102 Capitolo 16 Addio Valparaiso. Non avevo mai creduto, in cuor

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102 Capitolo 16 Addio Valparaiso. Non avevo mai creduto, in cuor
Capitolo 16
Addio Valparaiso. Non avevo mai creduto, in cuor mio, che davvero sarei potuto finire sulle coste
cilene. Non era per quello che avevo percorso tanta strada.
Il giorno prima che la Reine Blanche liberasse la baia dalla sua cupa presenza, la nostra
destinazione cambiò ancora. Fummo radunati sul ponte, caricati su una barca e condotti a terra
sotto scorta armata. Il console Wilson aveva deciso che non poteva fare a meno di noi. Forse gli
eravamo troppo simpatici. Forse (questa era l’ipotesi più probabile) ora che i veri padroni di Tahiti
erano i francesi, si aggrappava a tutto per dimostrare di esercitare ancora un certo potere. Così
aveva sfruttato la voce che i marinai di passaggio sull’isola, i beach-combers sfaticati e ubriaconi
in attesa di imbarco, erano la principale minaccia per la sicurezza dei residenti stranieri: i più
pericolosi criminali erano poi gli ammutinati della Julia, ma per fortuna c’era ancora lui a
difendere i missionari inglesi e le loro rispettabili famiglie. Era lui, non i francesi, il caposaldo
nella tutela dell’ordine pubblico.
Dunque misi finalmente piede a terra, anche se non era proprio così che avevo sognato di
sbarcare a Tahiti. Ma cominciavo a pensare che il mio destino in Polinesia fosse di conoscerla in
veste di prigioniero. Meglio comunque prigioniero di un console esautorato che di una tribù di
cortesi cannibali, mi dissi per consolarmi, anche se erano più simpatici i secondi del primo.
Wilson in persona ci diede il benvenuto sull’isola e ci consegnò a un drappello di indigeni
armati, incaricando il loro capo di tenerci sotto sorveglianza. Con il console sfoderammo un
contegno deciso e quasi sprezzante, che ci guadagnò le simpatie della scorta. Mentre marciavamo
in fila per un ampio sentiero che si snodava in mezzo a boschetti di cocco e alberi del pane, i
tahitiani che ci guidavano ci fecero capire che erano al corrente della nostra storia e che godevamo
della loro approvazione, perché anche a loro Wilson era insopportabile.
Rinfrancato da quella inaspettata solidarietà, mi misi a osservare lo splendido paesaggio in
cui ci inoltravamo. Il lungo giorno tropicale stava volgendo al termine e, da dove ci trovavamo, il
sole appariva come un grande fuoco rosso fra i boschi, i suoi raggi si facevano strada di striscio fra
gli intrichi dei rami e sembrava che ogni foglia avesse l’orlo in fiamme.
Il sentiero era l’esatto contrario di quello che scendeva faticosamente per l’aspra valle dei
Tai’pi. Questo era pittoresco, comodo, ampio, con solidi ponti di legno gettati sui torrenti che lo
tagliavano e in alcuni casi con ponti in pietra a una sola arcata. Lo avrebbero potuto percorrere tre
uomini a cavallo affiancati. Più che un sentiero lo si poteva definire un vero e proprio viale, e
venni a sapere in seguito che dagli stranieri residenti sull’isola era chiamato Strada delle Ginestre.
Non ho mai capito perché venisse chiamato così, dal momento che, fra tante varietà di fiori, di
ginestre non ne cresceva mezza.
Mi spiegarono che all’inizio lo scopo per cui era stata costruita era permettere lo
spostamento dei missionari da un villaggio all’altro: ormai la usavano anche i tahitiani, per quanto
il loro mezzo di trasporto preferito rimanesse la canoa. Costeggiava un buon tratto dell’isola e
nell’arco di pochi anni avrebbe potuto girarla tutta: i lavori procedevano ancora, ed erano lavori
forzati. A svolgerli erano gli indigeni condannati per qualche reato dal tribunale locale. Per fortuna
non eravamo indigeni.
La Strada delle Ginestre si snodava per chilometri e chilometri fra boschi pianeggianti,
pendii erbosi e valli ricoperte di palme, in uno scenario sempre nuovo, con la vista del mare da un
lato e le cime dei monti che lo sovrastavano dall’altro.
