diritto delle piccole e medie imprese

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diritto delle piccole e medie imprese
CORSO DI
DIRITTO DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
Del corso si forniscono on line:
a) una esposizione sintetica della materia che sarà approfondita in classe;
b) una bibliografia essenziale.
c) i documenti citati in grassetto nell’esposizione
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ESPOSIZIONE SINTETICA DELLA MATERIA
SOMMARIO
1. Oggetto del corso - 2. La rilevanza giuridica della piccola e media impresa
nell’ordinamento comunitario - 2.1. Il favore del TFUE (Trattato sul
Funzionamento dell’Unione Europea) verso la piccola e media impresa - 2.2 Gli
interventi dell’Unione Europea a sostegno delle PMI - 2.2.1. Le linee di fondo - 2.2.2.
Le esenzioni dai divieti di aiuti di Stato e la nozione comunitaria di PMI - 2.2.3. I
provvedimenti di semplificazione - 3. La rilevanza giuridica della piccola e media
impresa nell’ordinamento italiano - 3.1. Considerazioni preliminari - 3.2. Gli
interventi basati sulla classificazione europea - 3.3. Il codice civile e il piccolo
imprenditore - 3.3.1. L’imprenditore e la sua tipologia - 3.3.2. Il piccolo
imprenditore: disciplina e fattispecie - 4. Le forme giuridiche della piccola e media
impresa – 4.1. Premessa – 4.2. L’impresa individuale - 4.3. Le società di persone 4.4. Le società di capitali in generale – 4.5. La società per azioni – 4.6. La società a
responsabilità limitata - 4.6.1. I profili patrimoniali della s.r.l. – 4.6.2. I profili
organizzativi della s.r.l. – 4.6.3. I diversi regimi giuridici della s.r.l. - 4.7. La società
cooperativa - 5. La rilevanza delle dimensioni di impresa nella legislazione più
recente – 5.1. S.r.l. con capitale inferiore a 10.000 euro – 5.2. Le imprese innovative
– 5.2.1. Le imprese start-up innovative – 5.2.2. Le PMI innovative.
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1. Oggetto del corso
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Durante la vostra frequenza presso il Dipartimento di giurisprudenza avrete avuto occasione
di constatare come molti corsi giuridici trattino il fenomeno dell’“impresa”, alcuni in via esclusiva,
altri in via incidentale.
Tra i primi basti ricordare quelli di diritto commerciale (pensate alla disciplina delle
società, le quali sono tipicamente imprese collettive); di diritto del lavoro (il contratto di lavoro
subordinato è costruito dal legislatore come un contratto in cui una delle parti, il datore di lavoro, è
un imprenditore); di diritto industriale (che si occupa di ditta, vale a dire del nome dell’impresa; di
marchio, vale a dire del nome di un prodotto di impresa, di concorrenza e di consorzi, vale a dire di
rapporti fra imprenditori); di diritto fallimentare (soggetto alle procedure concorsuali è come noto
in Italia solo l’imprenditore); di diritto bancario (giacché le banche sono necessariamente imprese).
Tra i secondi, quelli cioè che si occupano anche di impresa ma all’interno di contesti più
generali, si può fare l’esempio dei corsi di diritto costituzionale (atteso che nel testo della
costituzione italiana parecchi articoli contenuti nel titolo III della parte prima – basti pensare all’art.
41 - riguardano specificamente l’impresa); di diritto penale (dove vengono studiati reati che
presuppongono l’esistenza di un’impresa, come quelli societari o fallimentari); di diritto tributario
(considerato che il reddito d’impresa, contrapposto ai redditi fondiari, di capitale, di lavoro
dipendente e autonomo, costituisce uno dei più importanti oggetti di imposizione); di diritto
processuale civile (atteso che, sulla base dell’art. 2 d.l. 24.01.2012, n. 1, come convertito in l. 24
marzo 2012, n. 27, viene istituito un tribunale delle imprese con competenze su tutte le controversie
in materia di società di capitali e di cooperative); di diritto civile (tenuto conto che alcuni istituti
privatistici, apparentemente destinati alla generalità dei soggetti giuridici, risultano in realtà pensati
con riferimento all’impresa: si pensi a contratti come quelli di appalto (art. 1655 c.c.) o di trasporto
(art. 1678 c.c.), dove l’appaltatore o il vettore sono quasi necessariamente imprenditori, o al
contratto di mutuo (art. 1813 c.c.), dove il mutuante è assai spesso un imprenditore, banca o società
finanziaria); lo stesso si può dire di un altro corso di carattere generale, anche se riferito ad un
ordinamento diverso dal nostro, come quello di diritto comunitario (basti pensare alle norme
antitrust del Trattato sul funzionamento dell’UE o alle direttive UE in materia societaria)..
Vi sarete anche accorti, seguendo i predetti corsi, che le diverse branche dell’ordinamento
dedicati specificamente all’impresa a volte disciplinano indistintamente tutte le imprese mentre a
volte prendono in considerazioni singoli tipi di impresa: così avviene per le imprese agricole, per
quelle commerciali, per quelle bancarie, per quelle di assicurazione, per quelle pubbliche, per quelle
quotate, e così via, ciascuna delle quali è oggetto di una disciplina speciale in quanto differenziata
rispetto a quella generale.
Si tratta ora di vedere se è dato riscontrare nell’ordinamento una differenza di
trattamento fra imprese fondata sulle dimensioni di queste ultime: se esiste, in altre parole, un
diritto speciale delle Piccole e medie imprese (d’ora in avanti PMI). Sarà questo l’oggetto del
nostro corso.
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2. La rilevanza giuridica della piccola e media impresa
nell’ordinamento comunitario
2.1. Il favore del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea)
verso la piccola e media impresa
Incominciamo dall’ordinamento comunitario, il quale, nascendo dai Trattati che segnano
l’appartenenza dell’Italia alla UE, è dotato di supremazia sul diritto nazionale non solo di rango
ordinario (in base all’art. 117, comma 1°, Cost, secondo cui la potestà legislativa dello Stato e delle
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regioni si esercita nel rispetto fra l’altro, appunto, dei vincoli “derivanti dall’ordinamento
comunitario”), ma anche di rango costituzionale (come riconosce la nostra stessa Corte
costituzionale fino dalla sentenza n. 170 del 1984, sulla base dell’art. 11 Cost.).
Il fenomeno delle piccole e medie imprese è da sempre conosciuto in Europa: risulta
infatti da un documento recente che le PMI sono pari al 99,8% delle imprese appartenenti alla
UE, occupano il 66,9% del totale degli addetti e realizzano un valore aggiunto pari al 58,1% del
totale. (v. doc. n. 1 bis, p. 2).
L’attenzione dell’ordinamento comunitario a tale realtà si manifesta già a livello di
normativa primaria, vale a dire nello stesso Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea o
TFUE (cioè nel cd. Trattato di Lisbona, che sostituisce dal 2008 il Trattato CE, sostitutivo a sua
volta del Trattato CEE in vigore dal 1958). In base infatti all’art. 173, comma 1°, TFUE , l’azione
dell’Unione e degli Stati membri di questa è intesa, tra l’altro, “a promuovere un ambiente
favorevole allo sviluppo delle imprese di tutta l’Unione, segnatamente delle piccole e medie
imprese”.
Ma come si giustifica un atteggiamento di favore dell’ordinamento verso le PMI? La
giustificazione sta nell’esigenza di superare due squilibri strutturali che esse registrano rispetto alle
grandi e che, anche in presenza di un assetto organizzativo ottimale, rappresentano un ostacolo
specifico al loro sviluppo. Il primo squilibrio è di natura finanziaria e consiste nella loro maggior
difficoltà di accesso al mercato dei capitali di rischio e di credito a causa soprattutto delle garanzie
limitate che esse possono offrire. Il secondo squilibrio è di natura amministrativa e normativa e
consiste nel fatto che, essendo fisso per tutte le imprese il costo di adeguamento agli obblighi di
legge a queste imposto, può succedere – come è stato calcolato (v. doc. n. 2, p. 8) – che una PMI
giunga a spendere in funzione di tale adeguamento fino a 10 euro per dipendente, contro un solo
euro speso da una grande impresa.
2.2 Gli interventi dell’Unione Europea a sostegno delle PMI.
2.2.1. Le linee di fondo.
A livello generale, l’intervento dell’Unione si è ultimamente espresso nella Comunicazione
della Commissione Europea n. 394 del 2008 la quale, pur priva di valore vincolante, disegna il
quadro fondamentale di una “corsia preferenziale per la piccola impresa” (uno Small Business Act
per l’Europa) in 10 punti: un programma cioè di interventi il cui scopo fondamentale è quello di
eliminare i deficit, in termini di accesso al credito, informazione e oneri burocratici, che intralciano
le PMI in misura più che proporzionale rispetto alle grandi e, più in generale, di indurre il
legislatore sia comunitario che nazionale a “pensare anzitutto in piccolo”, vale a dire a tener conto
delle caratteristiche delle PMI quando dettano nuove norme o modificano il contesto normativo
esistente (v. doc. n. 2).
2.2.2. Le esenzioni dai divieti di aiuti di Stato e la nozione comunitaria di PMI
Uno dei possibili interventi evocati dai 10 punti dello Small Business Act - quello che si
esprime attraverso gli aiuti pubblici di cui al punto V, vale a dire attraverso il trasferimento di
risorse a favore delle PMI da parte dell’Unione o degli Stati membri, o mediante il finanziamento
diretto delle medesime o mediante garanzia prestata alle banche finanziatrici - sembrerebbe di
primo acchito in contrasto con altra norma del Trattato FUE, vale a dire l’art. 107, comma 1°, il
quale dichiara incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra
Stati membri, gli “aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma,
che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare, la concorrenza”:
un aiuto pubblico alle PMI, infatti, rischia di falsare la concorrenza delle medesime con quelle
escluse da tale aiuto, vale a dire con le grandi.
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Una scappatoia viene tuttavia fornita dallo stesso art. 107 laddove stabilisce che possono
considerarsi compatibili con il mercato comune, oltre ad alcuni aiuti con destinazione particolare,
anche altre non meglio identificate “categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su
proposta della Commissione” (comma 3°, lett. e).
Ebbene, il Consiglio, con Regolamento n. 994 del 1998 (v. doc. n. 3), delega la
Commissione a dichiarare, mediante regolamento, compatibili con il mercato comune, precisandone
finalità, destinatari, limiti e presupposti, alcune categorie di aiuti, fra cui quelli diretti “a favore
delle piccole e medie imprese” (art. 1, comma 1°, lett. a e i). Sulla base di tale autorizzazione, a sua
volta, la Commissione, da ultimo con Regolamento n. 800 del 2008 (v. doc. n. 4), ha dichiarato
compatibili con il mercato comune, a patto di non superare determinate soglie, alcuni tipi di aiuti di
stato a favore di PMI come quelli per la nuova costituzione (art. 14) o per gli investimenti e
l’occupazione (art. 15), o per l’imprenditoria femminile (art. 16) o per servizi di consulenza e la
partecipazione a fiere (artt. 26 e 27).
Dei suddetti tipi di aiuto hanno fatto largo uso sia i vari Stati nazionali che le stesse
Istituzioni finanziarie europee come la Banca europea degli investimenti (BEI) o il Fondo europeo
per gli investimenti (FEI).
A questo punto, poiché qualsiasi disciplina presuppone una fattispecie e poiché la disciplina
speciale di cui sopra si applica alle PMI, occorreva fornire una “nozione” di PMI (e, anzi, una
nozione il più possibile specifica, onde evitare che ogni concessione di aiuti ad un’impresa perché
medio-piccola facesse sorgere infinite controversie sulla sua effettiva appartenenza a tale categoria).
