universitario che il padre gli trova un lavoro dal regista presso la CBBC, facendolo conoscere al produttore
Matthew Robinson che influenzerà tutta la sua carriera, nonché il suo intero percorso artistico. Dopo aver
diretto il cortometraggio Painted Faces (1992) trasmesso per il piccolo schermo, si troverà così a firmare
telefilm come: Byker Grove (1997); EastEnders – The Mitchells – Naked Truths (1998-2000); Cold
Feet (1999); Love in a Cold Climate (2001) e i film tv Daniel Deronda (2002) con Hugh Dancy, Romola
Garai, Hugh Bonneville, Greta Scacchi e Barbara Hershey e Prime Suspect 6 – The Last Witness (2003)
con Helen Mirren, che gli farà ottenere una prima fortunata candidatura agli Emmy. Il debutto
cinematografico arriva con il film Red Dust (2004), dove dirige Hilary Swank, anche se il maggior successo
lo incontra grazie alla miniserie Elizabeth I (2005) che gli frutterà un Emmy come miglior regista. Di notevole
fattura é anche il film tv Longford (2006) con Jim Broadbent che racconta la vita di Lord Longford, un nobile
di campagna impegnato nella politica, e come non citare la miniserie candidata agli Emmy John
Adams (2008). Ritorna poi dietro la cinepresa per dirigere Il maledetto United (2009), film che racconta
l'incredibile storia di Brian Clough, storico allenatore del Nottingham Forest, e Il discorso del Re (2011)
con Colin Firth, Helena Bonham Carter e Geoffrey Rush, film sulla balbuzie nervosa di re Giorgio VI che vale
a Hooper il suo primo Oscar come miglior regista.
Filmografia
(1992) Painted Faces (corto)
(2003) Prime Suspect 6 – The Last Witness (film tv)
(1997) Byker Grove (serie tv)
(2004) Red Dust
(1998) Naked Truths (serie tv)
(2005) Elisabeth I
(1999-2000) EastEnders (serie tv)
(2006) Longford (film tv)
(1999) Cold Feet (serie tv)
(2008) John Adams (miniserie tv)
(2001) Love in a Cold Climate (serie tv)
(2009) Il maledetto United
(2002) Daniel Deronda (film tv)
(2010) Il discorso del re
Recensioni
Natalia Aspesi - La Repubblica
Ci sono stati tempi e luoghi in cui un primo ministro si dimetteva per non aver capito in tempo la gravità di
una situazione politica, in cui il rispetto della carica era più importante della persona che la rappresentava, in
cui rivolgendosi alla nazione il suo massimo rappresentante non si scagliava contro neppure il più pericoloso
dei nemici ma invitava un intero popolo all' unità e al sacrificio per difendere i valori del proprio paese:
responsabilità, coraggio, abnegazione, decoro, erano ancora virtù indispensabili per governare. È per questo
che un film fatto benissimo come Il discorso del re oggi ci commuove (e non solo per la storia, che da parte
della Storia, comunque degna di lacrimoni) per come il duca di York, afflitto da una terribile balbuzie proprio
negli anni in cui l’avvento della radio spinse anche i reali a sottomettersi alla comunicazione di massa,
costretto contro la sua volontà a salire sul trono d’Inghilterra col nome di Giorgio VI, riuscì almeno in parte a
vincere la sua minorazione e a diventare un monarca rispettato e amato,
siamo oggi tutti contenti del prossimo matrimonio del principe William con la sua bella ragazza Kate, dopo
qualche decennio di scandalosi eventi nella famiglia Windsor, a cominciare dagli amori negli anni 50 della
principessa Margaret. Allora era impossibile che un re sposasse una pluridivorziata, per di più di pessima
fama. Ma per poterlo dare, a pochi mesi dall’incoronazione, Edoardo VIII (Guy Pearce) preferì al trono la sua
amatissima e brutta Wally Simpson costringendo il fratello balbuziente a farsi re: di una nazione impoverita,
con l’Europa in preda ai fascismi e alla vigilia della Seconda guerra mondiale. C’è una scena chiave nel film,
quando Giorgio VI con la moglie Elisabeth e le due bambine guardano il filmato della solenne incoronazione
del 1936, cui segue uno spezzone dove Hitler sbraita uno dei suoi minacciosi discorsi: Margaret chiede al
padre cosa dica quel forsennato e lui risponde, «Non lo so, ma lo dice bene».
