Enterprise

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Carmen Carter
I bambini di Hamlin
(The Children of Hamlin, 1988)
Traduzione di Gabriella Cordone e Alberto Lisiero
INDICE
Capitolo I......................................................................................................2
Capitolo II.................................................................................................. 12
Capitolo III................................................................................................. 22
Capitolo IV................................................................................................. 33
Capitolo V...................................................................................................45
Capitolo VI................................................................................................. 55
Capitolo VII................................................................................................65
Capitolo VIII.............................................................................................. 78
Capitolo IX................................................................................................. 88
Capitolo X.................................................................................................. 98
Capitolo XI............................................................................................... 109
Capitolo XII..............................................................................................121
Capitolo XIII............................................................................................ 133
Capitolo XIV.............................................................................................142
Capitolo XV..............................................................................................153
Capitolo XVI............................................................................................ 163
Capitolo XVII...........................................................................................174
Capitolo XVIII......................................................................................... 186
I.
Quello di «giorno» è un concetto nato su pianeti che ruotano
prigionieri intorno al loro sole. Nello spazio profondo, lontano
dalla luce e dal calore delle stelle fiammeggianti, la notte
perpetua ha il suo dominio...
– Capitano, cosa fa ancora alzato a quest'ora?
Le parole bucarono la fragile bolla di pensieri che stava trasportando
Jean-Luc Picard attraverso lo spazio e lo costrinsero ad uscire da quel
vuoto per rientrare nel guscio protettivo rappresentato dallo scafo della
nave. Il suo sguardo mise a fuoco il vetro cristallino del largo oblò che
rifletteva la sua immagine: occhi scuri e penetranti incorniciati da un viso
scarno i cui lineamenti forti erano evidenziati dalla fronte alta e stempiata
e dai capelli grigi tagliati cortissimi; le dita delle mani, poggiate sul vetro
dell'oblò, erano irrigidite dal freddo e sembrava che il loro calore fosse
stato risucchiato dallo spazio. Infine allontanò i palmi dalla gelida
superficie e si girò verso la donna che era entrata nella sala d'osservazione.
– Potrei farle la stessa domanda, Dottoressa Crusher – ribatté.
Beverly Crusher si avvicinò all'oblò e sbirciò fuori, continuando a
sentire su di sé lo sguardo del capitano.
– Fa parte del mio lavoro – sottolineò, sbadigliando e aggiustandosi i
lunghi capelli rossi un po' spettinati. – Sono un dottore, e noi medici siamo
sempre svegli anche quando tutti gli altri... o quasi... dormono. Qual è la
sua scusa, insonnia o doveri di capitano?
– Filosofia – spiegò Picard, conciso, ma l'emozione astratta e quasi
mistica che lo aveva pervaso se ne era andata e non provava più il
desiderio di ridestarla adesso che c'era la dottoressa. – Era grave il paziente
per cui è stata chiamata in infermeria?
– Non abbastanza da dover fare rapporto al capitano, se è questo quello
che intende – replicò la dottoressa, poi rabbrividì e si strinse maggiormente
addosso la giacca blu che le avvolgeva il corpo slanciato.
Picard si allontanò dall'aria fredda che circondava l'oblò e uscì dalla
sala; Beverly Crusher lo seguì nel corridoio, percorrendo con passi lunghi
e aggraziati il passaggio vuoto e silenzioso, rischiarato dalla luce soffice
che emanava dal soffitto.
– In ogni caso – commentò il capitano, – sono sempre preoccupato per la
salute del mio equipaggio.
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– Allora le farà piacere sapere che il primogenito del Tenente T'sala sta
riposando tranquillo dopo aver passato un brutto momento a causa di una
colica.
– Ah, una colica – ripeté Picard, sforzandosi di apparire quanto più
preoccupato possibile. – Non pensavo che i bambini vulcaniani soffrissero
di coliche.
– Ecco... per la precisione le condizioni di Surell coinvolgevano
l'apparato circolatorio, piuttosto che quello digerente, comunque il risultato
è un bambino che piange ad alto volume per ore, come per una colica. Ma
non è di questo che di solito si preoccupa un capitano, vero? – concluse la
dottoressa con un sorriso, lanciandogli una rapida occhiata.
– Forse no – concesse lui, rispondendo al suo sorriso. Anche nella luce
soffusa del corridoio aveva percepito un bagliore di divertimento negli
occhi di lei... quegli occhi così azzurri. Si schiarì la voce con un colpo di
tosse e cambiò argomento. – Come stanno i nostri nuovi passeggeri? Si
sono adattati alla vita a bordo dell'Enterprise?
– I Coloni di Oregon? – sospirò la dottoressa. – Naturalmente, la Flotta
Stellare ha certificato che tutta la popolazione emigrante è in perfetta
salute, ed è più che normale aspettarsi che si verifichino degli adattamenti
psicologici di fronte ad un ambiente così diverso come quello di una nave
stellare...
– Qual è il problema, Dottoressa Crusher? – la interruppe il capitano.
– Non ci sono ancora problemi – rispose lei, – ma secondo Troi uno dei
giovani Coloni sembra insolitamente affascinato dalla tecnologia di bordo,
ed è stato severamente rimproverato dalla comunità per aver esplorato la
nave.
– Capisco – mormorò Picard, riflettendo sulle implicazioni della cosa. –
Povero ragazzo... so che gli Oregoniani sono piuttosto sospettosi nei
confronti della tecnologia moderna, ma sono convinto che non sia una cosa
seria. Ancora un giorno e saranno sul loro nuovo pianeta, al sicuro
dall'influenza corruttrice della...
Si arrestò improvvisamente nel corridoio, senza finire di dar corpo alla
sua previsione.
– Cosa c'è? – chiese la dottoressa.
– Riesce a sentirlo? – controbatté Picard, bilanciando il proprio peso su
entrambi i piedi e cercando di cogliere gli impercettibili movimenti del
ponte. – L'Enterprise ha cambiato rotta... e ha aumentato la velocità di
curvatura – aggiunse, portando di scatto la mano destra al simbolo
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argenteo attaccato all'uniforme in modo da attivare la comunicazione con
l'interfono della nave. – Picard a plancia...
– Parla Riker, capitano. Abbiamo ricevuto un segnale di soccorso con
priorità uno da una nave stellare federale. Qualcuno li sta attaccando.
– Di chi si tratta? – domandò Picard. – I Ferengi?
– Non si sa. Il segnale è automatico e probabilmente proviene da una
boa d'emergenza. Stiamo ancora cercando di contattare la nave che l'ha
lanciato.
– Molto bene, Numero Uno. Arrivo subito – concluse Picard, poi
interruppe il contatto e si avviò con passo rapido lungo il corridoio.
– Buona notte, capitano – gli gridò dietro la Crusher.
– Oh, già – si scusò Picard, e si fermò per lanciarsi un'occhiata alle
spalle.
– Non mi aspetti – avvertì la dottoressa, senza modificare la propria
andatura tranquilla. – L'Enterprise è un paziente suo, non mio!
Picard accennò un saluto con la mano e riprese a camminare, mentre il
dovere cancellava dalla sua mente tutti i pensieri riguardanti Beverly
Crusher.
Wesley Crusher stava attraversando di soppiatto e senza far rumore
l'area giorno dell'alloggio quando lo squillare di una chiamata d'emergenza
medica buttò giù dal letto sua madre; rientrato velocemente nella sua
stanza, ascoltò il suono ovattato della conversazione con T'sala a cui
facevano da sottofondo le grida di un bambino vulcaniano troppo piccolo
per poter controllare il dolore, e pochi minuti più tardi sentì sua madre
lasciare l'alloggio.
Dopo aver contato fino a trenta, si azzardò a sbirciare fuori della cabina
per vedere se lei era ancora nelle vicinanze e appurò con sollievo che se
n'era andata. Il suo cuore continuò però a battere all'impazzata mentre
usciva nel corridoio e si dirigeva al turboascensore: sapeva di sentirsi
abbastanza grande da poter gestire a proprio piacimento il tempo libero
senza doverne rendere conto a sua madre, ma forse lei non sarebbe stata
d'accordo e quindi la cosa migliore da fare era evitare che scoprisse che
aveva appena lasciato l'alloggio.
Anche se la nave era tranquilla a quell'ora della notte c'erano comunque
ancora persone che andavano da una sezione all'altra, ma nonostante la sua
giovane età nessuno fece caso a lui, sia perché era alto quanto la maggior
parte degli adulti sia perché indossava l'uniforme da cadetto che indicava
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esplicitamente la sua appartenenza all'equipaggio regolare della nave; la
sua reputazione di studente zelante e coccolato da tutti faceva inoltre sì che
ogni sospetto residuo venisse fugato.
Dnnys lo stava aspettando nel luogo prestabilito, una sala di ricreazione
vuota sul Ponte 21.
– Pensavo che non saresti venuto – commentò.
– Ho avuto un contrattempo che mi ha costretto a tardare – spiegò
Wesley.
– Già, anch'io sono stato sul punto di essere scoperto – replicò l'altro
ragazzo, con un sorrisetto comprensivo, – ma dopo l'ultima strigliata che
mi ha dato Tomas, nessuno immagina che osi ancora lasciare gli alloggi
dei passeggeri. Da dove cominciamo, Signor Crusher? – chiese quindi,
mettendosi scherzosamente sull'attenti.
– Dalla sezione ingegneria – rispose Wesley, che aveva elaborato nei
particolari il loro tour mentre era a letto a contare i minuti che mancavano
all'appuntamento. – Posso introdurti in alcune aree non vietate, ma dovrai
comportarti più che bene, perché ti noteranno tutti.
– Mi noteranno? – fece eco Dnnys, sgranando gli occhi in un'espressione
di finta innocenza, e abbassò lo sguardo sul suo tradizionale vestito da
Colono con i pantaloni in cotone grezzo blu chiaro e il pullover di lana
lavorato a quadrotti rossi e neri.
– Avrei potuto portarti qualche vestito per cambiarti, ma non credo
avrebbe fatto molta differenza – aggiunse Wesley, indicando gli arruffati
capelli castani del giovane Colono. – Avresti bisogno anche di un buon
taglio.
– Possiamo visitare la plancia? – chiese Dnnys, accantonando con una
scrollata di spalle la questione del proprio aspetto esteriore.
– Assolutamente no – rispose Wesley, con enfasi. – Il capitano l'ha
vietata a tutti i ragazzi. Prima che fossi nominato facente-funzioni di
guardiamarina se l'è presa anche con me, soltanto perché avevo dato
un'occhiata rimanendo nel turboascensore. – Fece una pausa, poi aggiunse:
– Non volevo dare l'impressione di vantarmi... di essere un guardiamarina,
intendo.
– Non l'hai fatto – lo rassicurò Dnnys. – Non molto, per lo meno. Se
potessi lavorare nel centro di controllo di una nave stellare, io sarei più
vanitoso di un pavone. Avanti, muoviamoci – incitò quindi, oltrepassando
la porta della sala ricreazione. – Non passerà molto tempo prima che si
accorgano della mia assenza.
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– Sei sicuro di volerlo fare? – domandò Wesley, indugiando a seguirlo. –
Potresti ritrovarti in un mare di guai.
– Oh, io sono sempre nei guai per una cosa o per l'altra – sospirò Dnnys.
– Ormai ci sono abituato.
Dal momento che Dnnys non mostrava di voler rinunciare, Wesley si
strinse nelle spalle e lo precedette verso il perimetro esterno della sezione
ingegneria. I membri dell'equipaggio addetti al turno di notte non ebbero
difficoltà a far entrare il Guardiamarina Crusher e rivolsero soltanto
un'occhiata distratta al suo compagno prima di tornare al lavoro.
– Il pozzo centrale è più interessante – si scusò Wesley, nell'attraversare
la stanza squadrata e spaziosa dove si trovavano i pannelli di controllo dei
sistemi.
– Forse, ma anche questo è molto eccitante per me – ribatté Dnnys, poi
indicò uno dei pannelli e chiese: – Cosa fa questo?
Diligentemente, Wesley cominciò a descrivere la funzione del pannello,
mentre il costante e sommesso mormorio del vicino miscelatore
materia/antimateria faceva da sottofondo alla sua voce, e Dnnys lo ascoltò
annuendo, con lo sguardo reso un po' vitreo dallo sforzo di cercare di
assorbire un intero mondo di informazioni per lui aliene quanto lo sarebbe
stata l'agricoltura per Wesley.
Poi un improvviso rumore che non gli era familiare gli strappò un
sussulto e lo indusse a spostare lo sguardo da un lato all'altro della stanza.
– Cos'è stato? – domandò.
– Abbiamo aumentato la velocità di curvatura – esclamò Wesley, stupito
dal repentino spostamento di ritmo e di potenza che aveva percepito nelle
vibrazioni del ponte. Si allontanò dal monitor per chiederne il perché, ma
vide che il tecnico di turno si trovava adesso in un'altra area.
Avrebbe dovuto scoprirlo da solo.
La plancia che costituiva il centro nevralgico dell'Enterprise era una sala
molto spaziosa con un soffitto a volta e pareti tondeggianti che
aggiungevano una dimensione estetica alla sua struttura funzionale. Le
poltrone delle varie postazioni erano imbottite, il pavimento ricoperto di
moquette: caldi colori pastello dominavano l'atmosfera, e una luce diffusa
rivelava i lucidi e neri pannelli di controllo i cui display avevano colori
accesi e brillanti.
William Riker, primo ufficiale della U.S.S. Enterprise, era in piedi al
centro della plancia, il corpo muscoloso teso sotto l'uniforme e gli occhi
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fissi sul grande schermo visore che occupava l'intera parete frontale della
sala circolare.
– Avanti così – ordinò all'ufficiale timoniere.
Mentre parlava sentì il passo pesante di Worf nell'area sopraelevata alle
sue spalle, e per un momento fu sul punto di chiedergli di nuovo che cosa
registrassero i sensori a lungo raggio, ma poi si trattenne perché la
domanda sarebbe stata ripetitiva e inutile: per il momento aveva già fatto
tutto quello che poteva.
La sua reazione alla richiesta di soccorso era stata automatica e
immediata: una veloce verifica del messaggio e una rapida successione di
ordini che avevano portato la nave stellare ad aumentare la velocità
mettendosi su una nuova rotta. Poi aveva deciso di contattare il capitano,
ma mentre stava allungando la mano per premere il pulsante dell'interfono
la voce di Picard era risuonata in plancia, pretendendo una spiegazione, e
pur non avendo dubbi sull'adeguatezza degli ordini che aveva dato né sul
fatto che fosse necessario agire immediatamente, Riker rimpiangeva di non
essere riuscito a contattare subito Picard. Un primo ufficiale che usurpava
l'autorità del capitano, anche quando si supponeva che il capitano in
questione fosse immerso in un sonno profondo, doveva rendere conto delle
sue azioni senza che gli venisse chiesto di farlo.
Il sibilo delle porte del turboascensore venne seguito immediatamente
dal suono della voce inconfondibile del Capitano Picard.
– Rapporto sulla situazione, Numero Uno – ordinò in tono secco e
penetrante mentre scendeva verso il livello di comando della plancia, e
Riker si affrettò a replicare con il discorso che si era preparato in attesa del
suo arrivo.
– La U.S.S. Ferrel, una nave stellare di classe Constellation, sta
lanciando un segnale di soccorso automatico – esordì, poi trasse un
profondo respiro e continuò: – Ho ordinato un cambiamento di rotta
immediato per raggiungere le coordinate della sorgente del segnale e ho
aumentato la velocità a curvatura sei.
– Sì, l'ho notato – commentò seccamente Picard.
Riker sostenne senza scomporsi il suo sguardo ferreo... anche se la sua
statura superava di parecchi centimetri quella del capitano, in qualche
modo gli occhi di Picard sembravano sempre trovarsi all'altezza dei suoi.
– Molto bene, Numero Uno.
L'impercettibile sospiro che sollevò il torace di Riker fu l'unico segno
esteriore del sollievo che lui provava: si sentiva ancora un po' a disagio
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con il suo nuovo capitano, anche se Picard manteneva sempre nettamente
separati il suo ego e le preoccupazioni del comando. Rilassando un poco la
propria posizione rigida ed eretta, Riker finì il rapporto.
– Tempo stimato di incontro con la Ferrel ventidue minuti.
– Sicurezza, passare in condizione di Allarme Giallo – ordinò Picard, – e
informare la Base Stellare Dieci del nostro cambiamento di rotta.
Mentre in plancia si attivava la costante pulsazione delle luci di allarme,
il capitano si lasciò cadere sulla poltrona di comando e si assestò
l'uniforme con un gesto secco.
– Si sieda, Will. Adesso non possiamo far altro che aspettare.
Riker si trovò ad invidiare la calma del capitano e a chiedersi se il suo
atteggiamento rilassato fosse genuino o soltanto una posa... ma forse la
differenza non era rilevante; sedendosi a sua volta, cercò di concentrarsi
per riuscire ad emulare all'apparenza, se non nella sostanza, l'esempio di
Picard.
Natasha Yar balzò in piedi al secondo lampo delle luci d'allarme e al
terzo i suoi occhi azzurri si erano già aperti e la sua mente era
completamente sveglia; a tentoni, cercò nel buio il comunicatore.
– Capo della Sicurezza a plancia – chiamò nel momento stesso in cui le
sue dita raggiunsero il freddo metallo del distintivo.
La risposta impiegò cinque interi secondi ad arrivare e lei li utilizzò per
indossare l'uniforme... un Allarme Giallo significava che c'era il tempo per
vestirsi appropriatamente, ma non per farsi una doccia. Si passò le dita tra i
corti capelli biondi e decise che non era necessario spazzolarli
ulteriormente.
– Qui plancia, tenente.
Yar analizzò la tensione nella voce di Riker e da essa giudicò
accuratamente la gravità dell'allarme: la nave non era in pericolo... non
ancora.
– Sto arrivando – avvertì, e lasciò di corsa l'alloggio senza neppure
soffermarsi ad accendere le luci per uscire perché aveva imparato a
memoria la pianta della sua cabina proprio in previsione di tali emergenze.
Arrivò in plancia con qualche secondo di ritardo rispetto al suo miglior
tempo, ma né Riker né il capitano la rimproverarono quando si precipitò
fuori dal turboascensore; presa posizione alla consolle tattica, abbracciò
con uno sguardo l'attività che ferveva nella parte alta e al livello inferiore
della plancia, poi studiò l'immagine sul visore principale: su di esso non
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c'era niente di interessante, perciò rivolse la sua attenzione al segnale di
soccorso che si ripeteva sul pannello di comunicazione.
– Nessuna risposta alle chiamate – disse Worf, al suo fianco.
– Perché non mi hai avvertita appena hai ricevuto la trasmissione? –
sibilò Yar.
– Ero occupato – rispose Worf.
– Avrei dovuto essere qui per avviare l'Allarme Giallo.
Per evitare di attirare l'attenzione del capitano, Yar fu costretta a parlare
in tono sommesso e questo indebolì l'efficacia della sua sfuriata... anche se
di certo il Klingon non sarebbe rimasto impressionato neppure se gli
avesse inveito contro con quanto fiato aveva in gola: per lui le tempeste
emotive della razza umana erano poco più che una pioggerella estiva.
Improvvisamente, l'attenzione di Yar fu attratta da qualcosa che le
impedì di insistere sull'argomento: le letture dei sensori erano cambiate e il
tracciato arancione che indicava una sorgente fluttuante di energia era
molto tenue, ma inconfondibile.
Nell'uscire di corsa dalla sua cabina Geordi La Forge inciampò in un
paio di piedi che bloccavano il passaggio, ma un braccio si protese di
scatto a frenare l'inevitabile caduta.
– Che stai facendo qui? – chiese.
– Ti stavo aspettando – rispose Data, aiutandolo senza sforzo a rialzarsi
e avviandosi al suo fianco. Insieme s'incamminarono in fretta lungo il
corridoio, due figure in netto contrasto l'una con l'altra: il Tenente La Forge
era più basso e robusto del compagno, e la sua pelle scurissima metteva
ancor più in risalto l'innaturale pallore del Tenente Comandante Data, i cui
occhi dorati erano brillanti quanto il lucido metallo del visore che copriva
quelli di Geordi.
– Allora, cosa sta succedendo? – ansimò Geordi, balzando tra le porte
del turboascensore che si stavano aprendo.
– Siamo in Allarme Giallo – spiegò Data, dopo aver specificato la loro
destinazione al turboelevatore; al contrario di quello affannato di La Forge,
il suo respiro era estremamente tranquillo.
– Sì, ma perché siamo in Allarme Giallo? – insistette La Forge.
I componenti positronici che davano all'androide la sua forza e la sua
resistenza erano anche i responsabili di alcune sue difficoltà di
comprensione del linguaggio umano. Ben sapendo come sarebbe finita la
conversazione, Geordi stette pazientemente al gioco: dopo tutto, si era
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addossato in via informale il compito di educare Data e c'era sempre tempo
per una lezione veloce.
– Presumibilmente siamo coinvolti in una situazione che richiede un
aumento nello stato di vigilanza che... – cominciò l'androide.
– Basterà che tu dica: «Non lo so, Geordi» – lo interruppe il tenente.
– Non lo so, Geordi – ripeté Data, poi indugiò a riflettere sullo scambio
verbale e aggiunse: – Capisco. Sono stato di nuovo troppo letterale.
– Esatto, Data.
– La prossima volta cercherò di esserlo di meno.
– È quello che dici sempre – sospirò Geordi, mentre la cabina si
fermava.
Yar accolse il loro arrivo in plancia con un cenno del capo.
– Ufficiali del ponte di comando al completo, capitano.
Con movimenti resi precisi dall'abitudine, La Forge e Data diedero il
cambio agli ufficiali del turno di notte eseguendo la manovra alla
perfezione: un paio di mani si levò dai controlli e un altro paio ne prese il
posto.
Deanna Troi percepì l'ansia della situazione prima ancora di sentire
l'allarme. Emergendo dal sonno, la sua mente cominciò a risalire i livelli di
coscienza ma aspettò pigramente una chiamata dalla plancia per arrivare al
livello di lucidità.
Quando la chiamata non giunse, Troi fece l'ultimo sforzo e si svegliò
completamente.
– Troi a plancia.
– Lei non è di turno, consigliere. I suoi servizi non saranno necessari per
il momento.
La risposta di Riker avrebbe dovuto essere un sollievo per lei ma le
causò invece una sensazione di fastidio: Riker la conosceva troppo bene e
riusciva ad anticipare i suoi pensieri.
– Se posso essere d'aiuto...
– Il Capitano Picard apprezza la sua offerta; la chiameremo se la
situazione cambierà.
– Non voglio nessun favore – replicò lei, ma soltanto a se stessa.
Dopo un istante di riflessione fu costretta ad ammettere che la sua
irritazione era dovuta al fatto di essere stata svegliata da un sonno
profondo e che di certo Will Riker non ne aveva nessuna colpa. Decise
quindi di prenderlo in parola: dal momento che per ora il consigliere di
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bordo non era necessario in plancia, si sarebbe concessa il tempo di una
doccia prima di vestirsi. Guardando il proprio riflesso nello specchio della
cabina, aggrottò la fronte con espressione sconsolata nel vedere la massa
disordinata di capelli neri che le incorniciava il capo: le persone come
Tasha Yar potevano certo rispondere alle emergenze nel giro di pochi
secondi, ma lei preferiva sfruttare i minuti in più per rimettersi in ordine.
La tranquilla e sonnolenta atmosfera della sezione ingegneria si
trasformò in un brulicare di attività quando gli ufficiali precedentemente
fuori servizio si precipitarono nella sala macchine per raggiungere le loro
postazioni. Wesley e Dnnys si scambiarono un'occhiata di pura gioia
compiacendosi della loro fortuna.
– Adesso devi tornare in plancia? – chiese il giovane Colono.
L'eccitazione del momento e forse anche la mancanza di sonno, fecero sì
che Wesley trovasse ragionevole la domanda e, senza pensarci, aprì un
canale di comunicazione con la plancia.
– Parla il Guardiamarina Crusher... – cominciò, ma non finì la frase.
– Torna a letto, giovanotto! – esclamò la voce del Capitano Picard.
I due ragazzi lasciarono a precipizio la sala macchine.
Mentre l'Enterprise si avvicinava sempre di più alla U.S.S. Ferrel,
Picard si costrinse a rimanere immobile per evitare che qualsiasi
movimento fisico potesse distrarre la sua attenzione dai rapporti degli
ufficiali di plancia.
– Capitano – avvertì Yar, – i sensori registrano un'emissione d'energia
proprio sulle coordinate da cui è partita la richiesta di soccorso. Lo schema
è insolito, ma deve essere una sorgente potente se la possiamo intercettare
da così lontano.
– Alzare gli scudi – ordinò Picard.
– Incontro previsto fra tre punto quattro minuti – annunciò Data.
– Pronti a passare a velocità di impulso – scandì La Forge, tenendo la
mano ben ferma sul pannello di controllo del timone.
– Velocità di impulso – ordinò Picard, sempre immobile sulla sua
poltrona.
Le dita del pilota sfiorarono la consolle con la massima delicatezza:
vibrando in maniera impercettibile i motori della nave decelerarono a
potenza d'impulso e l'universo si contrasse.
Sul visore, il tenue scintillare tremolante delle lontane stelle si frantumò
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in una pioggia di luci sullo sfondo nero, poi al centro di quell'immagine
statica un movimento improvviso oscurò ogni chiarore quando due vascelli
attraversarono lo spazio, uniti in una letale danza di guerra nell'abbraccio
di una luminosa nebbia bluastra.
– Allarme Rosso – scandì Picard, protendendosi in avanti.
L'attesa era terminata.
II.
Andrew Deelor calcolò che la U.S.S. Ferrel avrebbe resistito per altri sei
minuti, poi il soffitto della plancia sarebbe crollato, schiacciando lui, Ruthe
e l'equipaggio... il che significava che la sua vita sarebbe durata appena
altri cinque minuti e una manciata di spiacevoli secondi. La sensazione
della morte imminente gli occupava però soltanto un angolo della mente,
perché la sua attenzione era concentrata sull'immagine della traslucida
nebbia bluastra che ondeggiava e tremolava sul visore principale: la nave
stellare era intrappolata nella morsa di una matrice energetica che di
minuto in minuto si contraeva come una mano, stringendo sempre di più e
accartocciando lo scafo della sezione a disco tra le sue dita.
L'astronave rabbrividì e il visore della plancia si oscurò.
In quell'ultima ora i sensori di bordo si erano guastati uno dopo l'altro
finché Deelor aveva potuto raccogliere informazioni solo attraverso lo
schermo visore, e durante quel tempo lui aveva sussurrato la descrizione di
tutto ciò che appariva sullo schermo in un registratore vocale abbastanza
piccolo da stare nel palmo di una mano, annotando ogni minima
apparizione della nave aliena, ogni dettaglio della sua struttura, ogni
supposizione sulle sue tattiche. Adesso però, senza il visore, ogni
possibilità di sapere ciò che succedeva all'esterno era stata eliminata.
Deelor spostò quindi la sua attenzione all'interno della Ferrel e dalla
posizione centrale della sua poltrona di comando lasciò vagare lo sguardo
per la plancia, descrivendo l'abbassamento rapido della temperatura e
l'offuscarsi delle luci d'emergenza mentre le riserve di energia della nave
venivano incanalate negli scudi di difesa in un ultimo e inutile tentativo di
resistere alla pressione del campo di forze alieno. Descrisse anche i lucenti
frammenti di vernice bianca che fluttuavano nell'aria come neve e
l'esplosione del pannello di metallo sottostante l'inoperativa postazione
delle comunicazioni che spedì il Tenente Morrissey contro la balaustra con
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tanta violenza da farlo ripiegare su se stesso.
Il tenente si accasciò in ginocchio, sputando un fiotto di sangue sul
pavimento del ponte, e il Dottor Lewin gli fu subito accanto con il suo
medikit... un gesto che Deelor giudicò inutile e che non venne quindi da lui
incluso nella registrazione del rapporto: se ci fossero state delle
onorificenze postume sarebbero state basate solo sul diario del capitano.
Gli stridii dei pannelli di metallo schiacciati dalla pressione andarono
aumentando di intensità, rischiando di rendere inudibili i suoi commenti,
perciò Deelor si premette contro la bocca il microfono incorporato nel
registratore, ma scoprì che la sua voce era diventata troppo rauca per poter
sovrastare il rumore di fondo. Fece allora scattare una copertura di
protezione sul registratore vocale prima di riporlo in una delle tasche
interne della giacca, nella speranza che la registrazione sopravvivesse
all'attacco e venisse ritrovata; in questo modo chiunque avrebbe preso il
suo posto, avrebbe trovato la dettagliata descrizione del prezzo pagato per
quel fallimento.
Il suo fallimento. Deelor rimpiangeva quell'inevitabile epitaffio più della
morte che lo attendeva. Si girò verso la donna seduta accanto a lui e vide
che Ruthe era raggomitolata su se stessa, con le gambe piegate sotto il
mento e il mantello grigio stretto attorno al corpo; aveva nascosto il viso
nella stoffa grezza e ciocche di capelli neri le ricadevano sulle ginocchia.
– Stiamo per morire – le sussurrò, accostandole le labbra all'orecchio,
perché non era certo che la donna se ne fosse ancora resa conto. – Mi
dispiace.
Ruthe sollevò lo sguardo su di lui: il suo volto appariva estremamente
pallido, ma del resto quello era il colore naturale della sua carnagione.
– Ho freddo – ribatté, – e odio avere freddo.
– Sì, lo so.
Intorno a loro ogni attività cessò all'improvviso e questo fece scattare un
allarme nella mente di Deelor. L'equipaggio si era immobilizzato,
ignorando i gemiti e gli stridii della sezione a disco che si fletteva sotto la
pressione come se tentasse di respirare, e tutti gli ufficiali erano rivolti
verso il retro della plancia dove si trovavano il capitano e il suo primo
ufficiale. I due uomini erano uno accanto all'altro davanti alla consolle
tattica con le spalle rivolte alla plancia, impedendo così agli altri di vedere
cosa stavano facendo, ma Deelor comprese immediatamente quali fossero
le loro intenzioni, così come comprese anche perché non dovevano
attuarle.
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Urlò a Manin di fermarsi, ma la sua voce non riuscì a superare
l'onnipervasivo rumore del metallo che si stava disintegrando, perciò si
affrettò ad alzarsi dalla poltrona... e la superficie del ponte ebbe
un'impennata che lo fece cadere in ginocchio. Non sarebbe mai riuscito ad
arrivare in tempo, perciò affondò una mano nelle pieghe della giacca e
rovistò nella tasca interna, spostando di lato il familiare cilindro del
registratore vocale e chiudendo infine le dita intorno all'impugnatura
smussata di un phaser.
Sparò contro entrambi gli uomini, ma il tremore dello scafo gli fece
sbagliare mira: D'Amelio cadde sotto l'impatto del raggio di stordimento
mentre il Capitano Manin venne solo sfiorato e si girò di scatto in preda ad
un confuso stupore che si mutò in rabbia quando si accorse dell'arma nella
mano di Deelor.
– Uccidetelo! – gridò, sapendo che nessuno sarebbe riuscito a sentirlo
ma che i movimenti delle sue labbra sarebbero stati visti con chiarezza... e
l'ordine venne immediatamente eseguito.
Andrew Deelor non vide mai chi aveva sparato.
Tre secoli di conoscenza tecnologica e gli sforzi combinati delle migliori
menti della Federazione Unita dei Pianeti erano culminati nella
realizzazione della nave stellare di classe Galaxy conosciuta con il nome di
Enterprise. I metalli e le leghe più fini, i polimeri più forti, la tecnologia
computerizzata più nuova erano stati abilmente usati per progettare una
nave destinata a viaggiare nei più lontani recessi della galassia, guidata da
un equipaggio composto da ufficiali e scienziati del più alto calibro, che si
dedicavano all'inesauribile esplorazione di quel nuovo seducente territorio
che li aspettava. Qualche volta però l'esplorazione portava a risultati letali.
Con gli scudi alzati e le armi pronte, l'Enterprise uscì dalla velocità di
curvatura in un abbagliante stridio di luce e si avvicinò al luogo della
battaglia.
– Signor Data, cosa ne pensa di quell'aura blu? – domandò il capitano,
studiando le sagome della U.S.S. Ferrel e del suo attaccante circondate
dalla nuvola.
– Blu? A me sembra un caos di colori – esclamò Geordi.
Il commento di Geordi ricordò a Picard quanto il visore che sostituiva i
suoi occhi ciechi rendesse diverso il modo di vedere del timoniere:
l'apparecchio visivo gli permetteva infatti di coprire l'intero spettro
elettromagnetico e non soltanto la porzione di luce visibile.
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– È un qualche tipo di campo di energia fluttuante – comunicò Data,
mentre i computer della nave trasmettevano le letture alla sua consolle. –
Lo scopo è sconosciuto, ma gli effetti sembrano avere una portata limitata
– aggiunse.
– Capitano, non riesco ancora a ricevere nessuna delle due navi, perché
tutti i canali di comunicazione sono inerti – annunciò Yar.
– Forse la Ferrel si trova nell'impossibilità di rispondere – ipotizzò Data.
– I suoi sistemi di controllo sembrano inoperanti o a malapena funzionanti.
– Signor La Forge, rotta diretta per intercettare l'attaccante – ordinò
Picard in tono conciso, dopo aver riflettuto solo pochi secondi per decidere
le azioni da intraprendere nei confronti del vascello alieno. L'esploratore
che era in lui era eccitato al pensiero di un possibile primo contatto, ma
come ufficiale della Flotta il suo primo dovere era di sicuro quello di
aiutare la parte perdente nella battaglia. – Prepararsi a far fuoco con i
phaser al mio ordine. Forse avere un altro bersaglio a cui badare li farà
desistere dall'attaccare la Ferrel – aggiunse.
Dalla postazione di poppa, Tasha Yar rivolse un cenno a Worf, immobile
alla consolle tattica, e i due ufficiali si divisero le responsabilità della
difesa e dell'assalto con brevi gesti telegrafici.
Una tensione crescente si impadronì di Picard, che alla fine si decise a
dare l'ordine.
– Fuoco con i phaser.
Il Tenente Worf allargò le mani sulla superficie della consolle delle armi
in modo che ogni contrazione delle dita attivasse i phaser, sparando
raffiche dalla parte inferiore dell'Enterprise. Molti degli impulsi phaser si
dispersero senza danno nello spazio, ma due raggi colpirono direttamente
il bersaglio.
L'effetto fu immediato: la densa nebbia blu che avvolgeva le due navi
svanì, rivelando i risultati del conflitto. La larga sezione a disco della nave
di classe Constellation era distorta e la sua sagoma contorta e piegata, e
molto vicino alla Ferrel vi era un grappolo di sfere traslucide di colore
arancione che sembrava illeso. Entrambe le navi impegnate in battaglia
avevano le stesse dimensioni, ma apparivano minuscole in confronto con
l'Enterprise.
– Apra le frequenze di chiamata, Tenente Yar – ordinò Picard, alzandosi
dalla poltrona di comando, poi si rivolse agli alieni e aggiunse: – Parla
Jean-Luc Picard, capitano della U.S.S. Enterprise. Identificatevi.
Si dispose quindi ad attendere con pazienza mentre i secondi passavano,
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e di lì a poco Riker gli si accostò senza fare rumore nel silenzio
ininterrotto.
– Nessuna risposta – sospirò infine Yar.
– Nessuna risposta verbale, ma stanno reagendo – la corresse Data,
vedendo per primo il movimento del grappolo di sfere.
La massa irregolare della nave aliena non aveva una struttura tale da
permettere di distinguerne le due estremità, ma l'intero gruppo di sfere
aveva ovviamente cominciato a girare con lentezza attorno ad un proprio
asse interno. Quando la parte posteriore della nave divenne visibile, una
macchia di un profondo color porpora apparve in mezzo all'arancione, poi
la rotazione accelerò, facendo scomparire la strana bolla colorata soltanto
per lasciarla riapparire subito dopo.
Continuando a girare, la nave cominciò a dirigersi verso l'Enterprise.
Picard segnalò di ritentare il contatto radio.
– Vascello alieno, se non risponderete il vostro avvicinamento sarà
considerato un'azione ostile.
Il grappolo non diminuì la velocità.
– Avrei preferito concludere questo conflitto in modo non violento –
ammise Picard al suo primo ufficiale, – ma sembra che questa forma di
vita non condivida il mio punto di vista. E allora così sia.
Abbassando la mano, segnalò al Tenente Worf di sparare un'altra salva
con i phaser.
Una cascata di raggi distruttivi colpì la nave in avvicinamento facendo
crepitare e scoppiettare la superficie delle sfere, ma l'effetto durò soltanto
il brevissimo istante in cui il raggio colpì e non appena il bagliore del
phaser si dissolse, la superficie delle sfere si rivelò ancora intatta. Worf
scaricò un'altra bordata, ma il risultato fu lo stesso.
– Manovre evasive – ordinò Picard con voce secca.
Le dita di Geordi La Forge saettarono sulla consolle e l'Enterprise deviò
dalla sua rotta.
– Ci stanno raggiungendo, signore.
– Continuare a sparare con i phaser.
Per tutto il tempo della durata dello scambio di fuoco, Data scandì il
rapido diminuire della distanza che separava le due navi.
– Dieci chilometri... cinque chilometri... un chilometro... – La sua
cantilena si interruppe per un istante, poi l'androide aggiunse: – Un
chilometro.
– Troppo vicina per lanciare un siluro fotonico... a questa distanza
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l'esplosione potrebbe danneggiare l'Enterprise oltre che il bersaglio –
avvertì Yar.
– Se ci allontaniamo ancora, la Ferrel diverrà vulnerabile ad un altro
attacco – rifletté amaramente Picard, studiando la nave aliena, consapevole
che il tempo per un'azione diversiva si stava esaurendo in fretta.
All'improvviso successe: avendo finalmente raggiunto un qualche
parametro sconosciuto, la sfera purpurea si allontanò dal grappolo
principale che continuava a girare.
– Sta venendo dritta verso di noi. Prepararsi all'impatto – avvertì Data.
Un'esplosione di luce violetta ferì gli occhi degli ufficiali ma non si udì
nessun suono, solo un leggero tremolio percepibile sulle consolle e sul
pavimento. Sul visore principale si formarono rivoli di un pallido colore
blu.
– Il campo di energia copre l'intera superficie della sezione a disco –
riferì Data, fornendo le informazioni che gli davano i sensori.
– È una rete – esclamò Geordi, e Picard capì che stava descrivendo ciò
che lui vedeva del campo di forze. – Una matrice creata da filamenti
carichi; riesco a distinguere i vari flussi. Inoltre c'è un sottile raggio di
corrente ancora connesso alla nave madre.
– Gli scudi tengono senza sforzo – garantì Yar, studiando la sua consolle
tattica con attenzione. – L'energia sviluppata dalla rete non è molta.
– Allora perché la Ferrel è stata danneggiata così gravemente? – ribatté
Picard, accigliandosi.
Un basso ronzio si aggiunse alla vibrazione.
– Il campo si sta contraendo e la pressione sulle strutture dello scafo sta
aumentando – annunciò Data, poi effettuò un rapido calcolo mentale e
aggiunse: – Supponendo che la contrazione proceda ad un ritmo costante,
possiamo resistere per due virgola sei giorni prima che le riserve di energia
della nave si esauriscano. In quel momento, senza gli scudi, diverremo
soggetti a danni strutturali.
Riker si avvicinò alla consolle dei sistemi di controllo ambientale posta
nella parte posteriore del ponte ed esaminò i rapporti che provenivano da
ogni sezione della nave.
– Capitano – riferì quindi a Picard, – per il momento tutte le postazioni
indicano corto circuiti di poca importanza ai sistemi elettrici vicini allo
scafo esterno. Nessun danno significativo.
– I nostri passeggeri sono però piuttosto scossi: da quando è iniziato
l'Allarme Rosso ho registrato sulla mia consolle delle comunicazioni una
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dozzina di chiamate dagli alloggi dei Coloni – annunciò il Tenente Yar.
– Contatti il Consigliere Troi – suggerì Riker, – e le chieda di calmarli
un po'. Forse saremo costretti a rimanere qui per qualche tempo.
– Ma non per due giorni – precisò Picard, sedendosi di nuovo sulla
poltrona di comando, – e nemmeno per due ore se possiamo evitarlo. Ci
deve essere un modo per penetrare le loro difese.
Appoggiandosi alla balaustra della parte posteriore della plancia, Riker
studiò l'insolita struttura della nave aliena attraverso la nebbiolina blu che
ne velava l'immagine sul visore.
– Quelle sfere sembrano solo dei palloncini – osservò. – Tutto ciò di cui
abbiamo bisogno è un ago per farli scoppiare.
– Analogia interessante, Numero Uno. Proviamoci, allora – esclamò il
capitano, con aria di approvazione.
Worf riprogrammò con impazienza la consolle delle armi seguendo le
specifiche di Riker: la dispersione di fuoco dei phaser fu ridotta al minimo
raccomandato dalle regole della Flotta Stellare e poi ristretta ulteriormente
con un po' di lavoro extra e l'aggiunta di qualche modifica creativa dei
parametri di controllo. Quando Riker si ritenne soddisfatto, Worf attivò i
phaser per un colpo di prova.
Nonostante l'intensità ridotta, il sottilissimo raggio penetrò nel bersaglio
e una delle sfere sulla parte più esterna del grappolo esplose, liberando un
globulo di materia viscosa, mentre i brandelli del guscio esterno della bolla
rimanevano attaccati flaccidamente al grappolo.
– Bel colpo, Worf – si complimentò Geordi.
– Provi ancora. Se necessario, distruggeremo quel vascello pezzo per
pezzo – ordinò Picard, determinato a continuare l'assalto finché la sua nave
fosse stata fuori pericolo.
La seconda esplosione fu però l'ultima.
– Il campo di energia si sta dissipando – annunciò Data, mentre il visore
principale si schiariva, – e il nemico si sta allontanando.
– Raggio traente, Tenente Worf – reagì immediatamente Picard. –
Facciamogli assaggiare un po' della loro stessa medicina.
Sospettava che il Klingon avrebbe preferito sparare finché il nemico non
fosse stato annientato, ma l'ordine venne obbedito senza commenti.
– Li teniamo, capitano – rombò Worf, non appena le bolle in movimento
furono bloccate, – ma stanno succhiando la nostra energia a un ritmo
incredibile.
Picard cercò ancora una volta di stabilire un contatto radio.
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– Vi ordino di arrendervi e consegnare il vascello – ingiunse.
Non si aspettava una risposta e non ne arrivò nessuna, ma come già in
precedenza la nave aliena cominciò a muoversi. Le sfere si contrassero e la
loro massa cambiò, mutando le connessioni interne: una singola bolla
venne espulsa dal grappolo e un'altra la seguì, poi un'altra ancora.
L'angolo del raggio traente della nave stellare si allargò per coprire il
cambiamento di forma e le luci della plancia tremolarono quando l'energia
venne incanalata nella consolle di Worf... poi gli indicatori di sovraccarico
si accesero sui pannelli degli strumenti mentre le bolle si disponevano in
una lunga fila.
Con la fronte aggrottata in un'espressione colma di rabbia e di
frustrazione, Riker raggiunse il capitano sulla parte bassa della plancia.
– Con questo ritmo saremo costretti a ricorrere alle nostre riserve
d'energia di emergenza, e anche così non credo che potremo trattenerli a
lungo.
– Questo nemico conosce certamente molti trucchi... – commentò
Picard, senza riuscire a nascondere l'ammirazione, poi notò la sorpresa che
si era dipinta sul volto di Riker e aggiunse: – Non ci si deve vergognare nel
riconoscere le qualità di un nemico, Numero Uno. – La vergogna deriva
soltanto dalla sconfitta, pensò al tempo stesso fra sé, chiedendosi che
effetto avrebbe avuto un altro attacco phaser sui tentativi di fuga della
nave.
In quel momento Data richiamò la sua attenzione.
– Capitano, i sensori mostrano che lo scafo principale della Ferrel è
seriamente danneggiato: il rivestimento che mantiene l'atmosfera si sta
indebolendo rapidamente nei punti sottoposti a stress e la rottura completa
è imminente.
Con un cenno della mano il capitano fece segno a Worf di troncare il
raggio traente.
– Yar, tutta l'energia alle postazioni del teletrasporto – ordinò con la voce
carica di urgenza. – Cominciare l'immediato trasferimento dell'equipaggio
della Ferrel con procedura di coordinate estese. Portate a bordo qualsiasi
cosa si muova... e fate in fretta.
Tornando a fissare l'immagine sul visore, Picard osservò la nave aliena
allontanarsi sempre più velocemente, come una collana di perle sfuggita al
suo possessore.
Il vecchio Ziedorf era sordo e stava continuando a dormire nonostante la
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confusione, ma gli altri Coloni si erano svegliati in quegli strani letti e si
erano ritrovati in mezzo alle luci e ai suoni di un incubo. Le urla e le grida
delle madri e degli zii che stringevano fra le braccia i propri bambini
assonnati sovrastavano le calme istruzioni date dal computer della nave,
ma del resto i Coloni non avrebbero comunque dato ascolto a quella voce
senza corpo, soprattutto perché chiedeva loro di rimanere all'interno delle
cabine.
Uomini e donne si riversarono fuori degli alloggi passeggeri e
riempirono i corridoi, gridando in preda alla confusione. Un uomo che
aveva imparato qualcosa in merito a come funzionavano le attrezzature
della nave abbassò il volume dell'altoparlante dell'interfono per ascoltare
meglio chi gli stava vicino e nessuno rispose alle sollecitazioni della voce
dell'ufficiale della Sicurezza che adesso era ridotta ad un debole sussurro.
I bambini, che avevano percepito la corrente di eccitazione della folla, si
liberarono da ogni presa costrittiva e si allontanarono, impazienti di correre
a giocare a quell'ora insolita; altri, che avevano una personalità meno
temprata, reagirono alle parole di paura aggiungendo i loro lamenti al
clamore generale.
Dnnys si fece largo con difficoltà tra gli adulti che lo afferravano
continuamente per un braccio o per le spalle pretendendo una spiegazione
dello strano comportamento della nave: ai loro occhi la sua famigerata
familiarità con l'Enterprise lo rendeva l'unico in grado di addossarsi la
responsabilità di gestire quella situazione. Dato che però lui era soltanto un
ragazzo nessuno ascoltava veramente le sue risposte, soprattutto quando
diceva loro di ritornare in fretta nelle proprie cabine.
Un'ennesima mano lo afferrò e Dnnys si divincolò, ma si fermò non
appena vide chi aveva tentato di fermarlo e si portò al fianco della cugina,
notando che i suoi capelli erano troppo ricci per tradire i segni di un
risveglio improvviso, rivelato invece dal fatto che l'orlo della sua camicia
da lavoro blu penzolava fuori dai jeans.
– Non sono riuscita ad entrare nella stanza di tua madre – avvertì Mry. –
Naturalmente lei se n'è stata tranquilla come doveva, ma quando non è
uscita dalla cabina tutti gli altri sono entrati per vedere perché.
Dei centoventi Coloni, quasi cinquanta avevano affollato il suo alloggio,
mentre il resto era rimasto a vagare senza meta nei corridoi.
– Anche tu avresti dovuto restare tranquilla – la rimproverò Dnnys.
– Tomas mi ha fatta uscire. Ha detto che dovevamo proteggere sia nostra
madre sia la tua, visto che era sola – replicò Mry, poi si accigliò di colpo e
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proseguì: – Gli ho ricordato che c'eri tu con Patrisha, ma vedo che avevo
torto.
Dnnys ignorò il rimprovero: sapeva che sua cugina non avrebbe parlato
a nessuno della sua assenza.
– Wesley ha detto che l'Allarme Giallo non significa niente di serio, e
che dovremmo...
Il consiglio datogli dal giovane guardiamarina non fu mai udito: le luci
gialle intermittenti divennero rosse, e i Coloni alzarono il tono di voce
tanto da coprire il suono degli allarmi.
Un urlo penetrante fece accorrere altre persone a ingrossare il gruppo
che già stava sbirciando freneticamente dagli oblò allineati sulla parete
esterna, e coloro che potevano vedere ciò che succedeva ne fornirono una
descrizione affrettata e confusa che si diffuse di bocca in bocca fra la folla,
diventando sempre meno comprensibile ad ogni passaggio. Una singola
astronave danneggiata si trasformò nel relitto di una nave appestata, in un
cimitero di navi fantasma alla deriva nello spazio o in una flotta di navi
pirata in procinto di attaccare, a seconda della persona a cui si chiedeva.
Quando infine la cascata di fuoco blu si riversò sulla superficie
trasparente degli oblò, la folla che vi si era pigiata contro per vedere si
ritrasse violentemente, trascinando Mry e Dnnys una lontano dall'altro nel
fuggi fuggi generale degli altri Coloni, finalmente convinti che fosse più
saggio rimanere nei propri alloggi.
Per chiunque fosse abbastanza sensibile da percepirlo, il panico che
proveniva dalla sezione passeggeri dell'astronave era come una nebbia
densa e contagiosa, tanto che nell'avvicinarsi agli alloggi dei Coloni il
Consigliere Troi dovette lottare contro la sua empatia istintiva e reprimere
il desiderio di correre a rifugiarsi al sicuro nella propria cabina; cercò
invece di percepire una mente che le fosse familiare, e non appena ne ebbe
individuata una si diresse verso di essa.
Dnnys era solo nel corridoio, con il viso premuto contro il vetro
vibrante, e Troi si affrettò a raggiungerlo e a tirarlo indietro.
– Allontanati da lì – avvertì.
– Non fa male, sento solo una specie di solletico – replicò Dnnys, e per
dimostrarlo posò una mano sul pannello ronzante. – Da dove viene tutta
quella luce blu? – chiese poi.
– Non sappiamo che cosa sia e potrebbe essere pericolosa – lo
rimproverò Troi, aggirando la domanda... Dnnys era soltanto un ragazzo e
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come tutti i ragazzi stava subendo il fascino dell'ignoto. Un Colono adulto
avrebbe dovuto occuparsi di lui, ma tutti gli adulti sembrava fossero
rintanati nelle loro cabine in preda al terrore.
Riflettendo, si disse che forse adesso la paura li avrebbe indotti a parlare
con lei, accantonando quell'atteggiamento riservato con cui avevano fino a
quel momento respinto tutti i suoi tentativi di metterli a loro agio a bordo.
Il risultato di quel comportamento era che lei ne conosceva pochissimi per
nome e sapeva assai poco anche dei loro usi e costumi.
– Devo parlare con il capo della tua comunità – decise.
– Non abbiamo nessun capo – replicò Dnnys, ridendo della richiesta per
lui assurda.
– Ma quando siete giunti a bordo io ho parlato con una donna che
sembrava detenere il comando – insistette Troi, che non aveva chiesto il
titolo ufficiale della donna per rispetto nei confronti della reticenza
dimostrata dai Coloni sulle questioni di carattere personale ma che aveva
avvertito l'indiscutibile aria di autorità che emanava dalla sua persona. – Si
chiama Patrisha.
– Oh, intendi dire mia madre – esclamò Dnnys, mentre il sorriso gli
spariva di colpo dalle labbra. – Lei però non è il nostro capo... nessuno è
tenuto ad obbedirle.
Troi percepì che il ragazzo si era messo sulla difensiva e con cautela
cercò di spiegarsi usando una definizione meno intrisa di componenti
emotive.
– Mi dispiace, non intendevo offenderti. Volevo solo dire che mi è
sembrato che la gente ascoltasse ciò che tua madre diceva.
– Allora è diverso... la gente ascolta sempre mia madre – dichiarò Dnnys
con orgoglio e indicò una porta posta alla fine del corridoio. – Entra pure,
c'è un sacco di gente da lei adesso.
Troi raggiunse l'ingresso della cabina ma prima di entrare sentì una fitta
di delusione provenire dalla mente di Dnnys che la indusse a girarsi per
dare un'occhiata verso l'estremità opposta del corridoio, dove si trovava
ancora il ragazzo.
La luce blu era sparita dall'oblò.
III.
Il Capitano Manin si fece largo tra i detriti di quella che una volta era
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stata la plancia della U.S.S. Ferrel. Sentiva i gemiti e i colpi secchi di tosse
dei suoi ufficiali morenti, ma non poteva vederli attraverso il fumo e le
vorticanti nuvole di polvere in sospensione. Mancava ormai meno di un
minuto al termine della sua carriera di capitano, ma quei pochi secondi
sembravano protrarsi davanti a lui come se fossero stati eterni: aveva
cercato di risparmiare a tutti il dolore di una distruzione lenta e prolungata,
ma Deelor glielo aveva impedito.
Manin si costrinse ad accantonare la rabbia che lo divorava perché non
poteva sprecare il poco tempo che gli rimaneva.
Cercò a tentoni un altro appiglio a cui afferrarsi e la sua mano sfiorò un
corpo la cui pelle era ormai fredda. Con le dita esplorò il contorno della
figura riversa fino a incontrare la sagoma allungata di un'antenna, e dal
momento che in plancia era stato presente un solo Andoriano questo non
lasciava dubbi sull'identità dell'ufficiale morto; augurando al pilota di
raggiungere serenamente la vita ultraterrena verso cui era diretto... quale
che potesse essere... Manin si allontanò dalla consolle del timone per
cercare di raggiungere la poltrona di comando, deciso a incontrare la morte
seduto su di essa. Fece ancora un passo e il suo stivale urtò qualcosa di
soffice che reagì con un calcio.
– Via di qui! Non voglio compagnia – sbraitò Ruthe, subito interrotta da
un accesso di tosse.
In una simile situazione l'irritazione manifestata dalla donna era ridicola,
e Manin era ancora abbastanza lucido da poter apprezzare l'umorismo della
situazione. La risata gli fece salire alle labbra una boccata di sangue che gli
scivolò lungo il mento; nell'asciugarlo distrattamente, il capitano rifletté
che se la traduttrice era lì, allora il corpo di Deelor non doveva essere
lontano.
– Una morte con il phaser è pulita, Deelor – mormorò in tono gelido. –
Lei se l'è cavata troppo facilmente.
Le stelle divennero sfocate e cambiarono posizione sul visore quando
Data allargò l'immagine della U.S.S. Ferrel in modo che occupasse tutto lo
schermo. Fianco a fianco sulla plancia, Picard e il suo primo ufficiale
stavano osservando gli spasmi di morte dell'altra nave, consapevoli che la
matrice d'energia era stata eliminata troppo tardi e che la distruzione finale
della Farrel era ormai imminente. Riker si rigirò sulla poltroncina, a
disagio, vedendo lo scafo di metallo che si contraeva e rabbrividiva mentre
le strutture interne di supporto crollavano su loro stesse.
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– Merde! – imprecò il capitano, infrangendo per primo il silenzio. – Non
ce la faremo mai in tempo. Ci vorranno almeno venti minuti per
teletrasportare l'intero...
– Sta esplodendo – annunciò La Forge, dal timone.
Uno sbuffo di vapore bianco venne espulso con violenza dal ventre della
sezione a disco e si disperse in un attimo nel vuoto dello spazio
mescolandosi ai detriti interni che, avvolti nel ghiaccio dell'acqua
cristallizzata, roteavano luccicando intorno allo scafo della nave.
– Worf, lanci tutte le navette di cui disponiamo – ordinò Picard,
consapevole che un tale tentativo sarebbe stato inutile, ma anche del fatto
che era suo dovere provare. – Data, focalizzi i sensori attorno alla Ferrel.
Potrebbero esserci dei sopravvissuti tra i detriti.
– Non è necessario, capitano... il capo teletrasporto riferisce che l'intero
equipaggio è a bordo – annunciò Tasha Yar, poi si interruppe, sorpresa dal
conto, e infine concluse: – Tutti e trenta.
Il significato delle parole del tenente fu come un pugno nello stomaco
per Picard: di un equipaggio composto da centinaia di persone erano
rimaste solo trenta vite. Nove anni prima aveva perduto la Stargazer e
conosceva perciò il dolore che derivava dal vedere distrutta la propria
nave, ma allora l'equipaggio era stato messo interamente in salvo. Si girò
verso Riker e negli occhi del primo ufficiale notò lo stesso sguardo
allarmato che sapeva essere affiorato nei suoi: chiunque accettava la
responsabilità del comando si rendeva conto che esisteva sempre la
possibilità che le cose potessero andare male fino a quel punto, ma Picard
non aveva intenzione di indugiare a riflettere su quel disastro perché
sapeva che se lo avesse fatto la paura si sarebbe potuta trasformare in
terrore paralizzante.
– Numero Uno – ordinò, consapevole che quell'incarico avrebbe liberato
Riker dal suo ruolo di osservatore impotente, – controlli le sale
teletrasporto. Trovi tra i sopravvissuti il capitano o l'ufficiale più anziano e
me lo porti qui immediatamente.
– Subito, capitano – rispose il primo ufficiale, dirigendosi velocemente
verso il turboascensore.
La missione di soccorso era ben lungi dall'essere terminata, ma Picard
sapeva che ormai il picco della crisi era superato. Durante la battaglia la
sua attenzione era stata focalizzata sul susseguirsi degli eventi e la sua
mente aveva filtrato ed escluso tutte le distrazioni, ma adesso che non lo
stava più facendo il ritmico staccato dell'Allarme Rosso diventava sempre
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più irritante man mano che passavano i secondi, ricordandogli che c'era un
conflitto irrisolto ancora in sospeso.
– Tenente Yar, di quanto si è allontanato l'aggressore?
– Secondo i miei dati la nave aliena è sparita, capitano, oltrepassando la
portata dei raggi sensori.
– Ma Tasha, non può aver già lasciato il settore in così poco tempo –
protestò La Forge, dalla consolle del timone.
– La matrice ha causato la formazione di una nuvola ionizzata di energia
residua, e anche se si sta rapidamente decomponendo potrebbe aver
influenzato i sensori – notò con interesse Data.
– Cosa ha scoperto sulla matrice energetica che ci hanno scagliato
addosso? – domandò Picard. Quella prima trappola era stata elusa senza
troppa difficoltà, ma la prossima avrebbe potuto essere più difficile da
evitare e lui aveva la spiacevole sensazione che ci sarebbe stato un altro
incontro.
– Il campo non opera come un dispositivo traente standard, ma tenendo
conto della struttura insolita della nave aliena, non è irragionevole
presumere che l'avversario possieda una tecnologia di base molto più
avanzata della nostra, o comunque radicalmente diversa.
– Una trappola per topi molto efficiente – rifletté Picard.
– No, signore, un raggio traente molto efficiente.