In altre parole, che cosa si intende nell’ordinamento comunitario, ai fini della disciplina di favore in
esso contemplata, per PMI? A tale domanda risponde lo stesso ordinamento comunitario,
fondamentalmente, da ultimo, attraverso la Raccomandazione della Commissione n. 361 del 2003
(rivolta agli Stati membri , alla Banca europea per gli investimenti, o BEI, e al Fondo europeo per
gli investimenti, o FEI) con la quale si raccomanda ai predetti soggetti di attenersi, per tutti i loro
programmi destinati alle microimprese, alle imprese medie e alle piccole imprese, alle definizioni
contenute nel titolo I dell’allegato (v. doc. n. 5). Ma poiché le semplici raccomandazioni, ai sensi
dell’art. 288 TFUE, non hanno carattere vincolante, ad attribuire tale carattere alle definizioni di cui
al documento del 2003 è intervenuto un apposito Regolamento delegato della Commissione (il già
citato n. 800/2008 che dichiara alcune categorie di aiuti di Stato compatibili con il mercato
comune), il quale ha recepito per intero, nel proprio allegato I, sia pure ai fini esclusivi dei suddetti
aiuti, le definizioni di cui sopra (doc. n. 4).
Il predetto allegato I, dopo avere definito nell’art. 1 come impresa “ogni entità,
indipendentemente dalla forma giuridica rivestita, che eserciti un’attività economica”, si occupa
nell’art. 2 di PMI utilizzando per la loro definizione i parametri rappresentati dal numero degli
effettivi e da alcune soglie finanziarie. In particolare, si stabilisce che alla categoria delle PMI
appartengono le imprese che occupino meno di 250 persone e che realizzino un fatturato annuo non
superiore ai 50 milioni di euro e/o un totale di bilancio annuo non superiore ai 43 milioni di euro.
All’interno di tale categoria vengono definite come Piccole imprese quelle che occupino meno di
50 persone e realizzino un fatturato annuo o un totale di bilancio annuo non superiori a 10 milioni di
euro, mentre vengono definite come Microimprese quelle che occupino meno di 10 persone e
realizzino un fatturato annuo e/o un totale di bilancio annuo non superiori a 2 milioni di euro. Per
calcolare i suddetti parametri si guarda esclusivamente ai dati della singola impresa, se questa è
autonoma; qualora si tratti di impresa associata (in quanto detiene il 25% del capitale o diritti di
voto di un’altra impresa oppure è partecipata nella stessa misura da quest’ultima), ai dati della
prima si sommano anche i dati della seconda ma solo nella misura della percentuale di
partecipazione (così, ad es., se un’impresa che ha 8 dipendenti, e che sarebbe come tale
microimpresa, partecipa per il 50% al capitale di un’altra impresa pure essa fornita di 8 dipendenti,
esce dall’ambito delle microimprese perché ai suoi 8 dipendenti si aggiunge il 50% di quelli
dell’impresa partecipata, vale a dire altri 4); qualora si tratti di impresa collegata (in quanto
controllante di un’altra impresa oppure da essa controllata), ai dati della prima si sommano
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interamente anche i dati della seconda (così, ad es., un’impresa che ha 4 dipendenti e che controlla
un’altra impresa di 8 dipendenti esce dall’ambito della microimpresa perché ai suoi 4 dipendenti si
sommano interamente gli 8 dell’altra).
Sulla base dei suddetti parametri, la distribuzione percentuale delle PMI in Europa è stata
quantificata come segue in una elaborazione recente (v. doc. n. 1 bis, p. 2):
Totale imprese
100%
PMI
99,8%
Microimprese
92,4%
Piccole imprese
6,4%
Medie imprese
1,0%
Grandi imprese
0,2%
Come viene osservato nella succitata elaborazione, la quasi totalità delle PMI europee è
costituita da microimprese, vale a dire da imprese con meno di 10 addetti ciascuna
2.2.3. I provvedimenti di semplificazione.
Dei criteri basati sul numero degli effettivi e sull’ammontare di determinate soglie
finanziarie il diritto comunitario ha fatto uso non solo con riferimento agli aiuti di Stato, ma, sia
pure declinandoli in termini parzialmente diversi rispetto a quelli descritti al paragrafo precedente,
anche ad altri fini, come quello di semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese.
Così, ad es., nell’ambito dell’azione di armonizzazione delle normative nazionali in materia
societaria perseguita ai sensi dell’art. 50, lett. g, TFUE, la quarta direttiva CEE n. 660 del 1978, e
successive modificazioni (doc. n. 6), relativa ai conti annuali di alcuni tipi di società, dopo aver
sottolineato in sede di “considerando” l’opportunità che la rigorosa disciplina di tali conti possa
subire deroghe a favore di società di piccole e medie dimensioni, consente agli Stati membri:
a) in presenza di società anche di medie dimensioni che non superino due dei tre limiti
numerici pure ivi indicati (totale dello stato patrimoniale pari a 17.500.000 euro; importo netto del
volume d’affari pari a 35.000.000 euro; numero dei dipendenti occupati in media durante l’esercizio
pari a 250), di autorizzare tali società a derogare parzialmente allo schema del conto profitti e
perdite attraverso il raggruppamento di alcune voci al suo interno, ad omettere alcune indicazioni
nella nota integrativa e nella relazione sulla gestione e a pubblicare uno stato patrimoniale e un
allegato in forma abbreviata (artt. 27; 45; 46, comma 4°; 47, comma 3°);
b) in presenza di società di piccole dimensioni che non superino due dei tre limiti numerici
ivi indicati (totale dello stato patrimoniale pari a 4.400.000 euro; importo netto del volume di affari
pari a 8.800.000 euro; numero dei dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 50), di
autorizzare tali società a redigere uno stato patrimoniale e un allegato in forma abbreviata nonché
ad omettere la relazione sulla gestione e la pubblicazione del conto profitti e perdite (artt. 11, 44,
46, comma 3°; 47, comma 2°), e di esonerarle dall’obbligo di sottoporsi alla revisione legale dei
conti (art. 51).
A ciò si aggiunga che la quarta direttiva CEE è stata abrogata dalla recente direttiva
2013/34/UE (al cui recepimento in Italia il Governo è già stato impegnato dalla legge di
delegazione europea 7 ottobre 2014, n. 154), la quale, avendo sottolineato in sede di “considerando”
l’importanza, onde stimolare l’economia europea, di ridurre gli oneri amministrativi delle imprese,
soprattutto di quelle che hanno risorse limitate per rispettare gli stringenti obblighi di legge, e
avendo individuato nella contabilità uno dei settori chiave in cui operare tale riduzione, mantiene sì
le esenzioni già previste per le piccole e le medie imprese ma consente altresì agli Stati membri di
esonerare da ulteriori obblighi, anche pubblicitari, in materia di bilanci, le microimprese, vale a dire
le società destinatarie della direttiva le quali non superino due dei criteri seguenti: totale dello stato
patrimoniale pari a 350.000 euro; importo netto del volume di affari pari a 700.000 euro; numero
dei dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 10.
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3. La rilevanza giuridica della piccola e media impresa
nell’ordinamento italiano.
3.1. Considerazioni preliminari.
Occorre premettere che anche in Italia il fenomeno delle PMI è assai diffuso, e anzi in
termini ancora più accentuati rispetto al resto dell’Europa, in quanto - come si può desumere da un
già citato documento UE (doc. n. 1 bis, p. 2) – le PMI italiane, che rappresentano il 99,9% del
totale delle imprese, pressoché come nella media europea (99,8%), hanno tuttavia il 79,6% del
numero globale di occupati, contro il 66,9% della media europea, e concorrono alla formazione del
valore aggiunto nazionale nella misura del 69,5%, contro una media europea del 58,1%.
Se poi applichiamo la già ricordata classificazione europea che distingue le PMI in
Microimprese, Piccole imprese e Medie imprese, risulta dal citato doc. n. 1 bis che le PMI italiane
si collocano per la stragrande maggioranza nella categoria addirittura delle microimprese, vale a
dire al livello più basso della scala dimensionale, e in misura ancora più accentuata che nel resto
dell’Europa.
Europa
Totale imprese
PMI
Microimprese
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
100%
99,8%
92,4%
6,4%
1,0%
0,2%
Italia
100%
99,9%
94,8%
4,6%
0,5%
0,1%
E’ dunque ragionevole pensare che il legislatore italiano, esattamente come quello europeo,
si occupi delle PMI al fine di eliminarne i fattori di squilibrio rispetto alle grandi, rappresentati
fondamentalmente dalle maggiori difficoltà di accesso ai finanziamenti e dal maggior gravame
sopportato per i costi fissi derivanti dai vari adempimenti burocratici.
C’è da chiedersi, preliminarmente, fino a che punto, una legislazione di favore per le PMI
sia compatibile con il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge stabilito dall’art.
3, comma 1°, Cost. Di primo acchito verrebbe da rispondere negativamente, giacché piccole, medie
e grandi imprese pur sempre imprese sono e in quanto tali dovrebbero essere trattate tutte in modo
uguale. Se non che è giurisprudenza costante della nostra Corte costituzionale che l’uguaglianza
deve essere considerata non già in astratto ma in base al cd. principio di ragionevolezza, vale a dire
valutando se, in presenza di due fattispecie A e B apparentemente analoghe, il trattamento diverso
di B rispetto ad A risulti giustificabile o in relazione alla ratio della disciplina di A oppure alla luce
di altri principi costituzionalmente garantiti: così, ad esempio, può darsi che la legislazione di
favore verso alcune imprese minori debba ritenersi non in contrasto con l’art. 3 Cost. perché
razionalmente fondata su altri principi costituzionali, come quello dell’art. 45, comma 2°, laddove si
dispone che la legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato, o come quello dell’art. 47,
comma 2°, dove si impone allo stesso legislatore di favorire l’accesso del risparmio popolare alla
proprietà diretta coltivatrice (artigiano e coltivatore diretto del fondo, infatti, sono entrambe – ai
sensi, come vedremo, dell’art. 2083 c.c. - figure di piccoli imprenditori). Si consideri inoltre che un
trattamento di favore per le imprese minori potrebbe risultare giustificato – come è stato
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puntualmente sostenuto - in base al principio di uguaglianza sostanziale contenuto nel comma 2°
del medesimo articolo 3, laddove si stabilisce che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli
di ordine economico e sociale che limitano di fatto l’eguaglianza formale prevista nel comma 1°:
tali ostacoli potrebbero infatti ritenersi rappresentati, nel caso delle PMI, dalle maggiori difficoltà di
accesso al credito e dalle maggiori difficoltà di sostenere costi di ricerca e commercializzazione,
vale a dire da quelle situazioni di squilibrio legate non già alla capacità produttiva ma al gioco delle
economie di scala che ne minano le capacità concorrenziali con le grandi e che il legislatore
ordinario è quindi autorizzato a rimuovere mediante, ad esempio, aiuti di Stato.
In che cosa consiste, dunque, la disciplina italiana delle PMI?
3.2. Gli interventi basati sulla classificazione europea.
A) A livello generale, l’attenzione del legislatore italiano verso le PMI si è espressa da
ultimo attraverso la l. 12 novembre 2011, n. 180, contenente il c.d. Statuto delle imprese (doc. n. 7),
il quale costituisce dichiaratamente attuazione dello Small Business Act europeo del 2008 e prevede
addirittura l’emanazione di una legge annuale per le micro, le piccole e le medie imprese,
contenente norme volte a favorire e promuovere queste ultime, a rimuovere gli ostacoli che ne
impediscono lo sviluppo, a ridurre gli oneri burocratici e introdurre misure di semplificazione
amministrativa, ecc. (per le definizioni di micro, di piccole e di medie imprese, l’art. 5 rinvia alle
già illustrate definizioni contenute nella raccomandazione CE n. 361/2003 di cui al doc. n. 5).
B) Aiuti di Stato alle PMI. Da tempo – com’è noto - sia lo Stato italiano che le Regioni
dispongono interventi a favore delle attività produttive sotto le più diverse forme, che vanno dai
bonus fiscali alle concessioni di garanzia, ai contributi in conto capitale o in conto interesse, ai
finanziamenti agevolati. Ebbene, molti di questi interventi sono destinati specificamente alle PMI.
