Allegato - Comune di Narni

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Allegato - Comune di Narni
PREMIO MIMOSA 2015 – 10 edizione I ricordi, un inutile infinito, ma soli e uniti contro il mare, intatto in mezzo a rantoli infiniti… Giuseppe Ungaretti da "Il Dolore (1937‐1946)” Ricordare, riportare al cuore come antica sede della memoria, per non perdere niente di quello che naturalmente esce dalla nostra vita. Niente e nessuno. Vincitori e menzioni Categoria Adulti 1° Premio – San Diego, California di Brigidina Gentile San Diego, California Mio fratello è morto di AIDS qualche mese fa, e io non ho pianto. Erano tutti sorpresi, mia madre per prima. Proprio io legata a filo doppio con lui, sembrava non provassi alcun dolore, che fosse invece una liberazione, un atto dovuto quello di andarsene, a quel punto. Sembrava tutto normale, a quel punto. Mi sono occupata anche del catering. Dopo la cremazione sono venuti tutti a casa, parenti, amici, conoscenti, medici, infermieri... Non mi sono fermata nemmeno un secondo, ho accolto tutti, parlato con tutti, messo tutti a proprio agio e... non ho versato nemmeno una lacrima. Ho aspettato che se ne andassero, li ho abbracciati uno ad uno, e salutati con il mio sorriso migliore. Poi ho accompagnato mia madre al bagno, l'ho aiutata a spogliarsi. Ha voluto indossare una camicia da notte che le aveva regalato lui per la festa della mamma. Ha voluto che le mettessi la sua chitarra accanto al cuscino. Poi si è accucciata buona buona sotto le coperte e ha chiuso gli occhi. Le sue lacrime continuavano a scendere, non c'era verso. È crollata dopo qualche minuto in un sonno agitato. Mi ha fatto tanta tenerezza, era diventata ancora più piccola, magra magra, un animaletto indifeso, tremante. Le ho asciugato le lacrime, ho aspettato che il respiro si calmasse, che il sonno diventasse profondo e sono andata a riordinare la cucina. “Ti voglio bene mamma”, “Sei grande sorella mia!”: sul frigorifero i bigliettini con la sua scrittura ormai tremolante, il suo modo per farci sapere che eravamo parte del suo mondo, la sua gratitudine. Ho messo tutto a posto, e non mi sono fermata nemmeno quando alle otto del mattino mi sono vista arrivare mamma come un fantasmino. L'ho abbracciata a lungo accarezzandole i capelli. Ho ascoltato il suo respiro e raccolto le sue lacrime. Poi ho preparato la colazione e ho fatto finta di vivere. Ho scelto le parole, perché ci vogliono parole fresche per consolare una mamma, e poi le ho cotte e gliele ho date per cena. E così il tempo è passato. Sono trascorsi otto mesi da quando mio fratello è morto e la sua assenza è un vuoto che mi assedia. Io… sono soltanto un ricordo, un vuoto di memoria a perdere. Motivazioni della giuria Un percorso dentro al dolore, una disamina spietata e asciutta ‐ imbastita tra le matasse della tenerezza filiale e fraterna – dei percorsi che conducono alla elaborazione del lutto. La narrazione è condotta con il tratto lieve e guardingo che caratterizza lo stile di Brigidina Gentile, la cui mano sa essere sottile nel condurre il lettore nei meandri più articolati e dolorosi dell’animo umano. C’è il tocco magico di una piuma nella scrittura dell’autrice che le consente di affondare e sollevarsi in volteggi di parole simboliche in grado di suggerire interi universi emotivi. In questo breve racconto la Gentile dimostra la sua sapienza di narratrice che sa scrivere d’amore, di morte, di consolazione e malinconia triste e consapevole, conducendo la danza delle parole con la maestria soave e ironica della musicalità che estende lo spettro sonoro dagli acuti ai gravi in sincronia e senza soluzione di continuità. Categoria Adulti 2° Premio ex aequo – La penna stilografica di Ombretta Ciurnelli Le scale strette di una vecchia casa e un vicolo buio, colmo dell’acre odore della pipì dei gatti, sono i luoghi in cui prendono corpo frammenti di vita che nelle imperfette metamorfosi della memoria faticano a ricomporsi in storie. Allora lei trascorreva il suo tempo quasi sempre in casa, perché a giocare nel vicolo c’erano solo maschietti capaci di comporre canzonacce piene delle parole più strane che rimavano con Luisella, quasi per un doveroso esercizio di sadismo. A scandire le sue giornate c’erano anche altre filastrocche: «Con le bugie accenderesti il fuoco!... Smettila di piagnucolare, sembra che tu abbia le lacrime in saccoccia!» E così molto del suo tempo lo passava sul pianerottolo o sulle scale. «Ciao, ricciolina!» la salutava Clotilde, la robusta infermiera che abitava vicino a lei. Un mugugno masticato tra i denti era il massimo che le uscisse di bocca e una volta aveva sentito quella cicciona dire al marito: «Mai vista una ragazzina così antipatica!» Giocava con Fortunello, l’unico bambolotto che abbia mai posseduto, e con qualche ritaglio di stoffa che le regalava Matilde, la sartina del primo piano. In una scatola di latta custodiva gelosamente altri giocherelli: rocchetti di legno, sassolini stondati, fili di lana colorati, piccole bottigline di vetro, ciò che restava di uno yo‐yo comperato alla Fiera dei Morti, una biglia azzurra e poco altro. In casa c’erano spesso baruffe a cui seguivano giorni e giorni carichi di ostilità. Tutto nasceva a causa di un certo Pasquale e sua madre, con tutta la forza che aveva in corpo, rivolgendosi a suo padre, urlava spesso «Sei solo geloso!» I grandi pensavano che assorta nei suoi divertimenti non ascoltasse i loro discorsi, anche perché mentre giocava borbottava sempre qualche canzoncina che imparava dalla zia Ida. Tra la mamma e la zia Ida, che trascorreva da loro interi pomeriggi, era sempre un gran parlottare; e così un giorno, mentre lei canticchiava «Vola, colomba bianca, vola» venne a sapere che Antero, il pizzicagnolo, si intratteneva nel retrobottega con l’Elisa, la commessa quindicenne, e che anche dalla strada si sentiva un gran soffiare. Antero era alto, con un gran pancione che il grembiale pieno di patacche d’unto riusciva a malapena a coprire. Confondeva la sua calvizie con un complicato riporto e riempiva il vicolo con un vociare incontenibile e con grasse risate. Nella vecchia casa abitavano anche i Rossetti: la Livia, piccola e minuta, e Beniamino, alto e magro come un’acciuga. Lei lavorava in fabbrica, all’Angora di Spagnoli, dove tutto il giorno cuciva le maglie, lui era molto più anziano e nessuno sapeva quale lavoro avesse fatto nella vita. Qualcuno parlava anche di ferite di guerra e di medaglie al valore. Era considerato un po’ matto, ma di quelli che gridano solo per spaventare gli altri: «Avete fatto cadere la terra dei gerani sui panni stesi!... Il portone deve restare chiuso!... Chiamerò i carabinieri!» gridava nascosto dietro le persiane. Di rimando non mancavano quelli che minacciavano l’intervento della camionetta del manicomio e gli auguravano di finirci dentro con una camicia di forza. Luisella, invece, aveva per Beniamino una grande simpatia e quando cominciò ad andare a scuola, all’uscita si fermava ogni giorno da lui, che a quell’ora era sempre solo, e cominciava a fare i compiti. Intanto la storia di Antero si complicava. Un giorno, mentre Luisella giocava canticchiando «Lo sai che i papaveri son alti, alti, alti» sentì la zia Ida raccontare alla mamma che nella bottega aveva visto la moglie di Antero sbattere in terra tutto quello che le passava per le mani, svuotando anche i cassetti degli spaghetti e delle minestre, e poi l’aveva sentita gridare all’Elisa: «Sgualdrina! Sgualdrina che non sei altro!», mentre la colpiva in testa con gli sfilatini di pane, che finirono in terra tutti sbriciolati. Era un’estate caldissima quella in cui l’Elisa non sapeva più come nascondere la sua pancia che cresceva a vista d’occhio sotto i suoi vestitucci sempre più corti e stretti. Con le mani appoggiate sul ventre, sorrideva con un’espressione di incredula serenità, scoprendo tra le labbra i suoi piccoli denti. La moglie di Antero invece piangeva, senza riuscire a trattenersi, e lui continuava a riempire il vicolo con voce tonante, mentre il vento faceva volare in aria il riporto dei suoi capelli intrisi di brillantina. A Luisella raccontarono che l’Elisa aveva una pancia così grande perché il giorno di ferragosto aveva mangiato troppo cocomero. Dopo un po’ di tempo, per via di un fidanzato che la voleva sposare a tutti i costi, l’Elisa improvvisamente scomparve dal borgo. La storia del cocomero la fece riflettere molto sulle chiacchiere dei grandi e così, poco tempo dopo, mantenendo fede alla fama di bambina scontrosa che si era guadagnata nel tempo, non raccontò niente di quello che le era successo da Beniamino e non volle mai rivelare perché di punto in bianco aveva deciso di non andare più a casa dei Rossetti. L’elenco delle filastrocche si allungò: «Chi ti credi di essere!... Sempre a dire “no, non lo so!”