diritto delle piccole e medie imprese
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CORSO DI DIRITTO DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE Del corso si forniscono on line: a) una esposizione sintetica della materia che sarà approfondita in classe; b) una bibliografia essenziale. c) i documenti citati in grassetto nell’esposizione ______________ ESPOSIZIONE SINTETICA DELLA MATERIA SOMMARIO 1. Oggetto del corso - 2. La rilevanza giuridica della piccola e media impresa nell’ordinamento comunitario - 2.1. Il favore del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) verso la piccola e media impresa - 2.2 Gli interventi dell’Unione Europea a sostegno delle PMI - 2.2.1. Le linee di fondo - 2.2.2. Le esenzioni dai divieti di aiuti di Stato e la nozione comunitaria di PMI - 2.2.3. I provvedimenti di semplificazione - 3. La rilevanza giuridica della piccola e media impresa nell’ordinamento italiano - 3.1. Considerazioni preliminari - 3.2. Gli interventi basati sulla classificazione europea - 3.3. Il codice civile e il piccolo imprenditore - 3.3.1. L’imprenditore e la sua tipologia - 3.3.2. Il piccolo imprenditore: disciplina e fattispecie - 4. Le forme giuridiche della piccola e media impresa – 4.1. Premessa – 4.2. L’impresa individuale - 4.3. Le società di persone 4.4. Le società di capitali in generale – 4.5. La società per azioni – 4.6. La società a responsabilità limitata - 4.6.1. I profili patrimoniali della s.r.l. – 4.6.2. I profili organizzativi della s.r.l. – 4.6.3. I diversi regimi giuridici della s.r.l. - 4.7. La società cooperativa - 5. La rilevanza delle dimensioni di impresa nella legislazione più recente – 5.1. S.r.l. con capitale inferiore a 10.000 euro – 5.2. Le imprese innovative – 5.2.1. Le imprese start-up innovative – 5.2.2. Le PMI innovative. _______________ 1. Oggetto del corso 1 Durante la vostra frequenza presso il Dipartimento di giurisprudenza avrete avuto occasione di constatare come molti corsi giuridici trattino il fenomeno dell’“impresa”, alcuni in via esclusiva, altri in via incidentale. Tra i primi basti ricordare quelli di diritto commerciale (pensate alla disciplina delle società, le quali sono tipicamente imprese collettive); di diritto del lavoro (il contratto di lavoro subordinato è costruito dal legislatore come un contratto in cui una delle parti, il datore di lavoro, è un imprenditore); di diritto industriale (che si occupa di ditta, vale a dire del nome dell’impresa; di marchio, vale a dire del nome di un prodotto di impresa, di concorrenza e di consorzi, vale a dire di rapporti fra imprenditori); di diritto fallimentare (soggetto alle procedure concorsuali è come noto in Italia solo l’imprenditore); di diritto bancario (giacché le banche sono necessariamente imprese). Tra i secondi, quelli cioè che si occupano anche di impresa ma all’interno di contesti più generali, si può fare l’esempio dei corsi di diritto costituzionale (atteso che nel testo della costituzione italiana parecchi articoli contenuti nel titolo III della parte prima – basti pensare all’art. 41 - riguardano specificamente l’impresa); di diritto penale (dove vengono studiati reati che presuppongono l’esistenza di un’impresa, come quelli societari o fallimentari); di diritto tributario (considerato che il reddito d’impresa, contrapposto ai redditi fondiari, di capitale, di lavoro dipendente e autonomo, costituisce uno dei più importanti oggetti di imposizione); di diritto processuale civile (atteso che, sulla base dell’art. 2 d.l. 24.01.2012, n. 1, come convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27, viene istituito un tribunale delle imprese con competenze su tutte le controversie in materia di società di capitali e di cooperative); di diritto civile (tenuto conto che alcuni istituti privatistici, apparentemente destinati alla generalità dei soggetti giuridici, risultano in realtà pensati con riferimento all’impresa: si pensi a contratti come quelli di appalto (art. 1655 c.c.) o di trasporto (art. 1678 c.c.), dove l’appaltatore o il vettore sono quasi necessariamente imprenditori, o al contratto di mutuo (art. 1813 c.c.), dove il mutuante è assai spesso un imprenditore, banca o società finanziaria); lo stesso si può dire di un altro corso di carattere generale, anche se riferito ad un ordinamento diverso dal nostro, come quello di diritto comunitario (basti pensare alle norme antitrust del Trattato sul funzionamento dell’UE o alle direttive UE in materia societaria).. Vi sarete anche accorti, seguendo i predetti corsi, che le diverse branche dell’ordinamento dedicati specificamente all’impresa a volte disciplinano indistintamente tutte le imprese mentre a volte prendono in considerazioni singoli tipi di impresa: così avviene per le imprese agricole, per quelle commerciali, per quelle bancarie, per quelle di assicurazione, per quelle pubbliche, per quelle quotate, e così via, ciascuna delle quali è oggetto di una disciplina speciale in quanto differenziata rispetto a quella generale. Si tratta ora di vedere se è dato riscontrare nell’ordinamento una differenza di trattamento fra imprese fondata sulle dimensioni di queste ultime: se esiste, in altre parole, un diritto speciale delle Piccole e medie imprese (d’ora in avanti PMI). Sarà questo l’oggetto del nostro corso. ____________________ 2. La rilevanza giuridica della piccola e media impresa nell’ordinamento comunitario 2.1. Il favore del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) verso la piccola e media impresa Incominciamo dall’ordinamento comunitario, il quale, nascendo dai Trattati che segnano l’appartenenza dell’Italia alla UE, è dotato di supremazia sul diritto nazionale non solo di rango ordinario (in base all’art. 117, comma 1°, Cost, secondo cui la potestà legislativa dello Stato e delle 2 regioni si esercita nel rispetto fra l’altro, appunto, dei vincoli “derivanti dall’ordinamento comunitario”), ma anche di rango costituzionale (come riconosce la nostra stessa Corte costituzionale fino dalla sentenza n. 170 del 1984, sulla base dell’art. 11 Cost.). Il fenomeno delle piccole e medie imprese è da sempre conosciuto in Europa: risulta infatti da un documento recente che le PMI sono pari al 99,8% delle imprese appartenenti alla UE, occupano il 66,9% del totale degli addetti e realizzano un valore aggiunto pari al 58,1% del totale. (v. doc. n. 1 bis, p. 2). L’attenzione dell’ordinamento comunitario a tale realtà si manifesta già a livello di normativa primaria, vale a dire nello stesso Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea o TFUE (cioè nel cd. Trattato di Lisbona, che sostituisce dal 2008 il Trattato CE, sostitutivo a sua volta del Trattato CEE in vigore dal 1958). In base infatti all’art. 173, comma 1°, TFUE , l’azione dell’Unione e degli Stati membri di questa è intesa, tra l’altro, “a promuovere un ambiente favorevole allo sviluppo delle imprese di tutta l’Unione, segnatamente delle piccole e medie imprese”. Ma come si giustifica un atteggiamento di favore dell’ordinamento verso le PMI? La giustificazione sta nell’esigenza di superare due squilibri strutturali che esse registrano rispetto alle grandi e che, anche in presenza di un assetto organizzativo ottimale, rappresentano un ostacolo specifico al loro sviluppo. Il primo squilibrio è di natura finanziaria e consiste nella loro maggior difficoltà di accesso al mercato dei capitali di rischio e di credito a causa soprattutto delle garanzie limitate che esse possono offrire. Il secondo squilibrio è di natura amministrativa e normativa e consiste nel fatto che, essendo fisso per tutte le imprese il costo di adeguamento agli obblighi di legge a queste imposto, può succedere – come è stato calcolato (v. doc. n. 2, p. 8) – che una PMI giunga a spendere in funzione di tale adeguamento fino a 10 euro per dipendente, contro un solo euro speso da una grande impresa. 2.2 Gli interventi dell’Unione Europea a sostegno delle PMI. 2.2.1. Le linee di fondo. A livello generale, l’intervento dell’Unione si è ultimamente espresso nella Comunicazione della Commissione Europea n. 394 del 2008 la quale, pur priva di valore vincolante, disegna il quadro fondamentale di una “corsia preferenziale per la piccola impresa” (uno Small Business Act per l’Europa) in 10 punti: un programma cioè di interventi il cui scopo fondamentale è quello di eliminare i deficit, in termini di accesso al credito, informazione e oneri burocratici, che intralciano le PMI in misura più che proporzionale rispetto alle grandi e, più in generale, di indurre il legislatore sia comunitario che nazionale a “pensare anzitutto in piccolo”, vale a dire a tener conto delle caratteristiche delle PMI quando dettano nuove norme o modificano il contesto normativo esistente (v. doc. n. 2). 2.2.2. Le esenzioni dai divieti di aiuti di Stato e la nozione comunitaria di PMI Uno dei possibili interventi evocati dai 10 punti dello Small Business Act - quello che si esprime attraverso gli aiuti pubblici di cui al punto V, vale a dire attraverso il trasferimento di risorse a favore delle PMI da parte dell’Unione o degli Stati membri, o mediante il finanziamento diretto delle medesime o mediante garanzia prestata alle banche finanziatrici - sembrerebbe di primo acchito in contrasto con altra norma del Trattato FUE, vale a dire l’art. 107, comma 1°, il quale dichiara incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli “aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma, che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare, la concorrenza”: un aiuto pubblico alle PMI, infatti, rischia di falsare la concorrenza delle medesime con quelle escluse da tale aiuto, vale a dire con le grandi. 3 Una scappatoia viene tuttavia fornita dallo stesso art. 107 laddove stabilisce che possono considerarsi compatibili con il mercato comune, oltre ad alcuni aiuti con destinazione particolare, anche altre non meglio identificate “categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su proposta della Commissione” (comma 3°, lett. e). Ebbene, il Consiglio, con Regolamento n. 994 del 1998 (v. doc. n. 3), delega la Commissione a dichiarare, mediante regolamento, compatibili con il mercato comune, precisandone finalità, destinatari, limiti e presupposti, alcune categorie di aiuti, fra cui quelli diretti “a favore delle piccole e medie imprese” (art. 1, comma 1°, lett. a e i). Sulla base di tale autorizzazione, a sua volta, la Commissione, da ultimo con Regolamento n. 800 del 2008 (v. doc. n. 4), ha dichiarato compatibili con il mercato comune, a patto di non superare determinate soglie, alcuni tipi di aiuti di stato a favore di PMI come quelli per la nuova costituzione (art. 14) o per gli investimenti e l’occupazione (art. 15), o per l’imprenditoria femminile (art. 16) o per servizi di consulenza e la partecipazione a fiere (artt. 26 e 27). Dei suddetti tipi di aiuto hanno fatto largo uso sia i vari Stati nazionali che le stesse Istituzioni finanziarie europee come la Banca europea degli investimenti (BEI) o il Fondo europeo per gli investimenti (FEI). A questo punto, poiché qualsiasi disciplina presuppone una fattispecie e poiché la disciplina speciale di cui sopra si applica alle PMI, occorreva fornire una “nozione” di PMI (e, anzi, una nozione il più possibile specifica, onde evitare che ogni concessione di aiuti ad un’impresa perché medio-piccola facesse sorgere infinite controversie sulla sua effettiva appartenenza a tale categoria). In altre parole, che cosa si intende nell’ordinamento comunitario, ai fini della disciplina di favore in esso contemplata, per PMI? A tale domanda risponde lo stesso ordinamento comunitario, fondamentalmente, da ultimo, attraverso la Raccomandazione della Commissione n. 361 del 2003 (rivolta agli Stati membri , alla Banca europea per gli investimenti, o BEI, e al Fondo europeo per gli investimenti, o FEI) con la quale si raccomanda ai predetti soggetti di attenersi, per tutti i loro programmi destinati alle microimprese, alle imprese medie e alle piccole imprese, alle definizioni contenute nel titolo I dell’allegato (v. doc. n. 5). Ma poiché le semplici raccomandazioni, ai sensi dell’art. 288 TFUE, non hanno carattere vincolante, ad attribuire tale carattere alle definizioni di cui al documento del 2003 è intervenuto un apposito Regolamento delegato della Commissione (il già citato n. 800/2008 che dichiara alcune categorie di aiuti di Stato compatibili con il mercato comune), il quale ha recepito per intero, nel proprio allegato I, sia pure ai fini esclusivi dei suddetti aiuti, le definizioni di cui sopra (doc. n. 4). Il predetto allegato I, dopo avere definito nell’art. 1 come impresa “ogni entità, indipendentemente dalla forma giuridica rivestita, che eserciti un’attività economica”, si occupa nell’art. 2 di PMI utilizzando per la loro definizione i parametri rappresentati dal numero degli effettivi e da alcune soglie finanziarie. In particolare, si stabilisce che alla categoria delle PMI appartengono le imprese che occupino meno di 250 persone e che realizzino un fatturato annuo non superiore ai 50 milioni di euro e/o un totale di bilancio annuo non superiore ai 43 milioni di euro. All’interno di tale categoria vengono definite come Piccole imprese quelle che occupino meno di 50 persone e realizzino un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiori a 10 milioni di euro, mentre vengono definite come Microimprese quelle che occupino meno di 10 persone e realizzino un fatturato annuo e/o un totale di bilancio annuo non superiori a 2 milioni di euro. Per calcolare i suddetti parametri si guarda esclusivamente ai dati della singola impresa, se questa è autonoma; qualora si tratti di impresa associata (in quanto detiene il 25% del capitale o diritti di voto di un’altra impresa oppure è partecipata nella stessa misura da quest’ultima), ai dati della prima si sommano anche i dati della seconda ma solo nella misura della percentuale di partecipazione (così, ad es., se un’impresa che ha 8 dipendenti, e che sarebbe come tale microimpresa, partecipa per il 50% al capitale di un’altra impresa pure essa fornita di 8 dipendenti, esce dall’ambito delle microimprese perché ai suoi 8 dipendenti si aggiunge il 50% di quelli dell’impresa partecipata, vale a dire altri 4); qualora si tratti di impresa collegata (in quanto controllante di un’altra impresa oppure da essa controllata), ai dati della prima si sommano 4 interamente anche i dati della seconda (così, ad es., un’impresa che ha 4 dipendenti e che controlla un’altra impresa di 8 dipendenti esce dall’ambito della microimpresa perché ai suoi 4 dipendenti si sommano interamente gli 8 dell’altra). Sulla base dei suddetti parametri, la distribuzione percentuale delle PMI in Europa è stata quantificata come segue in una elaborazione recente (v. doc. n. 1 bis, p. 2): Totale imprese 100% PMI 99,8% Microimprese 92,4% Piccole imprese 6,4% Medie imprese 1,0% Grandi imprese 0,2% Come viene osservato nella succitata elaborazione, la quasi totalità delle PMI europee è costituita da microimprese, vale a dire da imprese con meno di 10 addetti ciascuna 2.2.3. I provvedimenti di semplificazione. Dei criteri basati sul numero degli effettivi e sull’ammontare di determinate soglie finanziarie il diritto comunitario ha fatto uso non solo con riferimento agli aiuti di Stato, ma, sia pure declinandoli in termini parzialmente diversi rispetto a quelli descritti al paragrafo precedente, anche ad altri fini, come quello di semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese. Così, ad es., nell’ambito dell’azione di armonizzazione delle normative nazionali in materia societaria perseguita ai sensi dell’art. 50, lett. g, TFUE, la quarta direttiva CEE n. 660 del 1978, e successive modificazioni (doc. n. 6), relativa ai conti annuali di alcuni tipi di società, dopo aver sottolineato in sede di “considerando” l’opportunità che la rigorosa disciplina di tali conti possa subire deroghe a favore di società di piccole e medie dimensioni, consente agli Stati membri: a) in presenza di società anche di medie dimensioni che non superino due dei tre limiti numerici pure ivi indicati (totale dello stato patrimoniale pari a 17.500.000 euro; importo netto del volume d’affari pari a 35.000.000 euro; numero dei dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 250), di autorizzare tali società a derogare parzialmente allo schema del conto profitti e perdite attraverso il raggruppamento di alcune voci al suo interno, ad omettere alcune indicazioni nella nota integrativa e nella relazione sulla gestione e a pubblicare uno stato patrimoniale e un allegato in forma abbreviata (artt. 27; 45; 46, comma 4°; 47, comma 3°); b) in presenza di società di piccole dimensioni che non superino due dei tre limiti numerici ivi indicati (totale dello stato patrimoniale pari a 4.400.000 euro; importo netto del volume di affari pari a 8.800.000 euro; numero dei dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 50), di autorizzare tali società a redigere uno stato patrimoniale e un allegato in forma abbreviata nonché ad omettere la relazione sulla gestione e la pubblicazione del conto profitti e perdite (artt. 11, 44, 46, comma 3°; 47, comma 2°), e di esonerarle dall’obbligo di sottoporsi alla revisione legale dei conti (art. 51). A ciò si aggiunga che la quarta direttiva CEE è stata abrogata dalla recente direttiva 2013/34/UE (al cui recepimento in Italia il Governo è già stato impegnato dalla legge di delegazione europea 7 ottobre 2014, n. 154), la quale, avendo sottolineato in sede di “considerando” l’importanza, onde stimolare l’economia europea, di ridurre gli oneri amministrativi delle imprese, soprattutto di quelle che hanno risorse limitate per rispettare gli stringenti obblighi di legge, e avendo individuato nella contabilità uno dei settori chiave in cui operare tale riduzione, mantiene sì le esenzioni già previste per le piccole e le medie imprese ma consente altresì agli Stati membri di esonerare da ulteriori obblighi, anche pubblicitari, in materia di bilanci, le microimprese, vale a dire le società destinatarie della direttiva le quali non superino due dei criteri seguenti: totale dello stato patrimoniale pari a 350.000 euro; importo netto del volume di affari pari a 700.000 euro; numero dei dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 10. 5 __________________ 3. La rilevanza giuridica della piccola e media impresa nell’ordinamento italiano. 3.1. Considerazioni preliminari. Occorre premettere che anche in Italia il fenomeno delle PMI è assai diffuso, e anzi in termini ancora più accentuati rispetto al resto dell’Europa, in quanto - come si può desumere da un già citato documento UE (doc. n. 1 bis, p. 2) – le PMI italiane, che rappresentano il 99,9% del totale delle imprese, pressoché come nella media europea (99,8%), hanno tuttavia il 79,6% del numero globale di occupati, contro il 66,9% della media europea, e concorrono alla formazione del valore aggiunto nazionale nella misura del 69,5%, contro una media europea del 58,1%. Se poi applichiamo la già ricordata classificazione europea che distingue le PMI in Microimprese, Piccole imprese e Medie imprese, risulta dal citato doc. n. 1 bis che le PMI italiane si collocano per la stragrande maggioranza nella categoria addirittura delle microimprese, vale a dire al livello più basso della scala dimensionale, e in misura ancora più accentuata che nel resto dell’Europa. Europa Totale imprese PMI Microimprese Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese 100% 99,8% 92,4% 6,4% 1,0% 0,2% Italia 100% 99,9% 94,8% 4,6% 0,5% 0,1% E’ dunque ragionevole pensare che il legislatore italiano, esattamente come quello europeo, si occupi delle PMI al fine di eliminarne i fattori di squilibrio rispetto alle grandi, rappresentati fondamentalmente dalle maggiori difficoltà di accesso ai finanziamenti e dal maggior gravame sopportato per i costi fissi derivanti dai vari adempimenti burocratici. C’è da chiedersi, preliminarmente, fino a che punto, una legislazione di favore per le PMI sia compatibile con il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge stabilito dall’art. 3, comma 1°, Cost. Di primo acchito verrebbe da rispondere negativamente, giacché piccole, medie e grandi imprese pur sempre imprese sono e in quanto tali dovrebbero essere trattate tutte in modo uguale. Se non che è giurisprudenza costante della nostra Corte costituzionale che l’uguaglianza deve essere considerata non già in astratto ma in base al cd. principio di ragionevolezza, vale a dire valutando se, in presenza di due fattispecie A e B apparentemente analoghe, il trattamento diverso di B rispetto ad A risulti giustificabile o in relazione alla ratio della disciplina di A oppure alla luce di altri principi costituzionalmente garantiti: così, ad esempio, può darsi che la legislazione di favore verso alcune imprese minori debba ritenersi non in contrasto con l’art. 3 Cost. perché razionalmente fondata su altri principi costituzionali, come quello dell’art. 45, comma 2°, laddove si dispone che la legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato, o come quello dell’art. 47, comma 2°, dove si impone allo stesso legislatore di favorire l’accesso del risparmio popolare alla proprietà diretta coltivatrice (artigiano e coltivatore diretto del fondo, infatti, sono entrambe – ai sensi, come vedremo, dell’art. 2083 c.c. - figure di piccoli imprenditori). Si consideri inoltre che un trattamento di favore per le imprese minori potrebbe risultare giustificato – come è stato 6 puntualmente sostenuto - in base al principio di uguaglianza sostanziale contenuto nel comma 2° del medesimo articolo 3, laddove si stabilisce che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto l’eguaglianza formale prevista nel comma 1°: tali ostacoli potrebbero infatti ritenersi rappresentati, nel caso delle PMI, dalle maggiori difficoltà di accesso al credito e dalle maggiori difficoltà di sostenere costi di ricerca e commercializzazione, vale a dire da quelle situazioni di squilibrio legate non già alla capacità produttiva ma al gioco delle economie di scala che ne minano le capacità concorrenziali con le grandi e che il legislatore ordinario è quindi autorizzato a rimuovere mediante, ad esempio, aiuti di Stato. In che cosa consiste, dunque, la disciplina italiana delle PMI? 3.2. Gli interventi basati sulla classificazione europea. A) A livello generale, l’attenzione del legislatore italiano verso le PMI si è espressa da ultimo attraverso la l. 12 novembre 2011, n. 180, contenente il c.d. Statuto delle imprese (doc. n. 7), il quale costituisce dichiaratamente attuazione dello Small Business Act europeo del 2008 e prevede addirittura l’emanazione di una legge annuale per le micro, le piccole e le medie imprese, contenente norme volte a favorire e promuovere queste ultime, a rimuovere gli ostacoli che ne impediscono lo sviluppo, a ridurre gli oneri burocratici e introdurre misure di semplificazione amministrativa, ecc. (per le definizioni di micro, di piccole e di medie imprese, l’art. 5 rinvia alle già illustrate definizioni contenute nella raccomandazione CE n. 361/2003 di cui al doc. n. 5). B) Aiuti di Stato alle PMI. Da tempo – com’è noto - sia lo Stato italiano che le Regioni dispongono interventi a favore delle attività produttive sotto le più diverse forme, che vanno dai bonus fiscali alle concessioni di garanzia, ai contributi in conto capitale o in conto interesse, ai finanziamenti agevolati. Ebbene, molti di questi interventi sono destinati specificamente alle PMI. (v., ad esempio, l’istituzione di un Fondo di garanzia per le suddette PMI ad opera della l. 23 dicembre 1996, n. 662, e la specificazione delle condizioni di ammissibilità al medesimo Fondo ad opera del D.M. 23 dicembre 2005). La molteplicità e soprattutto l’eterogeneità di tali interventi sono tali da aver indotto il legislatore a disporne una razionalizzazione con riferimento vuoi alle tipologie che alle procedure attraverso il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 123 (doc. n. 8), i cui principi vengono dall’art. 1 del medesimo elevati al rango di principi generali dell’ordinamento dello Stato, con la conseguenza che anche le regioni a statuto ordinario, nell’ambito della loro potestà legislativa concorrente come in questa materia, vi si devono uniformare ai sensi dell’art. 117, comma 3°, Cost. Poiché, comunque, l’Italia, quale membro della UE, è soggetta ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, e poiché uno di tali vincoli è rappresentato dalla normativa dei già citati art. 107 ss. riguardante proprio gli aiuti di Stato alle imprese, l’art. 2 del decreto n. 123 non solo sancisce la necessità che gli interventi di cui sopra, tra i quali quelli a favore delle PMI, siano disposti in conformità alla normativa dell’Unione europea, ma stabilisce in particolare che la definizione di piccola e media impresa sia aggiornata con decreto ministeriale in conformità con le disposizioni della suddetta Unione europea. A quest’ultima bisogna l’esecutivo ha provveduto tramite il già ricordato Decreto del Ministro delle attività produttive 18 aprile 2005 (doc. n. 9), il quale ha interamente recepito, con i necessari chiarimenti, la definizione già esaminata poc’anzi contenuta nella Raccomandazione CE 361/2003. Come esempio di tale impostazione vale la pena di ricordare il recente d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (convertito in l. 9 agosto 2013, n. 98), il cui art. 2, nel prevedere un contributo del Ministero dello sviluppo economico ai fini dell’accesso a finanziamenti a tasso agevolato per l’acquisto di nuovi macchinari, impianti e attrezzature da parte di micro, piccole e medie imprese, rinvia per l’individuazione di tali imprese alla Raccomandazione 2003/361/CE. C) Altri interventi. Un esempio di applicazione delle definizioni comunitarie possono considerarsi alcune modifiche introdotte nel d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo) dall’art. 7 d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito in l. 24 marzo 2012 , n. 27), dove la tutela contro le pratiche commerciali scorrette nei rapporti tra professionisti e consumatori viene estesa ai rapporti tra professionisti e microimprese (art. 19, comma 1°), le quali vengono definite (art. 18, comma 1°, 7 lett. d-bis) come quelle “entita`, societa` o associazioni che, a prescindere dalla forma giuridica, esercitano un’attivita` economica, anche a titolo individuale o familiare, occupando meno di dieci persone e realizzando un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a due milioni di euro, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 3, dell’allegato alla raccomandazione n. 