Picard preferì non rispondere al commento e represse un sorriso nel
sentire il sospiro esasperato di Geordi, mentre Data assumeva
un'espressione di corrucciata perplessità di fronte alla sottile critica ma
sembrava incapace di individuare l'offesa che l'aveva causata.
– Yar, disattivi l'Allarme Rosso – ordinò Picard; voleva approfittare di
quella pausa anche se l'assenza della nave aliena si fosse rivelata la calma
prima della tempesta.
Il capo della Sicurezza sfiorò con gentilezza la superficie della consolle
e le luci rosse si spensero, ma la sua espressione rimase preoccupata.
Il capitano si alzò per parlare all'equipaggio.
– Grazie a tutti per il vostro contributo. Vista la possibilità di un altro
attacco, sono certo che rimarrete vigili come sempre, nonostante il nostro
status di cessato allarme – disse. Sapeva che se fossero stati nuovamente
attaccati, lui non avrebbe avuto la minima idea di come costruire una
difesa efficiente, e pur permettendo agli ufficiali di plancia tutta la libertà
di discutere, si rendeva conto che c'era un limite alle loro speculazioni. A
questo punto aveva bisogno di fatti, non di teorie.
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Deanna Troi osservò con attenzione gli impassibili Coloni di Oregon
raccolti nella sala. Il loro clamoroso vociare era cessato non appena lei
aveva oltrepassato la porta e il suo ingresso aveva modificato lo spettro
emotivo degli occupanti della stanza: l'agitazione stava cedendo il posto al
sospetto.
– Sono il Consigliere Troi – si presentò sorridendo, nel disperato
tentativo di rallentare il crescente risentimento. – Dalla plancia mi hanno
riferito che siete stati allarmati da...
– Guerrafondai! – gridò una voce, e diversi dei Coloni che erano in piedi
si fecero da parte per lasciar avanzare un uomo robusto che portava una
corta barba e che pur somigliando agli altri Coloni presenti appariva assai
più pomposo. – Il combattimento deve smettere immediatamente, lo
pretendo.
– Non siamo in guerra – protestò Troi. – Si tratta solo di...
– Bugiarda! – urlò una donna a fianco dell'uomo, molto magra e più
vecchia di lui; nonostante la differenza di statura e di età era però chiaro
che i due erano parenti. – Le vostre stesse macchine ci hanno rivelato
l'infamia delle vostre azioni. Ascolta!
Nel silenzio che seguì l'ordine imperioso della donna, tutti poterono
sentire la voce atona del computer che impartiva le istruzioni d'emergenza.
– Al momento siamo impegnati in combattimento contro un agente
ostile. Per favore rimanete nelle vostre cabine finché il segnale
dell'Allarme Rosso non sarà cessato.
Troi prese mentalmente nota del fatto che bisognava rivedere con Data il
sistema di interfaccia passeggeri del computer, visto che l'insistenza
dell'androide
per
l'accuratezza
non
sembrava
rappresentare
necessariamente i migliori interessi dei passeggeri. Di sicuro frasi più
diplomatiche e meno informative avrebbero diminuito le loro paure.
– Il messaggio è soltanto una precauzione – spiegò. – Abbiamo
incontrato un vascello sconosciuto e l'impossibilità di comunicare con loro
ha causato un'incomprensione che presto verrà risolta.
Con suo grande sollievo e quasi al suo comando, il segnale dell'Allarme
Rosso si spense e le parole successive pronunciate dal computer furono più
rassicuranti.
– L'Allarme Rosso è cessato. Potete riprendere le vostre normali
attività.
Un'altra Colona si fece largo fra la folla e Troi la riconobbe come la
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madre di Dnnys. I suoi lineamenti, troppo duri perché la si potesse definire
graziosa e al tempo stesso troppo notevoli per renderla scialba, erano
incorniciati da capelli striati di grigio e raccolti in un'unica treccia che le
scendeva fino alla vita; anni di duro lavoro avevano indurito le sue mani e
irrobustito la sua figura, ma il portamento era quello di una donna sicura di
sé.
– Grazie per la sua visita, Consigliere Troi.
Quelle parole implicavano un esplicito commiato e anche se non
percepiva nessuna animosità personale da parte della donna, Troi avvertì
che l'ostilità degli altri Coloni non era diminuita; consapevole che il
protrarsi della sua presenza avrebbe potuto soltanto agitare ulteriormente i
passeggeri, il consigliere si affrettò ad andarsene.
– Non avremmo mai dovuto lasciare Grzydc! – brontolò Tomas non
appena l'intrusa se ne fu andata, tirandosi furiosamente i ciuffi della barba.
– Non avevamo nessuna possibilità di rimanere – gli ricordò Patrisha pur
sapendo che Tomas non aveva interesse nel discutere il loro esodo dal
pianeta: troppe persone in quella stanza sapevano che proprio i suoi
continui disaccordi con il governo di Grzydc avevano contribuito a rendere
intollerabile l'attrito tra i Coloni e il loro mondo adottivo.
– Qualcuno deve parlare con il capitano riguardo a questo oltraggio.
Dobbiamo fargli conoscere la nostra posizione! – insistette Tomas, e la sua
enfatica frase fu accolta con un mormorio di approvazione da diversi altri
Coloni.
Un osservatore esterno avrebbe potuto facilmente pensare che Tomas si
stesse offrendo volontario per quel compito, ma Patrisha sapeva che non
era così: nel momento in cui l'intero gruppo avesse raggiunto un accordo,
lei sarebbe stata la delegata scelta. Naturalmente poteva rifiutarsi, ma a suo
modo anche lei era prevedibile quanto gli altri Coloni: piuttosto che
lasciare che Tomas causasse l'ostilità di un'altra autorità, avrebbe accettato
sulle proprie spalle il peso di quella responsabilità.
Andrew Deelor rimase disteso sulla schiena a guardare quel cielo senza
forma per un tempo che gli parve infinito prima di trovare le forze
necessarie per girare la testa.
– Il paradiso è una sala teletrasporto – mormorò. – Davvero bizzarro.
– Parla più forte: non ti sento.
Con un grande sforzo Deelor si voltò nell'altra direzione e nel vedere la
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figura indistinta di Ruthe che sedeva a gambe incrociate accanto a lui,
cercò di collocarla nel suo nuovo mondo.
– E tu adesso sei un angelo – aggiunse, pensando che la donna sarebbe
stata un angelo bellissimo anche se severo, con gli zigomi alti e il viso
angoloso che enfatizzava i grandi occhi scuri.
– Di cosa stai parlando? – chiese Ruthe, con durezza.
– Dovrei essere morto, ma questo posto assomiglia molto ad una sala
teletrasporto – rifletté Deelor. La sala in questione sembrava girargli
intorno vorticosamente, ma aveva il sospetto che quel movimento fosse
generato soltanto dal senso di vertigine che l'attanagliava... chiuse gli occhi
e dopo un po' il pavimento sotto di lui cessò di sobbalzare con violenza.
– Ho sentito qualcuno dire che siamo a bordo di una nave chiamata
Enterprise – aggiunse la donna.
– Ah, questo spiega tutto – sussurrò di rimando Deelor, poi dovette
perdere conoscenza per qualche tempo perché quando riaprì gli occhi si
rese conto che la vista gli si era schiarita e che adesso riusciva a vedere le
figure accalcate degli altri sopravvissuti; una voce sconosciuta attirò poi la
sua attenzione sull'ufficiale della Flotta Stellare che era in piedi accanto al
Dottor Lewin.
– Sto cercando l'ufficiale comandante della Ferrel – annunciò lo
sconosciuto, facendosi da parte mentre Lewin sovrintendeva al trasporto di
una barella attraverso la porta della sala teletrasporto.
– Non si tratta di te? – chiese Ruthe a Deelor, sovrastando la risposta del
dottore, ma per fortuna si espresse come sempre in tono sommesso e
l'ufficiale non la sentì. – Non eri tu il responsabile? – insistette.
– Non è questo il momento di dirlo. Li informerò più tardi, quando mi
sentirò meglio – sussurrò di rimando Deelor, lottando contro un'ondata di
nausea che costituiva l'effetto collaterale tipico degli anticoagulanti. In un
momento imprecisato qualcuno doveva avergli somministrato dei
medicinali, e lui sapeva che avrebbe dovuto invece avere la mente limpida
per spiegare la presenza della Ferrel in quella regione di spazio e stabilire
la sua autorità sull'Enterprise.
– Il Capitano Manin è stato portato in infermeria.
Picard ascoltò con tacito sollievo il rapporto fornito all'interfono da
Riker: non c'era nessuna ragione logica per sperare di trovare vivo un
ufficiale superiore, visto che dell'intero equipaggio di una nave stellare di
classe Constellation erano rimasti solo trenta superstiti.
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– Si presenti da me non appena gli avrà parlato – replicò. Pur
desiderando condurre lui stesso l'interrogatorio, sapeva di non poter
lasciare la plancia dopo un attacco come quello che si era appena verificato
e attese con impazienza il ritorno del suo primo ufficiale, mascherando le
proprie emozioni dietro la sua consueta facciata di studiata calma.
Dieci minuti più tardi Riker uscì dal turboascensore e si girò per incitare
un altro uomo con indosso una polverosa uniforme della Flotta a farsi
avanti; lo sconosciuto era alto e allampanato, con una massa spettinata di
capelli brizzolati.
– Il Capitano Manin è in sala operatoria – spiegò Riker. – Questo è il
Primo Ufficiale D'Amelio.
– Benvenuto a bordo dell'Enterprise – salutò il capitano, avvicinandosi
ai due uomini. Le sue parole fecero affiorare un sorriso sul volto di
D'Amelio, ma passarono alcuni secondi prima che lui notasse la mano tesa
del capitano. Muovendosi con estrema lentezza, l'ufficiale la strinse
debolmente e rimase immobile finché Riker non lo prese con gentilezza
per un braccio e lo pilotò verso l'adiacente saletta tattica.
Il capitano li seguì e attese che le porte si fossero chiuse prima di dar
voce ai propri dubbi.
– Numero Uno, quest'uomo è sotto shock. Dovrebbe essere in
infermeria.
Riker fece sedere il primo ufficiale della Farrel su una delle sedie di
fronte alla scrivania del capitano.
– È già stato curato e sono sicuro che la Dottoressa Crusher lo avrebbe
dimesso se glielo avessi chiesto, ma non volevo disturbarla.
– In altre parole, è meglio che parliamo in fretta, prima che scopra che se
n'è andato – tradusse Picard, sedendosi di fronte a loro.
La riunione che seguì fu tutt'altro che facile. D'Amelio parve incapace e
a volte addirittura riluttante a rispondere a qualsiasi domanda sulla nave
aliena che aveva attaccato la Ferrel, e le poche risposte che diede non
fecero altro che sollevare nuovi interrogativi.
Picard trasse infine un profondo respiro per tenere sotto controllo la
sfumatura tagliente che gli si era insinuata nella voce.
– Signor D'Amelio, lei continua a sostenere che la Ferrel era dotata di
un equipaggio ridotto all'osso e questa è davvero una buona notizia:
avevamo pensato che le vostre perdite fossero state molte di più.
Comunque sono sicuro che capirà la nostra confusione... quarantasei
persone sono un equipaggio insolitamente ridotto per una nave stellare.
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– Quarantasei uomini erano tutti quelli che ci servivano.
– Che vi servivano per che cosa? – chiese Riker.
Come in precedenza, D'Amelio non rispose e lasciò invece vagare con
espressione vacua lo sguardo per la stanza mentre Picard e Riker si
scambiavano occhiate di frustrazione e di crescente scetticismo; si era
formato uno schema prevedibile: qualunque domanda riguardasse la
missione della nave provocava una perdita d'attenzione, e pur non avendo
bisogno delle abilità empatiche di Deanna Troi per rendersi conto che
D'Amelio stava nascondendo delle informazioni, Picard decise che forse il
consigliere avrebbe dovuto unirsi alla conversazione se le reazioni
dell'uomo non fossero cambiate.
Il trillo di una comunicazione in arrivo gli impedì di denunciare
apertamente l'evasività di D'Amelio.
– Crusher a capitano.
– Non si preoccupi, Dottoressa Crusher, ci stiamo prendendo cura noi
del Signor D'Amelio – rispose Picard, che si aspettava la chiamata,
studiando al tempo stesso con insoddisfazione il profilo di D'Amelio. –
Però abbiamo bisogno di fargli ancora qualche dom...
– Capitano – lo interruppe la dottoressa, – uno dei superstiti della Ferrel
è stato ferito dal colpo di un phaser a mano.
Tutti e tre gli uomini nella stanza accolsero con sorpresa quella notizia.
– Ne è sicura? – domandò Picard. – Forse il contatto con il campo di
forze alieno...
– No, non è stato il campo di forze. Lo schema di distruzione cellulare è
quello caratteristico delle ustioni da phaser. Tutti gli altri soffrono di shock,
di esposizione al vuoto, di impatto con detriti mentre quell'uomo è l'unico
portato a bordo con ferite di questo tipo. Qualcuno gli ha sparato.
Picard si rivolse di nuovo al primo ufficiale della Ferrel, questa volta
senza mascherare la sua irritazione.
– Signor D'Amelio, che cosa diavolo è successo su quella nave?
– Non so niente al riguardo – ribatté D'Amelio, uscendo a stento dallo
stato di sogno in cui era scivolato e voltandosi verso Picard e Riker. –
Onestamente, non so niente! La plancia stava crollando... non avevamo più
molto tempo e non avevamo più nessuna speranza di essere salvati, o
almeno così credevamo. Il Capitano Manin e io stavamo per avviare la
sequenza di autodistruzione.
– Ma non ci siete riusciti – commentò Picard.
– No. Stavo per confermare la mia identificazione di grado quando sono
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svenuto – spiegò D'Amelio, scuotendo la testa come se volesse schiarirsi le
idee.
– Che cosa sta facendo quell'uomo fuori dall'infermeria? – domandò
Crusher attraverso l'interfono, e soltanto allora il capitano si rese conto che
lei stava ancora ascoltando – Fatelo tornare subito...
La voce della dottoressa si interruppe bruscamente, nonostante il
collegamento fosse rimasto aperto: Picard sentì uno schianto, seguito dal
debole suono di urla in sottofondo, poi di nuovo la voce di Crusher.
– Fermo! Capitano Manin, le sue azioni non sono giustificabili...
Sicurezza in infermeria.
Nel sentire quelle parole Picard e Riker lasciarono a precipizio la saletta.
Se per sua natura l'infermeria non era fatta per essere un'arena adatta a
scontri violenti, i contendenti che si stavano affrontando in essa erano
ancora meno convincenti. La Dottoressa Crusher aveva trascinato il
Capitano Manin lontano dal paziente che questi voleva assalire, ma era più
preoccupata dal danno che l'uomo stava facendo a se stesso nel cercare di
divincolarsi e di riprendere la lotta, che del danno che avrebbe procurato
all'avversario. La sua forza era incredibile nonostante le gravi ferite, e
poteva essere dettata solo da un'ira considerevole, tanto forte da dominare
le debolezze del suo corpo.
– Dannazione a te, Deelor! Hai distrutto la mia nave e il mio equipaggio!
– urlò Manin, lottando per liberarsi dalla dottoressa.
Crusher gettò da sopra la spalla un'occhiata in direzione dell'oggetto
dell'accusa e osservò le condizioni dell'altro uomo, che si era accasciato
contro una parete con il viso coperto di sudore. Manin aveva sferrato
diversi pugni contro il petto di Deelor in un punto dove pelle e muscoli
erano gravemente ustionati, ma dal momento che sul bendaggio protettivo
non si scorgevano tracce visibili di emorragia la dottoressa attribuì il
pallore di Deelor ad un intensificarsi del dolore piuttosto che ad una nuova
perdita di sangue.
Le porte dell'infermeria si aprirono di scatto e il capo della Sicurezza Yar
si affrettò a varcarne la soglia con Riker e il Capitano Picard alle calcagna;
alla vista dell'uomo che stava lottando con la dottoressa, Yar tirò fuori il
suo phaser.
– No! – esclamò Crusher, muovendosi in modo da bloccare la linea di
tiro. – È ferito gravemente, e perfino una scarica paralizzante potrebbe
ucciderlo.
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Approfittando di quel momento di distrazione della dottoressa, il
Capitano Manin si lanciò ancora contro Deelor ma Picard si interpose tra i
due uomini alzando al tempo stesso un braccio per bloccare un pugno...
che però non arrivò mai. Manin si arrestò barcollando dopo aver mosso
appena un passo e si accasciò, sorretto da Picard che lo adagiò gentilmente
sul pavimento.
– Stia fermo o riuscirà solo a farsi del male – consigliò, ma il suono
della sua voce riuscì solo ad aumentare l'agitazione dell'uomo.
– Non è stata colpa mia – annaspò Manin, respirando affannosamente. –
Io ho eseguito gli ordini che la Flotta mi ha impartito.
– Zitto! Le ordino di stare zitto – avvertì Deelor.
Beverly Crusher si inginocchiò vicino a Picard ed esaminò l'uomo che
questi stava sorreggendo fra le braccia.
– Mi aiuti a metterlo sotto la sonda medica – disse.
I due si affrettarono a deporre il corpo ormai inerte sul lettino
dell'apparecchiatura diagnostica, ma anche senza il suo ausilio la
dottoressa aveva già notato che Manin si andava indebolendo di secondo
in secondo e la serie frenetica di ticchettii elettronici emessa dal pannello
che si era chiuso sopra il petto del ferito servì soltanto a confermare la sua
diagnosi.
– Sta cominciando di nuovo l'emorragia interna – esclamò Crusher,
chiamando alcuni assistenti. Il danno ai tessuti era esteso e passava dal
fegato, alla milza, ai reni. – Fattore coagulante – ordinò, e non appena
un'infermiera le posò una siringa sul palmo ne iniettò il contenuto nella
vena del collo di Manin. L'iniezione non fu però sufficiente ad arrestare
l'emorragia e una seconda dose ebbe soltanto l'effetto di addensare appena
il sangue, che continuò a riempire la cavità toracica. Non era possibile
somministrare una terza dose perché un'iniezione addizionale avrebbe
coagulato l'intero sistema circolatorio.
Indifferente agli sforzi di Crusher, il capitano della Ferrel afferrò il
braccio di Picard, che si chinò su di lui in risposta alla tacita richiesta di
quella debole stretta.
– Il totale controllo della missione... a un dannato burocrate – sibilò il
capitano, ansimando.
– Stai zitto, Manin! – urlò Deelor, abbandonando a fatica il sostegno
della parete e zoppicando in direzione del tavolo.
Il Tenente Yar aveva però ancora il phaser in pugno e non appena glielo
puntò contro Deelor si fermò, barcollando.
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– Sta violando la sicurezza della Flotta Stellare – continuò.
Beverly Crusher sapeva che il suo paziente era troppo debole per
sopportare un'operazione chirurgica: nonostante questo sarebbe stata
disposta a tentare comunque, se non fosse stato per il fatto che gli organi
vitali dell'uomo erano ridotti in poltiglia e non c'era più niente su cui
operare. Di conseguenza, gli somministrò invece un medicinale per
calmare il dolore.
La voce di Manin si era ridotta ad un sussurro che costrinse Picard ad
avvicinarsi ancora per cercare di sentire, ma gli giunse con chiarezza una
parola soltanto.
– Hamlin? – ripeté. – Cosa c'entra Hamlin?
Manin però non rispose e la sua mano abbandonò la presa sul braccio di
Picard.
Ignorando il grido di avvertimento di Yar, Deelor si avvicinò al lettino su
cui giaceva il ferito.
– Imbecille! – urlò. – Farò in modo che ti tolgano per sempre i gradi di
capitano.
– Non può sentirla – mormorò la Dottoressa Crusher, spegnendo l'unità
medica che sovrastava il corpo immobile. – È morto.
IV.
Diario del capitano, supplemento: gli eventi che circondano la
distruzione della U.S.S. Ferrel sono ancora avvolti nel mistero. Abbiamo
teletrasportato a bordo trenta persone da una nave che avrebbe dovuto
trasportarne centinaia, e nessuna di queste trenta è disposta a dirci perché
la loro nave è stata attaccata.
La sala riunioni della plancia era stata progettata per mettere a proprio
agio coloro che la usavano: poltroncine imbottite circondavano un tavolo
ovale dalle proporzioni generose e i larghi oblò che seguivano la curva
dello scafo erano allineati sulla parete esterna in modo da mostrare lo
splendido panorama offerto dalla miriade di stelle scintillanti. Intorno al
tavolo potevano trovare tranquillamente posto una dozzina di persone
senza che nessuno si sentisse limitato nei movimenti, ma adesso nella sala
ne erano presenti soltanto quattro.
– Consigliere, si sente bene? – domandò Picard, notando il modo in cui
Troi si era lasciata cadere pesantemente nel confortevole abbraccio della
33
larga poltrona, chiudendo gli occhi.
La Betazoide risollevò le palpebre con un tremolio delle ciglia scure.
– Sono un po' stanca – ammise con riluttanza. – I contatti con i Coloni e
con i superstiti della Ferrel mi hanno prosciugata.
– E non ci hanno dato risultati – aggiunse Riker, mentre con Data
aggirava il tavolo. – Tutti si comportano come se i nemici fossimo noi.
Quando il primo ufficiale passò dietro la poltroncina dov'era seduta Troi,
Picard la vide irrigidirsi e questo confermò il suo sospetto che la Betazoide
fosse insolitamente sensibile agli umori di Riker: la forza delle attuali
frustrazioni del primo ufficiale doveva esercitare una pressione terribile
sulle difese emotive della donna.
– Cominciamo la riunione – suggerì Picard, allontanandosi da Troi per
sedersi a capotavola e rendendosi conto che la sua stessa impazienza stava
con ogni probabilità aggiungendo turbolenza all'ambiente emotivo che
circondava la donna.
– Non riesco a capire cosa stia succedendo – commentò con irritazione
Riker, nel prendere posto a sua volta. – Secondo il loro primo ufficiale,
Deelor era un consulente assegnato alla Ferrel per aumentare la velocità
delle operazioni e delle procedure di manutenzione, ma in base agli archivi
del personale della Flotta non era un membro dell'equipaggio e non figura
neppure nella lista delle persone presenti a bordo.
– Ho richiesto al computer un controllo completo riguardo alla sua
identità – confermò Data, – e non ho avuto nessun risultato. Non esiste un
Andrew Deelor nella Flotta Stellare e neppure tra la popolazione civile
della Federazione in questo settore.
– E l'equipaggio della Ferrel non vuole dire chi abbia tentato di
ucciderlo o perché lo abbia fatto. Sembra che tutti stessero guardando in
un'altra direzione quando gli hanno sparato – esclamò Riker, con evidente
disgusto. – Deanna, perché non dici al capitano quello che hai percepito?
Troi esitò, cercando di trasformare in parole le impressioni che aveva
avvertito.
– Sono riuscita a captare un incredibile caos di emozioni in conflitto tra
loro: dolore per la morte del loro capitano, rabbia... quasi ira alla menzione
del nome di Deelor, e sempre un enorme bisogno di segretezza. Se anche
sanno qualcosa, non lo ammetteranno a meno di costringerli con la forza.
– Questa non è un'inquisizione – puntualizzò Picard, con un cenno
ammonitore della mano. – Tuttavia non posso permettere che l'incidente
rimanga irrisolto: devo sapere che cosa è successo alla Ferrel, se non altro
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per proteggere l'Enterprise! – Aggrottò la fronte di fronte all'improvvisa
immagine della sua nave contorta e distrutta, del suo equipaggio e dei
passeggeri che fluttuavano tra i relitti, poi la respinse con decisione e
chiese: – Cosa sapete dell'altro civile... mi riferisco alla donna.
– Si chiama Ruthe – rispose Riker, con un sospiro carico di
esasperazione. – Non vuole dirci il suo cognome e non risponde a
nessun'altra domanda. Ripete in continuazione «chiedetelo a Deelor».
– Il quale non si sente abbastanza in forze per rispondere – commentò
Picard; non appena era stata annunciata la morte di Manin, Deelor si era
infatti abbandonato ad uno svenimento molto comodo ma assai poco
convincente. – Le sue ferite sono abbastanza reali, ma il tempismo ha un
che di familiare: sta recitando la parte del debole – continuò in tono grave,
– proprio come D'Amelio faceva finta di essere sotto shock. Ma perché?
Che cosa stanno nascondendo?
Un messaggio del Tenente Yar proveniente dall'interfono interruppe
temporaneamente la riunione.
– La Colona Patrisha ha chiamato di nuovo la plancia: insiste nel voler
parlare personalmente con lei, capitano – comunicò la voce del tenente,
resa più dura dall'irritazione.
– Le dica... – cominciò Picard, ma poi rifletté rapidamente e si trattenne
dal completare la frase. – Le dica che è tutto sotto controllo e che la
incontrerò non appena i miei doveri me lo permetteranno – concluse,
interrompendo il collegamento con uno scatto secco del dito. – I
passeggeri, come i bambini, dovrebbero poter essere visti ma non sentiti –
dichiarò, senza rivolgersi a nessuno in particolare, poi accantonò il
pensiero dei Coloni di Oregon e ritornò al mistero della Ferrel: – Hamlin!
Per me ha un solo significato... il massacro di Hamlin. All'epoca ero
soltanto un bambino, ma ricordo bene quell'incidente.
– Ho letto i resoconti storici all'Accademia – spiegò Riker, accorgendosi
dello sguardo interrogativo di Troi. – Hamlin era una colonia di minatori
posta lungo la frontiera della Federazione. Cinquant'anni fa i suoi abitanti
riferirono un primo incontro con una nuova razza aliena, ma subito dopo le
comunicazioni si interruppero improvvisamente e la successiva nave di
rifornimento che raggiunse il pianeta scoprì che tutti i Coloni erano stati
uccisi.
– Non tutti, solo gli adulti – lo corresse Data. – I bambini della colonia
erano scomparsi, presumibilmente anch'essi erano morti.
– Alcuni dissero che erano stati mangiati – mormorò Picard in tono
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cupo, come se stesse rievocando con quelle parole una frase da lungo
tempo dimenticata.
– Domanda: mangiati, come dire consumati? Usati come fonte di cibo?
Immediatamente Picard si pentì di aver fatto quel commento e cercò di
evitarne l'approfondimento.
– Sì, o almeno questa possibilità venne data nelle versioni dei fatti che
miravano a creare maggiore sensazione – si affrettò a spiegare, poi si
rivolse a Riker e proseguì: – Gli alieni che hanno attaccato la Ferrel
potrebbero essere gli stessi responsabili del massacro di Hamlin?
Data però non si lasciò distrarre dalla nuova linea della discussione.
– Forse l'equipaggio mancante della nave stellare è stato anch'esso
mangiato – insistette. – Anche se la consumazione di parecchie centinaia di
corpi dovrebbe presupporre una fame piuttosto considerevole.
Un'altra chiamata del Tenente Yar salvò il capitano dal dover rispondere.
– Non saranno ancora i Coloni, vero? – domandò Picard.
– No, signore. Sto ricevendo una trasmissione dalla Base Stellare Dieci
di Zendi.
– Se la sono presa comoda per risponderci, signore – osservò Riker,
appoggiandosi allo schienale reclinabile della poltroncina e incrociando le
braccia sul petto. – Il tempo che una comunicazione impiega a raggiungerli
è soltanto di poche ore, non di un giorno intero.
– Anche se sono in ritardo, almeno avremo qualche risposta
dall'Ammiraglio Zagráth – dichiarò Picard. – Passi la trasmissione qui,
tenente.
– Le consiglio di ricevere il messaggio nel suo ufficio, signore. La
trasmissione è cifrata, Codice 47... riservato a lei soltanto.
– Il messaggio durava solo tre minuti, ma lui è là dentro ormai da ore –
protestò Yar, appoggiandosi alla ringhiera di poppa e fissando la parete che
separava la plancia dalla saletta tattica del capitano.
– Dieci minuti e dodici secondi – puntualizzò Data, facendo ruotare la
consolle operazioni in modo da mettersi di fronte agli altri ufficiali di
plancia. – Non è un tempo eccessivamente lungo per analizzare una
trasmissione segreta... o almeno non lo è per un Umano.
– Io direi che venti minuti sono un tempo eccessivo – dichiarò Geordi,
quando l'attesa continuò a protrarsi. – Dopo tutto, nell'arco di venti minuti
quante volte si può ascoltare un messaggio che ne dura tre?
– Sei punto sei, sei, sei, sei...
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– Data – chiamò Yar, interrompendo il calcolo dell'androide. – C'è stata
qualche attività del terminale del computer del capitano?
– Non secondo i miei... – cominciò l'androide.
– Adesso basta, Data – intervenne Riker, scuotendo la testa con
decisione. – Stiamo sfiorando l'invasione di privacy, e del resto sapremo
presto cosa sta succedendo.
Passarono altri dieci minuti, poi il primo ufficiale si rivolse a Troi.
– Non hai detto molto sull'assenza del capitano. Non sei curiosa?
– Questa è una domanda tendenziosa e tu lo sai – rispose la donna, in
tono pungente. – Dov'è andata a finire la tua preoccupazione per la sua
privacy?
Geordi e Data si girarono entrambi dalle loro postazioni per fissare in
silenzio il consigliere e nel lanciare un'occhiata verso l'alto Deanna si
accorse che anche Yar e Worf la stavano guardando.
– Se proprio volete saperlo – sospirò, – percepisco in lui una grande
rabbia e sento che sta cercando di ritrovare il controllo.
Qualsiasi ulteriore spiegazione fu interrotta dal rumore della porta della
sala tattica che si apriva e si richiudeva. Con il viso teso in un'espressione
che mascherava ogni emozione, Picard raggiunse con passo rigido la parte
anteriore della plancia dove si fermò sull'attenti con le spalle rivolte al
visore, emettendo un secco colpo di tosse come per richiamare all'ordine
una classe indisciplinata.
– Secondo le istruzioni ricevute dal Comando della Flotta Stellare –
scandì con voce piatta e priva di inflessioni, rivolto ad un punto
imprecisato al centro della stanza, – non ci saranno ulteriori discussioni tra
i membri dell'equipaggio riguardo agli eventi di cui siamo stati testimoni
dopo la richiesta di soccorso della Ferrel. Tutte le registrazioni dei diari di
bordo e i dati dei sensori che riguardano la U.S.S. Ferrel e il suo attaccante
verranno posti sotto sigillo. Confido che ognuno di voi seguirà queste
istruzioni alla lettera.
Il trillo di una chiamata in arrivo infranse il silenzio carico di disagio che
seguì l'annuncio del capitano, poi Yar bloccò il penetrante suono sfiorando
velocemente la sua consolle comunicazioni.
– Sono i Coloni di Oregon, capitano.
– Informi la Colona Patrisha che la vedrò immediatamente – affermò
Picard in tono piano. Aveva già raggiunto le porte del turboascensore
quando si voltò – Data, a lei il comando. Numero Uno, ho bisogno della
sua assistenza.
37
Riker non fece domande mentre la cabina scendeva ponte dopo ponte
attraverso il centro della sezione a disco; con lo sguardo fisso di fronte a
sé, mantenne una posizione marziale degna dell'apparenza severa del
capitano.
– Fermo! – ordinò improvvisamente Picard, interrompendo la corsa del
turboascensore. Una luce d'allarme segnalò che si trovavano tra due ponti
– Come primo ufficiale, lei ha il diritto di conoscere almeno una parte del
contenuto della trasmissione.
– Ufficiosamente, presumo – mormorò Riker, guardandosi intorno nel
piccolo compartimento. – Questo mi sembra un luogo poco ortodosso per
una riunione.
La linea tesa della bocca di Picard si curvò appena in un accenno di
sorriso.
– Sembra che il misterioso Andrew Deelor esista davvero e che la sua
posizione sia anche piuttosto importante. L'Ammiraglio Zagráth lo ha
definito un ambasciatore diplomatico – spiegò, con un secco colpo di tosse
che tradiva il suo scetticismo. – È possibile che lo sia, ma è più probabile
che appartenga ai Servizi di Sicurezza della Flotta.
– Questo potrebbe spiegare perché la Ferrel aveva un equipaggio così
ridotto. Massima segretezza, massimi rischi.
– Sì, ma probabilmente noi non sapremo mai che cosa stavano facendo
qui. L'intero incidente della Ferrel è stato nascosto dietro un velo di
segretezza... nell'interesse della sicurezza della Federazione – concluse
Picard, facendo ripartire l'ascensore.
Quella semplice frase fece scattare le proteste di Riker.
– Ma, capitano, questa è la più alta classificazione di sicurezza in uso.
– Proprio così.
Le porte del turboascensore si aprirono mettendo fine alla discussione.
Quando sentì suonare il campanello della porta, Patrisha trasse un
profondo respiro e si portò sulla soglia dell'alloggio passeggeri.
– Avanti – invitò e le porte si aprirono da sole. Che stupido spreco di
energia, pensò, mettendo poi da parte il suo disprezzo per accogliere i due
uomini che stavano entrando. – Grazie per essere venuto, capitano – disse
al più anziano dei visitatori. Non era mai stata presentata a Picard, e non
aveva ancora capito come distinguere i gradi che decoravano i colletti delle
uniformi della Flotta, ma aveva imparato a riconoscere l'atteggiamento di
un comandante: gli ufficiali di quel tipo camminavano con una grazia e
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un'arroganza caratteristiche, e quell'uomo era molto più altezzoso degli
altri che aveva visto a bordo della nave stellare. Si rivolse poi all'altro
uomo, che le era già familiare. – Ben ritrovato, Signor Riker.
– Dopo un tempo troppo lungo, Colona Patrisha.
Il sorriso dell'uomo più giovane era molto più caloroso di quello del suo
compagno, e Riker le aveva risposto nell'idioma dei Coloni, quindi
Patrisha avrebbe preferito continuare la conversazione con lui... ma sapeva
che quella gente aveva modi diversi e che le sue rigide gerarchie dovevano
essere onorate.
– Ho saputo che il nostro allarme vi ha disturbato – osservò il capitano.
– L'intera comunità è piuttosto preoccupata dagli eventi recenti... e lo
dico a nome di molti – confermò Patrisha. Il capitano aveva affrontato il
nocciolo del discorso molto bruscamente, ma del resto anche lei non aveva
alcun desiderio di prolungare l'incontro.
– Sì, così mi è stato detto – annuì Picard, scoccando una rapida occhiata
in direzione dell'altra stanza dell'alloggio.
Patrisha arrossì per quell'asciutto commento, consapevole che il capitano
aveva sentito il furtivo fruscio di corpi in movimento e di voci sussurranti
che proveniva dall'altra parte della parete e si rendeva certamente conto
che alcuni ascoltatori si nascondevano appena fuori del suo campo visivo.
Per coprire il proprio imbarazzo si rifugiò nell'enunciazione di uno dei
principi dei Coloni: – Capitano Picard, noi siamo gente pacifica.
– Sono spiacente se il nostro recente incontro ha messo in agitazione
qualcuno di voi. Per favore assicuri la sua gente che non siamo mai stati in
pericolo e che la nave che ci ha attaccati ha lasciato questo settore – la
rassicurò Picard, senza che però ci fosse alcun tono di scusa nella sua voce.
– Il punto è un altro, capitano: noi non abbiamo intenzione di prendere
parte ad azioni militari di sorta.
– Capisco bene la vostra preoccupazione. Comunque è compito
dell'Enterprise assistere le navi in difficoltà e questa particolare situazione
richiedeva una dimostrazione di forza, deplorevole certo, ma necessaria.
Riprenderemo il viaggio verso New Oregon presto, molto presto.
– Ma perché questo continuo ritardo? – insistette Patrisha. Se doveva
difendere la comunità... e certamente nessuno degli altri Coloni aveva la
volontà di confrontarsi con il capitano... allora doveva porre le necessarie
domande.
Fu Riker a risponderle.
– Stiamo assistendo l'equipaggio della nave danneggiata per la
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necessaria manutenzione in modo che possa raggiungere la Base Stellare
Dieci.
Dal modo in cui Picard stava spostando di continuo il proprio peso da un
piede ad un altro, Patrisha si accorse che la sua pazienza si stava
assottigliando e pensò che in questo il capitano assomigliava a Dnnys,
pronto a lasciare a precipizio una stanza appena un minimo di cortesia
fosse stata soddisfatta. In ogni caso, non riuscì a farsi venire in mente
nessun'altra domanda e pose quindi fine alla conversazione.
– Non voglio trattenerla dal suo lavoro più del necessario.
Questa era la tradizionale forma di congedo dei Coloni, ma Picard
rimase immobile, come se si fosse improvvisamente reso conto del suo
comportamento palesemente impaziente, e riuscì a esibire un sorriso
sincero prima di andarsene.
– Chiamate pure il Consigliere Troi se avete bisogno di qualsiasi
ulteriore assistenza.
– Lo farò con piacere – garantì cortesemente Patrisha, accompagnando i
due uomini alla soglia, poi tirò uno stanco sospiro di sollievo non appena
la porta della cabina si fu richiusa e gli stranieri furono tornati al posto che
spettava loro: fuori dall'alloggio. Pochi secondi dopo un'altra porta si aprì
dietro di lei.
– Si sono lasciati dietro la puzza della loro tecnologia – esclamò Dolora,
annusando rumorosamente l'aria nell'attraversare la stanza.
– Oh, per favore – gemette Patrisha, ma fu soffocata dal chiacchiericcio
delle voci che si avvicinavano a mano a mano che altri Coloni venivano
fuori dai loro nascondigli e si affollavano nell'area del soggiorno.
– Sei stata anche troppo accomodante – tuonò Tomas, con la consueta
veemenza. – Non possono trattenerci qui contro la nostra volontà.
– Al contrario. Non abbiamo scelta al riguardo, anche se il Capitano
Picard è stato abbastanza diplomatico da non farlo notare – ribatté
Patrisha, rendendosi conto che soltanto Tomas riusciva a farla arrabbiare
tanto da portarla a difendere degli stranieri.
– È un oltraggio, e il governo di Grzydc deve essere informato del
trattamento che viene inflitto ai suoi cittadini – dichiarò Dolora, agitando
un dito in direzione del corridoio.
– Loro non ci hanno mai trattati meglio – brontolò un'altra donna.
– Gli stranieri non conoscono il significato del rispetto – gridò un uomo,
dalla parte opposta della stanza. – Non possiamo aspettarci decenza da
nessuno di loro.
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Cercare di far ragionare i Coloni con argomenti razionali le avrebbe solo
fatto perdere la voce, perciò Patrisha si gettò sul divano e chiuse la sua
mente ai resoconti dei torti veri o presunti che i suoi compagni stavano
facendo. Quella stessa situazione si era ripetuta con minime variazioni da
quando un anno prima erano partiti per il loro viaggio verso New Oregon,
e il guaio era che sebbene quelle proteste stessero diventando un'abitudine
questo non diminuiva affatto la noia che le derivava dal sentirle.
– I Coloni hanno accettato il ritardo con molta più calma di quanto
credevo – fece notare Picard a Riker, allontanandosi dagli alloggi dei
passeggeri. Il primo ufficiale non si era lamentato, ma le voci delle
tempeste d'umore dei colonizzatori avevano raggiunto il capitano
attraverso altri canali.
– Quella particolare Colona ha preso bene la notizia – puntualizzò a
malincuore il primo ufficiale, camminando lungo il corridoio, – e
comunque ormai si devono essere rassegnati ai ritardi. Il gruppo ha
aspettato per quasi un mese alla Base Stellare prima che noi fossimo
incaricati di trasportarlo per il resto del viaggio. Il loro mondo d'origine ha
usato la sua influenza diplomatica per far salire la comunità a bordo
dell'Enterprise.
– Non credevo che Grzydc avesse qualche influenza – commentò il
capitano entrando nel turboascensore.
– Secondo Wesley – precisò Riker, dopo aver ordinato alla cabina di
dirigersi verso la plancia, – il governo di Grzydc ha in effetti pagato di
tasca propria il nuovo territorio dei Coloni.
– Le aree terraformate sono molto costose – rifletté Picard. – Sono
sorpreso che un pianeta così povero di risorse come Grzydc sia stato
propenso ad aiutare un gruppo di cittadini naturalizzati.
– Potrebbe essere parso un prezzo accettabile pur di allontanarli dal
pianeta – replicò Riker, con una risata priva di allegria.
L'ascensore rallentò fino a fermarsi e Picard e il suo primo ufficiale
entrarono in plancia nel mezzo di un confronto piuttosto rovente tra il
Capo della Sicurezza Yar e Andrew Deelor. All'ingresso del capitano Yar
smise di gridare e scattò sull'attenti, mentre Deelor infilò i pugni serrati
nelle tasche della sua giacca medica di colore azzurro; accanto a lui,
ancora avvolta nel suo mantello, la donna conosciuta soltanto con il nome
di Ruthe non appariva per nulla scossa dall'agitazione.
– Qual è il problema? – chiese Picard, rivolgendosi al Tenente Yar ma
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mantenendo la sua attenzione su Deelor: i dettagli relativi al suo aspetto
fisico si erano affievoliti nella sua memoria dopo il loro primo breve
incontro in infermeria perché l'ambasciatore aveva un viso poco originale,
né bello, né brutto e facilmente dimenticabile, ed era di media altezza e di
media corporatura... in fondo un uomo per niente particolare.
– L'Ambasciatore Deelor non vuole lasciare la plancia come richiesto –
spiegò Yar, usando il titolo dell'uomo con un tono tale da rendere palesi i
sospetti che aveva sulla sua autenticità. – Ero sul punto di chiamare una
squadra di Sicurezza per farlo accompagnare al suo alloggio.
– Ha agito correttamente, Tenente Yar – annuì Picard, poi si rivolse a
Deelor e alla sua compagna e aggiunse: – I passeggeri non sono ammessi
in plancia senza mio permesso esplicito.
– Io non sono un comune passeggero – puntualizzò Deelor.
– Evidentemente no – convenne Picard, con un sorriso che però non gli
si rifletteva negli occhi. – Si è ripreso molto bene dalle sue ferite,
ambasciatore.
– La Dottoressa Crusher è un medico molto abile e mi sento decisamente
meglio – ammise Deelor, sfilando le mani dalle tasche della giacca e
abbandonando le braccia lungo i fianchi, senza però riuscire ad attenuare la
tensione nelle spalle.
– Bene. Allora potrà rispondere ad alcune delle mie domande – decise
Picard, e invitò i due civili a percorrere la rampa della plancia che portava
all'ingresso del suo ufficio; quando però lui e Riker si avviarono per
seguirli nella stanza, Deelor scosse il capo di fronte alla presenza del primo
ufficiale.
– Meglio se parliamo da soli, capitano – ordinò, senza neppure
pretendere di far sembrare che si trattasse di una richiesta.
– Come desidera, ambasciatore – acconsentì Picard, e segnalò a Riker di
obbedire.
Apparentemente ignara della tensione presente nella stanza, Ruthe stava
intanto fissando affascinata i pesci racchiusi nell'acquario inserito nella
parete; Riker la aggirò con passo deciso per andarsene, e non appena la
porta si fu chiusa alle sue spalle Picard oltrepassò gli ospiti per andare a
occupare il posto che gli spettava... in piedi dietro la scrivania con la
schiena rivolta all'oblò e le dita posate con leggerezza sulla superficie
levigata del tavolo da lavoro.
– L'Ammiraglio Zagráth è stato molto chiaro nel ribadire che devo
evitare qualsiasi domanda in merito all'attacco contro la U.S.S. Ferrel, ma
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vorrei sapere se questo significa che dovrò anche sospendere ogni indagine
sull'aggressione da lei subita...
– Non ho subito nessuna aggressione, capitano – affermò Deelor. – Le
mie ferite sono state il risultato di un incidente.
– Sono contento di sentirlo. In questo caso lei sarà perfettamente al
sicuro a bordo della Ferrel durante il viaggio di ritorno alla Base Stellare
Dieci di Zendi. Naturalmente si tratterà di una sistemazione un po'
primitiva vista la presenza di circa trenta persone accalcate nell'area dei
servizi della sezione Ingegneria, ma il viaggio durerà solo otto o nove
settimane.
Un sorriso ironico incurvò appena gli angoli della bocca di Deelor.
– Touché, capitano... facciamola finita con questo duello verbale, visto
che ormai lei sa già troppo, anche se non abbastanza.
L'ambasciatore accostò una sedia alla scrivania e si sedette,
appoggiandosi all'indietro e inclinando lo schienale con un'angolazione
che gli permettesse di stare comodo; in risposta a quel gesto, Picard prese
posto sulla sua poltrona ma mantenne un atteggiamento eretto e non si
lasciò ingannare dalla pretesa informalità dell'altro.
– Non ho nessuna intenzione di ritornare sulla Ferrel – ammise intanto
Deelor. – Come lei ha giustamente sottolineato, il viaggio sarà poco
confortevole e piuttosto noioso, e il malumore può degenerare facilmente
sotto lo stress del confinamento.
– L'equipaggio della Ferrel la odia. Perché?
– Perché avevo il comando della missione e un'autorità superiore a
quella del loro capitano... e perché ho sottovalutato la forza del nostro
avversario: come probabilmente ha intuito, gli alieni che ci hanno attaccati
sono anche i responsabili di uno sfortunato incidente verificatosi sul
pianeta Hamlin.
– Il massacro di Hamlin – mormorò Picard, con la voce atona,
consapevole che quelle parole evocavano ancora in lui un senso di shock.
– Trecento persone uccise senza ragione. Una tale strage di solito viene
considerata qualcosa di più che un «incidente».
– Vedo che non ho bisogno di spiegarle tutti i dettagli – affermò Deelor,
inarcando le sopracciglia.
– Che cosa sa di questi alieni?
– Loro si autodefiniscono i Choraii.
– Choraii – ripeté lentamente Picard: così adesso il nemico aveva un
nome. – Quindi il vostro non è stato un incontro fortuito.
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– Oh, non lo è stato affatto. Ci sono voluti mesi di contatti radio per
programmare l'incontro tra la Ferrel e una nave Choraii. – Deelor fece una
pausa, incerto, e quando riprese la spiegazione il suo atteggiamento si fece
meno arrogante. – Ero preparato ad un'azione ostile dei Choraii, che
avrebbero certamente voluto mettere alla prova le nostre difese. Era
essenziale che la Ferrel mostrasse una forza militare uguale alla loro,
abbastanza decisa da guadagnarsi rispetto ma non così potente da
spaventarli.
– Cosa è andato male? – domandò Picard.
– Ho sbagliato i miei calcoli, aspettando troppo a lungo. I Choraii hanno
interpretato l'attesa come una debolezza e si sono avvicinati per finirci. La
loro rete è stata una sorpresa e le nostre riserve d'energia non sono state
capaci di resistere alla pressione del campo per più di poche ore. Una
lezione dura ma preziosa e la prossima volta, con l'Enterprise, avrò
successo.
– Non con la mia nave! – esclamò Picard, calando con violenza il palmo
aperto della mano sulla scrivania.
– Ho l'autorità di prendere il comando... o forse l'ammiraglio non glielo
ha detto? – ritorse Deelor, con rinnovata arroganza.
Facendo appello a trent'anni di disciplina da ufficiale di Flotta, Picard
soffocò l'impulso di coprire la distanza che lo separava da Deelor con un
balzo per insegnare fisicamente all'ambasciatore qual era il suo posto.
– Sì, mi ha informato anche di questo – dichiarò infine. Quella
particolare porzione della trasmissione aveva acceso in lui un'ira che gli
bruciava ancora dentro. – E quale sarebbe, se posso chiederlo, lo scopo del
contatto con i Choraii?
Quella capitolazione di fronte alla sua autorità fece affiorare una traccia
di compiacimento sul viso di Deelor, e Picard sentì la propria mascella che
si serrava per reazione... se soltanto avesse potuto cancellare quel sorriso.
– I Choraii sono alla ricerca di un assortimento di metalli: zinco, oro,
platino, piombo. Evidentemente non hanno la capacità di raffinare i
minerali che trovano sugli asteroidi. Se torna a loro vantaggio, uccidono
per ottenere ciò di cui hanno bisogno, mentre la mia missione è quella di
persuaderli a firmare invece con noi un trattato di scambi commerciali.
– Un trattato! – esclamò Picard, indignato. – E che cosa dovremmo
scambiare? Cos'hanno loro che potrebbe anche lontanamente interessarci?
– I bambini di Hamlin – rispose Ruthe, facendosi avanti.
44
V.
La U.S.S. Ferrel era sospesa nello spazio e il soffice bagliore delle sue
quattro lunghe gondole a curvatura inondava la sagoma distorta della
sezione principale punteggiata da file di oblò scuri e senza vita.
Affiancato dal suo primo ufficiale e dal consigliere della nave, Picard
studiò la scena seduto sulla comoda e sicura poltrona di comando della
plancia dell'Enterprise.
– Ne è sicuro, Numero Uno? – domandò in tono dubbioso, mentre
esaminava nuovamente l'immagine sullo schermo visore.
– Sembra incredibile anche a me – ammise Riker, scrollando le spalle, –
ma Logan giura che i motori della Ferrel possono resistere a piena velocità
d'impulso per il tempo necessario a raggiungere la Base Stellare Dieci. –
Allungando una mano tracciò la linea del danno e aggiunse: – Il campo di
forza era avvolto attorno allo scafo principale e ha schiacciato la sezione a
disco su se stessa, ma le gondole non hanno subito danni. Le nostre
squadre di manutenzione hanno sigillato i passaggi diretti alla sezione
danneggiata e hanno concentrato i loro sforzi per riattivare i servizi
essenziali della nave nelle aree rimanenti. Non ci sono né gravità né
sintetizzatori di cibo, niente comodità insomma, ma l'equipaggio potrà
sopravvivere.
– Non è proprio la mia idea di un bel modo di viaggiare! – mormorò
Geordi tra i denti, ma il capitano sentì il suo commento.
– Sono d'accordo, Signor La Forge, e adesso che hanno visto cosa li
aspetta forse gli uomini dell'equipaggio della Ferrel cambieranno
opinione. Tenente Yar, apra un canale audio con la nave.
Nonostante l'Ingegnere Logan avesse fatto del suo meglio per ripararla,
la sezione comunicazioni dello scafo principale era troppo danneggiata per
fornire un contatto visivo.
– Canale aperto, capitano.
– Siete ancora del parere di intraprendere questo viaggio, Signor
D'Amelio?
– Il Capitano Manin ritornerà a casa con la sua nave. Non vogliamo fare
diversamente – replicò la voce del primo ufficiale, fluttuando dagli
altoparlanti.
– Sono decisi a rimanere sulla loro nave, ma non solo per onorare il loro
capitano – sussurrò il Consigliere Troi, protendendosi verso Picard. – Sono
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impazienti di troncare ogni rapporto con l'Ambasciatore Deelor.
Picard comprendeva fin troppo bene quel sentimento.
– Come preferisce, comandante. La Ferrel è libera di andare e vi auguro
buona fortuna per il vostro viaggio.
Una scarica di statica rese innaturale e aspra la risata di risposta.
– Non sprechi la fortuna con noi, Capitano Picard. Lei ne avrà molto più
bisogno.
La U.S.S. Ferrel partì senza ulteriori indugi: i suoi motori si accesero
con un improvviso brivido che scosse la struttura distorta, poi la nave
cominciò a spostarsi con estrema lentezza sul visore. Picard osservò con
un crescente senso di disagio l'immagine oltrepassare i limiti dello
schermo, tormentato dal dubbio che quella sua sensazione non fosse
causata dal pensiero delle condizioni disastrate della Ferrel bensì dalla
consapevolezza di un pericolo imminente per la propria nave... le parole di
commiato di D'Amelio gli risuonavano ancora nella mente come una
sirena d'allarme.
In più di un'occasione l'Enterprise si era dimostrata capace di agire come
una vera nave da combattimento, ma la sua missione di base era pacifica.
A differenza delle navi che Picard aveva comandato in precedenza questa
trasportava famiglie e ci erano volute settimane perché lui si abituasse a
veder girare bambini nei corridoi: essi erano il simbolo più evidente
dell'espansione della popolazione e la loro presenza lo disturbava perché
gli ricordava infatti costantemente che la natura delle sue responsabilità era
stata alterata totalmente, e questo lo rendeva nervoso. Con una nave come
la Stargazer, Picard non avrebbe esitato un attimo a tentare di salvare i
prigionieri di Hamlin, ma con l'Enterprise era diverso. Quali erano i suoi
doveri, adesso? Poteva permettersi di rischiare un migliaio di vite per quei
bambini da lungo tempo dimenticati? Il fatto che più lo turbava era però il
timore che forse ormai l'autorità di prendere tali decisioni non spettasse più
al capitano dell'Enterprise.
– Capitano – chiamò Data, dal timone. – Ho calcolato la traiettoria della
nave Choraii secondo le letture dei nostri sensori ed ho già inserito la rotta.
L'androide rimase quindi in attesa di ulteriori ordini, e se anche provò
sorpresa per l'esitazione di Picard, non lo diede a vedere.
– Avanti a curvatura quattro, Signor La Forge – ordinò infine il capitano,
dopo aver aspettato in modo che la decisione fosse veramente sua e non
dell'ambasciatore. Sapeva che il risultato era identico, ma al tempo stesso
era sottilmente diverso. – Signor Riker – continuò quindi, rivolto alla sua
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destra, – riunisca gli ufficiali di plancia sul ponte d'osservazione. Tenente
Yar, informi l'Ambasciatore Deelor che siamo pronti per cominciare la
riunione.
L'alloggio riservato ai visitatori era spazioso e persino lussuoso in
confronto al piccolo alloggio a bordo della Ferrel, ma l'ambasciatore era
troppo preoccupato per accorgersene, e a Ruthe non importava affatto.
Deelor studiò il proprio riflesso nello specchio dell'area da letto e con
pignoleria finì di sistemarsi l'uniforme nera, notando con piacere che la
pelle sintetica che ricopriva le bruciature era troppo sottile per vedersi
sotto la stoffa; non era un uomo vanitoso, ma sapeva che ogni piccola
imperfezione della sua immagine autoritaria poteva indebolire la sua
posizione.
Soddisfatto del proprio aspetto, spostò infine l'attenzione sul riflesso
della donna che si trovava alle sue spalle.
– Anche tu avresti bisogno di abiti nuovi.
– No – rifiutò Ruthe, e si appallottolò sul letto, avvolgendosi nel
mantello. Il suo mantello era stato pulito, ma la stoffa era lisa e l'originale
colore scuro era sbiadito fino a trasformarsi in un grigio ineguale.
Deelor la conosceva abbastanza bene da sapere che non era il caso di
insistere e ritornò invece su un argomento precedente.
– Lascia parlare me durante la riunione.
Il viso di lei fece capolino da sotto una piega del mantello.
– È quello che faccio sempre... almeno nella maggior parte dei casi.
– Sì, ma sono le volte in cui non lo fai a preoccuparmi. Picard non è uno
stupido e approfitterà di ogni nostro minimo sbaglio. È molto importante
che... – Si interruppe e si avvicinò a Ruthe, che si era raggomitolata in una
palla senza forma, sedendole accanto sul bordo del letto e accertandosi che
lo ascoltasse prima di continuare. – È molto importante, per il nostro bene,
che lui non sappia più di quanto io voglio fargli sapere.
– Allora perché andiamo a parlargli? – domandò lei, con la voce
soffocata dalla stoffa.
– Non lo farei se potessi evitarlo – ammise Deelor, poi la tirò
gentilmente per il gomito. – Andiamo. Ci stanno aspettando.
Dalla sua posizione vicino alla porta, Picard osservò l'afflusso degli
ufficiali di plancia nella sala riunioni. Il Tenente Worf fu il primo ad
entrare e, oltrepassando il capitano, scelse una poltrona con il muro alle
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spalle; dopo il Klingon giunsero Data e Geordi... l'androide prese il
controllo della consolle d'accesso al computer e Geordi si sedette accanto a
lui.
– È in anticipo – notò Picard, quando la Dottoressa Crusher oltrepassò la
porta.
– Succede.
– Legga questo mentre aspettiamo che la riunione abbia inizio – suggerì
il capitano, porgendole un rapporto medico su Hamlin fornito da Deelor.
La dottoressa accettò il plico e lo portò con sé al tavolo.
Dopo qualche momento, arrivò il secondo gruppo e la Dottoressa
Crusher sollevò gli occhi dalle pagine in tempo per vedere suo figlio
entrare con Tasha Yar e Deanna Troi; istintivamente sollevò il braccio per
far cenno a Wesley di venire a sedersi accanto a lei, ma si fermò in tempo a
metà del gesto e per coprire il movimento finse di grattarsi la punta del
naso, particolare che non sfuggì all'attenzione divertita di Picard.
– Dov'è l'ambasciatore? – domandò Riker, entrando nella sala in perfetto
orario. – E Ruthe?
– Già, viaggiano sempre in coppia – rifletté Picard. – Chi sarà mai quella
donna? Un'assistente, un'attaché, un'aiutante? – Quelli erano tutti termini
talmente intercambiabili da avere poco senso, ma senza i quali non si
poteva spiegare la presenza di Ruthe.
– Un'amante? – azzardò Riker. – Hanno rifiutato la proposta di alloggi
separati.
– Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere sua moglie – replicò Picard,
scrollando le spalle, e proprio mentre pronunciava quella frase le porte si
aprirono, rivelando Deelor e Ruthe fermi sulla soglia... nel vederli, Picard
si chiese quanto avessero sentito dello scambio di battute.
– La presenza di tutta questa gente è inaccettabile, capitano – esclamò
Deelor, non appena vide il numero di persone raggruppato nella sala. –
Specialmente quella del ragazzo.
– Non intendo mandare il mio equipaggio incontro a questa o ad altre
missioni senza che tutti gli ufficiali di plancia siano completamente al
corrente della situazione. E tra gli ufficiali è incluso il Guardiamarina
Crusher. Ho la massima fiducia nella loro discrezione – replicò Picard,
andando ad occupare il proprio posto all'estremità del tavolo.
Deelor espresse la sua insoddisfazione aggrottando la fronte, ma non
aggiunse altro e si sedette su una delle sedie vuote accanto al capitano; con
la coda dell'occhio Picard vide Ruthe rifiutare l'offerta di Riker di sedersi
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accanto a lui: la donna restò in piedi sul fondo della sala, scivolando
nell'ombra.
– Allora, possiamo cominciare – ordinò Deelor, come se gli ufficiali lo
avessero fatto attendere.
Picard rivolse un cenno a Data, che attivò il display del computer al
centro del tavolo: una nave a bolle in miniatura si materializzò, sospesa
appena al di sopra della superficie levigata.