Quella prima volta ne percorremmo un tratto breve. L'indigeno che guidava il gruppo ci
indicò un grande edificio di forma ovale su una specie di balconata naturale, vicino a un invitante
corso d’acqua. Il tetto era coperto di paglia di un bianco candido: il tetto era anzi l’edificio, che da
vicino si rivelò un semplice guscio senza pareti, aperto ai quattro venti.
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— Calabusa! Calabusa biritani! — esclamò l’indigeno. Intendeva dire “prigione inglese”
e mi meravigliai che i tahitiani storpiassero a modo loro la parola calabozo, importata dalle colonie
spagnole del Sudamerica, dove indicava le carceri sotterranee, le segrete.
Di quella lontana origine doveva essere anche lo strumento che scoprimmo sotto la tettoia
ovale, e che non poteva passare inosservato perché ne costituiva l’unico arredo: la gogna.
— Ma... non sarà per noi! — esclamò Long Ghost, e anch’io osservai a occhi sgranati le
due massicce travi di legno disposte per terra l’una sopra l’altra, costa a costa, con in mezzo una
fila di fori a distanza regolare.
— Una gogna! Ma non la usa più nessuno! Andava bene al tempo dei pirati! Per chi ci
hanno preso? — continuò a strillare il mio amico. — Non vorranno tenerci con i piedi infilati lì
dentro come... come...
Mi guardò allibito, incapace di terminare la frase.
— Quadri in cornice? — suggerii.
Ci fissammo per un attimo increduli, poi scoppiammo a ridere tutti e due assieme. Fu una
risata che per qualche corrente invisibile si trasmise ai nostri compagni e finì per contagiare gli
stessi carcerieri.
Di buon umore era soprattutto il caposquadra, un tahitiano grosso come un armadio che
disse di essere conosciuto come Capin Bob, ossia capitan Bob. Per quanto pronunciasse una parola
inglese ogni dieci, era così comunicativo e istintivamente simpatico che riuscì subito a farsi capire,
e ci sottoponemmo allegramente alla sua autorità.
Capitan Bob ci fece raccogliere grandi bracciate di foglie secche da stendere dietro la
gogna a mo’ di giaciglio, mentre un supporto di legno di cocco costituiva il materasso vero e
proprio, secondo una usanza indigena alla quale le ossa dei marinai, per quanto temprate dalle
cuccette di bordo, avrebbero fatto fatica nei giorni seguenti ad adattarsi.
Al termine di questi preparativi passò a hennipae, cioè ad assicurarci per la notte: ci fece
sdraiare in fila dietro la gogna, sollevò la trave superiore, ci indicò di disporre le caviglie nelle
tacche semicircolari, riabbassò il legno e lo fissò all’altro con un apposito ferro. Tutta questa
operazione si svolse in mezzo alla chiassosa allegria degli indigeni, e per la verità anche noi
prigionieri continuavamo a divertirci parecchio.
Capitan Bob si dava da fare come una nonna che mette a letto i bambini. Cenammo a base
di taro, una specie di rapa cotta in forno, quindi sulla fila dei detenuti furono stesi alcuni copriletti
di ruvida tapa marrone. Ci fu raccomandato di fare moi-moi e di essere maitai, cioè di metterci
subito a dormire e di fare i bravi ragazzi, poi fummo lasciati soli, comodi nei nostri lettini e con le
coperte rimboccate.
Se quella prigionia era iniziata come una farsa, come la caricatura di una detenzione, nei
giorni seguenti assunse sempre più i toni di una vera e propria vacanza, tanto che la calabusa
biritani fu ribattezzata dai suoi stessi ospiti Hotel de calabusa. Il forzato riposo giovò a tutti e
anche le condizioni degli infermi migliorarono.
La scomodità maggiore era costituita dalla gogna, che per alcuni giorni ci costrinse a una
forzata immobilità. Ma il tempo passato con i piedi “in cornice” si ridusse progressivamente. Al
mattino di buon’ora capitan Bob arrivava a darci la sveglia, salutandoci a gran voce quando era
ancora distante. Ci liberava e ci portava al ruscello, ordinandoci di spogliarci e di lavarci.
— Due mani, ragazzo, hen-hen, lavarsi! — gridava, hands hands, facendo sfoggio del suo
inglese fantasioso. Lo aveva imparato nel corso di un paio di crociere a bordo di una baleniera
britannica, come teneva a far sapere.