… Che risposte sono queste?» Per lei sarebbe stato molto difficile raccontare quella storia e in fondo neanche lei aveva capito bene che cosa fosse successo. Un giorno Beniamino, all’uscita dalla scuola, le aveva fatto trovare un regalo: una penna stilografica rossa marmorizzata e con tutte le finiture in oro in un astuccio nero con il raso bianco arricciato. A scuola scrivevano tutti con i pennini infilati nel cannello. Avrebbe fatto una gran figura di fronte ai compagni e con una scrittura più ordinata avrebbe guadagnato qualche nota di merito dal suo maestro. La volle provare subito. Cominciò a scrivere sul quaderno dei numeri, trascrivendo un problema di aritmetica. Il tratto era sottile, la stilografica scivolava leggera e non graffiava la carta, come il pennino a campanile che usava lei. Intenta a scrivere, lì per lì non fece caso alle carezze che Beniamino le faceva sulle gambe e al fatto che le toccava le mutandine e che con l’altra mano la stringeva attorno alla vita e che le soffiava anche sul collo, come se avesse fatto una grande corsa. All’improvviso richiuse la penna, la lasciò sul tavolo e senza dire una parola gettò in terra l’astuccio nero con il raso bianco arricciato. Mise i quaderni nella borsa, uscì, sbattendo forte la porta, e corse a più non posso nel vicolo, giusto in tempo per ascoltare una dose supplementare delle sguaiate canzoni che quel giorno le sembrarono le peggiori che i maschietti avessero mai inventato per lei. Di lì a poco Luisella si trasferì in un quartiere che si trovava dall’altra parte della città, in una casa piena di luce al primo piano di un grande palazzo giallo, con tanti campi intorno e una collina dietro piena di olivi e con un cortile davanti, né troppo grande né troppo piccolo, in cui scendevano a giocare anche le bambine. E fu lì che cominciò per lei il tempo dei giochi e delle complici amicizie. Motivazioni della giuria Il ricordo di un mondo essenziale e smaliziato in cui la vita parlava e insegnava e in cui la sapienza era affidata al vicolo e ai rapporti di contiguità che si stabilivano tra “vicini”. Negli orizzonti ristretti e soffocati del pettegolezzo e degli stereotipi, la coscienza del limiti si accampa con prepotenza nell’identità di una bambina che cresce e che sa affermare con autorevolezza la propria dignità di donna sul viscido abboccamento di un uomo maturo ma non grande. Un sasso in pieno viso in chi legge, scagliato con lo scherno e l’irrisione di chi sa di aver reagito con la consapevolezza di una personalità forte e vigorosa. Categoria Adulti 2° Premio ex aequo – Mafalda di Rosella Grilli Rovistare nei cassetti alla ricerca di un documento, è stato sempre uno dei compiti più insopportabili per me. Stavo rimandando questa incombenza di giorno in giorno, proprio perché poco piacevole. Approfittare della pioggia battente, in quella domenica pomeriggio, mi sembrò logico, per ingannare il tempo e per non farmi prendere dalla malinconia. Nelle giornate uggiose persino gli istanti sembrano un’eternità. Iniziai da un cassetto stracolmo, non solo di scartoffie ma anche di tanti ricordi della mia infanzia ed adolescenza. Alcune vecchie riviste, libretti religiosi di messa in latino, due orologi da polso acquistati in un lontano viaggio in Russia e antiche foto, di famiglia e di scuola. La mia attenzione si soffermò su una di queste che mi ritraeva insieme ai miei compagni di scuola elementare, con la maestra che spunta dietro a noi, con tutta la sua autorità. La “maestra Mafalda”. Un ricordo poco piacevole per me, tanto che rivedendola in quella foto e nonostante fosse passato molto tempo, provai un senso di gelo e sofferenza. Piano, piano mi riaffiorarono gli anni di scuola trascorsi con lei, cinque interminabili anni. Alta, un po’ ricurva come un punto interrogativo, capelli di un biondo scolorito, raccolti in un perpetuo chignon, la voce sempre rauca che accentuava ancora di più la sua rigidità, mani con dita lunghe e nodose, deformate dall’artrite, la quale non le ha mai impedito di picchiarci e nemmeno di afferrare una bacchettina (omaggio di un contadino dove lei era solita andare, per approvvigiornarsi di verdure), che batteva frequentemente sulla cattedra, se noi bambini facevano un benché minimo rumore. Quando chiamava per l’interrogazione, nell’aula scendeva un silenzio assordante. Ci facevamo piccoli, piccoli nei banchi, pregando ognuno, il proprio folletto o l’angelo custode, affinché ci avessero resi invisibili. Purtroppo Mafalda era invincibile e, senza pietà, scelto il martire o la martire di turno, iniziava la sua interrogazione. Alla prima risposta errata gli schiaffi arrivavano, puntuali e precisi come missili, sulle guance, che diventavano di un colore rosso violaceo. Nessuno di noi piangeva, forse per fierezza o per rassegnazione, seguitando a rispondere alle domande della perfida maestra, che continuava senza sosta, nella sua personalissima persecuzione. Ricordai ancora il terrore di essere chiamata e di subire quei maltrattamenti così ingiusti, umilianti ed intollerabili. Ritornati a casa nessuno di noi aveva il coraggio di farlo presente alle proprie famiglie, perché a quei tempi le maestre erano considerate persone autorevoli ed influenti e i nostri genitori erano ossequiosi e riverenti nei loro confronti. La maestra era la maestra e non si poteva contraddire. Ripercorsi mentalmente quegli anni come in un film, più immagini passavano nella mia mente e più situazioni dolorose ricordavo. “Accidenti, ci sarà stato pure qualche episodio piacevole in tempi di scuola elementare!” Mi concentrai bene: “Ma si, certo, le scampagnate di inizio primavera!”. Nella classe c’era una bambina di nome Simonetta che abitava in campagna, a circa quattro chilometri dalla scuola, in una fattoria, dove c’era ogni tipo di animale da cortile: galline, conigli, pecore, capre, maiali, etc…. La mamma di Simonetta, ogni volta che la maestra Mafalda ci accompagnava alla fattoria, imbandiva una tavola all’aperto con fette di pane casareccio e prosciutto, salame, salsicce, dolci fatti da lei e latte delle sue mucche. Si giocava all’aria aperta, sui magnifici prati rivestiti di margherite. Il divertimento era tanto. Tra il verde, la bellezza della natura e tutti gli animali che facevano da cornice a quelle splendide giornate, persino le rughe del volto di Mafalda apparivano meno scavate e meno evidenti. Solo in quelle rare occasioni, il suo sguardo risultava stranamente bonario e tenero. Tornai alla realtà, riprendendomi da quei ricordi. Guardai la finestra: la pioggia cadeva ancora incessantemente. Frugai ancora nel cassetto. Sotto ad alcune riviste, addormentato da anni, c’era il mio vecchio libretto scolastico. Lo lessi con curiosità: “La bambina ha sufficienti capacità, ma una timidezza eccessiva. Se viene rimproverata non capisce più nulla e comincia a fare errori grandissimi”. Mi soffermai sulla frase: “Ha sufficienti capacità ma una timidezza eccessiva”. Parole dure e spiacevoli che sapevano di condanna definitiva. Riposi il libretto scolastico, la foto e ricordi delle elementari nel cassetto, richiudendolo. Le Medie furono per me gli anni migliori, incontrando dei professori che mi riconciliarono con lo studio e con la scuola. Altro ambiente, altri insegnamenti e altra umanità. Così pure le superiori. Mafalda ora riposa in un cimitero di Roma, insieme alla sua inesistente sensibilità e al suo cinismo. Il documento non lo trovai, anzi a dire il vero, smisi anche di cercarlo, forse non era così importante o, forse, attenderò un’altra domenica uggiosa, per rovistare in un altro cassetto, con la speranza di non incappare in un’ulteriore foto di Mafalda. Se così fosse, la farò riposare in pace insieme alla sua anima. Motivazioni della giuria Con un registro ironico garbato e sottile l’autrice sa rendere una figura antica, quasi un archetipo dell’insegnante‐tipo della prima metà del secolo scorso: sadica, zitella, bacchettona – metaforicamente e nel senso reale del termine‐. Un ricordo asprigno e collerico che si accalca e sgomita per imporsi ed emergere dalla scatola delle reminiscenze. La voce narrante lo fa parlare e agire a ruoli rovesciati: è il punto di vista dell’alunna, infatti, a comandare e a liquidare con pochi tratti, precisi come bacchettate sulle mani, la sgradevole figura della maestra tiranna e a ricondurla nella sfera delle “cose d’altri tempi” di cui non abbiamo nostalgia. Categoria Adulti ‐ Menzioni speciali Abuela di Stafania Catallo Le diciassette. Il viaggio verso Rosario è stato lungo, e alcuni viaggiatori si sono addormentati. Roberto guarda fuori dal finestrino del pullman, dove il sole del pomeriggio arde la campagna e rende riarsa la terra. Nei campi si fa la mietitura; alcuni trattori si muovono lentamente tra le messi, sollevando nuvole di spighe spezzate. Sembra quasi che una polvere d'oro si posi sulla terra calda. Fra poco si giungerà a destinazione, e Roberto tira fuori dal portafogli per l'ennesima volta un foglietto di carta a quadretti, che riporta scritto un indirizzo: Avenida Mendoza 1114, signora Mariana Medina. Non è mai stato a Rosario prima di oggi; la sua vita si è svolta in una villa appena fuori Buenos Aires, un posto bellissimo e silenzioso, dove i gelsomini notturni profumano le sere d'estate e tutto scorre tranquillo in una serie di giorni uguali e rassicuranti nella loro routine. Manca poco, ormai. Il pullman prosegue la sua corsa, e la campagna lascia il posto al raccordo per la città: già si vedono i primi edifici, casermoni grigi, gli stessi di tutte le periferie del mondo. Roberto sente crescere l'ansia dentro di sé, e all'improvviso gli tornano in mente i versi di una canzone: “Quando busserò alla tua porta avrò fatto tanta strada, avrò piedi stanchi e nudi...”