– Quindici anni fa – cominciò Deelor, senza preamboli, – un mercante
Ferengi incontrò una nave Choraii ridotta piuttosto male che andava alla
deriva nello spazio. La loro riserva di zinco si era esaurita, immobilizzando
la nave. I Ferengi, pensando ad eventuali futuri profitti, scambiarono
qualche chilo di quel metallo con l'unica merce di qualche pregio che i
Choraii potevano offrire: cinque Umani prigionieri. In seguito i Ferengi
offrirono quegli uomini alla Federazione, e vollero essere pagati una
considerevole cifra per ognuno di loro... fu così che venimmo finalmente a
sapere che fine avevano fatto i bambini di Hamlin: sono stati a bordo delle
navi Choraii per oltre quarant'anni.
La voce senza inflessioni dell'uomo non riuscì ad eliminare il senso
d'orrore che permeava quella storia.
– Cinque sopravvissuti – osservò Picard. – Ma dai rapporti dell'epoca
risultò che i bambini dispersi della colonia ammontavano a quarantadue.
Quanti altri ne sono stati recuperati da allora?
– Altri otto.
Il Tenente Worf emise un brontolio molto basso, mentre gli altri membri
dell'equipaggio lasciarono trapelare la loro rabbia in maniera meno diretta,
agitandosi appena sulla sedia e scambiandosi occhiate cupe.
– Dovete capire le difficoltà che abbiamo dovuto affrontare – proseguì
Deelor. – I Choraii non hanno altra dimora che le loro navi, e sebbene
viaggino in gruppi sparsi ogni vascello è autonomo e non forma con gli
altri nessuna entità politica globale. Inoltre sono nomadi e percorrono
vaste aree di spazio inesplorato facendo così perdere le loro tracce per
anni, e anche dopo che abbiamo appreso della loro ricomparsa in questo
settore ci sono voluti mesi per scoprire la loro esatta posizione e settimane
di contatti radio per convincerli a stabilire un incontro per scambiare
qualche chilo di piombo in cambio dei loro prigionieri.
– Ma con questo ritmo ci vorranno altri quarant'anni per recuperare il
resto dei bambini – lo interruppe Yar.
– Non sono più dei bambini, ormai. Visto il tempo che è passato dal
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momento del loro rapimento, anche il più giovane deve avere almeno l'età
del Capitano Picard – precisò Data.
Un sorriso fece capolino sul viso della Dottoressa Crusher, e Picard si
chiese se fosse divertita per l'infallibile istinto che portava Data a
commettere le sue immancabili gaffe, o per il modo in cui lui aveva reagito
alla frase poco lusinghiera.
Tamburellando pensierosa sui fogli del rapporto, Crusher ampliò il
commento dell'androide.
– In base alle registrazioni mediche della colonia di Hamlin adesso i
prigionieri più anziani dovrebbero avere poco più di sessant'anni... questo
sempre ammesso che siano ancora vivi dopo cinquant'anni di prigionia in
chissà quali condizioni.
Una voce dal fondo della stanza attirò l'attenzione dei presenti.
– I Choraii li hanno trattati bene.
– Per sua stessa natura, la prigionia è una barbarie! – ribatté Picard,
reagendo con considerevole forza al commento di Ruthe.
– Sì, certo, questo è vero – si affrettò ad intervenire Deelor, – ma non
dobbiamo dimenticare di contenere la nostra naturale ostilità durante la
prossima fase di negoziati o rischieremo di rompere il tenue legame
diplomatico esistente. E se così accadesse i prigionieri ancora nelle loro
mani sarebbero persi per sempre.
Picard aveva stupito persino se stesso per l'intensità della propria
reazione, ma notò che le sue emozioni erano condivise dai suoi uomini: il
massacro di Hamlin costituiva ancora un argomento di discussione
doloroso per gli ufficiali della Flotta, e il capitano non era un'eccezione.
Rendendosene conto, si sforzò quindi di fornire un esempio di maggiore
distacco.
– Abbiamo capito, Ambasciatore Deelor. Il mio equipaggio e io non
abbiamo intenzione di mettere a repentaglio il risultato di questa missione,
quindi potrà contare sulla nostra piena collaborazione durante il contatto
con i Choraii.
– Grazie, capitano – disse ancora Ruthe.
Picard le rivolse una seconda e più attenta occhiata: fino a quel momento
la donna era stata messa in ombra dalla forte personalità di Deelor, ma le
sue reazioni dimostravano come anche lei fosse coinvolta profondamente
nella missione.
– Avrei dovuto presentarvi la Traduttrice Ruthe all'inizio di questa
riunione. Sarà lei a condurre tutte le comunicazioni dirette con i Choraii –
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si scusò Deelor, alzandosi di scatto. – Quindi, capitano, se lei e il suo
equipaggio baderete alla baracca, quest'avventura procederà nel miglior
modo possibile e senza incidenti.
Con quelle parole lasciò la sala di osservazione e Ruthe lo seguì senza
altri commenti.
La subitanea partenza dell'ambasciatore e della traduttrice fece scattare
un'altra ondata di nervosismo tra gli ufficiali riuniti, e nel percepire la loro
tensione repressa Picard si preparò all'inevitabile esplosione di emozioni.
– Non posso credere che stiamo per entrare in affari con gli alieni che
hanno massacrato i minatori di Hamlin! – esclamò Yar.
Persino Geordi non riuscì a reprimere la sua rabbia.
– E quelli là trarranno persino un profitto da quell'attacco – rincarò. –
Non ho mai sentito niente di più sbagliato!
– La vendetta è forse la risposta giusta? – chiese il capitano, e fu
contento di vedere il Tenente Yar frenare la sua rabbia, mentre gli altri
membri dell'equipaggio si soffermavano a loro volta a riflettere
sull'effettivo significato della missione.
– Riavere i bambini è più importante – convenne infine il capo della
Sicurezza, con un pesante sospiro.
– Ho ancora alcune domande che vorrei porre, capitano – intervenne
Data, la cui calma faceva a pugni con la tensione dell'equipaggio umano.
– Ne ho anch'io, Data, ma sembra che l'Ambasciatore Deelor non sia
ancora pronto a risponderci – annuì Picard, poi si alzò per parlare a tutti e
continuò: – Sappiamo che i Choraii sono capaci di distruggere una nave
stellare di classe Constellation e che sono quasi riusciti a mettere fuori
combattimento l'Enterprise. La nostra prima priorità sarà quindi quella di
creare una difesa efficace in previsione del prossimo incontro, anche se per
il momento dovrete basare i vostri sforzi in tal senso soltanto sulle poche
informazioni di cui disponiamo.
La riunione era finita. Gli ufficiali si separarono in piccoli gruppetti e si
diressero nuovamente alle loro postazioni.
Il Capitano Picard uscì dalla sala riunioni con la vaga intenzione di
ritornare nel suo alloggio ma si ritrovò invece a camminare accanto a
Beverly Crusher. Non prese neppure in considerazione l'ipotesi che questa
potesse non essere una coincidenza perché dopotutto la dottoressa aveva
quasi la sua età, ed era quindi naturale che di tanto in tanto lui si trovasse a
cercarne la compagnia.
I corridoi della nave erano piuttosto affollati, perciò lungo il tragitto il
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capitano e la dottoressa parlarono solo di argomenti generali riguardanti la
nave; una volta raggiunta la relativa privacy dell'ufficio medico, Picard
affrontò però di nuovo l'argomento del massacro di Hamlin con una
rivelazione personale.
– Incubi? – esclamò la dottoressa.
– Oh, sì. Durarono per anni – confermò Picard – Avevo
un'immaginazione piuttosto fervida e mi fu facile costruire immagini crude
della morte violenta dei bambini scomparsi. Aggiungi a tutto questo un
vicino prepotente che minacciava di spedirmi su Hamlin, dove mostri
affamati non aspettavano altro che di ingurgitare ragazzini noiosi... dopo
tutto, avevo solo cinque anni ed ero abbastanza credulone – concluse,
accettando con una sfumatura d'imbarazzo la divertita reazione di Crusher.
La dottoressa si sedette sull'orlo della scrivania, lasciando cadere
accanto a sé i fogli del rapporto medico relativo ad Hamlin.
– E nonostante quelle paure ti sei avventurato nello spazio – osservò.
Imitando la posizione informale di lei, Picard si appoggiò allo stipite
dell'ingresso e ripercorse con il pensiero gli anni passati.
– Nonostante o forse a causa di quelle paure. Mi stancai di essere
spaventato, e anche di essere un ragazzo, e scelsi di affrontare i miei
incubi.
– Se ci pensi, è davvero ironico: quei bambini non furono uccisi, ma il
fatto che tu pensavi fossero morti ti dà adesso la possibilità di salvarli.
– Non li salverò io – ribatté Picard, riassumendo una posizione più
rigida. – Questa volta non farò altro che badare alla baracca: il mio
compito è solo quello di far arrivare il carretto delle merci al posto giusto.
Un mercante Ferengi sarebbe più utile, perché almeno potrebbe convincere
i Choraii a concludere qualche affare redditizio.
– Pochi chili di piombo sono un prezzo piuttosto basso da pagare. Quel
metallo è praticamente senza valore, e anche tossico per gli esseri umani.
Potremmo tranquillamente fare a meno di cento volte questa quantità.
– Sì, e se cinquant'anni fa i Choraii si fossero presi la briga di chiedere
ciò di cui avevano bisogno, i coloni di Hamlin sarebbero ancora vivi. Più
di cento persone uccise, massacrate come animali... non definirei il piombo
un metallo senza valore, Dottoressa Crusher, dal momento che un prezzo
enorme è stato pagato con il sangue.
L'umore leggero di poco prima era svanito completamente. Imbarazzata,
Crusher riprese in mano i fogli che aveva lasciato cadere.
– Non ho avuto l'occasione di dirlo alla riunione, ma i dati medici forniti
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da Deelor sono poco più che una documentazione storica: non ci sono
indicazioni su chi sia stato restituito, o sulle sue condizioni fisiche al
momento del salvataggio. Se dobbiamo portare dei sopravvissuti a bordo
ho bisogno di tutte le informazioni recenti disponibili.
– Una richiesta legittima – concordò Picard, – ma non credo che sarà
così semplice. Ricevere risposte dall'Ambasciatore Deelor è come riuscire
ad aprire un'ostrica di Aldebaran: il risultato non vale lo sforzo.
– Se vuole il successo di questa missione dovrà rendersi conto che
stiamo solo cercando di aiutarlo a riuscire.
– Sì – sospirò Picard. – Questo dovrebbe essere ovvio. Forse è solo un
burocrate dalla mente chiusa che si aggrappa ossessivamente al potere che
gli deriva dal controllo dell'accesso a segreti di stato. – Fece un rapido
confronto mentale fra quella sua valutazione e il poco che aveva visto del
modo di agire di Deelor e la scoperta che le due cose non combaciavano
affatto lo indusse ad aggiungere: – O questo, oppure ha qualche cosa da
nascondere.
Nella privacy del loro alloggio, con Ruthe addormentata nella stanza
accanto, Deelor decise di esaminare l'Enterprise tramite computer. Il suo
rango di ambasciatore gli garantì il pieno accesso alle specifiche
ingegneristiche della nave, ma quando richiese i dati del personale, il
computer sollevò qualche difficoltà a cui Deelor rispose con un codice di
cinque cifre che eliminò l'opposizione e cancellò ogni traccia della sua
intrusione.
Jean-Luc Picard fu il suo primo bersaglio: Deelor sfogliò le registrazioni
dei precedenti incarichi del capitano, ma la lista dei meriti divenne ad un
certo punto noiosa e lo indusse a saltare subito a informazioni più recenti.
Per riuscire ad avere accesso ai Diari del capitano dovette usare un codice
di sette cifre ma ne valse la pena perché lo studio delle registrazioni gli
rivelò lo stile di Picard e gli diede qualche indizio su come il capitano
avrebbe potuto reagire all'attuale situazione. Picard era un ufficiale
navigato, ma in fondo Deelor non si aspettava qualcosa di diverso dal
capitano di un vascello di classe Galaxy.
Dedicò meno tempo al Primo Ufficiale William Riker e al Tenente
Comandante Data, ma effettuò comunque un esame accurato dei loro file,
rimandando poi ad un momento successivo la conoscenza con gli altri
membri dell'equipaggio.
Ruthe non si svegliò quando Deelor afferrò la piccola cassetta posta sul
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comodino accanto al letto: quella scatola era l'unica cosa che aveva preso
dalla Ferrel prima di andarsene ed era impaziente di liberarsi del suo
contenuto perché detestava essere vincolato dal possesso di qualsiasi tipo
di oggetto. Il computer gli disse che Riker e Data stavano lavorando
insieme nella sezione scientifica e si offrì cortesemente di indicargli la
direzione, ma Deelor rifiutò l'informazione.
Cercare di arrivare da solo al laboratorio scientifico risultò essere
un'ottima prova per scoprire quanto aveva memorizzato dei piani della
nave, come dimostrò il fatto che raggiunse la sua destinazione senza un
errore. Sulla Ferrel aveva percorso la stessa distanza al buio per arrivare in
plancia, un tragitto che aveva salvato la vita a lui e a Ruthe, e la necessità
di ripetere tale impresa avrebbe potuto presentarsi di nuovo se i Choraii
avessero vinto anche il prossimo round. Deelor notò la sorpresa che si
dipinse sul viso dei due ufficiali quando lui entrò nella stanza e la loro
reazione gli fece piacere: la prevedibilità era noiosa... e pericolosa.
– Signor Riker, affido questo alla sua responsabilità – esordì, posando la
cassetta su un tavolo del laboratorio: l'impatto con la superficie ne tradì il
peso. Sfilò quindi il registratore vocale dalla tasca della giacca e lo lanciò a
Data, che ebbe un tempo di reazione eccellente. – E questo è per lei,
Signor Data.
Riker esaminò la scatola con attenzione prima di aprirla e Deelor gli
assegnò qualche punto in più per la cautela.
– Piombo! – esclamò il primo ufficiale, contando i lingotti contenuti
all'interno. – Circa sette chili.
– Ne ho portati un po' più del necessario nel caso che i Choraii alzino il
prezzo dei prigionieri.
– Perché così poco? Anche il metallo puro è piuttosto economico –
chiese Riker.
– Non mi hanno mai chiesto più di quanto avevano bisogno – rispose
Deelor. – Dopo aver seminato la distruzione su Hamlin, i Choraii hanno
preso soltanto circa nove chili di metallo.
– E noi gliene regaleremo ancora.
– Niente regali, siamo qui per eseguire un baratto.
Riker aggrottò la fronte con disgusto, ma Data si mostrò soltanto molto
curioso.
– Dato che i Choraii sono ovviamente molto avanzati tecnologicamente,
come mai non hanno sviluppato delle tecniche proprie di raffinazione? Gli
asteroidi sono una fonte abbondante dei metalli che cercano.
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– Sembra che le navi con capacità di estrazione del minerale si siano
ritirate dal gruppo centrale a causa di un qualche tipo di disputa politica –
spiegò Deelor. – La struttura sociale dei Choraii è piuttosto complicata e
sappiamo ben poco di come funzioni esattamente. – Si affrettò quindi a
impartire le necessarie istruzioni prima che Data potesse ancora fargli
perdere tempo, perché aveva doveri più pressanti che soddisfare le
curiosità dell'androide.
– Signor Riker, porti la scatola in un luogo sicuro vicino alla sala
teletrasporto in modo da poter prendere i lingotti senza perdere tempo.
– E con questo cosa devo fare? – domandò Data, sollevando il piccolo
strumento che aveva afferrato.
– Quel registratore vocale contiene la registrazione delle letture che i
sensori della Ferrel hanno eseguito sui Choraii. Le esamini e ne tragga
tutte le informazioni che possano spiegare la loro insolita tecnologia delle
armi. Mi aspetto un rapporto completo appena possibile.
– Il Capitano Picard è al corrente di questi incarichi? – domandò Riker,
irrigidendosi.
– È libero di informarlo – ribatté Deelor, compiendo la seconda uscita
improvvisa della giornata.
VI.
Quel ragazzo ha bisogno di uno zio – dichiarò Dolora, piegando un'altra
camicia e mettendola dentro il baule aperto posato sul pavimento
dell'alloggio.
– Be', non ne ha uno – rispose Patrisha, immersa in una poltrona
imbottita, guardando l'altra donna lavorare. Se le circostanze fossero state
diverse avrebbe senza dubbio apprezzato maggiormente la permanenza a
bordo dell'Enterprise: i principi dei Coloni non avevano niente contro i
mobili di lusso e gli spazi ariosi, anche se la comunità raramente poteva
permettersi tali amenità. Ma una settimana di viaggio dividendo l'alloggio
con sua zia aveva reso insopportabile la traversata, anche se la
sistemazione era risultata comoda e confortevole. – Un altro esempio della
sconsideratezza che mia madre ha dimostrato nel morire giovane.
Dolora arricciò le labbra sottili: a volte il senso dell'umorismo di
Patrisha le appariva davvero distorto.
– Tomas potrebbe fargli da zio, se solo glielo chiedessi.
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– Tomas tenta già di addossarsi il ruolo di mio fratello senza che io
gliel'abbia richiesto.
– È tuo cugino.
– È solo... – cominciò Patrisha, poi ingoiò la risposta. Tomas era un
asino cocciuto, ma era anche il figlio di Dolora e aveva sviluppato la sua
natura insopportabile senza malizia. – È gentile a interessarsi al nostro
benessere, ma posso occuparmi di Dnnys da sola.
Dolora tastò con gesti agitati il contenuto del baule, incerta se tirare fuori
tutto e ricominciare daccapo.
– Essere figlia unica ti ha reso molto ostinata.
– Grazie a Dio – ritorse Patrisha... la bestemmia le sfuggì dalle labbra
prima che potesse fermarla. – Mi spiace, Zia Dolo – si affrettò a scusarsi,
usando senza alcuna vergogna l'affettuoso diminutivo che ormai non
veniva pronunciato da tempo. – È solo che le notizie portate da Dnnys mi
hanno messa sottosopra.
Sulle guance della zia permaneva ancora un po' di rossore, ma la donna
accettò le scuse.
– Credi davvero a quello che ha detto il ragazzo?
– Oh, sì – confermò Patrisha. – Lui è più che sicuro che la nave abbia
cambiato direzione, allontanandosi dalla rotta per New Oregon.
– Il che conferma che Dnnys non ha ancora imparato la lezione – sbuffò
Dolora. – Va ancora in giro a curiosare da tutte le parti allontanandosi dalla
comunità.
Ecco che quell'argomento affiorava di nuovo nella discussione. Come
sempre, Patrisha prese le parti di suo figlio, avendo cura di legare la sua
difesa a quella dei migliori interessi dei Coloni.
– Abbiamo bisogno della sua conoscenza dell'Enterprise per proteggere
noi stessi e il nostro carico.
Gli aspetti pratici della situazione non potevano essere negati, neppure
da qualcuno irrazionale quanto Dolora, ma la donna trovò facilmente un
altro bersaglio per le sue critiche.
– Se fosse una femmina mi sentirei molto meglio, perché i ragazzi sono
così suscettibili alle false attrazioni di un ambiente non vivente.
– Se fosse una ragazza, allora Krn non avrebbe un fratello – puntualizzò
Patrisha.
– A proposito di Krn – cominciò Dolora con un'espressione che non
prometteva nulla di buono, ormai del tutto dimentica del baule da riempire.
La discussione tra le due donne si sarebbe di certo protratta per un altro
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round se in quel momento non fosse arrivato Dnnys. Patrisha tentò di
rimandare il ragazzo fuori dalla stanza con uno sguardo d'avvertimento,
ma fu lui a salvare entrambi da un diretto attacco da parte di Dolora.
– Il Capitano Picard è qui, mamma, e vuole vederti.
Patrisha si alzò dalla poltrona e Dolora si affrettò ad annunciare che
aveva lasciato la sua camicetta più bella nell'altra stanza, allontanandosi
subito per andare a prenderla; Patrisha la conosceva abbastanza bene da
sapere che non sarebbe tornata fin quando il capitano fosse rimasto lì.
– Ben ritrovata, Colona Patrisha – salutò l'ufficiale entrando. Il suo
portamento denotava la stessa sicurezza di sé che lei aveva notato durante
il loro primo incontro, ma adesso l'impazienza era scomparsa.
– È passato un tempo troppo lungo, Capitano Picard – replicò Patrisha;
poi decise di arrivare subito al punto, anche se non era abitudine dei
Coloni, ma lo fece ricorrendo ai metodi tipici che la sua gente usava per
non rivelare la fonte delle sue informazioni. – Nella nostra comunità si è
sparsa una voce piuttosto fastidiosa. Alcuni di noi ritengono che
l'Enterprise non stia più viaggiando alla volta di New Oregon.
– Tu sei diventato buon amico di Wesley Crusher, vero? – domandò
Picard, guardando il figlio di Patrisha in un modo studiato apposta per
incutere terrore nel cuore di qualsiasi ragazzo.
– Non me lo ha detto lui, se è questo che vuole insinuare – rispose
Dnnys, corrucciato. – Forse sono solo un Colono, ma sono abbastanza
intelligente da capire quando una nave cambia completamente rotta. Devo
solo guardare fuori dagli oblò per notarlo.
– Già, è vero – ammise Picard, poi tornò a rivolgersi a Patrisha. – Suo
figlio merita un encomio per la sua capacità d'osservazione.
– Allora è vero che non siamo più diretti a New Oregon – affermò la
donna, senza lasciarsi distrarre dal complimento.
– La deviazione sarà minima – precisò Picard. – La Base Stellare Dieci
ci ha ordinato di incontrarci con un'altra nave che si trova nel settore per
caricare alcune merci di scambio. Come vede l'Enterprise ha molte
funzioni: nave passeggeri, nave mercantile, e vascello di soccorso.
La litania servì a ricordare a Patrisha le esigenze imposte dalla presenza
della comunità. Il capitano del loro ultimo trasporto era stato molto meno
riservato: quattro mesi di viaggio con i Coloni avevano fatto perdere del
tutto la pazienza a Bucher, che alla fine aveva scaricato l'intera comunità
sulla più vicina base stellare della Federazione e non aveva voluto sentire
preghiere di alcun genere che potessero convincerlo a riportarla a bordo
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della Forox. Il ricordo della vergogna di quell'abbandono indebolì la
risolutezza di Patrisha.
– Grazie per essersi preso la briga di venire a spiegarcelo.
– Non c'è di che. I capitani ci sono per questo – replicò con cortesia
Picard.
– Stava dicendo la verità? – domandò Patrisha a suo figlio, dopo che
Picard se ne fu andato e prima che Dolora potesse riapparire.
– Non lo so – confessò Dnnys, cupo, – e Wesley non mi vuole dire che
cosa sta succedendo.
Chini ai due lati del Tenente Yar, Riker e Data erano intenti a leggere i
dati dei sensori sul suo monitor.
– Ci siamo! Direzione trentaquattro punto dodici – esclamò infine Yar,
trionfante.
– I residui possono essere seguiti piuttosto facilmente adesso che
abbiamo determinato il profilo degli elementi – annuì Data, dando la
conferma al primo ufficiale.
Picard uscì dal turboascensore e vide il gruppo di ufficiali.
– Cos'è tutta questa eccitazione?
– La caccia è cominciata, signore! – annunciò Data, con grande
entusiasmo. – Abbiamo trovato una traccia di sangue.
– Sangue? Sulla mia nave?
– Data stava parlando metaforicamente, capitano – spiegò Riker,
sorridendo della confusione di Picard. – Abbiamo determinato un modo
per seguire la nave dei Choraii.
– Eccellente – si compiacque Picard, dirigendosi verso la sua poltrona.
– In realtà, l'uso della parola sangue non era propriamente metaforico –
continuò Data, avvicinandoglisi. – Un esame dei frammenti raccolti sul
campo di battaglia dimostra che la nave dei Choraii è costruita con uno
straordinario miscuglio di materia inorganica e organica. Distruggendo
diverse delle sue sfere abbiamo in realtà ferito la nave e adesso i nostri
sensori sono stati calibrati per registrare la particolare combinazione degli
elementi rilasciati dalla ferita.
Intanto Riker era sceso dalla rampa all'altro lato della plancia,
raggiungendo il capitano nello spazio di comando.
– Abbiamo collegato i dati direttamente alla consolle di navigazione.
Invece di calcolare una traiettoria dritta che potrebbe farci perdere le
tracce, Geordi seguirà i dati registrati.
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– Io sono pronto – dichiarò La Forge, flettendo le dita in modo teatrale.
– Quando volete possiamo andare.
Governare senza il controllo di un computer o una rotta prestabilita era il
sogno di tutti i piloti... tutto il resto erano noiosi riempitivi in attesa
dell'occasione successiva in cui fosse possibile di nuovo riprendere
direttamente in mano il timone.
– Procedere a curvatura sei – ordinò il capitano.
– Cosa c'è che non va? – domandò Beverly Crusher, quando suo figlio la
raggiunse in infermeria. – Ti senti male?
– Sto bene – protestò lui, ma la dottoressa gli poggiò comunque una
mano sulla fronte.
– Niente febbre. Allora perché hai l'aspetto di uno che ha appena perso il
suo migliore amico?
– Perché è proprio quello che è successo.
La dottoressa allontanò la mano dal viso di suo figlio e lo abbracciò.
Wesley non si divincolò neppure.
– Dnnys sa che sta succedendo qualcosa di strano e vuole sapere cos'è.
La sua non è soltanto curiosità... è anche preoccupato per la sua famiglia,
ma io non posso dirgli niente a causa delle disposizioni di sicurezza sulla
faccenda di Hamlin.
Sua madre sospirò... sarebbe stato più facile curare una semplice febbre!
– Wesley, se vuoi sul serio intraprendere la carriera nella Flotta Stellare
– replicò, prevenendo con un cenno l'immediata protesta del figlio, – allora
dovrai trovare un equilibrio tra il tuo dovere e la tua vita privata, perché
non sempre potranno andare d'accordo.
Nei pochi mesi passati a bordo dell'Enterprise, la Dottoressa Crusher
aveva visto Wesley maturare sia fisicamente sia mentalmente, ma il
ragazzo era ancora troppo giovane per capire quanto potevano essere
dolorosi i due impegni; d'altro canto non gli sarebbe piaciuto sentirselo
spiegare da sua madre, perciò Beverly rimase in silenzio.
– Ho fatto un giuramento – confermò Wesley, molto seriamente, – e
devo mantenerlo, nonostante quello che sta succedendo.
La gente spesso notava come Wesley assomigliasse a lei, ma in quel
momento Crusher vide che il ragazzo ricordava molto suo padre, e il
confronto le fece provare in ugual misura orgoglio e paura: la devozione di
suo marito per la Flotta Stellare era stata una parte troppo importante della
sua personalità perché lei potesse rammaricarsene, eppure la rattristava
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ancora molto pensare alla sua morte precoce.
Allungò una mano per arruffare i capelli di Wesley ma questa volta lui si
sottrasse alla carezza, il che voleva dire che stava già molto meglio. Dando
un'occhiata attraverso la vetrata dietro le spalle del ragazzo, la dottoressa
notò Andrew Deelor che entrava in infermeria.
– Parlando di giuramenti – sospirò, mentre l'ambasciatore si avvicinava,
– è tempo che mi concentri sul mio giuramento di Ippocrate. Ho una visita
adesso, quindi fuori da qui, Guardiamarina Crusher, e subito se non vuoi
che faccia qualche test anche su di te – concluse, rincuorata nel vedere
Wesley che si allontanava in fretta con un bel sorriso sulle labbra: il
ragazzo era troppo temprato per tenere il muso molto a lungo.
Mettendo da parte le preoccupazioni della sua vita privata, la dottoressa
spostò l'attenzione sul paziente in attesa: Deelor era stato dimesso
dall'infermeria pochi giorni prima, ma la gravità della ferita da phaser
imponeva una scaletta di visite giornaliere.
– Eccellente. La bruciatura è quasi guarita – notò la dottoressa non
appena Deelor si tolse la sua uniforme, rivelando la pelle sintetica che
ricopriva la ferita.
Il materiale artificiale era stato quasi del tutto assorbito dalla crescita
delle cellule. Alzata la consolle del lettino diagnostico, invitò Deelor a
sdraiarsi e ben presto i risultati dello strumento confermarono la sua
prognosi iniziale.
– Il suo corpo ha una capacità di recupero notevole – continuò,
osservando con più attenzione le letture dello scanner; mise quindi a fuoco
un'immagine appena sotto lo strato epiteliale e con un lieve tocco ai
controlli della sonda ingrandì l'area. – Direi che lei è stato fortunato,
considerando il numero di ferite che sembra aver riportato in passato.
Riesco a vedere cicatrici profonde vicino al cuore e al fegato – elencò,
spostando ancora la sonda, – ferite da taglio ormai rimarginate al polmone
sinistro e numerose linee che indicano la frattura delle costole.
Finito il controllo, spinse il pannello della sonda verso l'alto
allontanandolo dal petto dell'uomo.
– Non avevo idea che il servizio diplomatico fosse così pericoloso –
concluse.
– Sono portato per gli incidenti – fu l'unica risposta di Deelor, mentre
scendeva dal lettino.
– Come ad esempio capitare proprio in mezzo ad una raffica phaser?
Deelor si rimise con calma i vestiti: rivestirsi non gli provocava più
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dolore, ma gli rimaneva ancora un po' di rigidezza nei movimenti.
– Perché sui suoi documenti medici non sono elencate quelle ferite? –
insistette la Dottoressa Crusher.
– Non ci sono? – domandò lui, alzando le sopracciglia. La finta sorpresa
era davvero ben recitata, ma la dottoressa non si fece abbindolare.
– Forse lei non è solo distratto, ma anche maldestro. Sto ancora
aspettando le registrazioni mediche dei sopravvissuti di Hamlin.
– Tutto a tempo debito, Dottoressa Crusher – ribatté Deelor, chiudendosi
l'uniforme come se stesse nascondendo qualcosa di segreto. – Tutto a
tempo debito.
Grazie alla gravità artificiale e agli smorzatori inerziali, le migliaia di
persone a bordo dell'Enterprise vivevano nell'illusione che la nave volasse
sempre in maniera lineare: camminando serenamente nei lunghi corridoi,
seduti nelle sale da pranzo o addormentati profondamente nelle proprie
cabine, tutti potevano ignorare l'effetto delle brusche curve e degli
ondeggiamenti che Geordi La Forge imprimeva alla nave nel seguire le
tracce delle particelle rilasciate dalla nave Choraii. Nonostante tutto però,
gli oblò rivelavano la rotta zigzagante dell'Enterprise, e la gente imparò in
fretta ad evitare di guardare quel cosmo che faceva girare la testa. In
plancia, il continuo alzarsi e abbassarsi delle stelle mostrate dal grande
visore era difficile da evitare, e più di un membro dell'equipaggio era già
finito in infermeria mentre il resto si sforzava di mantenere gli occhi fissi
sulla propria consolle.
La cosa si presentava difficile per il Capitano Picard, visto che in quel
momento Data gli stava facendo rapporto stando in piedi proprio di fronte
allo schermo visore principale. Più di una volta lo sguardo del capitano si
distolse involontariamente dal viso di Data e si posò sulle stelle che
vorticavano dietro di lui, provocando una tenue sensazione di nausea che
Picard cercò di reprimere il più a lungo possibile, con l'unico effetto di
farla intensificare.
– Basta così! Andiamo nella sala tattica – decise infine Picard,
fermandosi prima di deglutire involontariamente, consapevole di non aver
neppure sentito le ultime frasi del rapporto di Data.
– Buona idea, signore – annuì Riker.
– Will, lei è pallido quanto Data – osservò il capitano, entrando nella
tranquilla sicurezza dell'ufficio privato.
Riker sorrise debolmente e si sedette dopo aver spostato la sedia in
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modo che l'unico oblò della stanza rimanesse alle sue spalle.
L'androide non sembrava invece afflitto dalla dissonanza tra la visione
del movimento e il fatto che l'orecchio interno insistesse nel dire che il
mondo intorno a loro era stabile, e continuò il suo rapporto senza perdere il
filo.
– Sfortunatamente, molti dei nostri sensori sono rimasti danneggiati
dagli effetti distruttivi della rete energetica. L'Ambasciatore Deelor ci ha
fornito le registrazioni dell'incontro fra la nave aliena e la Ferrel, ma anche
le letture di quegli strumenti erano state influenzate.
Picard aggrottò la fronte pensando alle implicazioni.
– Questo significa che non possiamo costruire una difesa efficiente
contro l'armamento dei Choraii?
– No, signore – lo corresse Data. – Il compito è difficile ma non
impossibile. Avendo tempo a sufficienza per lo studio, possiamo giungere
ad una soluzione, ma non posso specificare quanto ce ne vorrà per ottenere
dei risultati – concluse, anticipando la domanda del capitano.
– Più presto facciamo meglio è, Signor Data – sospirò Picard. –
Preferirei incontrare i Choraii avendo un po' più di vantaggio dell'ultima
volta.
– Capisco. – Data posò un piccolo cilindro metallico sulla scrivania e
dopo una breve esitazione aggiunse: – Interessante. Questo particolare
registratore vocale è realizzato con una tecnologia avanzata, molto diversa
da quella usata generalmente dal personale della Flotta. In realtà si
potrebbe considerare utile in certe operazioni di raccolta d'informazioni.
– Questa è una sua opinione o un fatto, Signor Data? – domandò Riker.
– Una mia opinione, signore – ammise Data, – ma nel mio caso, le due
cose spesso coincidono.
– Allora non condivida questa opinione con altri, amico mio, altrimenti
si potrebbe ritrovare a camminare sulle sabbie mobili.
– Oh, capisco – annuì Data, dopo aver dato un'occhiata veloce e piena di
sorpresa al ponte sotto i propri piedi. – Lei ha usato una metafora che
indica pericolo. Forse questo potrebbe spiegare alcune interruzioni nella
registrazione: censura di sicurezza. Devo evitare di parlare anche di
questo?
– Può dirlo a noi – precisò Picard, sporgendosi in avanti, ormai così
concentrato su quel mistero da essere del tutto dimentico del proprio
disagio fisico di poco prima.
– I dati nel registratore vocale si riferiscono all'ultima parte dell'incontro,
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dopo che la nave Choraii aveva catturato la Ferrel nella sua matrice
d'energia. Molte annotazioni precedenti sono state cancellate dalla
registrazione, ma sono riuscito a recuperare alcuni bytes d'informazione.
– E che cosa ha scoperto?
– Una dettagliata descrizione dello stato energetico della nave prima che
venisse rinchiusa nella rete Choraii. Sembra che le riserve della Ferrel
fossero insolitamente basse, e questo ha fatto sì che la nave risultasse
molto vulnerabile al campo di contrazione.
– Data, la registrazione indica perché l'energia della Ferrel è stata
prosciugata? – chiese il capitano.
– No, signore. Se esisteva, quell'informazione è stata del tutto cancellata.
– Sembra che all'ambasciatore piaccia giocare all'agente segreto –
mormorò Picard, e mentre si massaggiava pensosamente il mento gli
venne in mente l'ultimo avvertimento di D'Amelio. Non sprechi la fortuna
con noi, Capitano Picard. Lei ne avrà molto più bisogno. Il pericolo era
rappresentato dai Choraii... o da Andrew Deelor?
Il rumore dei passi di Wesley echeggiava lungo lo stretto corridoio di
manutenzione alle sue spalle e si perdeva nel buio che lo precedeva. Per
quanto il ragazzo continuasse a camminare, davanti a lui c'era sempre
un'ombra irraggiungibile perché ogni dieci passi una luce d'emergenza si
accendeva al suo avvicinarsi e un'altra si spegneva alle sue spalle. Il suo
passo accelerò mentre la sua immaginazione ricreava vecchie storie
dell'orrore che parlavano di forme mostruose nate dall'ombra.
Un sibilo improvviso gli strappò un grido di paura, ma la parte razionale
della sua mente riconobbe il suono delle porte che si aprivano.
Ridacchiando di quel terrore autoindotto, Wesley si affrettò ad attraversare
la porta e a inoltrarsi nella cavernosa stanza al di là di essa: da quando
Dnnys gliel'aveva mostrata, quella scorciatoia per arrivare alla stiva di
carico era divenuta la sua strada preferita.
Prima dell'arrivo dei Coloni, Wesley non aveva mai esplorato la sezione
delle stive dell'Enterprise, preferendo di gran lunga scoprire la tecnologia
complessa dei motori a curvatura o dei sistemi di controllo della plancia,
ma quando aveva sentito per caso uno degli ingegneri parlare del sistema
di stasi portato a bordo dai Coloni la curiosità lo aveva obbligato a dare
un'occhiata. L'incontro casuale con il giovane Colono responsabile
dell'equipaggiamento si era poi trasformato in una sincera amicizia.
Wesley sospirò pensando che forse adesso quell'amicizia poteva essere
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finita. Si fece strada tra le pile di contenitori sfaccettati, contando
automaticamente quante volte svoltava a destra e quante a sinistra, e prima
ancora di raggiungere l'ultima svolta cominciò a sentire lo scorrere del
liquido criogenico che circolava nelle tubazioni.
– Dnnys? – chiamò. Sapeva che di solito il Colono era in giro durante il
periodo giornaliero della nave, e la stiva di carico era il luogo dove
passava più tempo possibile in quanto era l'unica area al di fuori degli
alloggi passeggeri dove gli fosse permesso di andare.
Una testa arruffata spuntò da dietro la struttura ad alveare delle camere
di stasi e si nascose di nuovo dietro di essa. Wesley aveva temuto questo
confronto e ora che le sue paure venivano confermate dal silenzioso rifiuto
si arrestò, incerto sul da farsi.
– Allora, muoviti! – chiamò Dnnys, con la voce ovattata dal banco
d'equipaggiamento. – Era ora che tu arrivassi. Ho un problema.
– Avresti potuto chiamarmi – ribatté Wesley, mettendosi a carponi per
entrare nella nicchia di controllo. Lo spazio era grande appena a
sufficienza perché i due potessero stare fianco a fianco.
Dnnys ignorò la sua risposta e diede qualche colpetto ad un indicatore
finché gli aghi tornarono a posto.
– C'è qualcosa che non va. Tutte le letture sono normali, ma qualcosa
non va!
Wesley accettò la dichiarazione dell'amico senza sorprendersi. Il
macchinario di stasi era piuttosto antiquato, quasi un relitto che soltanto un
pianeta povero come Grzydc poteva considerare utile e per assicurarne il
funzionamento era necessaria una manutenzione giornaliera. Con l'aiuto
delle conoscenze teoriche di Wesley e grazie alla propria familiarità con i
meccanismi coinvolti, Dnnys riuscì alla fine a trovare la fonte del
problema. Disteso sulla schiena si costrinse in uno spazio fatto per tecnici
alieni evidentemente molto più piccoli e allungò una mano dentro i circuiti
della scatola di controllo tirando fuori un chip metallico annerito.
– Si è proprio fuso – esclamò Wesley, esaminando il circuito dalla forma
quadrata. – Deve essere andato in corto quando siamo stati presi nella rete
energetica. – I meccanismi di autocontrollo dei computer dell'Enterprise
avevano segnalato molti guasti del genere sulla nave, ma quel macchinario
di stasi era troppo vecchio per avere un sistema di controllo danni
abbastanza sofisticato. Passò a Dnnys un chip sostitutivo e osservò le
indicazioni dei pannelli che improvvisamente scivolarono su nuovi livelli.
Una sezione piuttosto incoerente di uno dei pannelli attirò subito
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l'attenzione dei due ragazzi, che fissarono il cronometro mentre i numeri
salivano inesorabilmente uno alla volta.
– È cominciato il ciclo di travaso – gridò Dnnys, – ad appena pochi
giorni dal riempimento iniziale!
Il ragazzo si contorse per uscire dalla nicchia e premette il viso contro
l'oblò della camera di stasi più vicina. Una luce rossa soffusa illuminava a
malapena la forma dell'embrione che galleggiava all'interno e che era
cresciuto dall'ultima ispezione. Dnnys si spostò alla camera successiva e
ispezionò l'immagine al di là del vetro colorato di rosso. Un minuscolo
zoccolo animale si mosse.
– Non puoi fermare ancora una volta il ciclo? – domandò Wesley.
– Sì, ma la percentuale delle morti sarebbe enorme – rispose Dnnys. –
Wes, devo saperlo: c'è qualche possibilità di raggiungere New Oregon
prima del travaso?
Wesley scosse il capo. Non poteva spiegare la causa della deviazione,
ma il ritardo del viaggio sarebbe stato piuttosto evidente anche ai Coloni,
di lì a poco.
– Bene – sospirò il Colono. – Tra poco sarete pieni di maiali e di pecore,
per non parlare dei cani e delle galline. Spero che il capitano ami gli
animali.
– Credo che sia meglio chiamare la plancia – replicò Wesley, pensando
che con un po' di fortuna sarebbe riuscito a spiegare il problema al
Comandante Riker prima di doverne informare il capitano.
VII.
– Il bestiame sarà espulso nello spazio? – domandò Patrisha sgomenta.
– Assolutamente no. Non abbiamo nessuna intenzione di far del male ai
vostri animali – rispose Riker, facendo di tutto per convincerla che una
soluzione così drastica era fuori discussione.
– Ma allora dove li metteremo?
Picard aveva fatto la stessa domanda con molta più forza e con
l'aggiunta di un'imprecazione, ma da buon primo ufficiale Riker aveva
preparato la risposta prima ancora che il capitano o la Colona venissero a
conoscenza del problema sviluppatosi nella stiva di carico.
– I ponti ologrammi della nave possono essere programmati per simulare
pascoli e terre agricole, inclusi recinti e fattorie. Wesley Crusher sta già
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lavorando per completare le istruzioni al computer.
Il capitano aveva insistito su quell'incarico, intendendo dare una specie
di punizione al messaggero per aver portato le cattive notizie, ma il
guardiamarina non aspettava altro che di avere la possibilità di alterare i
parametri di una simulazione: con Dnnys come consulente per conoscere
le necessità dei Coloni, il compito assomigliava più a un gioco che a un
lavoro.
Il viso di Patrisha era però ancora teso per l'ansia.
– Un ponte ologrammi. Oh, cielo.
– C'è qualcosa che non va? – chiese Riker. Dnnys aveva accettato la
soluzione con sollievo, ma sua madre sembrava ancora più preoccupata di
prima.
– È l'unico modo e lo capisco, mi creda – mormorò la Colona, – ma i
ponti ologrammi sono... – si interruppe stringendosi nelle spalle.
– Opere del diavolo? – suggerì Riker, con un'irriverenza che avrebbe
voluto evitare.
– Non siamo superstiziosi, Signor Riker – ribatté Patrisha, palesemente
infastidita, ma per fortuna non offesa. – Noi Coloni cerchiamo di evitare la
tecnologia non necessaria, per diminuire la nostra dipendenza dalle
macchine.
– Eppure le vostre credenze vi permettono di usare le camere di stasi – le
fece notare Riker. Di tutti i Coloni, questa donna sembrava la meno
propensa ad offendersi, ma forse la presenza di Troi sarebbe stata utile in
quell'occasione, per avvertirlo nel caso si spingesse troppo oltre.
– Solo a causa della nostra grave necessità – rispose lei. – Non avevamo
altra scelta. Nonostante l'urgenza, molti Coloni si erano opposti all'uso di
un metodo così insolito per trasportare gli animali e il guasto alla stasi ha
dato nuova forza alle loro argomentazioni, che erano già molto persuasive.
Riker capì che le difese di Patrisha si erano attenuate, come se la donna
fosse troppo stanca per mantenere ancora le distanze. Per la prima volta, lo
invitò a sedersi sul divano della stanza e si asserragliò a sua volta su una
sedia, sempre tesa ma molto meno sulla difensiva.
– Siamo viaggiatori, comandante. Ziedorf, il più anziano tra noi, è nato
su Titano quasi duecento anni fa. Mia madre e mia zia sono nate su
Yonada, e io sono nata durante il viaggio che ci portò su Grzydc. Ogni
pianeta veniva da noi considerato un posto perfetto, e così abbiamo
permesso al luogo di cambiarci, modificando i nostri nomi per adeguarli al
linguaggio locale e adattandoci alle abitudini che incontravamo, ma ogni
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cambiamento è stato molto superficiale. Restiamo prima di tutto Coloni di
Oregon e quando le nostre differenze emergono siamo costretti ad
andarcene. Con ogni trasloco su un nuovo pianeta la nostra comunità e le
cose che possediamo si sono ridotte.
– E New Oregon potrebbe diventare una nuova casa.
– E l'ultima tappa, spero – confermò Patrisha, sorridendo tristemente, –
anche se mia madre aveva detto lo stesso di Grzydc. – Si riscosse e
continuò più bruscamente: – Mia figlia Krn ci sta aspettando sul nostro
pianeta terraformato, organizzando gli ultimi dettagli per il nostro
trasferimento. Lo abbiamo battezzato come il nostro luogo d'origine, una
regione della Terra chiamata Oregon da cui trecento anni fa partirono quasi
un migliaio di persone. Noi siamo tutto ciò che rimane di quel gruppo e gli
embrioni degli animali sono quasi tutto ciò che ci resta di ciò che
possedevamo.
– Capisco, Colona Patrisha – la rassicurò Riker, alzandosi per
congedarsi. – L'Enterprise porterà voi e i vostri animali in salvo su New
Oregon – promise prima di andarsene, ma si sentì sollevato per il fatto che
Patrisha evitò di chiedergli quando questo sarebbe successo.
– Che periodo dell'anno vuoi? – domandò Wesley, mentre il computer
emetteva un costante segnale interrogativo e restava in attesa di nuove
informazioni.
– Primavera! – esclamò subito Dnnys, pieno d'entusiasmo. L'anno di
Grzydc era estremamente lungo e lui aveva avuto l'esperienza di quella
stagione di crescita soltanto quattro volte nella vita. Non sapeva come
fosse una primavera terrestre ma era certo che sarebbe stata migliore di
quella di Grzydc, come del resto era risultato essere tutto ciò che lui aveva
incontrato da quando aveva lasciato quel pianeta.
– Ci metterò anche qualche dettaglio aggiuntivo – continuò Wesley,
inserendo una serie di numeri nel programma del ponte ologrammi. – Il
Comandante Riker afferma che se si ha il tempo di eseguire un buon
lavoro, allora ci si deve sforzare per renderlo un ottimo lavoro.
– Sembra proprio quello che dice Dolora – sospirò Dnnys, – ma in un
certo senso non mi dà fastidio se lo dice il Signor Riker. Lui mi piace.
– Piace anche a me – replicò Wesley, sollevando per un momento le dita
dalla tastiera, – e qualche volta mi chiedo se...
Lasciò però la frase in sospeso e riprese a lavorare.
– Vai avanti – lo incitò Dnnys.
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– Ecco, è soltanto che ero molto piccolo quando mio padre morì. Io
cerco di ricordarmi com'era, ma è difficile – confessò. Ed era ugualmente
difficile parlarne a sua madre: probabilmente lei avrebbe capito, ma sapere
che i ricordi che Wesley aveva di suo padre stavano svanendo, l'avrebbe
resa triste. – Quindi qualche volta mi chiedo se fosse un po' come il Signor
Riker.
– Non avere un padre è probabilmente come non avere uno zio –
ipotizzò il giovane Colono, – tranne per il fatto che a te manca una persona
vissuta davvero, mentre io penso a qualcuno che non c'è mai stato.
Dnnys non aveva mai rivelato questa sua fantasia a nessuno, ma il suo
amico avrebbe capito il desiderio che l'aveva generata.
Il programma di simulazione per un momento fu dimenticato.
– E così anche a te manca qualcuno?
– Non molto spesso, in realtà – ribatté Dnnys, scrollando le spalle.
Qualche volta passavano settimane senza che lui sentisse la necessità di
pensare a uno zio, mentre altre volte il senso di vuoto lo portava a cercare
la compagnia di Tomas, che non gli piaceva per niente, ma che almeno era
fatto di carne ed ossa e non di semplice immaginazione. – E poi io mi
trovo bene con mia madre. Non è così per mia sorella Krn: lei e la mamma
litigano sempre, e credo che questa sia una delle ragioni per cui Krn si è
offerta volontaria per andare su New Oregon prima della comunità.
Wesley cercò di immaginarsi una sorella dai capelli rossi che gridava
arrabbiata contro la propria madre, ma l'idea gli fece venire da ridere.
– Non si vogliono bene?
– Certo che si vogliono bene. In realtà si amano molto – confermò
Dnnys, pensando che lui notava il fatto più facilmente delle interessate. –
Tomas dice che sono fatte della stessa stoffa.
– Della stessa stoffa? – ripeté una profonda voce maschile... Riker era
entrato nella stanza proprio mentre Dnnys stava finendo di parlare. – State
costruendo una fattoria o una sartoria?
I ragazzi scoppiarono a ridere, poi invitarono con entusiasmo il primo
ufficiale a vedere cosa avevano fatto con il computer mentre i pensieri di
padri e di zii lasciavano il posto alle necessità del progetto sul ponte
ologrammi.
Di solito Picard rimaneva al livello delle poltrone di comando della
plancia, ma a mano a mano che la ricerca dei Choraii si protraeva notò che
Tasha Yar stava fissando la propria consolle con aria sempre più
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corrucciata, e quando quell'espressione si intensificò senza che il tenente
ne esponesse la causa il capitano si diresse verso la parte posteriore della
plancia: il suo capo della Sicurezza di solito parlava senza problemi di ciò
che le passava per la mente, ma a volte gli sforzi che la ragazza faceva per
disciplinare il suo temperamento impulsivo si spingevano troppo oltre. Yar
possedeva un ottimo intuito, che non doveva essere soffocato sotto il peso
della cautela.
– Ha trovato qualcosa, tenente? – le chiese con studiata casualità.
La domanda la prese in contropiede.
– Sissignore – esclamò d'impulso, poi si corresse: – Voglio dire... forse.
Picard osservò la griglia di ricerca sulla consolle e rilevò che tutto
appariva normale.
– Un'intuizione?
Yar si sentì improvvisamente a disagio per l'imprecisione che questo
sottintendeva.
– Probabilmente è soltanto una distorsione laterale, capitano. Queste
coordinate non sono sull'attuale traiettoria di Geordi – spiegò, indicando
con un dito una minuscola onda sul perimetro del campo sondato.
– Signor Data, cosa ne pensa di questa distorsione?
Anche l'interpretazione di Data riguardo al disturbo fu ugualmente
indecisa.
– Se è la nave dei Choraii, ci troviamo molto fuori rotta.
– Di quale rotta parlate? – domandò ironicamente Geordi. I suoi occhi,
coperti dal visore, erano fissi sul segnale del computer che tracciava il
percorso sulla consolle di navigazione. – Questi tipi viaggiano seguendo
dei cerchi, non delle linee rette. La loro nave potrebbe finire dovunque.
Picard ponderò rapidamente su ciò che avevano detto i suoi ufficiali, ma
anche se quell'esame dei fatti fu effettuato logicamente la sua decisione
finale si basò poi più sull'istinto che sulla logica. Al contrario del Tenente
Yar, Picard aveva da tempo superato la paura di fidarsi delle proprie
intuizioni.
– Signor La Forge, inserisca una rotta diretta verso il disturbo segnalato
dai sensori.
– Subito capitano – assentì il pilota, e sullo schermo principale le stelle
vorticanti smisero finalmente di muoversi con un ultimo giro di valzer.
– La navigazione con il computer ha i suoi vantaggi – fece notare Picard
al Tenente Worf.
Worf annuì solennemente, poi emise uno strano suono gorgogliante che
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ricordò a Picard come il Klingon avesse rifiutato l'offerta della Dottoressa
Crusher di farsi fare un'iniezione contro la nausea mentre tutti gli altri
avevano accettato volentieri... e a giudicare dai suoni provenienti dal corpo
del tenente, i Klingon erano soggetti alla nausea quanto gli Umani, anche
se erano molto meno disposti ad ammettere il loro disagio.
Soddisfatto del fatto che i problemi alle consolle di poppa fossero stati
risolti, Picard tornò alla sua postazione di comando. Utilizzando il
comunicatore modellato come il simbolo della Flotta che portava sul petto,
effettuò una rapida serie di chiamate per convocare Riker e Troi in plancia.
Era intenzionato a contattare anche l'Ambasciatore Deelor, ma soltanto
dopo aver riunito tutti gli ufficiali superiori: aveva promesso di collaborare
totalmente durante questa missione, e Deelor avrebbe avuto la sua
collaborazione, ma non poteva certo aspettarsi cieca obbedienza. A partire
da questo momento, Picard voleva un preciso resoconto dei movimenti
dell'ambasciatore.
Andrew Deelor aveva il sonno leggero, quindi la chiamata dalla plancia
lo portò immediatamente in uno stato di estrema allerta e nella sua voce
non rimase alcuna traccia di sonnolenza quando parlò con Picard.
Lo scambio di battute fu breve e Deelor si alzò dal letto appena il
contatto si interruppe. Da quando l'Enterprise aveva captato le tracce della
nave Choraii aveva preso l'abitudine di andare a letto completamente
vestito, pronto in qualsiasi momento a raggiungere la plancia.
– Ruthe? – chiamò accendendo le luci della cabina.
Sbatté per un attimo le palpebre in reazione all'improvvisa illuminazione
poi cercò il mantello grigio della traduttrice, certo che lei si trovasse sotto
di esso. La notte precedente Ruthe aveva tolto tutti i cuscini dal suo letto e
aveva dormito sul pavimento, ma stanotte la trovò appallottolata su una
sedia nell'angolo più remoto dell'alloggio.
Sapendo che Ruthe odiava i suoni violenti, la scosse per svegliarla e le
bisbigliò le notizie nell'orecchio: la traduttrice allungò il proprio corpo
stiracchiandosi come un gatto e fu pronta a lasciare la cabina. Avevano
molto in comune, loro due: entrambi viaggiavano leggeri.
I corridoi della nave erano quieti e quasi deserti... le poche persone che
vi incontrarono giravano da sole... mentre per contrasto la plancia risultò
così piena di voci e di movimento che Deelor sentì la tensione
impadronirsi di Ruthe non appena sbucò dal turboascensore.
– La nave fluttua dentro e fuori dalla portata dei sensori – spiegò Picard,
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quando Deelor e Ruthe lo raggiunsero al centro della plancia. – Non
riusciamo ad avvicinarci abbastanza per avere un vero e proprio
rilevamento.
– Non provateci neppure – ordinò Deelor, poi fece cenno al Primo
Ufficiale Riker di spostarsi e si sedette al suo posto a fianco del capitano. –
I Choraii non reagiscono ad un inseguimento diretto.
– E a che cosa reagiscono? – chiese Picard, con una traccia di sarcasmo
nella voce.
– A questo – rispose Ruthe, tirando fuori da sotto il mantello le mani in
cui teneva tre sezioni di un tubo di legno scolpito con un motivo intricato.
Con movimenti fluidi derivanti dalla pratica unì le parti facendole
diventare un'unica cosa, poi si sedette a gambe incrociate ai piedi di Deelor
e si portò lo strumento musicale alla bocca, mettendosi nella stessa
posizione di un suonatore di flauto. Le note che uscirono avevano però un
timbro più basso di quelle di un flauto e ricordavano maggiormente il
suono di un oboe o di un fagotto, anche se non ne avevano il suono
stridulo.
– Cominciate a trasmettere adesso – ordinò Deelor, notando la riluttanza
del Tenente Yar a rispondere al suo ordine. La donna aspettò finché Picard
non ebbe annuito per indicare il proprio assenso, poi aprì un canale di
trasmissione. Il momento in cui Picard sarebbe stato costretto a cedere la
sua autorità era vicino... ma non era ancora arrivato.
L'innalzamento e l'abbassamento delle note del flauto riportarono
l'attenzione di Deelor su Ruthe. La melodia era semplice, poco più di una
scala suonata molte volte di seguito con minime variazioni di tempo e di
ritmo, ma comunque ossessiva. Ogni fraseggio finiva con la medesima
nota, si posava su essa esitando e se ne allontanava, per poi ritornarvi di
nuovo.
– Si bemolle – commentò Riker, dopo aver ascoltato qualche minuto. –
A intervalli di ottave, ma sempre Si bemolle.
– Questo è un nome come un altro da dare alla nave Choraii – rispose
Deelor.
Ormai giunta alla fine del suo saluto, Ruthe sostenne la nota della
tonalità finché il fiato le si spense in gola e infine lasciò cadere lo
strumento in grembo, disponendosi ad attendere.
La trasmissione di risposta fu molto più complicata. Tre flauti separati,
che forse erano voci, si intrecciarono incrociandosi sulla tonalità del Si
bemolle, sostenuta da un quarto suonatore. Dopo aver ascoltato per
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qualche tempo, Ruthe cominciò di nuovo a suonare, amalgamando la sua
parte con quella degli altri. Lo scambio durò diversi minuti, poi ad una ad
una le voci si spensero, lasciando Ruthe a suonare di nuovo il suo assolo.
Con gli occhi chiusi per non vedere la gente intorno a sé, la traduttrice
stava ancora suonando quando Yar annunciò che la nave Choraii era uscita
dal raggio dei sensori. Deelor toccò leggermente la spalla di Ruthe, che si
interruppe bruscamente, come se si fosse svegliata da uno stato di trance.
– Devono terminare una canzone prima di potersi incontrare con noi –
mormorò, – ma sono d'accordo per un altro rendez-vous.
– Nonostante la ferita inferta al loro vascello? – domandò Picard. –
Credevo che sarebbe stata necessaria un'opera di convincimento molto più
prolungata prima di arrivare a mettersi d'accordo per un altro contatto.
– Oh, quello – replicò Ruthe, accantonando il precedente scontro con
una scrollata di spalle. – Non ci sono stati feriti, e la nave è stata curata.
– Dove e quando dobbiamo incontrarci?
Ruthe esitò, poi riprese il flauto e suonò nuovamente alcune battute dello
scambio, cercando di tradurre le note in concetti umani.
– Fra venti delle vostre ore – rispose infine. – La scelta del posto è stata
mia e ho proposto di incontrarci alle coordinate otto cinque punto dodici.
– Possiamo raggiungere il luogo prescelto nel tempo previsto viaggiando
a curvatura sei – calcolò Data, dopo aver inserito le coordinate nella sua
consolle. – Ma perché là? Il luogo non ha alcun significato.
– Mi piaceva il suo suono.
– Qualche volta – commentò Riker, sorridendo della costernazione
dell'androide, – il modo in cui il pacchetto viene presentato è più
importante del contenuto, Data.
– Non riesco a comprendere...
– Più tardi, Signor Data – intervenne con fermezza il capitano. – Adesso
che il rendez-vous è stato stabilito, la sezione a disco della nave può essere
staccata e lasciata indietro. Incontreremo i Choraii soltanto con la sezione
da battaglia.