Eravamo soli con lui e sarebbe stato un gioco da ragazzi darsela a gambe. Ma Bob non
sembrava mai sfiorato da una simile eventualità e ci trattava anzi in modo così franco e cordiale
che l'idea di fuggire ci avrebbe fatto arrossire di vergogna. D’altra parte non era ingenuo come
sembrava. Fuggire si poteva, ma dove? Non sui monti, parola mia! Ogni tentativo di fuga sarebbe
stato destinato al fallimento, se non avessimo saputo prima come lasciare l’isola.
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Dopo il bagno, Bob ci riportava in “prigione” e ci rimetteva in ceppi, quasi con le lacrime
agli occhi all’idea di infliggere una simile punizione a bravi ragazzi come noi. D’altra parte non
poteva fare altrimenti - si scusava - per non avere guai con il console.
Dalla Julia ci portavano scarse razioni di gallette secche; per fortuna scoprimmo che gli
indigeni ne erano ghiotti - quanto più erano dure, tanto più le gradivano - e si avviarono
vantaggiose forme di baratto con prodotti locali: il solito taro e i soliti frutti dell’oru cotti al forno,
un menù non molto variato, ma sempre meglio del pane raffermo.
Il resto della giornata sarebbe trascorso nell’ozio se a spezzarne la monotonia non ci
fossero state le processioni di visitatori. Sfaccendati e curiosi di natura, gli indigeni non
mancavano di trascorrere un’oretta o due all’Hotel de calabusa, quando passavano da quelle parti.
Non parlavano tanto con noi, ma di noi, con una eccitazione di cui non capivo la ragione. Chissà
che cosa trovavano di tanto entusiasmante nello spettacolo. Le più interessate erano le donne, che
si scambiavano raffiche di indecifrabili commenti sul nostro conto e spesso ci ridevano in faccia.
A me quella situazione ricordava il mio arrivo fra i Tai’pi, quando tutti erano venuti in
massa a vedere i due prigionieri dalla pelle chiara, e mi ero ritrovato con Toby al centro
dell’attenzione soprattutto femminile. Di conseguenza, visto che non era una novità, ero il più
disinvolto del gruppo di fronte agli esami a volte impietosi delle tahitiane. Quanto a disagio, il
primo premio poteva essere assegnato al dottor Long Ghost che, per non mostrarsi imbarazzato, di
fronte al pubblico femminile cercava di darsi un contegno, si portava una mano alla fronte e
assumeva pose da malinconico eroe romantico.
Il momento di maggiore crisi per Long Ghost fu quando nella calabusa irruppe una ragazza
di una bellezza selvaggia e provocante, che cominciò a passare in rassegna uno dopo l’altro i goffi
prigionieri con risate soffocate.
Long Ghost, evidentemente colpito da quella visione, chiamò a raccolta tutte le sue doti di
seduttore: assunse un atteggiamento aristocratico, socchiuse le palpebre, sospirò, non so che altro
fece. Quando venne il suo turno riuscì a scoccarle un sorriso.
La ragazza scoppiò in uno scroscio di risa e corse via. Poveretto, si vedeva che non aveva
mai subito un simile scacco. Non ebbi il coraggio di dirgli niente.
Mentre i visitatori ci esaminavano, io mi preoccupavo soprattutto di esaminare i visitatori.
La prima cosa che mi colpì fu che erano vestiti. Ero così abituato a vedere donne e uomini con una
striscia di tapa o una cintura di foglie attorno ai fianchi che mi sorpresi di quell’abbondanza di
tessuto drappeggiato in larghe tuniche, assieme a castigati costumi di foggia europea e ad autentici
capi di abbigliamento occidentale, come giubbe e berretti da marinaio.
In secondo luogo, pur senza ricredermi sulla rinomata bellezza della gente di Tahiti, non
potevo non notare il gran numero di persone dall’aspetto sofferente o dalle membra colpite da
malattie deformanti. Molti erano i casi di fa-fa, una malattia locale di origine alimentare che faceva
gonfiare le gambe e i piedi in maniera mostruosa, rendendo difficile camminare. Ma non era del
fa-fa la responsabilità dei maggiori danni.
I contatti fisici con i bianchi avevano diffuso malattie che colpivano gli indigeni con
particolare violenza. Erano malattie che già nella civile Europa mietevano vittime. Nelle isole dei
Mari del Sud, poi, affrontate con i rimedi locali, si diffondevano sempre più, con esiti catastrofici.