. E anche una borsone, dove ha riposto con cura una camicia bianca e l'unico completo elegante che si ritrova, assieme ad una cravatta azzurra e un paio di scarpe di pelle nera. L'appuntamento al quale si sta recando è molto importante e non vuole rischiare di fare brutta figura; ha intenzione di andare subito da un barbiere per farsi dare una scorciata ai riccioli scuri, e di fare una doccia e vestirsi bene prima di recarsi dalla signora Medina. I minuti passano lentamente; Roberto guarda fuori dal finestrino ruotando nervosamente l'anello d'argento e onice che porta all'anulare destro. E' un gesto che tradisce il suo nervosismo, ma del quale è inconsapevole. All'improvviso sente caldo, nonostante l'aria condizionata gli sembra di essere in una fornace; la fronte e le mani iniziano a bagnarsi di sudore, e per avere un po' di refrigerio adopera il giornale come ventaglio. Ma la situazione non cambia, e a peggiorarla ci si mette anche il traffico, che costringe il pullman a proseguire a passo di lumaca. Intanto il tempo passa, e le lancette dell'orologio vanno avanti di quasi un'ora. Tic tac, tic tac, a Roberto sembra quasi di sentirle, pesanti ed inesorabili, le lame di una forbice che si rincorrono sul quadrante dell'orologio di plastica che porta al polso. Anche gli altri passeggeri si preparano a scendere, riassettandosi abiti e capelli mentre iniziano a tirare giù le loro borse dalle rastrelliere. Molti sono pendolari che lavorano fuori città tutta la settimana, e ritornano alle loro famiglie ogni venerdì sera, e c'è pure qualche studente che va a casa per un fine settimana in famiglia. Roberto li osserva mentre parlano tra di loro; probabilmente dopo mesi di tragitto comune si conoscono, uomini e donne che condividono un viaggio perdendosi e ritrovandosi ogni settimana, con nuove storie da raccontarsi. “Manca poco”, gli dice la signora seduta dietro, che ha notato l'impazienza di Roberto, “giusto qualche chilometro e saremo arrivati, saranno ancora quindici minuti di viaggio”. Gli sorride, e Roberto la ringrazia per la cortesia. Le diciotto e quarantacinque. Il pullman si ferma alla stazione, e Roberto scende in una calura da togliere il fiato, accodandosi agli altri passeggeri verso l'uscita. Prima di partire ha studiato il tragitto da percorrere, e cerca il capolinea del bus che lo porterà in Avenida Mendoza, dove la signora Mariana si starà chiedendo che fine ha fatto, visto l'ora abbondante di ritardo sull'appuntamento. Non può neanche avvisare, visto che distrattamente non ha memorizzato il numero sul cellulare, scrivendolo su un blocco che ha dimenticato a casa. “Ci farò una figura da maleducato”, si dice, salendo sul bus strapieno di gente, “proprio quello che mi ci vuole per iniziare bene.”; ma ormai non può rimediare, e si ripromette come prima cosa di chiedere scusa spiegando il contrattempo. L'attesa per la partenza sembra durare un secolo, e nel frattempo guarda gli autisti che parlano e fumano all'ombra di una pensilina, mentre l'autobus si infuoca al sole del pomeriggio. Le diciannove. Finalmente si parte. Se tutto va bene il viaggio durerà venti minuti. L'ansia risale, e Roberto si sente attanagliare lo stomaco da una mano invisibile, che lo stringe e lo fruga senza pietà. Non è stato così male nemmeno quando ha discusso la tesi, e lì si che ci sarebbe stato motivo di essere nervosi! Sente i nervi come corde d'acciaio, il corpo in tensione da capo a piedi, e una disperata incredulità si appropria di lui quando si accorge che i negozi stanno chiudendo e quindi non ci sarà nessun barbiere né alcuna possibilità di rendersi presentabile per l'appuntamento. Intanto l'autista dell'autobus lo avvisa che è arrivato a destinazione, e gli indica la direzione da seguire: circa settecento metri a sinistra dalla fermata. Roberto scende, e si ritrova in una strada caotica dove si ferma per un momento, intento a leggere la numerazione in modo da proseguire per il verso giusto. Passa davanti a caffè pieni di gente, e decide che non è il caso di entrare per chiedere di usare il bagno; darsi una rinfrescata e cambiarsi lo farebbe tardare ancora di più. Improvvisamente, Roberto si sente la bocca secca e una sensazione di vuoto si impadronisce della sua mente, quasi fosse vittima del morbo di Alzheimer in maniera improvvisa e precoce. Una nebbia fittissima avvolge i suoi pensieri, e il discorso che si era preparato e ripetuto durante il viaggio precipita nell'oblio. Il numero 1114 è alla sua destra: un portone di legno scuro a due battenti, con teste di leone che sorreggono tra i denti batacchi rotondi di ottone tirato a lucido. L'architrave di marmo bianco sorregge il numero, sopra al quale un altro leone ruggisce silenziosamente, mostrando fauci annerite dal tempo. Le dita di Roberto tremano pericolosamente mentre scorrono i nomi sul citofono e gli occhi hanno dimenticato come si fa a leggere. Ora che è arrivato a destinazione lo assale una vertigine, sente le gambe molli e la testa leggera. “Sto per svenire”, pensa appoggiandosi al muro con una mano. Respira rumorosamente, tanto che un uomo che passa lungo la via gli chiede se si sente bene. “Si grazie, è stato solo un momento, credo sia colpa di questo caldo infernale” risponde Roberto con una bugia. Finalmente individua il pulsante e suona. Il portone scatta, e una voce gli dice: interno 12, quarto piano. L'ascensore è al centro dell'androne del palazzo, immobile e in attesa di lui. E' molto antico, e ha una panca sulla quale Roberto si accascia, stremato. Quattro piani scorrono lentamente davanti ai suoi occhi. Le diciannove e trenta. Sul campanello c'è una piccola targa col nome: Mendoza/Diaz. Roberto suona, e dopo poco la porta si apre. Una donna anziana lo guarda attraverso le lacrime, e si dice che sì, quel ragazzo sporco e sudato con le scarpe da ginnastica impolverate e dagli improbabili lacci verdi che la guarda con gli stessi occhi, con gli stessi capelli ricci e lunghi del suo papà desaparecido, è il più grande regalo che il destino le ha fatto. Roberto, immobile come una statua per la paura, guarda la donna e prima che l'emozione gli imbrigli la lingua, mentre si avvicina per stringerla nel primo di mille abbracci, le sussurra: “Sono tornato a casa, nonna.” Vuoti a rendere di Daniela Grandinetti Nevica. La neve scende lenta, copiosa, rallenta ogni forma di vita, ogni facoltà nell’essere umano. “Chi c’è in corridoio zia?” Nevica, fuori. La memoria diventa un mare calmo, disteso, sorgono i ricordi come il sole all’alba, appena ne torna uno alla mente, trascina con sé altri ricordi. Si dispongono in fila come sentinelle. Li cataloghiamo per non perderli. Sandra è dietro i vetri, guarda la neve posarsi. “Chi c’è in corridoio zia?” “Hai visto l’arcobaleno Delia?” Fuori continua a nevicare. È più naturale fermarsi, è un gioco che ti prende con delicatezza. Sandra ha la neve negli occhi e un arcobaleno in testa. “Chi c’è in corridoio zia?” “Hai visto l’arcobaleno Delia?” “Sta suonando ‘quella’ musica” I ricordi sono vuoti a rendere, anelli perfetti nella catena degli eventi della nostra esistenza. “Chi c’è in corridoio zia?” “Hai visto l’arcobaleno Delia?” “Sta suonando ‘quella’ musica” “Parti subito Sandra” Erano passati sei anni da quando alle cinque del pomeriggio, mentre la macchina stava portando via sua madre, Sandra aveva alzato la testa e aveva visto un arcobaleno tra i tetti, nitido nei suoi sette colori. Aveva cercato sua sorella Delia tra la folla all’uscita della chiesa. Le aveva fatto un cenno e a sua volta Delia l’aveva visto. Si erano guardate commosse mentre la macchina si allontanava. Era una sorta di prodigio, l’ultimo di quei giorni. Sua madre, che in vita era stata una roccia, che sembrava invincibile, che aveva vinto battaglie, sconfitto malattie, se n’era andata. Anche quell’ultima volta avevano pensato si sarebbe ripresa. «Parti Sandra ‐ le aveva invece detto Delia ‐ non è come sempre.» Sandra aveva preso il primo treno. Nel giro di qualche giorno il quadro clinico si era aggravato, avevano deciso di riportarla a casa e di avvertire Mauro, il fratello che viveva all’estero. Sua madre sembrava essere alla fine. Le notti, quando nel silenzio della casa il respiro affaticato portava con sé un carico di apprensione senza rimedio, furono la parte più dura da sopportare. Sandra tentava di accarezzare sua madre eppure lei sembrava rifiutare quel contatto, scuoteva il corpo con un sussulto, come se non volesse essere sfiorata. Era in coma, ma comunicava. E Sandra comprese che non stava morendo, piuttosto aveva deciso di morire. Voleva che la lasciassero andare. In quei giorni la casa era stato un viavai faticoso, le stanze erano invase di gente, parole e odore di caffè. Fu una di quelle mattine, mentre era in cucina, che Sandra a un tratto sentì qualcosa che le bloccò le gambe. Era una musica, ma non una musica qualunque, era proprio “quella” musica. Quella che suo fratello Mauro si era sempre rifiutato di suonare alla madre che la chiedeva insistentemente nelle rare occasioni in cui lui tornava a casa. Mauro in risposta rideva e diceva di no. Lei allora lo canzonava dicendogli “accidenti a te! me la suonerai quando sarò morta.” E ora Mauro era