riprendendo ORIENTaleggiando

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riprendendo ORIENTaleggiando
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Quella notte dormimmo male a Homs, tra i rumori della strada, quelli dell’albergo, il
letto flaccido e la mattina dopo, nell’autobus che ci portava a Palmira, ci
appisolammo spesso, pur fra i sobbalzi della pista dissestata. Attraversavamo un
deserto sassoso, a momenti piano, talvolta ondulato, con collinotte sparse e
pochissimi villaggi. Era il Deserto siriano che dai monti dell’Antilibano finiva
all’Eufrate iracheno. D’un tratto notammo che alcune di queste basse colline erano
state trasformate in hangar aperti ai due lati all’interno dei quali si intravedevano le
sagome dei Mig nascosti, evidentemente nei pressi di un aeroporto militare più o
meno segreto. E incoscientemente come al solito li fotografammo. Per fortuna non ci
vide nessuno, altrimenti sarebbe stato un bel raccontarglielo che lo facevamo per
sport.
Palmira
Le rovine romaniche di Palmira – la palmifera città della regina Zenobia – ci
apparvero improvvisamente dietro un’altura sotto il sole a picco di mezzogiorno.
Magica visione per grandiosità e suggestione la cui sensazione solo la cugina Petra –
nella regione – avrebbe rinnovato pari pari. Passammo il pomeriggio a girar l’area
archeologica col suo bell’arco di trionfo, emblema della città, la lunga via colonnata,
il teatro romano, l’agorà, il maestoso tetrapilo. Salimmo tra i sudori sul monte del
castello arabo in evidente sfacelo, arrampicandoci faticosamente data la forte
pendenza e l’assenza di sentieri, compensati alla fine dalla magnifica vista che si
poteva godere sul complesso delle rovine alla calda luce del tramonto. E del palmeto
in cui era immerso il villaggio abitato. Foto a raffica. Compreso il solito aeroporto
militare che mi apparve al teleobiettivo. Tornammo all’alberghetto dove c’eravamo
sistemati e la doccia che potemmo prendere ci fece rinascere. Tanto che dopo cena
riandammo tra le rovine, ancora riverberanti il calore del giorno, ma con l’aria che
cominciava a rinfrescare come accade di notte in ogni clima desertico che si rispetti.
E con una stellata da potersi toccare, dominata dalle stelle del triangolo estivo, Vega,
Deneb e Altair, queste due dagli arabi nomi: la coda e l’uccello. Arturo appariva
luminosissima a ovest e una Via Lattea allo zenit da intingerci i biscotti.
Uscimmo di buonora la mattina dopo. Incontrammo due pastorelli con attorno un
piccolo gregge di capre che spigolava qualche fuscello della misera erba secca dalle
parti del tetrapilo. Ci chiesero delle sigarette proponendoci uno scambio con del latte
fresco. E in men che non si dica uno di loro fece saltar fuori un barattolo di latta, lo
pose sotto una capra cominciando a mungerla con foga. Due minuti dopo ci
presentava il prodotto fumante, bianco come il latte, ma con dei puntini neri
indefiniti in navigazione. Facendo i debiti scongiuri ne bevemmo un sorso ciascuno.
Non era male, un po’ salato come doveva ma passabile. Premiammo la buona volontà
e lo spirito imprenditoriale con un mezzo pacchetto di sigarette che fece la gioia dei
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due ragazzini. Chiesero del fuoco, poi se ne andarono soffiando con enfasi il fumo al
cielo, signori delle capre, delle rovine, delle sigarette.
Passeggiammo ancora un’oretta a imprimerci negli occhi e nella pellicola quelle rare
immagini, senza poter prevedere che le avremmo rigodute insieme l’anno dopo e io,
per il terzo anno consecutivo con Mara, Cate, Eileen, Alice. E l’amico gay Firmo. Di
cui diremo più avanti.
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1971
Un sabato mattina, primo giorno della settimana nel paese, partimmo in autobus per
la regina del deserto siriano: Palmira. Si erano aggregate a noi l’americana
cicciottella Eileen e la sua amica indonesiana Alice. E Firmo.
Chi era Firmo? Giorni prima stavo uscendo dall’ostello quando una voce flautata
m’inseguì: “Veneziano, ehi veneziano ...?” Mi girai. Il flauto era un tizio di quasi due
metri con la faccia di pongo scalpellata da antico romano come nelle vignette
d’Asterix, i riccioli ossigenati e una gallabìyya piena di buchi che l’ultimo
mendicante di suq Hamidìyye avrebbe rifiutato. Indumento che lui – avrei notato poi
– ogni giorno rovesciava usandolo una volta per il dritto e una per il rovescio. Mi si
avvicinava ancheggiando, la mano destra all’altezza delle spalle fluttuante nell’aria
in sintonia con i fianchi. Lo guardai interrogativo. Era Firmo di Bologna. Aveva
sentito da Eileen e Alice ch’eravamo in procinto di partire per Palmira e chiedeva
d’aggregarsi. OK.