(v., ad esempio, l’istituzione di un Fondo di garanzia per le suddette PMI ad opera della l. 23
dicembre 1996, n. 662, e la specificazione delle condizioni di ammissibilità al medesimo Fondo ad
opera del D.M. 23 dicembre 2005). La molteplicità e soprattutto l’eterogeneità di tali interventi
sono tali da aver indotto il legislatore a disporne una razionalizzazione con riferimento vuoi alle
tipologie che alle procedure attraverso il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 123 (doc. n. 8), i cui principi
vengono dall’art. 1 del medesimo elevati al rango di principi generali dell’ordinamento dello Stato,
con la conseguenza che anche le regioni a statuto ordinario, nell’ambito della loro potestà
legislativa concorrente come in questa materia, vi si devono uniformare ai sensi dell’art. 117,
comma 3°, Cost. Poiché, comunque, l’Italia, quale membro della UE, è soggetta ai vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario, e poiché uno di tali vincoli è rappresentato dalla normativa dei già
citati art. 107 ss. riguardante proprio gli aiuti di Stato alle imprese, l’art. 2 del decreto n. 123 non
solo sancisce la necessità che gli interventi di cui sopra, tra i quali quelli a favore delle PMI, siano
disposti in conformità alla normativa dell’Unione europea, ma stabilisce in particolare che la
definizione di piccola e media impresa sia aggiornata con decreto ministeriale in conformità con le
disposizioni della suddetta Unione europea. A quest’ultima bisogna l’esecutivo ha provveduto
tramite il già ricordato Decreto del Ministro delle attività produttive 18 aprile 2005 (doc. n. 9), il
quale ha interamente recepito, con i necessari chiarimenti, la definizione già esaminata poc’anzi
contenuta nella Raccomandazione CE 361/2003.
Come esempio di tale impostazione vale la pena di ricordare il recente d.l. 21 giugno 2013,
n. 69 (convertito in l. 9 agosto 2013, n. 98), il cui art. 2, nel prevedere un contributo del Ministero
dello sviluppo economico ai fini dell’accesso a finanziamenti a tasso agevolato per l’acquisto di
nuovi macchinari, impianti e attrezzature da parte di micro, piccole e medie imprese, rinvia per
l’individuazione di tali imprese alla Raccomandazione 2003/361/CE.
C) Altri interventi. Un esempio di applicazione delle definizioni comunitarie possono
considerarsi alcune modifiche introdotte nel d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo)
dall’art. 7 d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito in l. 24 marzo 2012 , n. 27), dove la tutela contro le
pratiche commerciali scorrette nei rapporti tra professionisti e consumatori viene estesa ai rapporti
tra professionisti e microimprese (art. 19, comma 1°), le quali vengono definite (art. 18, comma 1°,
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lett. d-bis) come quelle “entita`, societa` o associazioni che, a prescindere dalla forma giuridica,
esercitano un’attivita` economica, anche a titolo individuale o familiare, occupando meno di dieci
persone e realizzando un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a due
milioni di euro, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 3, dell’allegato alla raccomandazione n.
2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003".
Un ulteriore esempio è rappresentato dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, come convertito in l. 7
agosto 2012, n. 134, il cui art. 32, sotto l’intitolazione “Strumenti di finanziamento per le imprese”,
consente bensì alle società di capitali, tra l’altro, di emettere cambiali finanziarie, ma con una serie
di limitazioni che vengono calibrate in ragione delle dimensioni economiche della società emittente,
avendo quali propri estremi, da un lato, un divieto assoluto dell’emissione a carico delle microimprese (come definite, ancora una volta, dalla ricordata raccomandazione 2003/361/CE), e, dal lato
opposto, i pochi requisiti per l’emissione previsti per le grandi imprese (sempre come definite –
indirettamente - dalla ricordata raccomandazione CE, vale a dire di quelle che occupino almeno 250
persone e/o che realizzino un fatturato annuo superiore a 50 milioni di euro e/o un totale di bilancio
annuo superiore a 43 milioni di euro), mentre un numero più rilevanti di requisiti viene richiesto per
le imprese che stanno nel mezzo fra questi due estremi, vale a dire per le piccole imprese e le medie
imprese.
Un ultimo esempio è costituito dal recentissimo d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, contenente
misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti, il cui art. 4 prevede una serie di
agevolazioni di tipo civilistico e fiscale a favore delle c.d. "PMI innovative", intendendosi per tali
le PMI, “come definite dalla raccomandazione 2003/361/CE”, che possiedono, tra gli altri,
almeno due tra i seguenti tre requisiti:1) effettuare spese per ricerca e sviluppo almeno pari al 3 per
cento della maggiore entità fra costo e valore totale della produzione; 2) impiegare personale
altamente qualificato in misura almeno pari a un quinto della forza lavoro complessiva; 3) essere
detentrici, licenziatarie o depositarie di un brevetto o di un software registrato presso la Società
italiana degli autori ed editori (SIAE).
3.3. Il codice civile e il piccolo imprenditore.
3.3.1. L’imprenditore e la sua tipologia.
Con l’entrata in vigore del codice civile italiano (1942), il fenomeno dell’impresa diventa
oggetto di un’attenzione diversa rispetto al passato da parte del legislatore.
A) Ciò avviene in primo luogo sotto il profilo delle fonti: fino a quella data, infatti,
l’impresa trovava regolamentazione in un apposito codice distinto da quello civile (vale a dire nel
codice di commercio del 1882, il cui art. 1 stabiliva che in materia di commercio si osservano le
leggi commerciali, in mancanza gli usi mercantili, e solo in mancanza di questi ultimi il codice
civile, creando così per la suddetta materia un sistema di fonti diverso da quello riguardante tutti gli
altri rapporti interprivati, che vedevano nel codice civile la fonte primaria della propria disciplina);
con l’unificazione, invece, dei due codici storici di diritto privato in un unico codice, quello civile,
appunto, del 1942, l’impresa viene inserita in un unico sistema e assoggettata in linea di principio
allo stesso sistema di fonti che riguarda qualsiasi altro fenomeno, quello stabilito dall’art. 1 per cui
prima vengono le leggi, poi i regolamenti e solo in ultima istanza gli usi.
B) L’altra novità del codice civile del 1942 è di sostanza e si esprime nella considerazione
dell’impresa come fenomeno tendenzialmente unitario, indipendentemente dal tipo di attività
esercitata, mentre, fino ad allora, l’attenzione del legislatore era riservata alla sola impresa
commerciale. A tale scopo il nuovo codice civile, soprattutto nel libro V ma anche in altri libri del
medesimo, detta una disciplina che è indiscriminatamente riferita ad ogni imprenditore
individuale o collettivo (v. ad esempio, nel libro V del lavoro, gli artt. 2096 ss. sul rapporto di
lavoro, 2247 ss. sulle società, 2555 ss. sull’azienda, 2595 ss. sulla concorrenza e sui consorzi; nel
libro IV delle obbligazioni, gli artt. 1330 e 1367 sui contratti in generale, 1722 e 1824 su singoli
8
contratti; ecc). Non solo, ma poiché in diritto ogni disciplina presuppone una fattispecie a cui
applicarsi, e poiché, in questo caso, la disciplina si applica all’imprenditore, il codice si preoccupa
anche di spiegarci che cosa debba intendersi per “imprenditore”, fornendone, all’art. 2082, una
nozione. La nozione giustifica la disciplina in quanto, ad esempio, poiché l’esercizio dell’impresa
non è una semplice attività dell’imprenditore ma è una organizzazione di diversi fattori produttivi,
si giustifica una sopravvivenza dei rapporti ad essa inerenti anche se l’imprenditore muore o cede
l’azienda; così come, poiché l’imprenditore, in quanto capo dell’impresa, ha poteri o informazioni
che non hanno le controparti, si giustifica una disciplina che tuteli tali controparti in quanto
contraenti ecomicamente più deboli, come avviene per i lavoratori o per i consumatori.
C) Dopo essersi occupato dell’imprenditore in generale, tuttavia, il legislatore si accorge
che una disciplina indiscriminatamente applicabile a tutte le tipologie di attività economiche non
coglie la profonda complessità e soprattutto la varietà del fenomeno impresa. Così il libro V del
codice, dopo aver dedicato il capo I del titolo II all’impresa in generale, dedica i successivi capi II e
III, rispettivamente, all’impresa agricola e all’impresa commerciale, e detta per ciascuna di esse
una disciplina speciale: disciplina relativa, per l’impresa agricola, ai contratti agrari (art. 2141 ss.),
e, per quella commerciale, a istituti come l’iscrizione nel registro delle imprese (artt. 2188 ss.), la
rappresentanza sia legale (art. 320, comma 5°) che volontaria (artt. 2203 ss.), le scritture contabili
(artt. 2214 ss.), l’insolvenza (art. 2221). Anche a proposito di tali sottocategorie, il legislatore si
preoccupa di individuare le fattispecie cui le corrispondenti discipline si applicano fornendo le
nozioni sia di imprenditore agricolo (art. 2135) che di imprenditore commerciale (art. 2195). Anche
qui si può dire che la nozione giustifica la disciplina in quanto, ad es. i tipi di attività che sono
ricompresi nella nozione di imprenditore commerciale comportano normalmente un volume di
rapporti con i terzi e di ricorso al credito tali da giustificare un regime speciale a tutela di tali terzi, e
dei creditori in particolare, come l’iscrizione in pubblici registri, la tenuta di scritture contabili o il
fallimento.
3.3.2. Il piccolo imprenditore: disciplina e fattispecie.
Ma come c’entra tutto quanto abbiamo detto al paragrafo precedente con le PMI?
C’entra perché, se noi esaminiamo la disciplina generale dell’imprenditore, e poi quella
dell’imprenditore agricolo e poi ancora quella dell’imprenditore commerciale, scopriamo che tali
discipline non si applicano in tutto o in parte al “piccolo imprenditore”. Come esempio in materia
di disciplina generale dell’impresa si consideri l’art. 1330 c.c., dove si stabilisce che la proposta o
l’accettazione, quando è fatta dall’imprenditore nell’esercizio della sua impresa, non perde efficacia
se l’imprenditore muore o diviene incapace prima della conclusione del contratto, salvo che si tratti
di piccoli imprenditori. Come esempio in materia di disciplina dell’impresa agricola si consideri
l’art. 2139 c.c., in base al quale tra piccoli imprenditori agricoli è ammesso lo scambio di mano
d’opera o di servizi secondo gli usi, in deroga alla disciplina del collocamento. Come esempi in
materia di disciplina dell’impresa commerciale basti citare le disposizioni in forza delle quali i
piccoli imprenditori non sono soggetti né all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (art.
2202 c.c.), né alla tenuta delle scritture contabili (art. 2214, comma 3°, c.c.), né alle procedure del
fallimento e del concordato preventivo (art. 2221 c.c.).
Come al solito, poiché la disciplina del piccolo imprenditore fa eccezione a quella
dell’imprenditore non piccolo, occorre stabilire quale sia la fattispecie alla quale tale disciplina
eccezionale si applica: in altre parole, occorre stabilire chi sia il piccolo imprenditore. A tale
domanda risponde lo stesso legislatore con la nozione contenuta nell’art. 2083 c.c., secondo cui
“sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e
coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio
e dei componenti della famiglia”.