Un meraviglioso Colin Firth (ha già vinto il Golden Globe ed è superfavorito agli Oscar) è il re riluttante,
malinconico, impaurito, eppure pieno di dignità se non di alterigia e capace di scoppi d’ira impotente. La sua
balbuzie è curata dai medici di corte con biglie in bocca e con le sigarette (morirà nel 1952, a 57 anni, di
cancro ai polmoni). Dopo un disastroso e incompiuto discorso allo Stadio di Webley nel 1926, l’intelligente,
innamorata moglie Elizabeth (Helena Bonham Carter, bella e brava), diventata poi la centenaria e molto
influente Regina dai cappellini colorati, lo porta in una sordida strada di Londra nello studio di un attore fallito
australiano inventatosi logopedista: è l’ultimo tentativo, come se andassero a Lourdes.
Inizia un formidabile duetto-duello tra il rigido membro della famiglia reale, che non ha mai parlato con un
commoner e non ne sopporta la vicinanza, e il cordiale e irrispettoso ometto (il geniale Geoffrey Rush) che
pretende di curarlo nel suo studio e non a palazzo, che lo chiama Bertie come un intimo di famiglia, che lo
obbliga a dire parolacce, cantare e stendersi per terra e finalmente a raccontarsi, in una specie di precipizio
psicanalitico, in cui il futuro re si libera di ciò che non ha mai detto a nessuno: un padre, re Giorgio V,
distante, che lo costringe da mancino a diventare destrorso, le gelide visite quotidiane ai genitori, una nanny
perversa, il fratellino preferito epilettico occultato per la vergogna e morto bambino.
Si alternano intanto i primi ministri conservatori, da Baldwin a Chamberlain, intriga l’arcivescovo di
Canterbury (il viscido Derek Jacobi) e pare dalla parte di Giorgio VI il futuro primo ministro di guerra Churchill
(il che non è vero, a lui piaceva di più Edoardo VIII). Quando il 3 settembre del 1939, dopo che l’inghilterra
ha dichiarato guerra alla Germania, il re si rivolge ai sudditi inglesi e dell’Impero per esaltarli al patriottismo,
davanti a un minaccioso microfono ma anche a Logue che lo guida come fosse un direttore d’orchestra,
finalmente ce la fa con immensa dignità e prestigio.
Il regista inglese ma di madre australiana Tom Hooper, 38 anni, ha fatto un film nobile, di quelli che
raramente si girano più: visivamente magnifico, con l’aiuto di grandi attori, e con una splendida
sceneggiatura, scritta da David Seidler, diventato balbuziente da bambino durante la guerra. Anni fa era
riuscito a consultare i diari di Logue, e aveva chiesto alla Regina Madre il permesso di fare un film su quella
storia straordinaria. «Per favore, non finché sono in vita, per me sarebbe troppo penoso». La Regina Madre
si è spenta nel 2002.
Roberto Nepoti - La Repubblica
Ci sono stati tempi e luoghi in cui un primo ministro si dimetteva per non aver capito in tempo la gravità di
una situazione politica. È per questo che un film fatto benissimo come Il discorso del re oggi ci commuove
per come il duca di York, afflitto da una terribile balbuzie proprio negli anni in cui l' avvento della radio spinse
anche i Reali a sottomettersi alla comunicazione di massa, costretto contro la sua volontà a salire sul trono
d' Inghilterra col nome di Giorgio VI, riuscì almeno in parte a vincere la sua minorazione e a diventare un
monarca rispettato e amato. Il regista inglese Tom Hooper, 38 anni, ha fatto un film nobile: visivamente
magnifico, con l’aiuto di grandi attori (Colin Firth, Helena Bonham Carter, Geoffrey Rush) e con una
splendida sceneggiatura, scritta da David Seidler.
Roberto Escobar - L'Espresso
Non capisco quel che dice, ma lo dice bene: casi risponde Bertie (Colin Firth), alias Her Majesty Giorgio VI,
alla piccola Elizabeth (Freya Wilson). La famiglia reale sta vedendo un cinegiornale in cui Adolf Hitler arringa
la folla, naturalmente in tedesco. Bertie è balbuziente. Il suo primo discorso pubblico, nel '25, è stato un
disastro. Ancora adesso, nel '39, come s’avvicina a un microfono, il re è colto dal panico. Ben diverso è
l’eloquio di Hitler. Ma che cosa dice, il Führer, con tutta la sua foga? Questo domanda la figlia tredicenne. E
nella risposta di Bertie c’è il senso di “Il discorso del re” (“The King’s Speech”).
Il film di Tom Hooper e dello sceneggiatore David Seidler non è solo la storia ottimamente scritta e recitata di
un uomo costretto a vincere la propria inadeguatezza retorica. E neppure è solo la storia della sua amicizia
non convenzionale con Lionel Logue (Geoffrey Rush), il logopedista australiano che riuscirà ad aiutarlo.