– Non se ne parla nemmeno – affermò Deelor – La nave resta intera.
– Non posso coinvolgere i passeggeri nel conflitto che ci si può
presentare – ribatté Picard, irrigidendosi nel sentir annullare il proprio
ordine.
– Saranno molto più al sicuro protetti dall'armamento più pesante della
sezione da battaglia piuttosto che da soli. I Choraii sono difficili da
prevedere: potrebbero invertire la rotta e allora la sezione a disco sarebbe
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una facile preda per loro.
– Capisco. La popolazione rischia in entrambi i casi – sospirò Picard.
– Proprio così – confermò Deelor, e dal momento che non aveva nessun
desiderio di continuare a discutere l'argomento, si alzò e fece segno a
Ruthe di allontanarsi dalla plancia con lui, lanciando un ultimo ordine
quando era già nel turboascensore: – Può procedere al punto di incontro,
Capitano Picard.
– L'ambasciatore dovrebbe imparare le buone maniere – brontolò Picard
dopo che il turboascensore ebbe allontanato Deelor dalla plancia.
Diede quindi istruzioni al timoniere perché inserisse le coordinate
indicate da Ruthe, anche se nutriva ancora molti dubbi: non essendo
portato per la musica non si era lasciato affascinare come Riker dalla
performance di Ruthe e aveva invece ascoltato con crescente disagio
quella che in fin dei conti era stata una trasmissione inintelligibile.
– Dobbiamo crederle sulla parola in merito a quanto è intercorso tra loro
– commentò, rivolto al primo ufficiale, – e anche se io non ho ragione di
non credere alle sue affermazioni... – S'interruppe, alzando le braccia con
aria frustrata, poi concluse: – È solo che non mi fido di lei o di Deelor.
Guardò quindi in direzione di Troi per sollecitare un parere, ma il
consigliere aveva ben poco da offrire.
– Ruthe pensa soltanto alla sua musica e Deelor, come sempre, scherma
molto accuratamente le proprie emozioni. Sa che io sono per metà
Betazoide, e il suo potere di concentrazione diventa fortissimo quando io
sono nei paraggi.
– Ho registrato l'intera trasmissione, signore – interloquì Data, sapendo
che era il suo turno di fornire un'opinione al capitano. – Teoricamente, i
computer linguistici possono sviluppare una traduzione, ma il discorso
fatto dai Choraii appare molto intricato, più emozionale che basato su
forme grammaticali. Avrò bisogno di ulteriori informazioni per accelerare
il processo di traduzione e aumentarne l'accuratezza.
Picard tornò a rivolgersi al suo primo ufficiale.
– Lei è un musicista, Numero Uno. L'ho sentita suonare.
– È solo un hobby, non sono un professionista... e poi conosco bene
soltanto il jazz – si schermì Riker.
– Professionista o no, lei è l'unica persona che possegga sia l'accesso di
sicurezza alla faccenda che un'affinità per la natura musicale del
linguaggio dei Choraii – Il capitano pensò ancora agli interessi che
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impegnavano il primo ufficiale durante le ore di riposo e annuì, persuaso
della propria scelta. – Sì, sono sicuro che lei potrà convincere la
Traduttrice Ruthe a discutere del suo lavoro.
– Ma capitano...
– Non è poi molto diversa dall'Eletta Beata di Angel One... e se ben
ricordo il suo discorso allora fece scaturire in lei un po' di clemenza per
l'equipaggio della Odin.
Secondo alcune fonti ufficiose pareva che il genere di persuasione usato
da Riker si fosse basato anche su abilità diverse dalla sua parlantina, e
Picard si sentì propenso a credere a quella versione dei fatti quando notò
che la punta delle orecchie di Riker si era arroventata.
– Ci proverò, signore.
Nonostante il disagio del primo ufficiale, Picard percepì una certa
anticipazione per il suo nuovo incarico e si affrettò a dargli un consiglio.
– Faccia in modo che Deelor non sia nei paraggi quando le parlerà:
quell'uomo mi sembra un tipo propenso alle scenate di gelosia.
Il diversivo fu facilmente organizzato. La Dottoressa Crusher fu tutt'altro
che soddisfatta della decisione di usare gli esami medici di Deelor come
paravento per le attività di Riker, ma sottoposta a pressione acconsentì
infine a fissare un controllo per l'ambasciatore; indurre Ruthe a lasciare
l'alloggio risultò più difficile che distrarre l'ambasciatore.
Passarono diversi minuti prima che lei rispondesse all'insistente
pressione di Riker sul pulsante del campanello e l'offerta di farle fare un
giro della nave generò soltanto uno sguardo vuoto; visto che lei non lo
aveva invitato ad andarsene, Riker tentò allora con un approccio più
diretto.
– Sono rimasto affascinato dal suo modo di suonare il flauto, in plancia.
Potrebbe suonare ancora per me?
– Qui? – chiese lei, un po' sorpresa.
Riker prese la palla al balzo e mostrò di interpretare la sua risposta come
un assenso, suggerendo però di andare in una delle vicine sale di
ricreazione, sicuramente un luogo più idoneo a un concerto. Un po' meno
sorpresa, Ruthe lo seguì in una grande area aperta, piena di sedie imbottite
e di piante lussureggianti. La sala era vuota, il che evidentemente le fece
piacere perché la sua iniziale resistenza scomparve. Oltrepassato Riker, si
mise a sedere su una sedia di fronte ad un largo oblò e la vista dello spazio
dovette colpirla piacevolmente, perché d'un tratto sorrise.
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Quell'ambiente così tranquillo era in realtà tale solo in apparenza: le
guardie di sicurezza del Tenente Yar erano presenti in tutti i corridoi
laterali che portavano a quella sezione, e avevano rigide istruzioni di
tenere lontani dalla sala ricreativa tutti i membri dell'equipaggio non in
servizio. Lo sforzo per separare Ruthe da Andrew Deelor era stato
accuratamente organizzato per approfittare del poco tempo a disposizione.
Riker azzardò infine la sua mossa d'apertura, preparata sulla base di un
rapido ripasso dei file musicali contenuti nell'archivio del computer.
– Da quel poco che ho sentito, la musica del messaggio dei Choraii mi
ricorda la musica terrestre del Medioevo. Le canzoni del mondo
occidentale avevano anch'esse molte voci, che non erano però unite tra
loro né dalla melodia, né dal ritmo... ognuna aveva una parte a sé stante.
Sorpresa dal commento, Ruthe distolse lo sguardo dalle stelle per
fissarlo su di lui.
– Sì, lo sviluppo polifonico è simile, anche se i modi armonici dei
Choraii sono più vicini alle scale sviluppate nel ventesimo secolo da
Schönberg.
– Quindi lei è una musicista professionista? – chiese Riker, rendendosi
conto che quell'affermazione era la più lunga che le avesse sentito proferire
in pubblico. Il suo intento era stato quello di farla parlare ancora, ma la
domanda ebbe l'effetto contrario.
– Ho studiato storia della musica – rispose Ruthe concisa, poi piombò
nel silenzio e tornò a guardare l'oblò.
– Il benvenuto che ha suonato – riprese Riker, canticchiando alcune
misure della melodia che aveva sentito in plancia, – era una sua
composizione? O i Choraii hanno delle melodie standard con cui chiamano
un'altra nave?
– Le note sono sempre le stesse ma il ritmo è libero – rispose lei, tirando
fuori i pezzi del suo flauto. – La canzone cambia ogni volta che la canto.
Riker guardò Ruthe che metteva insieme il suo flauto e ancora una volta
fu colpito da quanto fosse bella. Una parte della sua mente era concentrata
sulla musica che suonava, mentre l'altra si deliziò ad osservare la linea
netta del profilo di lei mentre soffiava nel flauto e le dita delicate che
ondeggiavano sui fori dello strumento.
Ruthe non smise di suonare quando Data entrò nella sala e andò a
sedersi, anche se la melodia rallentò un po'. Dal momento che l'androide
sembrava più interessato ai rapporti che aveva portato con sé che alla
musica, Ruthe tornò a suonare con il ritmo iniziale, ma Riker sapeva che il
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registratore vocale nascosto nel palmo della mano di Data stava
registrando ogni nota della canzone.
Poi anche Deanna Troi entrò nella sala, e Riker temette che la presenza
del consigliere potesse disturbare Ruthe, ma la traduttrice era ormai troppo
presa dalla propria musica per essere infastidita da uno spettatore in più.
Sfortunatamente, lui non riuscì a sopprimere la sua irritazione per il
crescente affollamento.
– Forse in un ambiente più intimo avresti potuto concentrarti meglio –
gli sussurrò Deanna, sfruttando la copertura offerta dalla musica.
Un Si bemolle sostenuto segnalò la fine della canzone di Ruthe.
– È molto bella, anche se non ne capisco il significato – mormorò Riker.
– D'altronde sono sicuro che i Choraii trovano il nostro linguaggio
altrettanto misterioso.
– Per nulla. I Choraii hanno imparato dai bambini lo Standard della
Federazione e in effetti lo parlano piuttosto fluentemente – lo corresse
Ruthe, scuotendo il capo. – Tuttavia è un modo così brutto e maldestro per
comunicare che preferiscono non usarlo.
Quella era una notizia davvero utile e valeva la pena riferirla a Picard,
ma purtroppo fu anche l'ultima informazione che Riker riuscì a raccogliere
dalla traduttrice.
– Will... – avvertì Troi, percependo l'avvicinarsi dell'Ambasciatore
Deelor, che si trovava soltanto a pochi metri da lì.
– Mi stavo chiedendo dov'eri andata – commentò questi, rivolgendosi
solo a Ruthe.
– Mi stavo annoiando in cabina.
– Non succederà più – le assicurò Deelor. – I miei viaggi in infermeria
sono terminati – aggiunse poi, all'indirizzo del primo ufficiale.
Segnalò quindi a Ruthe di raggiungerlo e lei si alzò dalla sedia,
mettendosi al suo fianco e seguendolo fuori dalla sala.
Riker fissò la coppia che se ne andava con espressione accigliata: Ruthe
non gli aveva detto una parola di commiato né lo aveva degnato di uno
sguardo.
– Non mi piace come Deelor la comanda.
– A lei sembra non importare, quindi perché dovresti preoccuparti tu? –
commentò Troi.
Riker si girò per risponderle, ma si trattenne dal farlo quando vide Data
ancora seduto: l'androide aveva abbandonato il suo precedente
atteggiamento neutro e li stava osservando con palese curiosità.
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– Data, è tempo di tornare in plancia – dichiarò Riker.
Data aggrottò la fronte, cercando nei suoi banchi di memoria qualche
appuntamento dimenticato.
– Non ho nessun particolare evento a cui partecipare in questo momento
– replicò, studiando l'espressione di Riker con maggiore attenzione. – Lei
vuole che me ne vada?
– Sì, Data – confermò Troi, con fermezza.
– La mia comprensione delle interazioni umane aumenterebbe se avessi
più opportunità di osservarle direttamente, e la vostra discussione si
preannuncia piuttosto interessante – replicò l'androide senza accennare a
muoversi.
– Vorremmo un po' di privacy – insistette Riker.
– Ma è proprio questa privacy che ostacola i miei tentativi di
comprendere la difficoltà di una relazione interpersonale.
– Arrivederci, Data – concluse Riker, seguendo con lo sguardo
l'androide mentre questi si alzava con riluttanza e lasciava lentamente la
sala. Non conoscendo i limiti esatti dell'udito di Data, attese che questi si
fosse allontanato da qualche tempo prima di aggiungere: – Deanna, se non
ti conoscessi, penserei che sei gelosa.
– Non ho il diritto di essere gelosa. Esserci lasciati ha fatto sì che non
restassero dubbi riguardo a questo aspetto della nostra relazione.
– E poi non hai neppure nessuna ragione per essere gelosa.
– Lo so, Will – ammise lei con un sospiro. – Riesco a percepire un tuo
leggero interesse per Ruthe, una certa ammirazione per la sua bellezza, ma
nessuna seria attrazione. Invece da parte di Ruthe...
La vanità di Riker si scontrò all'improvviso con la preoccupazione per le
emozioni di Ruthe.
– Non mi dirai che è innamorata di me?
– No, non lo è. In effetti, non sento alcun interesse nei tuoi confronti –
rispose Deanna, con maggiore sicurezza di quanto volesse, poi sorrise nel
notare il barlume di delusione che aveva attraversato il viso di Riker e
cercò di lenire il suo orgoglio ferito, esponendo al tempo stesso i propri
pensieri turbati. – Ed è proprio di questo che si tratta: sento che lei non si
interessa a nulla che non sia la sua musica. È vuota, Will, priva di qualsiasi
emozione.
77
VIII.
Dieci Coloni, uomini e donne, erano accalcati in un capannello serrato
sulla porta aperta del ponte ologrammi, appena al di là della quale si
vedevano colline dolci ricoperte di alberi dalle fronde ombrose agitate da
una brezza leggera. Edifici di legno dipinti di rosso erano allineati lungo la
parete più lontana dello scafo della nave, ma le immagini dei pascoli
proiettate sulla superficie piatta creavano una vista di prati e di campi che
si perdeva fino al lontano orizzonte.
Il Colono Leonard si avvicinò di più all'entrata e annusò l'aria fresca e
satura di odore di caprifoglio, inspirando profondamente per assaporare
quel profumo così familiare.
– L'inizio della primavera, proprio il momento della semina –
commentò.
Alcuni fra i Coloni più timidi lo guardarono attentamente, ma Leonard
non mostrò in alcun modo di aver subito danni da quel contatto e a poco a
poco anche gli altri gli si affiancarono.
– Non ho mai visto così tanto verde in tutti gli anni che abbiamo passato
su Grzydc – sospirò Charla. – Sembra proprio Yonada.
Tomas sbuffò sonoramente e si ritrasse.
– È solo una finzione di bassa lega, un'illusione – bofonchiò, tirandosi la
barba con irritazione.
– Dopo tre mesi nello spazio, a me va bene anche un'illusione. Non sarà
certo peggio della realtà – esclamò Mry.
Fu lei la prima a passare dal ponte in duro metallo alla terra che cedeva
leggera sotto i piedi, ma Leonard immediatamente la seguì. L'attrazione
esercitata dall'aria fresca e dal tepore del sole era troppo forte perché gli
altri potessero resistere a lungo e alla spicciolata cominciarono tutti ad
oltrepassare la porta finché Tomas rimase da solo.
– Vergognatevi – urlò loro dietro. – L'ho detto prima e lo ripeto adesso:
preferirei entrare nelle fauci aperte di un drago piuttosto che mettere piede
in una simulazione olografica. In passato avete applaudito i miei principi
etici – continuò, alzando ancora la voce perché i suoi compagni lo
sentissero mentre si allontanavano, – ma è evidente che i vostri principi
non possono resistere alla tentazione.
– Vieni Tomas – replicò l'anziana Myra, che si era attardata ed era
ancora vicino all'entrata. – Puoi disapprovare tutto questo anche venendo
dentro.
78
– Posso vedere benissimo anche restando qui – dichiarò Tomas, senza
muoversi di un passo, poi infilò i pollici nella cintura per fermare il tremito
delle mani e socchiuse gli occhi nel vedere sua sorella e Leonard che
ridevano e si rotolavano nell'erba del prato.
– Mry è una donna molto bella – commentò Myra, con una risatina
secca, – ed è abbastanza cresciuta per avere bambini.
– Forse sì – confermò lui, – ma io avrò voce in capitolo sulla scelta
dell'uomo con cui li avrà.
Serrando i denti, si decise infine a muoversi; non appena ebbe
oltrepassato l'entrata le due porte si chiusero con un soffice sibilo e poi
svanirono, rendendo l'illusione completa: adesso Tomas si trovava in
mezzo ad un campo di erba mossa dal vento e sopra di lui faceva volta un
cielo azzurro privo di nuvole dove splendeva un sole giallo il cui calore lo
indusse a sbottonarsi i primi bottoni della camicia di flanella.
Il giovane Stvn si lasciò cadere in ginocchio e infilò le dita nel terreno,
smuovendo una zolla di terra e sbriciolando il fertile terriccio fra le mani,
mentre poco lontano il Vecchio Steven strappava un ciuffo d'erba e
prendeva a masticarne la radice.
– Non è un suolo adatto per piantarci il granturco, ma un acro di grano ci
crescerebbe bene.
– Solo gli animali verranno portati qui, non i semi – sottolineò Tomas,
fissando i due uomini con occhi roventi.
– Ma è sempre uno spreco lasciare incolta della terra così buona –
sospirò il giovane Stvn, scambiando un'occhiata d'approvazione con suo
zio. – Ci vorranno decenni di duro lavoro per trasformare New Oregon in
un mondo bello come questo.
Tomas spostò quindi il proprio sguardo rabbioso su Dnnys e Wesley, che
erano usciti di corsa dal granaio e stavano attraversando la verde pianura
per dare il benvenuto agli adulti.
– Un altro corto circuito e le nostre pecore brucheranno un ponte di
metallo – brontolò, non appena i due ragazzi furono a portata di voce.
– Io penso che abbiano fatto un ottimo lavoro – ribatté Mry. Due ali
sbatterono sfiorandole le guance e poi si allontanarono danzando. –
Guardate, una farfalla arancione! Non ne ho mai vista una viva prima
d'ora. Chi ha pensato a un dettaglio così piacevole?
– Ehm, è stata un'idea mia – ammise Wesley.
– E così tu sei un artista oltre che un ingegnere – commentò la ragazza,
togliendogli un ciuffo di paglia dai capelli.
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– Cosa c'è che non va? – chiese Dnnys, assestando una gomitata nelle
costole all'amico. – Stai diventando tutto rosso!
– Il sole è troppo caldo – rispose Wesley, e quando Mry gli sorrise
arrossì ancora. – Meglio che vada a ricontrollare il codice di costruzione.
– Vorrei che vivere in una fattoria fosse divertente come scrivere il
programma per costruirne una – sospirò Dnnys. – In quel caso non mi
dispiacerebbe...
Sua cugina si affrettò a posargli una mano sulle labbra.
– Silenzio, Dnnys, o ti sentiranno – lo avvertì, guardando nervosamente
verso gli altri Coloni.
Myra stava avanzando verso di loro con passo zoppicante e con un
cipiglio preoccupato.
– Non perdiamo tempo. Voglio vedere i pollai.
– Non c'è ragione di vedere altre cose – dichiarò Tomas disperatamente.
Myra accantonò con un gesto la sua protesta come se fosse stata un
cattivo odore.
– Questa è una fattoria e una fattoria significa lavoro. I più giovani sono
stati a oziare per troppo tempo e si sono dimenticati il valore del duro
lavoro. Rinfrescherò loro la memoria.
Su insistenza di Myra, l'intero gruppo si diresse verso gli edifici e Tomas
si incamminò accanto alla sorella in modo da usare la propria corporatura
robusta per nasconderla agli occhi di Leonard, ormai dimentico di
qualsiasi obiezione sull'uso della simulazione.
Tutti i preparativi per l'incontro con la Si Bemolle erano stati eseguiti,
ma il momento in cui Deelor avrebbe preso il comando della plancia non
era ancora venuto. Sospesi nell'inevitabile quiete che precedeva l'azione,
lui e Ruthe non potevano far altro che attendere.
Deelor era seduto immobile come un gatto acquattato, i muscoli pronti a
scattare; non si era mosso dalla sedia per oltre un'ora, ma la sua mente
andava e veniva senza posa, viaggiando nell'immutabile passato e
scandagliando il troppo imprevedibile futuro.
Ruthe invece, allungata sul letto dell'alloggio e intenta ad ascoltare un
brano dolce scelto dall'archivio del computer... un assolo di violoncello...
era palesemente felice nel suo presente.
– Tu piaci a Riker – esordì Deelor, ad un certo punto.
– Davvero? – si stupì lei guardandolo pigramente, persa nella musica.
Deelor si chiese se i Choraii avrebbero ammirato un po' di più gli Umani
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se avessero potuto ascoltare quella suite di Bach o un concerto di Mozart.
– Come puoi saperlo? – chiese lei.
– Per il modo in cui ti guarda.
– Devo fare qualcosa al riguardo?
– No. No, se non vuoi.
Intanto la sarabanda stava cedendo il posto alla gavotta nel passaggio
che Ruthe preferiva della suite in Re maggiore, e Deelor conosceva i suoi
gusti abbastanza bene da rimanere in silenzio finché il passaggio non fu
terminato, riprendendo a parlare soltanto all'inizio della giga.
– Crede che noi due siamo amanti.
– Chi? – domandò lei.
– Riker.
– Oh, lui – commentò Ruthe, poi si accigliò improvvisamente e
domandò: – È per questo che mi ha chiesto di suonare per lui? Perché gli
piaccio?
– In parte. Comunque probabilmente aveva l'ordine di sapere di più sui
Choraii.
Ruthe si appallottolò, un segno sicuro che quelle ultime parole l'avevano
turbata.
– Che cosa gli hai detto? – chiese Deelor, cercando di proiettare soltanto
una curiosità casuale: se Ruthe avesse avvertito la minima tensione in
quella domanda, avrebbe probabilmente smesso di parlare del tutto.
– Non mi ricordo.
Forse non si ricordava davvero, visto che tanto il passato quanto il futuro
le interessavano ben poco. Deelor si alzò dalla sedia e con un veloce tocco
ai controlli della stanza, interruppe la musica.
Ruthe si sollevò a sedere di botto e Deelor seppe di avere adesso tutta la
sua attenzione.
– Ruthe, conosci la mia posizione. Se il capitano e il suo equipaggio
scoprono il tuo accordo con i Choraii io non sarò in grado di coprirti. Stai
agendo senza l'approvazione ufficiale e per il tuo stesso bene dovrai stare
molto attenta con Riker e gli altri.
– Non mi piace, comunque.
– Nemmeno a me – rise Deelor. – Ma mi piaci tu – aggiunse con un
sospiro, e nel notare lo sguardo subito diffidente di lei concluse: – E non
mi aspetto che tu faccia niente al riguardo.
Con un leggero tocco alla consolle operazioni, Data fece apparire sullo
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schermo principale della plancia una rappresentazione grafica della rete
energetica dei Choraii, poi toccò di nuovo la consolle e la disordinata
ragnatela bluastra cominciò a brillare.
– Questa è soltanto una teoria – spiegò con cautela l'androide ai due
ufficiali seduti sulle poltrone di comando.
– Sì, capisco – annuì Picard e scrutò con gli occhi socchiusi l'improvvisa
lucentezza dell'immagine apparsa sul visore, massaggiandosi l'arco del
naso con espressione pensosa. – Continui per favore.
– La rete dei Choraii è costituita da filamenti flessibili di energia. Credo
che sia possibile catturare uno di quei filamenti e, piegandolo, creare
un'area debole che può essere perforata da una sonda costruita
appositamente.
– A che scopo? – chiese Riker, studiando lo schema del piano di Data
che era apparso sul visore, dove una sequenza animata portò la sonda in
contatto con la rete.
– Per attingere alla fonte di energia della rete – spiegò Data, mentre le
linee blu perdevano la loro luminosità. – Potremmo disperdere l'energia
nello spazio, o usarla noi stessi. In entrambi i casi, il campo così indebolito
sarà inefficace contro i nostri scudi.
– Sembra rischioso – commentò Riker, accigliandosi. – Cosa succederà
se perderemo il controllo della corrente?
– Esistono trentaquattro probabilità su cento che si verifichi
un'esplosione da sovraccarico – replicò Data. – Come ho detto, il modello
è solo teorico, e potrebbe richiedere qualche modifica durante l'operazione
reale.
Picard considerò il pericolo di provare tale difesa nel mezzo di una
battaglia.
– Speriamo che non si arrivi a tanto, Signor Data – commentò.
– Mancano solo quattro ore all'incontro, quindi non abbiamo molte
opzioni – gli ricordò Riker, accasciandosi contro lo schienale della
poltrona perché era ormai troppo stanco per mantenere la consueta
posizione eretta... gli ufficiali di plancia stavano lavorando da diversi turni
senza una sosta.
– Dovremmo fare affidamento sulla diplomazia di Andrew Deelor e
probabilmente l'ambasciatore possiede molte tattiche che non si abbassa a
spiegare ai subordinati – replicò in tono amaro il capitano, poi scrutò con
maggiore attenzione il suo primo ufficiale e aggiunse: – Potremmo però
impiegare il tempo che ci rimane riposandoci un po'... incluso lei, Numero
82
Uno.
Riker si affrettò a correggere l'atteggiamento accasciato che l'aveva
tradito.
– Soltanto a condizione che lei lasci a sua volta la plancia, capitano –
disse, e senza permettere a Picard di ribattere continuò: – Se glielo
chiedesse, sono sicuro che anche l'ufficiale medico capo insisterebbe.
Un tenue sorriso illuminò il viso di Picard: a quanto pareva neppure lui
era in grado di nascondere la propria fatica.
– Non c'è motivo di disturbare la Dottoressa Crusher. Andrò a letto come
un bravo bambino – garantì, alzandosi dalla poltrona, poi si rivolse
all'unico ufficiale presente in plancia che non aveva bisogno di riposo. –
Comandante Data, a lei il comando.
Una volta raggiunto il proprio alloggio, Picard non riuscì però ad
addormentarsi e rimase immobile sul letto, con gli occhi chiusi, a
riflettere... Andrew Deelor avrebbe presto preteso il comando
dell'Enterprise, e l'Ammiraglio Zagráth era stato molto chiaro: quando
Deelor avesse avanzato la sua richiesta, lui avrebbe dovuto sottostarvi.
– Non sprechi la fortuna con noi, Capitano Picard. Lei ne avrà molto
più bisogno.
L'avvertimento di D'Amelio gli risuonò di nuovo nell'orecchio e Picard
sentì il peso del corpo morente di Phil Manin tra le sue braccia: il capitano
della Ferrel aveva seguito gli ordini dell'ambasciatore ed era vissuto
abbastanza per pentirsene. A che punto l'obbedienza all'autorità diventava
indubbia stupidità?
Passarono le ore.
Quando Data lo chiamò in plancia Picard non era ancora riuscito a dare
una risposta a quelle domande e si alzò dal letto sentendosi più stanco di
quando si era disteso.
Il Tenente Worf aveva stoicamente sopportato l'offensiva insistenza del
Capitano Picard perché riposasse, e poi aveva marciato obbediente verso il
suo alloggio. Come Klingon, Worf eseguiva gli ordini alla lettera, ma come
Klingon si sentiva anche libero di violarne lo spirito se questi ordini non si
adattavano a lui: rimase quindi nel suo alloggio per quasi due minuti, e poi
tornò in plancia.
– Gli Umani dormono troppo – spiegò a Data. – Offusca i riflessi.
Non avendo bisogno di quei periodi di inattività, Data non era quindi in
grado di giudicare la validità dell'affermazione di Worf, ma volle
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aggiungere una sua osservazione.
– Sembra però che trovino il sonno un processo piacevole.
– Questa è un'altra ragione per evitarlo.
Worf si rimise al lavoro sul problema che l'aveva ossessionato da giorni:
la capacità della Si Bemolle di sovraccaricare il raggio traente. Sebbene
non potessero sfuggirgli, le sfere dei Choraii potevano muoversi all'interno
del raggio e quindi eludevano qualsiasi contromisura. Modificando la
forma della nave in una lunga fila avevano aumentato la richiesta d'energia
alle riserve dell'Enterprise e le simulazioni al computer indicavano che
anche una forma ad anello avrebbe avuto lo stesso effetto. Ogni
configurazione espandeva il raggio traente che finiva per richiedere più
energia di quella assegnata.
– Il fatto è che non si sono liberati dal raggio traente, ma ci hanno
costretti a disinserirlo perché l'energia necessaria a mantenerlo era
diventata troppo alta – spiegò Worf, mostrando a Data i risultati.
– Forse la Ferrel aveva cercato di trattenerli più a lungo – teorizzò
l'androide, – il che potrebbe spiegare perché la nave stellare era diventata
così vulnerabile alla matrice d'energia.
– Secondo i computer, abbiamo bisogno di più energia.
– Sarebbe certamente la soluzione più diretta – convenne Data, – così
come anche più potenza ai phaser avrebbe potuto fermarli.
– Il Comandante Riker ha trovato un modo per danneggiare la Si
Bemolle con meno potenza, restringendo il raggio dei phaser – rifletté
Worf, accigliandosi nel pensare alla parte della teoria di Data che
l'androide aveva preferito passare sotto silenzio. – In altre parole, le
soluzioni consuete non funzionano con i Choraii.
Tornò alla postazione scientifica vedendo le cose da una nuova
prospettiva: i computer stavano cercando risposte basate su parametri
standard, ma cambiando i parametri del raggio traente forse poteva
escogitare nuove soluzioni.
Un'ora dopo, Worf trovò la sua risposta.
– Teoricamente, potrebbe funzionare – considerò Data, guardando la
nuova simulazione grafica. Worf aveva diviso il raggio traente in quattro
raggi distinti, ognuno agganciato ad una singola sfera. Senza dipendere
dalla forma generale che le sfere costruivano, i raggi mantenevano
l'aggancio sui bersagli individuali e il consumo di energia totale non era
più alto di quello di un singolo raggio traente.
– Questa volta non potranno allontanarsi – dichiarò Worf, e quella
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certezza lo fece sentire più riposato, molto più che se avesse dormito.
La Dottoressa Crusher sentì il suono dei passi che entravano nel suo
ufficio, ma non alzò gli occhi dallo schermo del computer.
– Sono occupata adesso, torni più tardi.
L'ombra che si proiettò sulla scrivania però non accennò a muoversi.
– L'infermiera mi aveva avvertito che lei avrebbe potuto accogliermi
così.
Al suono della voce ironica di Deelor la dottoressa alzò la testa di scatto.
– Come ufficiale medico capo della nave ho la responsabilità di
prepararmi per l'arrivo dei sopravvissuti di Hamlin, ma senza una guida
posso soltanto approntare un'organizzazione molto generica. Di certo mi
aspetto un disorientamento emotivo, e probabilmente i prigionieri
soffriranno anche di carenze vitaminiche. Al di là di questo c'è poi un
assortimento di malattie che vanno dai semplici disturbi gastrici alle
diverse forme di paralisi – spiegò, battendo un colpetto sullo schermo che
fino a poco prima aveva assorbito la sua attenzione, poi continuò: – Se la
nave dei Choraii manca di gravità, i prigionieri potrebbero non avere
sviluppato le ossa ma soltanto una soffice cartilagine che si piegherebbe
sotto il peso dei loro corpi. E questo solo per cominciare...
– Oh, la smetta di preoccuparsi – le rispose pigramente Deelor, posando
una cassetta-dati sulla scrivania. – Ho io una cura per i malanni del
dottore. Queste registrazioni mediche daranno una risposta alla maggior
parte delle sue domande riguardo ai prigionieri.
– Era ora!
– Non c'è di che, dottoressa – ridacchiò Deelor, notando che il suo buon
umore non aveva fatto altro che irritarla ancora di più. – Ah, Dottoressa
Crusher, riguardo alle registrazioni, sono sicuro che non c'è bisogno di
ricordarle che questo è materiale segretissimo – concluse, e anche se il
tono rimase leggero le sue parole suonarono sufficientemente serie.
– Ne sono perfettamente consapevole, ambasciatore – confermò lei
facendo scivolare la registrazione nel computer e cominciando a leggere.
Quando Picard rientrò in plancia, il suo primo ufficiale aveva già
assunto il comando, e Data era tornato alla sua postazione al timone. Riker
salutò il capitano con un tono insolitamente grave.
– L'Ambasciatore Deelor vuole vederla.
– Gli dica di venire nella sala tattica – replicò Picard, che si era aspettato
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una cosa del genere.
– E già là, signore.
Picard entrò nel suo ufficio e vide che Deelor era in piedi accanto
all'oblò, intento a scrutare lo spazio.
– Non si vuole sedere? – gli domandò in tono secco, indicando la sedia
del capitano al di là della scrivania.
Deelor si allontanò dall'oblò.
– La scrivania è sua, capitano, ma la plancia è mia. Assumo il pieno
comando della nave da questo momento.
– Ha il controllo della missione, ambasciatore, ma non dell'Enterprise –
replicò Picard.
Deelor si accigliò, ma non si dimostrò sorpreso.
– L'Ammiraglio Zagráth...
– Non è qui adesso – gli ricordò Picard, con la voce atona. – La mia
responsabilità principale è verso il mio equipaggio, e non ne metterò il
destino nelle sue mani.
– Anche se questo le facesse correre il rischio di una corte marziale?
– Per una corte marziale sarebbe necessario discutere in pubblico la
situazione dei Choraii e dei loro prigionieri di Hamlin. E dovremmo
discutere della U.S.S. Ferrel.
– Molto astuto – si complimentò Deelor. – Phil Manin non è riuscito a
chiamare il mio bluff. Però ci sono molti modi di perdere il comando,
Capitano Picard... ad esempio essere promossi ad un lavoro senza futuro su
un pianeta retrogrado.
– Sempre meglio che perdere questa nave. Lei ha distrutto la Ferrel, e
non distruggerà l'Enterprise.
– La sua preoccupazione è ammirevole, ma mal riposta – dichiarò
l'ambasciatore, sempre più accigliato. – Ho avuto a che fare con i Choraii
prima di lei e sono in grado di prendere decisioni più ponderate.
– Allora mi dica ciò che sa.
– Lei è un uomo testardo – sospirò Deelor. – Non si lasci ingannare dal
fatto che offusco la sua autorità. Nonostante ciò che pensa, le mie azioni
non sono dettate dal capriccio o dall'ignoranza – ribadì, sfiorando il vetro
dell'acquario a muro e guardando il pesce all'interno che tentava di
mordere il riflesso del suo dito. Quando tornò a rivolgersi a Picard, le sue
labbra erano piegate in un sorriso rammaricato. – Mantenga pure il
controllo della sua nave, capitano. Non possiamo permetterci di lottare tra
noi o i Choraii ne approfitteranno subito. Se però l'Enterprise ha qualche
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valore per lei, ascolti tutti i consigli che le darò.
Picard avvertì le prime fitte di dubbiosità: Deelor era intelligente e falso,
e si stava mostrando inaspettatamente generoso nella sconfitta.
I due uomini lasciarono insieme la sala tattica e tornarono in plancia.
Picard notò lo sguardo interrogativo del suo primo ufficiale, ma non disse
nulla che potesse mitigare la curiosità di Riker su quello che era successo:
mantenendo la sua espressione del tutto indecifrabile, si sedette sulla
consueta poltrona al centro della postazione di comando, e Deelor prese il
posto alla sua sinistra. Allora, e solo allora, Picard incontrò lo sguardo del
primo ufficiale.
– Possiamo procedere con l'approccio, Numero Uno.
– Velocità di impulso, Signor La Forge – ordinò Riker, mentre la nave si
avvicinava alle coordinate dell'incontro.
– Rallentiamo a velocità di impulso ora.
– Letture dei sensori, Signor Data? – chiese quindi il primo ufficiale.
– Ancora nessun segno dei Choraii.
– Fermare i motori.
Il luogo scelto da Ruthe era stato raggiunto e l'Enterprise rimase
immobile nello spazio vuoto.
– Allora, ambasciatore? – domandò Picard in tono tagliente. – Siamo
qui, nel luogo stabilito e al momento stabilito. Dove sono i Choraii? –
Aveva messo in pericolo la sua carriera per quest'incontro, e se la Si
Bemolle non si fosse fatta vedere il suo gesto avrebbe avuto lo stesso
effetto di una doccia fredda.
– Abbia pazienza, capitano, sono certo che arriveranno... come verrà
anche Ruthe – replicò Deelor, lanciandosi uno sguardo alle spalle con
espressione accigliata.
– In realtà, siamo un po' in anticipo – fece notare Data, – e precisamente
di un minuto e quindici secondi.
– Data – scattò Picard, troppo teso per tollerare l'eccessiva letteralità
dell'androide, – se non ci sono navi entro il raggio dei sensori, significa
che i Choraii arriveranno in ritardo... sempre ammesso che vengano.
– Capitano! – esclamò Yar. – I sensori a lungo raggio hanno registrato un
oggetto in questo momento: è appena giunto a portata... no, ha già superato
di parecchio la soglia massima dei sensori e si avvicina a velocità
sostenuta... incredibilmente sostenuta!
– Alzare gli scudi – ordinò Picard, irrigidendosi.
– Guardate là! – gridò Geordi, indicando lo schermo principale.
87
Pochi secondi prima non c'era nessuna immagine, e adesso un minuscolo
punto stava diventando sempre più grande: vorticando su se stessa, la Si
Bemolle stava puntando verso l'Enterprise.
– Ci sono addosso – avvertì Yar, mentre il grappolo di bolle fra il rosso e
l'arancione riempiva lo schermo. La sirena dell'Allarme Giallo si attivò
automaticamente protestando per quell'approssimarsi subitaneo.
– Manovra evasiva – ordinò Picard, traendo un profondo respiro.
– No! Non ci stanno attaccando – intervenne Deelor.
– Come può esserne sicuro? – domandò Picard, trattenendosi però dal
dare un altro ordine.
Un attimo prima della collisione, la nave dei Choraii si fermò, con le
sfere che tremolavano e rabbrividivano per l'improvvisa decelerazione.
– Ventidue secondi di anticipo: la loro puntualità è impressionante –
affermò Data.
– Lo è anche la loro velocità – commentò Picard, inarcando un
sopracciglio. Adesso capiva perché la Flotta Stellare avesse scelto un
agente segreto per quella missione diplomatica.
IX.
Diario del capitano: il mio senso del dovere mi ha spesso portato a
intraprendere compiti spiacevoli, eppure questa volta trovo l'incarico
particolarmente disgustoso. Stiamo barattando merci in cambio di vite
umane, stiamo pagando per la restituzione di persone che non avrebbero
mai dovuto essere catturate. È dunque questo il meglio che la diplomazia
ci può offrire?
Ruthe si presentò nella parte poppiera della plancia in maniera
altrettanto improvvisa quanto lo era stato l'approccio della nave Choraii sul
visore e diede il benvenuto alla Si Bemolle facendo scaturire una fluente
melodia dal suo flauto: suonando e camminando allo stesso tempo, scese
dalla parte sopraelevata del ponte fino al centro della plancia senza mai
distogliere lo sguardo dall'immagine sullo schermo visore.
– Possiamo avere un contatto visivo con l'interno? – domandò Picard a
Deelor, mentre la canzone veniva trasmessa all'altra nave.
– No – replicò questi, scuotendo il capo. – Sembra che non abbiano
l'equivalente della nostra tecnologia video, anche se il loro sistema audio è
altamente sviluppato.
88
– Qualche commento, consigliere? – chiese quindi Picard, preferendo
controllare un'altra fonte di informazioni.
Deanna Troi svuotò la mente dei propri pensieri, filtrò le emozioni
familiari dei compagni che la circondavano e studiò ciò che rimaneva.
– Sento una presenza molto forte che oscura gli esseri individuali
all'interno del vascello. È come se la nave stessa fosse un essere vivente, o
forse un'estensione dei suoi abitanti.
Ruthe terminò la sua musica e l'equipaggio Choraii rispose all'unisono
restituendo il saluto. Quattro voci si unirono ad una ad una in una scala
prima ascendente e poi discendente.
L'Ambasciatore Deelor attese con pazienza che quelle presentazioni
preliminari fossero completate, poi ordinò a Ruthe di confermare le
condizioni stabilite per il precedente scambio; la donna tradusse le sue
parole in una nuova forma melodica e attese.
Picard udì alcune note dissonanti nella risposta dei Choraii, anche se non
riuscì a capirne il significato... e l'espressione preoccupata apparsa sul viso
di Riker indicava che anche lui aveva percepito il cambio di chiave.
– Cos'è successo?
– I Choraii vogliono più piombo. Cinque chili e mezzo, invece degli
iniziali quattro – spiegò Ruthe, e guardò Deelor per ricevere le prossime
istruzioni.
– Niente da fare. Comunica che i termini sono stati stabiliti. Quattro chili
in tutto e ricorda loro che il primo pagamento è già stato fatto.
Mentre Ruthe procedeva alla traduzione dello Standard Federale di
Deelor nel linguaggio dei Choraii, Picard si chiese se quel laborioso
processo fosse una concessione fatta ai Choraii o piuttosto un tentativo di
nascondere parti del negoziato all'equipaggio dell'Enterprise. Nonostante il
suo atteggiamento nei confronti di Deelor fosse cambiato nell'ultima ora, e
lui si sentisse adesso più incline a fidarsi dell'ambasciatore, non c'era
infatti ancora alcun modo per confermare l'accuratezza delle traduzioni di
Ruthe. Picard sapeva che Data stava facendo progressi con il computer
linguistico, ma i risultati finora ottenuti non erano sufficienti per seguire
quel complesso scambio di mercanzia.
La dissonanza nella trasmissione della Si Bemolle aumentò. Ruthe
ascoltò e alla fine scosse il capo.
– I Choraii dicono che questa è una nuova nave, perciò vogliono un
nuovo contratto.
– Sono d'accordo – annuì enfaticamente Deelor. – Un chilo e mezzo per
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il prigioniero, visto che l'Enterprise è una nave più forte della Ferrel e li ha
già sconfitti in battaglia... sempre che non preferiscano combattere ancora
e fissare il nuovo prezzo al termine dello scontro.
Picard si schiarì la gola ma non si oppose alla sfida lanciata da Deelor
perché aveva acconsentito a lasciare che fosse lui a gestire quella parte
della missione; il suo disagio non passò però inosservato.
– I Choraii rispettano chi tratta senza mostrare debolezze – gli spiegò
Deelor, in disparte. – Inoltre meno metallo riceveranno e prima saranno
pronti a barattare altri prigionieri.
Intanto Ruthe doveva essere riuscita a comunicare agli alieni la
determinazione di Deelor.
– Accettano il prezzo originale – annunciò infatti, a conclusione di
un'altra canzone, – e sono pronti a discutere le procedure di scambio.
– Il prigioniero dovrà essere consegnato per primo.
Fino a quel momento la traduttrice si era limitata a ripetere le frasi di
Deelor senza commenti, ma questa volta azzardò un'opinione.
– Si aspetteranno una garanzia.
– Nessuna garanzia – ribatté lui, con fermezza. – Se la sono giocata con
le loro azioni contro la Ferrel. Dovranno accettare le mie condizioni o non
se ne farà niente.
Scrollando le spalle, Ruthe si portò il flauto alle labbra e ne trasse uno
staccato di note discordi.
– Rilassatevi – consigliò Deelor al capitano e a Riker, appoggiandosi
allo schienale della poltrona. – Questa volta ci vorrà un po' più di tempo.
– Cosa è successo con la Ferrel? – domandò Picard a bassa voce.
Si aspettava che l'ambasciatore eludesse la domanda, ma con sua
sorpresa ricevette una risposta pronta e diretta.
– Abbiamo teletrasportato metà del piombo richiesto a titolo di garanzia,
e la Si Bemolle si è allontanata più veloce di un lampo – spiegò Deelor,
accigliandosi nel ripensare al risultato di quell'azione.
– A quel punto avete tentato di trattenerla con un raggio traente,
esaurendo le vostre riserve di energia – suggerì Data, – o almeno questa è
la teoria che ho formulato basandomi sui dati disponibili. È corretta?
Deelor rimase in silenzio per un minuto, rimuginando sulla congettura
del timoniere, mentre la musica di Ruthe galleggiava nell'aria intorno a
loro.
– Sì – ammise infine. – Quando ci hanno colpiti con la matrice
energetica eravamo ormai troppo deboli per liberarci o anche solo per
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attivare i phaser.
La canzone della traduttrice terminò e lei abbassò il flauto.
– Sono molto irritati per le tue condizioni.
– I Choraii hanno chiuso il loro canale di comunicazione – annunciò Yar,
controllando la sua consolle.
– Ma non si stanno allontanando – rifletté Deelor, pensoso. –
Aspetteremo.
– Dannazione! – esclamò Beverly Crusher, quando ebbe finito di leggere
il rapporto su Hamlin. – E ancora dannazione!
Recuperò la cassetta-dati, eliminando tutti i documenti segreti dal
computer medico, e pensò a quello che aveva appena letto: gli sviluppi
avrebbero dovuto apparire ovvi ad un dottore ed era furente con se stessa
per non aver saputo spingere lo sguardo abbastanza avanti da arrivare da
sola alle dovute conclusioni... invece la sua preoccupazione si era limitata
alle sole condizioni mediche dei bambini di Hamlin. Ancora quel nome
sbagliato! Data aveva sottolineato che non erano più bambini, ma
l'immagine continuava a persistere.
Ancora intenta ad assorbire le implicazioni delle nuove informazioni,
Crusher si diresse in plancia; aveva sentito il brivido che aveva percorso la
nave quando l'Enterprise era uscita dalla curvatura e sapeva che questo
significava che i negoziati per riavere i prigionieri della Si Bemolle
dovevano essere iniziati.
Si era aspettata di trovare la plancia pervasa di musica e non immersa in
un fragile silenzio che attirò sul suo ingresso l'attenzione dell'intero
equipaggio; in preda ad un imbarazzo che non le era abituale, percorse la
breve distanza che separava il turboascensore dalle poltrone di comando.
Dal momento che tutti i posti erano occupati, fu costretta a rimanere in
piedi accanto a Ruthe, e questo la fece sentire ancora più in vista.
– Ha finito il lavoro, dottoressa? – chiese Deelor.
– Sì – rispose lei, infilando con violenza le mani nelle tasche della sua
giacca medica per reprimere l'impulso ad abbassare la voce mentre
aggiungeva: – Una lettura molto interessante.
Fortunatamente, l'attenzione del capitano era concentrata sul visore e lui
era troppo distratto per analizzare il significato di quel commento, che la
dottoressa non era peraltro impaziente di chiarire di fronte a tanta gente.
Anche lei si unì quindi al vigile silenzio.
– È in arrivo una trasmissione dai Choraii – annunciò infine Yar, e passò
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il messaggio sugli altoparlanti. La dissonanza nella loro musica era adesso
in sordina, ma lo era anche la melodia.
– Sono d'accordo – tradusse Ruthe, dopo aver ascoltato con attenzione i
cantanti Choraii, – ma la decisione non è stata unanime. Suggerisco di
procedere velocemente, prima che la loro discordanza aumenti. – In quel
momento un'altra voce la interruppe con uno stridente assolo e un istante
più tardi lei aggiunse: – Uno di loro ci avverte che se l'Enterprise cercherà
di fuggire, ci saranno immediate rappresaglie.
– È ovvio – sorrise Deelor, segnalando a Ruthe di utilizzare di nuovo il
flauto. – Riferisci che ci sentiremmo disonorati se loro non reagissero.
La traduttrice trasmise quell'emozione con un brano vivace e quasi
impudente a cui tutti e quattro i Choraii fecero eco nella loro risposta.
– Li hai divertiti e gli è piaciuto. Stai attento, o vorranno mercanteggiare
per avere te.
– Non potrebbero mai pagare il mio prezzo – ribatté Deelor, alzandosi in
piedi di scatto. – Signor Riker, può preparare il piombo per la spedizione
mentre Ruthe si teletrasporta sulla nave Choraii.
– È realmente necessario un contatto diretto? – domandò Picard,
allarmato.
– La densa struttura organica della Si Bemolle rende molto difficile
ottenere una esatta lettura di vita organica – intervenne Data, risparmiando
all'ambasciatore il fastidio di dover rispondere. – I miei sensori non sono
capaci di determinare le coordinate per il teletrasporto del prigioniero
umano.
– La mia squadra di ricognizione è a sua disposizione, ambasciatore –
propose Riker, alzandosi in piedi. – Possiamo teletrasportarci con...
– Voi statene fuori – esplose Ruthe. – Non voglio il vostro aiuto.
– La ringrazio per l'offerta, Signor Riker – si affrettò ad interloquire
Deelor, – ma temo che la vostra squadra non sia addestrata per
l'esplorazione di una nave Choraii. L'interno non è pericoloso – proseguì,
rivolto al capitano, – ma si deve respirare la materia liquida che costituisce
l'atmosfera della nave, e d'altro canto indossare qualsiasi tuta di protezione
che coprisse il vostro fisico sarebbe considerato dai Choraii un grave
insulto e un segno di inganno.
Notando che Picard appariva ancora dubbioso, la Dottoressa Crusher si
unì alla discussione.
– Secondo le registrazioni mediche, il fluido è ricco di ossigeno e quindi
respirabile... non si potrebbe affogare neppure se i polmoni ne fossero
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pieni... ma l'esperienza sarebbe uno shock per una specie che respira aria,
come noi.
– Comunque, capitano – interloquì Deelor, – vorrei che ci fosse una
squadra di riserva in caso di guai. Permette al Signor Riker e al Tenente
Yar di accompagnare Ruthe nella sala teletrasporto?
– Certamente – acconsentì Picard con un sorriso ironico, e in tono tanto
sommesso che soltanto Crusher lo sentì aggiunse: – Di solito non si
preoccupa di chiedere.
– Naturalmente servirà anche la Dottoressa Crusher – continuò Deelor,
con un accenno d'inchino, – per fornire le migliori cure mediche.
– Muoviamoci, i Choraii stanno aspettando – esclamò Ruthe, e si avviò
con impazienza verso il turboascensore.
Beverly Crusher la seguì con riluttanza, pensando che non aveva ancora
avuto l'opportunità di discutere i rapporti medici relativi ad Hamlin con il
Capitano Picard... ma del resto non tutto di ciò che aveva letto poteva
essergli riferito.
La preparazione di Ruthe per salire sulla nave Choraii fu semplice:
consegnò il flauto al Tenente Yar e lasciò cadere sui gradini della
piattaforma del teletrasporto il mantello grigio che indossava sempre: sotto
di esso portava un emblema-comunicatore appeso al collo con una
catenella... e niente altro.
Salita sulla piattaforma circolare, attese senza scomporsi il proprio
trasferimento mentre Riker stabiliva un codice di comunicazione,
sforzandosi di imitare l'indifferenza di lei senza riuscirci del tutto.
– Un trillo significa che vuole ritornare immediatamente sull'Enterprise,
mentre se sentiremo due segnali la nostra squadra verrà a darle man forte
sulla Si Bemolle.
– Non sarà necessario – replicò Ruthe, calma. – Evitiamo ulteriori
ritardi, Signor Riker.
Il primo ufficiale si allontanò dalla piattaforma e rivolse un cenno a
Tasha Yar. Come capo della Sicurezza la giovane tenente supervisionava
tutte le procedure che avevano ripercussioni sulle difese della nave, e
azionare il teletrasporto significava abbassare per qualche momento gli
scudi dell'Enterprise, cosa che Yar aveva imparato a fare limitando al
minimo la finestra di vulnerabilità. Non appena il tenente attivò i controlli
del teletrasporto, un gemito acuto riempì la stanza e Ruthe scomparve in
uno sfarfallio di luce.
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Ora che la prima fase dello scambio era cominciata, Riker e Yar
prepararono immediatamente la seconda: la Dottoressa Crusher osservò i
due ufficiali sollevare lingotti di piombo da una piccola scatola e
ammassarli ordinatamente sulla piattaforma vicino all'area lasciata libera
da Ruthe.
– Il pagamento è pronto – annunciò infine Riker, appoggiando sulla pila
l'ultimo lingotto.
– Sì – mormorò Crusher, con espressione preoccupata. – Ma chi stiamo
comprando?
Il ritmo lento del rituale di saluto dei Choraii aveva preparato
l'equipaggio dell'Enterprise ad un'altra attesa prolungata durante il
contatto, ma quella consapevolezza non servì comunque ad attenuarne la
tensione. La conversazione in plancia divenne sempre più saltuaria fino a
interrompersi del tutto mentre due ore scorrevano lente senza che la
traduttrice trasmettesse alcun segnale.
Riker fu il primo a chiedersi il perché del ritardo.
– Suggerisco di teletrasportarci a bordo per cercarla – propose,
contattando la plancia attraverso l'interfono.
– Assolutamente no – replicò Deelor. – Ruthe è già stata a bordo di navi
Choraii in precedenza... sa cosa sta facendo. Attenderemo il suo segnale.
– Potrebbe essere nei guai.
– Sono io al comando della missione, Signor Riker – esclamò
l'ambasciatore, abbandonando ogni parvenza di cortesia, e interruppe il
contatto toccando bruscamente l'emblema appuntato sul petto.
– La sua preoccupazione è naturale – sottolineò Picard, prendendo le
difese del suo primo ufficiale.
– Queste cose richiedono tempo – dichiarò Deelor, fissando l'immagine
della Si Bemolle sul visore. – Non possiamo mettere fretta ai Choraii.
– Evidentemente no – convenne Picard, massaggiandosi la nuca,
consapevole che quell'attesa aveva logorato i nervi di tutti, anche i suoi. –
Consigliere Troi?
Deanna scosse la testa con frustrazione.
– Non sento alcun pericolo, ma le impressioni che percepisco sulla nave
sono ancora molto offuscate. Del resto, non sono mai riuscita a recepire le
emozioni di Ruthe neanche da vicino.
– Signor Data, che cosa può determinare mediante il comunicatore della
traduttrice?
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– Sembra che stia esplorando la nave. Ho tracciato il suo percorso
attraverso la maggior parte delle sfere del grappolo.
– E il prigioniero di Hamlin?
– Anche lui è presente – confermò Data, aggrottando la fronte. –
Comunque, le correnti e i mulinelli dell'atmosfera disturbano le letture dei
sensori, tanto che sto registrando strani echi nelle letture di certi segni di
vita.
– Può compensare? – domandò Picard.
– La complessità del problema costituisce una vera e propria sfida, ma
tenterò di ricalibrare gli strumenti in modo da tenere conto della viscosità e
delle densità. Se il mio logaritmo di controllo viene aumentato di...
– Grazie, Signor Data. Non è necessaria una spiegazione dettagliata.
– Sissignore – sospirò l'androide, e continuò il suo lavoro in silenzio.
Alla fine della terza ora, il Tenente Yar registrò un singolo segnale dal
comunicatore di Ruthe.
– Dobbiamo teletrasportare una o due persone? – chiese Riker.
– Non sono in grado di stabilirlo – rispose Yar. – Le letture della zona
sono molto disturbate. – Inserì quindi le coordinate di provenienza nei
comandi del sistema e approntò un raggio ampio che potesse agganciare
Ruthe e un suo eventuale compagno. Mentre il lampo dell'energia del
teletrasporto riempiva la stanza, la Dottoressa Crusher allungò
automaticamente la mano verso il medi-kit che portava alla cintura.
Il corpo di Ruthe tremolò sulla piattaforma e si solidificò: la sua pelle
nuda luccicava per l'umidità e un fiotto di liquido le uscì dal naso quando
esalò dai polmoni l'atmosfera dei Choraii.
Tra le braccia aveva un bambino.
Soltanto una persona era preparata a quella vista. La Dottoressa Crusher
raggiunse immediatamente i due e sottrasse il bambino alla stretta
indifferente della traduttrice, poi premette con gentile fermezza il palmo
della mano contro il petto del piccolo, sotto la cassa toracica. Il bambino
sputò tossendo il fluido che gli riempiva i polmoni e trasse annaspando la
sua prima boccata d'aria, scoppiando a piangere pochi secondi più tardi.
– È meglio avvertire il capitano – consigliò Crusher a Riker, quindi
avvolse il bambino piangente in una coperta e si affrettò a raggiungere
l'infermeria.
– Un bambino? – tuonò Picard, quando Riker ebbe completato il suo
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rapporto dall'interfono, poi si rivolse a Deelor, ancora seduto al suo fianco.
– Era al corrente di questo fatto, ambasciatore?
– Non in questo caso – negò Deelor, abbassando la voce, – ma abbiamo
recuperato altri discendenti del gruppo originale di Hamlin.
– Un fatto che si è dimenticato di comunicarci durante la riunione –
sottolineò Picard, senza accennare a parlare più sommessamente. – E
questo aumenta la complessità dell'intera faccenda. Il massacro di Hamlin
è ancora un episodio che tocca corde sensibili nella Federazione, anche
dopo cinquant'anni, e il fatto che gli Umani prigionieri dei Choraii stiano
aumentando di numero può soltanto infiammare ulteriormente gli animi.
– Ne sono perfettamente consapevole, capitano, ma questo non è certo il
posto o il momento per discutere della cosa – gli fece notare Deelor,
scrutandosi intorno con nervosismo. – Proprio per le ragioni che ha appena
esposto, speravo che quest'aspetto del progetto Hamlin restasse ristretto ad
un limitato numero di persone.
– Io mi fido della discrezione del mio equipaggio – scattò Picard. – ma
non posso assolutamente dire altrettanto per...
– Capitano – chiamò Troi, che aveva occupato il posto di Riker,
obbligando Picard a distogliere l'attenzione da Deelor. – Col suo permesso,
vorrei offrire la mia assistenza alla Dottoressa Crusher. Non sono stata di
molto aiuto nei rapporti con i Choraii, ma sono certa di poter dare una
mano con il prigioniero.
Picard acconsentì alla richiesta del consigliere con un breve cenno della
testa e Troi lasciò la poltrona per dirigersi al turboascensore di prua;
quando le porte si aprirono, si mise da parte per lasciar passare Ruthe.
– Come sta il bambino? – le chiese con ansia.
– Piuttosto bene, suppongo – riferì la traduttrice con una scrollata di
spalle, prima che Troi fosse condotta via dal turboascensore, poi raggiunse
il centro della plancia con passo tranquillo.
I suoi capelli erano ancora bagnati per l'immersione nell'atmosfera della
nave Choraii, e minuscoli rivoli di fluido le scendevano lungo il collo,
scurendo le spalle del mantello. Teneva con attenzione il flauto di legno
lontano dai vestiti bagnati.
– Perché non ci ha detto del bambino? – domandò Picard.
– Lo scambio prevedeva la restituzione di un prigioniero... l'età non era
un fattore rilevante – replicò Ruthe, sedendosi sulla poltrona lasciata libera
da Troi. – Il piombo è già stato teletrasportato? I Choraii vorranno sentire
una canzone di addio.
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– Il Tenente Yar teletrasporterà il materiale appena l'ambasciatore ci
ordinerà di farlo – rispose Picard, scuotendo il capo.
– Noi abbiamo aspettato pazientemente i comodi dei Choraii, quindi ora
saranno loro ad aspettare finché non avremo controllato la condizione della
merce – sentenziò Deelor, appoggiandosi allo schienale e allungando le
gambe sul ponte incrociandole all'altezza delle caviglie.
– E cosa faremo se il bambino risulterà danneggiato? Lo restituiremo? –
domandò in tono aspro Picard.
– No, ma potrei pretendere una riduzione del prezzo.
– Il suo umorismo è offensivo.