Erano attaccati il sistema nervoso, le ossa e i muscoli; in particolare era la schiena a subire
deformazioni impressionanti. Fra i Tai’pi non avevo notato niente di simile e mi augurai che fosse
ancora lontano per loro il momento di fare quella triste conoscenza.
Belli o brutti che fossero, sani o malati, educati o impertinenti, i nostri visitatori ci tenevano
comunque in grande considerazione. Quando si rivolgevano a noi era per assicurarci che stavano
dalla nostra parte e per scagliarsi contro il console Wilson, che era ita maitai nai, espressione che
si sarebbe potuta tradurre con “estremamente molto pessimo”.
Non so quanti di loro si fossero resi conto del cambio della guardia, per cui in futuro
avrebbero avuto altri padroni. Fatto sta che con il console inglese avevano conti in sospeso, e che i
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nemici del console erano amici loro. Così, di volta in volta, ci sentivamo considerati come
fenomeni da baraccone o eroi.
Proprio per quello, di lì a pochi giorni capitan Bob abolì del tutto la gogna e ci lasciò liberi
di muoverci come volevamo, purché rimanessimo a portata di voce. Questo significava trasgredire
apertamente gli ordini di Wilson e l’unica preoccupazione di Bob era che il console lo venisse a
sapere.
Degli indigeni ci si poteva fidare, ma per la Strada delle Ginestre passavano anche i
residenti stranieri e qualcuno poteva fare la spia. Così fu predisposto un sistema di allarme a
distanza che mi ricordava su scala ridotta il telegrafo vocale dei Tai’pi: una fila di ragazzi del
posto, collocati lungo la strada in postazioni strategiche, pronti a gridare a ogni bianco che si
avvicinasse. A quel segnale, noi correvamo a hennipae.
Dato che finalmente godevo di una relativa libertà di movimento, decisi di iniziare le
ricerche di Toby. A quanto mi risultava, aveva lasciato Nuku Hiva per inseguire per chissà quale
ragione la Reine Blanche, e io avevo per puro caso ritrovato la sinistra sovrana nel porto di
Papeete. Era sufficiente per concludere che c’era anche lui? Come potevo escludere che Toby si
fosse fermato a qualche scalo intermedio? O che fosse già ripartito da Tahiti magari per
raggiungere l’isola di Tiarmoa, di cui mi aveva tanto parlato?
La notizia del cosiddetto “ammutinamento” della Julia e della nostra detenzione aveva fatto
il giro di Tahiti, a giudicare dal numero di visitatori. Se Toby si fosse trovato da quelle parti, la
notizia sarebbe arrivata anche alle sue orecchie e me lo sarei già visto comparire davanti.
Al momento di iniziare le ricerche, quindi, nutrivo già qualche dubbio sulla possibilità di
ritrovare l’amico, ma non me ne preoccupavo più di tanto. Avrei fatto tutto il possibile, ma se
anche non avessi scoperto nulla, non mi sarei disperato. Non voglio dire che di Toby non mi
importasse più come prima: avrei sì voluto rivederlo, non foss’altro che per ringraziarlo di avere
organizzato la spedizione. Continuavo a considerarlo il mio migliore amico ma, per essere sincero,
pensavo a lui sempre più di rado.
Mi ricordavo certi giorni nella valle dei Tai’pi, giorni lunghissimi in cui il tempo sembrava
non scorrere più, io ero immobilizzato nella capanna di Marheio e disperavo di poter mai spiccare
il volo da quella gabbia dorata. In quei momenti Toby mi veniva in mente mille volte, mi chiedevo
e richiedevo se ce l’avesse fatta, come mai non avesse più dato segno di vita, come mai non fosse
tornato, me lo immaginavo senz’altro libero, in giro per il mondo, beato lui...
Com’erano lontani quei giorni, come mi sentivo diverso! Assieme alla libertà avevo
ritrovato una leggerezza di spirito e un equilibrio che fra i Tai’pi mi erano mancati. I mesi trascorsi
fra loro erano stati un oscillare fra abissi di disperazione e picchi di felicità. Ora non toccavo più
quegli estremi, mi mantenevo a mezz’aria, in uno stato di perenne contentezza che della vita mi
permetteva di gustare tutto, anche le piccole cose; non erano riuscite a scalfirlo né le difficoltà del
viaggio, né le peripezie dello sbarco e dell’attuale “prigionia”.