lì, accanto al letto. E stava suonando. Note attente, curate, implacabili e bellissime. Sua madre stava morendo e lui la stava accompagnando. Con quella musica. Un’energia indecifrabile si mosse tra le stanze, un brivido potente che immobilizzò chiunque si trovasse in quella casa. Ognuno rimase muto e sospeso in un fermo immagine per il tempo che durò quella musica. Non era solo la forte commozione, era molto di più. Quella non era la morte. Era la vita nel suo senso struggente. Insieme erano rimasti a vibrare come le corde di quella chitarra che stava suonando e solo quando l’ultima nota li aveva lasciati, Sandra si era accorta che stava piangendo. Ma fu certa che la stessa cosa stava accadendo anche agli altri, sparsi tra le stanze, così quelle lacrime non furono vero dolore. Dopo, nessuno disse niente, perché non c’era niente da dire. Il pomeriggio di quel giorno ci furono gli ultimi arrivi, la famiglia era ormai al completo. Tutti riuniti, persi, fecero insieme l’unica cosa che restava da fare: aspettare. Alle sette di sera arrivò il medico per un controllo. Disse che quella donna aveva tempra e cuore forti, che si preparassero a una lunga agonia perché non era ancora alla fine. Era quasi ora di cena, ma nessuno aveva voglia di preparare un pasto qualsiasi, così ordinarono delle pizze: quattordici per l’esattezza. Come ai vecchi tempi, davanti ai cartoni di pizza, qualcuno cominciò a raccontare qualche barzelletta e successe che avevano preso a ridere, la pizza aveva un buon sapore ed erano tutti affamati. A turno ogni tanto qualcuno andava a controllare la madre, che ormai non aveva più reazioni, se ne stava con gli occhi chiusi e chissà dov’era. «Chi c’è in corridoio zia?» Le aveva chiesto Mara. Sandra si era guardata intorno e aveva contato con lo sguardo. «Nessuno Mara, siamo tutti qui.» Mara si era alzata senza dire niente ed era uscita dalla stanza. Poi era rientrata perplessa. «Sei andata a dare un’occhiata alla nonna?» «Sì, sembra tranquilla. Strano, m’era sembrato di vedere qualcuno in corridoio» Mara si sedette e dopo un secondo dimenticò qualsiasi cosa avesse visto un attimo prima. Continuarono a ridere, a chiacchierare, a gonfiarsi la bocca di pizza calda. Era da così tanto tempo che non stavano così, tutti insieme. Poi Delia si alzò, andò in camera da letto e dopo qualche secondo arrivò. Un grido stridulo. Temuto. Una parola soltanto. Corsero tutti. Lei, la grande regista, la madre, se n’era andata. Li aveva diretti in quell’ultima scena: li aveva aspettati, uno dopo l’altro, tutti, e lei in quel letto con gli occhi chiusi, senza mai una parola, i medici che ti dicono che non sente niente. Li aveva lasciati lì, insieme, a ridere. Loro ridevano e lei moriva. Si chiama coincidenza? Noi abbiamo un nome per tutto. Ma l’arcobaleno, il giorno seguente: altra coincidenza? Proprio nel momento in cui lei se andava per sempre, cessava la pioggia del pomeriggio e un arcobaleno si apriva in quell’angolo tra la chiesa e il cielo. Per quanto l’intelletto indaghi e spieghi, esistono fenomeni imponderabili, come la morte, come la vita, come il modo di vivere e di morire. Come le cose che non comprendiamo. Chi fosse quell’ombra, ad esempio. Mara ne rimase sconvolta per giorni. Lei, che aveva una laurea in scienze, era abituata a pensare che tutto ha un’evidenza e può essere spiegato. Eppure era sicura. Aveva visto un’ombra chiara poco prima che sua nonna morisse, era passata rapida nel corridoio buio. Non era stata una visione, lei non credeva alle visioni, lei stava ridendo insieme agli altri, mangiava come gli altri, era presente come gli altri, era nella realtà che li teneva insieme come gli altri. Eppure quell’ombra era comparsa. Lei l’aveva vista. Un uomo, vestito di chiaro. La neve scende e si posa. Imbianca gli angoli e li arrotonda, addolcisce gli spigoli e il cuore. Il passato è passato, non esiste, ma ricordo dopo ricordo, scriviamo la storia della nostra vita in una sequenza di attimi che non accadono più, ma sono là, incastonati nella nostra mente in uno spazio e in un tempo che ci appartiene. E in quella trama, tutto, perfino la morte, finisce per avere un senso. Come il testamento di sua madre quella sera. Vi lascio così, vi voglio così. Sandra richiude la porta. Nevica dolcemente adesso. Altrove di Irene Puorto La donna accende la fiamma sotto la pentola gelata che contiene i resti della sera prima. La tiene bassa, poi la rialza quel tanto che basta per accendersi una sigaretta, quindi di nuovo la mette al minimo. Appena prima di uscire, stacca dall’appendino un giubbotto di pelle da uomo e se lo appoggia sulle spalle, stringendolo in petto con una mano. Fuori, più del previsto, il freddo è pungente, e la donna dà subito le spalle al vento che spira violento. Tira forte la sigaretta e si alza il bavero lasciando all’interno la massa lunga e stopposa dei capelli. Prende coraggio prima di voltarsi di nuovo, perché è da lì che in genere arrivano i clienti, ma il vento le impedisce quasi di tenere gli occhi aperti. “Che cazz’ ‘e friddo fa stasera, nè?” sussurra cupa, facendosi raschiare la voce in gola; e poggiandosi prima su un piede poi sull’altro, (piedi gonfi e dolenti, costretti come sono in quegli altissimi trampoli di plastica) comincia a dondolarsi scuotendo ogni parte del corpo, cercando soprattutto di scaldare quella di sotto, che, data la cortissima gonna e la trama larga delle calze nere, è praticamente nuda. Inspirando rumorosamente ed espirando in sincopate e brevissime sequenze, ogni tanto dà un tiro alla sigaretta che si consuma con una certa rapidità, avvampata com’è da quella morsa di vento gelido. Altrove, in quel periodo, la città è gremita di gente, ma dalle sue parti no: alle nove di sera, e con quel clima da coprifuoco, si vedono passare solo poche anime randagie, a due o a quattro zampe. La lunga arteria che scende dalla collina e arriva fino al mare devia appena a metà, proprio dove abita lei. Le case, a quattro cinque piani, senza varchi e senza portoni di rilievo per quel lungo tratto, appoggiate l’una all’altra come si conveniva costruirle un tempo, paiono solidi muri di cinta. E di forza ne devono avere avuta molta per sopravvivere ai movimenti profondi della terra che accompagnano le esistenze di ogni generazione che lì ha messo radici, o al piombo nero, continuo, spietato, di chi le voleva rase al suolo nell’ultima guerra. La donna ricorda ancora i racconti della sua infanzia. Era cresciuta a racconti di guerra e di dolore lei, mica a fiabe. Tutti intorno ad un tavolo la sera con mammà e papà che raccontavano le bombe, i rifugi, il terrore, la distruzione. E zi’ Margherita... ca teneva trint’anne quann’ascette chill’ iourno cu ‘a nennélla. E zi’ Nanninella… cu chill’uocchie chiare chiare e chilli capille ‘e oro… quant’era bbella… nun ne teneva manco quìnnec’, ‘e anne... E ‘a mamma vòsta… ca c’ aveva stà essa, llà sott’, ma zi’ Nanninella ce dicette: “Vattenn’a pparlà ncopp’ ’cu Mario, ca ce vac’ io ‘o posto tuoie”... E nove iuorne sotto’a ddoie palazze, tutt’ ‘e ttré... E ‘a nonna ca scavava cu ‘e mmane... E i surdate, c’ ‘a vulevane mannà ‘a casa... E essa c’ alluccava ca ce steve ‘a carna soia là ssott’… e ll’avevan’ lassà fa’. E la vita che non era più vita, i giorni e le notti passati nei rifugi con l’assillo costante del passaggio di quei seminatori di morte che squassavano anche le loro menti, i loro petti. E gli aerei che cominciarono a scendere anche a bassa quota a mitragliare la popolazione intenta a scappare. Seminatori di morte che poi calpestarono quei suoli da liberatori e in cambio raccolsero sorrisi; i sorrisi dei sopravvissuti, che invece raccattavano scatolette, calze di seta, sigarette, e le loro anime a pezzi, pur di andare avanti. Le era stato solo raccontato, è vero, ma in una di quelle case rimaste in piedi lei viveva ancora. E se qualcuno ancora oggi glielo chiedesse, sarebbe in grado di descrivere, come era stato fatto con lei, cosa c’era prima. Prima che decidessero che quella città sarebbe potuta anche sprofondare, se questo voleva dire fare insorgere il popolo contro il fascismo. Non importa quanta gente sarebbe morta: duecento, trecento o novecento morti in un giorno, sotto quelle case, le chiese, gli ospedali, i teatri, gli uffici. Sì, a lei era stato solo raccontato, ma in tutti i fluidi del suo corpo, nelle trame dei tessuti, la memoria aveva lasciato il segno. Depositaria di un sapere che a sua volta non era riuscita a tramandare, perché il suo sangue l’aveva versato invano, in grumi infecondi e in gomitoli di vita probabile, che non aveva voluto trattenere. Ora si sofferma a guardare il muschio denso che affiora sulla zoccolatura della casa di fronte. E così è per tutte le altre, soprattutto da quel lato della via, insieme al nero dei fumi, l’unto dei cibi e i vari strati di escrementi animali, col passare degli anni, pare fare da collante a quelle pietre dure. Eppure, in certi tratti, il manto d’intonaco si sfarina, scoppia, cade e si frammenta. Fa da sfondo a manifesti strappati, ricoperti e poi di nuovo strappati. Interrompe l’arroganza di versi stucchevoli e sgrammaticati spruzzati un po’ovunque a cantare amori e certezze che non conoscono rivali nel passato, né limiti nel futuro. Piccoli balconi, da cui a