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003". Un ulteriore esempio è rappresentato dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, come convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134, il cui art. 32, sotto l’intitolazione “Strumenti di finanziamento per le imprese”, consente bensì alle società di capitali, tra l’altro, di emettere cambiali finanziarie, ma con una serie di limitazioni che vengono calibrate in ragione delle dimensioni economiche della società emittente, avendo quali propri estremi, da un lato, un divieto assoluto dell’emissione a carico delle microimprese (come definite, ancora una volta, dalla ricordata raccomandazione 2003/361/CE), e, dal lato opposto, i pochi requisiti per l’emissione previsti per le grandi imprese (sempre come definite – indirettamente - dalla ricordata raccomandazione CE, vale a dire di quelle che occupino almeno 250 persone e/o che realizzino un fatturato annuo superiore a 50 milioni di euro e/o un totale di bilancio annuo superiore a 43 milioni di euro), mentre un numero più rilevanti di requisiti viene richiesto per le imprese che stanno nel mezzo fra questi due estremi, vale a dire per le piccole imprese e le medie imprese. Un ultimo esempio è costituito dal recentissimo d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, contenente misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti, il cui art. 4 prevede una serie di agevolazioni di tipo civilistico e fiscale a favore delle c.d. "PMI innovative", intendendosi per tali le PMI, “come definite dalla raccomandazione 2003/361/CE”, che possiedono, tra gli altri, almeno due tra i seguenti tre requisiti:1) effettuare spese per ricerca e sviluppo almeno pari al 3 per cento della maggiore entità fra costo e valore totale della produzione; 2) impiegare personale altamente qualificato in misura almeno pari a un quinto della forza lavoro complessiva; 3) essere detentrici, licenziatarie o depositarie di un brevetto o di un software registrato presso la Società italiana degli autori ed editori (SIAE). 3.3. Il codice civile e il piccolo imprenditore. 3.3.1. L’imprenditore e la sua tipologia. Con l’entrata in vigore del codice civile italiano (1942), il fenomeno dell’impresa diventa oggetto di un’attenzione diversa rispetto al passato da parte del legislatore. A) Ciò avviene in primo luogo sotto il profilo delle fonti: fino a quella data, infatti, l’impresa trovava regolamentazione in un apposito codice distinto da quello civile (vale a dire nel codice di commercio del 1882, il cui art. 1 stabiliva che in materia di commercio si osservano le leggi commerciali, in mancanza gli usi mercantili, e solo in mancanza di questi ultimi il codice civile, creando così per la suddetta materia un sistema di fonti diverso da quello riguardante tutti gli altri rapporti interprivati, che vedevano nel codice civile la fonte primaria della propria disciplina); con l’unificazione, invece, dei due codici storici di diritto privato in un unico codice, quello civile, appunto, del 1942, l’impresa viene inserita in un unico sistema e assoggettata in linea di principio allo stesso sistema di fonti che riguarda qualsiasi altro fenomeno, quello stabilito dall’art. 1 per cui prima vengono le leggi, poi i regolamenti e solo in ultima istanza gli usi. B) L’altra novità del codice civile del 1942 è di sostanza e si esprime nella considerazione dell’impresa come fenomeno tendenzialmente unitario, indipendentemente dal tipo di attività esercitata, mentre, fino ad allora, l’attenzione del legislatore era riservata alla sola impresa commerciale. A tale scopo il nuovo codice civile, soprattutto nel libro V ma anche in altri libri del medesimo, detta una disciplina che è indiscriminatamente riferita ad ogni imprenditore individuale o collettivo (v. ad esempio, nel libro V del lavoro, gli artt. 2096 ss. sul rapporto di lavoro, 2247 ss. sulle società, 2555 ss. sull’azienda, 2595 ss. sulla concorrenza e sui consorzi; nel libro IV delle obbligazioni, gli artt. 1330 e 1367 sui contratti in generale, 1722 e 1824 su singoli 8 contratti; ecc). Non solo, ma poiché in diritto ogni disciplina presuppone una fattispecie a cui applicarsi, e poiché, in questo caso, la disciplina si applica all’imprenditore, il codice si preoccupa anche di spiegarci che cosa debba intendersi per “imprenditore”, fornendone, all’art. 2082, una nozione. La nozione giustifica la disciplina in quanto, ad esempio, poiché l’esercizio dell’impresa non è una semplice attività dell’imprenditore ma è una organizzazione di diversi fattori produttivi, si giustifica una sopravvivenza dei rapporti ad essa inerenti anche se l’imprenditore muore o cede l’azienda; così come, poiché l’imprenditore, in quanto capo dell’impresa, ha poteri o informazioni che non hanno le controparti, si giustifica una disciplina che tuteli tali controparti in quanto contraenti ecomicamente più deboli, come avviene per i lavoratori o per i consumatori. C) Dopo essersi occupato dell’imprenditore in generale, tuttavia, il legislatore si accorge che una disciplina indiscriminatamente applicabile a tutte le tipologie di attività economiche non coglie la profonda complessità e soprattutto la varietà del fenomeno impresa. Così il libro V del codice, dopo aver dedicato il capo I del titolo II all’impresa in generale, dedica i successivi capi II e III, rispettivamente, all’impresa agricola e all’impresa commerciale, e detta per ciascuna di esse una disciplina speciale: disciplina relativa, per l’impresa agricola, ai contratti agrari (art. 2141 ss.), e, per quella commerciale, a istituti come l’iscrizione nel registro delle imprese (artt. 2188 ss.), la rappresentanza sia legale (art. 320, comma 5°) che volontaria (artt. 2203 ss.), le scritture contabili (artt. 2214 ss.), l’insolvenza (art. 2221). Anche a proposito di tali sottocategorie, il legislatore si preoccupa di individuare le fattispecie cui le corrispondenti discipline si applicano fornendo le nozioni sia di imprenditore agricolo (art. 2135) che di imprenditore commerciale (art. 2195). Anche qui si può dire che la nozione giustifica la disciplina in quanto, ad es. i tipi di attività che sono ricompresi nella nozione di imprenditore commerciale comportano normalmente un volume di rapporti con i terzi e di ricorso al credito tali da giustificare un regime speciale a tutela di tali terzi, e dei creditori in particolare, come l’iscrizione in pubblici registri, la tenuta di scritture contabili o il fallimento. 3.3.2. Il piccolo imprenditore: disciplina e fattispecie. Ma come c’entra tutto quanto abbiamo detto al paragrafo precedente con le PMI? C’entra perché, se noi esaminiamo la disciplina generale dell’imprenditore, e poi quella dell’imprenditore agricolo e poi ancora quella dell’imprenditore commerciale, scopriamo che tali discipline non si applicano in tutto o in parte al “piccolo imprenditore”. Come esempio in materia di disciplina generale dell’impresa si consideri l’art. 1330 c.c., dove si stabilisce che la proposta o l’accettazione, quando è fatta dall’imprenditore nell’esercizio della sua impresa, non perde efficacia se l’imprenditore muore o diviene incapace prima della conclusione del contratto, salvo che si tratti di piccoli imprenditori. Come esempio in materia di disciplina dell’impresa agricola si consideri l’art. 2139 c.c., in base al quale tra piccoli imprenditori agricoli è ammesso lo scambio di mano d’opera o di servizi secondo gli usi, in deroga alla disciplina del collocamento. Come esempi in materia di disciplina dell’impresa commerciale basti citare le disposizioni in forza delle quali i piccoli imprenditori non sono soggetti né all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (art. 2202 c.c.), né alla tenuta delle scritture contabili (art. 2214, comma 3°, c.c.), né alle procedure del fallimento e del concordato preventivo (art. 2221 c.c.). Come al solito, poiché la disciplina del piccolo imprenditore fa eccezione a quella dell’imprenditore non piccolo, occorre stabilire quale sia la fattispecie alla quale tale disciplina eccezionale si applica: in altre parole, occorre stabilire chi sia il piccolo imprenditore. A tale domanda risponde lo stesso legislatore con la nozione contenuta nell’art. 2083 c.c., secondo cui “sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. Nell’analisi di tale nozione, va posto l’accento soprattutto sull’espressione finale in essa utilizzata (“coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”): espressione la quale, benché apparentemente riferita solo 9 all’ipotesi residuale di quei soggetti che non rientrano nelle figure tipizzate prima di essa, finisce in realtà per dettare un criterio valido per tutte. Si pensi ad esempio al “coltivatore diretto del fondo”, la cui nozione si ricava dall’art. 1647 c.c. laddove si qualifica come affitto a coltivatore diretto quello avente ad oggetto un fondo “che l’affittuario coltiva col lavoro prevalentemente proprio o di persone della sua famiglia” Si pensi, ancora, all’“artigiano”, il quale, non definito dal codice civile, viene definito dall’art. 2 della l. 8 agosto 1985, n. 443 (Legge-quadro per l’artigianato) come “colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l’impresa artigiana” (vale a dire quella avente per scopo prevalente un’attività di produzione di beni o di servizi, escluse le attività agricole e quelle commerciali in senso stretto come l’intermediazione di beni o la somministrazione di alimenti e bevande al pubblico), “assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi relativi alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo”. Si pensi, infine, al “piccolo commerciante”, il quale, non risultando definito da nessuna parte, viene normalmente identificato in colui che, fuori dalle attività definibili come agricole o artigianali, esercita la propria impresa con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia. Anche qui, come abbiamo visto accadere per l’imprenditore in generale, per quello agricolo e per quello commerciale, la nozione spiega la disciplina. Se infatti – come si è visto – il piccolo imprenditore è caratterizzato dalla prevalenza del lavoro personale e familiare del medesimo rispetto agli altri fattori della produzione, è chiaro che il ricorso al credito (ad esempio quello bancario) per acquisire tali fattori sarà di gran lunga inferiore rispetto a quello di un’impresa non piccola, con la conseguenza che la tutela dei terzi non richiederà da parte del legislatore la predisposizione di strumenti eccezionali come il fallimento, bastando per tale tutela i rimedi ordinari a disposizione di qualsiasi creditore. Si tratta tuttavia una nozione la cui applicazione comporta una serie di problemi. Il primo problema è quello se la prevalenza del lavoro dell’imprenditore e dei componenti della sua famiglia si misuri nei confronti del solo lavoro subordinato esterno oppure anche nei confronti degli altri fattori della produzione come il capitale (problema il quale sembrerebbe risolto dall’art. 3 della citata legge n. 443/1985 laddove si definisce come artigiana la società in cui la maggioranza dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo, e in cui il lavoro abbia funzione preminente sul capitale). Il secondo problema è quello se la suddetta prevalenza si debba misurare in termini meramente quantitativi oppure in termini qualitativi, tenendo ad es. conto della maggior rilevanza dello specifico lavoro organizzativo apportato dall’imprenditore (in quest’ultimo senso sembrano muoversi alcune leggi speciali come quella del 3 maggio 1982, n. 203, recante norme sui contratti agrari, il cui art. 6, nel definire il coltivatore diretto, afferma come pienamente compatibile con il criterio della prevalenza il fatto che la forza lavorativa del coltivatore e dei componenti della sua famiglia costituisca almeno un terzo di quella occorrente per le normali necessità della coltivazione del fondo; o come la già più volte citata l. 443/1985, sull’artigianato, il cui art. 4 dichiara compatibile con il concetto di prevalenza la presenza di personale dipendente, purché diretto personalmente dall’imprenditore, in un numero che può arrivare, in un’impresa operante nei settori delle lavorazioni artistiche, tradizionali e dell’abbigliamento su misura, fino a 40 unità). Si consideri, inoltre, che la disciplina del piccolo imprenditore contenuta nel codice civile incontra talora eccezioni, anche importanti, ad opera della legislazione speciale. Così, ad es., in deroga all’art. 2202 c.c. che esenta i piccoli imprenditori dall’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, l’art. 2 d.p.r. 14 dicembre 1999, n. 558 (attuativo della l. 15 marzo 1997, n. 59) stabilisce che i piccoli imprenditori debbano essere iscritti in una sezione speciale del suddetto registro, anche se tale iscrizione, ai sensi dell’art. 8, comma 5°, l. 29 dicembre 1993, n. 580, ha una mera funzione “di certificazione anagrafica di pubblicità notizia” ed è quindi priva dell’efficacia c.d. dichiarativa di cui all’art. 2193 c.c. (efficacia dichiarativa che invece sussiste, ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228, per quella particolare figura di piccolo imprenditore che è il coltivatore diretto). Così, ancora, in deroga all’art. 2214 c.c. che esenta i piccoli imprenditori dall’obbligo di 10 tenuta delle scritture contabili, l’art. 18, comma 1°, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 (come modificato dall’art. 7, comma 2°, lett. m, d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio 2011, n. 106), dopo aver premesso che le disposizioni degli articoli precedenti sull’obbligo di tenuta delle scritture contabili (fra cui il libro giornale e il libro degli inventari) ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi si applicano anche ai soggetti non gravati da quell’obbligo a norma del codice civile, e dunque anche ai piccoli imprenditori di cui all’art. 2083 c.c., esonera da tale obbligo le persone fisiche e le società di persone i cui ricavi conseguiti in un anno intero non abbiano superato l’ammontare di 400.000 euro per le imprese aventi ad oggetto prestazione di servizi, ovvero di 700.000 per le imprese aventi ad oggetto altre attività. Così, infine, in deroga all’art. 2221 c.c. che, in caso di insolvenza, sottrae i piccoli imprenditori alle procedure del fallimento e del concordato preventivo, l’attuale art. 1 l. fall. stabilisce che non sono soggetti alle sunnominate procedure gli imprenditori i quali dimostrino, congiuntamente, di aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a 300.000 euro, di aver realizzato, in qualunque modo risulti, nel periodo di cui sopra, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a 200.000 euro, e di avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a 500.000 euro: il che significa che quanti abbiano superato anche uno solo dei predetti limiti sono ugualmente soggetti alle procedure concorsuali anche se rivestono la qualità di piccoli imprenditori a norma dell’art. 2083 c.c. (chi rientra nei suddetti limiti, peraltro, pur essendo sottratto alle procedure concorsuali di cui alla legge fallimentare, può sempre volontariamente accedere alle procedure di soluzione della crisi da sovraindebitamento di cui alla l. 30 gennaio 2012, n. 3). Si tratta di eccezioni, beninteso, le quali trovano tutte adeguata spiegazione nelle finalità specifiche delle leggi speciali che le contengono: la prima nella valenza informativa che il registro delle imprese, fin dalla sua istituzione nel 1993, ha assunto, e va sempre più assumendo, circa ogni aspetto del mondo produttivo, onde assicurare la trasparenza nei confronti dei terzi; le ultime due nelle esigenze di rapidità e certezza che sono proprie di interventi come quello volto all’accertamento e alla riscossione delle imposte, o come quello diretto a prevenire o a risolvere, nell’interesse del ceto creditorio e del mercato in genere, le crisi di impresa, esigenze che solo il ricorso a parametri certi come quelli numerici può seriamente soddisfare. Vi sono infine alcune ipotesi il cui il legislatore, nel dettare una disciplina speciale per le imprese di minori dimensioni, prescinde completamente dalla nozione di “piccolo imprenditore” fornita dal codice civile. In alcune di tali ipotesi il legislatore ricorre ad una nozione alternativa rispetto a quella codicistica: così avviene, ad esempio, con la l. 20 maggio 1970, n. 300, contenente norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, ecc. (c.d. Statuto dei lavoratori), il cui art. 18, anche dopo le modifiche introdotte dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, esenta dalle particolari misure di tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo ivi contemplate l’imprenditore che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo in cui ha avuto luogo il licenziamento, occupi alle sue dipendenze un numero di dipendenti non superiore a quindici, o non superiore a cinque se si tratta di imprenditore agricolo (oggi, in base all’art. 9 del nuovo d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, contenente disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, al datore di lavoro che non raggiunga i suddetti requisiti dimensionali non si applica il residuo obbligo di reintegrazione previsto dall’art. 3, comma 2° in presenza di licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, mentre l’indennizzo da quattro a ventiquattro mensilità previsto dal comma 1° del medesimo art. 3 è dimezzato e non può in ogni caso superare le se mensilità) . In altre ipotesi non viene fornita alcuna nozione alternativa, come avviene, ad esempio, con il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica per i reati commessi nel suo interesse e a suo vantaggio da persone che rivestono funzioni apicali al suo interno: l’art. 6 di tale decreto infatti, dopo aver disposto che l’ente non risponde se l’organo dirigente ha adottato modelli di organizzazione idonei a prevenire i suddetti reati e se il compito di 11 vigilare sul funzionamento di tali modelli è stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo (ad esempio un collegio sindacale), esonera da quest’ultimo onere gli “enti di piccole dimensioni” stabilendo che in tali enti i compiti di vigilanza possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente. ________________ 4. Le forme giuridiche della piccola e media impresa 4.1. Premessa. Quali siano le forme giuridiche più utilizzate per l’esercizio delle PMI in Italia emerge inequivocabilmente da alcuni risultati statistici, qui di seguito sintetizzati in base ad elaborazioni del Centro Studi Legacoop su dati dell’Archivio Statistico delle Imprese Attive (Asia) curato dall’ISTAT, relativi al 2008 (doc. n. 10). Si prenda, ad es., la seguente tabella: Forme giuridiche N. imprese % imprese N. addetti %addetti Imprese individuali Società di persone Società di capitali S.p.a. S.r.l. Società cooperative Altra forma 2.904.950 802.194 739.477 38.815 700.662 50.680 16.721 64,4% 17,8% 16,4% 0,9% 15,5% 1,1% 0,4% 4.580.663 2.931.091 9.118.266 4.019.839 5.098.427 1.092.360 152.889 25,6% 16,4% 51,0% 22,5% 28,5% 6,1% 0,9% Totale 4.514.022 100% 17.875.270 100% N. medio addetti 1,6 3,7 12,3 103,6 7,3 21.6 9,1 4,0 Se si osserva il dato del numero medio di addetti per impresa, e se si tiene presente, che, in base alla già ricordata classificazione comunitaria accolta anche in Italia, sono da considerarsi PMI quelle che occupino meno di 250 addetti, si potrebbe dire che tutte le forme giuridiche presenti nel nostro ordinamento sono astrattamente fruibili per l’esercizio di una PMI, in quanto nessuna di essa di esse supera mediamente quella soglia. Per capire tuttavia, nel dettaglio, come le varie articolazioni delle PMI (microimprese, piccole imprese e medie imprese) si distribuiscano in valori assoluti e percentuali fra le diverse forme giuridiche, occorre considerare questa seconda tabella: Microimprese (1 - 9 addetti) Piccole imprese (10 – 49 addetti) Medie imprese (50-249 addetti) Grandi imprese (> 250 addetti) Totale imprese 2.885.032 67,5% 19.757 9,3% 110 0,5% 1 0,0% 2.904.950 64,4% 755.161 17,7% 46.403 21,8% 619 2,7% 11 0,3% 802.194 17,8% 585.452 13,7% 132.239 62,2% 18.618 80,8% 3.168 84,8% 739.477 16,4% 13.681 0,3% 13.397 6,3% 9.349 40,6% 2.388 63,9% 38.815 0,9% Imprese individuali Valori assoluti Valori percentuali Società di persone Valori assoluti Valori percentuali Società di capitali Valori assoluti Valori percentuali S.p.a. Valori assoluti Valori percentuali S.r.l. 12 Valori assoluti Valori percentuali 571.771 13,4% 118.842 55,9% 9.269 40,2% 780 20,9% 700.662 15,5% 34.104 0,8% 12.702 6,0% 3.385 14,7% 489 13,1% 50.680 1,1% 14.713 0,3% 1.628 0,8% 314 1,4% 66 1,8% 16.721 0,4% 4.274.512 100% 212.729 100% 23.046 100% 3.735 100% 4.514.022 100% Società cooperative Valori assoluti Valori relativi Altre forme Valori assoluti Valori percentuali Totale forme Valori assoluti Valori percentuali Da essa risulta che: a) nelle microimprese la forma più diffusa è quella dell’impresa individuale (67,5%), la quale però crolla verticalmente nelle piccole imprese (9,3%) e quasi sparisce nelle medie (0,5%); il che significa che le varie forme di impresa collettiva, minoritarie nelle microimprese (32,5%), diventano assolutamente maggioritarie già a partire dalle piccole imprese (90,7%) e addirittura quasi esclusive nelle medie imprese (99,5%); b) all’interno delle forme collettive, le società di persone, che pur vantano una percentuale ragguardevole nelle microimprese (17,7%) e nelle piccole imprese (21,8%), si riducono tuttavia nelle medie imprese al 2,7%; c) sempre all’interno delle forme collettive, le società di capitali, già presenti, sia pure in misura minoritaria rispetto a quelle di persone, nella microimpresa (13,7%), occupano la posizione maggioritaria già a partire dalla piccola impresa (62,2%), posizione che si rafforza ulteriormente con il passaggio alla media impresa (80,8%) Anche le società cooperative fanno registrare percentuali crescenti nel percorso dalle microimprese (0,8%), attraverso le piccole (6,0%) fino alle medie (14,7%); d) all’interno delle società di capitali, nella contrapposizione fra s.r.l. e s.p.a., la s.r.l. rappresenta la figura percentualmente più ricorrente nella microimpresa (13,4% contro 0,3%) e nella piccola impresa (55,9% contro 6,3%), mentre viene sopravanzata sia pur di poco dalla seconda nella media impresa (40,2% contro 40,6%). Quali sono le linee di tendenza che si possono osservare in questo quadro? 