Certo, è anche questo. Lo è nella narrazione più immediata, e più spettacolare. Ma ce n’è poi un’altra che
corre parallela, di narrazione, più velata ma non meno decisiva. Bertie è un uomo, ma è anche un re,
ovviamente. E che cos’è un re, nella prospettiva di Hooper e Seidler? Nel film lo spiega lo stesso Bertie,
parlando con il padre Giorgio V (Michael Gambon). «Noi non siamo una famiglia», gli dice, «siamo una
ditta». E intende che i Windsor sono in affari da tempo nel ramo della monarchia, e che vogliono restarci.
Allo scopo, serve una complessa messinscena. E certo la parlantina ne è condizione necessaria. A che cosa
“lavora” Bertie, con l’aiuto di Lionel e del potente apparato elettronico della Bbc, se non alla possibilità di
proseguire nella messinscena regale, e nella professione familiare? In questo senso, “Il discorso del re”
rimanda all’ironico e insieme affettuoso “The Queen” (Stephen Frears, 2006), ma anche al sarcastico “La
pazzia di re Giorgio” (Nicholas Hytner, 1995).
Il popolo ha bisogno di credere, di affidarsi a una guida, dice Bertie al logopedista, non conta che
l’affidamento e la credenza siano fondati sulla realtà dei fatti. Conta che il popolo ne sua convinto. Ecco
perché, più che a quel che dice, il capo (re o Führer o presidente del Consiglio) deve fare attenzione a dirlo
bene. Su questa illusione collettiva e sul controllo sociale della parola e della messinscena, si regge un
ordine politico, il più civile come il più brutale, o il più grottesco. Così accadeva nel ’39. Così accade oggi.
Maurizio Cabona - Il Giornale
Il duca di Kent (Colin Firth) balbettava e non era erede al trono. Ma per l'abdicazione obbligata del fratello
Edoardo VIII (Guy Pearce) si trovò sul trono come Giorgio VI e fu strumento della corrente filoamericana
della classe dirigente britannica, che così vinse militarmente la guerra, perdendo politicamente l'Impero.
Minorazione e ruolo «democratico» rendono Giorgio VI politicamente corretto. Così si spiega il film di
Hooper. Il ruolo del logopedista australiano (Geoffrey Rush) spiega perché l’ex colonia di galeotti e prostitute
finanzi ancora la memoria dei regnanti che ne deportarono gli avi.
Fabio Ferzetti - Il Messaggero
Il microfono è enorme, la folla immensa, l'ansia insostenibile. Così la voce si increspa, si strozza, inciampa
sulle consonanti, erompe rotolando a singhiozzo sulle sillabe fino a quando, Dio sia lodato, la frase finisce. E
si ricomincia...
Se per chiunque balbettare è un supplizio, per un principe ereditario è una vergogna, una mutilazione, una
tragica perdita di autorità. Se poi siamo negli anni 30, l'età d'oro della radio, l'epoca in cui Hitler soggioga le
folle e incendia l'Europa con la sua oratoria, il dramma del duca di York, secondogenito di re Giorgio V,
afflitto fin dall'infanzia da quel difetto misterioso, diventa anche un vero problema politico.
Tutto questo però Il discorso del Re ce lo lascia indovinare, concentrandosi opportunamente (specie nella
prima metà) sui protagonisti. Anzi incarnando una gran massa di spunti e di idee nei corpi e nelle voci di due
grandi attori al loro massimo storico: Colin Firth, il principe balbuziente, costretto a curarsi dalla moglie (una
squisita Helena Bonham-Carter). E Geoffrey Rush, logopedista australiano (il gradino più basso della scala
sociale negli anni dell’Impero) e attore mancato: un semplice guitto, agli occhi del principe, catapultato per
caso in una posizione di potere,
il potere assoluto del medico sul suo paziente. Dell’analista sull’analizzando (mai visto descrivere con più
sottigliezza e divertimento i rapporti di fascinazione/repulsione che si instaurano in ogni psicoterapia). Ma
anche del suddito sul suo principe, costretto ironicamente ad assumere comportamenti “democratici” (nello
studio del logopedista ci si dà rigorosamente del tu). E perfino a cantare canzoncine infantili o a vomitare
parolacce per sciogliere i blocchi di cui è prigioniero.
Anche se ogni nevrosi è difesa da una corazza, e quella del principe è talmente blindata da buone maniere e
regole sociali che il futuro re Giorgio VI tenta in tutti i modi di far curare «solo l’aspetto meccanico» del suo
male. Ma perfino l’erede al trono d’Inghilterra è un essere umano, dunque un insieme indissolubile di mente
e corpo; e per quanto gli costi il povero “Bernie”, come lo chiama disinvoltamente il terapeuta, inizierà a fare
progressi solo dopo aver accettato di tirare fuori qualche doloroso ricordo d’infanzia…
Nella costruzione di questo rapporto il film di Tom Hooper (padre inglese e madre australiana, curioso…) è
coraggioso e a volte geniale. Come quando sospende lo studio del logopedista in uno spazio indefinito, fra
pareti dèlabrées e lunghi corridoi bui, rovesciando in chiave psicologica gli ambienti pomposi (e ovvi) di tanti
film in costume. Impeccabili ma meno inventive le parti dinastiche: il conflitto col re padre, le feste del fratello
che rinuncia al trono per l’amata Wallis Simpson (americana e divorziata, ergo inaccettabile come regina), il
temuto arrivo al potere. Ma quello di Hooper (e del suo sceneggiatore, l’australiano David Seidler) resta un
gran film.