stento ci si può affacciare, s’infilano e s’incolonnano in rigida sequenza, allietati qua e là da “teste” di basilico e vecchi gerani. Il nuovo sta nei motori dei condizionatori, che aumentano di anno in anno e che vanno ad occupare un po’ ovunque, quegli spazi esigui. D’estate, dove una volta il fresco si sentiva per forza, visto che il sole non riusciva a entrare, la temperatura s’è alzata di qualche grado per colpa loro. Il suo sguardo ora si abbassa sulla strada, dove stillicidi segreti di gocce ambrate, s’infiltrano e colano, scorrendo lente tra le pietre oblique, bocciardate e lucide. Scorre dall’alto in basso l’acqua. Porta con sé ogni tipo di messaggio e informazione. Si colora man mano di materia viva, vegetale e organica, chiacchiere e canzoni, risa, mormorii e bisbigli, e poi oli e plastica, sangue e lamenti, strilla, dolori e inganni. Da quando ci è nata, lì è sempre così. Fa ancora avanti e indietro con lo sguardo, quando si accorge di due figure che compaiono all’improvviso in cima alla strada. Sono emerse dal dosso dell’incrocio come un articolo il: una bassa, l’altra alta. A passo svelto scendono vicine, con le teste sprofondate nei lunghi cappotti. Due ombre nere, appena illuminate dal debole lampione vacillante. Rimane un po’ a osservare per capire chi sono, se li conosce, se è gente di lì, ma fatica a distinguere. Rientra di un passo sull’uscio, si infila il giubbotto e si risistema dov’era, tenendo con la mano la porta socchiusa, non perché abbia paura (da tempo sa quando è il momento di tirarla fuori la paura) ma solo nel caso non avesse voglia di farsi vedere e volesse rientrare all’ultimo momento. I due sono ancora lontani ma anche se la figura piccola indossa pantaloni e scarpe basse, riesce a intuire che è una donna: è più sottile, e da come cammina, non sembra lasciare altri dubbi. Le dispiace che la sigaretta sia quasi finita. È la sua arma migliore la sigaretta. Riesce a coprirla più di una maschera. Con lei in mano, le sembra di riuscire a non trasmettere il vuoto che sente dentro. Il buio delle sue ore solitarie. Quella sensazione di non esserci, anche se si è lì, si ha un corpo fisico attaccato a quei pensieri che non pensano più a niente. I due incedono veloci, spinti dalla ripidità della discesa. Non si parlano, ma il rumore dei loro passi prende una cadenza marziale e progredisce avvicinandosi in colpi secchi e sincroni. Unò duè, unò duè, unò duè. “Rauss, rauss! Tutti fuori, tutti fuori o caput!” E a faccia du ‘o nonno quanno vedett’ ‘o fuoc’ c’ asceva da ‘a puteca... Cu chill’uocchie affussate miez’ a chella faccia magra, magra... E a nonna ca chiagneva e i tedeschi ca pigliaréno ‘o nonno ca ‘a pistola dint’ a ‘na tempia. Accussì, guardate! La boccata si porta via un centimetro ancora di fumo. Unò duè, unò duè, unò duè. E ‘o nonno ca cadette ‘nterra e ‘a nonna c’alluccava... E llor’ ca vulevan’ sapé addò steveno ‘e priggionier’... e ‘o nonno che diceva ca nunn’ ‘o ssapeva... E pigliareno a mme, ca tenevo diciassett’ann’ “Bella bionta, tu fenire in Cermania”... E pigliareno a mme e a n’atu guaglione, ‘o figlio e ‘Ngiulina, Pascalino... E ce purtaren’ abbascio ‘o municipio... Unò duè, unò duè, unò duè. E ‘o comandante era auto, biondo. Teneva ll’uocchie ‘e ghiaccio... E me facette trasì... diceva ch’ ero bbella... E ce steva pure ‘na femmena, piccerella, cu ‘na faccia ‘e fetente... E ie chiagnevo... E essa redeva... E isso me vasaie, e ppo’ me mettette ‘na mano mmiez’ ‘e cosce, ma ie chiagnevo... E allora isso se fermaie... E essa, cu nu surriso favezo, me carezzaie i capille, e me dicette ca me ne putev’ i’, cu llat’... Unò duè, unò duè, unò duè. Le due figure ora cominciano a farsi vedere in viso, anche se la luce, sospesa nel mezzo della strada, proietta lunghe ombre sui loro volti estranei. Quando sono ormai a due portoni da lì, lei distoglie lo sguardo con ostentata lentezza, voltandosi dall’altra parte e… aspira. Aspira ancora una volta profondamente trattenendo la boccata. Calcola dal rumore dei passi i metri esatti che li separano. Poi si rigira solo di qualche grado, mostra loro il profilo, e soffia via il fumo un istante prima del loro passaggio, inondando il viso della piccoletta. Come a sbarrarlo, quasi fosse un monito, un divieto. Un gesto istintivo. Un impulsivo irrefrenabile, di rifiuto, dettato dalla riacutizzazione di un dolore ormai totale, che l’accompagna muto in ogni istante della vita; segue nascosto ogni suo gesto, senza mostrarsi mai. Ed anche se non riesce più a scalare l’abisso in cui è stato sepolto, le ha modificato i tratti del viso dal di dentro. Le ha svuotato lo sguardo, scavando solchi profondi tra gli organi di senso. Un dolore che è maturato come un frutto: da aspro, crudo sodo e acido quando è nato, si è ammorbidito arrivando lentamente a non farle più storcere la bocca. Si è illanguidito in note inaspettate, a tratti dolci, mielate di autocommiserazione. Lentamente si è disfatto, molle e disgustoso, portandole in bocca solo il marcio della decomposizione. E alla fine si è rinsecchito, diventando una membrana ammuffita, una fitta tela malefica a barrare ogni fiato di sollievo. Poteva essere diversa la sua vita. Solo a questo riesce a pensare. Non era scritto da nessuna parte che avrebbe dovuto buttarla via a quel modo, a far da casa a mani e cazzi sudici, solo perché era a chiù bellella e ‘e ssore aveveno ‘a studià. Senza fermarsi, i due la guardano appena con la coda dell’occhio e si allontanano, così come erano venuti, e i tonfi sordi dei loro passi, cambiando suono, paiono più leggeri. La sigaretta è arrivata al filtro e ha cambiato sapore. Lei se la volta dalla parte della brace quasi a interrogarla, poi la rigira di nuovo e con un gesto ormai consueto, stringendola fra medio e pollice, la scocca decisa facendola finire poco lontano, tra le pietre bagnate. Categoria Scuola Superiore 1° Premio ‐ “La bambina coi puntini sul viso” di Lorenzo Di Anselmo (Liceo Gandhi Narni) “Sei la bambina più bella che io abbia mai visto”. “Non è vero, io ho le lentiggini”. “Appunto, proprio per quello! Ti rendono il volto così grazioso e delicato!” “Non dire bugie – disse piangendo – lo sai benissimo che non è così. E poi più cresco e più aumentano”. “Dovresti esserne orgogliosa – le ripetevo – tutti dovrebbero avere le lentiggini. Tu non lo sai, sei piccola, non sai quello che significano…” Ad essere sincera, cosa significassero quegli strani puntini rossi sulla sua faccia, non lo avevo capito bene nemmeno io, ma evitavo di farglielo notare. In fondo, erano dolci, le conferivano purezza: non si poteva certo dire che non la rendessero carina. Le donavano e, in un certo senso, gliele invidiavo. Non che fossero poi così esagerate, ma certamente erano evidenti, marcate direi, come se qualcuno gliele avesse disegnate con un morbido pastello sulla sua pelle candida, non facendosi notare, magari mentre dormiva. Era testarda: era capace di piazzarsi per un giorno intero davanti uno specchio, guardandosi attentamente, contando di continuo quelle lentiggini, aspettando che ne uscisse una nuova, così da debellarla prontamente. Eppure, questa sua affannosa ricerca non aveva mai portato nessun risultato. Andava a dormire fiera di sé, convinta che la sua meticolosa attenzione avesse scoraggiato le lentiggini a presentarsi; ma al mattino dopo, quando riprendeva a contarle e ne scopriva di nuove, terminava in un’angoscia senza fine e si sfogava con un pianto liberatorio, che era insieme umiliazione e frustrazione. Margherita era, allo stesso tempo, la bambina più tormentata e dolce dell’intero paese. Tuttavia, per chi non sapeva comprenderla, era veramente difficile da apprezzare e da decifrare, come il più complicato degli algoritmi matematici. Aveva una forte tendenza a isolarsi, come se rifiutasse l’unione e la condivisione, come se niente e nessuno fosse in grado di risolvere i suoi dubbi e di colmare il vuoto che gravava intorno a lei. Odiava la pioggia perché le ricordava le lacrime, ma amava le stelle perché brillavano, brillavano lontane. Guardava il cielo continuamente, sussurrandogli qualcosa che nessuno è mai riuscito a capire. Nelle sere d’estate, col vento tiepido e le lucciole in fervore, uscivamo in cortile, allungava la manina delicata verso il cielo e mi chiedeva: “Tu riesci ad afferrare le stelle?”