– Non stavo cercando di essere divertente – precisò Deelor. – Sto solo
vedendo la situazione dal punto di vista dei Choraii. Dovrebbe imparare ad
essere più obiettivo anche lei, capitano.
Picard strinse i denti e lasciò passare diversi secondi prima di attivare il
suo comunicatore.
– Picard a Crusher. Per favore vorrei un rapporto sul bambino di Hamlin.
– Maschio, approssimativamente due anni d'età. I suoi polmoni stanno
sopportando bene la transizione ad un'atmosfera di ossigeno – rispose la
dottoressa, alla cui voce faceva da sottofondo un pianto lamentoso. – I
risultati dei miei esami non sono ancora completi, ma sembra che il
bambino sia in condizioni fisiche eccellenti. È stato trattato molto bene.
– È ovvio che è stato trattato bene – commentò Ruthe, dopo che la
Crusher ebbe concluso la sua valutazione. – Gli Umani hanno molto valore
per i Choraii.
– Valore? Come schiavi? – domandò Picard.
– Gli Umani non vengono mai utilizzati per il lavoro fisico – lo corresse
Ruthe, scuotendo il capo. – Essi... hanno una funzione simbolica. Il regalo
di un bambino da una nave ad un'altra cementa i legami di amicizia
all'interno del grappolo. Perché il legame venga onorato, il bambino deve
venire trattato con gentilezza e considerazione.
– La distinzione fra un animale domestico coccolato e uno schiavo è
molto labile – osservò Picard, con voce nuovamente tesa. – Entrambe le
cose sono parimenti umilianti.
– Vogliamo rimandare ad un'altra occasione il dibattito sull'aspetto etico
della questione? – suggerì Deelor, con un profondo sospiro, poi incrociò le
braccia sul petto e sfiorò con un dito il comunicatore di metallo. – Deelor a
sala teletrasporto. Procedete allo scambio.
Le tre persone sedute sulle poltrone di comando fissarono l'immagine
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della nave Choraii sullo schermo principale e attesero che l'affare
giungesse a conclusione in un assoluto silenzio infranto soltanto dal ronzio
che proveniva dalla consolle operativa di Data, le cui mani si muovevano
sul pannello con velocità e senza un istante di pausa.
– Riker a capitano. Il piombo è stato consegnato.
Ad un cenno dell'ambasciatore, Ruthe prese il flauto e intonò una
melodia libera e senza costruzione mentre la Si Bemolle cominciava ad
allontanarsi lentamente sulle note di quel canto d'addio.
Deelor osservò con occhi socchiusi la nave che se ne andava e bloccò
con un cenno imperioso Picard quando questi accennò a muoversi,
sussurrando: – Ascolti.
Il capitano si alzò dalla poltrona di comando e raggiunse la consolle del
timone per impartire l'ordine a bassa voce.
– Signor Data, inserisca la rotta per New Oregon.
Data usò una mano per immettere le coordinate di rotta, mentre con
l'altra continuò a manovrare i sensori per registrare i dati della nave
Choraii che si allontanava.
– Signor La Forge, si prepari ad entrare in curvatura.
– Capitano, aspetti – intervenne improvvisamente Data, alzando lo
sguardo dalla sua consolle. – Le letture dei miei sensori non erano errate
dopo tutto. C'è un segnale debole ma inconfondibile che indica la presenza
di un altro Umano a bordo della nave Choraii.
X.
Il Capitano Picard stava passeggiando nervosamente per il ponte della
sala d'osservazione, girando intorno al tavolo delle conferenze e alle tre
persone che vi erano sedute intorno.
– Data ha tracciato il suo percorso attraverso ogni sfera della Si Bemolle
– esclamò infine, fermandosi di fronte a Ruthe. – Lei sapeva che c'era un
altro Umano a bordo.
– Sì – ammise la donna, sulla difensiva. – Lui però non conta perché è
troppo vecchio per essere riportato indietro.
– E chi è lei per poter formulare tale giudizio? – ritorse Picard, poi
spostò la propria attenzione su Deelor, che sedeva accanto alla traduttrice,
e aggiunse: – O forse la decisione è stata sua?
– Non ne sapevo niente – negò Deelor. – La politica della Federazione è
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molto chiara in proposito: tutti i superstiti di Hamlin devono essere
recuperati.
– Ho parlato con Jason – interloquì Ruthe. – Gli ho chiesto se voleva
venire con me e il bambino, ma il pensiero di lasciare i Choraii lo
spaventava. È stato con loro per troppo tempo per desiderare un'altra vita.
Picard si fermò di colpo e si sedette al tavolo.
– È ovvio, e avrei dovuto rendermene conto... è naturale per i prigionieri
essere confusi dalla nostra apparizione, ma si potrebbe aiutare quell'uomo
a riabituarsi al suo ambiente natale. Non possiamo abbandonarlo solo
perché ha paura.
Ruthe scosse il capo, per nulla persuasa dalle sue argomentazioni.
– Digli che cosa è successo – chiese a Deelor. – Fa' in modo che
capiscano.
L'ambasciatore non replicò e fissò invece la lucida superficie del tavolo
come se sperasse di scorgere in essa una risposta che però non trovò.
– Per favore – lo implorò Ruthe, sempre più ansiosa a causa del suo
silenzio.
L'ambasciatore sussultò nel sentire quelle due semplici parole che Ruthe
usava di rado e alzò la testa, rivolgendosi però esclusivamente a Picard.
– La politica ufficiale della Federazione impone il recupero di tutti i
sopravvissuti di Hamlin.
– No! – urlò Ruthe, mentre il risentimento alterava il suo viso
solitamente privo di ogni emozione. – È uno spreco... Jason morirebbe,
muoiono tutti.
– È vero questo? – chiese Picard.
Di nuovo Deelor non rispose, e fu la Dottoressa Crusher a dare una
risposta alla domanda del capitano.
– Dei cinque prigionieri di Hamlin comprati dai Ferengi, tutti e tre gli
adulti sono morti. Solo i due bambini sono sopravvissuti.
– Capisco – mormorò Picard, pronunciando la parola come se
contenesse una sorta di minaccia, turbato tanto dalla conoscenza
dell'evento in sé quanto dal fatto che la dottoressa ne fosse al corrente. –
Come mai non ne sono stato informato prima?
– Mi dispiace, ma ho ricevuto i documenti al riguardo solo poche ore
fa...
Picard accantonò quelle scuse con un cenno della mano perché sapeva
bene di chi fosse la colpa: «Divide et impera» sembrava essere una delle
massime preferite da Deelor. – Continui, dottoressa.
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– La causa esatta della morte è diversa per ogni caso, ma lo stress
emotivo è stato senz'altro un fattore determinante nel deterioramento del
fisico: uno è morto per un attacco cardiaco, il secondo di polmonite e il
terzo... – concluse Crusher con un profondo sospiro... – Il terzo si è
suicidato.
– Alla luce dei fatti, quindi quali sono le sue raccomandazioni mediche?
– domandò Picard chiedendosi se la decisione sulle azioni future sarebbe
spettata o meno a lui... dal momento dell'annuncio di Data in plancia
Deelor aveva infatti abbandonato ogni pretesa di autorità. – Quell'uomo
vivrebbe se lo portassimo con noi?
– Non posso prevedere quale sarà il risultato basandomi soltanto su tre
casi – protestò la dottoressa. – È un campione troppo ristretto per trarne
qualsiasi conclusione valida. Inoltre non c'è modo di sapere quale
influenza abbiano avuto i Ferengi sulle loro condizioni finali.
– Ferengi o Umani, non capite che è lo stesso? Questo posto è troppo
differente da una nave Choraii. Lasciatelo stare – insistette Ruthe.
– Non possiamo – replicò Deelor, in tono quieto. – La decisione è già
stata presa a livelli più alti. Non abbiamo altra scelta che trattare per il loro
ultimo prigioniero.
– Io non tradurrò niente – affermò Ruthe, testardamente.
– Ma i Choraii possono parlare lo Standard Federale – sottolineò Picard,
cogliendo di sorpresa sia Ruthe che Deelor. – Ruthe ha detto al mio primo
ufficiale che hanno imparato il nostro linguaggio dai bambini.
– Sì, è vero – confermò Deelor, con un riluttante cenno del capo. –
Comunque la nostra forma di linguaggio tende a ostacolare le
comunicazioni perché l'asprezza dei suoni mette i Choraii sulla difensiva.
– Non abbiamo altra scelta che provare – replicò Picard, e quando
Deelor non lo contraddisse tentò ancora una volta di smuovere Ruthe,
aggiungendo: – Sicuramente lo capisce anche lei, vero?
– No, non lo capisco... e non vi aiuterò – ribatté la donna, e con
quell'ultima protesta lasciò di corsa la stanza.
I suoni non viaggiano attraverso il vuoto dello spazio, ma gli istinti
forgiati da un'evoluzione avvenuta sulla superficie di un pianeta sono
difficili da estinguere; di conseguenza, mentre l'Enterprise tallonava la Si
Bemolle, i membri dell'equipaggio della plancia assunsero inconsciamente
l'atteggiamento del predatore che sta braccando la sua preda, parlando solo
se necessario e muovendosi con passi silenziosi sul pavimento coperto di
100
moquette. Persino i motori, ridotti a velocità di impulso, avevano un suono
più sommesso mentre la grande nave adeguava la propria velocità al lento
procedere del vascello Choraii che intonava la sua canzone privata fatta di
sogni alieni. Data aveva stabilito che c'era una relazione tra l'andamento a
spirale della nave e le note del suo linguaggio, ma il significato di quella
relazione era ancora al di là della sua comprensione; forse Ruthe avrebbe
potuto decifrarlo, ma la traduttrice non era più tornata in plancia.
– Rapporto sulla situazione, Numero Uno – domandò il capitano,
attraversando senza far rumore il centro della plancia e parlando a bassa
voce per adattarsi all'ambiente soffuso.
– La Si Bemolle si sta muovendo con lentezza – rispose Riker, con voce
ugualmente bassa. – Ci stiamo mantenendo appena entro il raggio dei
sensori in modo che la nostra presenza non sia registrata.
– Ruthe si rifiuta di aiutarci a richiamarli indietro, quindi dovremmo
chiamarli noi – rifletté Picard, evitando qualsiasi commento su quel rifiuto
di collaborare da parte della donna.
– Per farlo potrebbe essere necessario un trucco... e credo che Data possa
fornirci ciò che serve – suggerì Riker, guardando in direzione dell'androide
che annuì. – Ruthe ha suonato per me una versione del saluto nella sala
ricreazione e Data è riuscito a registrarla con il registratore vocale
dell'ambasciatore. Dal momento che i Choraii non hanno mai sentito
questa canzone in precedenza, forse penseranno che sia lei in persona a
suonare.
– Eccellente – esclamò Picard.
Data si allontanò dalla postazione operativa per consegnare il
registratore vocale al Tenente Yar e per istruirla sul suo funzionamento.
– Il saluto è pronto. Potremo cominciare la trasmissione non appena
saremo entro il raggio di comunicazione.
– Lei è un uomo molto persuasivo, Signor Riker – osservò Deelor,
sedendosi vicino al comandante. – Tutte le donne giovani cadono ai suoi
piedi vittime del suo fascino untuoso, oppure succede solo a quelle troppo
fiduciose, come Ruthe?
Riker serrò la mascella, ma non rispose.
– Avviciniamoci alla Si Bemolle, Signor La Forge. Manteniamo velocità
di impulso, ma voglio che siate pronti ad aumentare la curvatura al mio
ordine – avvertì Picard.
– Abbiamo raggiunto la distanza di comunicazione. Cominciamo a
trasmettere il saluto di Ruthe – annunciò il Tenente Yar.
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La Si Bemolle rispose alla melodia del flauto volando verso l'Enterprise
con una rotta irregolare; il grappolo di bolle divenne sempre più largo sul
visore e come in precedenza le voci Choraii risposero con una loro
melodia, poi zittirono aspettando che Ruthe spiegasse perché erano stati
chiamati di nuovo.
– Ambasciatore, vuole parlare lei ai Choraii o lo faccio io? – volle sapere
Picard.
Deelor si riprese dalla specie di trance in cui era caduto fissando il
visore... i suoi modi agitati erano scomparsi.
– Parlerò io con loro.
Mentre la consueta animazione tornava ad affiorargli sul volto,
l'ambasciatore si alzò, trasse un profondo respiro e rispose ai Choraii con
una singola nota sostenuta: il Si bemolle che dava il nome alla nave.
Nell'ascoltarlo, Picard pensò che la sua voce tenorile era incredibilmente
buona.
– Chi sei? – chiese la voce tremolante di un singolo Choraii, filtrata
attraverso l'atmosfera liquida della nave aliena, pronunciando quelle parole
sulla base di una cadenza melodica che saliva e scendeva di tono e che
ebbe sugli Umani che la sentivano l'effetto dell'affascinante richiamo di
una sirena.
– Io sono Deelor – si presentò l'ambasciatore, mantenendo soffice il tono
di voce per attenuare la durezza della lingua in cui si esprimeva.
– Dov'è l'altra? Perché non canta per noi?
– È stanca e ha bisogno di riposo. Il mio discorso non è certo piacevole
come le sue canzoni, ma volete ascoltarmi lo stesso?
– Che cosa vuoi? – intervenne una seconda voce Choraii, sostituendosi
alla prima.
– Lo scambio ci ha fatto piacere. Vogliamo trattare di nuovo e darvi
dell'altro piombo – spiegò Deelor.
– Ma non possiamo pagarvelo.
– Invece potete... – cominciò Deelor, si interruppe per un istante, e infine
concluse: – Potete pagarcelo con l'altro Umano.
Un discorde miscuglio di note scaturì attraverso il canale di
trasmissione. Tutti e quattro i Choraii unirono la loro voce in un caos di
suoni finché uno di loro non riconquistò il controllo della conversazione.
– Niente scambio.
Picard riconobbe la voce del quarto cantante, che si era opposto anche
allo scambio del primo prigioniero.
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– Vi offriamo qualunque metallo possa servirvi – insistette Deelor,
adottando i modi persuasivi di un mercante.
– Jason ci è stato regalato. Non è in vendita.
– Ma il bambino lo era – sottolineò Deelor.
– Perché non aveva ancora ricevuto un nome. Jason è diverso: ci piace
troppo per rinunciare a lui.
– Se volete bene a Jason, ce lo dovete restituire: dovrebbe poter vivere
tra la sua gente.
– Andatevene, selvaggi! – urlarono i Choraii, e quando Deelor cercò di
rispondere glielo impedirono soffocando la sua voce con un grido
congiunto: – Le tue note sono brutte. Non canteremo più con te.
– Hanno interrotto il collegamento – annunciò il Tenente Yar.
– Si allontanano a curvatura uno – aggiunse Data.
L'ambasciatore guardò Picard per verificare le sue reazioni.
– Se cerchiamo di fermarli, la sua nave potrebbe trovarsi in pericolo.
– Sì, lo so – annuì il capitano, – ma abbiamo preparato qualche nuovo
trucco per trattare con i Choraii.
– Allora faccia tutto il possibile – acconsentì Deelor, lasciando il
comando della nave a Picard come aveva promesso. – Io non interferirò.
Di nuovo comandata da Picard, l'Enterprise si gettò all'inseguimento
della nave aliena. Colti di sorpresa dall'improvvisa accelerazione del loro
nemico, i Choraii cercarono di controbattere aumentando a loro volta la
velocità, ma non riuscirono a farlo abbastanza in fretta da evitare i raggi
traenti che si attaccarono a quattro delle loro bolle.
– Raggi traenti agganciati – annunciò il Tenente Worf.
La nave Choraii fu scossa da un brivido e si fermò, mentre una
depressione si formava al centro del grappolo diventando sempre più
profonda fino a trasformarsi in un anello, che prese ad allargarsi e ad
assottigliarsi lungo i fianchi finché rimase soltanto una linea di sfere a
delineare il cerchio. I quattro raggi traenti ruotarono all'unisono con le
sfere in movimento, e rimasero saldamente aggrappati al rispettivo
bersaglio individuale anche quando l'anello tornò velocemente a
trasformarsi in un'altra struttura: due sfere si staccarono una dall'altra e si
allontanarono, formando la lunga fila che aveva sovraccaricato il
precedente raggio traente.
– Come previsto non c'è aumento nel consumo d'energia – confermò
Worf, soddisfatto che il suo modello teorico si fosse trasformato in un
modello reale.
103
Picard segnalò a Yar di aprire una frequenza di chiamata con la nave
aliena.
– Parla il Capitano Jean-Luc Picard. Ripetiamo la nostra precedente
richiesta: lasciateci trasportare Jason sull'Enterprise.
Le bolle si raggrupparono nuovamente e si divisero ancora in modo da
comporre una serie di forme geometriche... ma nessuna di quelle varianti
fu in grado di scuotere la presa del raggio traente di Worf. Come ultima
risorsa, una delle sfere intrappolate si staccò completamente dalle altre
trascinando con sé il raggio, ma a Worf bastarono pochi secondi per
cambiarne la direzione e agganciarlo ad un'altra sfera del grappolo. La
manovra non si ripeté più.
Le bolle si raggrupparono in una massa compatta, ma quando il Tenente
Yar provò di nuovo a contattarla via radio, la Si Bemolle rimase silenziosa
e immobile.
– Non si arrendono facilmente – sospirò Riker. – Proveranno
qualcos'altro, forse la matrice d'energia.
– I nostri phaser li hanno scoraggiati dal tentare quella particolare tattica
– replicò Picard, scuotendo il capo. – Ricordi inoltre che hanno già perso
quattro sfere, una perdita che riduce la grandezza della loro nave.
– E quindi il loro status – aggiunse Deelor. – Ogni nave comincia come
un grappolo di tre o quattro bolle, e ne vengono aggiunte altre a mano a
mano che l'equipaggio matura. Per quanto ne sappiamo, quelle bolle
crescono letteralmente e quindi una nave più grande incute rispetto perché
più anziana.
– Cosa facciamo adesso? – domandò Riker – Come facciamo a...
Il ponte della plancia subì un violento scossone che sballottò di qua e di
là l'equipaggio, poi l'Allarme Giallo cominciò a suonare e Picard percepì il
crescente lamento dei motori mentre gli indicatori di sovraccarico si
accendevano su tutta la consolle di Worf.
– Rapporto da tutte le postazioni! – gridò, afferrando i braccioli della
poltrona per tenersi saldo. – Cosa sta succedendo?
Geordi La Forge fu il primo a scoprire la causa di quel fenomeno.
– La Si Bemolle sta cercando di liberarsi dal raggio traente usando i
motori di curvatura.
– Data, per quanto tempo possiamo trattenerli? – chiese Picard; intanto
la plancia era tornata in piano, ma stava ancora vibrando per lo sforzo
assordante dei motori che tentavano di mantenere la posizione della nave.
– Impossibile dirlo: il tempo dipende dalla massima velocità che
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possono raggiungere, che non è stata ancora misurata.
– Fattore di curvatura nove punto nove – comunicò Deelor, poi sorrise
ironicamente e aggiunse: – A proposito, questa è un'informazione
segretissima.
Data reclinò la testa da un lato con espressione astratta nel completare la
necessaria equazione.
– In questo caso le nostre riserve di energia si esauriranno tra quattordici
punto sei minuti – decretò infine.
Picard si alzò in piedi, cercando di tenersi in equilibrio nonostante il
rollio del ponte.
– Yar, si tenga pronta a far fuoco sui Choraii.
– La potenza dei phaser è ridotta al quaranta per cento, capitano –
avvertì il tenente.
– Se deviamo l'energia ai phaser le nostre riserve si esauriranno in
cinque punto due minuti – riferì Data, rielaborando rapidamente le cifre a
sua disposizione.
– Capitano, guardi! – esclamò Riker, indicando il visore principale: un
globo violetto era apparso nel mezzo delle sfere arancioni della nave
Choraii.
– Dannazione! – imprecò Picard. – Vogliono colpirci con tutte le armi di
cui dispongono.
– Cosa facciamo ora, signore? – chiese Riker, voltandosi con aspettativa
verso il capitano.
– Worf, mantenga i raggi traenti – ordinò Picard, pensando alle possibili
alternative. Poteva usare il neutralizzatore del campo d'energia inventato
da Data, ma la sonda modificata non era mai stata sperimentata e se quella
tattica fosse fallita la sua nave avrebbe potuto restare distrutta. Emesso un
profondo sospiro, si servì del proprio comunicatore per trasmettere un
secondo ordine: – A tutte le sezioni, prepararsi per una brusca
accelerazione. Sala macchine, togliete potenza a...
Improvvisamente ci fu un terribile picco di accelerazione in avanti: i
Choraii si stavano allontanando, trascinandosi dietro la nave stellare
Federale. Gli smorzatori inerziali assorbirono parte dello shock, ma non
riuscirono ad eliminare il forte sobbalzo e Picard fu sbattuto sulla sua
poltrona con una forza che gli mozzò il fiato in gola. Sul visore, le stelle si
trasformarono in scie luminose.
– Curvatura due – comunicò Data, che era riuscito a restare al timone
grazie alla sua forte presa, anche se la stretta delle sue dita aveva
105
ammaccato il bordo del pannello operazioni. – Curvatura cinque – scandì
un momento più tardi.
Picard cercò di nuovo di parlare e riuscì ad emettere un rauco sussurro.
– Rapporto danni.
– Solo danni minori – replicò Riker, vagliando le informazioni a mano a
mano che arrivavano in plancia. – Tutti i sistemi essenziali sono
completamente operativi.
– Curvatura nove – continuò Data.
– Capitano, le armi sono di nuovo a piena potenza – informò Yar,
concisa.
– Infermeria a plancia – infuriò dall'interfono la voce della Dottoressa
Crusher. – Cosa diavolo sta succedendo? Un preavviso di due secondi non
è precisamente la mia idea di avvertimento. Sto ricevendo chiamate di
soccorso da tutti i ponti.
– Non adesso, Dottoressa Crusher – rispose Picard, che aveva finalmente
ripreso a respirare liberamente, e chiuse la comunicazione con l'infermeria:
il rapporto sui feriti avrebbe dovuto attendere un momento più tranquillo. –
Tenente Yar, agganci i phaser su qualche bolla esterna, ma stia lontana da
qualunque sfera con segni di vita.
– Curvatura nove punto sette – avvertì Data.
– Phaser agganciati e pronti – confermò Yar, dopo aver selezionato a
caso una delle sfere vuote.
– Fuoco! – esclamò Picard.
Proprio come in precedenza, il bersaglio esplose al primo colpo e la sua
atmosfera interna si riversò fuori dal guscio frantumato, mentre globuli di
liquido si allontanavano nel vuoto dello spazio. Picard trattenne il respiro,
attendendo la reazione del nemico.
All'inizio non ci furono cambiamenti. Poi il ponte vacillò.
– I Choraii stanno riducendo la velocità a curvatura otto – annunciò
Data. – Curvatura sei.
– Stanno rinunciando – esclamò Riker, con un sorriso d'ammirazione. –
Ero certo che li avrebbe battuti.
Anche il capitano sorrise, cercando di nascondere il proprio sollievo per
il risultato della lotta mentre il conto di Data continuava di pari passo con
il rallentare delle pulsazioni di Picard.
– Selvaggi, basta così! Prendetevi Jason, ma smettetela di sparare!
Il messaggio arrivò dalla Si Bemolle non appena questa si fu fermata del
tutto.
106
– D'accordo – rispose l'ambasciatore, prima che Picard potesse replicare,
riprendendo il controllo della missione ora che la nave aveva terminato la
lotta. Deelor si girò quindi verso la parte poppiera della plancia e aggiunse:
– Tenente Yar, si prepari a salire a bordo della nave Choraii.
– Da sola? – chiese Yar, spalancando gli occhi.
– Non ho nessuna intenzione di andare a bordo di persona, tenente –
rispose Deelor, fissando il visore principale con evidente disagio. – I
Choraii accettano di essere tenuti d'occhio durante uno scambio e io posso
osservare meglio le loro azioni dalla plancia.
– Chiedo il permesso di accompagnarla... – cominciò Riker, pronto a
intervenire in difesa del membro della sua squadra di ricognizione.
– Negato, comandante – rispose Deelor, in tono piatto. – Questa non è
un'invasione, e se Ruthe riusciva a portare a termine le transazioni da sola,
sono sicuro che il Tenente Yar non sarà da meno.
Il capo della Sicurezza reagì proprio come Picard sapeva avrebbe reagito
e come anche Deelor aveva previsto.
– Salirò a bordo, signore. Se dovesse esserci qualche problema,
segnalerò di mandare un rimpiazzo.
– Signor Riker, Signor Data, accompagnate il tenente alla sala
teletrasporto – ordinò il capitano, fornendo a Yar la sola protezione
possibile.
Mentre la cabina del turboascensore scendeva, Data descrisse nei
dettagli la curiosa composizione dell'ambiente della nave Choraii, e Yar
ascoltò con calma quei termini clinici che nulla potevano fare per
combattere il suo terrore di andare sott'acqua. La sua tranquillità fu messa
a dura prova appena raggiunsero la sala teletrasporto: la Dottoressa
Crusher li stava aspettando e i consigli che le diede toccarono direttamente
le sue paure.
– Non lottare contro l'istinto che ti spinge a respirare. Esala quanta più
aria puoi fuori dai polmoni e poi inala.
– Il trasferimento avverrà a poche sfere da Jason – la rassicurò Data,
prendendo il controllo della consolle del teletrasporto. – Questo le darà il
tempo di adattarsi all'ambiente.
– Andiamo, allora – tagliò corto Yar, salendo sulla piattaforma. Non
voleva perdere tempo a rimuginare su quello che l'aspettava.
Si materializzò nel calmo mare dell'atmosfera Choraii, e nonostante le
istruzioni di Crusher trattenne immediatamente il respiro, lottando
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istintivamente per trattenere l'aria nei polmoni.
Fluttuando sul posto con piccoli movimenti delle mani e dei piedi, si
concentrò quindi per orientarsi nell'ambiente alieno. Era sospesa in una
sfera di circa dieci metri di diametro, una musica faceva eco tutt'attorno a
lei e una luce rossiccia si irradiava dalle pareti, filtrando attraverso il
liquido chiaro fino a raggiungere il centro del globo. Non riuscì a vedere
nessuna apertura.
Sapeva di poter trattenere il respiro ancora per qualche minuto, forse
abbastanza a lungo per trovare una strada attraverso le sfere adiacenti e
persino riportare il prigioniero sull'Enterprise. Questo se tutto fosse andato
bene, altrimenti avrebbe dovuto comunque respirare, ed era quindi forse
meglio farlo adesso, prima che la sua paura crescesse troppo e glielo
impedisse. Velocemente espirò una fila di bolle d'aria, poi inalò. La sua
mente fu oscurata momentaneamente dal panico mentre i polmoni le si
riempivano di un liquido diluito e tiepido, ma contro tutte le sue
aspettative non soffocò. Respirò ancora una volta, profondamente, e scoprì
che il liquido le scorreva fuori e dentro il naso, più denso dell'aria ma
altrettanto respirabile. Un vago profumo di cannella lo pervadeva.
Con una bracciata a stile farfalla, si portò vicino al minuscolo cerchio
che segnava l'intersezione tra due sfere. La membrana opaca era liscia e
fredda al tocco. Yar premette il palmo della mano contro la membrana e
sentì che la superficie cedeva un po', ma anche premendo più forte non
riuscì a passare. Ricordandosi che Riker aveva fatto esplodere l'esterno
delle sfere con un raggio molto concentrato, congiunse le mani come se
volesse tuffarsi e questa volta passò facilmente: un bel colpo di piedi la
spedì completamente dall'altra parte. La sfera era vuota, ma quella
successiva non lo era.
C'era un uomo, sospeso con gli occhi chiusi e rapito dall'ascolto della
ninna nanna dei Choraii che riverberava nella stanza. L'ingresso di Yar
smosse il liquido interno e una corrente toccò la pelle nuda di Jason,
avvisandolo della sua presenza. Yar si era aspettata che nel vedere una
sconosciuta l'uomo sarebbe fuggito, invece nuotò verso di lei con curiosità
e fiducia. Era difficile determinare la sua età: era pasciuto, con il viso
liscio e senza rughe di un bambino, ma i suoi capelli scuri erano già
segnati d'argento. Quando la raggiunse, Yar dette il segnale all'Enterprise.
L'abbraccio del liquido tiepido cedette il posto al morso aspro dell'aria e
il suo corpo fu trascinato al suolo, di nuovo oppresso dal peso della
gravità. Non era preparata per lo shock della transizione e una luce bianca
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le accecò gli occhi. Cercando di respirare, cadde in ginocchio sulla
piattaforma del teletrasporto e tossì convulsamente mentre il fluido e l'aria
le si mischiavano nei polmoni. Dopo pochi secondi, svenne.
XI.
La chiamata della Dottoressa Crusher mise in allarme l'intero
dipartimento medico: seguendo le sue istruzioni affrettate, un gruppo di
paramedici e di infermiere si preparò a ricevere i nuovi pazienti
provenienti dalla sala teletrasporto.
Data fu il primo ad arrivare, attraversando di corsa le porte
dell'infermeria con il corpo inerte di Tasha Yar fra le braccia. Il tenente era
caduto in avanti dalla piattaforma del teletrasporto finendo direttamente tra
le sue braccia, e lui aveva preferito trasportarlo personalmente piuttosto
che attendere l'arrivo di una barella.
– Per di qua – avvertì un paramedico in attesa, indicando un lettino
vuoto su cui l'androide adagiò la donna.
– Un incidente di nuoto? – chiese un'infermiera, notando l'uniforme
completamente bagnata e i suoi capelli appiccicati alla testa. – Le letture si
avvicinano alla normalità e non c'è acqua nei polmoni – proseguì poi,
troppo impegnata a controllare una lettura diagnostica per accorgersi che
Data non le aveva risposto.
– Tathwell, voglio un'analisi chimica di quel liquido – ansimò Crusher,
raggiungendoli. Poteva sentire l'odore della cannella che pervadeva ancora
la pelle e i vestiti di Yar e sapeva che quando Ruthe e il bambino erano
tornati sull'Enterprise l'atmosfera dei Choraii non aveva avuto quest'odore.
Riker fu l'ultimo ad entrare in infermeria e a consegnare il suo fardello ai
medici. Sebbene Data si fosse offerto di portare sia Yar che Jason, Riker
aveva rifiutato e lo sforzo di mantenere l'andatura dell'androide lo aveva
sfinito.
– Se ha bisogno di iperventilazione, vada a farla da un'altra parte –
ingiunse la dottoressa, spingendo di lato il primo ufficiale per poter vedere
i risultati delle letture su Jason. – Non posso occuparmi di più di un
paziente alla volta.
Troppo affannato per replicare, Riker lasciò che fosse Data ad informarsi
delle condizioni di Yar e Jason.
– Sono stabili – replicò lei. Come il bambino prigioniero, anche Jason
109
era caduto in uno stato confusionale appena teletrasportato a bordo, e
l'unico rimedio che aveva trovato Crusher era stato quello di
somministrargli un sedativo; quando aveva poi trovato il tempo di
rivolgere la sua attenzione a Yar, lei era già svenuta.
– Il capitano si aspetta di conoscere la prognosi per il loro recupero –
avvertì Riker, nuovamente in grado di parlare anche se ancora ansante
dopo la fatica del trasporto di Jason.
– Più tardi – ribadì bruscamente Crusher. – Dopo che avrò avuto
l'occasione di esaminarli con maggiore attenzione. – Era troppo
preoccupata a tenere sotto controllo i due pazienti per dare a Riker altra
attenzione, e allontanò lui e Data dalla mente non appena uscirono
dall'infermeria.
– Dottoressa Crusher! – chiamò l'Infermiera Tathwell, quando i segni
vitali di Yar indicarono che la ragazza stava riprendendo conoscenza. Il
tenente si svegliò con un respiro strangolato, come se stesse lottando per
respirare.
– Tasha – chiamò Crusher, afferrando la donna per le spalle. – Sei di
nuovo sull'Enterprise.
La dottoressa non lasciò la presa e alla fine Yar cessò di lottare e i suoi
occhi si misero a fuoco, anche se le pupille erano ancora dilatate.
– Devo aver sognato... mi sembrava di annegare – spiegò Yar, con voce
tremante.
– È solo che non sei abituata a respirare un'atmosfera liquida – la
rassicurò Crusher con un sorriso, allontanandole un ricciolo di capelli
umidi dalla fronte. La ragazza respirava ancora affannosamente, ma le luci
colorate del pannello diagnostico si erano stabilizzate e le sue condizioni
fisiche erano buone anche se il recupero emotivo sarebbe durato un po' di
più.
– E lui? – chiese il tenente, indicando con la testa Jason, che era disteso
su un tavolo diagnostico. – Sta bene?
– Resterà privo di sensi finché dureranno gli effetti del sedativo – spiegò
la dottoressa, facendo segno a due infermieri di portare Jason in un altro
reparto per tenerlo continuamente sotto controllo, poi si voltò sentendo
scattare un meccanismo metallico. Yar aveva alzato la copertura del lettino
diagnostico e si stava alzando. – E tu dove credi di andare?
– Sto bene adesso – insistette il tenente, aggrappandosi all'orlo del
lettino per non cadere. – Devo tornare al mio posto.
Crusher vide il pallore della donna lasciare il posto a un rossore
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imbarazzato al pensiero che sarebbe potuta svenire e pensò che Yar
sarebbe rimasta ancor più mortificata se avesse saputo che era stato Data a
trasportarla in infermeria.
– Sei stata sospesa dai tuoi doveri, Tasha, e voglio tenerti sotto
osservazione medica per almeno ventiquattr'ore.
– Ma sono stata svenuta solo pochi minuti.
Conoscendo il temperamento testardo di Yar, la dottoressa non perse
tempo con la persuasione gentile.
– Tasha, se non torni subito a letto, sarò costretta a darti un sedativo!
La minaccia mancava certo di stile, ma raggiunse il risultato sperato,
dato che la Dottoressa Crusher non aveva intenzione di lasciar andare
l'ufficiale finché tutti i possibili effetti deleteri dell'esposizione all'ambiente
Choraii non fossero svaniti... e finché non fosse riuscita a spiegare l'aroma
di cannella.
– Il Tenente Yar è svenuto?
– Sembra che avesse qualche difficoltà di respirazione, signore –
confermò Data, con l'ovvia intenzione di rassicurare il capitano e di dirgli
che il tentativo di salvataggio aveva avuto successo, ma la sua descrizione
di ciò che era accaduto nella sala teletrasporto ebbe soltanto l'effetto di
aumentare l'ansia di Picard.
L'Ambasciatore Deelor, comunque, parve soddisfatto che sia il tenente
sia il prigioniero fossero in infermeria.
– Tenente Worf, apra un canale con la Si Bemolle – ordinò,
tamburellando impazientemente con le dita mentre il Klingon guardava
verso Picard per una conferma dell'ordine.
– Ladri! – accusarono le voci dei Choraii, unite come una sola. – Non è
stato uno scambio.
– Be', vediamo se riesco a ricreare un po' dell'accordo che c'era in
precedenza – sussurrò Deelor a Picard, alzando poi la voce per rispondere
all'accusa dei Choraii. – Il piombo in più è sempre vostro. Ve lo offriamo
in pagamento di ciò che abbiamo preso.
– Tenetevi il vostro metallo, vogliamo solo che ci lasciate andare!
Picard sentì la disarmonia delle loro voci e capì che il tentativo
dell'ambasciatore era stato inutile.
– Se tratteniamo ancora la loro nave i Choraii potrebbero riprendere a
combattere – avvertì.
– Molto bene – si arrese Deelor, dopo una breve pausa.
111
– Lasciateli.
Un impassibile Tenente Worf tolse potenza ai raggi traenti e non appena
i quattro cordoni ombelicali energetici si ritrassero, la Si Bemolle si
allontanò alla massima velocità. L'intero equipaggio osservò affascinato il
grappolo di bolle che rimpiccioliva sempre più fino a scomparire del tutto
alla vista.
– Stanno oltrepassando il limite dei sensori a lungo raggio... – annunciò
Worf. – Sono scomparsi.
Il confronto con i Choraii era finito improvvisamente com'era
cominciato: l'Enterprise aveva vinto. Il Capitano Picard rifletté
brevemente sul trionfo della propria nave, poi riportò la sua attenzione
sulle necessità del presente spostando lo sguardo sull'ambasciatore.
– Sono soltanto un passeggero, adesso – affermò Deelor, in risposta alla
sua tacita domanda. – Può lasciarmi alla Base Stellare Dieci con Ruthe e
con i sopravvissuti di Hamlin.
– Dovrà aspettare finché non avremo portato i Coloni sul loro nuovo
mondo. I nostri passeggeri hanno avuto anche troppa pazienza – lo
corresse Picard, aspettandosi una protesta, ma Deelor si limitò a scrollare
le spalle... quell'uomo aveva una incredibile abilità per capire su quali
argomenti poteva fargli cambiare idea e su quali invece non valeva la pena
neppure tentare.
– Timoniere – ordinò quindi Picard, – inserire la rotta per New Oregon.
Curvatura quattro.
Data aveva però anticipato l'ordine, approntando le necessarie
coordinate.
– Rotta inserita, signore – confermò.
Picard si rilassò sulla poltrona di comando, pensando che qualche giorno
di calma sarebbe stato il benvenuto dopo i recenti tormenti.
– Attivazione – ordinò.
Geordi fece partire la nave, poi controllò una cifra sulla sua consolle.
– Data, non può essere! – esclamò, girandosi subito dopo verso Picard: –
Il tempo stimato di arrivo a New Oregon è di trentasei giorni.
– Cosa?! – esplose il capitano, alzandosi di scatto dalla poltrona. –
Signor Data, esigo una spiegazione.
– Per l'esattezza trentasei giorni, cinque ore e dodici minuti – precisò
Data, stupito dell'agitazione dei suoi compagni d'equipaggio, e spiegò: –
La nave Choraii ci ha trascinato fuori rotta quando era agganciata ai raggi
traenti.
112
– Sì, ma più di un mese? Il punto d'incontro originale si trovava soltanto
a un giorno e mezzo di distanza da New Oregon! – protestò il capitano.
– La Si Bemolle ha raggiunto una velocità massima di nove punto nove
per parecchi secondi – confermò Data. – Posso mostrarle l'esatta relazione
distanza/accelerazione...
– Non sarà necessario, Signor Data – commentò il capitano sospirando
al pensiero del prolungato contatto con l'Ambasciatore Deelor e con il
centinaio di Coloni. – Signor La Forge, aumenti la velocità a curvatura sei.
– Dodici giorni, dieci ore... – scandì Data, ricalcolando diligentemente il
loro tempo di arrivo
– Ho capito – tagliò corto Picard, interrompendolo.
Il suo umore non era per niente migliorato sentendo la nuova scadenza
d'arrivo, specialmente perché i Coloni avrebbero domandato una
spiegazione del ritardo, e decise che questa volta sarebbe stato Riker a
fornirla: uno dei privilegi del grado era quello di poter delegare a qualcun
altro i compiti spiacevoli.
Nessuno dei Coloni era rimasto ferito quando l'Enterprise era stata
trascinata a gran velocità dalla nave Choraii. Allettati da ciò che i loro
compagni avevano riferito in merito ai campi agricoli olografici, tutti i
membri della comunità si erano assiepati sul ponte ologrammi per dare
personalmente un'occhiata a quella meraviglia simulata e molti di essi
stavano ancora esplorando i pascoli quando furono gettati sull'erba
dall'improvviso sobbalzare del terreno sotto i loro piedi.
Alcuni fra gli esploratori più intrepidi avevano raggiunto il gruppo di
edifici in legno, ma lo spesso strato di fieno secco che ne copriva il
pavimento aveva attutito anche in quel caso la caduta; fra tutti il meno
fortunato fu Tomas, che venne colpito con violenza alla nuca
dall'ondeggiare di una porta e perse conoscenza per un po' di tempo.
– Tomas, figlio mio, povero ragazzo mio – gemette Dolora, chinandosi
sulla sagoma massiccia distesa sul pavimento, poi fissò con ansia la donna
che stava controllando il polso del figlio mentre intorno a loro si radunava
un gruppetto di Coloni in attesa di sentire la prognosi di Charla.
– Non riesco neppure a trovare il bernoccolo – ridacchiò la donna.
Un istante più tardi le palpebre di Tomas ebbero un tremito e lui aprì gli
occhi, emettendo un gemito nell'incontrare lo sguardo della madre.
– Oh, non muoverti! – esclamò Dolora, quando lui si sollevò a sedere. –
Così aggraverai soltanto le tue condizioni, figlio – aggiunse, trattenendolo
113
per le braccia nel tentativo di non farlo alzare, ma Tomas si divincolò e si
rialzò in piedi.
– Per favore, madre – ringhiò, con le labbra serrate, cercando invano di
non incontrare lo sguardo degli altri Coloni che gli si erano assiepati
intorno. – Non sono un bambino.
– Fortunatamente no. Sei un uomo cresciuto e hai la testa dura –
confermò Patrisha.
Tomas ignorò la frecciata, ma si tolse i fili di paglia dai vestiti con
esagerato vigore e si infilò un angolo della camicia sotto la cintura con
gesti esasperati; nel frattempo i presenti si allontanarono alla spicciolata e
quando risollevò lo sguardo Tomas non ebbe difficoltà a scorgere Dnnys e
Wesley.
– I terremoti sono un dettaglio davvero piacevole – esclamò, imitando il
modo con cui la sorella si era stupita poco prima. – Chi ci ha pensato?
– Non era nel programma – protestò Wesley, – ma è possibile che ci sia
un baco da qualche parte – aggiunse senza troppa convinzione. Aveva
infatti il sospetto di sapere quale fosse stata la vera causa dell'improvviso
movimento, ma preferì prendersi la responsabilità dell'accaduto piuttosto
che attirare l'attenzione dei Coloni su un'altra azione di combattimento
della nave stellare, ritenendo giustamente che un errore nel programma
avrebbe avuto minori probabilità di destare le loro ire.
– E quali altre sorprese ha in serbo per noi, Guardiamarina Crusher? –
insistette Tomas, cominciando ad attirare di nuovo l'attenzione degli
sconcertati Coloni. – Incendi della fattoria? Uragani? O forse
un'inondazione di proporzioni bibliche?
– Tomas! – esclamò sua madre. – Ora stai esagerando.
– Mi dispiace moltissimo, madre – si scusò Tomas, arrossendo
d'imbarazzo. – Dev'essere stato il colpo in testa – aggiunse, facendosi
strada fuori del granaio.
Approfittando della distrazione causata dall'intervento di Dolora, Wesley
e Dnnys si affrettarono a salire la ripida scala che portava al fienile... da
quella vertiginosa altezza le preoccupazioni degli adulti continuavano ad
essere sconcertanti, ma sembravano molto meno importanti.
– Cosa è successo? Perché si stava scusando? – chiese Wesley.
Dnnys mormorò una risposta inintelligibile salendo sulle balle tenute
insieme da grosse corde e avanzando tra la paglia libera sciolta; la polvere
sollevata dagli stivali pizzicò loro il naso, facendoli starnutire, ma quando
raggiunsero i portoni del fienile e li spalancarono poterono infine respirare
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a pieni polmoni l'aria fresca dell'esterno.
– Allora, dimmi – insistette Wesley, dopo che entrambi si furono seduti
facendo dondolare le gambe nel vuoto sotto il sole del pomeriggio che
gettava lunghe ombre sull'aia sottostante.
– Noi non parliamo di queste cose.
– Di quali cose? – volle sapere Wesley, e con sua grande sorpresa vide
l'amico arrossire violentemente.
– Sai, di cose religiose – sussurrò Dnnys, dopo aver tratto un lungo
sospiro.
– Oh... – commentò soltanto Wesley, badando a non mostrare alcun
segno di derisione: l'abitudine a trattare con un ampio assortimento di
culture diverse gli aveva insegnato a rispettare un'altrettanto ampia varietà
di tabù, e quella proibizione non era certo più strana di altre. Cambiò
quindi l'argomento della conversazione per risparmiare all'amico altro
imbarazzo.
– Quando avrà inizio il travaso?
Dnnys si ficcò in bocca un filo di paglia e si protese in avanti,
puntellandosi sui gomiti.
– Domani mattina – dichiarò gravemente, come se stesse annunciando
una sentenza di morte.
Wesley comprese: una volta che gli animali fossero stati liberati nel
ponte ologrammi, Dnnys avrebbe perso qualunque scusa per lavorare nella
stiva di carico, il che significava perdere l'opportunità di avere un alibi per
andarsene in giro indisturbato per l'Enterprise.
– Ascolta, se c'è qualcosa che posso fare...
– Una cosa c'è – sospirò Dnnys. – Devo chiederti un favore. Un favore
enorme.
Wesley attese una spiegazione, ma Dnnys parve riluttante a continuare.
– Che cosa, Dnnys? Sai che ti aiuterò.
– Ho in mente un piano, ma deve restare un segreto – spiegò il Colono,
asciugandosi una goccia di sudore che gli si era formata sulla fronte.
Wesley ascoltò attentamente le parole dell'amico, e mentre le ascoltava
la sua espressione si fece sempre più accigliata.
La camera di isolamento medico era stata progettata con cura perché
servisse a molte diverse funzioni. Se un paziente era contagioso, i sigilli
dell'impianto di circolazione dell'aria imprigionavano gli agenti
contaminanti all'interno, mentre se qualcuno era immuno-depresso lo
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stesso sistema bloccava all'esterno i virus e i batteri. Le luci rosse a bassa
intensità erano riposanti per occhi indeboliti dalla febbre o dalla fatica,
mentre i soffici cuscini e la gravità minore erano adatti in special modo per
pazienti affetti da ustioni gravi negli ultimi stadi della guarigione.
Quella camera era anche ciò che di più simile all'ambiente della nave
Choraii la Dottoressa Crusher fosse riuscita a preparare con un così scarso
preavviso.
Un sensore diagnostico controllava il paziente sdraiato all'interno,
fornendo una costante valutazione delle sue condizioni fisiche e degli
effetti dell'ultima iniezione di sedativo, ma il pannello non poteva dirle
quello che in realtà voleva sapere. Studiò la figura addormentata dell'uomo
conosciuto come Jason, cercando le risposte alle domande sollevate dalla
morte degli altri prigionieri adulti. La pelle delle ginocchia e dei gomiti era
ancora escoriata per la caduta in sala teletrasporto dove, appena
rimaterializzato, il suo corpo aveva perso il supporto del liquido interno
dell'atmosfera Choraii. Adesso il viso di lui era rilassato nel sonno, ma
Beverly non poté fare a meno di sovrimporre ad esso nella sua mente
l'immagine che aveva visto nella sala teletrasporto quando lo aveva
guardato negli occhi e vi aveva scorto solo un enorme terrore.
Jason era stato gettato senza preavviso in un mondo completamente
diverso, e le sue grida di paura erano state soffocate in gola
dall'improvviso e inaspettato fiotto d'aria che gli aveva invaso i polmoni.
Se quell'uomo era stato uno degli originali bambini di Hamlin, le memorie
di quella lontana giovinezza non l'avevano aiutato durante la transizione...
persino Tasha, che era stata sulla nave Choraii solo per pochi minuti, aveva
subito lo shock del rientro.
Forse il salvataggio era giunto troppo tardi per quest'uomo? Sarebbe
morto come gli altri?
La Dottoressa Crusher posò una mano sul vetro di separazione e questo
si scurì, garantendo a Jason un po' di privacy entro i confini della stanza;
pur sapendo che il paziente sarebbe rimasto incosciente ancora per alcune
ore, Crusher uscì poi dalla stanza attenta a non fare alcun rumore, quasi
avesse paura di svegliarlo.
Nella stanza accanto, una seconda unità d'isolamento conteneva un'altra
forma addormentata, ma il bambino era immerso in un profondo sonno
naturale. La sua pelle dorata e i capelli neri e riccioluti contrastavano
fortemente con il pallore di Jason.
– Finalmente ha pianto tanto da sfinirsi – esordì Troi, che stava tenendo
116
d'occhio il piccolo, poi notò la brusca occhiata lanciata dalla dottoressa
agli indicatori dei livelli di zucchero nel sangue e decise di dare una
spiegazione: – Era troppo agitato per mangiare, ma quando si sveglierà
avrà fame e sono certa che più tardi riuscirò a farlo cedere alla tentazione
del cibo.
Crusher annuì automaticamente, ma poi scosse il capo.
– Non è così semplice, Deanna – replicò, ripensando ai dati medici su
Hamlin che avevano eliminato ogni dubbio su quell'aspetto del recupero. –
È stato cresciuto in un ambiente liquido e sarà necessaria una riabilitazione
completa per insegnargli a muoversi nel nostro mondo.
– Ciò significa che avrà bisogno di essere seguito costantemente –
osservò Troi. – Come pensi di spiegare la sua presenza al tuo staff?
– Una buona domanda! – rispose lei. Pochissime persone avevano visto
Crusher portare in tutta fretta il bambino nella camera d'isolamento e Troi
si era assunta la responsabilità di accudirlo quando la dottoressa era stata
chiamata ad altri compiti, ma la sua presenza non avrebbe potuto essere
tenuta nascosta ancora per molto e l'apparizione improvvisa e senza
spiegazioni di un bambino di due anni, sconosciuto allo staff medico,
avrebbe generato una montagna di domande. – E già che ci siamo, come
spiegheremo Jason?
– Sopravvissuti di un naufragio – suggerì Troi. – Non è proprio
originale, ma non è molto lontano dalla verità.
– Potrebbe andar bene, suppongo – sospirò la dottoressa. – Dobbiamo
soltanto essere sicure che il resto dell'equipaggio di plancia racconti la
stessa cosa. Niente attirerebbe più attenzione di resoconti contrastanti sul
come sono giunti qui. Tornerò più tardi, per discutere su cosa possiamo
fare quando si sveglierà – concluse, avviandosi verso la porta della stanza.
– Beverly – la richiamò Deanna, quando era già sulla soglia. – Non
possiamo continuare a chiamarlo «lui» o «il bambino»... ha bisogno di un
nome.
– Che ne dici di Mosè? – propose Crusher, e uscì dalla stanza per
continuare il suo giro.
Mentre percorreva il corridoio, l'ufficiale medico capo accantonò per il
momento le necessità dei prigionieri di Hamlin e focalizzò invece la sua
attenzione sugli altri pazienti. L'infermeria era riempita al limite delle sue
capacità, e questo significava lavorare per tutta la notte.
L'avvertimento dato dal Capitano Picard subito prima che l'Enterprise
fosse trascinata fuori rotta dai Choraii aveva dato un preavviso troppo
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breve perché tutte le mille persone presenti a bordo si potessero preparare
all'improvvisa accelerazione: alcuni non avevano neppure sentito l'allarme
ed erano stati scagliati a terra senza preavviso, mentre altri erano stati
semplicemente un po' troppo lenti a reagire. La gravità delle ferite riportate
dipendeva da quale parte del corpo aveva urtato contro l'oggetto solido più
vicino; quanti avevano riportato fratture e lacerazioni avevano raggiunto
subito l'infermeria su barelle antigravità trascinate da compagni
d'equipaggio o da paramedici che si trovavano nelle vicinanze, e durante le
ore successive un flusso di persone in continuo aumento si era presentato
in infermeria sulle proprie gambe, alla ricerca di sollievo da escoriazioni e
slogature.
– Duncan se la sta cavando bene – riferì l'infermiera di turno nell'area
dei casi gravi, poi richiamò sullo schermo del computer lo schema dei
nervi che si stavano rigenerando e Crusher fu sollevata nel vedere che la
spina dorsale dell'astronomo era stata solo incrinata anziché fratturata dal
telescopio che gli si era abbattuto sulla schiena.
– E Butterfield? – domandò quindi.
Il ferito più grave dell'intero equipaggio era un botanico che era andato a
sbattere con la testa contro una caudifera in vaso... e se mai avesse ripreso
conoscenza Butterfield sarebbe stato il primo a ridere dell'ironia di essere
stato attaccato da una delle sue stesse piante. La dottoressa Crusher aveva
medicato il cranio fratturato, ma soltanto il tempo avrebbe detto se il
cervello del botanico avrebbe funzionato ancora con lo stesso acume di
prima.
– Nessun cambiamento – sospirò Doswell, stringendosi nelle spalle.
Sapendo che il recupero non dipendeva più dalle cure mediche e che
ormai lei non poteva fare più niente, la Dottoressa Crusher reagì con rabbia
alla propria impotenza... e trovò un bersaglio per quella rabbia ad
attenderla nel suo ufficio.
– Capitano, ho l'infermeria piena di feriti e a causa delle dannate
restrizioni di sicurezza di Deelor quelle persone non sanno neppure perché
sono rimaste ferite. Questa battaglia non li riguardava, ma sono loro a
pagare il prezzo più alto.
Quelle aspre parole fecero eco ai pensieri di Picard, intensificando il suo
senso di colpa: era lui il solo responsabile della presenza di tutti quei feriti
in infermeria.
– Questi sono passeggeri e non avrebbero mai dovuto essere trascinati in
una situazione che lei sapeva essere pericolosa! – continuò Crusher, in
118
tono amaro. – Avrebbe dovuto separare la nave.
In effetti, il primo istinto di Picard era stato quello di ordinare il
distaccamento della sezione motori dalla sezione a disco, ma il
ragionamento di Deelor lo aveva distolto dall'intraprendere quest'azione...
oppure non era stato semplicemente capace di combattere abbastanza per
difendere la sua decisione di comando? Cosa sarebbe successo se la
sezione a disco fosse rimasta indietro? Al suo ritorno l'equipaggio della
sezione da battaglia avrebbe trovato tutti in ottima salute oppure avrebbe
scoperto che i passeggeri erano stati massacrati dai vagabondi Choraii?
– Ho preferito non farlo – ribatté, secco.
– Vada a dirlo ai miei pazienti!
– Mi assumo ogni responsabilità per le mie azioni.
– Lei è ancora in grado di farlo perché può ragionare, ma non è così per
Butterfield e Duncan! – incalzò Crusher. Si pentì di quelle parole nel
momento esatto in cui le pronunciò, ma Picard non le diede il tempo di
ritirare quello che aveva detto.
– Il suo compito è quello di correggere i miei errori di giudizio – replicò
con asprezza. – Sia grata di potersi lavare questo sangue dalle mani.
– Mi dispiace, Jean-Luc... non avrei mai dovuto dirlo. È stato ingiusto da
parte mia.
– Non si deve mai chiedere scusa per aver detto la verità, Dottoressa
Crusher – esclamò Picard, rifiutando di accettare un'assoluzione per i suoi
peccati, e se ne andò dall'ufficio prima che lei potesse parlare di nuovo.
Uno dopo l'altro gli ufficiali superiori si erano allontanati verso altre
parti della nave e alla fine Geordi La Forge si era trovato ad essere il solo
responsabile della plancia. Come sempre, anche in quel momento di
relativa tranquillità barattare il suo posto al timone con la poltrona del
capitano lo portò inevitabilmente a sognare il comando. Avendo osservato
il modo in cui Picard aveva condotto l'azione contro i Choraii, il tenente si
chiese ora come avrebbe reagito lui in una simile situazione d'emergenza...
pur sapendo che non avrebbe avuto molto presto l'opportunità di scoprirlo.
– Geordi?
La Forge sobbalzò nel sentire il proprio nome e alzò lo sguardo per
vedere chi lo avesse chiamato.
– Oh, salve Wesley! – esclamò. Non aveva notato l'ingresso del ragazzo
in plancia e si sentì sollevato per il fatto che fosse stato un semplice
guardiamarina e non uno degli ufficiali superiori a sorprenderlo perso nei
119
propri pensieri. – Puoi usare una delle postazioni vuote...
– Non sono qui per lavorare – replicò Wesley, scuotendo il capo. – Ho
un favore da chiederti.
– Avanti, spara! – lo incitò Geordi, percependo l'urgenza nascosta dietro
l'espressione seria del guardiamarina.
– In realtà non si tratta di una cosa che riguarda la nave – spiegò Wesley,
in tono di scusa. – Un mio amico ha bisogno di alcune informazioni.
– Che tipo di informazioni?
Wesley lanciò un'occhiata alle proprie spalle, poi si abbassò e sussurrò
qualcosa nell'orecchio di Geordi... che comprese l'identità dell'amico di
Wesley non appena ebbe sentito la natura della richiesta.
– Probabilmente la persona più indicata a cui chiedere le informazioni è
Logan – suggerì.
– Oh...
La reazione poco entusiastica del ragazzo strappò una risata a Geordi.
– Ehi, so che il nostro capo ingegnere non è uno dei tuoi più accaniti
ammiratori, ma scommetto che risponderà alle tue domande... dopo tutto
per una volta questo gli darà l'occasione di essere lui a dare a te delle
risposte.
– Già, credo di sì – mormorò Wesley, accennando ad andarsene.
– Senti Wes, dì a Dnnys... voglio dire al tuo amico, che gli auguro buona
fortuna.
– Grazie, Geordi – rispose il guardiamarina salendo la rampa che
portava alla sezione di poppa della plancia. – Avrà bisogno di tutta la
fortuna possibile.
Riker si stava dirigendo verso il suo alloggio quando una melodia
tormentosa gli fece cambiare rotta e lo spinse ad addentrarsi nel labirinto
di corridoi alla ricerca della fonte della musica. Nel girare un angolo sentì
il suono farsi più forte, ma alla svolta successiva esso diminuì di nuovo
fino a diventare un sussurro; tornato sui suoi passi, Riker scoprì infine che
le soffici note del flauto provenivano dall'accesso a un condotto di
manutenzione inserito nel soffitto. Rimase in ascolto per alcuni momenti,
lasciando che la triste melodia si riversasse su di lui come una pioggia di
lacrime, poi afferrò un piolo all'ingresso del tubo e si arrampicò nel
condotto sovrastante, tanto stretto che le spalle gli urtarono contro le pareti
strette e curve, continuando a salire piolo dopo piolo finché raggiunse una
camera di manutenzione posta tra due ponti.
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Ruthe era seduta a gambe incrociate sulla sporgenza metallica che
circondava l'apertura come la chiusa di una diga e la sua musica si spense
nel silenzio allorché Riker uscì dal condotto e le si sedette vicino; Ruthe
lasciò cadere il flauto in grembo, ma non sembrò contrariata
dall'intrusione.
– Sei ferita – notò lui, guardando con preoccupazione la linea di sangue
rappreso che le segnava una guancia, poi spostò una ciocca di capelli e
scoprì anche un livido purpureo sulla fronte.
– Angoli taglienti e duro metallo, ecco di cosa sono fatte le navi –
commentò lei, respingendo la sua mano.