Nell’analisi di tale nozione, va posto l’accento soprattutto sull’espressione finale in essa
utilizzata (“coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro
proprio e dei componenti della famiglia”): espressione la quale, benché apparentemente riferita solo
9
all’ipotesi residuale di quei soggetti che non rientrano nelle figure tipizzate prima di essa, finisce in
realtà per dettare un criterio valido per tutte. Si pensi ad esempio al “coltivatore diretto del fondo”,
la cui nozione si ricava dall’art. 1647 c.c. laddove si qualifica come affitto a coltivatore diretto
quello avente ad oggetto un fondo “che l’affittuario coltiva col lavoro prevalentemente proprio o di
persone della sua famiglia” Si pensi, ancora, all’“artigiano”, il quale, non definito dal codice civile,
viene definito dall’art. 2 della l. 8 agosto 1985, n. 443 (Legge-quadro per l’artigianato) come “colui
che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l’impresa artigiana” (vale a
dire quella avente per scopo prevalente un’attività di produzione di beni o di servizi, escluse le
attività agricole e quelle commerciali in senso stretto come l’intermediazione di beni o la
somministrazione di alimenti e bevande al pubblico), “assumendone la piena responsabilità con tutti
gli oneri ed i rischi relativi alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio
lavoro, anche manuale, nel processo produttivo”. Si pensi, infine, al “piccolo commerciante”, il
quale, non risultando definito da nessuna parte, viene normalmente identificato in colui che, fuori
dalle attività definibili come agricole o artigianali, esercita la propria impresa con il lavoro proprio e
dei componenti della famiglia.
Anche qui, come abbiamo visto accadere per l’imprenditore in generale, per quello agricolo
e per quello commerciale, la nozione spiega la disciplina. Se infatti – come si è visto – il piccolo
imprenditore è caratterizzato dalla prevalenza del lavoro personale e familiare del medesimo
rispetto agli altri fattori della produzione, è chiaro che il ricorso al credito (ad esempio quello
bancario) per acquisire tali fattori sarà di gran lunga inferiore rispetto a quello di un’impresa non
piccola, con la conseguenza che la tutela dei terzi non richiederà da parte del legislatore la
predisposizione di strumenti eccezionali come il fallimento, bastando per tale tutela i rimedi
ordinari a disposizione di qualsiasi creditore.
Si tratta tuttavia una nozione la cui applicazione comporta una serie di problemi. Il primo
problema è quello se la prevalenza del lavoro dell’imprenditore e dei componenti della sua famiglia
si misuri nei confronti del solo lavoro subordinato esterno oppure anche nei confronti degli altri
fattori della produzione come il capitale (problema il quale sembrerebbe risolto dall’art. 3 della
citata legge n. 443/1985 laddove si definisce come artigiana la società in cui la maggioranza dei
soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel
processo produttivo, e in cui il lavoro abbia funzione preminente sul capitale). Il secondo problema
è quello se la suddetta prevalenza si debba misurare in termini meramente quantitativi oppure in
termini qualitativi, tenendo ad es. conto della maggior rilevanza dello specifico lavoro organizzativo
apportato dall’imprenditore (in quest’ultimo senso sembrano muoversi alcune leggi speciali come
quella del 3 maggio 1982, n. 203, recante norme sui contratti agrari, il cui art. 6, nel definire il
coltivatore diretto, afferma come pienamente compatibile con il criterio della prevalenza il fatto che
la forza lavorativa del coltivatore e dei componenti della sua famiglia costituisca almeno un terzo di
quella occorrente per le normali necessità della coltivazione del fondo; o come la già più volte citata
l. 443/1985, sull’artigianato, il cui art. 4 dichiara compatibile con il concetto di prevalenza la
presenza di personale dipendente, purché diretto personalmente dall’imprenditore, in un numero che
può arrivare, in un’impresa operante nei settori delle lavorazioni artistiche, tradizionali e
dell’abbigliamento su misura, fino a 40 unità).
Si consideri, inoltre, che la disciplina del piccolo imprenditore contenuta nel codice civile
incontra talora eccezioni, anche importanti, ad opera della legislazione speciale. Così, ad es., in
deroga all’art. 2202 c.c. che esenta i piccoli imprenditori dall’obbligo di iscrizione nel registro delle
imprese, l’art. 2 d.p.r. 14 dicembre 1999, n. 558 (attuativo della l. 15 marzo 1997, n. 59) stabilisce
che i piccoli imprenditori debbano essere iscritti in una sezione speciale del suddetto registro, anche
se tale iscrizione, ai sensi dell’art. 8, comma 5°, l. 29 dicembre 1993, n. 580, ha una mera funzione
“di certificazione anagrafica di pubblicità notizia” ed è quindi priva dell’efficacia c.d. dichiarativa
di cui all’art. 2193 c.c. (efficacia dichiarativa che invece sussiste, ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 18
maggio 2001, n. 228, per quella particolare figura di piccolo imprenditore che è il coltivatore
diretto). Così, ancora, in deroga all’art. 2214 c.c. che esenta i piccoli imprenditori dall’obbligo di
10
tenuta delle scritture contabili, l’art. 18, comma 1°, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 (come
modificato dall’art. 7, comma 2°, lett. m, d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio 2011,
n. 106), dopo aver premesso che le disposizioni degli articoli precedenti sull’obbligo di tenuta delle
scritture contabili (fra cui il libro giornale e il libro degli inventari) ai fini dell’accertamento delle
imposte sui redditi si applicano anche ai soggetti non gravati da quell’obbligo a norma del codice
civile, e dunque anche ai piccoli imprenditori di cui all’art. 2083 c.c., esonera da tale obbligo le
persone fisiche e le società di persone i cui ricavi conseguiti in un anno intero non abbiano superato
l’ammontare di 400.000 euro per le imprese aventi ad oggetto prestazione di servizi, ovvero di
700.000 per le imprese aventi ad oggetto altre attività. Così, infine, in deroga all’art. 2221 c.c. che,
in caso di insolvenza, sottrae i piccoli imprenditori alle procedure del fallimento e del concordato
preventivo, l’attuale art. 1 l. fall. stabilisce che non sono soggetti alle sunnominate procedure gli
imprenditori i quali dimostrino, congiuntamente, di aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di
deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo
patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a 300.000 euro, di aver realizzato, in
qualunque modo risulti, nel periodo di cui sopra, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo
non superiore a 200.000 euro, e di avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a
500.000 euro: il che significa che quanti abbiano superato anche uno solo dei predetti limiti sono
ugualmente soggetti alle procedure concorsuali anche se rivestono la qualità di piccoli imprenditori
a norma dell’art. 2083 c.c. (chi rientra nei suddetti limiti, peraltro, pur essendo sottratto alle
procedure concorsuali di cui alla legge fallimentare, può sempre volontariamente accedere alle
procedure di soluzione della crisi da sovraindebitamento di cui alla l. 30 gennaio 2012, n. 3).
Si tratta di eccezioni, beninteso, le quali trovano tutte adeguata spiegazione nelle finalità
specifiche delle leggi speciali che le contengono: la prima nella valenza informativa che il registro
delle imprese, fin dalla sua istituzione nel 1993, ha assunto, e va sempre più assumendo, circa ogni
aspetto del mondo produttivo, onde assicurare la trasparenza nei confronti dei terzi; le ultime due
nelle esigenze di rapidità e certezza che sono proprie di interventi come quello volto
all’accertamento e alla riscossione delle imposte, o come quello diretto a prevenire o a risolvere,
nell’interesse del ceto creditorio e del mercato in genere, le crisi di impresa, esigenze che solo il
ricorso a parametri certi come quelli numerici può seriamente soddisfare.
Vi sono infine alcune ipotesi il cui il legislatore, nel dettare una disciplina speciale per le
imprese di minori dimensioni, prescinde completamente dalla nozione di “piccolo imprenditore”
fornita dal codice civile. In alcune di tali ipotesi il legislatore ricorre ad una nozione alternativa
rispetto a quella codicistica: così avviene, ad esempio, con la l. 20 maggio 1970, n. 300, contenente
norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, ecc. (c.d. Statuto dei lavoratori), il cui art.
18, anche dopo le modifiche introdotte dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, esenta dalle particolari misure
di tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo ivi contemplate l’imprenditore che in
ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo in cui ha avuto luogo il
licenziamento, occupi alle sue dipendenze un numero di dipendenti non superiore a quindici, o non
superiore a cinque se si tratta di imprenditore agricolo (oggi, in base all’art. 9 del nuovo d.lgs. 4
marzo 2015, n. 23, contenente disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a
tutele crescenti, al datore di lavoro che non raggiunga i suddetti requisiti dimensionali non si applica
il residuo obbligo di reintegrazione previsto dall’art. 3, comma 2° in presenza di licenziamenti per
giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio
l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, mentre l’indennizzo da quattro a
ventiquattro mensilità previsto dal comma 1° del medesimo art. 3 è dimezzato e non può in ogni
caso superare le se mensilità) . In altre ipotesi non viene fornita alcuna nozione alternativa, come
avviene, ad esempio, con il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 sulla responsabilità amministrativa delle
persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica per i reati
commessi nel suo interesse e a suo vantaggio da persone che rivestono funzioni apicali al suo
interno: l’art. 6 di tale decreto infatti, dopo aver disposto che l’ente non risponde se l’organo
dirigente ha adottato modelli di organizzazione idonei a prevenire i suddetti reati e se il compito di
11
vigilare sul funzionamento di tali modelli è stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di
autonomi poteri di iniziativa e di controllo (ad esempio un collegio sindacale), esonera da
quest’ultimo onere gli “enti di piccole dimensioni” stabilendo che in tali enti i compiti di vigilanza
possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente.
________________
4. Le forme giuridiche della piccola e media impresa
4.1. Premessa.
Quali siano le forme giuridiche più utilizzate per l’esercizio delle PMI in Italia emerge
inequivocabilmente da alcuni risultati statistici, qui di seguito sintetizzati in base ad elaborazioni del
Centro Studi Legacoop su dati dell’Archivio Statistico delle Imprese Attive (Asia) curato
dall’ISTAT, relativi al 2008 (doc. n. 10).
Si prenda, ad es., la seguente tabella:
Forme giuridiche
N. imprese
% imprese
N. addetti
%addetti
Imprese individuali
Società di persone
Società di capitali
S.p.a.
S.r.l.
Società cooperative
Altra forma
2.904.950
802.194
739.477
38.815
700.662
50.680
16.721
64,4%
17,8%
16,4%
0,9%
15,5%
1,1%
0,4%
4.580.663
2.931.091
9.118.266
4.019.839
5.098.427
1.092.360
152.889
25,6%
16,4%
51,0%
22,5%
28,5%
6,1%
0,9%
Totale
4.514.022
100%
17.875.270
100%
N. medio addetti
1,6
3,7
12,3
103,6
7,3
21.6
9,1
4,0
Se si osserva il dato del numero medio di addetti per impresa, e se si tiene presente, che, in
base alla già ricordata classificazione comunitaria accolta anche in Italia, sono da considerarsi PMI
quelle che occupino meno di 250 addetti, si potrebbe dire che tutte le forme giuridiche presenti nel
nostro ordinamento sono astrattamente fruibili per l’esercizio di una PMI, in quanto nessuna di essa
di esse supera mediamente quella soglia.
Per capire tuttavia, nel dettaglio, come le varie articolazioni delle PMI (microimprese,
piccole imprese e medie imprese) si distribuiscano in valori assoluti e percentuali fra le diverse
forme giuridiche, occorre considerare questa seconda tabella:
Microimprese
(1 - 9 addetti)
Piccole imprese
(10 – 49 addetti)
Medie imprese
(50-249 addetti)
Grandi imprese
(> 250 addetti)
Totale imprese
2.885.032
67,5%
19.757
9,3%
110
0,5%
1
0,0%
2.904.950
64,4%
755.161
17,7%
46.403
21,8%
619
2,7%
11
0,3%
802.194
17,8%
585.452
13,7%
132.239
62,2%
18.618
80,8%
3.168
84,8%
739.477
16,4%
13.681
0,3%
13.397
6,3%
9.349
40,6%
2.388
63,9%
38.815
0,9%
Imprese individuali
Valori assoluti
Valori percentuali
Società di persone
Valori assoluti
Valori percentuali
Società di capitali
Valori assoluti
Valori percentuali
S.p.a.
Valori assoluti
Valori percentuali
S.r.l.