. Interdetta, abbassavo lo sguardo senza darle risposta, così che si allontanava, triste e delusa. Era più piccola di me di quattro anni, ma questo non ostacolò la nostra amicizia: il nostro legame era immune da qualsiasi vincolo e i nostri sentimenti combaciavano perfettamente, al punto che parecchi ci scambiavano per sorelle. “Dio mio, io e Marghe sorelle? Ma non vedi che lei ha le lentiggini?”, ero solita rispondere, quasi con ironico distacco. Questa mia precisazione, ogni volta, la faceva innervosire; credeva che mi divertissi a sottolineare quell’aspetto che lei tanto odiava: in realtà, non sapeva che io cercavo di esaltarla, e non di denigrarla. Infatti io, quel suo odio per le lentiggini, proprio non l’ho mai capito. Amava la solitudine Margherita. Incuriosita, la osservavo spesso dalla mia finestra: la vedevo vagare nel cortile intorno casa, sedersi nel prato, pronunciare silenziosamente qualcosa di incomprensibile ai fiori delicati e poi affievolirsi insieme a loro, stanca e disillusa. Tuttavia, Io ero stata la sua prima amica e, probabilmente, ero rimasta anche l’unica. Lei mi aveva scelta tra le altre bambine del nostro quartiere per la mia età: ho passato gran parte della mia giovinezza a chiedermi se Margherita cercasse in me una mamma oppure una semplice amica. Credo che la risposta non ci sia: ella cercava entrambe le figure, indistintamente. Così dovevo, contemporaneamente, ascoltare i suoi problemi e darle dei consigli, rimproverare le sue colpe e comprendere i suoi errori. Eppure, nonostante tutte le difficoltà, il ruolo che lei, inconsapevolmente, mi aveva affidato mi piaceva; o meglio, mi inorgogliva, riempendomi di responsabilità: percepivo che aveva bisogno di me e cercavo affannosamente di non privarla del mio appoggio e della mia presenza. Il problema di Margherita è che non aveva la sua mamma: più precisamente, non l’aveva più. L’aveva infatti conosciuta e amata e proprio per questo la sua scomparsa le risultò ancora più drammatica. Sua madre, che soffriva di un male incurabile, se ne era andata in una mite giornata d’autunno, mentre lei era a scuola e con la testa chissà dove. A Margherita, di ritorno da scuola, col suo solito zainetto in spalla e tanti pensieri per la mente, dissero che la mamma sarebbe rientrata a breve, ma passò la sera e tutto il giorno successivo, la bambina non fece domande, si sedette in un angolo e si mise a piangere. La mattina dopo si alzò impaurita, come se qualcosa l’avesse turbata nel sonno: corse in bagno, si affacciò allo specchio e si rese conto che le lentiggini le avevano letteralmente invaso il viso. Margherita aveva dieci anni e l’anima in frantumi. Passava le giornate a ricomporre i pezzi della sua esistenza e io la aiutavo in questo percorso che appariva arduo e infinito. Ma come si può consolare una bambina così piccola che, all’improvviso, ha perso il suo punto di riferimento principale? Esiste forse un modo? Ahimè, io non lo conoscevo; né sembravano conoscerlo tutte le altre persone che facevano parte della sua vita. Pian piano, però, seppe reagire da sola: il dolore si andava affievolendo, la nostalgia sembrava scomparire e Margherita, finalmente, poteva riprendere la sua vita di tutti giorni. Non aveva più la mamma, ma tante lentiggini in più. Diverso tempo dopo – credo fosse agli inizi di maggio – un giorno mi venne incontro correndo: sembrava nervosa, stanca, incosciente. Correva, come se facesse a gara col vento: esso le smuoveva i capelli e lei lo inseguiva. Mi si avvicinò: aveva il respiro affannoso e l’aspetto stravolto e ripeteva, come un fanciullo che si è smarrito: “E’ successo di nuovo, è successo di nuovo”. Urlava, singhiozzava, gemeva: probabilmente non provava dolore, ma soltanto amara delusione. Non sapevo a cosa potesse riferirsi e, perciò, ero immobile, incapace di reagire. Si aspettava una risposta da me, credeva di meritarla, ma, vista la mia titubanza, riprese più energicamente: “Ma non dici nulla? E’ successo di nuovo, capisci? Di nuovo!” – fece una pausa brusca, quasi preparatoria a un’affermazione tragica, poi sentenziò – “Il mondo è crudele”. Dopo un profondo respiro, balbettando, continuò: “Stanotte è morta mia nonna, proprio come mamma. Maledetti dottori! Non hanno salvato nemmeno lei! Era fantastica e mi voleva tanto bene. Stamattina ho pure visto che sono aumentate le mie lentiggini, stupidi puntini inutili!”, si sfogava parlando, ma diceva frasi sconnesse, senza seguire un filo logico. Provai a calmarla, le misi una mano sulla spalla, le trasferii tutto il mio calore e le confessai: “Vedi Margherita, non odiare le lentiggini, anzi, vanne fiera: esse sono il segno indelebile del tuo passato. Tu sei forte e coraggiosa e hai le lentiggini laddove gli altri hanno le cicatrici”. Motivazioni della giuria Una bambina in frantumi cerca riparo sotto l’ala protettiva di un’amicizia mentre il suo corpo cicatrizza le ferite dell’ anima disseminando sul volto puntini rossi che, agli occhi della sua amica più grande, lo rendono grazioso e delicato come se un pittore ci avesse disegnato una mappa con un morbido pastello. Un linguaggio fresco e vigoroso sottolinea il valore autentico dell’amicizia in età adolescenziale, conducendo la narrazione con mano ferma e spigliatezza nei contorni di un realismo drammatico che conferisce al ricordo e al racconto originalità. Menzioni Speciali – Categoria Scuola Superiore Perdersi inconsciamente di Sofia Rossi Bartoli (Liceo Galilei Terni) Ho sempre avuto paura dell'oblio, del vuoto, del nulla. L'unico modo in cui riuscivo ad affrontare ed ad aggirare questa mia fobia era rifugiandomi nella sua natura astratta, nella sua esistenza solo prettamente ideologica; mai avrei pensato che si sarebbe potuta concretizzare nel momento in cui avrebbe smesso di turbarmi. A cinquant'anni compiuti avevo tutto ciò che desideravo ed a cui avevo ambito. Ero felice, o meglio, vivevo nell'illusione della felicità; l'oblio, che tanto temevo da giovane, non mi spaventava più: la mia esistenza era troppo piena perché io temessi il vuoto, troppa la positività che recavo verso una vita che non mi aveva mai deluso. La prima e definitiva delusione arrivò, però, un giorno ad un convegno, mentre stavo recitando il discorso che mi ero preparata per giorni e verso la cui metà mi bloccai: tutto ciò che sapevo di dover dire era svanito dalla mia mente; incolpai la stanchezza, sperando in un fortuito evento isolato, ma purtroppo non si dimostrò essere ciò che credevo. Mi accadde, infatti, da quel giorno numerose altre volte, ma non volevo affrontare il mio problema, preferivo vivere nella protezione dell'ignoranza che andare contro alla distruzione che la conoscenza e la consapevolezza di ciò che mi stava accadendo, mi avrebbero arrecato. Quando, però, il mio dimenticare divenne troppo evidente, troppo ingombrante per essere nascosto, fui costretta a risalirne alla fonte. Andai, così, da un neurologo, feci tutti i test necessari e, terminati, andai nella sala d'attesa aspettando la risposta che avrebbe potuto cambiarmi la vita. Mi ridussi a soccombere all'azione che rovina gli uomini allontanandoli dalla realtà della vita stessa: mi persi nell'attesa. D'altronde la gente aspetta per tutta la vita, aspetta per vivere, per morire, per trovare l'amore; il vero nostro sbaglio è il non cercare mai veramente le cose, ma perderci nella ricerca di esse; viviamo nell'attesa di vivere, sperando sempre che qualcosa cambi nella nostra vita senza fare nulla perché ciò avvenga, ma paradossalmente questa volta io aspettavo, sperando che nulla sarebbe cambiato; per la prima volta ero una persona che sperava nell'immutabilità della sua vita. Avevo sempre odiato attendere: l'attesa crea e ingrandisce le tue paure, ti permette di pensare più di quanto dovresti e così a poco a poco ti logora. In quella piccola sala d'attesa era ciò che stava accadendo in me, ma fortunatamente dopo poco arrivò il medico con la risposta, si sedette sulla sedia vicino alla mia e fu in quel preciso instante, al pronunciare delle sue parole, che l'oblio si mostrò nella sua forma concreta e tangibile: avevo l'Alzheimer. Andai a casa incapace di pensare, di piangere, di provare dolore; nella mia mente c'erano solo odio, rammarico e disperazione. Un odio profondo per la vita a cui sarei stata costretta a sottopormi, senza via d'uscita, senza alternative, senza speranza; odio che si sommava alla già profonda nostalgia che provavo nel pensare alla vita che avrei potuto vivere, felice, con ancora tante scelte da compiere; un'esistenza che mi avrebbe reso migliore, non peggiore o inconsistente come purtroppo sarei diventata. Sin da piccola vivevo nel timore di fallire, paura che mi frenava dal mettermi in gioco, dal dare tutta me stessa; ora, invece, vivo nel terrore di annullarmi, di perdermi, di diventare insignificante materia. Questa volta, però, ciò che tanto temo non è astratto, fa parte in modo certo del mio futuro, ciò accadrà: io mi perderò nel baratro del nulla, la mia vita non è altro che un conto alla rovescia verso lo smarrimento di ciò che rappresenta e costituisce ciascuno di noi: i ricordi. Chi diverrò senza di essi? La mia infanzia, la prima delusione, le mie piccole grandi conquiste, il matrimonio, la nascita della mia splendida figlia, la felicità provata, il dolore sopportato, la tristezza evitata, la soddisfazione meritata; tutto questo sarà come se non fosse mai esistito, l'ombra di una vita che svanisce alla luce del sole. Diverrò un'anima senza identità che vive senza poterselo ricordare e morirà nell'inconsapevolezza di averlo fatto. I giorni, gli anni esistono perché ce li ricordiamo; ciò che non vediamo, che non sentiamo in prima persona in realtà per noi è come se non esistesse e allo stesso modo io vivrò in un mondo fatto di nulla, di oggetti che non conosco, di concetti che non capisco, di persone tanto vicine quanto estranee. La mia esistenza perderà il suo significato perché io, non potendo ricordare, sarò incapace di comprenderlo. Mentre chi vive ricorda e impara, io vivendo dimenticherò e disapprenderò, vivrò una vita inversamente concepita e morirò in un presente costante, non conoscendo il mio passato e con la persa capacità di crearmi