A Palmira trovammo presto un alberghetto dove chiesi una stanza per noi tre e
un’altra per gli altri. Il padrone però non era d’accordo: maschi coi maschi e
femmine con le femmine. E non ci fu verso di fargli cambiare idea. Separati per
sesso, ingiunse. Senza recepire che il sesso di Firmo era trasversale. Oppure l’aveva
capito, ma erano le apparenze a contare. Per non stare a discorrere ci adeguammo e
ora avevo la prospettiva di una notte con il nuovo amico gay.
Poco dopo avevamo preso un sandwich per strada e un tè in un microbar con gli
sgabelletti fuori. Sei stranieri: quattro donne e due uomini, uno dei quali con
atteggiamenti femminei, non potevano passare inosservati nel baretto appartato
rispetto alle rotte turistiche normali. E in un lampo fummo circondati dai maschi dei
dintorni. Con gran sollazzo di Eileen e Alice – e specie di Firmo – ma poco nostro.
Per cui lasciammo lì i tre ed io, con Mara e Cate, mi diressi verso l’esterno del paese,
notando d’esser seguiti da un tizio non più giovane che avevo notato nei pressi del
caffè. Dopo un po’ si fece coraggio e ci chiese se andavamo a prendere un tè da lui.
Con un atteggiamento quasi di preghiera per cui non riuscimmo a rifiutare. E ci
trovammo con un altro bicchierino di tè in mano seduti nel cortiletto di una casetta ai
bordi del paese, con accanto un ampio recinto di ovini vari. Ahmad ci raccontò di
essere pastore, come suo padre, che gli aveva lasciato un grosso gregge di pecore e
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capre. Mi chiese chi era mia moglie e gli indicai Mara, che non lo era ancora ma
faceva lo stesso. Allora Cate era libera? Potevo lasciargliela? Mara e Cate non
seguivano la chiacchiera in arabo, ma dai gesti e dalle occhiate capivano d’essere
l’oggetto del discorso. Risposi a Ahmad che Cate, pur non essendo sposata, aveva un
amico in Italia, ma che avremmo potuto anche chiedere il suo parere. Sì ... sì,
approvò il pastore. Con aria molto seria e compresa, ma con gli occhi che
sganasciavano – e Cate lo recepiva – le esposi la istanza del nostro anfitrione che
seguiva con la bocca aperta. Sarebbe diventata padrona, in seconda, di un gregge di
non so quante centinaia di capi. Non poteva essere un’idea? Mi parve di notare un
lampo di panico negli occhi di Cate, ma subito sorrise dicendo che aveva troppi
impegni in Italia per potersi fermare nella Palmira del deserto, per quanto bella e
dalla vita allettante. Spiegai ad Ahmad che in effetti Cate si sarebbe dovuta sposare
col suo amico italiano, ma senz’altro gli avrei cercato una ragazza una volta tornato
in Italia. Allora l’uomo dettò i requisiti della fortunata: doveva essere giovane
ovviamente, bella, doveva parlare l’arabo e preferibilmente con delle capacità
d’infermiera che sarebbero state molto apprezzate dalla sua vecchia madre ammalata.
Sostenni che in Italia sarebbero state a bizzeffe le giovani ragazze di tal fatta ben
felici di sposarlo. E in questo esubero di offerta sarebbe stato più che mai facile per
me mandargli la migliore sotto tutti i punti di vista. Ahmad era sull’orlo della
liquefazione e mi promise che come si sposava avrebbe ricompensato la mia
transazione con un bel gregge di pecore. Già mi vedevo col bastone in mano a
portarmelo a casa in campo San Bortolomìo di Rialto.
Ricordandomi della suggestione della passeggiata serale tra le rovine fatta in passato,
volli rifarla con Mara e fu un simpatico momento romantico sotto le stelle seguiti da
un bello spicchio di luna. Pur se un po’ seccato dall’idea che avrei dovuto concludere
la serata andando a dormire con Firmo. E dormii con Firmo.
La mattina seguente, indenne nella virtù, ma non dagli effetti del continuo russare del
mio concubino, mi avviai col gruppo fra le rovine. Qui l’amico si sfilò lo straccio di
gallabìyya e se l’avvolse in testa a mo’ di turbante restando con delle mutandine –
nere all’origine – che, se possibile, erano ancora più bucherellate del camicione.