1) Al crescere delle dimensioni di impresa diventano prevalenti le forme collettive rispetto a quella individuale. 2) All’interno delle forme collettive, al crescere delle dimensioni di impresa diventano prevalenti le forme caratterizzate dalla responsabilità limitata dei soci rispetto a quelle caratterizzate dalla responsabilità illimitata dei medesimi. 3) All’interno delle forme caratterizzate dalla responsabilità limitata dei soci, al crescere delle dimensioni di impresa diventano prevalenti le forme caratterizzate dalla presenza di azioni. Si tratta ora di vedere, per ognuna delle varie forme giuridiche, quali sono le caratteristiche che le rendono appetibili per i diversi livelli dimensionali di impresa. 4.2. L’impresa individuale. Come detto a conclusione del paragrafo precedente, l’impresa individuale risulta la forma in assoluto più utilizzata (67,5%) dalle microimprese. Ciò dipende dal fatto che essa comporta, rispetto alle altre forme, i minori oneri di costituzione e di funzionamento. A) Sotto il profilo della costituzione, infatti, per l’avvio di un’impresa individuale non è richiesto un capitale minimo, con la conseguenza che le risorse per l’esercizio delle medesima potrebbero essere attinte, anziché attraverso l’impiego del patrimonio dell’imprenditore, attraverso il ricorso ad un finanziamento esterno (bancario, ad esempio), anche se il patrimonio 13 dell’imprenditore rimane in questo caso comunque impegnato, se non come apporto diretto in società, come garanzia per l’adempimento del proprio debito nei confronti del finanziatore, stante la responsabilità illimitata di ogni debitore ai sensi dell’art. 2740 c.c. (v. oltre, lett C). Sempre in ordine alla costituzione, la nascita dell’impresa, avvenendo ad opera di un solo soggetto, non richiede la stipulazione di un contratto con altri soggetti, evitando con ciò le difficoltà connesse alle spesso lunghe e laboriose trattative necessarie per il contemperamento dei vari e talora contrapposti interessi in gioco ed i costi collegati alle consulenze professionali necessarie per il perfezionamento dell’accordo (costi di transazione), essendo sufficienti le spese generali come quelle derivanti dalla denuncia all’Agenzia delle entrate ai fini dell’attribuzione della partita IVA o del codice fiscale, o come quelle relative all’iscrizione nel registro delle imprese (iscrizione che – come già ricordato al par. 3.3.2. - l’art. 2 d.p.r. 14 dicembre 1999, n. 558, prevede anche a carico dei piccoli imprenditori, benché in una sezione speciale con mera funzione “di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia” e quindi senza l’efficacia c.d. dichiarativa di cui all’art. 2193 c.c.). B) Quanto al funzionamento dell’impresa, anch’esso si presenta come il più semplice possibile, giacché tutte le determinazioni che assicurano tale funzionamento - abbiano esse ad oggetto i mutamenti strutturali, o la vera e propria gestione, o i controlli - sono riconducibili ad una sola persona, la quale può agire dunque in perfetta autonomia senza ricercare il consenso, o temere il dissenso, di altri contitolari, e senza il bisogno di nominare organi o attivare procedure sopportando i relativi costi (un’eccezione potrebbe essere rappresentata dall’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c., in base al quale, se con l’imprenditore individuale collaborano al di fuori di specifici rapporti il coniuge, i parenti entro il terzo grado o gli affini entro il secondo del medesimo, questi ultimi partecipano con il suddetto imprenditore alle decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi, la gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi e la cessazione dell’impresa; un’altra eccezione è costituita dalla necessità di autorizzazione del giudice tutelare o addirittura del tribunale, ai sensi degli artt. 320, 371, 374 e 375 c.c., allorché l’impresa, in particolare quella commerciale, venga esercitata dal rappresentante legale dell’incapace). A ciò si aggiunga, quale ulteriore causa di semplificazione organizzativa e di riduzione di costi, che anche l’attività esecutiva potrebbe essere interamente espletata dallo stesso imprenditore, come si desume a fortiori dalla più volte citata disposizione dell’art. 2083 c.c. che annovera fra i piccoli imprenditori coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia, e dunque, a maggior ragione, chi impiega nell’attività produttiva esclusivamente il lavoro proprio (vale la pena di ricordare del resto che l’82% delle microimprese con un solo addetto sono rappresentate – come risulta dal doc. n. 11 – da imprese individuali, e che tale addetto potrebbe identificarsi con lo stesso imprenditore, atteso che, ai fini del calcolo del numero di occupati richiesti per le soglie identificative delle PMI, si considerano dipendenti dell’impresa, in base al già ricordato D.M. 18 aprile 2005, recettivo dei parametri comunitari di calcolo, anche i “proprietari gestori”). Si consideri infine – come già ricordato al par. 3.3.2 - che l’imprenditore individuale, anche quando eserciti un’attività commerciale, è esonerato dall’obbligo civilistico di tenuta delle scritture contabili ai sensi dell’art. 2214 c.c. allorché rivesta la qualità di piccolo imprenditore ex art. 2083 c.c., ed è altresì esonerato dal corrispondente obbligo fiscale, ai sensi dell’art. 18, comma 1°, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 (come modificato dall’art. 7, comma 2°, lett. m, d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio 2011, n. 106), allorché i ricavi da lui conseguiti in un anno intero non abbiano superato l’ammontare di 400.000 euro per le imprese aventi ad oggetto prestazione di servizi, ovvero di 700.000 per le imprese aventi ad oggetto altre attività. C) I descritti benefici consistenti nella possibilità di evitare immobilizzazione di risorse (inesistenza di un capitale minimo) nonché nell’incondizionata disponibilità dei proventi dell’impresa e nell’assolutezza del potere esercitato su quest’ultima hanno una contropartita, 14 rappresentata dalla responsabilità illimitata che l’imprenditore assume per le obbligazioni derivanti dall’esercizio dell’impresa in base all’art. 2740 c.c. secondo cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Si deve tuttavia considerare che l’imprenditore individuale potrebbe limitare la propria responsabilità dando vita ad esempio ad una s.r.l. unipersonale, come consente l’art. 2463, comma 1°, c.c., e che oggi lo potrebbe addirittura fare, attraverso la costituzione di una s.r.l. semplificata ai sensi dell’art. 2463-bis c.c., o di una s.r.l. ordinaria a capitale ridotto ai sensi dell’art. 2463, comma 4°, c.c., evitando l’immobilizzazione di risorse a titolo di capitale (se non nell’importo puramente simbolico di un euro) nonché gran parte delle spese di costituzione (grazie all’esonero dai diritti di bollo e di segreteria e dagli oneri notarili che l’art. d.l. 1/2012 concede alla s.r.l. semplificata). 4.3. Le società di persone Abbiamo poc’anzi constatato, sulla base dei dati statistici, come la forma giuridica più utilizzata dalle imprese collettive di più ridotte dimensioni sia quella delle società di persone, la quale infatti è significativamente presente nelle microimprese e nelle piccole imprese mentre rappresenta una quota marginale delle medie e delle grandi. La ragione di quanto sopra sta nel fatto, che, nell’ambito delle imprese collettive, le società di persone sono quelle che richiedono i minori costi di costituzione e di funzionamento, anche se superiori a quelli dell’impresa individuale. A) Sotto il profilo della costituzione, infatti, anche nelle società di persone, come nell’impresa individuale, non è richiesto un capitale minimo, con la conseguenza che le risorse per l’esercizio delle medesima potrebbero essere attinte, anziché attraverso l’impiego del patrimonio dei soci, attraverso il ricorso ad un finanziamento esterno (bancario, ad esempio), anche se il patrimonio di tutti o di alcuni soci rimane in questo caso comunque impegnato, se non come apporto diretto in società, come garanzia per l’adempimento del proprio debito nei confronti del finanziatore, stante la responsabilità illimitata di ogni debitore (e quindi di ogni socio come condebitore), ai sensi dell’art. 2740 c.c. (v. oltre, lett C) Sempre sotto il profilo della costituzione, la nascita dell’impresa, essendo espressione di più soggetti, richiede, diversamente dall’impresa individuale, un contratto, vale a dire un accordo volto a regolamentare i rapporti reciproci, il quale però, in base all’art. 2251 c.c., non deve necessariamente rivestire la costosa forma dell’atto pubblico, bastando una manifestazione di volontà comunque espressa (per scrittura privata o oralmente davanti a testimoni) o addirittura in modo tacito (per fatti conchiudenti). Occorre ricordare tuttavia che, mentre la società semplice, come del resto il piccolo imprenditore individuale che svolga attività commerciale, deve iscriversi nella sezione speciale del registro delle imprese ai soli fini di pubblicità notizia (comb. disp. art. 8, comma 5°, l. 580/1993, e art. 2, comma 1°, d.p.r. 558/1999), la s.n.c. e la s.a.s., anche se piccole imprese ai sensi dell’art. 2083 c.c., devono, in forza dell’art. 2296 c.c. (applicabile anche alla s.a.s. in virtù dell’art. 2315) pubblicare il proprio atto costitutivo, da redigersi quantomeno per scrittura privata con sottoscrizioni autenticate e con il rigido contenuto di cui agli artt. 2295 e 2316 c.c., nella sezione ordinaria del registro delle imprese, pena addirittura, se non l’inesistenza come per le società di capitali, la irregolarità della società con gli effetti di cui agli artt. 2297 e 2317 c.c. B) Quanto al funzionamento della società, esso, che nell’impresa individuale è interamente riconducibile all’imprenditore (è l’imprenditore che decide quanto conferire, quanta parte degli utili prelevare, come gestire l’impresa, come modificarne la struttura e quando farla cessare), nelle società di persone rappresenta il portato di una serie di rapporti di natura patrimoniale o amministrativa fra i soci: rapporti che regolano quanto ciascun socio deve conferire (art. 2253 ss. c.c.), quali sono gli altri doveri dei soci (art. 2301 c.c.), come si ripartiscono fra questi ultimi gli utili e le perdite (artt. 2262, 2263 ss. c.c.), chi deve amministrare la società (art. 2257 ss. c.c.), chi 15 deve controllare gli amministratori (art. 2261 c.c.), chi deve decidere le modificazioni del contratto sociale, quando si scioglie la società (art. 2272 ss. c.c.), quando si scioglie il rapporto sociale limitatamente ad un socio (art. 2284 ss. c.c.), ecc. Il principale motivo di attrazione delle società personali rispetto a quelle di capitali nelle piccolissime imprese sta in un modello legale di governo della società basato sulla diretta riconduzione di tutte le funzioni di impresa ai soci, senza bisogno di nominare organi ad hoc, e nella informalità dei meccanismi decisionali, in quanto le determinazioni collettive vengono tutte adottate in assenza di procedure particolari come l’assemblea: di qui un intuibile risparmio di costi per la conduzione dell’impresa. Un secondo motivo di attrazione delle società personali sta nella estrema flessibilità del suddetto modello legale e quindi nella sua adattabilità alle esigenze dell’impresa: vale la pena di ricordare che quasi tutte le disposizioni del codice civile disciplinanti le società personali sono derogabili da parte del contratto sociale, salvo alcune poche disposizioni imperative come quella dell’art. 2265 c.c. che sancisce la nullità del patto leonino, o come quelle attinenti ai rapporti con i terzi quali gli artt. 2267, 2291, 2318, 2280 c.c.). Si ricordi, ancora, che le società di persone commerciali (società in nome collettivo e società in accomandita semplice), diversamente da quelle di capitali, sono esonerate dall’obbligo fiscale di tenuta delle scritture contabili ai sensi dell’art. 18, comma 1°, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 (come modificato dall’art. 7, comma 2°, lett. m, d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio 2011, n. 106), allorché i ricavi da esse conseguiti in un anno intero non abbiano superato l’ammontare di 400.000 euro per le imprese aventi ad oggetto prestazione di servizi, ovvero di 700.000 per le imprese aventi ad oggetto altre attività. Anche qualora, tuttavia, sussistesse l’obbligo di tenuta delle scritture contabili, la redazione del bilancio, in base all’art. 2217, comma 2°, c.c., sarebbe soggetta non già a tutte le complesse disposizioni previste per le società di capitali dagli artt. 2423 ss. c.c., ma solo a quelle relative ai criteri di valutazione, e sfuggirebbe altresì all’obbligo di pubblicazione di cui all’art. 2435 c.c. nonché a quello di redigere il bilancio consolidato alla stregua dell’art. 25 d.lgs. n. 127/1991 (a meno che la società di persone abbia come soci illimitatamente responsabili esclusivamente società di capitali, ai sensi dell’art. 111-duodecies disp. att. c.c.). Si consideri infine, come elemento di attrazione delle società di persone, la notevole facilità per i soci di recuperare le somme investite attraverso l’esercizio del pressoché illimitato diritto di recesso riconosciuto dall’art. 2285 c.c. C) I descritti benefici per i soci, consistenti nella possibilità di evitare immobilizzazione di risorse (inesistenza di un capitale minimo) nonché nell’incondizionata disponibilità dei proventi dell’impresa e nell’assolutezza del potere di cogestione esercitato su quest’ultima, hanno alcune contropartite, riguardanti i rapporti con i terzi. La prima contropartita, riguardante tutte le società di persone, è rappresentata – con le eccezioni che vedremo tra poco - dalla responsabilità illimitata dei soci per le obbligazioni sociali, in base all’art. 2740 c.c. secondo cui il debitore (e dunque i soci come condebitori) risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (a ciò si aggiunga, per le s.n.c. o le s.a.s. esercenti attività commerciale, l’ulteriore svantaggio per cui, in forza dell’art. 147 l. fall. la sentenza che dichiara il fallimento di una di esse produce anche il fallimento dei rispettivi soci illimitatamente responsabili). La regola della responsabilità illimitata viene applicata in tutto il suo rigore con riferimento alla s.n.c., per la quale l’art. 2291 c.c. dispone al comma 1° che “tutti” i soci rispondono illimitatamente per le obbligazioni sociali: si tratta per giunta di norma imperativa, come risulta dal comma 2° del medesimo articolo secondo cui il patto contrario non ha effetto nei confronti dei terzi. Al di fuori della s.n.c., tuttavia, i soci possono talora limitare la propria responsabilità verso i creditori sociali, nella società semplice attraverso un patto che sia portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei (art. 2267 c.c.) e nella s.a.s. attraverso l’assunzione della qualità di accomandanti 16 (art. 2313 c.c.): a condizione però, in entrambi i casi, che rimanga comunque almeno un socio illimitatamente responsabile (nella società semplice, in base all’art. 2267, comma 1°, c.c., colui o coloro che hanno agito in nome e per conto della società; nella s.a.s. i soci accomandatari). In ogni caso, fruire del beneficio della responsabilità limitata non è indolore perché comporta la rinuncia al potere di cogestione dell’impresa: nella società semplice perché, in base all’art. 2267 c.c., il patto limitativo della responsabilità può riguardare solo coloro che non hanno agito in nome e per conto della società (vale a dire, secondo l’interpretazione più diffusa, coloro che non hanno amministrato); nella s.a.s. perché non solo, in forza dell’art. 2318, comma 2°, c.c., l’amministrazione non può essere conferita ai soci accomandanti (vale a dire a soggetti limitatamente responsabili), ma addirittura questi ultimi, ai sensi dell’art. 2320 c.c., qualora espletassero anche un solo atto di gestione, incorrerebbero a titolo di sanzione nella responsabilità illimitata per tutte le obbligazioni (anche per quelle anteriori all’atto di immistione) e potrebbero essere esclusi dalla società. Una seconda serie di vincoli per i soci di una società di persone riguarda specificamente le s.n.c. e le s.a.s. e attiene alla pubblicità obbligatoria da attuarsi mediante iscrizione al registro delle imprese: iscrizione che, riguardi essa l’atto costitutivo, oppure le sue modificazioni, oppure le limitazioni al potere di rappresentanza, ha regolarmente efficacia dichiarativa, con la conseguente inopponibilità dei fatti non iscritti ai terzi di buona fede (artt. 2297, 2298, 2300, 2317 c.c.). Una terza serie di vincoli che il legislatore prevede a tutela dei terzi con riferimento sempre a s.n.c. e s.a.s. è quella di cui all’art. 2303 c.c., che vieta la ripartizione di somme tra i soci se non per utili regolarmente conseguiti (salvo il diritto di ritenzione, in base all’art. 2321 c.c. da parte degli accomandanti che li abbiano riscossi in buona fede), e all’art. 2306 c.c., che consente ai creditori sociali di opporsi alla delibera di riduzione del capitale sociale mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante liberazione dei medesimi dall’obbligo di ulteriori versamenti. 4.4. Le società di capitali in generale. L’osservazione dei dati statistici ha evidenziato come le società di capitali, già presenti nelle microimprese ma in percentuale decisamente minoritaria rispetto alle imprese individuali e alle società di persone (13,7%), prendano decisamente il sopravvento sulle predette forme con il progredire delle dimensioni economiche raggiungendo il 62,2% delle piccole imprese e ben l’80,8% delle medie imprese. Assumendo per ora quello delle società di capitali come dato cumulativo, e rinviando ai paragrafi successivi l’analisi disaggregata dei dati relativi alla s.p.a. e alla s.r.l., la preferenza delle imprese minori ma non minime per i tipi capitalistici si spiega in base all’elemento che differenzia tali tipi rispetto a quelli personalistici, vale a dire la responsabilità limitata dei soci per le obbligazioni sociali. Mano a mano, infatti, che crescono le dimensioni dell’impresa, crescono anche i rischi connessi alla sua conduzione: circostanza di fronte alla quale emerge la propensione dei soci a ridurre l’esposizione del proprio patrimonio ai suddetti rischi limitandola ad una sola parte di esso, quella, appunto, investita nell’impresa attraverso il conferimento. Il legislatore asseconda la suddetta propensione prevedendo la responsabilità della sola società con il proprio patrimonio per le obbligazioni, ma predispone nel contempo una serie di strumenti onde evitare che il rischio di impresa si trasferisca interamente dai soci ai creditori, ai terzi e alla collettività nel suo complesso: strumenti che presentano, ovviamente, dei costi aggiuntivi rispetto a quelli di una struttura caratterizzata dalla responsabilità illimitata dei soci. I) Una prima tipologia di tali strumenti è costituita dalle c.d. “regole del capitale”. A) Alcune di tali regole riguardano la formazione del capitale e possono dettagliarsi come segue. 