un futuro. Non potrò più rifugiarmi nelle mie esperienze, sarò completamente vulnerabile ed incapace di difendermi dalla perdita di me stessa. Sento bussare alla porta, debolmente rispondo: "Avanti" e una bellissima ragazza fa il suo ingresso nella stanza con in mano un grande mazzo di fiori. "Ciao mamma come stai?" mi chiede guardandomi teneramente e porgendomi il bouquet, per un attimo mi sento confusa, mi ha chiamato mamma? Sicuramente si sarà sbagliata, io non ho figli, me ne ricorderei di certo se fosse altrimenti. "Chi sei?" le chiedo "Mamma sono tua figlia Giulia, sai oggi sono andata in quel parco vicino al museo dove andavamo sempre dopo scuola, mi sono seduta sulla panchina vicino alla fontana e ho rivissuto quelli che sono i ricordi più belli della mia infanzia, quelli passati con te mentre mi facevi fare i miei primi giri in bici o quando mi compravi un gelato finendo per mangiarlo tu stessa. Mamma mi mancano quei giorni, mi manchi te, terribilmente." Seppur non conoscendola sono toccata dal suo trasporto nel raccontare quei momenti e senza motivo scoppio in lacrime o forse per un motivo la cui natura mi era preclusa. Lei mi consola per poi continuare a parlarmi della sua vita; riempiendo con ogni sua singola parola un vuoto interiore, ormai incolmabile, che sento da tempo. Verso l’ora di pranzo si alza dicendomi che tornerà a trovarmi, dopodiché se ne va dandomi un tenero bacio sulla fronte. Mi risveglio nel tardo pomeriggio sentendo la solita nebbia, che mi invade ormai quasi permanentemente la mente, dissolversi, chiamo l'infermiera, le chiedo un bicchier d'acqua e le domando con ansia se qualcuno sia venuto a trovarmi, mi risponde di sì; era venuta Giulia come ogni giorno. Ogni volta che sento questa risposta sono come pervasa da un misto di gratitudine ed infinita tristezza. Gratitudine per mia figlia, per i suoi sforzi, per le sue visite e infinita tristezza perché non posso ricordare nemmeno più il suono della sua voce o l'ultima volta passata insieme nell'ultimo anno. Questi rari sprazzi di lucidità, invece di restituirmi piccole parti di me stessa ne demoliscono altre; preferirei, infatti, vivere in un buio eterno piuttosto che provare per pochi attimi il piacere che la luce reca con sé. Sin da quando scoprii di avere questa malattia, ben tre anni fa, avevo il timore di ciò che sarebbe accaduto, di quello che sarei diventata; ora, che sono ad un passo dal cadere nel baratro della dimenticanza assoluta, non ricordo nemmeno più cosa sia la paura e sinceramente non vedo l'ora di cadere definitivamente. Neve di Caterina Rosati (Liceo Donatelli Terni) Aprii piano la grande porta di legno ed entrai di sottecchi. Mi avvicinai al giradischi e misi un disco nerissimo di Bach sul piatto. Accesi il motorino e posizionai il braccio. La musica partì. Mi sedei di peso sull’usurata poltrona di pelle verde imbottita guardando fuori dall’imponente finestra quelle persone che passeggiavano senza meta nel parco della struttura. Come facevano quei disgraziati lì a non ammazzarsi sebbene la vita gli avesse dimostrato più volte che non possedevano la stoffa per esistere? Li guardai compiaciuta e sorrisi. Si muovevano come formiche impazzite, alcuni scortati da medici in camice bianco, altri dementi dagli occhi a mandorla e dal muso schiacciato si baciavano senza capire, forse, cosa significasse quel gesto, altri ripetevano sempre i medesimi movimenti, altri urlavano e si dimenavano, altri ancora scrutavano all’interno delle fessure degli alberi in fiore e si rotolavano nel fango come maiali. Non li capivo, ma dicevano che ero anch’io una di loro. Il primo giorno che arrivai nella struttura avevo un polso squarciato e l’aria saccente di una sedicenne. L’autista di mio padre mi portò fino all’entrata ripetendomi più volte che “Le signorine per bene non fanno vedere le proprie increspature” e che non sarei uscita da lì molto presto. Io non davo peso a ciò che diceva: non avevo avuto mai alcuna sofferenza per cui avessi dovuto punirmi. Il taglio non me lo ero fatto io, me lo aveva procurato quell’uomo che mi aveva cresciuta, accudendomi e amandomi come qualsiasi padre. Proprio quando la vita sembrava essermi perfetta, il mostro mi attaccò alle spalle. Quando mi prese, non riuscii neanche a voltarmi e, quando potei farlo, non ebbi il coraggio di guardarlo in viso. S’approfittò della mia giovane carne sporcandola per la prima volta, senza neanche preoccuparsi delle lacrime che bagnavano di nuovo i piatti che ero in procinto d’asciugare adagiati nel lavello. Quando ebbe finito mi lasciò lì, urlandomi di non fare parola dell’accaduto se non avessi voluto dei travagli. E così feci. I mesi passarono e anche lui passò molte volte sul mio corpo inquinandolo, rendendolo di sua proprietà, senza lasciarmi altra scelta se non quella di sopportare. Una volta si stava stringendo la cinta e allacciando i bottoni dei pantaloni quando presi coraggio e mormorai qualcosa che sembrava una minaccia. Divenne bianco in volto. Prese la giacca, sfilò dalla tasca interna un coltellino svizzero e mi taglio un polso; si mise l’indumento, se lo sistemò con fare da gran signore e se ne andò nell’indifferenza. ‘Che stupida’, pensai; avrei dovuto lasciarlo fare e sopportare. Mi sollevai la lunga gonna grigia fino alle ginocchia e sentii il caldo sole primaverile stagliarsi sulle mie gambe baciandole lentamente. Scivolai sulla poltrona e socchiusi gli occhi accettando il leggero piacere di essere ferita dai ricordi. Raccontò del mio taglio sul polso e disse che non voleva una psicopatica in famiglia, così mi spedì qui: in un manicomio dai corridoi strettissimi e dai dormitori sovrappopolati, dai pasti troppo cotti alle volte e troppo crudi in alcun’altre, con il verdino e il marrone nauseante delle pareti e dei pavimenti. All’inizio ci furono dei momenti in cui mi trovai spaesata e vogliosa di tornare a casa, ma pensavo che ne avrei fatto ritorno presto, poiché non ero pazza, non lo ero mai stata. Il peggio arrivò quando iniziai a dubitare di me stessa, quando cercavo di darmi una risposta sul perché io fossi lì da così tanto tempo e perché nessuno mi fosse venuto anche solo a cercare. Cominciai a sentirmi insana anch’io. Stavo ammirando la neve che piano scendeva e che, toccato il suolo, vi rimaneva per alcuni istanti prima di sciogliersi, quando due infermiere mi dissero di seguirle. Mi portarono in una stanza e mi fecero sedere su di una poltroncina dai braccioli graffiati, bucati, come se qualcuno li avesse voluti strappare in preda a qualche strana convulsione. Mi attaccarono degli elettrodi sulla testa e mi ricordai un medico, forse un allievo, che mi tenne una mano, la carezzò, grattò le sue unghie contro le mie, premette il pollice al suo centro, quasi a volerla baciare. Mi guardò un ultimo momento; il medico disse a un infermiere se avesse sistemato tutti gli elettrodi al posto giusto e, all’affermazione positiva di questo, accese la corrente. Spalancai gli occhi impaurita, quando una notte sentii una mano tapparmi la bocca pressandola. Vidi quel medico apprendista che, con occhi indecifrabili, mi disse pacatamente di seguirlo. Avevo paura. Non mi mossi. Mi prese per un braccio trascinandomi fuori da quel buio pieno di menti insane e mi portò verso una grande porta socchiusa, dalla quale usciva un raggio di luce violenta. C’era una poltrona di fronte ad una finestra imponente. Mi ci fece sedere. La pelle verde del seggiolone cigolava, grugniva sotto i polpacci che la camicia da notte lasciava scoperti. Prese una sediola di legno imbottita e la posizionò accanto a me. Lo guardai. Gli feci una smorfia bambinesca. Guardai in basso. Riposai di nuovo gli occhi sul suo sguardo che ora si era fatto rassicurante. Retrassi la testa nelle spalle. Piansi. Si alzò, si accucciò accanto a me e si sfilò con un gesto rapido della mano il fazzoletto da taschino passandolo sotto i miei occhi. Mi sfiorò gli zigomi con il dorso della mano per poi abbracciare le mie gambe. Gli uscì un primo sussulto. La gabbia toracica gli si gonfiò quasi a voler scoppiare e si lasciò andare a un lungo pianto. Mi disse che avrebbero fatto in modo che un pomeriggio come questo mi sarei sdraiata abbandonandomi alla calura del sole e che l’avrei visto spegnersi davanti ai miei occhi; non avrei visto più nulla, non sarei più esistita. Speravo ardentemente di morire una notte, senza lasciare tracce, se non un corpo gelido e impettito, senza rendermi nemmeno conto di cosa avrei lasciato su questo mondo, trascinata dai sogni di una vita diversa. Fissai il bicchiere sulla scrivania. Mi convinsi. Lo riempii con del liquore che stagnava in un cassetto da mesi. Sbottonai metà della camicetta di seta ed estrassi dal reggipetto una manciata di piccoli addii sferici gettandoli tutti in bocca, con violenza, non curante del fatto che alcuni di essi finirono sul pavimento ticchettando ad ogni piccolo rimbalzo, rotolando fino ad incontrare degli ostacoli. Bevvi due sorsi veloci di liquore e poggiai il bicchiere a terra. Il mio corpo era ormai indolenzito e gli occhi annebbiati quando si postò davanti a me. La sua figura salda, giovane, alta, sembrava cedere ogni volta sotto l’atto di quel gesto inspiegabile. Mi baciò come quei due ragazzi dagli occhi allungati senza capirne, come loro, il motivo. Ci baciavamo forse perché era semplicemente la cosa giusta da fare, come se l’amore fosse un’ipocrisia della vita che ci fa sentire forti e fragili, invincibili a chiunque, essendo, però, vinti da qualcun altro. Lo guardai come se fosse il mio ultimo sole, il mio ultimo tramonto e mi sciolsi, come quella neve che rimane un istante sul suolo prima di svanire, lasciando un piccolo alone bagnato nel terreno come unica traccia della sua esistenza sofferta. Non ero pronta. Volevo vivere, ma ebbi più coraggio a morire. CATEGORIA C‐ Scuola Media Il Ricordo più azzurro di Beatrice Pasquini (Istituto Luigi Valli Narni) Quando ero piccola mamma mi lasciava a nonno e con lui andavamo sempre ai giardini pubblici del paese. Io ero contentissima perché lì c'erano molti bambini e tanti giochi e soprattutto perché mi divertivo come una matta quando nonno mi spingeva dall'altalena. Pensavo che un giorno sarei riuscita a toccare la morbidezza delle nuvole e l'immensità del cielo. Pensavo al perché dell'azzurro, a come mai in natura possa esistere questo colore così vivo e spensierato. < Forse il cielo è uno specchio gigantesco in cui il mare può guardarsi?