12
Valori assoluti
Valori percentuali
571.771
13,4%
118.842
55,9%
9.269
40,2%
780
20,9%
700.662
15,5%
34.104
0,8%
12.702
6,0%
3.385
14,7%
489
13,1%
50.680
1,1%
14.713
0,3%
1.628
0,8%
314
1,4%
66
1,8%
16.721
0,4%
4.274.512
100%
212.729
100%
23.046
100%
3.735
100%
4.514.022
100%
Società cooperative
Valori assoluti
Valori relativi
Altre forme
Valori assoluti
Valori percentuali
Totale forme
Valori assoluti
Valori percentuali
Da essa risulta che:
a) nelle microimprese la forma più diffusa è quella dell’impresa individuale (67,5%), la
quale però crolla verticalmente nelle piccole imprese (9,3%) e quasi sparisce nelle medie (0,5%); il
che significa che le varie forme di impresa collettiva, minoritarie nelle microimprese (32,5%),
diventano assolutamente maggioritarie già a partire dalle piccole imprese (90,7%) e addirittura
quasi esclusive nelle medie imprese (99,5%);
b) all’interno delle forme collettive, le società di persone, che pur vantano una percentuale
ragguardevole nelle microimprese (17,7%) e nelle piccole imprese (21,8%), si riducono tuttavia
nelle medie imprese al 2,7%;
c) sempre all’interno delle forme collettive, le società di capitali, già presenti, sia pure in
misura minoritaria rispetto a quelle di persone, nella microimpresa (13,7%), occupano la posizione
maggioritaria già a partire dalla piccola impresa (62,2%), posizione che si rafforza ulteriormente
con il passaggio alla media impresa (80,8%) Anche le società cooperative fanno registrare
percentuali crescenti nel percorso dalle microimprese (0,8%), attraverso le piccole (6,0%) fino alle
medie (14,7%);
d) all’interno delle società di capitali, nella contrapposizione fra s.r.l. e s.p.a., la s.r.l.
rappresenta la figura percentualmente più ricorrente nella microimpresa (13,4% contro 0,3%) e
nella piccola impresa (55,9% contro 6,3%), mentre viene sopravanzata sia pur di poco dalla seconda
nella media impresa (40,2% contro 40,6%).
Quali sono le linee di tendenza che si possono osservare in questo quadro?
1) Al crescere delle dimensioni di impresa diventano prevalenti le forme collettive rispetto a
quella individuale.
2) All’interno delle forme collettive, al crescere delle dimensioni di impresa diventano
prevalenti le forme caratterizzate dalla responsabilità limitata dei soci rispetto a quelle caratterizzate
dalla responsabilità illimitata dei medesimi.
3) All’interno delle forme caratterizzate dalla responsabilità limitata dei soci, al crescere
delle dimensioni di impresa diventano prevalenti le forme caratterizzate dalla presenza di azioni.
Si tratta ora di vedere, per ognuna delle varie forme giuridiche, quali sono le caratteristiche
che le rendono appetibili per i diversi livelli dimensionali di impresa.
4.2. L’impresa individuale.
Come detto a conclusione del paragrafo precedente, l’impresa individuale risulta la forma in
assoluto più utilizzata (67,5%) dalle microimprese. Ciò dipende dal fatto che essa comporta, rispetto
alle altre forme, i minori oneri di costituzione e di funzionamento.
A) Sotto il profilo della costituzione, infatti, per l’avvio di un’impresa individuale non è
richiesto un capitale minimo, con la conseguenza che le risorse per l’esercizio delle medesima
potrebbero essere attinte, anziché attraverso l’impiego del patrimonio dell’imprenditore, attraverso
il ricorso ad un finanziamento esterno (bancario, ad esempio), anche se il patrimonio
13
dell’imprenditore rimane in questo caso comunque impegnato, se non come apporto diretto in
società, come garanzia per l’adempimento del proprio debito nei confronti del finanziatore, stante la
responsabilità illimitata di ogni debitore ai sensi dell’art. 2740 c.c. (v. oltre, lett C).
Sempre in ordine alla costituzione, la nascita dell’impresa, avvenendo ad opera di un solo
soggetto, non richiede la stipulazione di un contratto con altri soggetti, evitando con ciò le difficoltà
connesse alle spesso lunghe e laboriose trattative necessarie per il contemperamento dei vari e talora
contrapposti interessi in gioco ed i costi collegati alle consulenze professionali necessarie per il
perfezionamento dell’accordo (costi di transazione), essendo sufficienti le spese generali come
quelle derivanti dalla denuncia all’Agenzia delle entrate ai fini dell’attribuzione della partita IVA o
del codice fiscale, o come quelle relative all’iscrizione nel registro delle imprese (iscrizione che –
come già ricordato al par. 3.3.2. - l’art. 2 d.p.r. 14 dicembre 1999, n. 558, prevede anche a carico
dei piccoli imprenditori, benché in una sezione speciale con mera funzione “di certificazione
anagrafica e di pubblicità notizia” e quindi senza l’efficacia c.d. dichiarativa di cui all’art. 2193
c.c.).
B) Quanto al funzionamento dell’impresa, anch’esso si presenta come il più semplice
possibile, giacché tutte le determinazioni che assicurano tale funzionamento - abbiano esse ad
oggetto i mutamenti strutturali, o la vera e propria gestione, o i controlli - sono riconducibili ad una
sola persona, la quale può agire dunque in perfetta autonomia senza ricercare il consenso, o temere
il dissenso, di altri contitolari, e senza il bisogno di nominare organi o attivare procedure
sopportando i relativi costi (un’eccezione potrebbe essere rappresentata dall’impresa familiare di
cui all’art. 230-bis c.c., in base al quale, se con l’imprenditore individuale collaborano al di fuori di
specifici rapporti il coniuge, i parenti entro il terzo grado o gli affini entro il secondo del medesimo,
questi ultimi partecipano con il suddetto imprenditore alle decisioni concernenti l’impiego degli
utili e degli incrementi, la gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi e la cessazione
dell’impresa; un’altra eccezione è costituita dalla necessità di autorizzazione del giudice tutelare o
addirittura del tribunale, ai sensi degli artt. 320, 371, 374 e 375 c.c., allorché l’impresa, in
particolare quella commerciale, venga esercitata dal rappresentante legale dell’incapace). A ciò si
aggiunga, quale ulteriore causa di semplificazione organizzativa e di riduzione di costi, che anche
l’attività esecutiva potrebbe essere interamente espletata dallo stesso imprenditore, come si desume
a fortiori dalla più volte citata disposizione dell’art. 2083 c.c. che annovera fra i piccoli
imprenditori coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il
lavoro proprio e dei componenti della famiglia, e dunque, a maggior ragione, chi impiega
nell’attività produttiva esclusivamente il lavoro proprio (vale la pena di ricordare del resto che
l’82% delle microimprese con un solo addetto sono rappresentate – come risulta dal doc. n. 11 – da
imprese individuali, e che tale addetto potrebbe identificarsi con lo stesso imprenditore, atteso che,
ai fini del calcolo del numero di occupati richiesti per le soglie identificative delle PMI, si
considerano dipendenti dell’impresa, in base al già ricordato D.M. 18 aprile 2005, recettivo dei
parametri comunitari di calcolo, anche i “proprietari gestori”). Si consideri infine – come già
ricordato al par. 3.3.2 - che l’imprenditore individuale, anche quando eserciti un’attività
commerciale, è esonerato dall’obbligo civilistico di tenuta delle scritture contabili ai sensi dell’art.
2214 c.c. allorché rivesta la qualità di piccolo imprenditore ex art. 2083 c.c., ed è altresì esonerato
dal corrispondente obbligo fiscale, ai sensi dell’art. 18, comma 1°, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600
(come modificato dall’art. 7, comma 2°, lett. m, d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio
2011, n. 106), allorché i ricavi da lui conseguiti in un anno intero non abbiano superato
l’ammontare di 400.000 euro per le imprese aventi ad oggetto prestazione di servizi, ovvero di
700.000 per le imprese aventi ad oggetto altre attività.
C) I descritti benefici consistenti nella possibilità di evitare immobilizzazione di risorse
(inesistenza di un capitale minimo) nonché nell’incondizionata disponibilità dei proventi
dell’impresa e nell’assolutezza del potere esercitato su quest’ultima hanno una contropartita,
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rappresentata dalla responsabilità illimitata che l’imprenditore assume per le obbligazioni derivanti
dall’esercizio dell’impresa in base all’art. 2740 c.c. secondo cui il debitore risponde
dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri.
Si deve tuttavia considerare che l’imprenditore individuale potrebbe limitare la propria
responsabilità dando vita ad esempio ad una s.r.l. unipersonale, come consente l’art. 2463, comma
1°, c.c., e che oggi lo potrebbe addirittura fare, attraverso la costituzione di una s.r.l. semplificata ai
sensi dell’art. 2463-bis c.c., o di una s.r.l. ordinaria a capitale ridotto ai sensi dell’art. 2463, comma
4°, c.c., evitando l’immobilizzazione di risorse a titolo di capitale (se non nell’importo puramente
simbolico di un euro) nonché gran parte delle spese di costituzione (grazie all’esonero dai diritti di
bollo e di segreteria e dagli oneri notarili che l’art. d.l. 1/2012 concede alla s.r.l. semplificata).
4.3. Le società di persone
Abbiamo poc’anzi constatato, sulla base dei dati statistici, come la forma giuridica più
utilizzata dalle imprese collettive di più ridotte dimensioni sia quella delle società di persone, la
quale infatti è significativamente presente nelle microimprese e nelle piccole imprese mentre
rappresenta una quota marginale delle medie e delle grandi.
La ragione di quanto sopra sta nel fatto, che, nell’ambito delle imprese collettive, le società
di persone sono quelle che richiedono i minori costi di costituzione e di funzionamento, anche se
superiori a quelli dell’impresa individuale.
A) Sotto il profilo della costituzione, infatti, anche nelle società di persone, come
nell’impresa individuale, non è richiesto un capitale minimo, con la conseguenza che le risorse per
l’esercizio delle medesima potrebbero essere attinte, anziché attraverso l’impiego del patrimonio dei
soci, attraverso il ricorso ad un finanziamento esterno (bancario, ad esempio), anche se il
patrimonio di tutti o di alcuni soci rimane in questo caso comunque impegnato, se non come
apporto diretto in società, come garanzia per l’adempimento del proprio debito nei confronti del
finanziatore, stante la responsabilità illimitata di ogni debitore (e quindi di ogni socio come
condebitore), ai sensi dell’art. 2740 c.c. (v. oltre, lett C) Sempre sotto il profilo della costituzione, la
nascita dell’impresa, essendo espressione di più soggetti, richiede, diversamente dall’impresa
individuale, un contratto, vale a dire un accordo volto a regolamentare i rapporti reciproci, il quale
però, in base all’art. 2251 c.c., non deve necessariamente rivestire la costosa forma dell’atto
pubblico, bastando una manifestazione di volontà comunque espressa (per scrittura privata o
oralmente davanti a testimoni) o addirittura in modo tacito (per fatti conchiudenti). Occorre
ricordare tuttavia che, mentre la società semplice, come del resto il piccolo imprenditore individuale
che svolga attività commerciale, deve iscriversi nella sezione speciale del registro delle imprese ai
soli fini di pubblicità notizia (comb. disp. art. 8, comma 5°, l. 580/1993, e art. 2, comma 1°, d.p.r.
558/1999), la s.n.c. e la s.a.s., anche se piccole imprese ai sensi dell’art. 2083 c.c., devono, in forza
dell’art. 2296 c.c. (applicabile anche alla s.a.s. in virtù dell’art. 2315) pubblicare il proprio atto
costitutivo, da redigersi quantomeno per scrittura privata con sottoscrizioni autenticate e con il
rigido contenuto di cui agli artt. 2295 e 2316 c.c., nella sezione ordinaria del registro delle imprese,
pena addirittura, se non l’inesistenza come per le società di capitali, la irregolarità della società con
gli effetti di cui agli artt. 2297 e 2317 c.c.