17 A1) L’ammontare del capitale sociale indicato in atto costitutivo (capitale “nominale”) non deve essere inferiore ad un determinato ammontare: 50.000 euro per la s.p.a. (art. 2327 c.c.); 10.000 euro per la s.r.l. (art. 2463, comma 2°, n. 4, c.c.), anche se tale regola viene oggi sostanzialmente vanificata laddove si prevede la costituzione sia della s.r.l. semplificata (art. 2463-bis c.c.) sia della s.r.l. ordinaria (art. 2463, comma 4°, c.c.) con il capitale meramente simbolico di un euro. Si consideri che minimi superiori a quelli di cui sopra possono essere previsti per l’esercizio di determinate attività (ad es. per quella bancaria, o per quella di intermediazione finanziaria, ai sensi, rispettivamente, degli artt. 14 e 107 t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia). A2) Il capitale nominale deve essere anche “reale”: vale a dire, da un lato, deve essere interamente sottoscritto (art. 2329 c.c., richiamato per la s.r.l. dall’art. 2463 c.c.), nel senso che al suo ammontare devono corrispondere altrettanti impegni di conferimento da parte dei soci, e, dall’altro, deve essere interamente coperto da un punto di vista valoristico, nel senso che il valore dei conferimenti non può essere complessivamente inferiore al suddetto ammontare (artt. 2346, comma 5°, e 2464, comma 1°, c.c.): il tutto onde evitare che i creditori sociali non trovino fin dall’inizio capienza nell’unico patrimonio su cui possono contare come garanzia per il soddisfacimento dei propri crediti. A3) Il capitale sociale deve essere “certo”, cioè deve essere rappresentato o da danaro o da entità obbiettivamente valutabili, onde evitare che i creditori sociali siano ingannati circa la consistenza della propria garanzia patrimoniale: a tal fine non basta la valutazione effettuata dai soci nell’atto costitutivo, come nelle società di persone, ma occorre la valutazione di un soggetto esterno fornito di requisiti idonei a garantirne professionalità e autonomia, il quale attesti in una relazione giurata, tra l’altro, che il valore dei beni in natura o dei crediti oggetto del conferimento sia almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione, appunto, del capitale sociale, nonché dell’eventuale soprapprezzo (artt. 2343 e 2465 c.c.). A4) Il capitale sociale deve essere “effettivo”, cioè rappresentato da beni immediatamente disponibili da parte della società, o comunque da essa agevolmente acquisibili. Trattandosi di beni in natura o di crediti, infatti, il legislatore dispone che le quote corrispondenti a tali conferimenti debbano essere integralmente liberate al momento della loro sottoscrizione (artt. 2342, comma 3°, e 2464, comma 5°, c.c.). Trattandosi di danaro, il medesimo legislatore dispone sì che, all’atto della sottoscrizione, basta il versamento di una parte soltanto del conferimento (il 25%, a meno che si tratti di socio unico, o di s.r.l. con capitale inferiore a 10.000, nel qual caso il versamento deve essere integrale: artt. 2464, comma 4°; 2463, comma 4°, 2463-bis c.c.), ma mette poi a disposizione della società creditrice, ai fini del recupero del restante 75%, strumenti eccezionali rispetto al diritto comune come quelli rappresentati dalla vendita in danno della quota del socio moroso e dall’esclusione di quest’ultimo (artt. 2344 e 2466 c.c.). A5) Le regole di cui sopra valgono anche qualora la formazione del capitale sociale avvenga in sede di aumento del medesimo (artt. 2439, 2440, 2481 c.c., i quali richiamano le norme, testé esaminate, riguardanti la fase costituiva.) B)Altre regole del capitale riguardano propriamente la conservazione di quest’ultimo durante la vita della società e possono così individuarsi. B1) La riduzione reale del capitale mediante restituzione del medesimo ai soci o mediante liberazione di questi ultimi dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti deve in ogni caso rispettare il minimo legale e non può comunque avvenire in presenza di opposizione da parte dei creditori sociali, a meno che il tribunale, quando ritenga infondato il pregiudizio per questi ultimi oppure quando la società abbia prestato idonea garanzia, disponga che l’operazione abbia luogo nonostante l’opposizione (artt. 2445 e 2482 c.c.). Lo stesso vale in caso di rimborso della quota del socio recedente (artt. 2437-quater, ultimi due commi, e 2473, comma 4°, c.c.). La restituzione del capitale ai soci non è ammessa anche quando avvenga in forme indirette, ad esempio mediante acquisto a titolo oneroso di proprie azioni (l’art. 2357 c.c. ammette tale operazione per la s.p.a., ma solo a patto che venga effettuata nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato), o mediante ripartizione di 18 utili non realmente conseguiti, ad esempio risultanti da sopravalutazione dell’attivo (artt. 2433, comma 2°, e 2478-bis, comma 4°, c.c.). B2) La diminuzione del capitale di oltre un terzo in conseguenza di perdite fa scattare una procedura di allarme (artt. 2446 e 2482-bis c.c.) che comprende la convocazione obbligatoria dell’assemblea per gli opportuni provvedimenti, la redazione di una situazione patrimoniale da parte degli amministratori da depositarsi presso la sede sociale e da illustrarsi in assemblea, e che si conclude, se entro l’esercizio successivo la perdita non diminuisca a meno di un terzo, con la riduzione obbligatoria del capitale, in proporzione delle perdite accertate, per deliberazione assembleare o, in mancanza, per decreto del tribunale, opportunamente sollecitato dagli organi di amministrazione o di controllo: deliberazione o decreto entrambi da iscriversi nel registro delle imprese. Se poi il capitale dovesse scendere, a causa delle suddette perdite, al disotto del minimo legale, si configurerebbe una causa di scioglimento della società (art. 2484, n. 4, c.c.), salvo che l’assemblea, dopo aver deliberato la riduzione del capitale in proporzione delle perdite, deliberi contestualmente la reintegrazione del medesimo fino almeno al suddetto minimo oppure la trasformazione della società (artt. 2447 e 2482-ter c.c.). Occorre ricordare che oggi, tali regole incontrano eccezione nel nuovo art. 182-sexies l. fall., intitolato “riduzione o perdita del capitale della società in crisi”, in base al quale, dalla data di deposito della domanda per l’ammissione al concordato preventivo o di quella per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (le due procedure superstiti per evitare il fallimento) e sino all’omologazione delle medesime, le regole di cui sopra non si applicano. B3) La conservazione del capitale è ulteriormente assicurata dalla disposizione dell’art. 2430 c.c. (richiamato per la s.r.l. dall’art. 2478-bis c.c.) secondo cui dagli utili netti annuali deve essere dedotta una somma corrispondente almeno alla ventesima parte di essi per costituire una riserva (detta “legale”), fino a che questa non abbia raggiunto il quinto del capitale sociale: riserva che deve essere reintegrata mediante il prelievo di cui sopra qualora venga diminuita per qualsiasi ragione e che costituisce un cuscinetto idoneo ad assorbire le eventuali perdite prima che queste intacchino il capitale (una formazione accelerata e potenziata della riserva legale è prevista dall’art. 2463, comma 5°, c.c., il quale stabilisce che, nella s.r.l. con capitale inferiore a 10.000 euro, debba essere accantonato il quinto degli utili di esercizio fino a quando la riserva legale abbia raggiunto, unitamente al capitale, i 10.000 euro). II) Una seconda tipologia di strumenti a tutela dei terzi è costituita dalle formalità richieste sia per la validità che per la pubblicità degli atti. A) Diversamente dalle società di persone, l’atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico, vale a dire da un notaio previo controllo di legalità circa il contenuto del medesimo (notaio il quale deve intervenire, con le stesse funzioni, anche in sede di modificazione dell’atto costituivo), in modo che i terzi possano fare affidamento sulla regolarità non solo meramente formale ma anche sostanziale dei suddetti documenti (artt. 2330 e 2436 c.c., richiamati per la s.r.l. dagli artt. 2463 e 2480 c.c.). B) Diversamente dalle società di persone, l’iscrizione dell’atto costitutivo e delle sue modificazioni nel registro delle imprese ha efficacia non semplicemente dichiarativa ma costitutiva (artt. 2331, comma 1° e 2436, comma 5°, c.c., richiamati per la s.r.l. dagli artt. 2463 e 2480 c.c.), nel senso che gli effetti di quegli atti, in mancanza della iscrizione, non sono semplicemente inopponibili ai terzi di buona fede, ma proprio non si producono: così ad esempio, prima dell’iscrizione dell’atto costitutivo, la responsabilità limitata dei soci per le obbligazioni sociali, mentre si configura ugualmente nel caso di s.a.s. (art. 2317, comma 2°, c.c.), lascia il posto nelle società di capitali alla responsabilità personale di chi agito in nome di esse, nonché, eventualmente, di altri soggetti (art. 2331, commi 2° ss., c.c.). C) Nelle società di capitali sono soggetti a pubblicità anche atti che non vi sono soggetti nelle società di persone: si pensi per esempio al bilancio, il quale nelle società di capitali, entro trenta giorni dall’approvazione da parte dei soci, deve essere depositato a cura degli amministratori, 19 corredato dalle relazioni dei medesimi amministratori e dei sindaci nonché dal verbale di approvazione, presso l’ufficio del registro delle imprese (artt. 2435, comma 1°, e 2478-bis, comma 2°, c.c.). III) Una terza tipologia di contrappesi alla responsabilità limitata in funzione di tutela dei terzi è costituita dalla disciplina dell’organizzazione. Uno dei cardini tradizionali dell’economia di mercato è rappresentato dal principio di corrispondenza fra rischio e potere, quantomeno nella versione per cui a potere illimitato deve corrispondere rischio illimitato, e a rischio limitato potere limitato, onde impedire che chi espone all’alea dell’impresa solo una parte, magari assai esigua, del proprio patrimonio possa gestire tale impresa in modo poco oculato o addirittura avventato e comprometterne dunque la funzionalità a danno di tutti (principio il quale sembrerebbe fatto proprio dal legislatore anche in materia di società di persone laddove si stabilisce, all’art. 2318, comma 2°, c.c., che l’amministrazione di una s.a.s. può essere conferita soltanto a soci accomandatari, vale a dire a soggetti illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali, e dunque non può essere conferita ad accomandanti, responsabili per le medesime obbligazioni solo limitatamente alla quota conferita). In materia di società di capitali, una soluzione simile, anche se non identica, a quella appena descritta per la s.a.s. viene prevista per la società in accomandita per azioni, dove, in base all’art. 2455, comma 2°, c.c., i soci accomandatari sono di diritto amministratori, mentre non c’è posto per gli accomandanti nell’organo amministrativo, atteso che, in forza dell’art. 2457, comma 2°, c.c., chi venga inserito in tale organo assume la qualità di socio accomandatario dal momento dell’accettazione della nomina. Ma come viene data attuazione al principio di corrispondenza fra potere e rischio in tipi societari quali la s.p.a. e la s.r.l. dove per le obbligazioni sociali risponde “soltanto” la società con il proprio patrimonio e dove quindi tutti i soci rispondono limitatamente alla quota conferita? Logica vorrebbe che tutti i soci, in quanto appunto beneficiari della responsabilità limitata, subissero limitazioni nell’esercizio dei propri poteri: ed è proprio quello che avviene. Ma in che cosa consistono tali limitazioni? A) Una prima limitazione sul terreno organizzativo (versione forte del principio di corrispondenza fra potere e rischio) consiste nella sottrazione ai soci, in quanto soggetti limitatamente responsabili, del potere di gestione dell’impresa, il quale non compete più di diritto ad essi (come avviene nelle società di persone e nella società in accomandita per azioni con riferimento ai soci illimitatamente responsabili) ma spetta, in forza degli artt. 2380-bis, comma 1°, e 2475, comma 1°, c.c., ad un organo ad hoc, quello amministrativo, che i soci si limitano a nominare (anche se ne possono far parte come soggetti nominati), e che svolge i propri compiti autonomamente da essi sotto la propria responsabilità civile anche verso i terzi (l’idea che il diritto di gestire l’impresa non potesse coesistere con la responsabilità limitata per le obbligazioni sociali era sentita a tal punto che il socio unico di s.r.l. e di s.p.a., in quanto dominus assoluto della società e dunque in grado di influire quantomeno di fatto sulla gestione della medesima, è stato assoggettato per molto tempo in via eccezionale alla responsabilità illimitata dagli originari artt. 2362 e 2497 c.c.: assoggettamento successivamente eliminato in forza della vicenda che ha portato prima nel 1993 in riferimento alla sola s.r.l. con l’attuazione della XII direttiva CEE e poi nel 2003 in riferimento anche alla s.p.a. con la generale riforma del diritto societario di quell’anno - a riconoscere il beneficio della responsabilità limitata, salvo qualche marginale eccezione, anche al socio unico). B) Una seconda limitazione di tipo organizzativo (versione debole del principio di corrispondenza fra potere e rischio) riguarda le modalità di esercizio dei poteri che pure sono rimasti in capo ai soci come collettività, e che non sono pochi (basti pensare a quelli di nomina e revoca delle cariche sociali, di approvazione del bilancio, di modifica dell’atto costitutivo). Ebbene, sotto il profilo formale, le decisioni in cui tali poteri si esprimono devono essere adottate, salvo limitate deroghe di cui avremo occasione di parlare in relazione alla s.r.l., con deliberazione 20 assembleare (artt. 2363 ss. e 2479-bis c.c.), vale a dire secondo una rigorosa procedura che si ispira al metodo collegiale e che consta di una sequenza articolata in diverse fasi (convocazione, intervento, riunione, discussione, votazione, proclamazione dei risultati, verbalizzazione, trascrizione in apposito libro interno e talora nel registro delle imprese): sequenza nel corso della quale la decisione si forma non già attraverso la mera giustapposizione dei consensi come nelle società di persone ma attraverso il confronto dialettico fra le varie opinioni e la manifestazione formalizzata delle medesime sotto costante monitoraggio di un presidente, di un segretario verbalizzante, di amministratori e sindaci (al rispetto della descritta procedura, come strumento volto a ridurre il tasso di arbitrarietà e indeterminatezza delle decisioni, sono interessati non soltanto i soci non consenzienti e gli organi interni della società, che infatti sono legittimati, in base agli artt. 2377 e 2479-ter, comma 1°, c.c., ad impugnare tali decisioni se la procedura in parola non è stata rispettata, ma anche, in presenza di carenze particolarmente gravi, i terzi, come si desume dagli artt. 2379 e 2479-ter, comma 3°, c.c., secondo i quali le decisioni aventi oggetto illecito o impossibile e quelle prese in assenza assoluta di convocazione, o di verbalizzazione, o comunque di informazione, possono essere impugnate da “chiunque vi abbia interesse”, e dunque anche da soggetti estranei alla società, come ad es. i creditori sociali). Quanto invece alle modalità sostanziali di esercizio dei poteri rimasti in capo ai soci limitatamente responsabili, quelle cioè che si esprimono nel principio della proporzionalità del voto rispetto al conferimento, occorre ricordare che, con la riforma del 2003, tale principio subisce un forte ridimensionamento. Da un lato, infatti, in materia di s.p.a., il nuovo art. 2346 c.c., dopo aver fatto cadere il divieto di emissione delle azioni sotto la pari e averlo sostituito con il divieto di avere un valore complessivo dei conferimenti inferiore all’ammontare del capitale sociale, stabilisce che la regola dell’assegnazione delle azioni al singolo socio per un valore non superiore al suo conferimento, diversamente dal passato, è meramente suppletiva, potendo lo statuto “prevedere una diversa assegnazione”, senza contare l’ulteriore ridimensionamento arrecato al principio dall’art. 20 del recentissimo d.l. 24 giugno 2014, n. 91, come convertito in l. 116/2014, il quale novella il quarto comma dell’art. 2351 c.c. eliminando l’antico divieto di emettere azioni a voto plurimo (pur con la precisazione che ciascuna di tali azioni può avere fino ad un massimo di tre voti). Dall’altro lato, in materia di s.r.l., si stabilisce sì, con il nuovo art. 2479, comma 5°. c.c., che il voto del socio vale in misura proporzionale alla partecipazione, la quale è a sua volta proporzionale al conferimento, ma si stabilisce altresì, con l’altrettanto nuovo art. 2468, comma 2°, c.c., che la proporzionalità della partecipazione al conferimento può essere derogata dall’atto costitutivo, il quale potrebbe così prevedere che ad un singolo socio spetti una partecipazione, e dunque un voto, più che proporzionale rispetto al conferimento, e dunque al rischio assunto con quest’ultimo. Tutti i suddetti interventi del legislatore hanno in comune, come si diceva poc’anzi e come risulta evidente già dalla loro descrizione, la caratteristica di implicare costi aggiuntivi rispetto a quelli sopportati dalle società di persone. Così, ad esempio, è più oneroso l’apporto del socio, in quanto non solo il complesso dei conferimenti non può essere inferiore ad un capitale minimo ma questi conferimenti devono anche essere parzialmente o totalmente eseguiti già all’atto della sottoscrizione; sono più onerose le spese documentali, come quelle notarili (in quanto il notaio interviene qui obbligatoriamente in sede sia di redazione dell’atto costitutivo che di modificazioni del medesimo), o come quelle connesse alla stima giurata dei conferimenti di beni in natura o di crediti; sono più onerose le spese connesse alla pubblicità (in quanto vi sono più atti o fatti da iscrivere nel registro delle imprese, come ad es. il bilancio); sono più numerose le spese connesse alla tenuta delle scritture contabili, in quanto le società di capitali, ai sensi dell’art. 18, comma 1°, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, come modificato dall’art. 7, comma 2°, lett. m, d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio 2011, n. 106), non possono mai essere esonerate dall’obbligo fiscale di tenuta delle scritture contabili anche allorché i ricavi da esse conseguiti in un anno intero non abbiano superato l’ammontare di 400.000 euro per le imprese aventi ad oggetto prestazione di servizi, ovvero di 700.000 per le imprese aventi ad oggetto altre attività; sono più onerose le spese 21 connesse alla nomina degli amministratori e degli eventuali sindaci, attesa la necessità di determinare i relativi compensi; sono infine più onerose le spese relative al procedimento di adozione delle decisioni dei soci, atteso il prevalente ricorso al metodo assembleare (basti pensare ai costi di convocazione e di verbalizzazione). 4.5. La società per azioni. Nel paragrafo precedente si è constatato come le due società di capitali pure (s.p.a e s.r.l.), connotate dalla responsabilità limitata di tutti i soci, siano oggetto di una pluralità di interventi del legislatore volti a tutelare i terzi contro la possibile esternalizzazione del rischio che la suddetta limitazione della responsabilità comporta: interventi i quali riguardano vuoi il piano patrimoniale (regole del capitale) e dell’informazione (deposito del bilancio presso il registro delle imprese), vuoi quello organizzativo (gestione dell’impresa affidata ad un organo ad hoc, procedimentalizzazione delle decisioni sociali), implicando con ciò costi aggiuntivi rispetto alle società di persone, come tali sostenibili solo da iniziative di dimensioni non minimali. I suddetti interventi, e dunque i relativi costi, sono portati alle estreme conseguenze nella s.p.a., la quale non a caso (come risulta dalla tabella statistica riportata al par. 4.1), assolutamente minoritaria nella micro e nella piccola impresa, diventa la forma più diffusa nella media e nella grande impresa, cioè in realtà produttive in grado di sopportare, per le entità delle rispettive risorse, costi più elevati rispetto alle altre. I) Così ad esempio, sotto il profilo patrimoniale, si deve segnalare che: A) la s.p.a presenta il capitale minimo più elevato (50.000 euro: così diminuito rispetto ai precedenti 120.000 euro in seguito alla modifica dell’art. 2327 c.c. ad opera del d.l. 24 giugno 2014, n. 91, come convertito in l. 11 agosto 2014, n. 116) e quindi la maggior necessità di concentrazione di risorse, anche se, a causa della sostanziale mancata rivalutazione dei minimi (dopo la c.d. legge Pandolfi del 1977), nonostante la incessante riduzione del potere d’acquisto della moneta, il parametro del capitale ha perso gran parte del suo valore segnaletico in ordine alle dimensioni dell’impresa; B) al di sopra del capitale minimo, la s.p.a. consente di raggiungere i più elevati valori di capitale in quanto è in grado di raccogliere mezzi propri presso una fascia di investitori potenzialmente assai numerosa rispetto ad altri tipi societari, grazie ad uno strumento come quello delle azioni (art. 2346 ss. c.c.) le quali, facilitando la circolazione delle partecipazioni in esse incorporate ed il calcolo del loro valore, rende appetibile l’investimento nella s.p.a. da parte anche di soggetti non interessati al governo della società ma a riscuotere un dividendo; C) le c.d. regole del capitale sono nella s.p.a. talora più stringenti che nella s.r.l.: basti pensare al divieto di conferire opera o servizi (art. 2342, ult. comma, c.c.), o alla necessità che la stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti sia effettuata da un esperto designato dal tribunale (art. 2343, comma 1°, c.c.), salve le eccezioni di cui all’art. 2343-ter c.c. II) Sotto il profilo organizzativo, si devono sottolineare: A) l’accentuata estraniazione del socio dalla gestione dell’impresa, come risulta dall’art. 2380-bis c.c. che affida tale gestione “esclusivamente” agli amministratori, con la conseguente impossibilità – diversamente dal passato - che le decisioni in materia possano essere rimesse ai soci su iniziativa degli stessi amministratori o in virtù di una clausola statutaria, a meno che quest’ultima si limiti ad investire i soci di un semplice potere autorizzatorio ai sensi dell’art. 2364, n. 5, c.c. La necessaria presenza dell’organo amministrativo comporta maggiori costi in termini non solo di strutture logistiche ma anche di compensi ex art. 2389 c.c.: compensi i quali devono oggi tenere conto della notevole complicazione che l’amministrazione ha assunto nella s.p.a., in termini sia di funzionamento dell’organo amministrativo (art. 2381, commi da 1° a 4°, c.c.; art. 2388 c.c.), sia di doveri dei singoli amministratori (basti pensare ai doveri di diligenza qualificata di cui all’art. 2392 c.c., o a quelli di fedeltà di cui agli artt. 2391 e 2391-bis c.c., o a quelli di informazione e monitoraggio di cui agli ultimi due commi dell’art. 2381 c.c.); 22 B) l’estraniazione del socio anche dai controlli sull’amministrazione, siano essi di legalità, di merito o contabili, in quanto i primi due risultano affidati al collegio sindacale (art. 2403 c.c.), il terzo a un revisore legale dei conti o società di revisione legale (art. 2409-bis c.c.), con i relativi incomprimibili maggiori costi in termini di compensi e di strutture logistiche; C) la possibile parziale estraniazione del socio persino dai poteri deliberativi che egli dovrebbe detenere quale membro dell’assemblea, con affidamento dei medesimi ad altri organi e dunque aumento dei costi quantomeno in termini di compensi dovuti a questi ultimi: si pensi all’ipotesi in cui lo statuto opti per uno dei sistemi alternativi di amministrazione e controllo di cui all’art. 2380 c.c., in quanto, se viene scelto il sistema dualistico, l’assemblea ordinaria perde il potere di approvare il bilancio e di nominare gli amministratori, il quale passa al consiglio di sorveglianza (artt. 2364-bis e 2409-terdecies c.c.), mentre, se viene scelto il sistema monistico, la medesima assemblea perde il potere di nominare l’organo di controllo, i cui componenti vengono designati dal consiglio di amministrazione al proprio interno (art. 2409-octiesdecies c.c.); si pensi, ancora, alle rilevanti decisioni dell’assemblea straordinaria che lo statuto, ai sensi dell’art. 2365, comma 2°, c.c., può attribuire alla competenza dell’organo amministrativo, o del consiglio di sorveglianza, o del consiglio di gestione. III) All’interno del tipo s.p.a. i descritti vincoli patrimoniali e organizzativi potrebbero subire attenuazione o aggravamento a seconda delle dimensioni della singola società o del suo posizionamento sul mercato dei capitali. Così, ad es.: A) ai sensi dell’art. 2435-bis c.c., la s.p.a. può redigere il bilancio in forma abbreviata quando, nel primo esercizio o, successivamente, per due esercizi consecutivi, non abbia superato due dei seguenti limiti: 1) totale dell’attivo dello stato patrimoniale 4.400.000 euro; 2) ricavi delle vendite e delle prestazioni 8.800.000 euro; 3) dipendenti occupati in media durante l’esercizio 50 unità; B) nelle s.p.a che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio ai sensi dell’art. 2325-bis c.c.: 1) deve essere data pubblicità ai patti parasociali a norma dell’art. 2341-ter c.c.; 2) la revisione legale dei conti non può essere affidata al collegio sindacale (art. 16 d.lgs. n. 39/2010); 3) non possono essere previste cause statutarie di recesso ulteriori rispetto a quelle legali (art. 2437, comma 4°, c.c.); 4) nelle convocazioni successive alla seconda l’assemblea straordinaria è costituita con la presenza di tanti soci che rappresentino almeno un quinto (anziché un terzo) del capitale sociale (art. 2369, comma 7°, c.c.); 5) il controllo giudiziario di cui all’art. 2409 c.c. può essere attivato anche su richiesta del pubblico ministero; C) alle s.p.a. quotate in mercati regolamentati, oltre alla disciplina di cui alla lettera b, si applicano ulteriori disposizioni ancora più restrittive come il divieto di redigere il bilancio in forma abbreviata (art. 2435-bis, comma 1°, c.c.), la sottoposizione istituzionale al controllo della Consob (art. 113 ss. t.u.f.), nonché, se la quotazione ha ad oggetto le azioni, il rigoroso regime pubblicitario e organizzativo di cui agli artt. 120 ss. t.u.f. 4.6. La società a responsabilità limitata. Dalla tabella statistica riportata al par. 4.1 risulta che, all’interno delle società di capitali, la s.r.l. prevale nettamente rispetto alla s.p.a. nelle microimprese (13,4% contro lo 0,3%) e nelle piccole imprese (55,9% contro il 6,3%), dove essa rappresenta anzi la forma maggioritaria, mentre viene dalla s.p.a. sia pur di poco superata nelle medie imprese (40,2% contro il 40,6%). Quali le ragioni che rendono più utilizzata la s.r.l. rispetto alla s.p.a., pur caratterizzate entrambe dalla responsabilità limitata di tutti i soci per le obbligazioni sociali, nelle due categorie dimensionali minori? 