> < E chi lo sa! Chi l'ha mai toccato...> mi rispondeva mio nonno. < Guarda che io sono capace, basta che tu mi spingi forte, forte!>. Allora nonno, con le sue mani robuste, mi prendeva in braccio, mi faceva sedere sul seggiolino dell'altalena e io mi preparavo con le mani ben salde alla protezione. < Pronti, partenza e… via!>. Bastava una delle belle spinte forti dall'altalena, come quelle di nonno che mi facevano sentire altissima, e io potevo toccare il cielo con un dito. Andavo su. Sempre più in alto. Ad ogni spinta mi immaginavo in quello stormo di uccelli che ogni tanto passava sopra Narni. Era emozionante. Come una regina seduta su di un trono volante. Credevo di essere l'unica bambina al mondo ad avere un nonno così forte, in grado di farmi arrivare lassù, dove volano le rondini. Mi sentivo la nipotina più fortunata dell'universo. Quando ritornavamo a casa, felicissima, raccontavo a nonna con entusiasmo la grande impresa nell'azzurro, riempiendole le orecchie di risate. Alla fine con nonno decidemmo che il cielo sarebbe diventato “Il Nostro Segreto” da non svelare mai a nessuno, come una promessa che durerà per sempre. Motivazione della giuria La consistenza del cielo indagata da un osservatorio particolare: un trovo volante. In questo piccolo racconto l’autrice sa disegnare alla perfezione la purezza e la materializzazione dei sogni infantili. Il ricordo di suo nonno e il privilegio del rapporto speciale che la bambina ha intessuto con lui si concretizzano in pochi periodi ben costruiti che consentono al lettore di fare un passo indietro e immedesimarsi in quell’aria sognante e densa d’amore che solo un ricordo “da bambini” può rievocare. CATEGORIA Scuola Media ‐ Menzione Caro Cuore di Camilla Bonifazi, Ginevra Giommi, Giulia Giorgi, Chiara Peciarolo Caro cuore, cuor ti prego, non lasciare che il tempo tradisca la mia mente facendomi dimenticare di Lei. Lei che mi ha insegnato ad apprezzare la vita, a guardarla con occhi diversi. Ora sono qui, nella casa buia e vuota, dove un tempo correvo appena uscita da scuola. Lei era lì, con le braccia aperte pronte ad abbracciarmi calorosamente e con il grembiule tutto infarinato per il dolce che aveva preparato solo per me. Quello, una delle infinite cose che aveva provato ad insegnarmi…ma tanto era inutile, non sarei mai riuscita ad eguagliarla! Le sue grandi mani invecchiate dal tempo e dal lavoro nei campi, il posto in cui trascorreva la maggior parte della sua giornata ad aiutare il padre nei lavori più ardui, senza mai lamentarsi. Ricordami i suoi occhi di un verde intenso, come il bosco in primavera, che per tanto tempo era stato la sua casa, il suo rifugio dall’atroce guerra. Non dimenticherò mai i suoi racconti: era ancora una bambina quando ha conosciuto il mondo crudele. Aveva la mia stessa età quando, per la prima volta, vide cadere dal cielo uno strano oggetto. Non l’aveva mai visto, ma pochi istanti dopo conobbe i suoi effetti: il villaggio vicino si trasformò in una nube di cenere nera. Che meraviglia ascoltare le sue lontane storie, fortuna non averle vissute. Ed ascoltare quelle parole piene di saggezza e di esperienza, che donavano consigli preziosi, da me chiesti nei momenti più difficili da affrontare. Ricordo l’estate scorsa: mi ero innamorata del ragazzo nuovo e volevo a tutti i costi conoscerlo, così mi sono confidata con Lei che mi ha convinto a farmi avanti, ed ora è il mio migliore amico. Camminando per le stanze arrivo in salotto dove mi salta subito all’occhio il vecchio giradischi, velato da un sottile strato di polvere. Allora me lo immagino qualche mese fa lucido e brillante, poiché era l’oggetto a Lei più caro per il quale aveva particolari attenzioni. Ogni giorno ascoltava il suo disco preferito mentre svolgeva le faccende domestiche, canticchiando le sue canzoni; sentire quelle melodie era diventata una routine quotidiana molto piacevole, al punto che ancora oggi neanch’io posso farne a meno. Quando ero più piccola ci stringevamo in un abbraccio e ballavamo per ore al ritmo lento di quei vecchi brani. Vedendolo così mi fa malinconia, vorrei rivederlo splendere come in quei giorni recenti ma lontani, vorrei portarlo via con me per non vederlo inutilizzato. Molti direbbero “Che cosa ci fai?”, ma solo io so quali emozioni mi suscita anche solamente nel vederlo. Ricordami anche le sue orecchie che hanno ascoltato tante discriminazioni perché donna, sempre considerata inferiore rispetto all’uomo, ma lottando è riuscita ad ottenere i suoi diritti. Numerose sono le foto delle sue manifestazioni per ottenere il diritto al voto e per molti anni si è battuta anche per lo stesso motivo per i Paesi in cui le donne non sono libere di scegliere il loro destino. Infatti proprio oggi avrebbe festeggiato tutto ciò con le sue amiche. Ricordami il suo baule pieno di abiti vecchi e altri ancora nuovi, che ricalcano le mode dell’ultimo secolo. C’è ancora il lenzuolo che avevamo iniziato a ricamare insieme, ma che resterà incompleto. Aprendolo si sente ancora quell’inconfondibile profumo di lavanda, che utilizzava per profumare i suoi vestiti. Sul fondo ho trovato quel vestito inconfondibile, bianco candido: quello che aveva indossato solo il giorno del suo matrimonio. C’era anche un corto velo che aveva sistemato con cura sui suoi folti capelli neri, e nel rivederlo le diventavano gli occhi lucidi, dicendo che avrebbe voluto che io lo indossassi nel mio “giorno speciale”. Ricordami il suo profumo di violetta, unico e dolce, che si diffondeva per tutta la casa quando al mattino se lo spruzzava sul collo e sui polsi. Quell’odore che la rendeva riconoscibile tra mille persone. La piccola boccetta che lo contiene è ancora sopra al mobile vicino allo specchio. Lo specchio che la faceva sentire importante, ogni volta che gli passava davanti e si fermava per guardare quale donna fosse diventata. Mirava il suo volto contando le rughe giorno dopo giorno, come quando da bambina vedeva se era cresciuta. Ricordami d’essere buona come era Lei; una buona madre, sempre premurosa e affettuosa, una buona educatrice, ligia e consolatrice; una buona combattente, sempre pronta a lottare per le ingiustizie; una buona moglie, come si sentiva dire spesso; una buona consigliera, che ti aiuta se ne hai bisogno. Una buona nonna, come Lei lo è stata per me !!! Manterrai la nostra promessa? La tua Cris Motivazioni della giuria La consistenza del cielo indagata da un osservatorio particolare: un trovo volante. In questo piccolo racconto l’autrice sa disegnare alla perfezione la purezza e la materializzazione dei sogni infantili. Il ricordo di suo nonno e il privilegio del rapporto speciale che la bambina ha intessuto con lui si concretizzano in pochi periodi ben costruiti che consentono al lettore di fare un passo indietro e immedesimarsi in quell’aria sognante e densa d’amore che solo un ricordo “da bambini” può rievocare. Motivazioni Menzioni I racconti menzionati delle tre categorie si sono contraddistinti per la capacità degli autori di immedesimarsi nei ricordi e renderli incarnati nella mente dei lettori, con intensità e sfumature stilistiche diverse, anche in considerazione delle diverse età e conseguentemente dei differenti campi esperienziali. “Vi mostrerò la paura in una manciata di terra” scriveva T.S. Eliot. Noi abbiamo cercato il riscontro delle parole legate alle emozioni e ai sentimenti, consapevoli del rischio eccessivo che si corre in tutti i tentativi di sottoporre il linguaggio e la letteratura a un approccio quantitativo. Se, infatti, si può essere esatti solo su ciò che si può computare, computare tutto non si può e meno che mai le metafore e le metonimie che vivono in nascondigli da cui l’algoritmo non riesce a stanarle. Un conto è dire d’amore, di rabbia, di sconcerto e di paura, un altro è rappresentare amore – rabbia ‐ sconcerto‐paura. Noi riteniamo di avere scelto attingendo all’ormai annoso precetto stilistico “invece che dire mostra”. I racconti selezionati ci sembra che mostrino con assoluta sincerità le situazioni in cui le passioni si sono scatenate.