Chiari del bosco

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Chiari del bosco
Chiari del bosco
Autore: María Zambrano
Editore: Bruno Mondadori, Milano
Tipo: Saggio
Anno: 2004
Data inserimento: 01/12/2006
Gruppo: Aggiornamenti 2006
Di Claros del bosque, l'autrice ha detto: «Tra le mie opere, è questa, io credo, che meglio corrisponde all’idea che
pensare è, prima di tutto, alla radice, decifrare ciò che si sente, il “sentire originale” - e altrettanto all’idea che
l’uomo è l’essere che soffre della sua propria trascendenza, in un incessante processo di unificazione tra la
passività e il conoscere, l’essere e la vita».
Tutto inizia con il viaggio di Ulisse e con la voce di Orfeo. E' necessario condurre a termine le nostre visite spettrali,
per apprendere quell'Amore, di cui Diotima è sacerdotessa. È necessario affrontare il più irrevocabile
sradicamento, avere la più profonda attitudine al congedo, per poter sperare di scoprire, di sorprendere un simbolo
di umano e divino. «Da tali simboli, così sorpresi, ha scritto Massimo Cacciari, sono abitati i claros del bosque. A
essi è rivolta, essi tenta sempre, e invano, di imitare, la meraviglia del filosofo».
María Zambrano (1904-1991) è stata una delle grandi figure della scena intellettuale del Novecento, una
pensatrice originale e profonda. Fu allieva del filosofo Ortega y Gasset e visse a lungo in esilio (in Italia dal 1954 al
1964), a causa della sua opposizione al franchismo. Tornata in Spagna nel 1984, vinse il prestigioso Premio
Cervantes nel 1988. La Bruno Mondadori ha pubblicato le sue opere maggiori: La confessione come genere
letterario (Milano, 1997); Seneca (Milano, 1998); Persona e democrazia (Milano, 2000) e Il sogno creatore (Milano,
2002).
(quarta di copertina)
Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite e la comparsa di
alcune, impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. È un altro regno che un’anima abita e custodisce.
Qualche uccello richiama l’attenzione, invitando ad avanzare fin dove indica la sua voce. E le si dà ascolto. Poi
non si incontra nulla, nulla che non sia un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quell’istante e che mai
più si darà così. Non bisogna cercarlo.
Non bisogna cercare. È la lezione immediata dei chiari del bosco: non bisogna andare a cercarli, e nemmeno a
cercare nulla da loro. Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo. E l’analogia del chiaro con il tempio può
sviare l’attenzione […] E resta il nulla e il vuoto che il chiaro del bosco dà in risposta a quello che si cerca. Mentre
se non si cerca nulla l’offerta sarà imprevedibile, illimitata. Giacché sembra che il nulla e il vuoto - o il nulla o il
vuoto - debbano essere presenti o latenti di continuo nella vita umana. E che per non essere divorato dal nulla o
dal vuoto uno debba farli in se stesso, debba almeno trattenersi, rimanere in sospeso, nel negativo dell’estasi.
Sospendere la domanda che crediamo costitutiva dell’umano. La funesta domanda alla guida, alla presenza che si
dilegua se la si incalza, alla propria anima asfissiata dal domandare della coscienza insorgente, alla propria mente
cui non si lascia il tempo di concepire silenziosamente, oscuramente anche, senza che quella si interponga per
domandare il rendiconto alla schiava ammutolita. E il timore dell’estasi che assale al cospetto della chiarezza
vivente fa fuggire dal chiaro del bosco il suo visitatore, che diventa così un intruso. (pp. 11-2)
E così, colui che distrattamente se ne partì un giorno dalle aule finisce col trovarsi per puro presentimento a
percorrere di chiaro in chiaro i boschi dietro al maestro che mai gli si era dato a vedere: l’Unico, quegli che chiede
di essere seguito per poi nascondersi dietro la chiarezza. E al perdersi egli in questa ricerca può capitargli di
scoprire in una rientranza del terreno un luogo segreto che raccolga l’amore ferito, ferito come ogni volta in cui va
a raccogliersi. (p. 19)
La bellezza fa il vuoto - lo crea - come se quel volto che ogni cosa acquista quando è bagnata da essa provenisse
da un lontano nulla e ad esso dovesse tornare, lasciando la cenere del suo sembiante alla condizione terrestre, a
quell’essere che della bellezza partecipa. E che le chiede sempre un corpo, la sua copia, di cui per una specie di
misericordia essa gli lascia a volte la traccia: polvere o cenere. E al posto del nulla, un vuoto qualitativo, segnato e
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puro insieme, ombra del volto della bellezza quando parte. Ma una volta creato quel suo vuoto, la bellezza lo fa
suo, perché le appartiene, è la sua aureola, il suo spazio sacro in cui si conserva intangibile. Uno spazio nel quale
all’essere terrestre non è possibile installarsi, ma che lo invita a uscire di sé, che spinge a uscire di sé l’essere
nascosto, anima accompagnata dai sensi; che trascina con sé l’esistere corporale e lo avvolge; lo unifica. E
proprio sulla soglia del vuoto che crea la bellezza, l’essere terrestre, corporale ed esistente, si arrende; depone la
sua pretesa di essere separatamente e persino quella di essere sé, se stesso; consegna i suoi sensi che si fanno
tutt’uno con l’anima. Un evento che si è chiamato contemplazione e oblìo di ogni cura. (p. 57)
Dall’indice
I. Chiari di bosco;
II. Il risveglio;
III. Passi;
IV. Il vuoto e il centro;
V. La metafora del cuore;
VI. Parole;
VII. Segni;
VIII. L’abbandono indecifrabile;
IX. I cieli;
Appendice – Lo specchio di Atena;
Postfazione di Carlo Ferrucci.
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