4.6.1. I profili patrimoniali della s.r.l. 23 I) Sotto questo aspetto, la scelta della s.r.l. da parte delle imprese minori interessate al beneficio della responsabilità limitata potrebbe intanto risultare obbligatoria per legge, giacché: a) per la s.r.l. è previsto in linea di principio un capitale minimo di soli 10.000 euro (art. 2463, comma 2°, n. 4, c.c.), o addirittura di un euro (v. oltre, II a), contro i 50.000 della s.p.a.: il che rende necessario il ricorso alla s.r.l. da parte di imprese le cui dimensioni in termini di capitale sono troppo esigue per accedere alla s.p.a. (anche se, non essendo stato fissato un capitale massimo, non è escluso l’impiego della s.r.l. anche per iniziative di dimensioni pari a quelle della s.p.a.). Si deve comunque ripetere qui ciò che si è già avuto occasione di dire a proposito di quest’ultima, e cioè che, a causa della sostanziale mancata rivalutazione dei minimi dopo la c.d. legge Pandolfi del 1977 nonostante la coeva riduzione del potere d’acquisto della moneta, il parametro del capitale ha perso gran parte del suo valore segnaletico in ordine alle dimensioni dell’impresa, ragione per cui è pensabile che una s.r.l. con capitale di soli 10.000 (o anche addirittura di un solo euro) possa essere un’impresa di dimensioni non esigue qualora i suoi “mezzi propri” fossero costituiti, oltre che dal capitale sociale, da ulteriori apporti a fondo perduto dei soci non imputati a capitale; b) l’impresa artigiana (piccola impresa ai sensi dell’art. 2083 c.c.) non può costituirsi in forma di s.p.a. mentre ben può costituirsi in forma di s.r.l., sia unipersonale che pluripersonale, (artt. 3 e 5 l. 8 agosto 1985, n. 443, come modificati dalla l. 20 maggio 1997, n. 133, e dalla l. 5 marzo 2001, n. 57). II) La scelta della s.r.l. potrebbe essere motivata dal fatto che le regole del capitale sono in essa tendenzialmente meno stringenti, e dunque meno costose, che nella s.p.a. Infatti: a) riguardo al capitale minimo, non solo la cifra ordinaria di 10.000 euro – come si diceva poc’anzi – è di ben cinque volte inferiore a quella della s.p.a., ma può essere addirittura ulteriormente contratta, sia pure in via eccezionale: ad esempio, in base al nuovo art. 2463-bis c.c. (come introdotto dal d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27), qualunque persone fisica può dar vita ad una “società a responsabilità limitata semplificata” con capitale da 1 a 9999 euro ed esenzione dalle spese notarili, mentre chiunque (anche persona giuridica), in base al nuovo comma 4° dell’art. 2463 (come introdotto dal d.l. 28 giugno 2013, n. 76, convertito in l. 9 agosto 2013, n. 99), può costituire una s.r.l. ordinaria con capitale inferiore a 10.000, purché pari ad almeno 1 euro; b) in ordine ai conferimenti in danaro, stabilisce l’art. 2464, comma 4°, periodo 2°, c.c. (richiamato, per l’aumento di capitale, dall’art. 2481-bis, comma 4°, c.c.) che il versamento parziale o totale di tali conferimenti da effettuarsi all’atto della sottoscrizione può essere sostituito dalla stipula, per un importo almeno corrispondente, di una polizza di assicurazione o di una fideiussione bancaria con le caratteristiche determinate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sostituibile a sua volta in ogni momento con il versamento del corrispondente importo in danaro da parte del socio: una soluzione che, in assenza di vincoli comunitari per la s.r.l. in materia di conferimenti, mira (a detta della Relazione di accompagnamento al d.lgs 6/2003, § 11) a consentire il decollo di iniziative imprenditoriali «pur nell’attuale mancanza di valori oggettivamente accertabili»; c) quanto ai conferimenti di beni in natura e di crediti, l’art. 2465 c.c. semplifica la procedura di valutazione dei medesimi rispetto alla s.p.a., da un lato, affidando la relazione giurata di stima non più ad un esperto nominato dal tribunale, ma ad un soggetto incaricato dal conferente, pur dovendosi trattare di un revisore legale dei conti o di una società di revisione legale iscritti nell’apposito registro, e, dall’altro, abolendo completamente, almeno in apparenza, il controllo di merito su tale relazione rappresentato, nella s.p.a., dalla revisione della stima ad opera di amministratori e sindaci; d) l’art. 2464, comma 6°, c.c. (richiamato dall’art. 2481-bis, comma 4°, c.c. per il caso di aumento del capitale sociale) autorizza nella s.r.l. quel conferimento d’opera o di servizi che è consentito nelle società di persone ma non nella s.p.a. (assecondando in tal modo – secondo le espressioni della citata Relazione di accompagnamento, § 11 - «la caratterizzazione personalistica 24 di questo tipo societario nel quale il contributo del socio molto spesso si qualifica per le sue qualità personali e professionali piuttosto che per il valore oggettivo dei beni apportati»), anche se dispone come contropartita a tale libertà, nell’interesse dei terzi, che gli obblighi assunti dal socio aventi ad oggetto la prestazione d’opera o di servizi a favore della società siano garantiti, per l’intero valore ad essi assegnato, da una polizza assicurativa o da una fideiussione bancaria, cioè da un’obbligazione pecuniaria assunta da soggetti normalmente caratterizzati da un elevato grado di solvibilità. III) Un ultimo fattore di attrazione del tipo s.r.l. da parte delle imprese più piccole potrebbe essere rappresentato dalla relativamente minor mole, e dunque minore costosità, di alcuni adempimenti e di alcune forme (pubblicitarie o meno). Si pensi ad esempio ai libri sociali, diversi da quelli contabili, che la società deve obbligatoriamente tenere: libri i quali sono molto più numerosi nella s.p.a. che nella s.r.l., come emerge da un semplice confronto fra gli artt. 2421 e 2478 c.c.. Dall’elenco contenuto in quest’ultima norma è stato tra l’altro recentemente espunto (art. 16, comma 12-septies, lett. a, d.l. 185/2008, convertito in l. 2/2009) il libro dei soci, con importanti riflessi, da un lato, sul terreno del trasferimento delle partecipazioni, per la cui opponibilità alla società non viene più richiesta, come avveniva in passato e come avviene ancora oggi per la s.p.a., la trascrizione in tale libro (art. 2470, commi 1° e 2°, c.c.), e dall’altro sul terreno della pubblicità, in quanto non si applica più alla s.r.l. (art. 2478-bis, comma 2°, c.c.) la norma dell’art. 2435, comma 2°, c.c. che prevede per la s.p.a. il deposito annuale presso il registro delle imprese dell’elenco dei soci e dei titolari diritti o beneficiari di vincoli sulle partecipazioni. A ciò si aggiunga che il processo di formazione del bilancio può risultare più spedito in quanto, da un lato, allorché la s.r.l. non nomini un organo di controllo (e si tratta della stragrande maggioranza dei casi), non occorrono gli adempimenti di cui all’art. 2429 c.c., mentre, dall’altro, non è necessaria la celebrazione di un’assemblea per l’approvazione del bilancio allorché tale decisione sia compresa fra quelle da adottarsi, per volontà dell’atto costitutivo ai sensi dell’art. 2479, comma 3°, c.c., mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto. Si considerino infine le formalità richieste per la stipulazione dell’atto costitutivo, il quale, nella s.r.l. semplificata, deve sì essere redatto per atto pubblico come in quella ordinaria (art. 2463bis, comma 2°, c.c.), ma con esenzione dagli oneri notarili e dai diritti di bollo e segreteria dovuti per l’iscrizione nel registro delle imprese (art. 3, comma 3°, d.l. 1/2012). 4.6.2. I profili organizzativi della s.r.l. Le esigenze di una compagine sociale ristretta, tendenzialmente partecipe alle vicende sociali e intrinsecamente caratterizzata al proprio interno dalla sussistenza di rapporti reciproci di natura fiduciaria, trovano appagamento nella s.r.l., ancora più che sotto il profilo patrimoniale (segnato in fondo, come nella s.p.a., dalla responsabilità limitata per le obbligazioni sociali, con le connesse esigenze di tutela dei terzi), sotto il profilo organizzativo. Infatti, pur nell’assetto di fondo tipicamente capitalistico, il regime legale della s.r.l. scaturente dalla riforma presenta tratti di notevole attenuazione rispetto all’archetipo capitalistico puro rappresentato dalla s.p.a.: attenuazione nel senso di un maggior peso attribuito alla posizione dei soci. I) Il maggior rilievo della posizione del socio nel modello legale. Tale maggior peso, imposto già in sede di delega al Governo per la riforma del diritto societario (art. 3 l. 3 ottobre 2001, n. 366) attraverso il principio della “rilevanza centrale del socio”, si manifesta intanto già a livello delle funzioni di controllo sull’operato degli amministratori: simile controllo infatti, che nella s.p.a. – come si è visto - è sottratto ai soci per essere affidato ad un collegio sindacale e ad un revisore legale dei conti, corrisponde nella s.r.l., proprio come nelle società di persone, ad un vero e proprio diritto individuale del socio (art. 2476, comma 2°, c.c.), a cui si affianca un organo di controllo obbligatorio solo a partire da certi livelli dimensionali (v. oltre, par. 4.6.3). A ciò si aggiunga che, in esito a tale controllo, ciascun socio (e non il solo detentore di una quota qualificata del capitale sociale come nella s.p.a.) ha il potere di promuovere 25 l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori nonché di chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli amministratori medesimi (art. 2476, comma 3°, c.c.). Ma il maggior rilievo della persona del socio nella s.r.l. rispetto alla s.p.a. si manifesta, sempre a livello di regime legale, con riferimento alla vera e propria gestione dell’impresa. Infatti, diversamente dalla s.p.a. dove l’art. 2380-bis, comma 1°, c.c. riserva tale gestione “esclusivamente” agli amministratori (con la conseguente impossibilità per questi ultimi di sottoporre atti gestori all’esame dell’assemblea, come avveniva in passato in base all’abrogato art. 2364, n. 4, c.c.), nella s.r.l. sussiste in capo alla collettività dei soci una competenza concorrente con quella degli amministratori (visto che, ai sensi dell’art. 2479, comma 1°, c.c., i soci possono decidere su qualsivoglia “argomento”, dunque anche gestorio, venga sottoposto alla loro approvazione da uno o più amministratori o dai titolari di almeno un terzo del capitale sociale, con la sola esclusione, forse, delle poche materie che l’ultimo comma dell’art. 2475 c.c. riserva all’organo amministrativo). A ciò si aggiunga che, in base all’art. 2479, comma 2°, n. 5, c.c., alcune operazioni gestionali di vertice, le quali normalmente sarebbero appannaggio degli amministratori, vengono riservate alla competenza dei soci addirittura per legge, senza bisogno della sollecitazione di cui sopra . Viene così realizzato per la s.r.l. quello schema di società intermedia fra società di persone e s.p.a. di cui parlano anche i lavori preparatori della riforma: schema nel quale, pur prevedendosi la presenza di amministratori come organo separato dalla collettività dei soci, questi ultimi, potendo avocare a sé in ogni momento decisioni in materia di gestione dell’impresa, rivestono in tale materia un ruolo preminente, quasi gerarchicamente sovraordinato, rispetto agli amministratori (secondo, del resto, un modello adottato in Germania e in Spagna, dove è possibile all’assemblea, anche indipendentemente da ogni disposizione in tal senso dell’atto costitutivo, intervenire nella gestione dell’impresa impartendo istruzioni vincolanti agli amministratori o comunque limitando i loro poteri). Si tratta di uno schema che è stato qualificato fin dall’origine in dottrina - con un’espressione che ha avuto una certa fortuna - come “capitalistico attenuato”, e che in ogni caso, al di là delle qualificazioni, risulta sostanzialmente coerente con il principio della “rilevanza centrale del socio” enunciato dalla legge delega. II) Il maggior rilievo della posizione del socio nell’autonomia statutaria. E’ noto come sia rilevante nella s.r.l. il ruolo dell’autonomia statutaria, in particolare proprio in materia di organizzazione: lo dimostra il passo del già citato art. 3 della legge delega per la riforma del diritto societario in cui si impone al legislatore delegato di riconoscere ampia autonomia statutaria riguardo alle strutture organizzative e ai procedimenti decisionali della società Sotto questo profilo, è unanimemente riconosciuto che l’atto costitutivo di una s.r.l. possa ulteriormente accentuare la rilevanza del socio attraverso l’adozione di un modello statutario di organizzazione tendenzialmente personalistico. Lo si desume principalmente da due fonti. La prima fonte (il comma 1° dell’art. 2479 c.c.) stabilisce che i soci decidono sulle “materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo”: disposizione chiosata dalla Relazione di accompagnamento al d. lgs. n. 6/2003, § 11, nel senso che spetta al contratto sociale, in particolare, “distribuire le competenze tra soci e amministratori”, con la conseguenza che materie appartenenti nel regime legale agli amministratori potrebbero dall’atto costitutivo essere rimesse in via esclusiva alla decisione dei soci: decisione, per giunta, che lo stesso atto costitutivo, in base al comma 3° dell’art. 2479 c.c., potrebbe più o meno largamente deprocedimentalizzare attraverso la previsione di meccanismi extrassembleari. La seconda fonte (il comma 3° dell’art. 2468 c.c.) autorizza l’atto costitutivo a prevedere l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti, tra l’altro, appunto “l’amministrazione della società”. Da entrambe le fonti, come si vede, si desume la possibilità per l’autonomia statutaria di incardinare in capo ai soci - si tratti della collettività di essi oppure del singolo socio - un vero e proprio potere di gestione dell’impresa sociale, appunto come accade in una s.n.c. Tale scelta viene spiegata dalla ricordata Relazione di accompagnamento al decreto delegato con la considerazione per cui, dopo la generale ammissibilità della società unipersonale a responsabilità limitata, la limitazione di responsabilità 26 “non può più ritenersi necessariamente presupporre una rigida struttura corporativa” (in altre parole, una volta ammesso che il socio unico goda del beneficio della responsabilità limitata pur esercitando un dominio incondizionato sulla società, non si vede perché dello stesso beneficio non debba godere un socio chiamato statutariamente, in una società pluripersonale, ad una partecipazione diretta al governo della medesima senza intermediazione di organi o procedure). III) Ristrettezza e potenziale chiusura della compagine sociale. Se si considera che un’impresa di ridotte dimensioni, fino a quando rimane tale, non ha necessità di reclutare molti soci e quindi non abbisogna degli strumenti che assicurino il facile allargamento e la facile intercambiabilità della base sociale, e che, per giunta, i pochi soci, essendo normalmente più coinvolti nel governo della società ed essendo fra di loro vincolati da rapporti di reciproca conoscenza e fiducia, spesso di carattere familiare, sono interessati a mantenere inalterati sia il proprio peso specifico all’interno della società sia la composizione personale della medesima, si può osservare che: a) il carattere ristretto della compagine sociale è assicurato dalla disposizione dell’art. 2468, comma 1°, in base alla quale, nella s.r.l., le partecipazioni dei soci, diversamente da quanto accade nella s.p.a., non possono essere rappresentate da azioni né possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, in tal modo impedendosi che la compagine sociale possa facilmente e repentinamente mutare grazie alla agevole trasferibilità di un titolo di credito o possa facilmente e repentinamente allargarsi grazie ad una operazione di sollecitazione del pubblico risparmio; b) l’interesse del socio a mantenere inalterata la propria posizione all’interno della società è assicurato da norme come quella dell’art. 2481-bis, comma 1°, c.c. in base alla quale il diritto di sottoscrivere l’aumento di capitale non può essere escluso o limitato a maggioranza dalla delibera di aumento (diversamente da quanto previsto per la s.p.a. dall’art. 2441 c.c.), o come quelle in base alle quali le quote di partecipazioni non possono subire modificazioni né in sede di aumento gratuito del capitale sociale (art. 2481-ter c.c.) né in sede di riduzione del medesimo per perdite (art. 2482-quater c.c.); c) l’eventuale interesse dei soci a mantenere inalterata, per ragioni di omogeneità e fiducia reciproca, la composizione originaria della base sociale è garantito dalla possibilità, per l’atto costitutivo, di vincolare in ogni modo la circolazione della partecipazione (art. 2469 c.c.), mentre tale possibilità, nella s.p.a., da un lato riguarda le sole azioni nominative e dall’altro non può consistere nel divieto definitivo di alienare (art. 2355-bis c.c.); si consideri inoltre che, diversamente dalla s.p.a., la presenza di un limite statutario al trasferimento della partecipazioni ha una certa efficacia anche nei confronti dei terzi in quanto produce riflessi sulla espropriazione della medesima da parte dei creditori particolari del socio condizionandone lo svolgimento (art. 2471, comma 3°, c.c.). 4.6.3. I diversi regimi giuridici della s.r.l. La disciplina della s.r.l. non è monolitica ma varia più o meno radicalmente al variare di singoli elementi di volta in volta evidenziati dal legislatore. Così, ad esempio, in virtù del rinvio operato dall’art. 2478-bis all’art. 2435-bis c.c., anche la s.r.l., come la s.p.a., può redigere il bilancio in forma abbreviata quando, nel primo esercizio o, successivamente, per due esercizi consecutivi, non abbia superato due dei seguenti limiti: 1) totale dell’attivo dello stato patrimoniale 4.400.000 euro; 2) ricavi delle vendite e delle prestazioni 8.800.000 euro; 3) dipendenti occupati in media durante l’esercizio 50 unità; Si pensi, a titolo di ulteriore esempio, al sistema adottato in caso di pluralità di amministratori, il quale, se basato sull’opzione statutaria per l’amministrazione disgiuntiva o congiuntiva anziché collegiale, comporta l’applicazione degli artt. 2257 e 2258 c.c. anziché di quelli regolanti il consiglio di amministrazione (art. 2475, comma 3°, c.c.), con un effetto di semplificazione delle decisioni gestorie del tutto identico a quello delle società di persone. Si pensi, ancora, all’ipotesi in cui i soci, come collettività o come singoli, siano stati investiti dall’atto costitutivo, sulla base dei già ricordati artt. 2479, comma 1° e 2468, comma 3°, 27 c.c., di poteri in materia di gestione dell’impresa, nel qual caso essi sono solidalmente responsabili con gli amministratori, ai sensi dell’art. 2476, comma 7°, c.c., se hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi. Sempre sotto il profilo organizzativo, si consideri la materia di controlli. Accanto infatti al controllo individuale del socio, che abbiamo visto operare per tutte le s.r.l., queste ultime, in base all’art. 2477 c.c. (così come modificato, da ultimo, dal d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito in l. 4 aprile 2012, n. 35, e dal d.l. 24 giugno 2014, n. 91, convertito in l. 11 agosto 2014, n. 116), devono altresì dotarsi di un organo di controllo o di un revisore legale dei conti allorché, anche in alternativa: a) per due esercizi consecutivi sono stati superati due dei limiti indicati dal primo comma dell'articolo 2435-bis c.c. (vale a dire totale dell’attivo dello stato patrimoniale pari a 4.400.000 euro; ricavi delle vendite e delle prestazioni pari a 8.800.000 euro; dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 50 unità); b) la s.r.l. è tenuta alla redazione del bilancio consolidato; c) la s.r.l. controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti. In tali casi si applica la disciplina della s.p.a., anche se, diversamente da questa, l’organo di controllo può essere costituito da un sindaco unico anziché da un collegio sindacale. Ma le ipotesi forse più eclatanti di diversificazione normativa all’interno della s.r.l. sono quelle che derivano dalle nuove subfattispecie di questo tipo societario introdotte dalla recente decretazione d’urgenza. Un esempio è rappresentato dall’ipotesi in cui la s.r.l. si costituisca con capitale inferiore a 10.000 euro, com’è consentito sia per la s.r.l. ordinaria (art. 2463, comma 4°, c.c.) che per la s.r.l. semplificata (art. 2463-bis c.c.): ipotesi per la quale, diversamente da quanto avviene nella s.r.l. con capitale pari o superiore a 10.000 euro, è previsto, da un lato, che il conferimento debba essere effettuato necessariamente in danaro e interamente versato all’atto della costituzione e, dall’altro, che – trattandosi di s.r.l. semplificata – la costituzione possa avvenire solamente da parte di persone fisiche e l’atto costitutivo debba essere conforme ad un modello standard tipizzato a livello governativo come condizione per fruire dell’esenzione dai diritti di bollo e di segreteria e dagli oneri notarili (v. oltre, par. 5.1). Un ulteriore esempio è rappresentato dall’ipotesi in cui la s.r.l. sia una start-up innovativa, cioè presenti, fra altre caratteristiche, quelle di avere come oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico, di essere costituita e di svolgere attività d'impresa da non più di quarantotto mesi e di aver fatto registrare, a partire dal secondo anno di attività, un valore della produzione annua non superiore a 5 milioni di euro: ipotesi per la quale l’art. 26 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in l. 17 dicembre 2012, n. 221, prevede una serie di eccezioni rispetto alla disciplina della s.r.l. ordinaria, come ad esempio quella per cui, in deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, comma 1°, c.c., le quote di partecipazione in start-up innovative costituite in forma di s.r.l. possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, anche attraverso appositi portali telematici (v. oltre, al par. 5.2). Come si vede, la presenza, all’interno del tipo s.r.l., di ulteriori articolazioni o sottotipi fa sì che di una fattispecie concreta qualificabile come s.r.l. gli operatori debbano altresì valutare attentamente l’appartenenza o meno ad una o più delle suddette articolazioni, giacché tale appartenenza potrebbe comportare l’applicazione alla fattispecie in parola di una disciplina parzialmente diversa da quella applicabile ad altre fattispecie pure riconducibili al tipo s.r.l. e dunque orientare la scelta dei suddetti operatori in relazione alle proprie esigenze in termini di partecipazione e di costi nella struttura organizzativa. 