Dopo un po’ ci lasciò e lo vedemmo più tardi chiacchierare in lontananza con dei
pastorelli.
Passammo tutta l’area archeologica, vedemmo le tombe funerarie e, nel pomeriggio,
intraprendemmo la solita tremenda salita al castello arabo. Come al solito, la sudata
veniva ripagata dalla stupenda vista. L’ampio palmeto, di cui era famosa la città fin
dall’antichità tanto che i romani il palmifero nome le diedero, dall’alto era di grande
effetto: una bella macchia verde nell’ocra chiaro, ora caricato dalla luce del
tramonto, appena oltre l’area archeologica più nota.
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Tornammo alla cittadina ch’era sera. Un asino dai grossi cesti colmi di datteri usciva
dall’oasi condotto da un ragazzo verso i chioschi dei venditori dei dolci frutti. Lo
seguimmo e lì ne comprammo qualche confezione.
Anni dopo, durante una mia escursione a Palmira in solitaria, prendendomi un
week-end dall’ormai routinaria vita di ricerca e traduzione a Damasco, volli
giungere alle rovine attraversando l’oasi, cogliendo qualche dattero dai rami bassi
di qualche palma incurvata. Mi vide un ragazzino che succhiavo un dattero. Mi disse
che i frutti delle alte palme dritte erano molto più buoni. E prendili! gli ribattei
scherzando. Sparì in una casupola di fango che non avevo notato tra le palme.
Tornò con una larga fascia di tela lunga circa un metro, con due maniglie di corda
agli estremi. E aiutandosi col suo attrezzo, saltando come un grillo, in un batter
d’occhio fu sotto i grossi grappoli. raccolse un po’ di frutti che mise in una specie di
marsupio alla cintura. Ridiscese veloce, direi quasi di corsa, e mi offrì la sua
vendemmia. Ricambiai con qualche moneta. E trascorsi il pomeriggio mangiando
datteri tra le rovine, senza immaginare che il sodalizio tra me e i dolci frutti quel
giorno non era finito.
Tornando al tramonto diretto all’albergo, non badavo agli inviti dei venditori dai
chioschi. Ma un giovane, non più tanto giovane, mi si appressò insistendo perché
andassi ad assaggiare qualcuno dei suoi datteri. Gli risposi che ne avevo mangiati
tutto il pomeriggio, che mi pareva d’essere a Palmira. Ma non buoni come i suoi!
ribatté. Mi arresi alle insistenze. Ne aveva una decina di qualità. Da quelli giallo
chiaro, i più pregiati, a tutte le tonalità del rossastro-marrone. Tanto freschi che
conservati. Ne assaggiai qualcuno per compiacenza. Dolci e appiccicosi anche
quelli. Qual datteri fossero, come dice il poeta. Tayyeb, helu, lazìz. Buoni insomma,
gli dicevo. Sentendo che il mio arabo era decente, mi chiese se l’aiutavo a scrivere
una lettera a una ragazza inglese ch’era passata settimane prima con un gruppo e
gli aveva lasciato l’indirizzo. E lui se ne era innamorato. E mi dettò: sono qui, amor
mio, che ti aspetto, pensando ai momenti trascorsi qui con te. Gli chiesi: quanto
siete stati insieme. Quasi mezz’ora, la risposta, mentre il suo gruppo attorno sparso
contrattava sui datteri. Gli suggerii ch’era bello aggiungere qualche altra frase,
tipo: son qui senza te, in questo mare di sabbia, come una nave senza vele preda
delle correnti contrarie, in attesa che sia tu a venir a prenderne il timone. E altre
banalità che scrissi accuratamente in inglese su una carta da incartare i datteri. Mi
riempì di frutti. Mai mangiati tanti datteri come quel giorno. Neanche nei miei
soggiorni in Omàn dove venivano offerti in ogni luogo e in ogni momento. Non
sfuggii neanche alla condivisione della sua cena costituita da verdure bollite. “L’ha
fatta la mia mamma”. E mi tornò il ricordo del suo compaesano di circa vent’anni
prima, ancora in attesa della giovane bella arabista infermiera italiana da sposare,
che dovevo portargli in cambio del gregge.
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Tornammo a Homs nel pomeriggio del giorno dopo con Firmo che proseguiva per
Aleppo, mentre noi prendevamo l’autobus per Damasco. Addio, con la cicciottella
Eileen che piangeva come un vitello perché aveva deciso d’essersi affezionata al
marcantonio ossigenato. Baci e abbracci.
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