B) Quanto al funzionamento della società, esso, che nell’impresa individuale è interamente
riconducibile all’imprenditore (è l’imprenditore che decide quanto conferire, quanta parte degli utili
prelevare, come gestire l’impresa, come modificarne la struttura e quando farla cessare), nelle
società di persone rappresenta il portato di una serie di rapporti di natura patrimoniale o
amministrativa fra i soci: rapporti che regolano quanto ciascun socio deve conferire (art. 2253 ss.
c.c.), quali sono gli altri doveri dei soci (art. 2301 c.c.), come si ripartiscono fra questi ultimi gli
utili e le perdite (artt. 2262, 2263 ss. c.c.), chi deve amministrare la società (art. 2257 ss. c.c.), chi
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deve controllare gli amministratori (art. 2261 c.c.), chi deve decidere le modificazioni del contratto
sociale, quando si scioglie la società (art. 2272 ss. c.c.), quando si scioglie il rapporto sociale
limitatamente ad un socio (art. 2284 ss. c.c.), ecc.
Il principale motivo di attrazione delle società personali rispetto a quelle di capitali nelle
piccolissime imprese sta in un modello legale di governo della società basato sulla diretta
riconduzione di tutte le funzioni di impresa ai soci, senza bisogno di nominare organi ad hoc, e
nella informalità dei meccanismi decisionali, in quanto le determinazioni collettive vengono tutte
adottate in assenza di procedure particolari come l’assemblea: di qui un intuibile risparmio di costi
per la conduzione dell’impresa.
Un secondo motivo di attrazione delle società personali sta nella estrema flessibilità del
suddetto modello legale e quindi nella sua adattabilità alle esigenze dell’impresa: vale la pena di
ricordare che quasi tutte le disposizioni del codice civile disciplinanti le società personali sono
derogabili da parte del contratto sociale, salvo alcune poche disposizioni imperative come quella
dell’art. 2265 c.c. che sancisce la nullità del patto leonino, o come quelle attinenti ai rapporti con i
terzi quali gli artt. 2267, 2291, 2318, 2280 c.c.).
Si ricordi, ancora, che le società di persone commerciali (società in nome collettivo e società
in accomandita semplice), diversamente da quelle di capitali, sono esonerate dall’obbligo fiscale di
tenuta delle scritture contabili ai sensi dell’art. 18, comma 1°, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600
(come modificato dall’art. 7, comma 2°, lett. m, d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio
2011, n. 106), allorché i ricavi da esse conseguiti in un anno intero non abbiano superato
l’ammontare di 400.000 euro per le imprese aventi ad oggetto prestazione di servizi, ovvero di
700.000 per le imprese aventi ad oggetto altre attività. Anche qualora, tuttavia, sussistesse l’obbligo
di tenuta delle scritture contabili, la redazione del bilancio, in base all’art. 2217, comma 2°, c.c.,
sarebbe soggetta non già a tutte le complesse disposizioni previste per le società di capitali dagli
artt. 2423 ss. c.c., ma solo a quelle relative ai criteri di valutazione, e sfuggirebbe altresì all’obbligo
di pubblicazione di cui all’art. 2435 c.c. nonché a quello di redigere il bilancio consolidato alla
stregua dell’art. 25 d.lgs. n. 127/1991 (a meno che la società di persone abbia come soci
illimitatamente responsabili esclusivamente società di capitali, ai sensi dell’art. 111-duodecies disp.
att. c.c.).
Si consideri infine, come elemento di attrazione delle società di persone, la notevole facilità
per i soci di recuperare le somme investite attraverso l’esercizio del pressoché illimitato diritto di
recesso riconosciuto dall’art. 2285 c.c.
C) I descritti benefici per i soci, consistenti nella possibilità di evitare immobilizzazione di
risorse (inesistenza di un capitale minimo) nonché nell’incondizionata disponibilità dei proventi
dell’impresa e nell’assolutezza del potere di cogestione esercitato su quest’ultima, hanno alcune
contropartite, riguardanti i rapporti con i terzi.
La prima contropartita, riguardante tutte le società di persone, è rappresentata – con le
eccezioni che vedremo tra poco - dalla responsabilità illimitata dei soci per le obbligazioni sociali,
in base all’art. 2740 c.c. secondo cui il debitore (e dunque i soci come condebitori) risponde
dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (a ciò si aggiunga, per le
s.n.c. o le s.a.s. esercenti attività commerciale, l’ulteriore svantaggio per cui, in forza dell’art. 147 l.
fall. la sentenza che dichiara il fallimento di una di esse produce anche il fallimento dei rispettivi
soci illimitatamente responsabili).
La regola della responsabilità illimitata viene applicata in tutto il suo rigore con riferimento
alla s.n.c., per la quale l’art. 2291 c.c. dispone al comma 1° che “tutti” i soci rispondono
illimitatamente per le obbligazioni sociali: si tratta per giunta di norma imperativa, come risulta dal
comma 2° del medesimo articolo secondo cui il patto contrario non ha effetto nei confronti dei terzi.
Al di fuori della s.n.c., tuttavia, i soci possono talora limitare la propria responsabilità verso
i creditori sociali, nella società semplice attraverso un patto che sia portato a conoscenza dei terzi
con mezzi idonei (art. 2267 c.c.) e nella s.a.s. attraverso l’assunzione della qualità di accomandanti
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(art. 2313 c.c.): a condizione però, in entrambi i casi, che rimanga comunque almeno un socio
illimitatamente responsabile (nella società semplice, in base all’art. 2267, comma 1°, c.c., colui o
coloro che hanno agito in nome e per conto della società; nella s.a.s. i soci accomandatari). In ogni
caso, fruire del beneficio della responsabilità limitata non è indolore perché comporta la rinuncia al
potere di cogestione dell’impresa: nella società semplice perché, in base all’art. 2267 c.c., il patto
limitativo della responsabilità può riguardare solo coloro che non hanno agito in nome e per conto
della società (vale a dire, secondo l’interpretazione più diffusa, coloro che non hanno
amministrato); nella s.a.s. perché non solo, in forza dell’art. 2318, comma 2°, c.c.,
l’amministrazione non può essere conferita ai soci accomandanti (vale a dire a soggetti
limitatamente responsabili), ma addirittura questi ultimi, ai sensi dell’art. 2320 c.c., qualora
espletassero anche un solo atto di gestione, incorrerebbero a titolo di sanzione nella responsabilità
illimitata per tutte le obbligazioni (anche per quelle anteriori all’atto di immistione) e potrebbero
essere esclusi dalla società.
Una seconda serie di vincoli per i soci di una società di persone riguarda specificamente le
s.n.c. e le s.a.s. e attiene alla pubblicità obbligatoria da attuarsi mediante iscrizione al registro delle
imprese: iscrizione che, riguardi essa l’atto costitutivo, oppure le sue modificazioni, oppure le
limitazioni al potere di rappresentanza, ha regolarmente efficacia dichiarativa, con la conseguente
inopponibilità dei fatti non iscritti ai terzi di buona fede (artt. 2297, 2298, 2300, 2317 c.c.).
Una terza serie di vincoli che il legislatore prevede a tutela dei terzi con riferimento sempre
a s.n.c. e s.a.s. è quella di cui all’art. 2303 c.c., che vieta la ripartizione di somme tra i soci se non
per utili regolarmente conseguiti (salvo il diritto di ritenzione, in base all’art. 2321 c.c. da parte
degli accomandanti che li abbiano riscossi in buona fede), e all’art. 2306 c.c., che consente ai
creditori sociali di opporsi alla delibera di riduzione del capitale sociale mediante rimborso ai soci
delle quote pagate o mediante liberazione dei medesimi dall’obbligo di ulteriori versamenti.
4.4. Le società di capitali in generale.
L’osservazione dei dati statistici ha evidenziato come le società di capitali, già presenti nelle
microimprese ma in percentuale decisamente minoritaria rispetto alle imprese individuali e alle
società di persone (13,7%), prendano decisamente il sopravvento sulle predette forme con il
progredire delle dimensioni economiche raggiungendo il 62,2% delle piccole imprese e ben l’80,8%
delle medie imprese.
Assumendo per ora quello delle società di capitali come dato cumulativo, e rinviando ai
paragrafi successivi l’analisi disaggregata dei dati relativi alla s.p.a. e alla s.r.l., la preferenza delle
imprese minori ma non minime per i tipi capitalistici si spiega in base all’elemento che differenzia
tali tipi rispetto a quelli personalistici, vale a dire la responsabilità limitata dei soci per le
obbligazioni sociali. Mano a mano, infatti, che crescono le dimensioni dell’impresa, crescono anche
i rischi connessi alla sua conduzione: circostanza di fronte alla quale emerge la propensione dei soci
a ridurre l’esposizione del proprio patrimonio ai suddetti rischi limitandola ad una sola parte di esso,
quella, appunto, investita nell’impresa attraverso il conferimento.
Il legislatore asseconda la suddetta propensione prevedendo la responsabilità della sola
società con il proprio patrimonio per le obbligazioni, ma predispone nel contempo una serie di
strumenti onde evitare che il rischio di impresa si trasferisca interamente dai soci ai creditori, ai
terzi e alla collettività nel suo complesso: strumenti che presentano, ovviamente, dei costi aggiuntivi
rispetto a quelli di una struttura caratterizzata dalla responsabilità illimitata dei soci.
I) Una prima tipologia di tali strumenti è costituita dalle c.d. “regole del capitale”.
A) Alcune di tali regole riguardano la formazione del capitale e possono dettagliarsi
come segue.
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A1) L’ammontare del capitale sociale indicato in atto costitutivo (capitale “nominale”) non
deve essere inferiore ad un determinato ammontare: 50.000 euro per la s.p.a. (art. 2327 c.c.); 10.000
euro per la s.r.l. (art. 2463, comma 2°, n. 4, c.c.), anche se tale regola viene oggi sostanzialmente
vanificata laddove si prevede la costituzione sia della s.r.l. semplificata (art. 2463-bis c.c.) sia della
s.r.l. ordinaria (art. 2463, comma 4°, c.c.) con il capitale meramente simbolico di un euro. Si
consideri che minimi superiori a quelli di cui sopra possono essere previsti per l’esercizio di
determinate attività (ad es. per quella bancaria, o per quella di intermediazione finanziaria, ai sensi,
rispettivamente, degli artt. 14 e 107 t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia).
A2) Il capitale nominale deve essere anche “reale”: vale a dire, da un lato, deve essere
interamente sottoscritto (art. 2329 c.c., richiamato per la s.r.l. dall’art. 2463 c.c.), nel senso che al
suo ammontare devono corrispondere altrettanti impegni di conferimento da parte dei soci, e,
dall’altro, deve essere interamente coperto da un punto di vista valoristico, nel senso che il valore
dei conferimenti non può essere complessivamente inferiore al suddetto ammontare (artt. 2346,
comma 5°, e 2464, comma 1°, c.c.): il tutto onde evitare che i creditori sociali non trovino fin
dall’inizio capienza nell’unico patrimonio su cui possono contare come garanzia per il
soddisfacimento dei propri crediti.
A3) Il capitale sociale deve essere “certo”, cioè deve essere rappresentato o da danaro o da
entità obbiettivamente valutabili, onde evitare che i creditori sociali siano ingannati circa la
consistenza della propria garanzia patrimoniale: a tal fine non basta la valutazione effettuata dai soci
nell’atto costitutivo, come nelle società di persone, ma occorre la valutazione di un soggetto esterno
fornito di requisiti idonei a garantirne professionalità e autonomia, il quale attesti in una relazione
giurata, tra l’altro, che il valore dei beni in natura o dei crediti oggetto del conferimento sia almeno
pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione, appunto, del capitale sociale, nonché
dell’eventuale soprapprezzo (artt. 2343 e 2465 c.c.).