4.7. La società cooperativa (a cura del prof. Emanuele Cusa). I) Premessa I dati statistici riportati nel § 4.1 (non comprensivi però delle società cooperative operanti nel settore agricolo, pari a circa a 15.000 unità) evidenziano come le società cooperative, quasi assenti nelle microimprese (0,8%), sopravanzano gli imprenditori individuali e le società di persone in modo direttamente proporzionale alla crescita dimensionale dell’impresa, raggiungendo il 28 14,7% delle medie imprese (contro, per la medesima dimensione imprenditoriale, lo 0,5% costituito dagli imprenditori individuali e il 2,7% costituito dalle società di persone). Da segnalare inoltre che, secondo dati statistici (aggiornati al 2010) forniti da Confcooperative (la principale associazione di rappresentanza del movimento cooperativo italiano), il 99,1% delle società cooperative attive in Italia sono da qualificarsi (secondo la definizione comunitaria) come PMI. Il fatto che le cooperative siano preferite rispetto alle imprese individuali e alle società di persone al crescere della dimensione imprenditoriale è probabilmente dovuto non solo alla necessaria responsabilità limitata dei soci delle prime per le obbligazioni sociali, ma anche (e direi soprattutto) al loro necessario carattere aperto e democratico e alla loro peculiare forma organizzativa concepita per perseguire (almeno principalmente, in ogni caso necessariamente) uno specifico obiettivo: lo scopo mutualistico. Scopo, quest’ultimo, che si può succintamente descrivere nel senso che i cooperatori della cooperativa, proprio grazie all’esercizio in comune dell’impresa sociale, soddisfano direttamente propri bisogni (innanzi tutto) economici. Sicché, ad esempio nelle cooperative di lavoro, la cooperativa offre ai soci lavoratori occasioni di lavoro, coinvolgendoli direttamente nell’esercizio dell’impresa sociale come contraenti con la stessa loro società (realizzandosi così il cosiddetto, necessario scambio mutualistico tra soci cooperatori e cooperativa). In funzione del necessario perseguimento dello scopo mutualistico, alle cooperative è imposto una più o meno significativa limitazione dello scopo lucrativo (a seconda che siano cooperative a mutualità prevalente o non lo siano, dovendo le prime rispettare l’art. 2514 c.c.), il cui perseguimento è comunque eventuale; con la conseguenza che per il diritto comune possono legittimamente esistere cooperative nonprofit (aventi cioè un divieto statutario di dividere in qualsiasi momento gli utili tra i soci). Diversamente dai tipi societari lucrativi, la società cooperativa è un unico tipo societario includente quattro (non già sottotipi, bensì) modelli legali, attorno ai quali sono state costruite quattro corrispondenti discipline: (i) il modello della cooperativa basata sulla disciplina della s.p.a. (coop-s.p.a.) è stato concepito avendo a mente una società con tanti cooperatori (normalmente disinteressati a gestire personalmente l’impresa o comunque a influenzarne direttamente la gestione, come parrebbe emergere dall’art. 2545-bis, comma 1°, c.c.) ed esercente un’impresa non di piccole dimensioni, potenzialmente bisognosa di investimenti in capitale di rischio effettuati anche da persone diverse dai cooperatori; (ii) il modello della cooperativa basato sulla disciplina della s.r.l. (coop-s.r.l., con il sub-modello rappresentato dalla piccola coop-s.r.l., disciplinato dall’art. 2522, comma 2°, c.c.) è stato concepito avendo a mente una società esercente (argomentando dall’art. 2519, comma 2°, c.c.) una piccola impresa (anzi una microimpresa, se ci si avvale della definizione comunitaria di microimprese) e con una compagine sociale costituita da pochi cooperatori interessati a gestire personalmente l’impresa o comunque a influenzare direttamente la gestione della stessa; (iii) il modello cooperativa a mutualità prevalente è stato concepito avendo a mente la cooperativa massimamente coerente con il paradigma costituzionale (ovverosia quella con « carattere di mutualità » e « senza fini di speculazione privata », ai sensi dell’art. 45 Cost.), il quale è stato tradotto dalla legislazione ordinaria principalmente mediante gli artt. 2512-2514 c.c.; (iv) il modello cooperativa a mutualità non prevalente è stato concepito avendo a mente le cooperative prive dei tratti funzionali del precedente modello. Questi quattro modelli possono nella realtà combinarsi nel seguente modo: una coop-s.p.a. può essere a mutualità prevalente o non essere non a mutualità prevalente, al pari di una coop-s.r.l. che può essere a mutualità prevalente o non essere a mutualità prevalente. Naturalmente, chi applica la disciplina delle cooperative è tenuto ad utilizzare tali modelli (essendo essi legali e non meramente sociologici e/o economici), nel momento in cui è chiamato ad interpretarla e ad integrarla analogicamente. Secondo i dati forniti dal Ministero dello sviluppo economico il 57% delle cooperative italiane (almeno nel 2007, ma è da ritenersi che negli ultimi anni sia cresciuto il numero delle cooperative in forma di coop-s.r.l.) è in forma di coop-s.p.a. e il 94,79% delle cooperative italiane (secondo i dati aggiornati al 2010) osserva il modello della cooperativa a mutualità prevalente. 29 La disciplina delle cooperative si distingue da quella degli altri tipi societari per l’operare di un particolare parametro: il numero dei soci. Questo parametro, benché sia stato utilizzato per modulare anche la disciplina dell’impresa societaria lucrativa, assume certamente un’importanza di gran lunga maggiore nella regolazione delle cooperative. Il legislatore ha infatti correlato diverse quantità di soci a frammenti dell’ordinamento cooperativo in funzione di queste tre fondamentali caratteristiche dell’impresa cooperativa: essere un’attività (i) economica, (ii) mutualistica e (iii) democraticamente controllata. Legate al carattere economico e mutualistico dell’impresa sono le disposizioni fissanti compagini sociali minimali. In effetti, la cooperativa, per essere tale, non deve limitarsi a perseguire uno scopo mutualistico (art. 2511 c.c.), ma deve farlo esercitando un’attività economica (argomentando dall’art. 2247 c.c.), poiché è un’organizzazione societaria; per conseguenza, il codice civile impone alla cooperativa di avere una compagine sociale composta da almeno nove soci – o da almeno tre soci in caso di piccole imprese mutualistiche – poiché ciò fa presumere che l’attività sociale, prima di essere mutualistica (ossia rivolta soltanto od anche ai cooperatori), sia almeno economica (ossia non in perdita, in ragione di un numero insufficiente di beneficiari). Legate invece al necessario carattere democratico sono, ad esempio, gli artt. 2519 e 2522 c.c., mediante i quali le cooperative sono bipartite in coop-s.p.a. e in coop-s.r.l. Una volta chiarito che democrazia cooperativa significa essenzialmente avere un’organizzazione capace di garantire una reale partecipazione dei soci alla vita sociale, l’imposizione del modello coop-s.p.a. alla cooperativa con un’ampia compagine sociale e con un’impresa non piccola significa salvaguardare la partecipazione dei soci mediante una sua procedimentalizzazione con significativi tratti di imperatività. Diversamente, in presenza di compagini sociali ristrette, il modello coop-s.r.l. è l’ideale o addirittura obbligatorio (quando i soci sono compresi tra tre e otto), essendo quest’ultimo modello per lo più imperniato sull’autotutela dei soci (presumibilmente, questi ultimi, imprenditori di sé stessi). Naturalmente, più cresce la compagine sociale, più è difficile garantire una partecipazione diretta di tutti i soci alla vita sociale; ecco dunque che il legislatore, in presenza di compagini sociali con determinate caratteristiche, addirittura ne impone il frazionamento in assemblee separate (art. 2540, comma 2°, c.c.), realizzandosi così una sorta di democrazia indiretta, l’unica possibile quando sono molti i titolari dei diritti di partecipazione. In questo quadro è però da segnalarsi un’incoerenza del legislatore, allorquando consente alla cooperativa con un numero illimitato di soci di prescegliere il modello coop-s.r.l., a condizione che eserciti una piccola impresa (avente cioè un attivo dello stato patrimoniale non superiore ad un milione di euro, ai sensi dell’art. 2519, comma 2°, c.c.). II) Strumenti a tutela dei terzi e della collettività. Come per le società di capitali, così per le società cooperative, il legislatore, a fronte della responsabilità limitata dei soci per le obbligazioni sociali, ha concepito una serie di strumenti (s ul pi ano p at rim on ial e, i n fo rm ati vo e organ izz ati vo ) vo lti a evitare che il rischio di impresa si trasferisca interamente dai soci ai creditori, ai terzi e alla collettività nel suo complesso; strumenti che, come per le società di capitali, presentano dei costi aggiuntivi rispetto a quelli di una struttura caratterizzata dalla responsabilità illimitata dei soci. A) Regole a salvaguardia del patrimonio netto. La società cooperativa deve avere partecipazioni sociali con (indicazione espressa del) valore nominale e un capitale sociale variabile (ossia non nominale in ragione del fatto che il valore del capitale non può corrispondere al contenuto di una clausola statutaria). Da questo specifico dato strutturale deriva che (in linea di principio e salvo eccezioni) la riduzione del capitale sociale, al pari del suo aumento, non deve essere di competenza dell’assemblea (straordinaria, in caso di coop-s.p.a.) dei soci chiamata a modificare l’atto costitutivo o dell’organo gestorio a ciò delegato. Il che costituisce, in termini di costi, un vantaggio per le cooperative rispetto alle società di capitali (non dovendo le prime richiedere l’intervento del notaio per variare il capitale sociale), solitamente giustificato in ragione del loro carattere necessariamente aperto (ora sancito nella rubrica dell’art. 2528 c.c.). 30 Per le cooperative, a differenza delle società di capitali (diverse dalle s.r.l. regolate dagli artt. 2463, comma 4° e 2463-bis c.c.), il diritto comune non prevede nemmeno un capitale sociale minimo (significativo), potendo per le coop-s.r.l. corrispondere a 75 euro [pari al prodotto del valore nominale minimo della partecipazione sociale (25 euro) per il numero minimo di soci in tale modello (tre)] e per le coop-s.p.a. a 225 euro [pari al prodotto del valore nominale minimo della partecipazione sociale (25 euro) per il numero minimo di soci in tale modello (nove)]. Il che costituisce un ulteriore vantaggio per le cooperative rispetto alle società di capitali. Da segnalarsi in proposito che, secondo i dati (aggiornati al 2010) forniti da Confcooperative, più del 76% delle PMI cooperative attive ha un capitale sociale inferiore a 10.000 euro. Dal decreto Ministro della Giustizia 23 giugno 2012, n. 138 (contenente il « modello standard di atto costitutivo e statuto della società a responsabilità limitata semplificata ») si ricava che le coop-s.r.l. non possono essere costituite avvalendosi delle agevolazioni (relative al diritto di bollo e di segreteria e agli onorari notarili) previste per le s.r.l. semplificate di cui all’art. 2463-bis c.c. Le cooperative possono essere invece start-up innovative ai sensi dell’art. 25 d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (conv. dalla l. 18 ottobre 2012, n. 221), ovvero piccole e medie imprese innovative ai sensi dell’art. 4 d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 (conv. dalla l. 24 marzo 2015, n. 33). Il capitale sociale delle cooperative, nonostante debba essere variabile e possa essere di importo anche esiguo, assolve in modo crescente sia una funzione organizzativa nell’interesse dei soci, sia una funzione vincolistica nell’interesse dei creditori sociali. Funzione vincolistica che è tecnicamente garantita attraverso due doveri (regolati dalla disciplina della s.p.a. o da quella della s.r.l., a seconda che la cooperativa sia rispettivamente una coop-s.p.a. o una coops.r.l.): quello di appostare al passivo dello stato patrimoniale una voce ideale pari alla somma dei valori imputati a capitale dei conferimenti eseguiti (in tutto o in parte); quello di sottoporre (salvo le deroghe previste nella disciplina della s.p.a.) a eterovalutazione da parte di qualificati professionisti le entità (diverse dal denaro) oggetto di conferimento. Se la disciplina del capitale delle cooperative, in ragione della sua flessibilità, riduce (ma non elimina) la funzione vincolistica del capitale sociale, la disciplina delle riserve delle cooperative, certamente più stringente di quella prevista per le società di capitali, compensa l’evidenziata riduzione: da un canto, almeno il trenta per cento degli utili netti annuali deve essere allocato sempre a riserva legale (art. 2545-quater, comma 1°, c.c., da leggersi in contrapposizione all’art. 2430 c.c., valevole per tutte le società di capitali); dall’altro, vi sono (nelle cooperative a mutualità prevalente) o vi possono essere (nelle altre cooperative, se previste in un’apposita clausola statutaria) le riserve indivisibili, le quali offrono ai terzi creditori una tutela paragonabile (anzi superiore) a quella offerta dal capitale sociale, non potendo mai dette riserve essere ripartite tra i soci (nemmeno in caso di scioglimento, diversamente dalla riserva legale) e costituendo le stesse l’ultimo baluardo del capitale in caso di perdite sociali (art. 2545-ter c.c.). Queste riserve indivisibili, specialmente nelle cooperative da tempo costituite, sono spesso di valore molto maggiore rispetto a quello del capitale sociale in ragione degli incentivi (e dei vincoli) tributaristici volti a costituire (e a mantenere) dette riserve. In molti casi, pertanto, i creditori sociali sono maggiormente garantiti dalle predette riserve piuttosto che dal(l’esiguo) capitale sociale. Dunque, dall’intero ordinamento cooperativo emerge limpidamente che l’accertamento del grado di tutela offerto ai creditori sociali va condotto esaminando la disciplina non solo del capitale sociale, ma anche, e più in generale, del patrimonio netto: è infatti la funzione vincolistica di questa parte ideale del patrimonio a bilanciare il beneficio della limitazione del rischio concesso ai soci di tutte le società con personalità giuridica. Proprio l’esposto legame tra disciplina imperativa del patrimonio netto (nelle società di capitali) e responsabilità limitata dei soci giustifica la dovuta applicazione alle cooperative dell’anzidetta disciplina. Ovviamente, però, alcune disposizioni della disciplina del patrimonio netto potranno 31 disapplicarsi o mutare natura, se ciò serva a risolvere possibili (apparenti) antinomie con specifiche norme dell’ordinamento cooperativo (dovendo prevalere queste ultime ai sensi dell’art. 2519 c.c.). B) Regole che impongono un certo grado di pubblicità. Diversamente dalle società di persone, per le cooperative, al pari delle società di capitali, l’iscrizione dell’atto costitutivo e d e l l o s t a t u t o ( e d e l l e r e l a t i v e l o r o m o d i f i c h e ) nel registro delle imprese ha efficacia costitutiva e tale iscrizione deve essere preceduta da un controllo di legalità ad opera di un notaio, in modo che i terzi possano fare affidamento sulla regolarità non meramente formale ma sostanziale dei suddetti documenti. La disciplina delle cooperative, ancora al pari di quella delle società di capitali, assoggetta a pubblicità ulteriori atti che non sono invece resi pubblici se predisposti da società di persone, come, ad esempio, il bilancio d’esercizio. Come le società di capitali, così le cooperative non possono mai essere esonerate dall’obbligo fiscale di tenuta delle scritture contabili, ai sensi dell’art. 18, comma 1°, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 (come modificato dall’art. 7, comma 2°, lett. m), d.l. 13 maggio 2011, n. 70, conv. dalla l. 12 luglio 2011, n. 106). C) Regole organizzative e i controlli interni ed esterni. Le cooperative, al pari delle società di capitali, devono avere l’assemblea dei soci. Sicché nelle cooperative v’è un costo organizzativo in più rispetto alle società di persone, dovendo decidere l’assemblea nel rispetto del metodo collegiale. Se però la cooperativa ha scelto il modello coop-s.r.l., sono ammissibili le semplificazioni previste per le s.r.l. in presenza di decisioni dei soci non assembleari. L’organo gestorio nelle cooperative (come nelle società di capitali) può essere monosoggettivo (almeno secondo l’autorità ministeriale competente a vigilare le cooperative, nonostante il dettato dell’art. 2542 c.c., come si ricava dal modello ministeriale di verbale di revisione cooperativa) o plurisoggettivo. Ai sensi dell’art. 2543 c.c., diversamente dalle s.p.a., nelle cooperative (coop-s.p.a. o coops.r.l.) può mancare un organo sociale di controllo; quest’ultimo deve però esservi nelle stesse ipotesi in cui è obbligatorio nelle s.r.l. nonché quando siano stati emessi strumenti finanziari non partecipativi (corrispondenti probabilmente a titoli di debito). Poiché l’art. 2543 c.c. menziona espressamente il collegio sindacale e, al contempo, richiama i commi 2° e 3° dell’art. 2477 c.c., ci si potrebbe chiedere se alla cooperativa (quand’anche fosse coop-s.r.l.) possa applicarsi la recente semplificazione prevista per le sole s.r.l., secondo la quale, « se lo statuto non dispone diversamente, l’organo di controllo è costituito da un solo membro effettivo » (art. 2477, comma 1°, c.c.); alla predetta domanda ha risposto affermativamente il Consiglio Nazionale del Notariato (con lo studio n. 113-2012 del 9 maggio 2012) e la Commissione centrale per le cooperative (con il parere del 16 ottobre 2012). Al pari delle s.p.a., le cooperative, anche se costituite secondo il modello coop-s.r.l., sono sempre sottoponibili al controllo giudiziario in caso di fondato sospetto di gravi irregolarità nella gestione, ai sensi dell’art. 2545-quinquiesdecies c.c. Diversamente dalle società lucrative, qualsiasi cooperativa è vigilanza dall’autorità governativa (e dall’associazione di rappresentanza cui eventualmente aderisce) ai sensi del d.lgs. 2 agosto 2002, n. 220. Non si vede ragione in base alla quale alle coop-s.r.l. senza collegio sindacale non possa applicarsi la recente semplificazione prevista per le s.r.l., le quali, « possono redigere il bilancio secondo uno schema semplificato » (art. 14, comma 9°, l. 12 novembre 2011, n. 183, disposizione finora rimasta però inattuata). Stante il comma 4-bis dell’art. 6 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, il quale menziona la classe delle società di capitali, potrebbe sostenersi inapplicabile alle cooperative la semplificazione prevista in detta norma, secondo cui l’organismo di vigilanza di cui al d.lgs. n. 231/2001 può corrispondere al collegio sindacale, al consiglio di sorveglianza o al comitato per il controllo sulla 32 gestione. Tuttavia, a favore dell’applicazione della predetta semplificazione anche alle cooperative, si potrebbe addurre l’argomento secondo il quale il legislatore speciale usa non di rado impropriamente il sintagma ‘società di capitali’ per intendere ‘società con personalità giuridica diverse dalle società di mutua assicurazione’, come da ultimo esemplifica la disciplina dell’impresa start-up innovativa (cfr. infatti l’art. 25, comma 2°, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221), certamente valevole anche per le imprese in forma di coops.p.a. e di coop-s.r.l. In qualsiasi forma costituita, una cooperativa (come una società di capitali), se non emette « strumenti finanziari rappresentativi del capitale quotati in mercati regolamentati o in sistemi multilaterali di negoziazione » e se non è una banca o una micro-impresa ai sensi del diritto dell’Unione europea, può utilizzare gli strumenti di finanziamento di cui all’art. 32 d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (conv. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134). III) Alcune opportunità per le PMI cooperative. La cooperativa (costituita anche secondo il modello coop-s.p.a.) – come la s.r.l. e diversamente dalla s.p.a. – può essere la forma societaria prescelta dagli artigiani per esercitare la loro impresa in forma societaria, ai sensi dell’art. 3, comma 2°, l. 8 agosto 1985, n. 443. La cooperativa potrebbe essere la forma societaria ideale per esercitare attività professionali; in effetti, oltre al suo necessario carattere democratico (il quale potrebbe contribuire a salvaguardare l’indipendenza dei professionisti-soci nell’esercizio delle loro prestazioni professionali in nome e per conto della loro società) l’applicazione alle società di professionisti dell’art. 2526 c.c. (dopo aver equiparato statutariamente i soci non professionisti ai soci finanziatori di cui alla predetta disposizione) potrebbe facilitare il rispetto dell’art. 10, comma 4°, lett. b), l. 12 novembre 2011, n. 183, nella parte in cui prescrive che « il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti deve essere tale da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci ». La cooperativa con scopo consortile, visto il suo necessario carattere aperto e democratico, può essere la forma societaria ideale per la collaborazione e il coordinamento tra PMI, come spesso accade nel settore agricolo. ____________________ 5. La rilevanza delle dimensioni di impresa nella legislazione più recente. Alcuni dei provvedimenti legislativi che, nel corso dell’ultimo biennio, ispirandosi ai principi di liberalizzazione, semplificazione e incentivazione all’innovazione raccomandati dall’UE, hanno avuto ad oggetto le imprese, specie in forma societaria, sono caratterizzati dal fatto di dettare regole differenziate in funzione del parametro dimensionale. Tra le novità più significative in questo senso si possono segnalare quelle in materia di s.r.l. con capitale inferiore a 10.000 euro e di imprese start-up innovative. 