Picard aveva descritto a Riker lo scontro con la traduttrice e il rifiuto di
lei a fornire aiuto nel salvataggio.
– Abbiamo portato a bordo Jason... pensavo che dovessi saperlo. La
Dottoressa Crusher farà tutto ciò che può per...
– Ha mentito – dichiarò bruscamente Ruthe.
Riker stava per chiederle di chi stesse parlando, ma poi si rese conto che
poteva trattarsi di una persona soltanto e la lasciò continuare.
– Sapeva quello che stavo facendo in ogni minuto. Proprio ciò che il
capitano aveva sospettato.
– Allora perché Deelor continua a negarlo? – volle sapere Riker.
Ruthe non rispose e divise invece il suo strumento nelle tre parti che lo
componevano, riponendo poi i pezzi in tasche separate del mantello,
ognuno al proprio posto.
– Sa anche altre cose – aggiunse poi. – Cose pericolose che non vi dice.
– Vorresti dirle tu a me? – domandò Riker.
Lei alzò la testa di scatto e studiò il viso di Riker come se lo stesse
vedendo per la prima volta.
– Ti ho già detto alcune cose. Adesso tocca a lui.
Spinto Riker da parte scese quindi con rapida agilità i pioli del condotto
di manutenzione, e anche se si affrettò a seguirla quando atterrò sul ponte
sottostante il primo ufficiale dovette constatare che era scomparsa.
XII.
Un numero incalcolabile di stelle brillava al di là degli oblò della sala
d'osservazione, ma la loro luce non gettava alcun calore sui tre uomini
all'interno.
121
– Lei sapeva che c'era ancora un adulto a bordo della Si Bemolle ed era
pronto a lasciarlo ai Choraii. Perché? – domandò il Capitano Picard.
– Ruthe ha agito di sua iniziativa, capitano – replicò Deelor,
manifestando una convinzione maggiore di quella mostrata ore prima nella
stessa stanza. – Non ne sapevo niente...
Deliberatamente Picard finse di perdere la pazienza e calò con violenza
il pugno sul piano del tavolo.
– Sono stanco di questi giochi volti a suo esclusivo vantaggio,
Ambasciatore Deelor... o Agente Deelor, o chiunque lei sia. Basta con le
risposte evasive, basta con le informazioni date a pezzi e bocconi. Ora
voglio sapere la verità su cosa ci fa lei qui.
L'espressione d'innocenza si era gelata sul viso di Deelor, che si passò
una mano sulla faccia come per cancellarla definitivamente, rivelando
sotto quella maschera un aspetto teso e stanco.
– Sì, sapevo di Jason e sapevo che Ruthe aveva in mente di lasciarlo là –
ammise, affondando maggiormente nella poltrona come se avesse bisogno
del suo abbraccio per continuare. – Ho acconsentito a non interferire con la
sua decisione perché sapevo che se l'avessimo portato qui a bordo
probabilmente sarebbe morto. Ci sono stati altri scambi, e di alcuni di essi
nemmeno Ruthe è a conoscenza. In tutto la Federazione ha recuperato
dodici degli originali prigionieri di Hamlin.
– E sono tutti morti? – domandò Riker.
– Non tutti – sospirò Deelor, – ma quelli che sono riusciti a sopravvivere
si sono ritirati in uno stato catatonico. Solo i bambini più giovani
sembrano capaci di adattarsi ad una vita al di fuori delle navi Choraii.
Picard ripensò ai feriti in infermeria e la sua amarezza aumentò.
– Perché non mi ha detto tutto questo prima di portare Jason a bordo?
– Perché avrebbe potuto decidere di lasciare Jason con i Choraii –
dichiarò Deelor, confermando i timori del capitano, – ed essendo un uomo
scrupoloso, avrebbe registrato la sua decisione nel diario di bordo. Io ho
meno scrupoli ed ero disposto a lasciar andare Jason, ma soltanto a patto
che nessuno lo venisse a sapere. Ci sono troppi ufficiali nelle alte sfere che
pretendono il recupero di tutti i prigionieri di Hamlin.
Pur non condividendo i principi etici dell'ambasciatore, Picard dovette
ammettere che se non altro adesso Deelor era sincero.
– Perché il loro ritorno è così importante?
– Ogni ammiraglio darebbe una risposta differente. Alcuni credono,
forse basandosi su voci sbagliate, che i sopravvissuti possano essere
122
recuperati oppure che dar loro una misera vita nel nostro mondo sia
sempre meglio che lasciarli agli alieni che hanno ucciso i loro genitori.
Altri vogliono il ritorno degli adulti per cercare di avere l'opportunità di
venire a conoscenza di informazioni utili. Vedete, i bambini non possono
dirci come funzionano i motori a curvatura dei Choraii.
– No! – esclamò Picard, accantonando con un gesto di disprezzo la
spiegazione di Deelor. – Non posso credere che Zagráth sacrificherebbe
delle vite pur di acquisire queste informazioni!
– Non la giudichi troppo aspramente – replicò Deelor, poi si morse un
labbro per reprimere le parole che stava per dire e scrutò Picard e Riker
tamburellando nervosamente con le dita sul tavolo... il primo sintomo di
tensione che avesse dimostrato fino a quel momento. Infine smise di
tamburellare e riprese il racconto: – I Romulani stanno cercando di
scoprire il segreto dei loro motori, e forse ci riusciranno presto. Almeno
uno dei loro incrociatori da battaglia, il Defender, è andato distrutto in uno
scontro con i Choraii. Secondo alcune voci ci potrebbero essere stati altri
scontri ma non ne conosciamo i risultati – continuò, rendendosi conto di
avere adesso l'assoluta attenzione dei due ufficiali. – La mia missione
originale era quella di scoprire come avevano fatto i Choraii a sconfiggere
il Defender.
– Lasciando distruggere loro la Ferrel – ipotizzò Riker, cogliendo la
palla al balzo.
– Se necessario.
– Lei è un bastardo dal sangue freddo – osservò il capitano.
– Guardi al di là del suo naso, Picard! – esclamò Deelor. – Cosa crede
che succederebbe se i Romulani scoprissero come funzionano i motori dei
Choraii? Potrebbero attraversare la Zona Neutrale e giungere al cuore della
Federazione gettando la distruzione su interi mondi. Io ho camminato in
mezzo al carnaio che si lasciano dietro! Riesce a immaginare cosa sarebbe
successo agli avamposti di frontiera se i Romulani avessero posseduto una
tecnologia di volo superiore?
– L'Enterprise era stata mandata là per mantenere un equilibrio di forze
– rifletté Picard, riappoggiandosi allo schienale della poltrona, – e si
trattava di un equilibrio molto precario.
– Sì, lo so, c'ero anch'io. Soltanto che ero dall'altra parte della barricata...
è stato così che ho appreso il destino del Defender. Per fortuna sono
riuscito a riattraversare la Zona Neutrale prima di morire dissanguato.
Ancora una volta Picard dovette rivedere la sua opinione su Deelor per
123
tener conto di un'altra sfaccettatura della personalità di quell'uomo, che
possedeva senza dubbio un notevole coraggio fisico. Il capitano continuò
ad ascoltare il suo resoconto con crescente rispetto.
– Nell'interesse della sicurezza della Federazione. Questa non è una
frase che si può usare alla leggera perché significa che una dozzina di
prigionieri, o l'equipaggio di una nave stellare possono essere sacrificati
per salvare milioni di vite. Il Capitano Manin ha dimenticato questa parte
dell'equazione quando ha cercato di autodistruggere la Ferrel. Voleva una
morte pulita per i suoi uomini e voleva vendetta contro i Choraii. Ho
dovuto fermarlo.
Pezzo dopo pezzo il puzzle stava prendendo forma nella mente di
Picard.
– Ecco perché qualcuno le ha sparato.
– Come lei ha fatto notare più volte in diverse occasioni, i sentimenti
della gente nei confronti del massacro di Hamlin sono ancora molto forti...
troppo forti, forse. L'odio violento porta spesso ad affrettate reazioni
militari, mentre gli interessi della Federazione si servono meglio attraverso
i lenti progressi della diplomazia. Dal momento che lo scambio di
prigionieri umani tra navi Choraii serve a rinforzare i loro legami, noi
speriamo che i nostri scambi commerciali che coinvolgono i bambini
porteranno a simili legami tra i Choraii e la Federazione, e potranno alla
fine determinare lo scambio di conoscenze tecnologiche.
– Le mie azioni certamente non hanno migliorato questi rapporti –
ammise Picard, con uno stanco sospiro.
– Nella Federazione stessa ci sono diversi modi di concepire la
situazione Choraii, e questo ha certo determinato l'insorgere di una
situazione senza via d'uscita. Alcuni ufficiali rivogliono gli adulti
prigionieri, mentre altri vogliono mantenere relazioni cordiali – spiegò
Deelor, scrollando filosoficamente le spalle. – La Si Bemolle è solo una
delle navi dell'ammasso locale, e nemmeno una tra le più importanti.
Ricomincerò daccapo con un'altra.
– Avremmo risparmiato un sacco di guai se ci avesse detto tutto questo
all'inizio.
– Non dovrei dirglielo neppure adesso – rispose Deelor, rivelando ai due
ufficiali un'altra faccia di se stesso che li fece davvero rabbrividire. – E se
ciò di cui vi ho parlato dovesse uscire da questa stanza, sarete entrambi
uomini morti. Provvederò personalmente.
124
Quando tornò nel suo alloggio, Deelor fu sorpreso di trovare Ruthe
confortevolmente appallottolata su un basso divano, rapita dall'ascolto di
un concerto di violini di Vivaldi. La donna alzò per un momento lo
sguardo quando lui entrò, poi si immerse di nuovo nella contemplazione
della musica, ma il suo silenzio non servì a Deelor per determinare il suo
umore perché di solito i saluti di Ruthe erano sporadici e indifferenti.
Come aveva imparato nel corso della loro collaborazione, Ruthe sarebbe
rimasta remota e impersonale finché non avesse avuto bisogno del suo
aiuto o finché lui non l'avesse interpellata. Deelor si era aspettato che il
litigio avrebbe cambiato in qualche modo la tenue relazione esistente tra
loro, ma forse Ruthe aveva già relegato l'accaduto nel passato... o forse il
fatto che lei l'avesse tradito aveva pareggiato ai suoi occhi le cose fra loro.
Sedutosi su una poltrona, Deelor lasciò che il contrappunto dei violini e
delle viole lavasse via la tensione nata durante il confronto con gli ufficiali
della nave. Se Ruthe non nutriva nessun risentimento, neppure lui ne
avrebbe avuti.
Picard era rimasto nella sala d'osservazione dopo che gli altri due uomini
se n'erano andati. La vista che si stendeva oltre la grande superficie degli
oblò non lo annoiava mai perché lo schema delle stelle lontane era sempre
differente, sempre mutevole. Quegli sfuggenti fari celesti di solito lo
sfidavano e lo ispiravano con la loro bellezza, ma in quel momento la loro
vista gli sembrava cupa e fredda.
Sentì le porte della sala che si aprivano e pensò per un attimo che Riker
fosse tornato, ma i passi che gli si stavano avvicinando erano troppo
leggeri per appartenere al suo primo ufficiale. Picard vide poi il riflesso di
Beverly Crusher che si muoveva sul vetro dell'oblò, arrestandosi con lei
quando la donna si fermò a qualche centimetro da lui e seguì la direzione
del suo sguardo nello spazio. Rimasero uno accanto all'altra in silenzio per
diversi minuti prima che lei si decidesse a parlare.
– Se si guardano le stelle troppo a lungo si comincia a sentirsi come un
dio... o a credere di essere capace di agire come tale: onnisciente,
onnipotente, infallibile.
Picard non rispose.
– I capitani e i dottori sono entrambi portati a questa sindrome. Ci
aspettiamo di risolvere tutti i problemi e di curare tutte le malattie, e poi ci
sentiamo in colpa perché falliamo in imprese impossibili. O incolpiamo
altri.
125
– Questa è una predica, Dottoressa Crusher? – chiese Picard, girandosi
infine verso di lei.
– Qualcosa del genere. Sono più abile a predicare che a porgere scuse –
spiegò lei, con lo sguardo ancora fisso sulla scena esterna alla nave.
– Non ho bisogno né dell'una né dell'altra cosa.
– Ma ha diritto a entrambe – sospirò Crusher, poi si girò in modo da
incontrare lo sguardo del capitano. – Ha diritto a delle scuse per quello che
le ho detto prima in infermeria e ad una predica per avermi ascoltata
quando ero troppo agitata per dire qualcosa di sensato.
Picard si rilassò un poco, perdendo la sua postura rigida.
– Neppure io ero di buon umore – commentò con ironia, – e lei non ha
detto niente che non mi fossi già ripetuto centinaia di volte.
– Il che prova che entrambi abbiamo bisogno di una vacanza.
Picard sorrise e il nervosismo tra i due si dissolse per essere sostituito da
un'altra, più familiare tensione. Crusher si allontanò di un passo e Picard
guardò ancora le stelle chiedendosi come avesse potuto scambiare la loro
brillantezza per desolazione.
– Come va il Tenente Yar?
– Sta distruggendo l'infermeria – sospirò Crusher. – La dimetterò presto,
a meno che non la strangoli prima.
– E Jason?
– È sotto sedativi – spiegò, secca, la dottoressa. – Ho stabilito la sua
identità sulla base dei vecchi dati di Hamlin. Il profilo del suo DNA
coincide con quello di Jason Reardon; aveva tre anni al tempo del
rapimento, e quindi non era molto più vecchio del bambino che abbiamo
recuperato noi.
– Sono parenti?
– No – rispose lei. – Comunque ho usato i marcatori genetici per
rintracciare gli antenati del bambino. Suo padre era uno degli originali
prigionieri, ma sua madre apparentemente è nata in prigionia. Siamo di
fronte al risultato dell'unione tra due bambini giunti all'età adulta fra i
Choraii.
– Un prigioniero della terza generazione – specificò il capitano,
inarcando le sopracciglia con espressione allarmata.
– Sì, e probabilmente non è l'unico. Sono certamente tutti in buona
salute, quindi la popolazione umana potrebbe essere in continua crescita.
Forse i prigionieri si stanno spargendo per tutte le navi Choraii. Come
riusciremo a recuperarli?
126
– È questa la giusta domanda da porsi? – chiese il capitano, ricordandosi
della rivelazione di Andrew Deelor sull'alta mortalità dei prigionieri
salvati.
– Non sono pronta ad affrontare il problema – lo interruppe Crusher,
sollevando una mano per fermarlo. – Oh, Jean-Luc, se avesse visto Jason
quando è stato portato a bordo... quegli occhi pieni di terrore... –
S'interruppe, poi si scosse per ritrovare il controllo e concluse: – Devo
tornare in infermeria. Il sedativo di Jason avrà quasi terminato il suo
effetto.
Uscirono dalla sala d'osservazione insieme ma si divisero appena
superata la soglia e Picard era già a metà del corridoio opposto quando la
dottoressa si girò per richiamarlo.
– A proposito, capitano, il Professor Butterfield ha richiesto un'insalata
di caudifera per pranzo.
Come i suoi compagni umani, anche a Data era stato assegnato un
alloggio tutto suo, però l'androide passava molto più tempo nell'alloggio di
Geordi o nella biblioteca di bordo perché entrambi i posti saziavano l'unica
fame che sentisse: la curiosità. Data infatti era libero dalle necessità di un
corpo umano, ma si deliziava nella ricerca della conoscenza e acquisiva
fatti e notizie con la stessa passione che accompagna l'esperienza di alcune
persone quando queste incontrano una nuova prelibatezza culinaria.
Dal momento che Geordi era ancora al comando in plancia, Data scelse
di passare il resto del suo periodo fuori servizio seguendo la sua ultima
linea di ricerca: aveva già memorizzato vari testi che spiegavano il bisogno
fisiologico del sonno tra le forme di vita organiche, ma alcuni aspetti
psicologici ancora gli sfuggivano. Entrando in biblioteca, comunque, fu
distratto da un'insolita attività in un angolo della sala.
– Oh, salve, Data – sospirò Wesley, quando l'androide lo raggiunse al
terminale di stampa. Il ragazzo cercò di raggruppare i libri rilegati che
coprivano il tavolo, ma Data aveva già preso in mano uno dei volumi.
Personalmente trovava che il formato stampato fosse poco pratico e
facesse perdere tempo, ma la sua frequentazione degli Umani gli aveva
fatto capire che quel mezzo possedeva per loro un certo fascino.
– Molto interessante – commentò, ispezionando il titolo sul dorso. –
Principi ingegneristici di base. Lo hai consultato per scopi d'archivio? Hai
già imparato queste cose.
– Sto facendo un favore ad un amico – spiegò Wesley, rimuovendo
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l'ultimo volume appena rilegato dalla stampante. – E... Data, apprezzerei
molto se tenessi la cosa per te.
Data si accigliò perché la frase gli era poco familiare.
– Vuoi che anch'io prenda una copia?
– No, intendo... – Wesley inspirò profondamente... – Ecco, non dire a
nessuno quello che sto facendo. Vedi è una specie di...
– Un segreto? – chiese Data.
– Sì – rispose Wesley.
– Segreto – recitò con entusiasmo l'androide, sorridendo. –
Un'operazione clandestina, una impresa condotta sottobanco, un...
– Mi spiace, Data, ma faccio tardi a lezione – lo interruppe Wesley; con
un sorriso di scuse raccolse tutti i libri e si affrettò verso l'uscita.
Data rimase immobile immerso nei suoi pensieri, ponderando la mistica
dei segreti: adesso che ne aveva uno da mantenere, non sapeva esattamente
cosa farne.
Ogni volta che Riker si incontrava con la Colona Patrisha, la donna lo
accoglieva con cortesia sempre maggiore. In questa occasione, quando si
presentò nel suo alloggio gli offrì del tè e lui lo accettò: entrambi
assaporarono l'amara tisana di erbe in un tranquillo silenzio prima di
passare agli affari.
Augurandosi che la cordialità di Patrisha resistesse anche a quella prova,
Riker mise da parte la sua tazza ormai vuota e affrontò l'argomento di cui
era venuto a parlare.
– Ho delle buone notizie: siamo di nuovo in rotta per New Oregon.
– Arriveremo in tempo per il travaso? – domandò Patrisha.
– No, temo di no – confessò Riker con franchezza, poi si lanciò
nell'esposizione della bugia che aveva preparato. – I nostri motori a
curvatura devono essere sottoposti ad una manutenzione di routine e
questo ci rallenterà un po' – spiegò. Fortunatamente Logan non avrebbe
avuto occasione di entrare in contatto con i Coloni: il capo ingegnere non
avrebbe certo apprezzato quelle malignità sul suo dipartimento.
– Di quanto sarà questo ritardo?
– Solo di un paio di settimane – sospirò il primo ufficiale, cercando di
mitigare la risposta con un sorriso, ma si rese subito conto che il suo sforzo
non sarebbe stato necessario: Patrisha infatti accettò la notizia senza
commenti. Riker si domandò allora se la sua calma fosse influenzata dalla
decisione di Dolora di trasferirsi a tempo pieno nella fattoria del ponte
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ologrammi e quel pensiero gli riportò in mente il secondo problema da
risolvere. – A proposito del travaso... il modo più semplice di muovere le
vostre camere di stasi sul ponte ologrammi è quello di usare il
teletrasporto.
– La mia gente non sarà mai d'accordo – ribadì immediatamente
Patrisha, inarcando le sopracciglia di fronte a quella proposta eretica. – Il
teletrasporto va sicuramente contro il credo dei Coloni.
– Temevo che fosse così – sospirò ancora il primo ufficiale, ricordando
che l'intera comunità e le loro cose erano state portate sull'Enterprise con
le navette, in un via vai durato per cinque ore... quando invece ne sarebbe
bastata una con il teletrasporto. Le navette avevano fatto la spola avanti e
indietro tra la base stellare e gli hangar con i Coloni che andavano e
venivano in un rumoroso miscuglio di bagagli perduti e di famiglie
separate... una scena che il primo ufficiale voleva evitare di rivedere. –
L'alternativa è smantellare il macchinario in modo da trasportare a mano le
celle di stasi.
– Il che significa che l'intero progetto finirebbe in un disastro per gli
animali – concluse Patrisha, di sua iniziativa. Evidentemente anche lei
ricordava il disordinato arrivo a bordo bene quanto Riker.
– Non sta a me dirlo – obiettò il primo ufficiale, incerto sul da farsi, non
sapendo fino a che punto avrebbe potuto insistere.
– E neppure a me – gli fece eco Patrisha, posando la sua tazza sul tavolo.
– Queste cose vengono decise dall'intera comunità.
Ed entrambi sapevano cosa avrebbe deciso la comunità. Almeno aveva
provato, pensò Riker mentre si alzava in piedi per andarsene, e si disse che
forse i Coloni avrebbero potuto essere persuasi a permettere ai membri
dell'equipaggio della nave di assisterli durante il processo di nascita...
anche se c'era da domandarsi quanti uomini sarebbero stati necessari per
controbilanciare l'inefficienza dei Coloni.
– Naturalmente, se lei non lo chiede, non potranno rifiutare –
puntualizzò inaspettatamente Patrisha, alzandosi dalla poltrona.
– Come dice, prego?
La donna non riuscì a incontrare il suo sguardo, ma fece in modo di
chiarire bene la propria posizione mentre si dirigevano alla porta.
– Se l'equipaggiamento di stasi fosse messo in posizione entro
domattina, sarebbe troppo tardi perché chiunque possa sollevare obiezioni
sui metodi usati... e magari nessuno si chiederà come è stato portato al suo
posto.
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– Grazie per il tè, Colona Patrisha – esclamò Riker, con un ampio
sorriso, – e per il consiglio.
– Per favore non ne parli neppure... con nessuno – concluse fermamente
Patrisha.
– Non posso sopportare di stare ancora a letto – esplose Tasha Yar,
entrando come un uragano nell'ufficio della dottoressa. – Potrei essere in
plancia a fare qualcosa di utile! Siamo nel mezzo di una missione
segretissima e il mio confino sta interferendo con i più basilari doveri di
sicurezza. E inoltre mi sento bene! – affermò alla fine, piantando i pugni
sulla scrivania di Crusher.
– Sono contenta di saperlo, Tasha – sospirò Beverly Crusher,
appoggiandosi allo schienale per mettere una maggiore distanza tra se
stessa e il tenente, – ma ho voluto trattenerti qui finché non mi restituivano
questo – spiegò, esibendo una registrazione: era il risultato delle analisi di
laboratorio che la dottoressa aveva trovato sulla scrivania appena tornata in
infermeria. Aveva richiesto il test come precauzione di routine, ma i
risultati erano stati una spiacevole sorpresa. – Che cosa ricordi
dell'atmosfera della nave Choraii?
– È stato come affogare – rabbrividì Yar. – I primi momenti sono stati i
peggiori, ma dopo respirare non è risultato difficile come credevo. Anzi il
liquido era piuttosto piacevole... aveva l'odore e quasi il sapore della
cannella.
Un odore che era l'indizio chiave di tutta la faccenda.
– Ho fatto analizzare un campione del liquido, ed è risultato intriso di
una droga, un narcotico.
– Questo significa che devo rimanere ancora in infermeria? – chiese Yar,
la cui preoccupazione era una soltanto.
– Sì! – confermò Crusher con enfasi. Quell'insistenza era ammirevole in
un capo della Sicurezza, ma non in un paziente. Uscì quindi dall'ufficio ma
il tenente la seguì nel corridoio. – Non posso dimetterti finché non sarò
sicura che il tuo sistema ha metabolizzato ogni traccia della droga... e
anche allora non sapremo quali saranno gli effetti a lungo termine.
– Ma io mi sento bene! – protestò Yar.
– Tasha, dicesti così anche dopo una partita di Parisses Squares con
Worf. Ho visto il tuo corpo chiazzarsi di nero e di blu senza che tu
ammettessi il minimo dolore.
– Non è un confronto giusto.
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– Basta! – esclamò Crusher, fermandosi bruscamente per fronteggiare
Tasha. – Ancora una parola e chiamerò una delle tue squadre di Sicurezza
perché ti riporti in corsia.
Un grido d'angoscia proveniente dalla stanza di fronte pose bruscamente
fine alla loro discussione. Entrambe le donne si precipitarono lungo il
passaggio ed entrarono di corsa nell'area d'isolamento.
– Tasha, prenditi cura di Troi – ordinò la Dottoressa Crusher,
comprendendo al volo la situazione, poi si diresse direttamente nella
camera.
Jason era sveglio e i suoi lamenti si mischiavano ai singhiozzi di Troi.
La dottoressa fece rientrare la copertura isolante in modo da poter
raggiungere Jason direttamente: l'uomo era raggomitolato in un angolo
dell'unità e si dondolava avanti e indietro in preda ad una forte agitazione.
Anche se i suoi occhi erano aperti, lo sguardo era fisso e non sembrò
notare l'avvicinarsi di Crusher.
– Jason – mormorò la dottoressa, protendendosi per toccarlo.
L'uomo urlò al contatto e il suo corpo si appallottolò in posizione fetale
con la testa nascosta tra le ginocchia, le braccia e le gambe in preda ad un
tremito incontrollato.
– No – urlò Troi. – Non avvicinarti maggiormente! – Nonostante il
confortante abbraccio di Tasha, anche il consigliere stava tremando e il suo
viso era lo specchio del terrore emotivo di Jason. – La tua presenza non fa
altro che spaventarlo di più.
– Cosa posso fare per rassicurarlo?
– Non lo so. Niente. Lascialo stare – pianse Troi.
Jason si era ritratto in una posizione ancora più serrata e le sue urla
erano diventate un fastidioso canto ritmico.
– Dannazione! – imprecò Crusher, prendendo una siringa dal suo
medikit. Jason rabbrividì al tocco del freddo metallo contro la pelle, ma
non ebbe altra reazione. Pochi secondi dopo, quando il sedativo fece
effetto e lui scivolò nel silenzio, accasciandosi dove si trovava, Crusher lo
adagiò su un fianco e gli districò gentilmente gli arti in modo da fargli
assumere una posizione più comoda, ben sapendo che sarebbe rimasto
incosciente per almeno altre sei ore.
La dottoressa riattivò poi il pannello di controllo della camera e lo scudo
si riformò attorno alla forma addormentata, nascondendola alla vista. Il
pannello diagnostico indicava che il corpo di Jason era in salute, anche se
non si poteva dire lo stesso per la sua mente, ma le sue intense reazioni
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emotive avrebbero avuto alla fine un effetto depressivo. Modificando la
regolazione della siringa, Crusher rivolse la sua attenzione al consigliere.
– No – protestò Troi, senza riuscire però a impedire che la dose di
medicamento le venisse iniettata nel corpo. – Davvero, adesso sto bene.
– Dicono tutti così – mormorò Beverly Crusher. – Questo dovrebbe
calmarti finché non avrai raggiunto il tuo alloggio.
– Ma non posso lasciare Mosè. Sta cominciando a riconoscermi! – si
oppose il consigliere, decisa a rimanere in infermeria tanto quanto Yar lo
era nell'insistere per andarsene.
– Allora ti terrò compagnia – si offrì volontario il Tenente Yar.
– Pensavo che non vedessi l'ora di andartene da qui – le ricordò Crusher,
fissandola con incredulità.
– Odio veder piangere Troi – ammise Yar, stringendosi nelle spalle con
aria contrita.
– Grazie per l'offerta – rise Deanna, asciugandosi l'ultima lacrima, – ma
come te la cavi con i bambini?
– Non so da che parte cominciare, ma forse mi farà bene – ammise il
tenente, poi fece una pausa e aggiunse: – Almeno se non dovrò affrontare
troppe funzioni biologiche poco gradevoli.
– Oh, fate come volete – si arrese Crusher, esasperata da entrambe. Troi
stava rapidamente ritrovando il suo equilibrio emotivo, ma adesso era il
turno della dottoressa di fronteggiare la propria reazione al risveglio di
Jason.
Una volta nella privacy del suo ufficio, la Dottoressa Crusher non riuscì
più a ignorare la crescente disperazione che la opprimeva. Si sedette alla
scrivania e richiamò in successione alcuni documenti dal computer senza
però recepirne affatto il contenuto perché la sua mente continuava a
tornare a pensare al prigioniero di Hamlin, alla ricerca di un modo per
aiutare Jason ad adattarsi; la situazione era però molto diversa da quelle
con cui aveva avuto a che fare in passato, e questa volta aveva bisogno di
aiuto. Portando la mano al petto, toccò lievemente il comunicatore.
– Stavo aspettando una sua chiamata – rispose Andrew Deelor, – e penso
anche di sapere che cosa vuole.
– Sarebbe disposto a chiederglielo?
– Sì, glielo chiederò. Ma non posso garantire che l'aiuterà – replicò lui
con riluttanza, e chiuse il contatto.
Come io non posso garantire la vita di Jason, ammise Crusher per la
prima volta.
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XIII.
Tenendosi in disparte rispetto agli altri Coloni, Patrisha stava osservando
gli uomini e le donne della comunità raccolti in semicerchio attorno alla
facciata del granaio, intenti a mormorare tra di loro e a battere i piedi per
tenerli caldi nella fredda aria mattutina mentre guardavano con aspettativa
la costruzione di legno immersa nella luce dell'alba. Il palcoscenico era
ormai pronto per la rappresentazione.
Il silenzio scese sul gruppo non appena Dnnys e Wesley si fecero largo
tra la folla e si diressero verso il granaio, consapevoli che ogni loro
movimento veniva osservato e controllato; scambiandosi un sorriso
nervoso, i ragazzi aprirono le grandi porte togliendo il fermo di legno e
subito i Coloni si spinsero in avanti, allungando il collo per scorgere
l'equipaggiamento criogeno immagazzinato all'interno. A parte alcuni
mormorii di disprezzo per la complicatezza della macchina, non ci furono
altri commenti.
Patrisha provò quasi vergogna per il fatto che la presenza del
macchinario di stasi sul ponte ologrammi fosse accettata senza tante
domande: nessuno, neppure Tomas, si chiese il perché dell'assenza di
tracce sul terreno dell'aia... ma in fondo, un buon Colono non ne sapeva
abbastanza della tecnologia del teletrasporto da cercare i segni del suo uso.
Patrisha era grata che Riker avesse eseguito la sua magia durante la notte e
avesse evitato di presentarsi lì quella mattina. Perché un estraneo avrebbe
certo riso di persone che si lasciavano abbindolare così facilmente... e
tuttavia era stata proprio lei a causare quella situazione ridicola dando il
suggerimento giusto all'ufficiale della Flotta.
Allorché Dnnys avviò la prima fase del processo di travaso distaccando
una singola cella dalla struttura ad alveare, Wesley emerse dal retro del
macchinario svolgendo le spire di un tubo fine e flessibile e ne porse
l'estremità al giovane Colono; muovendosi con la sicurezza generata da
molta pratica, Dnnys attaccò agilmente l'aggancio al buco di drenaggio
della cella, poi fece scattare un interruttore e una pompa d'aspirazione si
animò con una serie di gorgoglii e rutti.
– Dnnys non è mai stato così veloce nello svolgere i suoi compiti di
fattoria – notò Tomas, avvicinandosi a Patrisha.
– È cresciuto da quando abbiamo lasciato Grzydc – affermò lei,
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chiedendosi quando il fragile e magro corpo del bambino si fosse mutato
in quello solido e muscoloso di un ragazzo. – Inoltre dovresti essere
contento che qualcuno possa fare questo lavoro – concluse. Patrisha aveva
già difeso in passato la decisione di suo figlio di assumersi la
responsabilità della manutenzione dell'antiquato equipaggiamento durante
il lungo viaggio verso New Oregon, risparmiando così alla comunità
l'onere insostenibile di assumere un tecnico qualificato, ma adesso che
poteva vedere di persona la familiarità con cui il ragazzo lavorava
all'equipaggiamento di stasi desiderò che essa non fosse altrettanto
evidente per gli altri Coloni.
Lei e Tomas guardarono Wesley ripetere la stessa azione con altre celle,
voltandosi spesso verso Dnnys per le istruzioni... non c'era dubbio che a
capo dell'operazione ci fosse il giovane Colono e non il guardiamarina
della nave stellare.
Poi un altro osservatore si unì a loro.
– È figlio tuo in tutto – commentò Dolora, ma Patrisha non commise
l'errore di scambiare quella frase per un complimento.
Un ronzio acuto segnalò che la prima cella si era svuotata del fluido di
conservazione e la tensione si impadronì del gruppo di uomini e di donne,
che cominciarono a mormorare tra loro aspettando di conoscere le
condizioni del contenuto. Dnnys aprì lo sportello e infilò le mani
all'interno tirando fuori un coniglietto rosa appena nato, e poi un altro...
– Sono vivi – annunciò con orgoglio, non appena i piccoli fagottini
carnosi cominciarono a dimenarsi e a stridere.
– La nascita più dannata che io abbia mai visto – dichiarò il Vecchio
Steven, e sputò per terrà per sottolinearlo.
Patrisha vide Dolora serrare le labbra, segno che aveva sentito
sicuramente l'imprecazione, ma del resto il Vecchio Steven era l'unico
Colono che osasse bestemmiare in presenza di Dolora... i due non stavano
più insieme, ma lui era il padre dei suoi figli e quella connessione
sentimentale apparentemente garantiva una certa immunità alle sue azioni.
– Ehi, guardate qui! – esclamò Wesley, con grande eccitazione. Aveva
aperto un'altra cella contenente una cucciolata di cagnolini dagli occhi
ancora chiusi, e quando ne sollevò uno bianco e nero, questo cominciò ad
annusargli il palmo della mano in cerca di latte.
– Mettiamoci al lavoro prima che il ragazzo li ammazzi tutti – esclamò
Myra, togliendogli il cucciolo dalle mani e passando l'animale a Charla.
Patrisha venne avanti per prendere l'altro mentre i Coloni, incitati
134
all'azione dalla parlantina della donna, cominciavano a portare via gli
animali appena gli addetti ai congegni di stasi li avevano liberati. I
cagnolini furono seguiti da una schiera di maialini, da una nidiata di
pulcini e da uova di anatra pronte a schiudersi. Essendo privi di madre,
tutti i nuovi nati avrebbero dovuto essere nutriti a mano e accuditi
continuamente, il che significava che dopo dieci mesi di ozio forzato i
Coloni si sarebbero dovuti rimettere al lavoro... un lavoro duro che sarebbe
durato per il resto della loro vita.
– E dopodomani cominceremo il travaso per i cavalli! – spiegò Wesley,
poi si accorse che anche se lo stava guardando negli occhi mentre parlava,
sua madre non mostrava però nessuna reazione. – Mamma, tu non mi stai
ascoltando.
– Davvero?! – sospirò la Dottoressa Crusher. – No, credo di no –
ammise, riponendo con un altro sospiro il taccuino elettronico.
– E non sei neanche venuta a vedere la fattoria di Oregon. Io andrò là
dopo le lezioni... vuoi venire con me? – domandò passando il peso di un
grosso pacco da un braccio all'altro.
– Mi dispiace, Wesley. So che hai lavorato duramente al progetto sul
ponte ologrammi e vorrei davvero vederlo, ma...
– Ma stai lavorando troppo anche tu. Hai l'aspetto piuttosto stanco –
commentò Wesley senza risentimento. Pochi mesi prima non lo avrebbe
notato.
– Non ho dormito molto ultimamente – ammise lei... e in effetti Wesley
non riusciva affatto a ricordare l'ultima volta che aveva visto sua madre nel
loro alloggio. – Ma non appena le cose si calmeranno un po', verrò a
vedere la fattoria.
– I prigionieri non stanno troppo bene, vero?
– Meglio che ti affretti o farai tardi alla lezione di fisica – avvertì
Beverly Crusher, senza rispondere alla domanda.
– Astronomia – la corresse Wesley, accennando a uscire dall'ufficio, ma
poi si fermò sulla porta e cominciò, esitando:
– Mamma, se un amico ti chiedesse un favore che potrebbe metterlo nei
guai con la sua famiglia...
– Come dici, Wesley?
– Niente, niente – rispose lui. – Ciao mamma.
La Dottoressa Crusher lo salutò distrattamente con un cenno, poi riprese
in mano il taccuino elettronico che sembrava farsi sempre più pesante con
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il passare del tempo e controllò i suoi doveri, vagliando una lista di
pazienti da visitare. Molti avevano lasciato il letto quella mattina, ma lei
non vedeva l'ora di dimettere un particolare paziente.
– Tornatene in plancia. I tuoi ultimi esami dimostrano che stai bene –
ordinò.
– Io te l'ho detto dall'inizio – ribadì il Tenente Yar saltando giù dal letto.
– Non ho mai risentito degli effetti della droga.
– A parte lo svenimento iniziale – puntualizzò Crusher. Fortunatamente
l'esposizione di Yar al narcotico era durata solo pochi minuti. Se soltanto
Jason avesse potuto riprendersi altrettanto facilmente, ma aveva passato gli
ultimi cinquant'anni a bordo della nave e a meno di riportarlo ai Choraii...
una parvenza di soluzione cominciò a prendere forma nella sua mente.
– La droga ha influenzato i tuoi ricordi della nave?
– Oh, no. Non credo che dimenticherò molto presto quell'esperienza! –
replicò il tenente. La dottoressa fu piacevolmente colpita da quella
risposta, ma Yar era troppo presa dall'entusiasmo per le dimissioni
dall'infermeria per notarlo o per chiedersi il perché. – A proposito di Troi...
– So che è stanca. Ho già scelto qualcun altro che l'aiuti con il bambino
– annunciò Crusher. Troppi dettagli stavano interrompendo i suoi pensieri,
ma la partenza di Yar avrebbe ridotto considerevolmente l'interferenza. –
Tasha, cerca di stare fuori dai guai... non voglio vederti di nuovo in giro
per l'infermeria per parecchio tempo.
– Non preoccuparti, non intendo tornarci – la rassicurò Yar, affrettandosi
alla porta.
La Dottoressa Crusher rimase immobile, trasformando l'idea che le
frullava nella mente in un concetto più solido. La sua mossa successiva fu
quella di consultare Data, che le rispose attraverso l'interfono e ascoltò
pazientemente mentre lei gli descriveva le sue esigenze.
– Sì, tecnicamente il progetto è fattibile – confermò l'androide, dopo
attenta considerazione. – Ho accesso alla maggior parte delle informazioni
pertinenti – concluse, spiegando di cos'altro avrebbe avuto bisogno.
– Tasha potrebbe dirti alcune di quelle cose – rifletté Crusher, – ma
Ruthe sa tutto di sicuro.
Sempre che sia d'accordo e ci voglia aiutare, aggiunse fra sé.
– Vuole che cominci adesso?
– Non ancora, Data. Ti farò sapere io quando – lo trattenne Crusher.
Stava infatti ancora aspettando la risposta di Deelor alla sua prima
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proposta: se avesse rifiutato quella, Ruthe non avrebbe mai accettato la
seconda.
Lisa Iovino trovò il Consigliere Troi individuando il punto di
provenienza del pianto del bambino che aveva in cura. La donna e il
bambino erano nel cubicolo del dietologo, da cui l'infermiera di turno era
sparita in cerca di un ambiente più tranquillo, e Troi era troppo presa da
ciò che stava facendo per accorgersi dell'arrivo di Iovino, che ebbe così
l'opportunità di osservarla per alcuni minuti.
Deanna era seduta al tavolo del sintetizzatore alimentare con il bambino
che le si dibatteva in grembo: un grande assortimento di piatti era
accatastato davanti a loro, e il contenuto della maggior parte di essi era
stato appena toccato; le porzioni mancanti erano sparse sul viso e sul petto
di Troi.
– Ecco, prova questo – cercò di persuadere con dolcezza, tenendo pronto
un cucchiaio pieno di purè di patate; quando il bambino aprì la bocca per
urlare Troi vi infilò dentro il cucchiaio con un tempismo perfetto.
Dopo un attimo di silenzio il bambino sputò il boccone, aggiungendo un
nuovo ingrediente sull'uniforme sporca di lei, poi riprese a piangere. Anche
Troi era vicina alle lacrime.
– Sono il suo sostituto... la Dottoressa Crusher mi ha detto che aveva
bisogno di una pausa – annunciò Lisa, entrando nella stanza, anche se
dopo aver visto il consigliere la sua opinione personale era che la pausa
avrebbe dovuto aver luogo da tempo. Le urla laceranti del bambino erano
echeggiate nel reparto medico per ore.
– Ma non è abituato a vedere estranei – ribatté stancamente Troi; i
bambini erano molto diretti nel trasmettere le proprie emozioni, e
schermarsi dall'infelicità del piccolo l'aveva prosciugata di ogni energia. –
Temo che si spaventerà se me ne vado.
– Certamente non riuscirà a urlare più forte, chiunque sia con lui –
esclamò Iovino, e si protese per toglierle il bambino piangente dalle
braccia.
Il trasferimento sorprese Mosè quanto bastava per indurlo a tacere per un
momento: smise di piangere per il tempo necessario a studiare la sua
nuova balia, poi proruppe in un sospetto piagnucolio e si attaccò
saldamente alla coperta verde che lo avvolgeva, ormai ricoperta dalla
stessa sostanza appiccicaticcia che gli copriva il viso bagnato di lacrime.
– Non hai molta fame, vero? – chiese Iovino al bambino.
137
– Al contrario, è affamato.
Nel sentire il suono della voce del consigliere il bambino si voltò verso
Troi: sebbene non avesse smesso di singhiozzare, Mosè stava infatti
ascoltando attentamente la conversazione tra le due donne, ma Troi si
chiese se capiva veramente le loro parole. Il suono delle voci umane che
parlavano in un'atmosfera liquida era probabilmente molto diverso da ciò
che lui stava sentendo adesso.
– È solo che non è abituato al nostro cibo – continuò, rimpiangendo che
negli scambi con i Choraii non fossero stati inclusi anche i loro cibi più
comuni perché poteva percepire il senso di frustrazione che il bambino
provava nel trovarsi di fronte a gusti e consistenze sconosciuti. – Ho
provato minestre, budini, gelati, creme di frutta e verdure.
– Alla fine mangerà. I bambini non muoiono mai di fame se c'è qualcosa
di commestibile a portata di mano – affermò Iovino.
I capelli soffici e castani della donna e la sua pelle color pesca e crema
davano un'impressione di dolcezza e di innocenza, ma Troi si accorse che
la risposta pratica dell'infermiera era un indicatore più accurato della sua
personalità.
– Questo è un bambino speciale – ribatté il consigliere, poi esitò incerta,
non sapendo quanto poteva dire senza infrangere le restrizioni di sicurezza.
– È cresciuto in modo insolito.
– Sì, lo so – annuì Iovino. Aveva letto una versione ovviamente ridotta di
una registrazione sui misteriosi sopravvissuti al naufragio. La cartella
clinica del bambino non era molto dettagliata e certamente non
corrispondeva ai consueti standard di precisione della Dottoressa Crusher,
il che significava che molte domande sarebbero rimaste senza risposta. –
Basta che lo lasci a me.
Nonostante il suo esaurimento sia fisico che mentale, Troi era un po'
riluttante ad affidare Mosè nelle mani di qualcun'altro finché non si rese
conto che il bambino aveva smesso di piangere. Abbassò allora i suoi scudi
empatici e percepì la sorpresa di lui, anche se non seppe stabilire che cosa
nella nuova venuta avesse stimolato quella curiosità. – Sembra che tu
abbia dell'ascendente con i bambini.
– Temo proprio che sia così – sospirò Iovino. Mosè la osservò con lo
sguardo fisso ed ebbe un singulto. Automaticamente la giovane infermiera
gli dette una leggera pacca sulla schiena per attenuare gli spasimi del
singhiozzo. – Vengo da una famiglia molto numerosa... molto molto
numerosa – spiegò, scuotendo la testa al ricordo della sua casa natale. I
138
vasti continenti di LonGiland erano stati popolati in soli pochi secoli dai
suoi prolifici colonizzatori. – Il matrimonio in età precoce è radicato nella
tradizione, e perciò per tutta la vita ho dovuto prendermi cura di fratelli e
sorelle minori, senza contare i nipoti.
– Ma sei entrata nella Flotta Stellare invece di seguire quella tradizione.
Capisco quanto possa essere stata difficile quella decisione perché anch'io
ho rotto con le tradizioni della mia gente – commentò pensierosamente
Troi.
– Non me ne sono liberata del tutto – ridacchiò Iovino, cullando Mosè
che si era addormentato tra le sue braccia. – Tutti quanti in infermeria
continuano a lodare i miei modi con i bambini e se non sto attenta finirò di
certo in pediatria!
La discussione era cominciata in un'altra area dell'infermeria, ma la
Dottoressa Crusher notò le occhiate affrettatamente distolte del suo staff e
si rese conto che stava per perdere il proprio autocontrollo. Forse
l'ambasciatore era insolitamente esasperante o la mancanza di sonno stava
influenzando il suo equilibrio emotivo... Crusher preferì incolpare Deelor e
lo guidò nel suo ufficio privato.
– Non posso mantenerlo sotto sedativi finché non raggiungiamo la Base
Stellare Dieci – ribadì. – Gli ho già dato più dosi di quante avrei voluto.
– Provi con dosi più leggere – suggerì Deelor.
– Dannazione, non ho bisogno di consigli medici... – replicò la
dottoressa, anche se era proprio ciò che aveva chiesto. Respirò
profondamente e riprese a parlare con più calma. – Ho cercato di ridurre il
dosaggio, ma rimanere in uno stato parzialmente addormentato non fa altro
che aumentare la confusione di Jason. Mi sta sfuggendo.
– A volte succede.
– Non ai miei pazienti!
– Non posso aiutarla – affermò Deelor, scrollando le spalle.
– Ma Ruthe può.
– Gliel'ho chiesto, e ha rifiutato.
– Allora glielo chieda ancora! – esclamò Crusher, smettendo di sforzarsi
per contenere la propria rabbia.
– No! – ribatté Deelor, alzando a sua volta la voce nel rispondere. – Di
certo si rende conto di ciò che implica la sua richiesta?
– Io sto cercando di salvare la vita di Jason.
Le loro urla avevano coperto un suono di passi che si avvicinavano. Il
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Capitano Picard entrò nella stanza e si fermò, in attesa di una spiegazione
del loro comportamento; quando questa non arrivò, affrontò l'argomento
che l'aveva portato in infermeria.
– Ho ricevuto il suo rapporto medico riguardo all'atmosfera Choraii. Di
che natura è quella droga?
– L'analisi chimica indica che è un narcotico piuttosto blando – rispose
Crusher, distrattamente, con un'espressione accigliata che era diretta a
Deelor. – Potrebbe aver contribuito allo svenimento del Tenente Yar dopo
il ritorno dalla Si Bemolle, ma visto che non mostrava segni di effetti
collaterali prolungati l'ho dimessa. Comunque sto ancora cercando di
determinare se Jason e il bambino soffrono di astinenza. I miei test su una
possibile dipendenza chimica non sono conclusivi.
– E lei crede che Ruthe possa avere qualche informazione? – insistette
Picard, dimostrando così di aver sentito buona parte della loro
conversazione, abbastanza da immaginare l'argomento del litigio.
– Solo che lei non mi vuol dare neppure l'opportunità di farle delle
domande – annuì Crusher.
– Ambasciatore, lei è l'unico che abbia una qualche influenza su di lei –
lo sfidò Picard.
– Io? – esclamò Deelor, con irriverenza. – La conosco da tanto tempo,
ma non dovete confondere questo con l'influenza. Ruthe fa soltanto quello
che vuole lei. – Dal suo tono Crusher sospettò che Deelor ammirasse
questo lato della personalità della traduttrice.
– Mi rendo conto che Ruthe si era opposta al trasferimento – persistette
il capitano, – ma certamente non vorrà lasciare che Jason soffra per i nostri
errori.
– Ruthe non vuole avere niente a che fare con i prigionieri.
– Perché? – domandò Picard.
– Non posso rispondervi – dichiarò Deelor.
– Non importa... glielo chiederò personalmente – replicò rabbioso
Picard, muovendosi verso la porta dell'ufficio, ma Deelor gli bloccò la
strada. – Mi sta ordinando di non farlo, ambasciatore?
– No – mormorò Deelor, alla fine, e si trasse da parte. Immersi in un
silenzio pieno di disagio, lui e Crusher rimasero ad aspettare il ritorno del
capitano.
La richiesta di Picard di entrare fu soddisfatta, ma dal momento che
Ruthe non era nella stanza principale dell'alloggio fu costretto a cercarla, e
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nell'attraversare la stanza notò come fosse priva di effetti personali: sapeva
che Deelor e Ruthe avevano perso tutte le loro cose nella distruzione della
U.S.S. Ferrel, ma era evidente che non avevano fatto uso dei sintetizzatori
della nave per rimpiazzarle. Deelor almeno si era procurato un abito
nuovo, ma la traduttrice era rimasta avvolta nel grigio mantello ormai liso.
Picard trovò Ruthe nella stanza da letto.
– La Dottoressa Crusher vorrebbe porle qualche domanda riguardo alle
condizioni di Jason.
– Non ha più niente a che fare con me, ormai. Ve l'avevo detto di non
portarlo a bordo – rispose lei, sedendosi sul letto singolo della stanza e
raccogliendo le ginocchia sotto il mento.
Anche se la sua posa non era affatto seducente, Picard avrebbe
comunque preferito condurre la conversazione nell'area di soggiorno
dell'alloggio perché l'informalità dell'ambiente implicava un certo grado di
intimità che lui trovava poco confortevole.
– E la morte di Jason proverebbe che aveva ragione. Il suo orgoglio vale
la vita di un uomo?
– Il mio lavoro è tradurre, niente di più. I prigionieri di Hamlin non mi
interessano.
– Non può semplicemente negare le sue responsabilità perché sono
inopportune o spiacevoli – cominciò Picard, ma si accorse subito che non
riusciva a far breccia in lei con quella tattica. Ruthe stava tormentando le
coperte del letto disfatto e il suo iniziale atteggiamento sulla difensiva si
era trasformato in nervosismo. – Lei ha detto che i Choraii davano valore
alla vita umana, eppure hanno fatto del male a Jason.
L'accusa gli procurò l'attenzione immediata di Ruthe.
– Perché dice questo?
– La Dottoressa Crusher ha trovato nell'atmosfera Choraii tracce di una
sostanza chimica sconosciuta, una droga, che lo ha contaminato e che ha
forse danneggiato anche il bambino. In queste circostanze non rimpiango
affatto la decisione di portarli entrambi a bordo e raccomanderò
fermamente alla Flotta Stellare di fare tutti gli sforzi possibili per
recuperare ogni altro prigioniero adulto rintracciabile.
Ruthe snodò il proprio corpo dalla posizione raccolta fino ad alzarsi in
piedi sul letto e fissò il capitano con occhi così roventi che per un attimo
Picard pensò che lo volesse attaccare; invece la donna si limitò a balzare
sul pavimento.
– Mi faccia vedere questa droga – disse, avvolgendosi il mantello
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attorno al corpo, e seguì Picard fuori dall'alloggio.
Quando arrivarono in infermeria, Beverly Crusher assunse subito i modi
neutri di un medico professionista, ma non prima che Picard riuscisse a
cogliere una traccia di sollievo nei suoi occhi; il capitano notò anche la
sorpresa di Deelor... e una sfumatura di irritazione di fronte al successo del
capitano.
Ruthe ripeté la richiesta di vedere la droga e Crusher le porse una
provetta in cui erano contenuti pochi millilitri di un liquido color ambra.
– Ho notato quest'odore quando il Tenente Yar è tornato dalla nave
Choraii – spiegò.
Ruthe stappò la provetta e ne annusò il contenuto.
– Cannella... – mormorò, rimanendo immobile con la provetta tra le
mani finché Deelor non la chiamò per nome.
– Ruthe?
– Me n'ero dimenticata – sospirò lei, con lo sguardo ancora fisso su
qualcosa che nessun altro poteva vedere; poi il tocco della mano di Deelor
sul suo braccio la riportò al presente nella stanza in cui si trovava e lei
rimise nuovamente il tappo alla provetta, sigillando l'aroma all'interno.
– Ha già incontrato questa droga in precedenza? – domandò Picard.
– Anni fa – ammise Ruthe, – quando ero ancora una bambina.
– Ma com'è possibile?
– Io sono nata su una nave Choraii – spiegò la traduttrice, facendo
scivolare la provetta nel proprio mantello.
XIV.
– Di solito non lo dice a nessuno, e ovviamente io non potevo rivelare il
suo segreto – spiegò Deelor, entrando insieme a Picard nella saletta tattica.
Con un'occhiata significativa in direzione dell'uscita del suo ufficio
medico, la Dottoressa Crusher aveva infatti reso più che chiara la sua
intenzione di parlare con Ruthe senza le distrazioni causate da un gruppo
di spettatori.
– Sì, posso capirlo – annuì Picard. – Le sorprese di questa missione
sembra che non finiscano mai – sospirò poi, sedendosi al proprio posto
dietro la scrivania e girando la poltrona verso Deelor, che stava ammirando
l'acquario. – Quando è stata salvata?
– Nel corso del primo scambio, quindici anni fa – rispose Deelor,
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decidendo che era inutile tenere segreti i dettagli, adesso che si era
scoperta l'origine di Ruthe. – Era uno dei cinque prigionieri acquistati dai
Ferengi – aggiunse, sedendosi a sua volta e distogliendo lo sguardo dai
pesci nell'acquario per posarlo sulle stelle visibili dall'oblò alle spalle di
Picard.
– E tutti e tre gli adulti morirono – ricordò questi. – Non mi sorprende
che Ruthe si sia rifiutata di aiutarci a portare Jason sull'Enterprise. Che ne
è stato dell'altro bambino?
– È vivo e sta bene. Era una bambina più giovane di Ruthe e si è adattata
in fretta alla vita tra gli uomini – spiegò l'ambasciatore; evitò però di
sottolineare che secondo i documenti che la riguardavano per Ruthe la
transizione era stata più difficile, in quanto questo non era affare di Picard.
– Non posso fare a meno di ammirare il suo coraggio: questa missione
dev'essere un doloroso ricordo della sua prigionia – dichiarò il capitano.
– Si è offerta volontaria per il lavoro. Con il suo aiuto la Federazione ha
recuperato cinque discendenti di Hamlin negli ultimi anni – ribatté Deelor,
pur sospettando che diversi prigionieri fossero sfuggiti al recupero prima
che lui venisse a conoscenza della riluttanza di Ruthe a trattare per gli
adulti.
– Suppongo che la possibilità di salvare altri sopravvissuti di Hamlin le
renda più facile sopportare il disagio – commentò Picard.
– Sì, dev'essere così – annuì Deelor. Almeno questo era quello che aveva
pensato all'inizio. In realtà, una volta che gli scambi erano stati completati
Ruthe non aveva mai chiesto come stavano i bambini. Quel pensiero gli
fece ricordare una cosa che voleva chiedere: – Com'è riuscito a persuaderla
a venire in infermeria?
– Psicologia inversa – mormorò Picard, spiegando la strategia che aveva
usato e concludendo: – Così, la sola possibilità che le è rimasta di
confutare la mia decisione di salvare altri adulti è stata quella di venire in
infermeria per provarmi che i Choraii non li maltrattano affatto.
– Già, è ovvio. Molto astuto, capitano – si complimentò Deelor. Dal
momento che durante tutta la sua carriera aveva manipolato la gente in
quel modo, spesso avendo come posta in gioco la sua stessa vita e il
successo della sua missione, sapeva che un trucco così semplice avrebbe
dovuto essergli palese... quindi perché non ci aveva pensato lui?
Una volta posta la domanda, sfiorò quasi subito la risposta ma si ritrasse
immediatamente da essa: lui viaggiava sempre da solo, e non aveva
bisogno di complicazioni.
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La Dottoressa Crusher non aveva mai parlato a Ruthe da sola e
osservandola adesso, senza l'interferenza della forte personalità di Andrew
Deelor, notò che le maniere riservate della donna si erano fatte ancora più
accentuate: la sua mancanza di espressione sarebbe passata inosservata in
un Vulcaniano, ma in un Umano tale comportamento generava uno strano
senso di turbamento. Per la prima volta, la dottoressa vide Ruthe non più
soltanto come una semplice passeggera ma anche come una paziente.
– La droga è innocua – affermò Ruthe, restituendo la provetta con
l'aroma di cannella. – I Choraii stavano probabilmente cercando di aiutare
Jason durante il trasferimento: senza l'influenza della droga lui sarebbe
stato più diffidente all'approccio del Tenente Yar.
La dottoressa non si lasciò convincere per niente da quell'interpretazione
dello scopo della droga.
– Probabilmente è stato così, ma la droga lo ha reso più agitato una volta
teletrasportato a bordo.
– Reagiscono tutti violentemente all'inizio, anche i più giovani – ribadì
Ruthe, inclinando la testa per ascoltare i deboli pianti di un bambino, che
si potevano sentire attraverso le pareti dell'infermeria. – Quello che piange
è l'altro?
– Sì – sospirò Crusher. Il tocco magico di Iovino non poteva sostituire il
cibo, e il bambino non aveva ancora mangiato.
– La cannella lo calmerebbe.
– Ha bisogno di cibo, non di droga! – esclamò la dottoressa, lottando per
non mostrarle la rabbia che provava perché non poteva rischiare di
inimicarsi la traduttrice proprio adesso; invece, sfruttò quell'argomento per
dirigere la discussione sul passato di Ruthe. – Che cosa ha mangiato lei
appena lasciata la nave Choraii?
– Non mi ricordo – rispose la donna, scrollando le spalle con
indifferenza.
Crusher si era aspettata quella continua resistenza, perché anche senza
avere il suo profilo psicologico nelle registrazioni mediche avrebbe
comunque dedotto che la freddezza emotiva di Ruthe serviva come uno
scudo che la proteggeva da un passato doloroso. Eppure le speranze di
salvare Jason erano riposte in Ruthe e in quei ricordi che lei avrebbe
volentieri dimenticato.
– Ho un piano per curare Jason, ma ho bisogno del suo aiuto.
– Ho già risposto alle domande sulla cannella e questo è tutto quello che
144
avevo promesso di fare – ribatté Ruthe, girandole le spalle.
– Voglio ricreare l'interno di una nave Choraii su un ponte ologrammi –
continuò con calma Crusher. – Se potesse tornare in un ambiente familiare,
forse Jason si sentirebbe indotto ad abbandonare l'isolamento emotivo in
cui si è rifugiato – spiegò, osservando Ruthe per cercare di dedurne la
reazione dal suo atteggiamento, ma la donna era già difficile da
interpretare guardandola in viso e di spalle era addirittura indecifrabile.