Alla mia avventura fra i Tai’pi non pensavo più, quasi più, come se su quei mesi fosse
calato un sipario. E quando mio malgrado quel sipario si scostava per un attimo e da dietro si
affacciava un volto, non era quello di Toby.
Comunque iniziai le ricerche, mosso soprattutto da un puntiglio, dall’esigenza di comporre
un mosaico di cui possedevo solo alcune tessere. La prima persona a cui mi rivolsi fu naturalmente
capitan Bob, che a Papeete dava l’idea di essere un personaggio di spicco, e non solo per la mole.
La sua attività principale erano le relazioni pubbliche. Mentre si occupava della calabusa
chiacchierava con tutti quelli che passavano per la Strada delle Ginestre. Lavorare per il console
inglese non occupava del resto molto del suo tempo e quanto al suo campo di taro, Bob lo
coltivava secondo l’uso locale, andando di tanto in tanto a gettarvi un’occhiata per vedere se le
rape crescevano.
Una mattina, dopo il bagno, gli feci dunque una descrizione accurata di Toby, gli spiegai
che era un marinaio del mio paese e che lo stavo cercando.
Bob parve riflettere a fondo. — Sì, io conoscere. Io ragazzo quando capin Cuchi arrivare.
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— Capin Cuchi? Chi è questo capin Cuchi? — domandai perplesso. — Il mio amico si
chiama Toby...
Long Ghost, che era presente, mi consigliò di lasciar perdere.
Bob intanto annuiva vigorosamente. — Capin Cuchi bravo uomo. Maitai taio. Molto
amico. Conoscere anche mia moglie. Lui arrivato grande nave...
Rimasi senza parole quando compresi che il misterioso capin Cuchi era niente meno che il
capitano Cook. Bob forse aveva capito che chiedessi notizie sul conto del celebre navigatore e me
le stava fornendo, anche se in modo poco attendibile.
— Ma che cosa m’importa del capitano Cook? — protestai. — Long Ghost, cerca di fargli
capire...
— Non insistere, ti ripeto, non ne caverai niente...
— E poi com’è possibile che il nostro ospite lo abbia conosciuto? Mi risulta che Cook sia
passato da queste parti una settantina di anni fa. Lui non era ancora nato.
Visto che non la bevevo, Bob si corresse e spiegò che era stato suo padre a conoscere capin
Cuchi. Questo era già più plausibile. Quanto a Toby, la conversazione divenne così ingarbugliata
che seguii il consiglio di Long Ghost.
— Non te l’ha detto nessuno? — mi spiegò il mio lungo compagno. — Qui a Tahiti, a
qualunque domanda faccia un bianco, rispondono tutti tirando in ballo il grande James Cook, che
poveretto non c’entra niente. Tutti vantano una conoscenza personale con Cook e se gli dai retta
non la smettono più di infilzare storielle campate in aria.
— Ma perché hanno la mania di Cook?
— Per la verità, sospetto che a loro non importi nulla. Lo fanno solo per essere cortesi e per
mettere a proprio agio lo straniero. Credono che siamo noi ad avere la mania di Cook.
— Ma non si accorgono che i conti degli anni non tornano?
— Figurati! Mesi o anni per i polinesiani non fanno differenza. Per loro questo non è un
problema.
La nostra conversazione fu interrotta dal grido di un ragazzo di vedetta, per cui ci
affrettammo a tornare nella calabusa a “incepparci”.
— Che seccatura. Chissà chi sta arrivando? — brontolò Long Ghost.
— Forse il capitano Cook — brontolai a mia volta.
Fu Bob a tradurre il messaggio delle sentinelle.
— Dottore arriva!
Improvvisammo espressioni di sofferenza.
In effetti, quello che entrò sotto la volta di paglia della nostra prigione era proprio un
medico, lo si capì da come ci scrutò ancor prima di presentarsi: sembrava che ci stesse già
visitando.
— Signori, sono il dottor Johnson e ho ricevuto dal console Wilson l’incarico di verificare
le vostre condizioni di salute. Come sapete, la Julia sta per riprendere il mare e se qualcuno di voi
riuscisse a recuperare le forze, potrebbe imbarcarsi di nuovo.
Se qualcuno riuscisse... potrebbe... Dunque il medico non dava per scontato che eravamo
sani come pesci, al massimo con qualche convalescenza in corso. Dall’uno all’altro corse una
occhiata di intesa e nel giro di qualche secondo ci trasformammo da detenuti sofferenti in
moribondi. Non eravamo grandi attori, ma il dottore sembrò convinto dalla nostra interpretazione.