5.1. S.r.l. con capitale inferiore a 10.000 euro. Certamente riconducibile alla logica delle liberalizzazioni e delle semplificazioni è la possibilità, per la s.r.l., di costituirsi con un capitale inferiore a 10.000 euro, purché almeno pari ad un euro: possibilità che, inizialmente riservata alle persone fisiche infratrentacinquenni con la s.r.l. semplificata di cui al nuovo art. 2463-bis c.c., come introdotto dal d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27, veniva successivamente estesa anche alle persone fisiche che avessero compiuto i trentacinque anni di età con la s.r.l. a capitale ridotto di cui all’art. 44 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134. Una volta soppressa la s.r.l. a capitale ridotto ad opera del d.l. 28 giugno 2013, n. 76, la suddetta possibilità, in sede di conversione di tale decreto nella l. 8 agosto 2013, n. 99, viene estesa 33 a chiunque, anche alle persone giuridiche, attraverso la semplice modifica delle disposizioni sul capitale minimo di cui all’art. 2463 c.c. (comma 4°), e dunque rimanendo all’interno della s.r.l. ordinaria. Viene tuttavia mantenuta la s.r.l. semplificata, la quale, con l’ulteriore beneficio dell’esenzione dagli oneri notarili e dai diritti di bollo e di segreteria, sia pure condizionato all’adozione di uno statuto tipizzato a livello ministeriale, è resa accessibile, sia pure con eliminazione del vincolo anagrafico, alle sole persone fisiche, le quali inoltre, se infratrentacinquenni, potranno fruire di ulteriori agevolazioni creditizie derivanti da appositi accordi fra il ministero dell’economia e delle finanze e l’associazione bancaria italiana. In ogni caso, l’autorizzazione a determinare il capitale sociale in misura inferiore a 10.000 euro trova compensazione in alcuni correttivi posti a tutela dei terzi quali l’obbligo di effettuare i conferimenti in danaro e di versarne l’intero importo in sede di sottoscrizione dell’atto costitutivo (comma 4° dell’art. 2463 c.c.) e soprattutto, da ultimo, la previsione di una riserva legale accelerata e maggiorata rispetto a quella ordinariamente richiesta (comma 5° dell’art. 2463 c.c.). La novità sembra avere incontrato, almeno sulla carta, un certo successo: si scopre infatti ad esempio, scorrendo i dati pubblicati dal Consiglio Nazionale del Notariato sul proprio sito istituzionale, in ottemperanza all’obbligo di cui all’art. 3 d.l. 1/2012, che, al 31 dicembre 2013, risultavano registrate ben 17.663 s.r.l. semplificate, le quali, sommate alle 5049 s.r.l. a capitale ridotto ora riqualificate come semplificate, previa abrogazione della categoria, dai commi 14° e 15° dell’art. 9 d.l. n. 76/2013, convertito in l. n. 99/2013, ammontavano ad un totale di 22.712 unità, avendo come tali un capitale necessariamente inferiore a 10.000 euro e occupando dunque una fascia dimensionale la quale, prima del 2012, anno di entrata in vigore dei provvedimenti in materia di s.r.l. semplificata e di s.r.l. a capitale ridotto, sarebbe stata riservata alle sole società di persone (anche se è dubbio che le suddette imprese siano destinate ad operare stabilmente sul mercato, in quanto si apprende da uno studio recente dell’associazione sindacale dei notai della Lombardia presentato con il titolo Le nuove tipologie di s.r.l. Un bilancio ad un anno dalla loro introduzione: luci ed ombre nella tavola rotonda tenutasi a Milano il 19 luglio 2013, e reperibile sul sito www.assonotailombardia.it – che circa il 60% di esse è inattivo, mentre il 90% è privo di dipendenti e il 45% ha un capitale sociale inferiore a 500 euro). L’assetto normativo appena illustrato, tuttavia, potrebbe presentare, nel merito, qualche elemento di criticità. Il dubbio nasce dalla possibilità che i provvedimenti in parola, risultando tutti finalizzati a realizzare un unico valore, quello dell’efficienza e dello sviluppo produttivo dell’impresa, non abbiano tenuto in sufficiente conto, o abbiano talora completamente trascurato, altri valori. Così, ad esempio, è lecito chiedersi fino a che punto sia conciliabile con la tutela dei creditori la completa evaporazione della funzione garantistica del capitale minimo implicata dalla possibilità di costituire una s.r.l. con capitale di un euro. Attenzione: il nostro Paese arriva buon ultimo, in materia, all’interno di un movimento che coinvolge da tempo i principali Paesi europei e che si è tradotto in essi, prima in Gran Bretagna, poi in Francia, poi in Germania, poi in Belgio, infine in Italia e in Spagna, nella possibilità di dar vita ad una società di capitali di un euro proprio con riferimento ai tipi corrispondenti alla nostra s.r.l. (non per i tipi corrispondenti alla s.p.a. in quanto esiste un vincolo comunitario rappresentato dalla II direttiva CE che impone per tale società un capitale minimo di 25.000 euro): movimento al quale l’Italia non poteva estraniarsi, pena l’emarginazione nella concorrenza con i suddetti Pesi, soprattutto in seguito al consolidarsi della giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, in base alla quale una società costituitasi in uno qualsiasi dei Paesi in parola, dunque anche con capitale di un euro, poteva operare in uno qualsiasi degli altri paesi membri della UE, anche se per ipotesi ostile a riconoscere al proprio interno la corrispondente fattispecie. Com’è noto, tuttavia, la maggior parte degli ordinamenti che consentono la costituzione di una s.r.l. con capitale di un euro prevedono dei meccanismi alternativi per la tutela dei creditori sociali, quali i c.d. solvency tests ( o test di solvibilità), volti ad impedire che alla sottocapitalizzazione della società si accompagni una situazione di oggettiva difficoltà in ordine al soddisfacimento delle pretese creditorie: strumenti che 34 il legislatore italiano, nel disciplinare la s.r.l. nummo uno, ha per lungo tempo ignorato. E’ vero che il medesimo legislatore è corso, sia pure in corner, ai ripari con il d.l. 76/2013, come convertito nella l. 99/2013, il cui art. 15-ter ha inserito nell’art. 2463 c.c. un nuovo comma 5° in base al quale, a somiglianza di quanto avviene nell’ordinamento tedesco, in caso di costituzione di una s.r.l. con capitale inferiore a 10.000 euro, la somma da dedurre dagli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato, per formare la riserva prevista dall’articolo 2430 c.c., deve essere almeno pari a un quinto degli stessi, fino a che la riserva non abbia raggiunto, unitamente al capitale, l’ammontare di diecimila euro: riserva la quale può essere utilizzata solo per imputazione a capitale e per copertura di eventuali perdite e deve essere reintegrata con le stesse modalità di cui sopra se viene diminuita per qualsiasi ragione. E’ però altrettanto vero che si possono esprimere seri dubbi circa la reale efficacia correttiva di tali disposizioni, giacché la riserva legale non solo è per sua natura eventuale (in quanto da formarsi mediante accantonamento di quota degli utili realizzati) ma è inoltre sicuramente nulla nel primo esercizio di attività della società (in quanto da formarsi mediante accantonamento di utili risultanti dal bilancio d’esercizio regolarmente approvato), con la conseguenza che, nelle more dei suddetti accantonamenti, i creditori sociali di una s.r.l. a capitale di un euro - quanto meno quelli non strutturati impossibilitati a ottenere la garanzia fideiussoria dei soci – rischiano di trovarsi comunque senza copertura1. 1 Ecco la versione attuale delle fonti normative riguardanti le s.r.l. con capitale inferiore a 10.000 euro Art. 2463 c.c. (Costituzione) La società può essere costituita con contratto o con atto unilaterale. L'atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico e deve indicare: 1) il cognome e il nome o la denominazione, la data e il luogo di nascita o lo Stato di costituzione, il domicilio o la sede, la cittadinanza di ciascun socio; 2) la denominazione, contenente l'indicazione di società a responsabilità limitata, e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie; 3) l'attività che costituisce l'oggetto sociale; 4) l'ammontare del capitale, non inferiore a diecimila euro, sottoscritto e di quello versato; 5) i conferimenti di ciascun socio e il valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura; 6) la quota di partecipazione di ciascun socio; 7) le norme relative al funzionamento della società, indicando quelle concernenti l'amministrazione, la rappresentanza; 8) le persone cui è affidata l'amministrazione e l’eventuale soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti; 9) l'importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico della società. Si applicano alla società a responsabilità limitata le disposizioni degli articoli 2329, 2330, 2331, 2332 e 2341. L’ammontare del capitale può essere determinato in misura inferiore a euro diecimila, pari almeno a un euro. In tal caso i conferimenti devono farsi in denaro e devono essere versati per intero alle persone cui è affidata l’amministrazione. La somma da dedurre dagli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato, per formare la riserva prevista dall’articolo 2430, deve essere almeno pari a un quinto degli stessi, fino a che la riserva non abbia raggiunto, unitamente al capitale, l’ammontare di diecimila euro. La riserva così formata può essere utilizzata solo per imputazione a capitale e per copertura di eventuali perdite. Essa deve essere reintegrata a norma del presente comma se viene diminuita per qualsiasi ragione. Art. 2463-bis c.c. (Società a responsabilità limitata semplificata). La società a responsabilità limitata semplificata può essere costituita con contratto o atto unilaterale da persone fisiche. L’atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico in conformità al modello standard tipizzato con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro dello sviluppo economico, e deve indicare: 1) il cognome, il nome, la data, il luogo di nascita, il domicilio, la cittadinanza di ciascun socio; 2) la denominazione sociale contenente l’indicazione di società a responsabilità limitata semplificata e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie; 3) l’ammontare del capitale sociale, pari almeno ad 1 euro e inferiore all’importo di 10.000 euro previsto all’articolo 2463, secondo comma, numero 4), sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione. Il conferimento deve farsi in denaro ed essere versato all’organo amministrativo; 4) i requisiti previsti dai numeri 3), 6), 7) e 8) del secondo comma dell’articolo 2463; 5) luogo e data di sottoscrizione; 6) gli amministratori. Le clausole del modello standard tipizzato sono inderogabili La denominazione di società a responsabilità limitata semplificata, l’ammontare del capitale sottoscritto e versato, la sede della società e l’ufficio del registro delle imprese presso cui questa è iscritta devono essere indicati negli atti, nella corrispondenza della società e nello spazio elettronico destinato alla comunicazione collegato con la rete telematica ad accesso pubblico. Salvo quanto previsto dal presente articolo, si applicano alla società a responsabilità limitata semplificata le disposizioni del presente capo in quanto compatibili. Art 3 d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, come convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27. 35 ____________ 5.2. Imprese innovative 5.2.1. Imprese start-up innovative Ispirata alla volontà di incentivare l’innovazione quale fattore propulsivo della crescita è certamente la disciplina delle c.d. imprese start –up innovative, vale a dire di quelle società di capitali che abbiano come oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico e che svolgano la propria attività da non più di quarantotto mesi, operando peraltro in una fascia dimensionale ridotta, come si desume dal requisito di aver fatto registrare, a partire dal secondo anno di attività, un valore della produzione annua non superiore a 5 milioni di euro. A tali imprese il più recente dei provvedimenti del Governo Monti, vale a dire il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito in l. 17 dicembre 2012, n. 221 e modificato, ultimamente, dal d.l. 24 gennaio 2015, a sua volta convertito in l. 24 marzo 2015, n. 33), riserva, oltre ad una serie assai variegata di benefici come alcune agevolazioni fiscali e l’esonero dalle procedure concorsuali ordinarie, una disciplina ampiamente derogatoria rispetto al diritto societario comune, ed in particolare al diritto della s.r.l. ordinaria. Infatti, l’art. 26 del suddetto decreto stabilisce che in una start-up innovativa costituita in forma di s.r.l.: a) l’atto costitutivo può creare categorie di quote fornite di diritti diversi e, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle varie categorie anche in deroga a quanto previsto dall’art. 2468, commi 2° e 3°, c.c.; b) le suddette categorie di quote, in deroga all’art. 2479, comma 5°, c.c. possono non attribuire diritti di voto o attribuire al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione da questi detenuta ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative; c) il divieto di operazioni sulle proprie partecipazioni stabilito dall’art. 2474 c.c. non trova applicazione qualora l’operazione sia compiuta in attuazione di piani di incentivazione che prevedano l’assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori o componenti dell’organo amministrativo, prestatori di opera e servizi anche professionali; d) l’atto costitutivo può altresì prevedere, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, l’emissione di strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nelle decisioni dei soci ai sensi degli articoli 2479 e 2479-bis c.c.; e) in deroga a quanto previsto dall’art. 2468, comma 1°, c.c., le quote di partecipazione in start-up innovative costituite in forma di società a responsabilità limitata 1.(Omissis) 2. Con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro dello sviluppo economico, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, viene tipizzato lo statuto standard della società e sono individuati i criteri di accertamento delle qualità soggettive dei soci. 3. L’atto costitutivo e l’iscrizione nel registro delle imprese sono esenti da diritto di bollo e di segreteria e non sono dovuti onorari notarili. 4. Il Consiglio nazionale del notariato vigila sulla corretta e tempestiva applicazione delle disposizioni del presente articolo da parte dei singoli notai e pubblica ogni anno i relativi dati sul proprio sito istituzionale. Art. 44 D.l. 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), come convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134 (Omissis) 4-bis. Al fine di favorire l'accesso dei giovani imprenditori al credito, il Ministro dell'economia e delle finanze promuove, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, un accordo con l'Associazione bancaria italiana per fornire credito a condizioni agevolate ai giovani di età inferiore a trentacinque anni che intraprendono attività imprenditoriale attraverso la costituzione di una società a responsabilità limitata semplificata. 36 possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, anche attraverso gli appositi portali per la raccolta di capitali2. Si tratta di opportunità che erano finora riservate solo alla s.p.a. e che mettono ora anche la s.r.l. in condizione di contribuire, attraverso la sollecitazione del pubblico risparmio, a creare quel contesto favorevole all’innovazione che, secondo i voti espressi dallo stesso legislatore, rappresenta un imprescindibile fattore propulsivo dello sviluppo. Particolarmente interessante è l’ultima delle ricordate eccezioni: quella contenuta nel comma 5° dell’art. 26, in base al quale, in deroga a quanto previsto dall’art. 2468, comma 1°, c.c., le quote di partecipazione in imprese start-up innovative costituite in forma di s.r.l. possono formare oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari. Per comprendere la ragione di questa deroga, si consideri che una delle più sentite esigenze delle imprese start-up innovative in genere è quella volta a provvedersi del capitale di rischio necessario per fronteggiare le eccezionali alee legate non solo all’oggetto delle attività da esse svolte (settori tecnologicamente avanzati) ma anche, più specificamente, alla fase di avvio di tali attività: esigenza alla quale il legislatore viene incontro, oltre che defiscalizzando in parte i conferimenti da parte di investitori professionali (art. 29), anche e soprattutto, appunto, incentivando la possibilità di ricorrere al mercato per la raccolta del capitale di rischio. Per la verità, tale possibilità già sussisteva (e sussiste) istituzionalmente per la s.p.a., con la conseguenza che un’impresa start-up innovativa ben potrebbe, costituendosi in forma di s.p.a., attingere al mercato del capitale di rischio offrendo al pubblico in sottoscrizione le proprie partecipazioni senza bisogno di alcun intervento eccezionale del legislatore. Poiché, tuttavia, il bisogno di rivolgersi al suddetto mercato è proprio dell’impresa start-up innovativa in quanto tale, indipendentemente dalla forma giuridica rivestita, e poiché la s.p.a richiede un capitale minimo di 50.000 euro, i soci che non fossero in grado di raggiungere tale soglia, e fossero costretti quindi ad adottare la forma della s.r.l., vedrebbero frustrato il suddetto bisogno in quanto, nella s.r.l. ordinaria, in base all’art. 2468, comma 1°, c.c., le partecipazioni non possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari: ed è proprio per ovviare a tale inconveniente - come espressamente afferma la relazione ministeriale al disegno di conversione in legge del d.l. n. 179 – che l’art. 26 del decreto deroga all’art. 2468 c.c. estendendo alla s.r.l. la possibilità di raccogliere il proprio capitale di rischio sul mercato mediante offerta al pubblico delle proprie quote, anche attraverso gli appositi portali telematici. Ora, la possibilità di offrire al pubblico le proprie quote, magari attraverso un’operazione tipica di crowdfunding come quella che si realizza attraverso i suddetti portali telematici e che non è diretta solo a investitori professionali ma anche al pubblico indifferenziato dei risparmiatori, può comportare l’ingresso nella compagine sociale di una s.r.l. start-up innovativa non solo di quei soci imprenditori che sono tipici della s.r.l. e che sono caratterizzati da una forte vocazione partecipativa al governo della medesima e da un’altrettanto forte capacità di autotutela, ma anche di quei soggetti meri risparmiatori che sono estranei alla tipologia della s.r.l. ordinaria in quanto privi della suddetta vocazione partecipativa, e che risulterebbero perciò portatori di un bisogno di eterotutela simile a quello di un azionista. Solo che, mentre, nella s.p.a., questo bisogno di eterotutela del socio estraneo alla gestione viene perseguito attraverso un apparato tendenzialmente imperativo diretto a contrastare comportamenti opportunistici degli amministratori e basato fondamentalmente sulla previsione di stringenti doveri di trasparenza, lealtà e diligenza a carico di questi ultimi (basti pensare a disposizioni come quelle contenute negli artt. 2381 e 2391 c.c.), nulla di simile viene 2 I portali in questione sono ora regolati dal testo unico dell’intermediazione finanziaria (così come modificato, da ultimo, dall’art. 4, comma 10°, d.l. n. 3/2015, convertito in l. n. 33/2015), il quale, dopo aver definito come tali, nel comma 5-novies dell’art. 1, quelle piattaforme online che abbiano“come finalità esclusiva la facilitazione della raccolta di capitale di rischio da parte delle start-up innovative, comprese le start-up a vocazione sociale, delle PMI innovative e degli organismi di investimento collettivo del risparmio o altre società che investono prevalentemente in start-up innovative o in PMI innovative”, affida nell’art. 50-quinquies la gestione dei medesimi portali alle imprese di investimento, alle banche e ad altri soggetti iscritti in un apposito registro tenuto dalla Consob in base ad un regolamento da essa emanato, e detta nell’art. 100-ter, in parte direttamente e in parte attraverso delega alla sunnominata Consob, una disciplina delle offerte al pubblico condotte attraverso uno o più dei predetti portali, anche ai fini di tutelare gli investitori non professionali. 37 previsto dall’art. 26 del decreto con riferimento alla s.r.l. start-up innovativa, anche se quest’ultima potrebbe trovarsi nella stessa situazione di una s.p.a. per aver raccolto, del tutto lecitamente, capitale di rischio fra il pubblico. Di conseguenza, il suddetto bisogno di protezione risulterebbe nella s.r.l. completamente frustrato senza che tale frustrazione trovi alcuna giustificazione razionale nelle particolari esigenze dell’impresa start-up innovativa, giacché, pur essendo tali esigenze presenti anche nella start-up innovativa costituita in forma di s.p.a., scattano tuttavia ugualmente in quest’ultima quei meccanismi protettivi dei soci che sono giustificati dalla tendenziale apertura della compagine sociale, e che dovrebbero quindi trovare applicazione, pena violazione del principio di ragionevolezza, anche alla s.r.l. allorché sia caratterizzata da uguale apertura, quantomeno tendenziale, della propria compagine, com’è appunto la s.r.l. start-up innovativa3. 3 Ecco la versione attuale delle fonti normative riguardanti le imprese start-up innovative D. l. n. 179/2012 (convertito in l. n. 221/2012), come modificato dall’art. 9, comma 16°, d.l. n. 76/2013 (convertito in l. n. 99/2013) e dall’art. 4 d.l. n. 3/2015 (convertito in l. n. 33/2015) Articolo 25 (Start-up innovativa e incubatore certificato: finalità,definizione e pubblicità) 1. Le presenti disposizioni sono dirette a favorire la crescita sostenibile, lo sviluppo tecnologico, la nuova imprenditorialità e l'occupazione, in particolare giovanile, con riguardo alle imprese start-up innovative, come definite al successivo comma 2 e coerentemente con quanto individuato nel Programma nazionale di riforma 2012, pubblicato in allegato al Documento di economia e finanza (DEF) del 2012 e con le raccomandazioni e gli orientamenti formulati dal Consiglio dei Ministri dell'Unione europea. Le disposizioni della presente sezione intendono contestualmente contribuire allo sviluppo di nuova cultura imprenditoriale, alla creazione di un contesto maggiormente favorevole all'innovazione, così come a promuovere maggiore mobilità sociale e ad attrarre in Italia talenti, imprese innovative e capitali dall'estero. 