Gian Luigi Rondi - Il Tempo
Non era noto a molti che Giorgio VI, salito sul trono d’Inghilterra dopo l’abdicazione di suo fratello Edoardo
VIII, soffrisse di una grave forma di balbuzie. Ce lo dice esplicitamente il bel film di oggi diretto da un regista
inglese attivo anche nella TV americana, Tom Hooper. La balbuzie, dunque, studiata con finezza e accenti
anche delicati in quel personaggio al centro che incontriamo prima come Duca di York, ancora vivente suo
padre Giorgio V, e secondo nella linea di successione perché il primo è quell'Edoardo Principe di Galles di
cui ci si rivelano quasi subito i rapporti con l'americana divorziata Wally Simpson. A fianco del Duca di York,
la moglie Elisabetta (che sarebbe diventata la tanto amata Regina Madre) e le due figlie, Elisabetta, oggi
Regina, e Margaret, morta abbastanza giovane. Mentre lui soffre e si inasprisce per questa sua infermità, la
moglie riesce a scovare un logopedista australiano dai modi spicci e quasi sgarbati con i quali all’inizio il
protagonista non lega, finendo per seguirne con successo alla fine i consigli e i metodi di cura. Intanto la
Storia cammina. Giorgio V muore, Edoardo VIII, che gli succede, non tarda ad abdicare per poter sposare la
sua amante e il Duca di York, diventato Re, si trova presto ad affrontare la guerra con la Germania e il suo
primo discorso alla nazione cui deve chiedere solidarietà e coraggio per i difficili momenti che l’attendono,
superando felicemente la prova per la decisione e l’impegno impiegati per vincere il suo difetto.
Tutto molto da vicino, i personaggi analizzati con cure attente, gli ambienti attorno ricostruiti con rispetto per i
dati autentici e i tanti momenti storici da cui la vicenda è attraversata espressi sempre con emozioni e
tensioni pronte a conquistarsi spazi privilegiati, ma con misura, li domina, percorrendoli tutti con grande
sensibilità (anche quando “recita” la balbuzie), l’attore inglese Colin Firth che aggiunge felicemente Giorgio
VI ai tanti personaggi che ha saputo creare nel corso della sua fortunatissima carriera. Queen Elizabeth, al
suo fianco, è Helena Bonham Carter, che riesce con grazia e intelligenza a somigliarle. Il logopedista è
l’australiano Geoffrey Rush, una maschera forte e risentita.
Piera Detassis - Panorama
Un tranquillo film di paura, racconto assai classico e di british eleganza che sotto il tweed, Balmoral e
l’intreccio
perfetto
di
teiere
nasconde
il
terrore
sociale,
il
panico
fisico
dell'inadeguatezza.
Ma di tutto questo lo spettatore quasi non si accorge perché segue senza un attimo di distrazione la storia
del principe Albert (padre della futura Elisabetta lI), che diventerà re Giorgio VI grazie al fratello Edward VIII,
dimissionario dalla corona per via di una certa WaIlis Simpson. Per il timido e insicuro Albert non c’è
peggiore prospettiva perché è arrivata l’era della radio, che obbliga a farsi attori, e lui balbetta orrendamente:
non potrà mai tenere il discorso della corona e nessun altro appello alla nazione.
Disperato, si affida al proletario Lionel Logue, magistrale praticone che non ha studi medici ma mescola
ginnastica, parolacce, canti e un po’ di psicanalisi come ha imparato a dare con i veterani traumatizzati della
grande guerra e riceve il normalissimo principe e poi re nel suo salotto délabré. Convinto assertore della
parità di classe, ingaggia con Giorgio VI, che chiama «Bertie», una vera lotta da bar.
Un buddy movie e una magnifica, sconosciuta storia vera che cela scontri e traumi ben più sostanziosi e
culmina nell’emozione del famoso discorso del 3 settembre 1939 con cui Giorgio VI annuncia al popolo
l’entrata in guerra, supportato sillaba per sillaba da quello che è diventato il suo insostituibile tutor, Lionel.
Grande film per due interpreti straordinari, il funambolico Colin Firth balbuziente allo stremo e soprattutto
Geoffrey Rush, un protagonista terragno ma di straordinaria follia. Imperdibile.