— Bene, bene. Cominciamo subito con le visite. Mi dica, lei che è così accasciato, non
riesce almeno a mettersi a sedere? Come si sente?
Navy Bob, l’interpellato, rispose con un gemito:
— Dottore, mi sento come uno che fra poco perderà il turno del rancio!
— Che cosa? — chiese Johnson disorientato.
— Ma sì! — esclamò Flash Jack, offrendosi spontaneamente come interprete. — È un
modo di dire di noi marinai. Vuol dire che è arrivato alle lische.
— Alle lische?
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— Già, sta per tirare le cuoia!
— Esalare l’ultimo respiro — intervenni per chiarire al medico il concetto.
— Oh! — Lui scavalcò la gogna e si chinò a tastare il polso di Navy Bob. — Ragazzi,
prendetevi cura di questo poveretto. Domani mattina gli manderò subito delle medicine e un foglio
con le istruzioni. Qualcuno di voi sa leggere?
— Quel tipo là sa leggere! — sospirò Navy Bob indicandomi come se fossi una vela
all'orizzonte.
Il medico continuò le visite e prese appunti su un taccuino. Alla fine se ne andò dicendo
che avrebbe fatto per noi tutto quanto era in suo potere.
Quando si fu allontanato, ci congratulammo a vicenda per le nostre doti teatrali. Non ci
voleva molto a capire il gioco del dottor Johnson. Wilson lo aveva incaricato di “verificare le
nostre condizioni di salute”. Se fosse andato a riferirgli che erano buone, il suo compito sarebbe
finito lì. Trovandoci malati e debilitati, invece, poteva continuare a curarci con visite frequenti e
medicine da lui stesso preparate. A pagamento, era ovvio. Dopo tutto eravamo affidati alla
custodia del console inglese, il quale per casi simili aveva a disposizione fondi che sarebbe stato
sciocco lasciare inutilizzati.
Così il mattino dopo di buon’ora ci si presentò un ragazzo del posto con un cestino pieno di
polverine, scatolette di pillole e fiale, con tanto di nome dei destinatari e istruzioni per l’uso. Long
Ghost fece valere la propria carica di ex medico di bordo e volle a tutti i costi leggere le istruzioni
e distribuire le cure.
— Ecco, Navy Bob, questo è per te. C’è scritto frizionare.
Navy Bob aprì la fiala, l’annusò, sentì profumo di alcool e senza pensarci due volte se la
scolò. Longh Ghost lo guardò allibito:
— Ehi, ho detto frizionare!
L’Hotel de calabusa si animò di colpo. Tutti si avventarono su fiale e flaconi, mentre
pillole e polverine venivano messe da parte assieme ai bigliettini con le istruzioni. Qualunque cosa
questi ultimi prescrivessero, i pazienti del dottor Johnson scelsero l’assunzione di rimedi liquidi
per via orale. Long Ghost sospettò che il bravo medico, conoscendo i soggetti, avesse di proposito
corretto il gusto dei medicamenti con opportune dosi di liquore. La più ambita fu una boccetta con
la scritta Per Daniel, bere a volontà, fino a ottenere un miglioramento. Il vecchio Black Dan
avrebbe eseguito alla lettera la prescrizione, se la medicina non gli fosse stata strappata di mano e
avesse fatto il giro dell’intero reparto. Il contenuto aveva il sapore del brandy bruciato e il
miglioramento fu generale.
Capito il trucco, nei giorni seguenti ci sottoponemmo di buon grado alle visite di controllo
del dottor Johnson, accusando ora questo ora quel disturbo. Il medico si meravigliò solo che
nessuno prendesse né pillole né polveri; a quel punto intervenne Long Ghost che, da collega a
collega, fece notare che quei rimedi, allo stato puro, davano problemi di stomaco e che la loro
assunzione sarebbe stata facilitata da un liquido adatto. Johnson ammise che non aveva torto e da
allora in poi nel cestino dei medicinali non mancò una bottiglia di pisco.
Per due settimane il compiacente medico rappresentò l’unico legame che mantenemmo con
le autorità locali, poi anche il dottor Johnson non si fece più vedere e rimanemmo abbandonati al
nostro destino. Il console Wilson parve dimenticarsi di noi e né Guy, né Jermin si degnarono mai
di venire a farci visita. Del resto non sarebbero stati accolti con esclamazioni di gioia.