Cercando di non esercitare ulteriore pressione, Crusher continuò la
spiegazione: – Le registrazioni dei sensori sono sufficienti perché Data
determini le caratteristiche generali della struttura di una bolla e la
composizione dell'atmosfera. Il Tenente Yar può fornirci qualche idea del
suo interno ma non nei dettagli, e lei è l'unica persona che può confermarci
l'autenticità dell'effetto finale.
– Quel bambino fa molto rumore. Non le viene mai a noia tutto quel
piangere? – chiese Ruthe.
– Sì, certo – confermò Crusher, ricordandosi di non forzarla, di lasciare
che fosse lei a decidere di aiutarli.
– Provate con l'uva – suggerì Ruthe, tornando a girarsi verso di lei, – o
con qualsiasi cosa tonda con un centro morbido. Il cibo Choraii è sempre
racchiuso in bolle – concluse, e lasciò l'infermeria senza aggiungere altro a
quell'ultimo consiglio.
La Dottoressa Crusher attivò il comunicatore.
– Data, sono pronta per cominciare il progetto sul ponte ologrammi –
comunicò. Ruthe non aveva detto di no, e questo era un fatto abbastanza
promettente da permettere di dare avvio al lavoro.
Con le sue dimensioni squadrate delimitate da pareti spoglie e da un
pavimento nudo, ad una prima occhiata la stanza appariva semplice, ma
quell'apparenza era ingannevole perché il ponte ologrammi era uno degli
apparati tecnologici più sofisticati presenti a bordo dell'Enterprise.
Questo particolare ponte ologrammi era più piccolo di quello che
conteneva la fattoria dei Coloni di Oregon e l'illusione che creava era
limitata al centro della stanza, dove si trovava una singola bolla trasparente
e tremolante la cui superficie curva si appiattiva nel punto di contatto con
il ponte; la scivolosa superficie esterna della bolla brillava sotto la luce
ambientale diffusa usata per illuminare i primi stadi del progetto.
All'interno della sfera, Tasha Yar nuotava nell'acqua con bracciate pigre,
mentre i capelli biondi le fluttuavano intorno alla testa come un'aureola; ad
145
un cenno del tenente la simulazione scomparve e lei cadde sul pavimento
con un tonfo.
– Data! – gridò, rialzandosi dalla posizione accucciata che aveva usato
per assorbire la caduta e allontanandosi una ciocca di capelli dagli occhi.
L'androide alzò lo sguardo dal pannello di controllo posto all'ingresso
della stanza e aggrottò la fronte in un'espressione sorpresa: aveva percepito
l'irritazione della voce di Yar, ma gli fu necessario un momento per capire
la ragione che aveva generato quell'emozione e per intuire che era
necessaria una scusa.
– Mi dispiace. Il campo gravitazionale è legato agli altri parametri del
programma. Prima della fine sarà necessario aggiungere un'apertura
d'ingresso, ma finora mi sono concentrato sull'interno del vascello Choraii.
Comunque, posso sempre usare un po' di tempo per...
– Non preoccuparti! – tagliò corto Yar, accennando distrattamente a
togliersi l'acqua dall'uniforme, e fermandosi quando si rese conto che la
stoffa era asciutta: non appena Data aveva sospeso il programma, infatti,
tutto il liquido era stato eliminato insieme al guscio esterno. – In ogni caso
sento che il programma è migliorato.
– Puoi essere più precisa? – chiese lui.
– La temperatura mi sembra giusta, e anche la densità del liquido.
Credo... – Tasha si concentrò per ricatturare le sensazioni fisiche della sua
breve visita alla nave Choraii, scoprendo che quei ricordi che aveva
ritenuto essere indelebili sfumavano invece un po' di più ad ogni
esposizione della proiezione olografica. – Però c'è ancora qualcosa che non
va – continuò, sollevando una mano per bloccare Data che aveva
accennato a parlare. – Lo so, devo essere più precisa – disse da sola, e
quando l'androide annuì provò a spiegarsi: – La spinta di galleggiabilità è
ancora sbagliata.
– In che senso? – domandò Data. La Dottoressa Crusher gli aveva
fornito campioni dell'atmosfera interna, pochi millilitri prelevati dai vestiti
di Yar, ma le proprietà della sostanza erano difficili da determinare da una
quantità così piccola; aumentando la massa del liquido cambiavano le sue
qualità e quella variazione così affascinante dal punto di vista teorico era
invece frustrante quando si tentava di duplicarne gli effetti.
– Non te lo so dire. Ho la sensazione che sia sbagliata! – dichiarò Yar e
si affrettò ad aggiungere altri dettagli prima che lui potesse indagare più a
fondo: – E le pareti sono troppo rigide.
– Ah! Questo particolare logaritmo è molto interessante – esclamò Data,
146
modificando i parametri del programma per la costruzione della bolla. – I
Choraii dimostrano di avere una incredibile capacità di controllare la
tensione superficiale.
– Possiamo provare aggiungendo il colore? – domandò Yar. – Forse
questo la farebbe sembrare più vera.
Data annuì e inserì un'altra serie di numeri nella sequenza di controllo.
La struttura generale della nave Choraii era ormai stabilita, ma quei
dettagli subliminali giocavano un ruolo ugualmente importante per
stabilire l'appropriata credibilità. Sfortunatamente, le imprecisioni umane
allungavano ulteriormente il già lungo processo di programmazione. Se
fosse stato Data a teletrasportarsi a bordo della Si Bemolle al posto del
tenente, il progetto avrebbe già potuto essere completato. L'androide lanciò
il programma ancora una volta.
– Ehi! – gridò Yar, quando venne lanciata in aria senza preavviso dal
campo gravitazionale a bassa intensità e una bolla traslucida di color
arancione si formò intorno a lei.
Al suo ingresso sul ponte ologrammi dei Coloni, Wesley Crusher trovò i
prati rischiarati dal sole ancora umidi per la pioggia del mattino e il cielo
solcato da un tenue arcobaleno; quel panorama idilliaco era completato
dalle greggi bianche che pascolavano sul ricco tappeto di umida erba
grassa e da un puledro dalle lunghe zampe che galoppava intorno a un
gruppo di vitelli che brucavano tranquilli. Camminando fra i cespugli di
fiori selvatici, Wesley si domandò quando sarebbero cresciuti i funghi e se
qualcuno li avrebbe notati.
– Il tempo è proprio bello – commentò il Vecchio Steven, allorché
Wesley passò dal frutteto; l'uomo era seduto su un tronco caduto e stava
sbucciando accuratamente una mela con il suo coltello tascabile.
– Veramente bello, sì – rispose il ragazzo, senza riuscire a capire se il
Vecchio Steven avesse inteso fargli un complimento o se la sua fosse stata
una semplice osservazione; in ogni caso sarebbe stato poco educato
sottolineare il proprio merito, perciò proseguì oltre senza aggiungere altro.
Wesley visitava spesso la fattoria e, nonostante la sua uniforme della
Flotta, era riuscito ad amalgamarsi bene con la comunità dei Coloni. Aveva
imparato a imitare l'andatura decisa che Dnnys aveva quando si recava al
lavoro e a tenere per sé le proprie opinioni, proprio come un buon Colono,
e alla fine anche il più ostile degli Oregoniani si era abituato alla sua
presenza; la maggior parte si accontentava di ignorarlo mentre altri, come
147
il Vecchio Steven e Mry, lo salutavano con aperta amicizia.
– Dnnys è nel fienile – gli comunicò Mry, quando Wesley entrò nel
granaio. La ragazza era responsabile della nutrizione dei conigli ed era
impegnata a preparare la bottiglia con il latte per il loro prossimo pasto.
Raccolto uno dei giovani animali, Wesley accarezzò le lunghe orecchie e
si meravigliò della morbidezza della pelliccia.
– Le pecore servono per la lana e le mucche per il latte, ma cosa ci fate
con i conigli? – chiese.
– Li mangiamo! – rispose Mry.
– Li mangiate? – ripeté Wesley, guardando il piccolo fagottino color
marrone.
– È ovvio. Perché sei così sorpreso? – domandò lei, tendendo la mano
per riprendere l'animale.
– Non lo so. È solo che pensavo che foste vegetariani... – mormorò
Wesley, restituendo il coniglio con un po' di rimorso.
– Sono graziosi a quest'età – annuì la Colona, mentre il coniglio
cominciava a succhiare il latte dalla bottiglia, – ma sono anche gustosi. E
la pelliccia è calda.
– Attenzione! – gridò una voce dall'alto, ma l'avvertimento non arrivò
abbastanza in tempo perché Wesley potesse evitare la paglia lasciata
cadere dal forcone. Dnnys si sporse sull'orlo del fienile e sorrise nel vedere
l'amico che emergeva tossendo da sotto la paglia. – Vieni quassù, che è più
sicuro.
Wesley si arrampicò velocemente sulla scala. Da vicino riuscì a scorgere
la tensione che si nascondeva dietro il sorriso del giovane Colono.
– Come me la sono cavata? – sussurrò Dnnys, piantando il forcone in un
mucchio di erba secca e smuovendola per coprire le loro voci.
– Ho controllato le risposte alle domande stamattina. Sei passato, ma di
pochissimo.
Dnnys si accigliò per un momento, poi emise un sospiro rassegnato.
– Se solo avessi più tempo per studiare, credo che potrei fare di meglio.
– Io so che ci riusciresti. Hai afferrato velocemente i concetti matematici
e hai fatto parecchia esperienza durante il viaggio. Tutto quello che ti serve
è un po' di pratica! – esclamò Wesley, togliendo il forcone dalle mani di
Dnnys e gettando un po' di paglia oltre l'orlo. – Muoviti ora... non posso
fare il tuo lavoro per più di un'ora!
Dnnys si precipitò sul retro del fienile e tirò fuori un libro da sotto una
tavola del pavimento. Le pagine si aprirono proprio in mezzo al libro e il
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ragazzo cominciò a leggere, socchiudendo gli occhi per distinguere le
parole nella debole luce che entrava nel granaio.
Iovino staccò l'ultimo acino verde dal raspo ormai vuoto, denudato come
gli altri numerosi rametti sparsi sul tavolo.
– Uva? – domandò, scandendo chiaramente la parola.
Mosè annuì con vigore e si sporse per afferrare la frutta. Strappando il
cibo dalle mani della donna si premette il chicco contro le labbra serrate e
succhiò: l'acino entrò in bocca con uno schiocco e il bambino tese le mani
per averne ancora.
– Adesso basta con l'uva – annunciò Iovino. Mosè non aveva mangiato
altro quel giorno, ma certo era un bell'inizio per qualcuno che non toccava
cibo solido da tempo e lui aveva persino cominciato a riconoscere il suono
della parola. Restava adesso un'altra grossa difficoltà da superare: il
bambino si rifiutava di bere liquidi. Forse sulla nave dov'era nato il cibo
forniva acqua a sufficienza, ma sull'Enterprise la disidratazione faceva
sentire i suoi effetti.
Iovino aveva un piano per cambiare la situazione.
Esagerando al massimo tutti i suoi movimenti, per mostrare bene le
azioni che faceva e attirare l'attenzione del bambino, si protese a prendere
un bicchiere d'acqua sul tavolo. Dall'orlo spuntava una cannuccia dai
colori vivaci e Iovino la avvicinò alla bocca succhiando rumorosamente
finché le guance non furono gonfie di liquido.
Accostando il volto a quello del bambino, Iovino schizzò l'acqua proprio
sulla faccia di Mosè che si vide colare all'improvviso il liquido dalla fronte
e dalle guance, giù fino al mento. Il piccolo rise deliziato dal trucchetto.
– Ti è piaciuto? Vuoi che lo faccia di nuovo? – gli domandò. Mosè non
reagì alle parole, ma quando lei alzò di nuovo il bicchiere trillò entusiasta.
Iovino ripeté la sequenza diverse volte e poi porse la cannuccia al
bambino. Non ebbe bisogno di incitarlo perché lui cominciasse ad usarla,
il che aggiungeva una nota interessante alla sua cartella. Mosè si riempì le
guance con l'acqua proprio come aveva fatto lei e con una tecnica ancora
migliore della sua le spruzzò sul naso un getto di liquido.
– Molto bene! – rise la dottoressa. – Adesso tocca di nuovo a me –
esclamò quindi, continuando il gioco finché entrambi non furono
completamente inzuppati d'acqua. A quel punto riempì nuovamente il
bicchiere e offrì a Mosè la cannuccia, ma questa volta gli tappò con le
mani la bocca prima che potesse schizzarle l'acqua, usando i pollici per
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tenere sigillate le labbra mentre gli indici premevano contro le guance per
forzare l'acqua ad andare giù in gola.
Mosè non rise, ma prima che potesse cominciare a piangere Iovino gli
offrì la possibilità di giocare anche a lei lo stesso scherzo, ingoiando il
liquido non appena le minuscole dita del bambino le premettero
goffamente sul viso. – Non è stato divertente?
Mosè evidentemente fu d'accordo, perché succhiò ancora dalla
cannuccia e si riempì le guance come un criceto, senza però schizzare fuori
l'acqua e aspettando che la giovane dottoressa facesse la sua parte in quel
nuovo gioco.
La Dottoressa Crusher lesse al capitano alcune parti del rapporto di
Iovino, ma per rispetto verso la dignità dell'internista non gli mostrò la
registrazione visiva: le immagini del bambino che sputacchiava deliziato
l'acqua sul viso di Lisa le avevano fornito una pausa comica davvero
necessaria, ma era meglio che la scena rimanesse privata.
– Una ragazza piena di risorse – annuì Picard. Anche se la descrizione
della battaglia con l'acqua gli aveva strappato un sorriso, era però turbato
dall'aspetto del viso di Beverly Crusher... la fatica accentuava i suoi zigomi
alti e aveva privato di ogni traccia di colore la sua pelle chiara.
– È una delle dottoresse migliori – confermò Crusher, ignara di essere
sottoposta all'attento esame del capitano. – Il bambino sta facendo rapidi
progressi sotto la sua cura e potrebbe essere in grado di camminare per
quando raggiungeremo la Base Stellare Dieci. Naturalmente aiuta molto il
fatto che sia ancora piccolo: i bambini hanno un'abilità straordinaria di
adattarsi ai nuovi ambienti.
Quindici anni prima la traduttrice era passata attraverso la stessa
riabilitazione e Picard tentò di calcolare la differenza di tempo, senza però
riuscire a stabilire la sua età attuale.
– Quanti anni aveva Ruthe quando è stata salvata?
– Dai risultati dei suoi primi esami medici risulta che avesse circa dieci
anni, ma la stima potrebbe essere sbagliata di diversi anni. Non abbiamo
praticamente nessuna informazione sugli effetti dell'ambiente Choraii sullo
sviluppo nei primi anni d'età.
– Dieci anni... – rifletté Picard. – Deve essere stato incredibile imparare
a respirare, camminare, parlare e bere acqua a quell'età... per la prima
volta.
– Ed è terribile doverlo fare a cinquant'anni! – sospirò Crusher,
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pensando che le sue aspettative per Jason erano assai modeste, in quanto si
augurava soltanto di tenerlo in vita. Il progetto sul ponte ologrammi era
sembrato promettente all'inizio, ma i ricordi di Yar erano limitati e Data
sembrava sempre più cauto in merito alla possibilità di creare una
simulazione convincente.
– Beverly, stai zoppicando! – esclamò Picard, osservando la dottoressa
attraversare la stanza per dirigersi alla sua scrivania.
– Non l'avevo notato – mormorò lei, che solo adesso si rendeva conto
della dolorosa pulsazione alla gamba destra. Il fatto non la preoccupò,
visto che aveva sempre sentito dolori intermittenti da quando si era ferita
alla gamba, due settimane prima.
– Credevo che la ferita fosse guarita – insistette Picard. La lacerazione
era stata profonda e la perdita di sangue notevole, quasi fatale. In effetti
Picard non aveva mai ammesso con se stesso il fatto che Beverly Crusher
sarebbe potuta morire sul pianeta Minos.
– È già guarita, ma ultimamente sono stata troppo in piedi.
– Non sei stata tu a mettermi in guardia dal sentirmi invincibile?
– In questo momento non mi sento invincibile, ma distrutta! – rise
debolmente Crusher.
– Allora va' un po' a dormire, come facciamo tutti – le consigliò,
trattenendosi dal dirle apertamente quanto apparisse affaticata.
La Dottoressa Crusher era però troppo preoccupata per seguire il
consiglio. Si voltò verso di lui e per un attimo lasciò cadere tutta la sua
compostezza professionale, come se si fosse tolta un'armatura troppo
pesante da sopportare.
– Jean-Luc, se non riusciamo a creare una nave Choraii olografica, non
so proprio cos'altro posso fare per Jason.
La sua voce tradì una paura che Picard non aveva mai percepito prima,
nemmeno quando la sua stessa vita era stata in pericolo nelle caverne di
Minos, e adesso come allora non seppe cosa risponderle.
La simulazione si dissolse e liberò Yar. La giovane tenente aveva ormai
imparato ad anticipare la caduta e atterrò in piedi senza perdere
l'equilibrio. Le gambe le dolevano per i ripetuti impatti e il lucido
pavimento del ponte era segnato dai suoi stivali, ma era troppo orgogliosa
per chiedere a Data di aggiungere l'ingresso alla bolla prima del previsto,
soprattutto perché era proprio la sua memoria imprecisa ad ostacolare i
loro progressi.
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L'androide la guardò in attesa di un commento.
– Non lo so più! – gridò Yar, allargando le braccia in un gesto disperato.
– Più caldo, più freddo, più pressione, meno pressione. Data, abbiamo
provato in troppi modi diversi e adesso sono confusa. – All'inizio la sua
mente le aveva presentato una fresca e chiara immagine della nave
Choraii, che adesso però non era più affidabile. Appena provava a
raggiungerla, la visione sfumava come un miraggio nel deserto.
– Forse ora dovremmo lavorare sull'indice della viscosità – suggerì Data.
– Hai detto che era quasi perfetto.
– Quando l'ho detto? – brontolò Yar. – Data, non ha più senso andare
avanti! – esclamò poi, girando le spalle all'androide per nascondere il
proprio viso bruciante.
Data possedeva infinita pazienza, e avrebbe continuato fin quando fosse
stato necessario, ma riusciva comunque a percepire la futilità dei loro
sforzi.
– La Dottoressa Crusher non sarà soddisfatta – mormorò. Le emozioni
umane lo avevano spesso lasciato perplesso, ma nel caso della Dottoressa
Crusher era riuscito a registrare il fatto che lei faceva molto affidamento su
quel progetto e che lo riteneva urgente. Richiamò ancora una volta
l'immagine olografica e la studiò criticamente: nonostante l'interno non
fosse ancora perfetto, l'esterno della bolla Choraii corrispondeva alle
registrazioni visive. – Forse sarà sufficiente così per la cura.
– Forse... – sospirò Yar. Cercò ancora una volta di richiamare alla
memoria qualcosa che non fosse stato cancellato dalle prove
dell'esperimento, ma riuscì solo a percepire l'ulteriore allontanamento di
quella realtà: la sua breve esperienza si era dimostrata troppo fragile per
resistere al duro uso che ne aveva fatto.
Data si rassegnò a ritenere terminato il progetto e si preparò a salvare il
modello più recente quando lo sguardo sorpreso apparso sul viso di Yar lo
avvertì della presenza di una terza persona.
Nessuno dei due aveva sentito l'avvicinarsi di Ruthe: la traduttrice era
apparsa all'ingresso del ponte ologrammi come se si fosse materializzata
dall'aria stessa e rimaneva ora silenziosa e immobile, ipnotizzata dalla
sfera traslucida color arancione. Lentamente, come trascinata contro la sua
volontà, fece un passo verso la sfera, poi un altro, fino ad attraversare la
stanza e ad essere abbastanza vicina all'immagine da poterla toccare.
Protese quindi una mano per sfiorare la superficie della bolla e quando le
sue dita ne incontrarono la resistenza si ritrasse come se si fosse bruciata.
152
– Posso entrarci? – chiese a Yar.
XV.
Ruthe stava galleggiando libera nel caldo oceano racchiuso nel grappolo
Choraii. La sfera più interna era tanto larga che il suo diametro misurava
diverse volte la lunghezza del suo corpo, ed era limitata su tutti i lati dagli
ovali appiattiti che segnavano i punti di contatto con le sfere che la
circondavano. Con bracciate pigre Ruthe nuotò fino alla superficie
sfaccettata, puntò i piedi e si diede una spinta, distorcendo il materiale
flessibile. Il rimbalzo della parete la lanciò attraverso la sfera fino alla
parete opposta dove congiunse le dita per farsi strada attraverso la
membrana d'ingresso a quella successiva. Passò dall'altra parte e sentì lo
schiocco della membrana che si chiudeva alle sue spalle. Spingendo con la
pianta dei piedi contro la superficie più vicina, si diede un'altra spinta e in
quel modo proseguì lungo la successione di sfere.
La sua corsa attraverso il grappolo di bolle era cominciata per la pura
gioia di farlo, al tempo di una musica vivace che si propagava vibrando nel
liquido circostante e scivolava sulla sua pelle. Mentre rotolava e
rimbalzava con facilità e calma un suono più basso e rimbombante
cominciò però a soffocare la danza, la paura si impadronì di lei e il gioco
divenne una caccia in cui il suo ruolo era quello della preda.
A mano a mano che nuotava in avanti le sfere del grappolo divennero
più piccole e lei vi si gettò dentro sempre più velocemente, ma la caccia
continuò senza sosta... una spinta e un passaggio, una spinta e un
passaggio finché vide la luce rifratta delle stelle che brillavano al di là
dello strato più esterno della nave Choraii. Il suono schioccante dei
passaggi dietro di lei divenne sempre più forte mentre i suoi inseguitori si
avvicinavano, poi una corrente la investì, trasportando un odore
sconosciuto, un odore che sapeva di pericolo.
Il terrore prese il posto della ragione e Ruthe nuotò attraverso l'ultima
parete, urlando quando fu colpita dal gelido alito del vuoto dello spazio e
tutto il liquido le venne risucchiato fuori dai polmoni...
Deelor attraversò a precipizio l'alloggio, guidato dal suono delle urla di
Ruthe fino all'angolo dove lei si era addormentata. Stringendola a sé per
cercare di calmarla la chiamò diverse volte finché lei non smise di lottare
contro il suo abbraccio e le urla lasciarono il posto a un pianto sommesso,
153
poi continuò ad accarezzarle i capelli e a mormorare parole rassicuranti,
sentendo a poco a poco che la tensione svaniva dai suoi muscoli. Nelle
prime ore del mattino, quando lei scivolò in un sonno agitato, Deelor si
decise infine a tornare al proprio letto.
– Non guardate giù – avvertì Yar, accompagnando gli altri al ponte
ologrammi.
Automaticamente Beverly Crusher controllò i propri piedi e si ritrovò a
camminare su un pozzo senza fondo, ad anni luce dalle stelle che
brillavano sotto di lei; lottando contro un senso di vertigine, la dottoressa
alzò gli occhi e si concentrò sulla sfera arancione di fronte a lei. Data
aveva suggerito di piazzare la bolla Choraii in un ambiente cosmico e
Crusher aveva acconsentito pensando che questo avrebbe aggiunto un po'
di realismo alla rappresentazione, ma adesso trovava il risultato
stupefacente e disorientante.
– Sei stata avvertita – commentò Deanna, con un sorriso comprensivo.
– Ricordate di non cercare di non respirare – catechizzò Yar, senza
preoccuparsi di nascondere l'evidente soddisfazione che le dava
l'opportunità di ripetere alla dottoressa il consiglio che questa le aveva
impartito in precedenza. – Inalate il liquido perché non vi succederà
assolutamente niente.
– Grazie, Tasha – annuì Crusher seccamente.
Cercò di ricordare a se stessa che quella era solo una simulazione
olografica e non una vera nave Choraii, ma il saperlo non le fu di grande
aiuto quando si trattò di oltrepassare l'ingresso di quell'ambiente alieno: il
suo corpo si rifiutò di accettare gli ordini provenienti dalla mente e lottò
per non respirare, ballonzolando con gentilezza nel liquido.
Con bracciate esperte la dottoressa si portò al fianco di Jason, che Yar
aveva teletrasportato direttamente dall'infermeria al centro della
simulazione. L'uomo stava ancora galleggiando in posizione fetale, ma era
leggermente meno appallottolato di prima. Crusher afferrò la sonda medica
che portava assicurata al fianco e cominciò l'ispezione. Un ampio
sondaggio del corpo di lui mostrò che il suo metabolismo aveva
completamente eliminato l'ultima traccia di sedativi e l'attività cerebrale
indicava che Jason era conscio della presenza della dottoressa... il che
costituiva un netto miglioramento delle sue condizioni.
Crusher nuotò quindi verso l'uscita, ma prima di lasciare la bolla si forzò
di inalare una veloce boccata dell'atmosfera, sentendo i polmoni che le si
154
riempivano di liquido, dandole una insolita sensazione di peso e di
pressione. Il rispetto che aveva di Yar aumentò di gran lunga: il capo della
Sicurezza aveva del fegato.
– Sta funzionando – annunciò Crusher uscendo. Raccolti i capelli li
strizzò per liberarli dei rimasugli dell'interno acquoso, facendo scorrere
rivoli di liquido sull'uniforme e sul pavimento invisibile del ponte. – Ne sta
venendo fuori.
– Sì – annuì Troi, ma con minore entusiasmo: le emozioni che aveva
percepito fin da quando Jason si era svegliato non erano affatto
rassicuranti.
Patrisha aveva ancora il libro di testo tra le mani quando Dnnys entrò
nella stanza.
– È mio – affermò lui con voce tesa.
– Mi spiace, Dnnys, non intendevo curiosare – si scusò sua madre,
posando il volume sul comò dell'alloggio, vicino ai vestiti che aveva tolto
dai cassetti. – Stavo mettendo nella valigia le tue cose in previsione
dell'arrivo a New Oregon. Tu sei stato così impegnato ultimamente... –
aggiunse, facendo scorrere le dita sul titolo del libro... – E adesso ho capito
perché.
– Non mi dispiace – dichiarò il ragazzo, abbassando lo sguardo. –
Qualunque sia la punizione non sono affatto dispiaciuto.
– No, e non mi aspetto che tu lo sia. Se Tomas non è ancora riuscito a
inculcarti un minimo di buon senso nella testa, vuol dire che non c'è
nessuna speranza – sospirò Patrisha.
Suo figlio rialzò la testa di scatto e nei suoi occhi balenò un lampo di
rabbia.
– Se tu non credi nelle loro stupide regole, perché dovrei crederci io?
– È così palese? – domandò Patrisha, sentendosi stringere la gola dalla
paura.
– Forse non per gli altri, ma per me sì.
– E questo libro... cosa ci guadagnerai leggendolo?
– Una licenza di meccanico – dichiarò Dnnys, – e un passaggio lontano
da New Oregon sulla prima nave che avrà bisogno di una mano in più.
Jason era visibile dall'esterno della bolla Choraii, ma soltanto come una
forma pallida e spettrale che galleggiava di qua e di là. Aveva gli occhi
chiusi e non reagiva alla presenza delle tre persone che lo sorvegliavano
155
parlando di lui a bassa voce. Sebbene le braccia e le gambe fossero ora
distese, i suoi movimenti erano limitati e apatici.
– Data potrebbe replicare lo schema della bolla in modo da creare un
grappolo? – domandò Beverly Crusher, con un'espressione accigliata che
tradiva la sua preoccupazione. – La struttura potrebbe avvicinarsi ancora di
più all'originale...
– Non lo aiuterebbe – affermò Troi. – La costruzione della sfera non è
fondamentale. Jason sta cercando qualcosa che noi non possiamo dargli –
concluse, focalizzando ancora una volta con trepidazione le proprie
emozioni per sondare ciò che sentiva Jason. Cercò le parole per descrivere
il suo ardente desiderio e il senso di abbandono, ma la voce le morì in gola
e le lacrime le spuntarono sotto le palpebre.
– Sta attendendo di sentire i Choraii – mormorò in tono quieto Ruthe,
che si teneva da parte rispetto alle altre due donne. – Anche se sa che se ne
sono andati.
– Vorrebbe suonare per lui? Forse la sua musica lo può aiutare – suggerì
Crusher.
La traduttrice restò immobile per un momento, prima di replicare.
– Quando ero piccola e ancora nuotavo con mia madre nelle acque della
nostra nave-casa, lei mi raccontava la storia di Hamlin, di come un
bambino sentì la canzone dei Choraii e rise e batté le mani con gioia al
glorioso suono della loro musica, sebbene tutto intorno a lui si stesse
trasformando in polvere e fuoco. E i Choraii salvarono quel bambino, e
tutti gli altri bambini, così che potessero ascoltare le loro melodie per il
resto della vita.
– Orribile! – gridò Troi.
– Lo crede davvero? – domandò Ruthe, in tono sommesso.
– Ruthe... la prego, ci aiuti a salvare Jason – implorò Crusher, lottando
con il nodo che le si era formato in gola.
La donna però scosse il capo.
– Non capite. Il debole soffio del mio flauto non può reggere il
confronto con la musica dei cantori. Inoltre tutto ciò che mi sento di
suonare sono canzoni tristi! – concluse voltandosi e uscendo dal ponte
ologrammi.
– Dannazione a lei! – esclamò con rabbia la dottoressa.
– Beverly – ammonì Deanna, stringendole con gentilezza un braccio, –
questa situazione sta coinvolgendo anche Ruthe. Quando è salita a bordo
per la prima volta, aveva isolato se stessa da tutte le emozioni, mentre
156
adesso la stiamo forzando a rivivere il suo passato attraverso Jason e il
bambino. Posso percepire numerose emozioni che stanno prendendo vita
in lei e dobbiamo stare molto attente a quello che le chiediamo di fare.
– Ecco, per me non ha senso – dichiarò Riker, mentre percorreva con
Data uno dei corridoi che portavano alla plancia. – Come si può avere una
religione e non poterne parlare?
– Alcune culture vietano di discutere di sesso eppure riescono a
riprodursi – precisò Data senza voler essere divertente, ma il primo
ufficiale scoppiò a ridere lo stesso. L'androide scosse il capo: – Chissà
perché non ha mai questa reazione quando racconto le barzellette.
– Perché le tue barzellette non sono divertenti – esclamò Riker,
continuando a ridere.
– Dovrò studiare di più questo argomento – ammise Data.
– Non sono sicuro che tu possa sviluppare un senso dell'umorismo
studiando – controbatté Riker, poi notò la forma familiare di una donna
che camminava davanti a loro e accelerò il passo per raggiungerla. – Deve
essere un talento spontaneo.
– Come dormire? – domandò Data, adattando automaticamente la sua
andatura a quella del primo ufficiale. – Anche quello è un concetto difficile
e per adesso non sono riuscito a comprendere il fascino della mancanza di
coscienza.
Riker però non lo stava più ascoltando.
– Deanna – chiamò, ma dovette ripetere il richiamo altre due volte prima
che lei si girasse. – Cosa c'è che non va? – le domandò in tono penetrante,
non appena la vide in volto.
– Sono solo stanca – ammise il consigliere, sollevando una mano per
asciugare l'umidità sulla guancia. – E ho anche pianto.
– Deanna...
– Sto bene, Will. È solo che ho passato troppe ore con il prigioniero di
Hamlin. È così solo, così disperato.
Per quanto consapevole degli sguardi degli ufficiali di passaggio e della
curiosità palese di Data, Riker non se la sentì comunque di abbandonare
Troi.
– Ti accompagno al tuo alloggio.
– Grazie, Will – annuì Troi, poi si affrettò ad aggiungere: – Però
preferisco stare un po' sola adesso. Queste sono soltanto emozioni di
qualcun altro ma finché non eliminerò la loro influenza... sarò vulnerabile
157
– concluse, accelerando il passo e infilandosi in un turboascensore con due
passeggeri.
– Deanna!
Le porte si chiusero.
– Anche la produzione delle lacrime mi ha fatto venire in mente diverse
domande – esclamò Data. – Forse questa potrebbe essere una buona
occas...
– Non adesso, Data – lo zittì Riker riprendendo a camminare.
– Forse non è una buona occasione – accettò Data, aggiungendo un'altra
domanda alla lista di perplessità sul comportamento umano.
– Presumo che tu ne abbia abbastanza – esclamò la Dottoressa Iovino,
allontanando il bicchiere da Mosè e asciugandosi l'acqua dall'uniforme.
Non era ancora riuscita a convincerlo di quanto fosse divertente smettere
di giocare con l'acqua durante i pasti.
– No! – urlò il bambino con enfasi.
– Ero certa che l'avresti detto – sospirò lei. Continuava a parlargli e
sembrava che la comprensione del piccolo migliorasse rapidamente, come
se avesse già posseduto la conoscenza del linguaggio ma fosse stato lento a
cominciare a parlare. In quel momento il suo vocabolario era composto da
una sola parola. – Nel caso ti interessi, i tuoi progressi comportamentali
sono come da manuale.
– No!
– Proprio quello che dico io! Ecco perché il tuo sviluppo è arrivato allo
«stadio del sì e del no». Giusto? – domandò e rispose alla domanda
unendosi all'inevitabile risposta del bambino: – No!
Mosè ridacchiò deliziato dal coro delle loro due voci.
Un'ombra si stagliò sul pavimento; quando alzò lo sguardo per vedere
chi era entrato nella stanza Iovino riconobbe la donna come una dei
superstiti della U.S.S. Ferrel e sospettò che Ruthe fosse in qualche modo
collegata all'inesplicabile apparizione del bambino in infermeria...
sembrava che anche lei fosse una bambina timida. Ignorando la presenza
di Ruthe, continuò a parlare con Mosè.
– Guarda che cos'ho – disse, mostrando un pezzo di cioccolato. Mosè
aveva cominciato a mangiare cibo solido e questo era uno dei suoi
preferiti. – Ne vuoi un po'?
– No! – dichiarò lui allegramente.
La dottoressa nascose il cioccolato dietro la schiena e aspettò la sua
158
reazione. Quando il bambino cominciò a lamentarsi lei parlò scandendo le
parole.
– Ma hai detto che non lo vuoi.
Nonostante si fosse imbronciato, Mosè stava ascoltando ancora
attentamente quello che gli stava dicendo.
– Ne vuoi un po'? – continuò Iovino, ripetendo l'invito. – Sì?
Il labbro inferiore del piccolo smise di tremare.
– Ssssì... – proferì con un sibilo esagerato, poi afferrò la cioccolata dalle
mani di lei e sorrise di nuovo.
– Sembra felice – mormorò Ruthe, con un accenno di sorpresa nella
voce.
– È ben disposto. Mosè si adatterà bene dovunque andrà – dichiarò la
dottoressa, accigliandosi poi per il commento che aveva appena fatto: era
stata così preoccupata per la salute di Mosè che fino a quel momento non
aveva in realtà pensato al suo futuro. Improvvisamente sentì la curiosità di
sapere che cosa sarebbe successo a quello strano bambino.
– Mi chiedo se siano tutti così – commentò Ruthe.
– Tutti chi? – domandò Iovino, sorpresa a sua volta.
– Gli altri bambini. Ho cercato di non pensarci, ma forse anche loro sono
felici.
La donna se ne andò improvvisamente com'era venuta, lasciando Iovino
da sola a riflettere su quella stuzzicante informazione. Pensierosamente la
dottoressa osservò Mosè masticare gli ultimi pezzi del dolce: il piccolo
mangiava sempre a piccoli bocconi e il suo viso rimaneva notevolmente
pulito per un bambino così piccolo, ma in fondo a lui non piaceva affatto
essere sporco... bagnato sì, però. – Pensa, Mosè, altri bambini come te!
– Ssssì! – esclamò lui, con grande convinzione.
Jason scivolò via dalla vita in fretta e senza far rumore, galleggiando in
pace per un intero minuto prima che una squadra medica raggiungesse il
ponte ologrammi e distruggesse l'illusione della sfera Choraii. Un gruppo
di persone, con Beverly Crusher al centro, si raccolse attorno all'uomo
disteso sulla superficie del compartimento disadorno, e le nude pareti
echeggiarono per le voci che si alzarono insieme all'aspro rumore
meccanico dell'equipaggiamento di rianimazione d'emergenza attivato
diverse volte.
Ruthe osservò i dottori che lottavano per riportare in vita il corpo pallido
e immobile, ma sapeva che i loro sforzi erano vani: Jason era riuscito a
159
fuggire.
La Dottoressa Crusher era accasciata sulla scrivania, con la testa
nascosta tra le braccia, ma Picard notò che la sua schiena era troppo tesa
perché lei stesse dormendo e si addentrò di un altro passo nell'ufficio,
chiamandola.
– Beverly?
Lei si raddrizzò, ma non disse una parola.
– Non è la prima volta che perde un paziente... – mormorò lui.
– Pazienti feriti, sì – rispose infine la dottoressa. – Quelli con ferite
troppo gravi per essere risanate o con malattie incurabili. So che quelle
morti sono inevitabili. Ma Jason stava bene e io non sono riuscita a
mantenerlo in vita.
– È stata mia la decisione di portarlo a bordo.
– Non sto incolpando lei... non incolpo neppure me stessa. Al momento
è sembrata la cosa migliore da fare, sebbene Ruthe sapesse che non lo era.
Avremmo dovuto lasciarlo dov'era.
– Prigioniero? – esclamò Picard. Provava ancora orrore per la situazione
dei bambini di Hamlin e non riusciva a scrollarselo di dosso.
– Per lui questa era una prigionia – puntualizzò Crusher indicando con
un gesto lo scafo della nave. – Jean-Luc, Jason si è suicidato. Non l'ha
fatto danneggiando il proprio corpo, ma semplicemente decidendo di
morire.
Picard ascoltò il tremore nella sua voce con sempre maggior
preoccupazione e fu colpito ancora dal suo pallore.
– È troppo stanca per discuterne.
– Non riesco a dormire – rispose lei bruscamente, alzandosi dalla
scrivania. – Ho del lavoro da fare.
– Non riporterà in vita Jason passeggiando nervosamente per
l'infermeria.
– Ho altri pazienti da curare.
– Non si fida del suo staff, Dottoressa Crusher?
– Ma certo che mi fido...
– Allora qual è il problema?
– In realtà penso di essere troppo stanca per dormire.
Picard conosceva bene quella sensazione: oltrepassato un certo punto,
l'esaurimento si nutriva di se stesso e la mente pensava senza più
accorgersi della necessità di riposare del corpo.
160
– Un sedativo potrebbe aiutarla.
– Non può praticare la medicina senza autorizzazione – lo avvisò lei,
dirigendosi verso l'uscita dell'ufficio, – così come io non posso dare ordini
in plancia.
Picard lasciò che lo oltrepassasse e uscisse nell'anticamera, poi la seguì.
Crusher non andò molto lontano che un'altra dottoressa le bloccò la strada.
– Cosa c'è Iovino? – le domandò, con impazienza.
– Ho una domanda a proposito di Mosè.
Picard aspettò finché la giovane internista fu al fianco di Crusher, poi la
chiamò.
– Beverly...
Non appena lei si voltò, Iovino tirò fuori con ammirevole rapidità e
leggerezza una siringa ipodermica e la posizionò contro il braccio
dell'ufficiale medico capo. Crusher si ritrasse al suono del sibilo, ma non
abbastanza in fretta da evitare che il contenuto venisse iniettato nel suo
sistema.
– Cosa diavolo sta facendo, Iovino?
– Esegue i miei ordini – spiegò Picard, avvicinandosi. Aveva sperato di
evitare questa tattica a sorpresa, ma vista l'ostinazione di Crusher,
sembrava non ci fossero molte alternative. Fortunatamente la Dottoressa
Iovino aveva subito accettato di eseguire la manovra.
– Dannazione, nessuno dà ordini al mio staff medico eccetto me –
tempestò Crusher, e quando Picard non si lasciò smuovere dalla sua furia
si voltò verso Iovino. – Retranina?
– Dieci cc.
– Dovrei farle rapporto per questo.
– Basta che non mi sputi – commentò l'internista senza rimorso. – Sono
stanca di farmi sputacchiare addosso.
Crusher ebbe un giramento di testa, segno che il sedativo stava già
facendo effetto.
– Cinque cc sarebbero stati sufficienti... – sottolineò, con un sospiro
d'esasperazione.
– Sapevo di dover fare l'iniezione attraverso la giacca – ribatté Iovino,
scrollando le spalle.
– Già, certo... – sospirò Crusher, con la testa improvvisamente diventata
pesantissima.
– Avanti. La accompagno fino al suo alloggio – dichiarò Picard,
afferrandola fermamente per il gomito.
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L'equipaggio del turno di notte in plancia era ridotto. Data era al timone
mentre il Tenente Worf controllava il ponte di poppa. Altro personale di
supporto era a disposizione, ma il Klingon non chiamò nessun assistente.
Effettuò un altro controllo alla consolle comunicazioni, il terzo fino a quel
momento, e riferì i risultati con un'espressione impassibile.
– Nessuna risposta.
– Dannazione! – esclamò Riker, sporgendosi in avanti sulla poltrona del
capitano. – Data?
– Siamo entro il raggio di contatto, signore – annunciò Data, passando
dalla sua posizione alla consolle operazioni. – La mancanza di trasmissioni
radio indica che qualcosa non va.
Il primo ufficiale esaminò ad una ad una le possibili ragioni del silenzio
di New Oregon.
– Guasti alle apparecchiature, interferenza di una tempesta ionica...
– Ho già tenuto conto della possibilità e ho eseguito il necessario
sondaggio sensorio: i livelli di ionizzazione sono normali – interruppe
Data.
– Confusione delle frequenze... – continuò Riker.
– Sto controllando tutte le bande di comunicazione – avvertì Worf,
mentre le sue grosse mani toccavano con delicatezza la superficie della
consolle. – Nessuna trasmissione da quel settore, su nessuna frequenza.
– Quindi rimane soltanto l'ipotesi di un guasto all'equipaggiamento sulla
superficie del pianeta, oppure... – Lasciò la frase in sospeso.
– Ulteriori congetture sarebbero altamente speculative – precisò Data.
– Lo so, ma dobbiamo aspettarci il peggio finché non sapremo cos'è
successo in realtà: la procedura standard è chiara al riguardo. Qual è il
tempo stimato di arrivo?
– Quindici ore, ventitré minuti... – Data fece una pausa, poi continuò in
fretta: – E cinque secondi.
Riker era troppo impegnato a pensare per interrompere Data. In quindici
ore potevano succedere una quantità di cose.
– Aumentare la velocità a curvatura sette – ordinò.
– Curvatura sette – confermò Data, e la nave rispose con un brivido
quasi impercettibile.
Per quanto lieve, il capitano avrebbe comunque avvertito l'accelerazione
e questa volta Riker toccò il comunicatore prima che Picard potesse
chiamare per chiedere una spiegazione.
162
– Capitano, è richiesta la sua presenza in plancia.
XVI.
La Dottoressa Crusher fu l'ultimo tra gli ufficiali superiori ad essere
convocato; massaggiandosi gli occhi arrossati dal sonno cercò di capire il
senso della scena che la plancia le stava offrendo. L'equipaggio era al
completo: Worf e Yar, chini sulla consolle tattica, erano troppo presi per
accorgersi dell'arrivo della dottoressa e stavano lavorando con la
concentrazione tipica di uno stato d'allerta. Con crescente disagio, Crusher
si diresse in basso verso le poltrone di comando, dove il capitano stava
discutendo animatamente con Riker e con Andrew Deelor, notando che sia
Geordi che Data si trovavano alle postazioni di prua.
Al suo arrivo Picard alzò lo sguardo e interruppe la conversazione con
gli altri due: aveva atteso fino all'ultimo minuto per chiamare la dottoressa
in modo da permetterle di riposarsi il più possibile, ma adesso era venuto il
momento di informarla di cosa era successo in quanto lei era l'unico
ufficiale medico opportunamente autorizzato che potesse eseguire il lavoro
che li aspettava.
Crusher studiò l'immagine offerta dallo schermo visore principale, su cui
si stagliava un pianeta marroncino striato di bande color verde pallido.
– New Oregon? – domandò. – Siamo arrivati in anticipo.
– Sì – confermò Picard. – C'è stato un problema.
– Un problema? Che tipo di problema?
– Riteniamo che la colonia sia stata attaccata.
Il tono senza inflessioni della voce di Picard avrebbe dovuto avvertire
Crusher di ciò che sarebbe seguito, ma la sua mente rifiutò di accettarne le
implicazioni.
– Perché sono stata chiamata in plancia? Avrei dovuto essere mandata
giù sul pianeta con una squadra medica.
Riker aprì la bocca per replicare, ma il capitano lo zittì sollevando
appena la mano: Picard preferiva dare di persona le brutte notizie.
– È troppo tardi per qualunque intervento medico, Dottoressa Crusher.
– Non ci sono sopravvissuti? – esclamò lei, sconvolta, e si lasciò cadere
su una delle tre poltrone mentre un'ondata di fatica si impadroniva del suo
spirito e del suo corpo. L'infermeria era pronta da tempo per il controllo
medico dei tecnici federali della colonia, oltre venti ingegneri, meccanici e
163
tecnici specializzati nel terraformare pianeti. – Sono tutti morti?
Picard stroncò sul nascere qualunque falsa speranza.
– Non ci sono segni di vita sulla superficie del pianeta. Anche la
vegetazione sta morendo.
Nel momento in cui Geordi La Forge aveva portato l'Enterprise in orbita
attorno a New Oregon, i sensori avevano confermato che la necessità di
intervenire con urgenza era ormai passata e che le bande radio avrebbero
continuato ad essere silenziose.
– Come? Perché? – domandò Crusher... poi trovò da sola una risposta
nella presenza di Andrew Deelor. – I Choraii.
– Forse – replicò Picard. – Data ha registrato una leggera traccia di
particelle organiche nella zona esterna del sistema solare. La prova è
ancora circostanziale, ma l'indizio suggerisce parecchie cose. Non sapremo
niente di certo finché la squadra di ricognizione non avrà controllato la
superficie.
– Ho stabilito le coordinate di teletrasporto sia per la stazione di
terraformazione che per l'avamposto dei Coloni... o per ciò che ne è
rimasto – informò Data, volgendo le spalle alla propria consolle. – Ho
scelto un luogo libero dal considerevole mucchio di detriti per far
materializzare la squadra – aggiunse, indicando un sinistro punto rosso sul
suo schermo sensore. – Le condizioni meteorologiche saranno piuttosto
avverse, visto che i campi di controllo atmosferici non funzionano più.
– Due squadre, una per ogni luogo – ordinò Picard in tono secco,
pensando che la lezione più dura che aveva imparato una volta raggiunto il
comando era stata quella di accettare che la squadra di ricognizione
sostituisse la sua presenza e di imparare a usarla come i suoi occhi,
orecchie e mani. Riker avrebbe certamente citato la sicurezza come
ragione principale per tenere il capitano in plancia, ma Picard aveva
imparato a rendersi conto che di solito poteva fare meglio il suo lavoro a
distanza, basandosi alternativamente sulle risorse della nave o della
squadra in missione.
– Data, Yar, controllate l'insediamento dei Coloni – ordinò Riker,
formando in fretta il primo gruppo.
Mentre gli ufficiali chiamati abbandonavano le loro postazioni,
lasciando La Forge e Worf da soli agli estremi opposti della plancia, il
primo ufficiale indicò Deelor e Crusher.
– Noi ci occuperemo invece della stazione di controllo. La devastazione
maggiore è stata là.
164
Crusher si sforzò di alzarsi dalla poltrona, attingendo a riserve d'energia
ormai quasi esaurite.
– Io dovrei salvare delle vite, ma ultimamente non ho fatto altro che
registrare morti! – commentò, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
Non appena si materializzò su un pianoro largo e piatto, la squadra di
ricognizione di Riker si trovò esposta ad una pioggia sferzante e gelida e
sovrastata da nuvole di un viola profondo che nascondevano il sole e
trasformavano il primo pomeriggio in una tarda serata; sotto i piedi si
stendeva un fitto tappeto di piante che stavano marcendo sotto la pioggia
nel suolo impregnato d'acqua. Il primo ufficiale sondò l'orizzonte alla
ricerca di segni di abitazioni.
– Da quella parte – esclamò Deelor, indicando un punto distante diverse
dozzine di metri.
Riker abbassò lo sguardo: le stazioni di terraformazione venivano
costruite secondo criteri di utilità piuttosto che di estetica, ma adesso
quelle strutture mancavano di entrambe le qualità: le tubazioni tozze e le
volte a bolla del centro operazioni erano state fatte a pezzi e appiattite.
Guidando la squadra al luogo dell'attacco, Riker si fece strada attraverso
l'acqua ristagnante che copriva il terreno, ma nonostante la sua cautela
inciampò in una delle macerie nascoste dal fango; abbassandosi tirò fuori
un detrito di metallo contorto la cui funzione originale era ormai
irriconoscibile... il che non si poteva dire per le chiazze bruciacchiate che
ne segnavano la superficie e che risultarono evidenti quando la pioggia
lavò via la fanghiglia che ricopriva il rottame. Senza parlare, Riker porse
l'oggetto a Deelor, che lo esaminò con grande interesse.
– Lo strato esterno è completamente carbonizzato – osservò, grattando
con l'unghia del pollice il pezzo di metallo fino a rivelare una linea
brillante.
– Io andrò a cercare i corpi – comunicò Crusher, allontanandosi
lentamente. Stava scrutando con attenzione i materiali da costruzione
bruciati sparsi dovunque quando un improvviso segnale del tricorder la
indusse a dare un'occhiata ravvicinata al mucchio scuro che le bloccava il
passo.
– Ho trovato qualcosa, comandante.
– Quello sarebbe un corpo? – domandò Riker, rispondendo alla sua
chiamata, poi impallidì e deglutì convulsamente.
La dottoressa annuì, protendendo il tricorder.
165
– Elevati livelli di calcio indicano che ci sono ossa all'interno –
confermò, accennando con lo strumento al perimetro esterno della stazione
distrutta. – Registro diversi cadaveri laggiù, sotto i detriti e la cenere.
Anche quelli sono bruciati.
– Il fuoco dev'essere stato molto intenso per causare tanta distruzione –
commentò Riker.
– Non è stato il fuoco – controbatté Deelor, dando un calcio ad un pezzo
di metallo vicino al corpo. – I segni della pressione d'impatto sono
inconfondibili. Il colpo violentissimo di un campo di forze ha schiacciato
questa zona, ed è stato poi seguito da un bagno d'acido.
– Come può esserne sicuro? – domandò Riker.
– Ho visto registrazioni di simili schemi di distruzione su un altro
pianeta. Siamo di fronte ad un'altra Hamlin.
Data controllò il canale aperto con il comunicatore di Riker e confrontò
la descrizione di Deelor della stazione di terraformazione con le rovine
scure dell'insediamento agricolo: dovunque tavole di legno giacevano in
mucchi disordinati a marcire sotto la pioggia battente che aveva
trasformato i campi coltivati in mari di fango.
– I Choraii sono stati anche qui – riferì a Picard. – Rimane molto poco
delle strutture in legno e ancora meno della gente che viveva all'interno.
– Sono entrata nella Flotta Stellare per contribuire a porre fine al
verificarsi di cose come queste – commentò Yar, osservando la distruzione
con la bocca serrata in una linea sottile. – Questa volta siamo arrivati
troppo tardi.
La sala riunioni era di nuovo completamente piena. Il Capitano Picard
confrontò mentalmente questa riunione con quella occorsa circa due
settimane prima e annotò le differenze: Wesley Crusher, che di solito
preferiva sedersi lontano dalla madre, si era diretto al suo fianco in cerca di
conforto; il Consigliere Troi, scossa dalla notizia della distruzione della
colonia, mostrava meno palesemente i suoi bisogni e tuttavia era seduta
vicino a Riker... una vicinanza che significava probabilmente poco per
molti degli occupanti della sala, ma di cui il capitano riconobbe il
significato.
– Dov'è Ruthe? – chiese Picard all'ambasciatore.
– Non ho avuto il tempo di avvertirla dell'attacco – spiegò Deelor, poi
aggiunse velocemente: – In ogni caso non avrebbe avuto nessuna
166
informazione significativa da dare.
Picard accantonò quel ragionamento e colpì più vicino alla verità.
– Non può evitare a lungo di dirglielo. Lo verrà a sapere prima o poi.
– Meglio che sia poi – mormorò l'ambasciatore, a disagio.
– Vogliamo procedere con la riunione?
I primi minuti vennero impiegati per riesaminare le osservazioni delle
squadre di ricognizione, e mentre Data forniva con la consueta precisione
un riassunto degli schemi comuni del danno strutturale subito da entrambi
gli insediamenti, Picard si domandò quali emozioni... se ce n'erano...
fossero nascoste dietro quell'esposizione obiettiva. Non dubitava che
l'androide fosse capace di provare emozioni, ma riteneva anche che Data,
come un bambino, non riuscisse a mettere in relazione il disastro
verificatosi sul pianeta con gli eventi della propria vita, un processo di
associazione che forse non sarebbe potuto cominciare finché Data non
avesse vissuto qualche personale tragedia. La Dottoressa Crusher si mostrò
ugualmente professionale nella sua presentazione dei risultati delle
autopsie, ma per tutto il tempo si tenne aggrappata con la mano libera al
braccio del figlio.
Crusher illustrò le prove che definivano come le bruciature fossero state
causate dall'acido, e Deelor chiarificò ulteriormente l'attacco dei Choraii,
basandosi anche sulla sua conoscenza del massacro di Hamlin.
– Dev'essere stata una grande nave, molto più grande della Si Bemolle,
perché solo le navi Choraii più anziane riescono a sopravvivere all'ingresso
in un'atmosfera planetaria. Non conosciamo ancora le esatte leggi
dinamiche coinvolte, ma evidentemente le sfere si comprimono sotto la
pressione atmosferica finché i componenti non organici dello scafo si
concentrano formando uno scudo esterno metallico.
– Mentre le navi più giovani, con bolle più piccole, sarebbero compresse
al punto da schiacciare l'equipaggio all'interno – dedusse Data. – O
mancherebbero di sufficienti componenti metalliche per completare lo
scafo.
– Ma perché l'attacco? – chiese Riker, in tono amaro. – Hamlin era una
colonia mineraria, ma New Oregon è... era solo un insediamento agricolo.
Che metalli si aspettavano di trovare i Choraii?
– Non lo sapremo mai – esclamò Deelor, aggrottando le sopracciglia
scure. – Potrebbero essere stati a corto di rifornimenti e aver agito sulla
spinta della disperazione. O forse si è trattato soltanto di curiosità,
considerato che i loro ultimi passaggi in questo sistema solare erano
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avvenuti prima del processo di terraformazione. I cambiamenti della
superficie del pianeta potrebbero aver attratto la loro attenzione.
– E l'attacco gratuito? – domandò Picard. – Come si giustifica?
– Non li sto difendendo, capitano – sottolineò Deelor, irrigidendosi.
– Ma la Federazione continuerà a sviluppare relazioni diplomatiche con i
Choraii?
Un coro di proteste si levò dal resto degli ufficiali presenti mentre questi
assimilavano le implicazioni a lungo termine dell'attacco a New Oregon.
– Impossibile – dichiarò Yar, sovrastando gli altri. – Prima Hamlin,
adesso New Oregon. Io ho visto cos'hanno fatto all'insediamento dei
Coloni. I Choraii sono dei macellai!
– Quanto costa la diplomazia, Ambasciatore Deelor? – aggiunse Picard,
in tono ancora ingannevolmente sommesso. – E quanto sarebbe costato
conoscere il segreto dei motori a curvatura alieni?
– Non spetta a noi decidere – ribatté con fermezza Deelor. – È compito
degli ammiragli della Flotta soppesare le considerazioni etiche di fronte
alle necessità della difesa. Finché non cambieranno politica, io eseguirò i
loro ordini... il che significa che per ora l'incidente di New Oregon dovrà
essere trattato come qualunque altro incontro Choraii e che quindi tutte le
informazioni relative saranno rese top secret.
– Non può mantenerlo segreto! – esclamò Riker. – Il Controllo di
Terraformazione deve sapere che la sua squadra è stata sterminata. Inoltre
c'erano anche dei Coloni laggiù... non può più tenere all'oscuro i nostri
passeggeri su quelle morti.
– Sì, troppe persone a bordo di questa nave conoscono i risultati
registrati dalle squadre di ricognizione – ammise Deelor, accigliandosi. –
Non abbiamo altra scelta che comunicare ai Coloni l'attacco, ma per
adesso l'identità degli attaccanti deve rimanere sconosciuta.
Picard si risentì della facilità con cui Deelor aveva accantonato il più
difficile di tutti i doveri: annunciare la morte di qualcuno. Come capitano,
Picard si addossava tradizionalmente quella responsabilità ma la aborriva
più di tutte le altre associate al suo grado.
Fissò Beverly Crusher dall'altra parte del tavolo, studiandone il profilo e
pensando al suo viso come gli era apparso anni prima quando aveva saputo
della morte di suo marito. Picard le aveva portato la notizia di persona e il
suo arrivo improvviso, senza Jack al fianco, era stato sufficiente per
avvertire Beverly di ciò che era successo. Lo shock le aveva offuscato lo
sguardo ancor prima che Picard cominciasse a parlare e probabilmente lei
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non aveva registrato le parole, anche se lui se le ricordava fin troppo
bene...
Il capitano si sforzò di accantonare quei pensieri morbosi, ma ormai la
sua concentrazione si era infranta e per lui i commenti finali di Deelor
furono soltanto un po' di rumore in più da sopportare.
Troi fu la prima ad avvicinarglisi alla fine della riunione.
– Capitano, vorrei accompagnarla a fare visita ai Coloni.
Picard annuì brevemente, comprendendo che il consigliere aveva
percepito il suo turbamento interiore. Troi costituiva un aiuto
preziosissimo per giudicare la salute emotiva del suo equipaggio, ma il
capitano si trovava sempre a disagio quando quegli stessi poteri empatici
venivano usati su di lui... una reazione che la Betazoide probabilmente non
mancò di percepire.
– Capitano Picard?
– Sì, Signor Crusher? – chiese Picard, voltandosi verso il giovane
guardiamarina... un altro ricordo della morte di Jack.
– Cosa c'è?
– Pensavo che lei dovesse sapere che uno dei colonizzatori di New
Oregon era la figlia della Colona Patrisha.
– Grazie, guardiamarina – annuì il capitano. Il ragazzo aveva ragione:
l'informazione era importante, e non faceva altro che rendere il suo
compito ancora più difficile.
Nell'oltrepassare la soglia del loro alloggio Deelor pensò che se non
altro sapeva sempre dove trovare Ruthe, dal momento che non aveva più
lasciato la stanza dalla morte di Jason.