A4) Il capitale sociale deve essere “effettivo”, cioè rappresentato da beni immediatamente
disponibili da parte della società, o comunque da essa agevolmente acquisibili. Trattandosi di beni
in natura o di crediti, infatti, il legislatore dispone che le quote corrispondenti a tali conferimenti
debbano essere integralmente liberate al momento della loro sottoscrizione (artt. 2342, comma 3°, e
2464, comma 5°, c.c.). Trattandosi di danaro, il medesimo legislatore dispone sì che, all’atto della
sottoscrizione, basta il versamento di una parte soltanto del conferimento (il 25%, a meno che si
tratti di socio unico, o di s.r.l. con capitale inferiore a 10.000, nel qual caso il versamento deve
essere integrale: artt. 2464, comma 4°; 2463, comma 4°, 2463-bis c.c.), ma mette poi a disposizione
della società creditrice, ai fini del recupero del restante 75%, strumenti eccezionali rispetto al diritto
comune come quelli rappresentati dalla vendita in danno della quota del socio moroso e
dall’esclusione di quest’ultimo (artt. 2344 e 2466 c.c.).
A5) Le regole di cui sopra valgono anche qualora la formazione del capitale sociale avvenga
in sede di aumento del medesimo (artt. 2439, 2440, 2481 c.c., i quali richiamano le norme, testé
esaminate, riguardanti la fase costituiva.)
B)Altre regole del capitale riguardano propriamente la conservazione di quest’ultimo
durante la vita della società e possono così individuarsi.
B1) La riduzione reale del capitale mediante restituzione del medesimo ai soci o mediante
liberazione di questi ultimi dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti deve in ogni caso rispettare il
minimo legale e non può comunque avvenire in presenza di opposizione da parte dei creditori
sociali, a meno che il tribunale, quando ritenga infondato il pregiudizio per questi ultimi oppure
quando la società abbia prestato idonea garanzia, disponga che l’operazione abbia luogo nonostante
l’opposizione (artt. 2445 e 2482 c.c.). Lo stesso vale in caso di rimborso della quota del socio
recedente (artt. 2437-quater, ultimi due commi, e 2473, comma 4°, c.c.).
La restituzione del capitale ai soci non è ammessa anche quando avvenga in forme indirette,
ad esempio mediante acquisto a titolo oneroso di proprie azioni (l’art. 2357 c.c. ammette tale
operazione per la s.p.a., ma solo a patto che venga effettuata nei limiti degli utili distribuibili e delle
riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato), o mediante ripartizione di
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utili non realmente conseguiti, ad esempio risultanti da sopravalutazione dell’attivo (artt. 2433,
comma 2°, e 2478-bis, comma 4°, c.c.).
B2) La diminuzione del capitale di oltre un terzo in conseguenza di perdite fa scattare una
procedura di allarme (artt. 2446 e 2482-bis c.c.) che comprende la convocazione obbligatoria
dell’assemblea per gli opportuni provvedimenti, la redazione di una situazione patrimoniale da parte
degli amministratori da depositarsi presso la sede sociale e da illustrarsi in assemblea, e che si
conclude, se entro l’esercizio successivo la perdita non diminuisca a meno di un terzo, con la
riduzione obbligatoria del capitale, in proporzione delle perdite accertate, per deliberazione
assembleare o, in mancanza, per decreto del tribunale, opportunamente sollecitato dagli organi di
amministrazione o di controllo: deliberazione o decreto entrambi da iscriversi nel registro delle
imprese. Se poi il capitale dovesse scendere, a causa delle suddette perdite, al disotto del minimo
legale, si configurerebbe una causa di scioglimento della società (art. 2484, n. 4, c.c.), salvo che
l’assemblea, dopo aver deliberato la riduzione del capitale in proporzione delle perdite, deliberi
contestualmente la reintegrazione del medesimo fino almeno al suddetto minimo oppure la
trasformazione della società (artt. 2447 e 2482-ter c.c.). Occorre ricordare che oggi, tali regole
incontrano eccezione nel nuovo art. 182-sexies l. fall., intitolato “riduzione o perdita del capitale
della società in crisi”, in base al quale, dalla data di deposito della domanda per l’ammissione al
concordato preventivo o di quella per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (le
due procedure superstiti per evitare il fallimento) e sino all’omologazione delle medesime, le regole
di cui sopra non si applicano.
B3) La conservazione del capitale è ulteriormente assicurata dalla disposizione dell’art.
2430 c.c. (richiamato per la s.r.l. dall’art. 2478-bis c.c.) secondo cui dagli utili netti annuali deve
essere dedotta una somma corrispondente almeno alla ventesima parte di essi per costituire una
riserva (detta “legale”), fino a che questa non abbia raggiunto il quinto del capitale sociale: riserva
che deve essere reintegrata mediante il prelievo di cui sopra qualora venga diminuita per qualsiasi
ragione e che costituisce un cuscinetto idoneo ad assorbire le eventuali perdite prima che queste
intacchino il capitale (una formazione accelerata e potenziata della riserva legale è prevista dall’art.
2463, comma 5°, c.c., il quale stabilisce che, nella s.r.l. con capitale inferiore a 10.000 euro, debba
essere accantonato il quinto degli utili di esercizio fino a quando la riserva legale abbia raggiunto,
unitamente al capitale, i 10.000 euro).
II) Una seconda tipologia di strumenti a tutela dei terzi è costituita dalle formalità
richieste sia per la validità che per la pubblicità degli atti.
A) Diversamente dalle società di persone, l’atto costitutivo deve essere redatto per atto
pubblico, vale a dire da un notaio previo controllo di legalità circa il contenuto del medesimo
(notaio il quale deve intervenire, con le stesse funzioni, anche in sede di modificazione dell’atto
costituivo), in modo che i terzi possano fare affidamento sulla regolarità non solo meramente
formale ma anche sostanziale dei suddetti documenti (artt. 2330 e 2436 c.c., richiamati per la s.r.l.
dagli artt. 2463 e 2480 c.c.).
B) Diversamente dalle società di persone, l’iscrizione dell’atto costitutivo e delle sue
modificazioni nel registro delle imprese ha efficacia non semplicemente dichiarativa ma costitutiva
(artt. 2331, comma 1° e 2436, comma 5°, c.c., richiamati per la s.r.l. dagli artt. 2463 e 2480 c.c.),
nel senso che gli effetti di quegli atti, in mancanza della iscrizione, non sono semplicemente
inopponibili ai terzi di buona fede, ma proprio non si producono: così ad esempio, prima
dell’iscrizione dell’atto costitutivo, la responsabilità limitata dei soci per le obbligazioni sociali,
mentre si configura ugualmente nel caso di s.a.s. (art. 2317, comma 2°, c.c.), lascia il posto nelle
società di capitali alla responsabilità personale di chi agito in nome di esse, nonché, eventualmente,
di altri soggetti (art. 2331, commi 2° ss., c.c.).
C) Nelle società di capitali sono soggetti a pubblicità anche atti che non vi sono soggetti
nelle società di persone: si pensi per esempio al bilancio, il quale nelle società di capitali, entro
trenta giorni dall’approvazione da parte dei soci, deve essere depositato a cura degli amministratori,
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corredato dalle relazioni dei medesimi amministratori e dei sindaci nonché dal verbale di
approvazione, presso l’ufficio del registro delle imprese (artt. 2435, comma 1°, e 2478-bis, comma
2°, c.c.).
III) Una terza tipologia di contrappesi alla responsabilità limitata in funzione di tutela
dei terzi è costituita dalla disciplina dell’organizzazione.
Uno dei cardini tradizionali dell’economia di mercato è rappresentato dal principio di
corrispondenza fra rischio e potere, quantomeno nella versione per cui a potere illimitato deve
corrispondere rischio illimitato, e a rischio limitato potere limitato, onde impedire che chi espone
all’alea dell’impresa solo una parte, magari assai esigua, del proprio patrimonio possa gestire tale
impresa in modo poco oculato o addirittura avventato e comprometterne dunque la funzionalità a
danno di tutti (principio il quale sembrerebbe fatto proprio dal legislatore anche in materia di
società di persone laddove si stabilisce, all’art. 2318, comma 2°, c.c., che l’amministrazione di una
s.a.s. può essere conferita soltanto a soci accomandatari, vale a dire a soggetti illimitatamente
responsabili per le obbligazioni sociali, e dunque non può essere conferita ad accomandanti,
responsabili per le medesime obbligazioni solo limitatamente alla quota conferita).
In materia di società di capitali, una soluzione simile, anche se non identica, a quella appena
descritta per la s.a.s. viene prevista per la società in accomandita per azioni, dove, in base all’art.
2455, comma 2°, c.c., i soci accomandatari sono di diritto amministratori, mentre non c’è posto per
gli accomandanti nell’organo amministrativo, atteso che, in forza dell’art. 2457, comma 2°, c.c., chi
venga inserito in tale organo assume la qualità di socio accomandatario dal momento
dell’accettazione della nomina.
Ma come viene data attuazione al principio di corrispondenza fra potere e rischio in tipi
societari quali la s.p.a. e la s.r.l. dove per le obbligazioni sociali risponde “soltanto” la società con il
proprio patrimonio e dove quindi tutti i soci rispondono limitatamente alla quota conferita? Logica
vorrebbe che tutti i soci, in quanto appunto beneficiari della responsabilità limitata, subissero
limitazioni nell’esercizio dei propri poteri: ed è proprio quello che avviene. Ma in che cosa
consistono tali limitazioni?
A) Una prima limitazione sul terreno organizzativo (versione forte del principio di
corrispondenza fra potere e rischio) consiste nella sottrazione ai soci, in quanto soggetti
limitatamente responsabili, del potere di gestione dell’impresa, il quale non compete più di diritto
ad essi (come avviene nelle società di persone e nella società in accomandita per azioni con
riferimento ai soci illimitatamente responsabili) ma spetta, in forza degli artt. 2380-bis, comma 1°, e
2475, comma 1°, c.c., ad un organo ad hoc, quello amministrativo, che i soci si limitano a nominare
(anche se ne possono far parte come soggetti nominati), e che svolge i propri compiti
autonomamente da essi sotto la propria responsabilità civile anche verso i terzi (l’idea che il diritto
di gestire l’impresa non potesse coesistere con la responsabilità limitata per le obbligazioni sociali
era sentita a tal punto che il socio unico di s.r.l. e di s.p.a., in quanto dominus assoluto della società
e dunque in grado di influire quantomeno di fatto sulla gestione della medesima, è stato
assoggettato per molto tempo in via eccezionale alla responsabilità illimitata dagli originari artt.
2362 e 2497 c.c.: assoggettamento successivamente eliminato in forza della vicenda che ha portato prima nel 1993 in riferimento alla sola s.r.l. con l’attuazione della XII direttiva CEE e poi nel 2003
in riferimento anche alla s.p.a. con la generale riforma del diritto societario di quell’anno - a
riconoscere il beneficio della responsabilità limitata, salvo qualche marginale eccezione, anche al
socio unico).
B) Una seconda limitazione di tipo organizzativo (versione debole del principio di
corrispondenza fra potere e rischio) riguarda le modalità di esercizio dei poteri che pure sono
rimasti in capo ai soci come collettività, e che non sono pochi (basti pensare a quelli di nomina e
revoca delle cariche sociali, di approvazione del bilancio, di modifica dell’atto costitutivo). Ebbene,
sotto il profilo formale, le decisioni in cui tali poteri si esprimono devono essere adottate, salvo
limitate deroghe di cui avremo occasione di parlare in relazione alla s.r.l., con deliberazione
20
assembleare (artt. 2363 ss. e 2479-bis c.c.), vale a dire secondo una rigorosa procedura che si ispira
al metodo collegiale e che consta di una sequenza articolata in diverse fasi (convocazione,
intervento, riunione, discussione, votazione, proclamazione dei risultati, verbalizzazione,
trascrizione in apposito libro interno e talora nel registro delle imprese): sequenza nel corso della
quale la decisione si forma non già attraverso la mera giustapposizione dei consensi come nelle
società di persone ma attraverso il confronto dialettico fra le varie opinioni e la manifestazione
formalizzata delle medesime sotto costante monitoraggio di un presidente, di un segretario
verbalizzante, di amministratori e sindaci (al rispetto della descritta procedura, come strumento
volto a ridurre il tasso di arbitrarietà e indeterminatezza delle decisioni, sono interessati non soltanto
i soci non consenzienti e gli organi interni della società, che infatti sono legittimati, in base agli artt.