Tutto quello che ci arrivò dalla Julia furono i bauletti, le cassette e i sacchi con gli
indumenti e gli effetti personali che avevamo lasciato a bordo al momento di passare sulla Reine
Blanche. Per l’esattezza, io a bordo non avevo lasciato niente di mio: vi avevo messo piede senza
bagagli e addirittura senza vestiti. Per consuetudine marinaresca, però, essendo l’ultimo arrivato,
avevo ereditato i bauletti dei due uomini morti in mare, quindi avevo anch’io il mio corredo.
In seguito alla consegna capimmo che la baleniera aveva trovato un nuovo equipaggio e si
accingeva a riprendere il mare. La cosa ci diede un enorme sollievo.
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Il corteo di indigeni con casse e bauli in spalla, snodandosi dalla spiaggia fino all’Hotel de
calabusa, concentrò su di noi l’attenzione degli abitanti di Papeete. Ci ritrovammo riveriti come
principi e scoprimmo così che i tahitiani impazzivano per oggetti di quel tipo.
All’inizio i bauli furono allineati nel locale e il vecchio Bob dichiarò con orgoglio che la
calabusa era diventata la sala più elegante dell’isola. Per vari giorni, anzi, vi si tennero le udienze
del tribunale indigeno. I capi che svolgevano funzione di giudice si sedevano solennemente in fila
sui nostri bagagli, mentre imputati, testimoni e spettatori prendevano posto per terra in ordine
sparso, sotto il tetto della calabusa oppure, nelle udienze più affollate, fuori, all’ombra degli alberi.
Quando non avevamo altro passatempo, noi della Julia assistevamo in disparte a quelle
movimentate riunioni, appoggiati alla gogna come al parapetto di una tribuna d’onore e ci
scambiavamo i nostri pareri su quel poco che capivamo delle dispute.
Ma pezzi di arredamento così pregiati non potevano rimanere confinati in un’aula di
tribunale. A poco a poco qualche indigeno si fece avanti, ci offrì la propria amicizia, si disse
ansioso di stringere con noi rapporti di fratellanza, secondo il costume locale, giurando che
avrebbe obbedito a ogni nostro desiderio.
I fortunati che in cambio ricevevano un baule, ci ringraziavano commossi, arrivavano ogni
giorno con provviste alimentari e proclamavano che avevamo fatto la felicità delle loro case. Per
me e Long Ghost fu facile immaginare gustose scenette di vita familiare tahitiana: mogli che
tormentavano i mariti per avere in regalo un mobile di lusso da mostrare alle amiche, e quando il
pezzo era piazzato al centro della capanna di bambù si stimavano come vecchie signore del
vecchio mondo di fronte a vecchie cassettiere.
I più apprezzati erano i bauli forniti di chiave e di serratura non arrugginita, mentre graffi e
ammaccature diminuivano il pregio dell’oggetto. Un indigeno si era innamorato del baule di
mogano di Long Ghost e sembrava il ritratto della felicità tutte le volte che riusciva a sedervisi
sopra: un giorno fu trovato inginocchiato nell’atto di applicare un unguento a una brutta scalfittura
sul coperchio.
Impegnati come eravamo con le nuove conoscenze, ci stavamo quasi dimenticando della
Julia quando, una domenica mattina, capitan Bob ci diede l’annuncio.
— Ah, ragazzo, tua nave svelta svelta su le vele!
Corremmo tutti fino in riva al mare. La spiaggia era deserta. Scorgemmo la baleniera che
usciva dal porto di Papeete, vele al vento. Sulla coffa c’era un ragazzo che scioglieva il
controvelaccio, una gamba a cavalcioni del pennone, altri fissavano l’ancora sul castello di prua,
Jermin andava avanti e indietro lanciando ordini e accanto al timoniere il capitano Guy, calmo e
signorile, fumava un sigaro come se nulla fosse. Si sentiva cantare:
Sempre allegri, ragazzi, non vi manchi la lena,
quando il buon ramponiere colpirà la balena!
Presto la nave si avvicinò alla barriera corallina, aggiustò la rotta e s’infilò gagliardamente
nell’apertura, guadagnando il mare aperto. Augurammo di cuore buona navigazione agli
sconosciuti marinai che avevano preso il nostro posto, mentre la Julia si sottraeva alla nostra vista.
Chissà se ha mai trovato quel branco di docili balene.
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