2. Ai fini del presente decreto, l'impresa start-up innovativa, di seguito «start-up innovativa», è la società di capitali, costituita anche in forma cooperativa, le cui azioni o quote rappresentative del capitale sociale non sono quotate su un mercato regolamentato o su un sistema multilaterale di negoziazione, che possiede i seguenti requisiti: a) [abrogata] b) è costituita e svolge attività d'impresa da non più di sessanta mesi; c) è residente in Italia ai sensi dell’articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, o in uno degli Stati membri dell’Unione europea o in Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo, purché abbia una sede produttiva o una filiale in Italia; d) a partire dal secondo anno di attività della start-up innovativa, il totale del valore della produzione annua, così come risultante dall'ultimo bilancio approvato entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio, non è superiore a 5 milioni di euro; e) non distribuisce, e non ha distribuito, utili; f) ha, quale oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico; g) non è stata costituita da una fusione, scissione societaria o a seguito di cessione di azienda o di ramo di azienda; h) possiede almeno uno dei seguenti ulteriori requisiti: 1) le spese in ricerca e sviluppo sono uguali o superiori al 15 per cento del maggiore valore fra costo e valore totale della produzione della start-up innovativa. Dal computo per le spese in ricerca e sviluppo sono escluse le spese per l'acquisto e la locazione di beni immobili. Ai fini di questo provvedimento, in aggiunta a quanto previsto dai princìpi contabili, sono altresì da annoverarsi tra le spese in ricerca e sviluppo: le spese relative allo sviluppo precompetitivo e competitivo, quali sperimentazione, prototipazione e sviluppo del business plan, le spese relative ai servizi di incubazione forniti da incubatori certificati, i costi lordi di personale interno e consulenti esterni impiegati nelle attività di ricerca e sviluppo, inclusi soci ed amministratori, le spese legali per la registrazione e protezione di proprietà intellettuale, termini e licenze d’uso. Le spese risultano dall'ultimo bilancio approvato e sono descritte in nota integrativa. In assenza di bilancio nel primo anno di vita, la loro effettuazione è assunta tramite dichiarazione sottoscritta dal legale rappresentante della start-up innovativa; 2) impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in percentuale uguale o superiore al terzo della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso un'università italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all'estero, ovvero, in percentuale uguale o superiore a due terzi della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di laurea magistrale ai sensi dell’art. 3 del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 22 ottobre 2004, n. 270; 3) sia titolare o depositaria o licenziataria di almeno una privativa industriale relativa a una invezione industriale, biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una nuova varietà vegetale ovvero sia titolare dei diritti relativi ad un programma per elaboratore originario registrato presso il Registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché tali privative siano direttamente afferenti all’oggetto sociale e all’attività di impresa. 3. Le società già costituite alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e in possesso dei requisiti previsti dal comma 2, sono considerate start-up innovative ai fini del presente decreto se depositano presso l’Ufficio del registro delle imprese, di cui all’articolo 2188 del codice civile, una dichiarazione sottoscritta dal rappresentante legale che attesti il possesso dei requisiti previsti dal comma 2. In tal caso, la disciplina di cui alla presente sezione trova applicazione per un periodo di quattro anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, se la start-up innovativa è stata costituita entro i due anni precedenti, di tre anni, se è stata costituita entro i tre anni precedenti, e di due anni, se è stata costituita entro i quattro anni precedenti. 4. Ai fini del presente decreto, sono start-up a vocazione sociale le start-up innovative di cui al comma 2 e 3 che operano in via esclusiva nei settori indicati all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155. 38 5. Ai fini del presente decreto, l’incubatore di start-up innovative certificato, di seguito: «incubatore certificato» è una società di capitali, costituita anche in forma cooperativa, di diritto italiano ovvero una Societas Europaea, residente in Italia ai sensi dell’articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, che offre servizi per sostenere la nascita e lo sviluppo di start-up innovative ed è in possesso dei seguenti requisiti: a) dispone di strutture, anche immobiliari, adeguate ad accogliere start-up innovative, quali spazi riservati per poter installare attrezzature di prova, test, verifica o ricerca; b) dispone di attrezzature adeguate all’attività delle start-up innovative, quali sistemi di accesso in banda ultralarga alla rete internet, sale riunioni, macchinari per test, prove o prototipi; c) è amministrato o diretto da persone di riconosciuta competenza in materia di impresa e innovazione e ha a disposizione una struttura tecnica e di consulenza manageriale permanente; d) ha regolari rapporti di collaborazione con università, centri di ricerca, istituzioni pubbliche e partner finanziari che svolgono attività e progetti collegati a start-up innovative; e) ha adeguata e comprovata esperienza nell’attività di sostegno a start-up innovative, la cui sussistenza è valutata ai sensi del comma 7. (Omissis) 8. Per le start-up innovative di cui ai commi 1 e 2 e per gli incubatori certificati di cui al comma 5, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura istituiscono una apposita sezione speciale del registro delle imprese di cui all’articolo 2188 del codice civile, a cui la start-up innovativa e l’incubatore certificato devono essere iscritti al fine di poter beneficiare della disciplina della presente sezione. 9. Ai fini dell’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese di cui al comma 8, la sussistenza dei requisiti per l’identificazione della start-up innovativa e dell’incubatore certificato di cui rispettivamente al comma 2 e al comma 5 è attestata mediante apposita autocertificazione prodotta dal legale rappresentante e depositata presso l’ufficio del registro delle imprese. (Omissis) 16. Entro 60 giorni dalla perdita dei requisiti di cui ai commi 2 e 5 la start-up innovativa o l’incubatore certificato sono cancellati d’ufficio dalla sezione speciale del registro delle imprese di cui al presente articolo, permanendo l’iscrizione alla sezione ordinaria del registro delle imprese. Ai fini di cui al periodo precedente, alla perdita dei requisiti è equiparato il mancato deposito della dichiarazione di cui al comma 15. Si applica l’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 23 luglio 2004, n. 247. 17. Le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, provvedono alle attività di cui al presente articolo nell’ambito delle dotazioni finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente. Articolo 26 (Deroga al diritto societario e riduzione degli oneri per l’avvio) 1. Nelle start-up innovative il termine entro il quale la perdita deve risultare diminuita a meno di un terzo stabilito dagli articoli 2446, comma secondo, e 2482-bis, comma quarto, del codice civile, è posticipato al secondo esercizio successivo. Nelle startup innovative che si trovino nelle ipotesi previste dagli articoli 2447 o 2482-ter del codice civile l’assemblea convocata senza indugio dagli amministratori, in alternativa all’immediata riduzione del capitale e al contemporaneo aumento del medesimo a una cifra non inferiore al minimo legale, può deliberare di rinviare tali decisioni alla chiusura dell’esercizio successivo. Fino alla chiusura di tale esercizio non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, punto n. 4), e 2545-duodecies del codice civile. Se entro l’esercizio successivo il capitale non risulta reintegrato al di sopra del minimo legale, l’assemblea che approva il bilancio di tale esercizio deve deliberare ai sensi degli articoli 2447 o 2482-ter del codice civile. 2. L’atto costitutivo della start-up innovativa costituita in forma di società a responsabilità limitata può creare categorie di quote fornite di diritti diversi e, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle varie categorie anche in deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, commi secondo e terzo, del codice civile. 3. L’atto costitutivo della società di cui al comma 2, anche in deroga all’articolo 2479, quinto comma, del codice civile, può creare categorie di quote che non attribuiscono diritti di voto o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione da questi detenuta ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. 4. Alle start-up innovative di cui all’articolo 25 comma 2, non si applica la disciplina prevista per le società di cui all’articolo 30 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e all’articolo 2, commi da 36-decies a 36-duodecies del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148. 5. In deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, comma primo, del codice civile, le quote di partecipazione in start-up innovative costituite in forma di società a responsabilità limitata possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, anche attraverso i portali per la raccolta di capitali di cui all’articolo 30 del presente decreto, nei limiti previsti dalle leggi speciali. 6. Nelle start-up innovative costituite in forma di società a responsabilità limitata, il divieto di operazioni sulle proprie partecipazioni stabilito dall’articolo 2474 del codice civile non trova applicazione qualora l’operazione sia compiuta in attuazione di piani di incentivazione che prevedano l’assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori o componenti dell’organo amministrativo, prestatori di opera e servizi anche professionali. 7. L’atto costitutivo delle società di cui all’articolo 25, comma 2, e degli incubatori certificati di cui all’articolo 25 comma 5 può altresì prevedere, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, l’emissione di strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nelle decisioni dei soci ai sensi degli articoli 2479 e 2479-bis del codice civile. 8. La start-up innovativa e l’incubatore certificato dal momento della loro iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese di cui all’articolo 25 comma 8, sono esonerati dal pagamento dell’imposta di bollo e dei diritti di segreteria dovuti per gli adempimenti relativi alle iscrizioni nel registro delle imprese, nonché dal pagamento del diritto annuale dovuto in favore delle camere di commercio. L’esenzione è dipendente dal mantenimento dei requisiti previsti dalla legge per l’acquisizione della qualifica di start-up innovativa e di incubatore certificato e dura comunque non oltre il quinto anno di iscrizione. (Omissis) 39 5.2.2. PMI innovative A distanza di poco più di due anni dalla introduzione nel nostro ordinamento della start-up innovativa, il legislatore interviene di nuovo in materia di innovazione con il d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 (convertito in l. 24 marzo 2015, n. 33), contenente “misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti”, il cui art. 4, estende in parte la disciplina delle start-up innovative ad una fattispecie diversa, quella delle “piccole e medie imprese innovative”. La fattispecie viene così individuata dal primo comma del suddetto art. 4: “Per "piccole e medie imprese innovative", di seguito "PMI innovative", si intendono le PMI, come definite dalla raccomandazione 2003/361/CE4, società di capitali, costituite anche in forma cooperativa, che possiedono i seguenti requisiti: a) la residenza in Italia ai sensi dell’articolo 73 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, o in uno degli Stati membri dell'Unione europea o in Stati aderenti all'accordo sullo spazio economico europeo, purché abbiano una sede produttiva o una filiale in Italia; b) la certificazione dell'ultimo bilancio e dell’eventuale bilancio consolidato redatto da un revisore contabile o da una società di revisione iscritti nel registro dei revisori contabili; c) le loro azioni non sono quotate in un mercato regolamentato; d) l'assenza di iscrizione al registro speciale previsto all'articolo 25, comma 8, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221; e) almeno due dei seguenti requisiti: 1) volume di spesa in ricerca, sviluppo e innovazione in misura uguale o superiore al 3 per cento della maggiore entità fra costo e valore totale della produzione della PMI innovativa. Dal computo per le spese in ricerca, sviluppo e innovazione sono escluse le spese per l'acquisto e pe la locazione di beni immobili; nel computo sono incluse le spese per l’acquisto di tecnologie ad altro contenuto innovativo. Ai fini del presente decreto, in aggiunta a quanto previsto dai principi contabili, sono altresì da annoverarsi tra le spese in ricerca, sviluppo e innovazione: le spese relative allo sviluppo precompetitivo e competitivo, quali sperimentazione, prototipazione e sviluppo del piano industriale; le spese relative ai servizi di incubazione forniti da incubatori certificati come definiti dall’articolo 25, comma 5, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221; i costi lordi di personale interno e consulenti esterni impiegati nelle attività di ricerca, sviluppo e innovazione, inclusi soci ed amministratori; le spese legali per la registrazione e protezione di proprietà intellettuale, termini e licenze d'uso. Le spese risultano dall'ultimo bilancio approvato e sono descritte in nota integrativa; 2) impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in percentuale uguale o superiore al quinto della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso un'università italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all'estero, ovvero, in percentuale uguale o superiore a un terzo della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di laurea magistrale ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca 22 ottobre 2004, n. 270; 3) titolarità, anche quali depositarie o licenziatarie di almeno una privativa industriale, relativa a una invenzione industriale, biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una nuova varietà vegetale ovvero titolarità dei diritti relativi ad un programma per elaboratore 4 In base all’art. 2 dell’allegato I a tale Raccomandazione, la categoria delle PMI (comprensiva delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese) “è costituita da imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di EUR oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di EUR”. 40 originario registrato presso il Registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché tale privativa sia direttamente afferente all'oggetto sociale e all'attività di impresa». Basta mettere a confronto la surriportata nozione legislativa di PMI innovativa con quella di start-up innovativa fornita dall’art. 25 del d.l. 179/2012 per cogliere la notevole differenza che, nonostante la comune ispirazione di fondo rappresentata dal generico favor verso l’innovazione, intercorre fra le due figure. Così, ad esempio, per le PMI innovative: a) non vengono fissati limiti temporali, salvo eccezioni, ai fini dell’applicazione della relativa disciplina, mentre per le start-up innovative si richiede, al medesimo fine, che esse siano costituite e svolgano attività d’impresa da non più di sessanta mesi; b) vengono fissati, sempre ai fini della disciplina speciale ad esse applicabile, limiti dimensionali molto più ampi di quelli previsti per le start-up innovative (basti pensare che il valore della produzione annua di queste ultime, a partire dal secondo anno di attività, non può essere superiore a 5 milioni di euro, mentre le PMI innovative possono permanere in tale categoria, sulla base dei parametri comunitari, non superando i 50 milioni di euro); c) non è richiesta, diversamente dalle start-up innovative, la mancata distribuzione di utili; d) non si circoscrive l’oggetto sociale (neppure quello prevalente) – sempre in difformità da quanto accade per le start-up innovative - alle sole attività di sviluppo, produzione e commercializzazione di beni o servizi ad alto valore tecnologico; e) non si vieta, come avviene invece per le start-up innovative, che esse possano materializzarsi in seguito ad una fusione, ad una scissione o ad una cessione di azienda o ramo d’azienda; f) i requisiti opzionali devono sì essere presenti in misura superiore rispetto alla start-up innovativa (due su tre anziché uno su due) ma, se si eccettua la titolarità di privativa industriale oppure di software registrato, risultano meno stringenti (volume di spesa in ricerca, sviluppo e innovazione pari almeno al 3%, anziché al 15%, della maggiore entità fra costo e valore totale della produzione; team formato per almeno un quinto, anziché un terzo, da dottorandi o ricercatori con almeno tre anni di esperienza, oppure per almeno un terzo, anziché due terzi, da personale in possesso di laurea magistrale); g) occorre la certificazione dell’ultimo bilancio e dell’eventuale bilancio consolidato redatto da un revisore contabile o da una società di revisione iscritti nel registro dei revisori contabili, requisito non richiesto per le start-up innovative. Come si vede, la fattispecie della PMI innovativa, così come viene delineata dal legislatore, presenta confini globalmente assai più ampi rispetto a quella della start-up innovativa, sotto il profilo sia temporale (non viene fissato, salvo eccezioni, alcun limite di durata), sia dimensionale (basta rientrare nei parametri comunitari delle PMI), sia merceologico (non occorre avere come oggetto esclusivo o prevalente attività di sviluppo, produzione e commercializzazione di beni o servizi ad alto valore tecnologico)5. Alla suddetta più ampia fattispecie il legislatore del 2015, nel segno evidente di un sempre più accentuato favor verso il fenomeno dell’innovazione, valutato come imprescindibile volano della concorrenza sia interna che internazionale6, estende in larga misura i benefici previsti a suo tempo per le sole start-up innovative e dunque per sola fase di avvio dell’impresa7. Nel comma 9° dell’art. 4 qui considerato, infatti, la maggior parte delle disposizioni del d.l. 179/2012 contenenti la 5 La differenza è evidenziata dal fatto che l’art. 4 qui considerato, dopo aver individuato al comma 1° l’assenza di iscrizione alla sezione speciale del registro delle imprese dedicata alle start-up innovative come uno dei requisiti essenziali delle PMI innovative, stabilisce al comma 2° che queste ultime devono essere iscriversi presso una diversa sezione speciale del suddetto registro ad esse appositamente destinata. 6 Si legge infatti nella Relazione illustrativa al disegno di conversione in legge del d.l. 3/2015 che, con tale provvedimento, si è inteso ovviare all’inconveniente per cui, pur rappresentando gli investimenti in ricerca e innovazione “l’elemento distintivo delle aziende di successo”, “una quota significativa dell’innovazione realizzata dalle imprese non viene esplicitata, con riflessi negativi sia sulla competitività delle imprese che sulla collocazione dell’Italia nelle graduatorie internazionali per diffusione di innovazione”. 7 L’intenzione di andare oltre la fase di avvio dell’impresa è esplicitata dalla Relazione di cui alla nt. precedente, dove si assegna al nuovo provvedimento la funzione di creare “un circolo virtuoso che spingerebbe le PMI a investire costantemente in innovazione per mantenere nel tempo il requisito di PMI innovativa”. 41 disciplina delle start-up innovative vengono dichiarate applicabili anche alle PMI innovative, sia pure con alcune eccezioni vistose come quelle dell’art. 28 contenente deroghe alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato, e dell’art. 31 in materia, tra l’altro, di esenzione dalle procedure concorsuali ordinarie. Di particolare interesse, ai fini del presente lavoro, è l’estensione alle PMI innovative (fatto salvo l’obbligo del pagamento dei diritti di segreteria dovuti per adempimenti relativi alle iscrizioni nel registro delle imprese nonché del diritto annuale dovuto in favore delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura) dell’intero art. 26 d.l. 179/2012, di quello cioè che, in materia di start-up innovative, deroga al diritto societario comune e precipuamente, come illustrato nei paragrafi precedenti, alle disposizioni sulla s.r.l. ordinaria. In virtù del suddetto richiamo, infatti, anche nella PMI innovativa costituita in forma di s.r.l., esattamente come nella start-up innovativa costituita nella medesima forma): a) il termine entro il quale la perdita deve risultare diminuita a meno di un terzo stabilito dall’art. 2482-bis, comma 4°, c.c., è posticipato al secondo esercizio successivo, mentre, ricorrendo l’ipotesi prevista dall’art. 2482-ter, l’assemblea convocata senza indugio dagli amministratori, in alternativa all’immediata riduzione del capitale e al contemporaneo aumento del medesimo a una cifra non inferiore al minimo legale, può deliberare di rinviare tali decisioni alla chiusura dell’esercizio successivo: chiusura fino alla quale non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, comma 1°, n. 4, c.c.; b) l’atto costitutivo può creare categorie di quote fornite di diritti diversi e, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle varie categorie anche in deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, commi 2° e 3°, c.c.; c) l’atto costitutivo, anche in deroga all’articolo 2479, comma 5°, c.c., può creare categorie di quote che non attribuiscono diritti di voto o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione da questi detenuta ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative; d) in deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, comma 1°, c.c., le quote di partecipazione possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, anche attraverso appositi portali telematici per la raccolta di capitali8, nei limiti previsti dalle leggi speciali; e) il divieto di operazioni sulle proprie partecipazioni stabilito dall’articolo 2474 c.c. non trova applicazione qualora l’operazione sia compiuta in attuazione di piani di incentivazione che prevedano l’assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori o componenti dell’organo amministrativo, prestatori di opera e servizi anche professionali; f) l’atto costitutivo può altresì prevedere, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, l’emissione di strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nelle decisioni dei soci ai sensi degli articoli 2479 e 2479-bis c.c. Come si vede, con il d.l. 3/2015 l’alterazione del tipo s.r.l. attraverso la sua contaminazione con elementi caratteristici della s.p.a. va ben oltre l’originale portata, che era quella delle start-up innovative, per estendersi al più vasto ambito delle PMI innovative, non più legate alla mera fase di avvio dell’impresa. Valgono pertanto – e a fortiori direi, attese le maggiori dimensioni del fenomeno - le riserve a suo tempo espresse con riferimento alle prime (anche in termini di costituzionalità) circa i possibili inconvenienti derivanti dal fatto che, una volta recepite le tecniche sollecitatorie proprie della s.p.a., la s.r.l. possa raggiungere il pubblico dei risparmiatori pur senza le garanzie, in termini di capitalizzazione e di controlli, che sono tipici, appunto, della s.p.a. 8 Si tratta dei meccanismi già descritti nel paragrafo precedente. 42 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 1) ALLECA G. 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