– Sei stato via molto tempo – protestò la donna, alzando lo sguardo dal
pavimento dove si era appallottolata per un sonnellino.
– Mi dispiace – replicò Deelor, incerto se lei avesse parlato per accusarlo
o solo per fare un'osservazione. Di solito era indifferente ai suoi
movimenti. – Sono sceso su New Oregon – aggiunse quindi, e le spiegò il
perché.
– Quando è successo? – gli chiese lei, appena ebbe terminato la breve
descrizione dell'attacco.
– Quasi una settimana fa... o almeno questa è la stima che ha fatto la
Dottoressa Crusher dopo aver studiato la condizione dei corpi. La stima di
Data è leggermente diversa: lui crede che l'attacco sia accaduto almeno
quattro giorni fa, ma non ipotizza nessun periodo più lungo.
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Ruthe si stiracchiò pigramente e i suoi piedi nudi fecero capolino da
sotto il mantello.
– Allora potrebbero essere ancora nei dintorni. Proveremo a contattarli?
– Non con l'Enterprise. Il Capitano Picard non accetterebbe mai il
suggerimento. Forse potremo ottenere un'altra astronave una volta
raggiunta la Base Stellare Dieci.
– I Choraii se ne saranno andati per allora – ribatté Ruthe, in tono
sprezzante. – Le loro saranno anche rotte circolari, ma le seguono molto
velocemente.
Non chiese altro, ma in fondo le discussioni di Deelor con Ruthe non
duravano mai molto, perché lei perdeva subito ogni interesse. Passò più di
un'ora di silenzio prima che la donna facesse il suo ultimo commento
sull'incidente di New Oregon.
– La nave doveva essere molto grande.
Nel sentire quell'osservazione, Deelor fu assalito dal timore che Ruthe
condividesse i suoi stessi sospetti.
– È sola – comunicò Troi al capitano, quando si arrestarono nel corridoio
di fronte all'alloggio della Colona Patrisha.
Picard sollevò la mano per suonare alla porta, poi esitò.
– Forse sarebbe meglio che ci fossero altri Coloni con lei allorché le
darò la notizia.
Il consigliere analizzò quel poco che sapeva della donna: sebbene i loro
incontri fossero stati brevi e sporadici, si sentiva infatti sicura di aver
compreso pienamente la sua forte personalità.
– No. In realtà penso che preferisca essere sola in un momento simile.
Non si trova sempre a suo agio con i membri della sua comunità e in effetti
il senso d'isolamento di Patrisha dagli altri Coloni è cresciuto nel corso di
questo viaggio.
– Molto bene, consigliere. Sono sicuro che lei sa meglio di me ciò che è
opportuno fare – replicò Picard, che si sentiva come un pesce fuor d'acqua
in quella situazione e faceva quindi molto affidamento sul giudizio di Troi.
Del resto, era anche suo interesse che non ci fossero ulteriori ritardi,
perché sapeva che se avesse atteso ancora più a lungo avrebbe cominciato
a preoccuparsi che il suo aspetto non fosse adeguatamente compassato o
che potesse invece apparire troppo severo. Tratto un profondo respiro,
attivò il campanello della porta.
Ottenuto il permesso, Picard e Troi entrarono nell'alloggio che era stato
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svuotato di tutti gli effetti personali e dove le valige erano allineate con
ordine nella parte centrale del soggiorno.
– Perché non ci avete permesso di scendere? Cos'è successo? – domandò
subito Patrisha.
– La colonia su New Oregon è stata distrutta – mormorò Picard, sapendo
che quella notizia non avrebbe potuto esser addolcita da nessun
preambolo; risparmiando a Patrisha i dettagli sull'attacco Choraii, la
informò poi che sua figlia era morta ma non le disse che i suoi ultimi
secondi di vita dovevano essere stati pervasi da un dolore lancinante e che
del suo corpo non rimaneva niente di riconoscibile.
– La nostra squadra di ricognizione ha confermato che non ci sono
sopravvissuti – spiegò Troi gentilmente.
– Ci dispiace molto – aggiunse Picard, comprendendo che non c'era altro
da dire. Da quel momento in avanti, tutto si svolse come sempre accadeva
in quelle occasioni: le sue parole furono accolte con un'iniziale incredulità
e poi accettate con crescente angoscia. Alcune persone si mettevano
immediatamente a piangere, ma Patrisha apparteneva alla categoria di
coloro che restavano quieti... il dolore e lo strazio sarebbero venuti dopo
che i due ufficiali se ne fossero andati. Troi aveva ragione, quella donna
non avrebbe desiderato compagnia.
– Capitano – chiese infine Patrisha, dopo un'imbarazzante pausa di
silenzio, – cosa sarebbe successo se non fossimo arrivati in ritardo?
Durante gli anni, Picard si era abituato a evitare quel tipo di inutili
speculazioni ma poiché comprendeva la preoccupazione che aveva
generato la domanda rispose con il rispetto dovuto.
– Tutta la vostra comunità sarebbe stata spazzata via. Un centinaio di
colonizzatori disarmati, o anche duecento, non avrebbero potuto cambiare
affatto il risultato in nessun modo – mormorò, sapendo che quelle parole
erano di ben poco conforto... ma era tutto quello che aveva da offrire.
– Non vedevo Krn da quasi due anni... – cominciò Patrisha, con il volto
svuotato di ogni espressione. – Due anni da quando lei e il suo compagno
si sono offerti volontari per il viaggio esplorativo. Krn e io litigavamo così
spesso che sono stata davvero felice di vederla andar via.
Picard scambiò un'occhiata con Troi, ma dal momento che non sembrava
esserci un modo gentile di interrompere la donna e andarsene, il
consigliere gli segnalò di rimanere semplicemente ad ascoltare per il
momento. Picard non desiderava farlo ma si costrinse a sopportarlo... dopo
tutto, il suo disagio non era nulla a paragone del dolore di Patrisha.
171
– E Dvd cercava sempre di rimettere le cose a posto tra noi due... non
era proprio un tipico Colono, era un argentiere, un artista...
Argento. Quell'unica parola catturò l'attenzione di Picard e sovrastò tutte
le altre che seguirono. Avvertì poi la catena di reazioni sorprese da Troi
quando il consigliere percepì il picco di allarme che lo aveva pervaso, e
riuscì subito dopo a notare a sua volta il collegamento: metallo raffinato, in
piccole quantità ma sufficientemente puro per servire alle necessità dei
Choraii. Il capitano fu così distratto dalla scoperta del motivo dell'attacco
degli alieni che per poco non gli sfuggì il significato di ciò che Patrisha
aggiunse subito dopo.
– Era un uomo gentile e così attaccato alla loro figlia che lei lo chiamava
zio.
– C'era una bambina? – domandò Picard, in tono tagliente.
– Sì, la mia nipotina Emily. Avrebbe compiuto quattro anni poco dopo il
nostro arrivo – confermò Patrisha... poi l'intensità della domanda del
capitano penetrò il suo stato di shock e la indusse a chiedere: – Perché è
così importante?
Picard però non poteva risponderle, non ancora... e forse non avrebbe
mai potuto farlo.
Mentre il resto del gruppo prendeva posto a sedere Ruthe continuò a
passeggiare avanti e indietro davanti ai grandi oblò del ponte
d'osservazione. Guidati dall'abitudine l'Ambasciatore Deelor e il Capitano
Picard si diressero entrambi verso la poltrona a capo tavola, ma quando la
raggiunsero il diplomatico la lasciò libera con un sorriso ironico e si
sedette invece accanto alla Dottoressa Crusher; Riker e Data, appena
rientrati da una seconda ricognizione sulla superficie distrutta di New
Oregon, furono gli ultimi a sedersi e a quel punto Ruthe smise di
passeggiare ma rimase in piedi.
– Non abbiamo prove che la bambina sia ancora viva – esordì Picard,
affrontando la sua preoccupazione maggiore in fase di apertura della
discussione.
– Non abbiamo trovato il suo corpo – puntualizzò Riker, più ottimista
del suo capitano.
– Il che non significa che non sia stata uccisa – avvertì Beverly Crusher,
aggrottando la fronte. – Aveva solo quattro anni, il suo corpo potrebbe
essere stato completamente distrutto dall'acido o ridotto così male che non
riusciamo ad identificarne i resti come umani.
172
– Non ucciderebbero mai un bambino – protestò Ruthe, con grande
convinzione.
– Vorrei poterle credere – esclamò Picard. – Ma i Choraii hanno
massacrato l'intera comunità di New Oregon proprio come hanno
massacrato i minatori di Hamlin. Hanno confermato di essere degli
assassini spietati, quindi perché dovrebbero avere scrupoli ad uccidere un
bambino?
– Voi non capite – ribatté la traduttrice. – I Choraii considerano gli
Umani adulti come animali selvatici intrattabili e pericolosi... e se gli
animali sono in possesso di qualcosa di valore allora è necessario
eliminarli, e ucciderli è la via più facile. Invece vale la pena salvare i
bambini umani perché possono essere ingentiliti.
Picard accolse quella spiegazione con una smorfia.
– Un comportamento biasimevole, ma che questa volta giocherà a nostro
vantaggio. Dobbiamo supporre che la bambina dei Coloni sia stata portata
a bordo di una nave Choraii. Qual è la linea politica da seguire in una
situazione come questa? – domandò, fissando negli occhi Andrew Deelor.
– Siamo al di là del reame della politica – ammise Deelor, scrollando le
spalle. – L'immaginazione degli ammiragli della Flotta non si è estesa alla
possibilità di un ulteriore rapimento, quindi la decisione su come agire
spetterà a noi.
– Io dico di inseguirli – esclamo subito Riker. – Adesso, fin tanto che
Data può ancora registrare le particelle organiche che lasciano.
– Ma una volta che li avremo trovati, che cosa faremo? – obiettò Data,
più cauto. – La nave che ha attaccato New Oregon era molto più grande
della Si Bemolle. Come li forzeremo a restituirci la bambina?
– Non li forzeremo – si intromise Ruthe, avvicinandosi al tavolo. –
Useremo la persuasione. – Si rivolse quindi a Picard con la voce che
fremeva dall'urgenza e le mani che serravano con forza la spalliera di una
poltrona imbottita. – Quando troveremo i Choraii, io li convincerò a
restituirci la bambina.
– Ma se non dovesse riuscirci – interloquì ancora Data, continuando ad
interpretare il ruolo dell'avvocato del diavolo, – l'Enterprise potrebbe
trovarsi coinvolta in una battaglia che non sarebbe in grado di vincere... e
tutto per recuperare una bambina che potrebbe giacere morta fra le rovine
di New Oregon.
– Ma se fosse viva, Data? – domandò Crusher. – Io sarò ossessionata
dall'incertezza del destino di Emily finché non avremo chiarito quale esso
173
sia, in un modo o nell'altro. Dobbiamo esserne sicuri.
– L'hanno presa i Choraii! – esclamò Ruthe, con veemenza. – E ormai è
con loro da più di una settimana, in un mondo alieno che non è la sua casa.
Dobbiamo inseguire la nave e recuperarla.
– Sono d'accordo – convenne Riker, picchiando un pugno sulla
superficie del tavolo. – Inoltre abbiamo una buona possibilità di vincere
un'eventuale battaglia con loro. Data e Worf stanno ancora raffinando le
loro contromisure contro la tecnologia Choraii.
Picard sospettava che il contatto diretto con la distruzione di New
Oregon fosse la causa dell'ardente desiderio di Riker di inseguire gli
assalitori, unita alla naturale esuberanza del giovane ufficiale... entrambe
motivazioni meritevoli se mantenute nella giusta prospettiva.
– Qual è la sua opinione, ambasciatore? – domandò, perplesso per il
fatto che l'uomo non avesse ancora espresso il suo punto di vista.
Deelor stava fissando Ruthe, attratto dall'intensità della sua supplica, ma
la domanda del capitano lo riscosse dai suoi pensieri.
– Confido pienamente che Ruthe possa negoziare con i Choraii.
L'incontro potrebbe essere pacifico.
– Le possibilità di uno scontro violento ci sono comunque – commentò
Picard, alzando una mano per impedire a Data di replicare e poi
abbassandola in un gesto conclusivo. Aveva seguito intensamente il
dibattito, ascoltando tutti i commenti che potevano influenzare la decisione
presa ore prima nell'alloggio della Colona Patrisha, ma non aveva
cambiato idea. – Numero Uno, ordini all'equipaggio di plancia di
approntare la separazione della nave. Inseguiremo la nave Choraii con la
sezione da battaglia.
– Sissignore – rispose Riker con entusiasmo, pronto a buttarsi
nell'azione appena il capitano avesse dichiarato chiusa la riunione.
Picard osservò l'esultanza di Ruthe per quella decisione: il suo sorriso
duro e poco naturale durò appena pochi secondi, ma nei suoi occhi ardeva
un bagliore intenso ed eccitato.
XVII.
– Prepararsi a iniziare la sequenza di separazione. L'avvertimento di
Picard risuonò in tutti gli angoli dell'Enterprise.
– Procedere.
174
Con quella semplice parola, i grandi ganci che univano il modulo di
comando principale a forma di disco allo scafo che ospitava la sezione
ingegneria vennero staccati, scindendo l'unità strutturale della nave
stellare. Le due sezioni si allontanarono con facilità mentre gli agganci di
metallo si ritraevano nei loro alloggiamenti, poi la spinta delle sue due
gondole a curvatura allontanò la sezione da battaglia dalla sezione a disco
con un ampio arco e la portò fuori dall'orbita di New Oregon.
Riker seguì sul visore della plancia il volo sempre più rapido della
sezione ingegneria che si allontanava, poi si adagiò con un sospiro sulla
poltrona del capitano.
– Vorrei poter essere andata anch'io con loro – mormorò Troi, dalla sua
posizione a fianco di lui.
– Qualcuno doveva rimanere con la nave... e con i Coloni – le ricordò il
primo ufficiale, scrollandosi di dosso il suo disappunto. – I Choraii
potrebbero sempre fare marcia indietro e mettere in pericolo la sezione a
disco.
– Ma sei preoccupato per il capitano e gli altri. Vorresti condividere gli
stessi loro rischi.
– Sì – ammise Riker. – Ma se Ruthe farà bene il suo lavoro, non si
troveranno in pericolo.
Il Capitano Picard esaminò il ponte da battaglia dal posto di comando.
Qui la poltrona del capitano era una specie di trono sopraelevato largo e
solido, e lui sedeva su di essa con portamento eretto... soltanto la fronte
leggermente accigliata tradiva il suo sforzo inconscio per adattarsi al
diverso ambiente circostante.
Il ponte da battaglia somigliava alla plancia di comando della sezione a
disco, ma non ne aveva le linee aggraziate: la necessità aveva imposto di
ridurre lo spazio della stanza, e la distanza tra le compatte consolle era
minore; il visore principale era più piccolo, la rampa che saliva alla parte
poppiera del ponte era stata sostituita con un alto gradino, e anche se i dati
forniti dagli strumenti erano visibili sulla parete di fondo tutte le altre
pareti erano lisce e uniformi.
Gli ufficiali di plancia avevano subito occupato le consuete posizioni,
ma non c'erano accomodamenti previsti per i passeggeri: non avendo più
un posto accanto al capitano Andrew Deelor si spostò di lato e si appoggiò
alla balaustra del ponte, mentre Ruthe preferì sedersi a gambe incrociate
sul pavimento e Beverly Crusher si adattò sulla poltrona vacante di una
175
delle consolle ausiliarie.
– I sensori registrano il sicuro passaggio dei Choraii – annunciò Data,
dal timone. – Le coordinate di navigazione sono state stabilite.
– Procedere alla massima velocità di curvatura, Signor La Forge –
ordinò il capitano.
– Sissignore – rispose il pilota, e pose l'Enterprise su una rotta
d'intercettazione con la nave aliena. In meno di un'ora fu però costretto a
rallentare a velocità di impulso.
– I sensori stanno perdendo la traccia – riferì Yar, dalla consolle tattica.
Picard accolse l'informazione con un secco cenno del capo.
– Grazie, tenente – aggiunse poi di proposito, scrollandosi di dosso
l'influenza degli sterili confini del ponte da battaglia. – Signor Data?
Solo l'androide appariva immune all'effetto di quell'ambiente opprimente
e come al solito replicò con entusiasmo e prolissità.
– Le navi Choraii perdono in continuazione una scia di particelle
organiche morte, proprio come gli esseri umani perdono le cellule
invecchiate della pelle. Purtroppo, con lo scorrere del tempo, la
concentrazione dei residui si riduce perché l'inerzia delle particelle sospese
le trasporta in differenti direzioni e...
– Siamo quindi arrivati troppo tardi per tracciare la rotta della nave che
ha lasciato New Oregon – esclamò Picard, saltando alle conclusioni del
discorso di Data.
– Non possiamo tornare indietro adesso. Deve esserci un modo per
inseguire i Choraii – protestò Yar.
– Li troveremo – convenne Picard, esprimendosi con una calma studiata
che ebbe l'effetto di mitigare le maniere calde di Yar senza riprenderla
apertamente. – Signor La Forge, riesce a registrare qualche schema nella
rotta della nave?
– Certamente! – esclamò Geordi. I suoi occhi artificiali seguirono sul
pannello di navigazione il sentiero curvilineo che stava già sfumando alla
sua estremità. – I movimenti sono però molto complessi e dubito di
riuscire ad andare lontano senza input dai sensori.
Ruthe si alzò in piedi di scatto e si avvicinò alla consolle del timone;
curiosando da dietro le spalle del pilota diede un'occhiata al pannello della
consolle, studiandolo per un momento, poi scosse il capo. – Se solo potessi
sentire dove sono stati.
– A questo si può facilmente provvedere – annuì con soddisfazione Data.
– Ho stabilito un approssimativo equivalente musicale delle coordinate di
176
viaggio – spiegò attingendo al suo pannello operazioni per richiamare una
registrazione dal computer linguistico. – Sfortunatamente il ritmo è
ricostruito in maniera arbitraria e manca delle variazioni libere di una
canzone Choraii.
– Se c'è una melodia, io la troverò – dichiarò Ruthe. Con gli occhi chiusi
e trattenendo il fiato ascoltò per due volte il suono del viaggio della nave
stellare da New Oregon alla loro posizione attuale. – È una canzone di
viaggio – dichiarò infine, riaprendo gli occhi.
– L'hai già sentita? – domandò Deelor.
– È una melodia popolare cantata da molte delle navi del gruppo locale –
spiegò Ruthe. – Non dobbiamo più seguire la traccia: posso suonare io il
resto della canzone e mostrarvi dove finirà.
La traduttrice estrasse dal mantello le sezioni del suo flauto e ricostruì lo
strumento in tutta la sua lunghezza. Posando le labbra sull'imboccatura,
soffiò delicatamente e richiamò le stesse note che aveva suonato il
computer, trasformando però la rigidezza meccanica dell'interpretazione in
una linea musicale fluida. Ruthe continuò la canzone oltre il punto in cui il
computer si era fermato, portando a conclusione la melodia, e mentre
l'ultima nota moriva lentamente abbassò il suo flauto. – Stanno andando là.
– Inverto il processo di traduzione – riferì Data, poi controllò il risultato
fornito dal computer linguistico e aggiunse: – Le coordinate della
destinazione finale sono state calcolate.
– Rotta diretta per quelle coordinate, curvatura otto – ordinò Picard.
Con un sorriso soddisfatto Ruthe si sedette di nuovo sul pavimento del
ponte con il flauto in grembo, del tutto immobile a parte il gesto quasi
inconsapevole delle sue dita che continuavano a sfiorare i fori come se lei
stesse cantando a se stessa.
Wesley Crusher cadde pesantemente sul duro terreno polveroso del
cortile del granaio ma riuscì ad assorbire la caduta con un braccio, come
gli aveva insegnato Tasha, sollevando automaticamente l'altro braccio per
proteggersi il torace dai colpi che seguirono il placcaggio. Dnnys era un
lottatore maldestro, facile da bloccare, e Wesley avrebbe potuto
scrollarselo di dosso con facilità, ma preferì concentrarsi invece
sull'autodifesa.
– Dimmelo! – urlò Dnnys, accecato dalla rabbia, senza accorgersi che i
suoi colpi non andavano mai a segno. – Perché il capitano ha chiesto di
Emily?
177
– Smettila di colpirmi e te lo spiegherò! – ritorse Wesley, bloccando un
altro pugno.
Dnnys si ritrasse.
– Mi spiace... – balbettò, mentre la sua rabbia svaniva, – ma è mia nipote
e tu sai quello che significa per me, come per ogni zio dei Coloni.
– È per questo che penso che tu debba essere informato – confermò
Wesley, sedendosi e togliendosi la polvere e la paglia attaccati alla divisa
nel tentativo di guadagnare tempo per cercare di trovare una risposta che
ricadesse nei limiti impostigli dal giuramento di sicurezza prestato. – C'è la
possibilità che Emily sia ancora viva. Potrebbe essere stata portata via dal
pianeta.
– Vuoi dire che i predatori l'hanno catturata? – chiese Dnnys, e il suo
viso arrossato si tinse di un pallore mortale.
– Sì – annuì Wesley, arrivando pericolosamente vicino a infrangere il
giuramento di sicurezza. – La tratteranno con cura, ma riprenderla sarà
piuttosto difficile – concluse, tastandosi con cautela un punto della guancia
che gli faceva male e chiedendosi se il graffio sarebbe guarito prima del
ritorno di sua madre. Pensare che in quel momento lei si trovava sul ponte
da battaglia gli riusciva ancora più doloroso dei graffi... non aveva infatti
mai dato troppo peso ai pericoli finché loro due erano rimasti insieme sulla
nave, ma attendere il suo ritorno lo riempiva di preoccupazione. Era questo
ciò che sua madre aveva provato quando Jack Crusher era a bordo della
Stargazer?
– Quando lo sapremo? – incalzò Dnnys, afferrando l'amico per le spalle
e scrollandolo con forza.
– Non te lo posso dire perché non lo so io stesso – affermò Wesley,
divincolandosi e balzando in piedi. – Vieni, devo finire i tuoi lavori prima
del tramonto – concluse. Voleva pensare a qualcosa che non fosse il
ricordo di come si era concluso l'ultimo viaggio di suo padre.
L'Enterprise aveva raggiunto un settore di spazio del tutto simile agli
altri che si trovavano nel raggio di diversi anni luce. Andrew Deelor pensò
che non sembrava differente in quel momento, ma che se i Choraii
avessero seguito le loro solite abitudini la situazione sarebbe potuta
cambiare da un momento all'altro.
– Il posto è questo – annunciò Geordi. – Ho controllato due volte le
coordinate di navigazione.
– I sensori non registrano nessuna traccia di particelle organiche. O
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queste coordinate sono sbagliate, oppure i Choraii non sono ancora arrivati
– riferì Data.
– Siamo nel luogo giusto e loro arriveranno – affermò Ruthe senza
alzarsi dal pavimento. – La canzone è piuttosto lunga.
– Non così lunga – esclamò il Tenente Yar. – Ricevo una trasmissione
radio molto debole. Amplifico al massimo la ricezione – annunciò,
trasferendo sugli amplificatori del ponte da battaglia un suono vibrante.
L'equipaggio interruppe qualsiasi movimento, ipnotizzato da ciò che
sentiva: il coro gorgheggiante era molto più profondo di quello dei cantanti
della Si Bemolle: possedeva l'ampia risonanza di un organo di cattedrale e
una gamma di voci che si alzavano e si abbassavano in complesse
armonie. Deelor attese di vedere quale sarebbe stata la reazione di Ruthe,
ma lei non sembrò manifestarne nessuna... forse era indifferente alla natura
del suono oppure sapeva già cosa aspettarsi.
– Non sono singole note, sembra più un accordo – osservò con sorpresa
Picard, mentre ascoltava la musica ondeggiante.
– Un accordo in Re Maggiore, per essere precisi – notò Deelor, poi si
avvicinò alla poltrona del capitano e aggiunse: – Siamo nei guai.
Quel quieto annuncio attirò l'attenzione di Picard che si dimenticò della
canzone Choraii.
– Si spieghi.
– La tonalità indica l'età di una nave e inoltre ascolti il numero di voci...
– suggerì. – Ci sono solo cinque diversi toni, ma sospetto che molte delle
parti siano raddoppiate o addirittura triplicate. Una stima prudenziale
indica almeno undici cantanti, e questo significa che la nave è molto
vecchia e molto potente. Non avrà difficoltà a tenere testa all'Enterprise.
La canzone di risposta di Ruthe lo colse di sorpresa. Era salita sulla parte
poppiera del ponte e suonava da essa come da un palcoscenico: le veloci
note che uscivano dal suo flauto avevano una tonalità più alta dell'accordo
in Re Maggiore dei Choraii e si univano alla linea melodica degli alieni
intessendovi un intricato contrappunto.
– Capitano, devo trasmettere la sua risposta? – domandò Yar,
abbassando il crescente volume della trasmissione Choraii.
– Qualcosa non va, ambasciatore? – volle sapere Picard, esitando.
– Come? – si scosse Deelor rendendosi conto che si era accigliato
ascoltando Ruthe. – No, non c'è niente che non va.
Il capitano fece un cenno d'assenso al Tenente Yar e Ruthe continuò a
suonare mentre il ritmo delle canzoni intrecciate aumentava.
179
– L'hanno sentita – esclamò Deelor, e il cuore cominciò a battergli
velocemente, come per cercare di tenere il passo del pulsare della musica.
– Eccoli che arrivano – annunciò Geordi, dalla consolle del timone. Il
suo visore sensibile all'energia aveva registrato il minuscolo bagliore del
vascello in avvicinamento apparso sullo schermo del ponte da battaglia,
ma nel tempo che il suo avvertimento impiegò ad attirare l'attenzione degli
altri ufficiali, le dimensioni dell'immagine della nave Choraii si erano
triplicate.
Deelor trattenne il respiro: anche senza alcun punto di riferimento nello
spazio, poteva percepire quanto fosse enorme quella nave. Se la Si
Bemolle era stata composta da quasi due dozzine di bolle pigiate una
contro l'altra, la Re Maggiore era un guazzabuglio di più di cento sfere.
Una lunga scia di grosse bolle formava la massa centrale, mentre altre più
piccole erano infilate nelle fessure e punteggiavano qua e là gli orli più
esterni. Deelor non aveva mai fronteggiato una nave così complessa prima
di allora.
– Ridurre l'ingrandimento – ordinò Picard, quando la Re Maggiore
occupò tutto lo schermo e ne oltrepassò i limiti. – E così questi sono i
razziatori di New Oregon – commentò poi, accigliandosi.
Il grappolo in avvicinamento rotolò nello spazio e quando uno degli altri
suoi lati divenne visibile Deelor notò che diverse sfere purpuree erano
collocate nello strato esterno.
– Capitano... – cominciò.
– Sì, le ho viste – confermò Picard, conciso. – Data, prepari la sua sonda
neutralizzante nel caso capitassimo dentro un'altra rete energetica.
– Gli sforzi per neutralizzarla sarebbero inefficaci – ribatté Data, e
ridusse ancora l'ingrandimento della nave Choraii visto che questa
minacciava di oltrepassare di nuovo i limiti dello schermo visore. – La rete
attinge energia dalla nave madre e la Re Maggiore può fornire molta più
energia di quanta ne possa eliminare la sonda.
– Questo significa anche che la loro rete ci schiaccerà molto più
velocemente.
– Capitano, avremo sempre la possibilità di distruggere le sfere con i
nostri phaser – aggiunse Worf.
– Sì – confermò Data, – ma i miei calcoli indicano che esiste una
percentuale del settantotto per cento che la presente situazione finisca nella
distruzione reciproca.
– Basta parlare di battaglia – esclamò Deelor, con impazienza. – Questo
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rimarrà un incontro pacifico.
– Fino ad ora le intenzioni pacifiche sono state solo e soltanto le nostre –
puntualizzò Picard, con amarezza. – I Choraii predano e distruggono e noi
li paghiamo per ciò che loro hanno saccheggiato.
Il volo della Re Maggiore si interruppe improvvisamente e le brillanti
sfere arancioni tremarono per le forti correnti create nel liquido all'interno.
– Ambasciatore... – cominciò Picard, ma Deelor gli fece cenno di non
parlare.
– Ascolti... stanno cantando il saluto – avvertì, quando la canzone di
viaggio terminò e Ruthe continuò a suonare con i Choraii, trovando nuove
melodie da intrecciare nella loro canzone.
– Lo scambio ha un suono amichevole – osservò in tono sommesso
Picard, cambiando posizione sulla poltrona e sporgendosi verso di lui.
– Sì, è vero – confermò Deelor, notando che anche il capitano era in
grado di percepire la gaiezza dell'incontro. – Una volta che Ruthe avrà
stabilito le nostre nuove intenzioni, potremo... – si interruppe.
– Cos'è successo?
– Ruthe ha cominciato una terza melodia – spiegò l'ambasciatore. La
traduttrice non lo aveva guardato una sola volta per sapere ciò che doveva
fare, eppure in apparenza stava già andando oltre i preliminari di rito... ma
in quale direzione? Deelor cercò di capire il senso dello scambio musicale
con i Choraii, di sbrogliare la mescolanza degli acuti del flauto e dei bassi
delle rombanti voci d'organo, ma le scale musicali usate gli erano
sconosciute e la comprensione impossibile.
– Hanno la bambina? – chiese la Dottoressa Crusher, avvicinandoglisi.
– Sì... credo di sì – rispose Deelor, più incerto di quanto desse a vedere.
Aveva perso la traccia della linea melodica e poteva afferrare solo poche
frasi significative qua e là.
– Come faremo a riaverla? – domandò Picard ad alta voce, proprio
nell'istante in cui la canzone si interrompeva improvvisamente, lasciando
soltanto un mormorio basso proveniente dalla Re Maggiore.
– Sono stati già presi accordi per la restituzione della bambina – rispose
la traduttrice, smontando con gesti secchi le sezioni del suo strumento e
riponendo i pezzi nel mantello. – Emily è stata trovata mentre stavano
saccheggiando New Oregon in cerca di argento. Non è un regalo di
legame, e per questo sono disposti a lasciarla andare in cambio del giusto
prezzo. Deelor sentì le mani che cominciavano a sudare e se le asciugò
sull'uniforme.
181
– Qual è il prezzo? – volle sapere.
– Un chilo e mezzo di oro più qualche decina di grammi di zinco e di
platino. Mi teletrasporterò a bordo mentre preparate i metalli – replicò
Ruthe, scendendo dalla parte poppiera del ponte.
Deelor era troppo scosso per replicare: si era fidato di Ruthe rischiando
la propria vita molte volte, e l'avrebbe fatto anche adesso, eppure la
conosceva abbastanza bene per sentire che in quello che gli aveva detto
c'era una bugia. Una bugia detta per quale scopo?
Picard si alzò dalla poltrona per affrontare l'interprete.
– Non mi piace questa transazione: hanno acconsentito troppo
facilmente.
– Preferisce forse combattere contro i Choraii? – domandò Ruthe,
alzando un sopracciglio. – Non sono certa che potreste vincere.
Un intero minuto scivolò via in silenzio prima che il capitano parlasse di
nuovo.
– Tenente Yar, Dottoressa Crusher, accompagnate Ruthe alla sala
teletrasporto – ordinò, facendosi da parte per far passare la traduttrice.
Deelor la seguì con lo sguardo finché le porte del turboascensore non la
nascosero alla sua vista.
– Mi fido del giudizio di Ruthe... sa quello che sta facendo – asserì,
domandandosi però subito dopo se non avesse avuto troppa fretta di
difenderla e non avesse così tradito il suo crescente disagio.
Picard si sedette di nuovo, con i piedi fermamente poggiati alla
piattaforma e le mani serrate intorno ai braccioli, focalizzando la sua
attenzione sul visore.
– Forse lei si fida di Ruthe, ma io non mi fido dei Choraii.
Ancora una volta Tasha Yar provò un senso di disagio nell'aprire una
finestra nella copertura degli scudi per i secondi critici necessari a Ruthe
per teletrasportarsi sulla nave Choraii. La sua tensione si allentò
leggermente quando i deflettori si riattivarono, ma non riuscì a rilassarsi, e
sapeva che non avrebbe potuto finché l'enorme vascello fosse rimasto così
vicino all'Enterprise.
– Odio questo momento – ammise, appoggiandosi alla consolle. –
L'ultima volta abbiamo aspettato quasi tre ore prima di ricevere il segnale
di contatto da Ruthe.
– Se la nuotata rituale attraverso la Si Bemolle è durata ore, quanto
durerà sulla Re Maggiore! – sospirò Crusher.
182
– Giorni, forse settimane... – Il capo della Sicurezza fu interrotto da un
suono acuto che lo fece tornare ai controlli. – Il segnale! – annunciò,
affrettandosi ad invertire la procedura che aveva spedito Ruthe sulla nave
appena pochi minuti prima.
– È troppo presto! Deve essere successo qualcosa! – esclamò Crusher,
precipitandosi verso la piattaforma del teletrasporto mentre la luce brillante
del raggio riempiva di nuovo la stanza. Non appena la luminosità
accecante svanì, la dottoressa trovò una bambina in piedi sulla piattaforma.
Solo la bambina, che aveva al collo la catenella con il comunicatore di
Ruthe.
– Toglila da là – gridò Yar, e ampliò in fretta il raggio di ricezione
attorno alle coordinate. Ogni secondo in più che avesse impiegato per
sistemare i controlli avrebbe aumentato il rischio per la nave stellare.
Crusher tolse la bambina dalla piattaforma, stringendola a sé in un forte
abbraccio pervaso dalla gioia di aver recuperato almeno una vita dalla
devastazione di New Oregon. Il viso che faceva capolino da sotto le trecce
marroni completamente bagnate rassomigliava moltissimo a quello di
Dnnys.
– Emily!
– Mi stavo divertendo – esclamò allegramente la bambina, non appena la
dottoressa allentò l'abbraccio. Emily aveva effettuato la transizione dal
liquido all'aria senza bisogno di aiuto. – Potrò tornare presto a giocare?
– No, tesoro. Ritornerai a casa – ribatté Crusher, cercando di sorridere e
chiedendosi se tutti i bambini di Hamlin si fossero mostrati così
indifferenti alla morte dei loro genitori.
– Viene anche quella signora gentile?
Ruthe. La dottoressa guardò verso la parte opposta della stanza: le mani
di Yar erano posate sui controlli del teletrasporto, ma non si muovevano
più.
– Tasha, dov'è Ruthe?
– Non riesco a localizzarla – comunicò il capo della Sicurezza, con il
viso impenetrabile e lo sguardo distolto. – Gli scudi sono alzati.
– L'intera nave viene registrata come forma di vita – rombò Worf, sul
piccolo ponte da battaglia. – Le letture dei sensori sono disturbate e non
posso localizzare l'esatta posizione di Ruthe all'interno – spiegò, poi
controllò un'altra sezione della consolle tattica e aggiunse: – Ancora
nessuna risposta sulle frequenze di chiamata.
183
– Cosa può essere successo lassù? – mormorò Picard. Aveva dubitato
delle buone intenzioni dei Choraii fin dall'inizio, ma non doveva lasciare
che i sospetti avessero la meglio sulla sua capacità di giudizio perché
fraintendere le motivazioni degli alieni poteva coinvolgere entrambe le
navi in un inutile combattimento. – Non è strano che i Choraii abbiano
restituito la bambina senza ricevere prima il pagamento?
– Ma è possibile, suppongo. Probabilmente come asserzione di estrema
arroganza.
Un altro pensiero assalì Picard, aumentandone la preoccupazione.
– Non è possibile che Ruthe abbia preso la bambina senza che i Choraii
lo abbiano scoperto?!
– No – affermò Deelor, con fermezza – Non è così stupida.
– Non possiamo sapere che cosa è successo lassù, a meno che non
facciano una mossa ostile...
– Capitano – interruppe Data. – La Re Maggiore si sta allontanando.
– Massima velocità, inseguiamola! – ordinò Picard, diffondendo poi un
annuncio a tutta la nave: – Tutte le postazioni, prepararsi al
combattimento.
L'Enterprise balzò in avanti, mettendosi alle costole delle bolle Choraii,
e la distanza tra le due navi cominciò a diminuire, anche se lentamente.
– Ambasciatore, non possiamo forzare Ruthe a ritornare, non senza
metterla in grave pericolo – avvertì Picard.
– Basta che lei attiri la loro attenzione e mi dia un po' di tempo, capitano
– annuì Deelor, pallido in viso ma composto.
– Va bene – assentì Picard, quindi trasse un profondo respiro e impartì i
suoi ordini: – Worf, agganci un raggio traente appena i Choraii saranno a
portata.
Le grandi mani di Worf restarono sospese sulla consolle tattica come dei
predatori e poi si tuffarono sui controlli, stabilendo il contatto. Un tremito
diffuso percorse i ponti dell'astronave quando una mezza dozzina di raggi
traenti afferrò le sfere della Re Maggiore, le luci bianche del ponte da
battaglia si spensero e furono sostituite dalle rosse luci d'emergenza. Sul
visore principale, la nave Choraii fu scossa da un brivido e si fermò
lentamente.
– Umani, lasciateci andare! – rombarono le voci profonde e accusatrici,
simili a un coro di dèi greci infuriati.
– State ancora trattenendo una di noi a bordo della vostra nave – gridò
Deelor, ma la sua voce tenorile risultò debole al confronto. –
184
Restituitecela.
– Vuoi dire colei-che-si-era-perduta? Siamo stati costretti a lasciarvela
molti anni fa, ma adesso è tornata.
– Che sia dannata! – imprecò Deelor, tra i denti.
Picard fece segno a Worf di interrompere la comunicazione e il silenzio
scese sul ponte da battaglia.
– Ambasciatore, cosa vogliono dire parlando di «colei-che-si-eraperduta»? – chiese.
– È successo ciò che sospettavo. Nel gruppo locale ci sono solo poche
navi abbastanza grandi da atterrare su un pianeta, ma ero sicuro che Ruthe
mi avrebbe avvertito... – cominciò, poi lasciò a mezzo la frase con aria
turbata.
– Avvertito di che cosa? – lo incitò Picard.
– La Re Maggiore è la sua nave-casa, è dove Ruthe è nata e cresciuta –
spiegò Deelor, passandosi le dita tra i capelli fino a trasformarli in una
massa arruffata. – Lo deve aver capito non appena ha sentito la sua
canzone, ma non me l'ha detto.
– Perché?
– Perché non l'avrei mai lasciata andare a bordo. – Deelor fece un gesto
con la mano a Worf e alzò la voce per riprendere il dialogo con i Choraii. –
Vi daremo tutto il metallo che volete, ma lasciate che Ruthe torni qui.
– No, selvaggi! Questa è la sua casa. Lei ha accettato di restare se vi
davamo in cambio la piccola.
Alzandosi dalla poltroncina del capitano, Picard pose al servizio
dell'ambasciatore la sua voce profonda.
– Non accetteremo il suo sacrificio.
– Ma non è un sacrificio, capitano – gli rispose la voce di Ruthe, le cui
parole vibrarono distorte dal liquido che le riempiva i polmoni. – Sono qui
per mia scelta.
– Non ti credo! – esclamò Deelor. – Ti sei accordata per riavere la
bambina, e questo è il prezzo.
– Un piccolo prezzo – rise lei attraverso l'acqua, gorgogliando.
– Un prezzo inaccettabile – ribatté Picard, con rabbia. – I Choraii hanno
portato la morte a troppe persone, senza pensarci due volte, e senza un
rimorso. Come potremo abbandonarla e lasciarla vivere con loro?
– Ma io posso fermare i massacri. Io canterò loro le vostre canzoni! Le
canzoni di Mozart e di Beethoven e di tutti gli altri. Dimostrerò ai Choraii
che anche le bestie sanno creare musica e una volta che si renderanno
185
conto del vostro valore, impareranno a chiedere ciò di cui hanno bisogno.
– Quest'azione è troppo drastica, troppo definitiva. Ci sono altri modi
per...
– Ancora non capite. Io ho sempre desiderato tornare qui, alla mia vera
casa. Per riuscire a trovare questa nave ho tradito molti della mia razza...
ma soltanto i bambini perché sono giovani e possono dimenticare. Io ero
troppo vecchia per dimenticare e troppo giovane per morire di ricordi.
– Sta dicendo la verità? – domandò Picard all'uomo che stava immobile
davanti a lui. – È possibile che questo sia ciò che Ruthe desidera
veramente?
– Sì – mormorò Deelor, con voce roca. – Dannazione a lei, sì.
– Liberateci, selvaggi – cantò di nuovo la voce di Ruthe, più insistente. –
Abbiamo molte canzoni da cantare.
– Tenente Worf, lasci andare i Choraii – ordinò Picard a bassa voce.
Il Klingon obbedì, svincolando la Re Maggiore dalla presa del raggio
traente, e subito le luci intense e i suoni metallici del ponte da battaglia, in
precedenza soffocati dalla mancanza d'energia, ritrovarono tutta la loro
intensità.
– Non si stanno allontanando – osservò La Forge, guardando il vascello
alieno e avvicinando le mani ai controlli del timone.
Il suono di un mormorio profondo riverberò attraverso la frequenza di
comunicazione con la Re Maggiore, e le voci risonanti dei Choraii
fluttuarono in una canzone simile ad una nenia, riempiendo il ponte con la
loro musica mentre un alto soprano faceva eco alla melodia triste.
Il suono oppressivo fece nascere una certa apprensione nel capitano.
– Cosa succede?
Deelor non rispose e fu invece Data a voltarsi dalla consolle del timone.
– Credo che sia il loro modo di dire addio.
XVIII.
Il suolo di New Oregon era ancora inzuppato per la lunga pioggia, ma
l'acqua ristagnante era finalmente stata drenata dalla parte alta del terreno
anche se l'odore persistente della vegetazione che stava marcendo
mascherava ancora il profumo più dolce dei germogli. Zolle di un verde
brillante sparse qua e là promettevano il ritorno di erba e cespugli, che
sarebbero cresciuti velocemente nutrendosi del decadimento della prima
186
generazione, i venti violenti che avevano spazzato la superficie si erano
adesso ridotti a brezze leggere e un sole di mezza estate brillava alto nel
limpido cielo azzurro.
I tecnici della nave stellare avevano lavorato per riattivare i controlli
meteorologici del pianeta, mentre i Coloni si erano rimessi al lavoro con le
loro pale d'acciaio, anche se non per piantare nuovi semi di grano... adesso
una dozzina di tombe marcavano come cicatrici la loro nuova terra.
La mattina del settimo giorno sul pianeta, Patrisha portò un ramoscello
di verdi foglie primaverili sulla tomba di Krn, in attesa dei fiori che
sarebbero presto sbocciati. Quel vecchio rituale risaliva all'inizio della loro
comunità... e le era familiare visto che aveva passato la giovinezza a
visitare la tomba di sua madre. Forse quando l'erba fosse cresciuta sulla
terra ancora fresca, il suo acuto dolore si sarebbe attenuato, e lei sarebbe
andata là per abitudine e non perché ne aveva bisogno.
Patrisha alzò lo sguardo sentendo un suono di passi pesanti. Gli stivali di
suo cugino erano ricoperti di fango e le sue mani non più abituate al lavoro
erano rosse e gonfie, eppure Tomas aveva ritrovato nell'ultima settimana
un po' della sua dignità: sebbene fosse un uomo seccante era anche un
Colono, e quello era il suo posto.
– Stavo cercando Dnnys, ma ho sentito che è andato lassù – esclamò
Tomas, puntando un dito accusatore dritto verso il cielo. – Con il
teletrasporto!
– Incolpa me se devi incolpare qualcuno, perché gli ho dato io il
permesso. – replicò Patrisha, notando che le foglie del ramoscello sulla
tomba di Krn stavano già appassendo al sole.
– È andato a dire addio al suo amico.
– Il ragazzo è stato troppo tempo a bordo di quella nave – sentenziò
Tomas, più con rassegnazione che con rancore. – Credimi sulla parola, non
si piegherà alle nostre usanze, non più. Presto non sognerà altro che di
lasciare la comunità.
– Non gli chiederò di restare – affermò Patrisha, in tono quieto. Lei
stessa aveva perso la fede molti anni prima, ma era successo troppo tardi
perché si potesse forgiare una vita altrove... il suo posto era qui su New
Oregon, con la figlia di Krn, perché non aveva altro posto dove andare.
L'ultimo incontro tra Wesley e Dnnys fu pieno di disagio per molte
ragioni.
Dnnys non aveva mai avuto esperienza del trasporto molecolare, e aveva
187
sempre riso alle storie dei Coloni che raccontavano di corpi deformati dai
guasti all'equipaggiamento, ma il terrore lo aveva sopraffatto lo stesso
all'ultimo minuto, quando il raggio l'aveva catturato. Il ragazzo si
materializzò sulla piattaforma del teletrasporto pallido e con le gambe
tremanti, certo che sia Wesley, sia l'operatore alla consolle avessero notato
la sua codardia.
Da parte sua, Wesley si sentiva in colpa senza ragione per avere la
fortuna di vivere a bordo di una nave stellare. Aveva cercato di condividere
i suoi vantaggi con Dnnys, ma quando vide l'espressione cupa sul viso
dell'amico si chiese se il Colono non sarebbe stato più felice conoscendo
meno la vita che stava lasciando.
Dopo un momento di silenzio pieno di disagio, Dnnys scese dalla
piattaforma.
– Questi non mi serviranno più – mormorò in tono brusco, ficcando fra
le mani di Wesley i volumi d'ingegneria che gli ingombravano le braccia,
poi si accigliò per nascondere le lacrime che gli velavano gli occhi e si
sforzò di dare una spiegazione delle sue azioni: – Per tutta la vita io ho
vissuto senza uno zio e non posso lasciare che anche Emily faccia la stessa
fine.
– Supponevo che avessi deciso di restare – mormorò Wesley, a cui non
importava affatto la restituzione dei regali; avvicinatosi al tavolo adiacente
la consolle operativa, scambiò i libri del Colono con un'altra pila già
pronta, aggiungendo: – Perciò ti ho portato questi.
Dnnys accettò i libri senza vero interesse.
– Che cosa sono? – chiese in tono apatico. Gli sembrava che non ci fosse
alcuna utilità nel leggere qualcosa fornito da Wesley, perché la vita da
Colono gli avrebbe lasciato poco tempo per sognare.
– Le specifiche tecniche della stazione di terraformazione – spiegò
Wesley, contento di vedere l'improvviso stupore con cui l'amico stava ora
fissando i nuovi libri che aveva in mano. – Un equipaggio di riserva sta già
arrivando per ricostruire il centro di controllo, ma gli ingegneri di
terraformazione sono pochi e quindi la stazione non avrà personale a
sufficienza.
– E chiunque possa dare una mano... – cominciò Dnnys, con un accenno
di sorriso.
– ... sarà il benvenuto – terminò Wesley, rispondendo al suo sorriso.
Non rimaneva altro tempo per parlare.
– Stiamo per lasciare l'orbita – annunciò l'operatore del teletrasporto. –
188
Ora deve andare.
Dnnys salì di nuovo sulla piattaforma, stringendo al petto i suoi libri;
mentre il sibilo del teletrasporto si alzava di tono, gli venne in mente
un'ultima, urgente domanda.
– Quanto durerà lo stadio finale del processo di terraformazione?
– Una vita intera – gli gridò Wesley. Poi il suo amico scomparve.
I vascelli che navigavano per mare dovevano uscire dal porto seguendo i
capricci della marea, ma l'Enterprise poteva lasciare New Oregon quando
lo avesse deciso il capitano e Picard scelse di abbandonare l'orbita allorché
le luci interne della nave si abbassassero a simulare il tramonto del sole.
– Attivazione – ordinò, appoggiandosi ai contorni imbottiti della sua
poltrona di comando. Vista l'ora tarda, altri capitani avrebbero potuto
delegare questo compito al loro primo ufficiale, ma nessuna partenza era di
routine per Picard che era sempre presente quando la sua astronave
lasciava l'orbita di un pianeta.
Scelse quindi di restare in plancia ancora per qualche minuto,
assaporando la promessa di un'avventura che si apriva davanti a loro come
ad ogni nuovo inizio, e si trovò così ad ascoltare la discussione scherzosa
nata tra il Consigliere Troi e Will Riker, che si stavano scambiando una
serie di frecciatine amichevoli.
– Un convegno non è un evento mondano – spiegò Troi. – L'incontro
serve per importanti scopi professionali.
– Già, come ad esempio scoprire quanti psicologi ci stanno in un
teletrasporto? – ribatté Riker.
Il suo commento fece scattare una risata soffocata sulla parte poppiera
della plancia, da dove Tasha stava ascoltando la conversazione.
– Deanna, ti ho visto fare le valige per il viaggio e alcuni dei vestiti che
hai scelto...
– Zitta Tasha! – esclamò Troi, in tono brusco.
Picard scambiò un sorriso con il primo ufficiale, stando bene attento a
dare le spalle al consigliere... sfortunatamente per lui, però, Troi percepì lo
stesso il suo divertimento.
– Se vuole scusarmi, capitano – disse, con studiata cortesia, – devo fare
altri preparativi per il mio viaggio.
Il sorrisetto di Riker svanì leggermente quando il consigliere si alzò per
andarsene.
– Deanna stavo solo scherzando.
189
Lei si voltò e Picard si chiese quale rappresaglia si nascondesse dietro il
suo sorriso innocente.
– Se la memoria non m'inganna, tu hai avuto esperienza diretta nel
determinare quanti ufficiali ci stanno in una navetta – ribatté, uscendo
dalla plancia e lasciando che l'attenzione rimanesse focalizzata su Riker.
Picard non riuscì a resistere alla tentazione di punzecchiare Riker e alzò
un sopracciglio in maniera interrogativa, osservando il suo primo ufficiale
contorcersi sulla poltroncina.
– È stato un esperimento per le procedure di evacuazione d'emergenza –
spiegò Riker, riuscendo a mantenere il viso composto, ma non poté evitare
che le sue orecchie si colorassero di rosso. – Il risultato è dodici.
Data si voltò dalla sua consolle operazioni per guardarlo in faccia.
– Se l'obiettivo dell'esercitazione era determinare la densità massima di
passeggeri, allora anche il modello più piccolo di navetta può contenere
molto più di dodici persone.
– Sì, ma in quel momento eravamo riusciti a trovare solo dodici primi
ufficiali in licenza su Mardi Gras e abbiamo dovuto riempire gli spazi
vuoti con alcuni locali.
– Era su Mardi Gras? – chiese Picard, ripensando alle sue esperienze di
licenza su quel particolare pianeta. – È certo che Data sia abbastanza
cresciuto per sentire il resto della storia?
– Signore? – fece l'androide, piuttosto confuso dal commento del
capitano, e la risata di Geordi ebbe soltanto l'effetto di aumentare la sua
perplessità.
Il sorriso di Riker si allungò fino a toccargli le orecchie.
– Ecco, Data ha espresso curiosità per le relazioni interpersonali umane,
capitano. In che altro modo potrà imparare?
– Allora prego, Numero Uno, continui pure – incitò Picard. – E non è un
invito... è un ordine!
Come ufficiale medico capo, Crusher era responsabile per la scelta del
personale dell'infermeria ed era orgogliosa di essere riuscita a mettere
insieme il personale migliore per l'Enterprise. Essere assegnati ad una
nuova nave era spesso considerato un premio, molto ambito soprattutto dai
dottori e dagli infermieri della Flotta Stellare, e per questo il ricambio era
piuttosto basso nel suo dipartimento. Nonostante questo, la nervosa
internista che era di fronte alla sua scrivania stava chiedendo un
trasferimento.
190
– Come hai saputo degli altri bambini? – chiese Crusher, con la voce
intrisa di disappunto: la partenza di Lisa Iovino dall'infermeria, infatti,
avrebbe rappresentato una vera perdita. – Non ha importanza... non ha
davvero importanza.
– Posso raggiungerli? – insistette Iovino, per niente sicura sul luogo
dove stava chiedendo di essere mandata. Tutto ciò che le importava era che
ci fossero i bambini.
– Sì – sospirò Crusher, ammettendo con se stessa che i bambini di
Hamlin avevano molto bisogno dell'internista mentre l'equipaggio della
nave stellare poteva farne a meno. – Sono certa di poter organizzare il tuo
trasferimento nel posto appropriato e le autorità della Base Stellare Dieci ti
diranno dove sarà la tua destinazione finale – confermò. L'Ambasciatore
Deelor le doveva almeno quello.
– Grazie, Dottoressa Crusher – esclamò Iovino, un po' disorientata dalla
velocità con cui la sua vita si stava allontanando dalla rotta prestabilita. –
Non ho mai pensato di occuparmi professionalmente di bambini, ma questi
sono...
– Lisa! – L'urlo proveniente dalla corsia medica fu seguito da un terribile
schianto. – Lisa?
– Stava dormendo! – si giustificò l'internista, oltrepassando di corsa la
porta. – Gli ho insegnato a camminare, ma adesso sta imparando ad
arrampicarsi!
Sorridendo ancora per le distruttive esplorazioni del turbolento Mosè, la
Dottoressa Crusher uscì dall'infermeria per una visita attesa da tempo. Suo
figlio, che non era più un bambino ma neppure un adulto, la incontrò
all'ingresso del ponte ologrammi; oltre le porte, lei poté scorgere un cielo
al tramonto striato di magenta e di blu, ma la luce rimasta era comunque
sufficiente per una passeggiata sulle colline ondulate.
– Quando c'erano gli animali era ancora più bello – spiegò Wesley,
mentre lui e sua madre si avvicinavano al primo steccato. La fattoria aveva
ora l'aspetto di una città fantasma, come se uno stregone avesse fatto un
incantesimo addormentando l'intera valle.
Beverly respirò profondamente e inalò l'aria dolce mentre vecchi ricordi,
messi da parte dalla sua vita con Jack e dalla carriera nella Flotta, presero
vita.
– Oh, riesco a immaginare com'era. In fondo sono nata su una colonia
agricola.
Suo figlio aprì un cancello di legno e dopo che entrambi lo ebbero
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oltrepassato lui indugiò a richiuderlo, anche se nessuna pecora poteva
scappare. In piedi nel mezzo del recinto principale ormai vuoto, Wesley le
indicò il luogo dove stavano i maiali e la stia dei conigli. Il gocciolare
della pompa dell'acqua risuonò forte appena lui smise di parlare.
Massaggiandosi soprappensiero un callo cresciuto sulla mano per aver
dovuto pompare l'acqua ai cavalli, Wesley cercò di capire il senso di tutte
quelle fatiche.
– Non vedo perché i Coloni abbiano scelto di vivere in questo modo. Lo
scopo della tecnologia è di risparmiare alle persone la necessità del duro
lavoro e di dar loro il tempo di fare altre cose.
– Sì, credo di sì – mormorò Crusher. – Ma io posso capire la loro
riluttanza a usare macchinari complicati. La gente del mio pianeta natale
avrebbe sofferto molto meno se non fosse dipesa così tanto dalla
tecnologia. Quando l'equipaggiamento essenziale si guastò, si trovarono
impotenti e i superstiti furono costretti a imparare da soli i vecchi metodi,
senza maestri – spiegò. La devastazione su Arvedda III era avvenuta prima
che lei nascesse, ma sua nonna le aveva tramandato i ricordi di quegli anni
terribili.
– Non ci avevo mai pensato – mormorò Wesley.
Passeggiarono in silenzio finché, facendo il giro completo del ponte
ologrammi, giunsero di nuovo all'ingresso. Dopo un'ultima occhiata ai
campi ormai scuri, Wesley disattivò il programma.
Picard attraversò l'ingresso della sala d'osservazione e poi si fermò nel
vedere una figura che si stagliava in controluce davanti ai grandi oblò. La
sagoma della persona gli era familiare:
– Alzata a tarda notte, Dottoressa Crusher... di nuovo una chiamata per il
primogenito di T'sala?
– No, stavo soltanto rimuginando – replicò la donna, sorridendo, quando
Picard le si avvicinò. – Attento, il mio umore potrebbe essere contagioso.
– Rischierò.
– Stavo pensando a Ruthe – cominciò Crusher. – È vissuta tra gli Umani
per gli ultimi quindici anni... Jean-Luc, e se per lei fosse troppo tardi per
tornare alla vita con i Choraii?
Picard sentì i muscoli della nuca e delle spalle che gli si contraevano
sotto il peso della domanda.
– Allora non avrà nessun posto dove andare – replicò; la tristezza di
quell'affermazione lo sovrastò per un momento, poi scosse la testa e si
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corresse: – No, non è esatto. Dovrà imparare a vivere in entrambi i mondi.
– Questo è quello che stiamo facendo noi qui a bordo dell'Enterprise –
sottolineò la dottoressa, estendendo il concetto più di quanto fosse stata
intenzione di Picard. – Abbiamo lasciato le nostre case e scelto di
diventare vagabondi, come i Choraii.
– Però siamo un po' meno sanguinari – puntualizzò lui, in tono secco. –
Comunque sono d'accordo sulla similitudine – annuì poi. Il confronto lo
aiutò anche a mettere a tacere l'ultimo dei dubbi che la partenza di Ruthe
aveva sollevato in lui. – Hai finito di rimuginare, Beverly?
– Sì, certo.
– Bene. Allora ti divertirà sentire una delle avventure del nostro primo
ufficiale – continuò Picard. La storia avrebbe certamente fatto il giro della
nave entro il giorno successivo e il capitano voleva avere l'occasione di
raccontarla di persona, almeno una volta.
Andrew Deelor non aveva dormito, ma attese fino alle prime ore del
mattino per mettere da parte la coperta e alzarsi dal letto. Anche se non
aveva fame preferì andare a cercare del cibo piuttosto che restare ancora là.
Raccolto il mantello sdrucito che gli aveva fatto da coperta, si diresse
verso la porta dell'alloggio.
Mentre attraversava la suite riservata ai passeggeri si accorse che Ruthe
non aveva lasciato nessuna impronta al suo interno. Le sue uniche
proprietà erano state il mantello e il flauto che aveva lasciato cadere sul
pavimento della sala teletrasporto, e lui aveva regalato il flauto alla piccola
dei Coloni: i bambini rapiti dalle navi Choraii sviluppavano un eccezionale
talento musicale, e forse anche il poco tempo passato con loro avrebbe
avuto qualche effetto su Emily. Adesso tutto ciò che gli rimaneva di Ruthe
era il liso indumento che teneva tra le mani con una traccia di aroma di
cannella ancora intrisa nelle sue fibre.
Deelor infilò il mantello grigio nel condotto dei rifiuti e lasciò l'alloggio
con le mani vuote: viaggiava leggero e il peso del mantello di Ruthe era
più di quanto potesse sopportare.
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