2377 e 2479-ter, comma 1°, c.c., ad impugnare tali decisioni se la procedura in parola non è stata
rispettata, ma anche, in presenza di carenze particolarmente gravi, i terzi, come si desume dagli artt.
2379 e 2479-ter, comma 3°, c.c., secondo i quali le decisioni aventi oggetto illecito o impossibile e
quelle prese in assenza assoluta di convocazione, o di verbalizzazione, o comunque di
informazione, possono essere impugnate da “chiunque vi abbia interesse”, e dunque anche da
soggetti estranei alla società, come ad es. i creditori sociali).
Quanto invece alle modalità sostanziali di esercizio dei poteri rimasti in capo ai soci
limitatamente responsabili, quelle cioè che si esprimono nel principio della proporzionalità del voto
rispetto al conferimento, occorre ricordare che, con la riforma del 2003, tale principio subisce un
forte ridimensionamento. Da un lato, infatti, in materia di s.p.a., il nuovo art. 2346 c.c., dopo aver
fatto cadere il divieto di emissione delle azioni sotto la pari e averlo sostituito con il divieto di avere
un valore complessivo dei conferimenti inferiore all’ammontare del capitale sociale, stabilisce che
la regola dell’assegnazione delle azioni al singolo socio per un valore non superiore al suo
conferimento, diversamente dal passato, è meramente suppletiva, potendo lo statuto “prevedere una
diversa assegnazione”, senza contare l’ulteriore ridimensionamento arrecato al principio dall’art. 20
del recentissimo d.l. 24 giugno 2014, n. 91, come convertito in l. 116/2014, il quale novella il
quarto comma dell’art. 2351 c.c. eliminando l’antico divieto di emettere azioni a voto plurimo (pur
con la precisazione che ciascuna di tali azioni può avere fino ad un massimo di tre voti). Dall’altro
lato, in materia di s.r.l., si stabilisce sì, con il nuovo art. 2479, comma 5°. c.c., che il voto del socio
vale in misura proporzionale alla partecipazione, la quale è a sua volta proporzionale al
conferimento, ma si stabilisce altresì, con l’altrettanto nuovo art. 2468, comma 2°, c.c., che la
proporzionalità della partecipazione al conferimento può essere derogata dall’atto costitutivo, il
quale potrebbe così prevedere che ad un singolo socio spetti una partecipazione, e dunque un voto,
più che proporzionale rispetto al conferimento, e dunque al rischio assunto con quest’ultimo.
Tutti i suddetti interventi del legislatore hanno in comune, come si diceva poc’anzi e come
risulta evidente già dalla loro descrizione, la caratteristica di implicare costi aggiuntivi rispetto a
quelli sopportati dalle società di persone. Così, ad esempio, è più oneroso l’apporto del socio, in
quanto non solo il complesso dei conferimenti non può essere inferiore ad un capitale minimo ma
questi conferimenti devono anche essere parzialmente o totalmente eseguiti già all’atto della
sottoscrizione; sono più onerose le spese documentali, come quelle notarili (in quanto il notaio
interviene qui obbligatoriamente in sede sia di redazione dell’atto costitutivo che di modificazioni
del medesimo), o come quelle connesse alla stima giurata dei conferimenti di beni in natura o di
crediti; sono più onerose le spese connesse alla pubblicità (in quanto vi sono più atti o fatti da
iscrivere nel registro delle imprese, come ad es. il bilancio); sono più numerose le spese connesse
alla tenuta delle scritture contabili, in quanto le società di capitali, ai sensi dell’art. 18, comma 1°,
d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, come modificato dall’art. 7, comma 2°, lett. m, d.l. 13 maggio
2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio 2011, n. 106), non possono mai essere esonerate dall’obbligo
fiscale di tenuta delle scritture contabili anche allorché i ricavi da esse conseguiti in un anno intero
non abbiano superato l’ammontare di 400.000 euro per le imprese aventi ad oggetto prestazione di
servizi, ovvero di 700.000 per le imprese aventi ad oggetto altre attività; sono più onerose le spese
21
connesse alla nomina degli amministratori e degli eventuali sindaci, attesa la necessità di
determinare i relativi compensi; sono infine più onerose le spese relative al procedimento di
adozione delle decisioni dei soci, atteso il prevalente ricorso al metodo assembleare (basti pensare
ai costi di convocazione e di verbalizzazione).
4.5. La società per azioni.
Nel paragrafo precedente si è constatato come le due società di capitali pure (s.p.a e s.r.l.),
connotate dalla responsabilità limitata di tutti i soci, siano oggetto di una pluralità di interventi del
legislatore volti a tutelare i terzi contro la possibile esternalizzazione del rischio che la suddetta
limitazione della responsabilità comporta: interventi i quali riguardano vuoi il piano patrimoniale
(regole del capitale) e dell’informazione (deposito del bilancio presso il registro delle imprese), vuoi
quello organizzativo (gestione dell’impresa affidata ad un organo ad hoc, procedimentalizzazione
delle decisioni sociali), implicando con ciò costi aggiuntivi rispetto alle società di persone, come tali
sostenibili solo da iniziative di dimensioni non minimali.
I suddetti interventi, e dunque i relativi costi, sono portati alle estreme conseguenze nella
s.p.a., la quale non a caso (come risulta dalla tabella statistica riportata al par. 4.1), assolutamente
minoritaria nella micro e nella piccola impresa, diventa la forma più diffusa nella media e nella
grande impresa, cioè in realtà produttive in grado di sopportare, per le entità delle rispettive risorse,
costi più elevati rispetto alle altre.
I) Così ad esempio, sotto il profilo patrimoniale, si deve segnalare che:
A) la s.p.a presenta il capitale minimo più elevato (50.000 euro: così diminuito rispetto ai
precedenti 120.000 euro in seguito alla modifica dell’art. 2327 c.c. ad opera del d.l. 24 giugno 2014,
n. 91, come convertito in l. 11 agosto 2014, n. 116) e quindi la maggior necessità di concentrazione
di risorse, anche se, a causa della sostanziale mancata rivalutazione dei minimi (dopo la c.d. legge
Pandolfi del 1977), nonostante la incessante riduzione del potere d’acquisto della moneta, il
parametro del capitale ha perso gran parte del suo valore segnaletico in ordine alle dimensioni
dell’impresa;
B) al di sopra del capitale minimo, la s.p.a. consente di raggiungere i più elevati valori di
capitale in quanto è in grado di raccogliere mezzi propri presso una fascia di investitori
potenzialmente assai numerosa rispetto ad altri tipi societari, grazie ad uno strumento come quello
delle azioni (art. 2346 ss. c.c.) le quali, facilitando la circolazione delle partecipazioni in esse
incorporate ed il calcolo del loro valore, rende appetibile l’investimento nella s.p.a. da parte anche
di soggetti non interessati al governo della società ma a riscuotere un dividendo;
C) le c.d. regole del capitale sono nella s.p.a. talora più stringenti che nella s.r.l.: basti
pensare al divieto di conferire opera o servizi (art. 2342, ult. comma, c.c.), o alla necessità che la
stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti sia effettuata da un esperto designato dal
tribunale (art. 2343, comma 1°, c.c.), salve le eccezioni di cui all’art. 2343-ter c.c.
II) Sotto il profilo organizzativo, si devono sottolineare:
A) l’accentuata estraniazione del socio dalla gestione dell’impresa, come risulta dall’art.
2380-bis c.c. che affida tale gestione “esclusivamente” agli amministratori, con la conseguente
impossibilità – diversamente dal passato - che le decisioni in materia possano essere rimesse ai soci
su iniziativa degli stessi amministratori o in virtù di una clausola statutaria, a meno che quest’ultima
si limiti ad investire i soci di un semplice potere autorizzatorio ai sensi dell’art. 2364, n. 5, c.c. La
necessaria presenza dell’organo amministrativo comporta maggiori costi in termini non solo di
strutture logistiche ma anche di compensi ex art. 2389 c.c.: compensi i quali devono oggi tenere
conto della notevole complicazione che l’amministrazione ha assunto nella s.p.a., in termini sia di
funzionamento dell’organo amministrativo (art. 2381, commi da 1° a 4°, c.c.; art. 2388 c.c.), sia di
doveri dei singoli amministratori (basti pensare ai doveri di diligenza qualificata di cui all’art. 2392
c.c., o a quelli di fedeltà di cui agli artt. 2391 e 2391-bis c.c., o a quelli di informazione e
monitoraggio di cui agli ultimi due commi dell’art. 2381 c.c.);
22
B) l’estraniazione del socio anche dai controlli sull’amministrazione, siano essi di legalità,
di merito o contabili, in quanto i primi due risultano affidati al collegio sindacale (art. 2403 c.c.), il
terzo a un revisore legale dei conti o società di revisione legale (art. 2409-bis c.c.), con i relativi
incomprimibili maggiori costi in termini di compensi e di strutture logistiche;
C) la possibile parziale estraniazione del socio persino dai poteri deliberativi che egli
dovrebbe detenere quale membro dell’assemblea, con affidamento dei medesimi ad altri organi e
dunque aumento dei costi quantomeno in termini di compensi dovuti a questi ultimi: si pensi
all’ipotesi in cui lo statuto opti per uno dei sistemi alternativi di amministrazione e controllo di cui
all’art. 2380 c.c., in quanto, se viene scelto il sistema dualistico, l’assemblea ordinaria perde il
potere di approvare il bilancio e di nominare gli amministratori, il quale passa al consiglio di
sorveglianza (artt. 2364-bis e 2409-terdecies c.c.), mentre, se viene scelto il sistema monistico, la
medesima assemblea perde il potere di nominare l’organo di controllo, i cui componenti vengono
designati dal consiglio di amministrazione al proprio interno (art. 2409-octiesdecies c.c.); si pensi,
ancora, alle rilevanti decisioni dell’assemblea straordinaria che lo statuto, ai sensi dell’art. 2365,
comma 2°, c.c., può attribuire alla competenza dell’organo amministrativo, o del consiglio di
sorveglianza, o del consiglio di gestione.
III) All’interno del tipo s.p.a. i descritti vincoli patrimoniali e organizzativi potrebbero
subire attenuazione o aggravamento a seconda delle dimensioni della singola società o del suo
posizionamento sul mercato dei capitali. Così, ad es.:
A) ai sensi dell’art. 2435-bis c.c., la s.p.a. può redigere il bilancio in forma abbreviata
quando, nel primo esercizio o, successivamente, per due esercizi consecutivi, non abbia superato
due dei seguenti limiti: 1) totale dell’attivo dello stato patrimoniale 4.400.000 euro; 2) ricavi delle
vendite e delle prestazioni 8.800.000 euro; 3) dipendenti occupati in media durante l’esercizio 50
unità;
B) nelle s.p.a che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio ai sensi dell’art. 2325-bis
c.c.: 1) deve essere data pubblicità ai patti parasociali a norma dell’art. 2341-ter c.c.; 2) la revisione
legale dei conti non può essere affidata al collegio sindacale (art. 16 d.lgs. n. 39/2010); 3) non
possono essere previste cause statutarie di recesso ulteriori rispetto a quelle legali (art. 2437, comma
4°, c.c.); 4) nelle convocazioni successive alla seconda l’assemblea straordinaria è costituita con la
presenza di tanti soci che rappresentino almeno un quinto (anziché un terzo) del capitale sociale
(art. 2369, comma 7°, c.c.); 5) il controllo giudiziario di cui all’art. 2409 c.c. può essere attivato
anche su richiesta del pubblico ministero;
C) alle s.p.a. quotate in mercati regolamentati, oltre alla disciplina di cui alla lettera b, si
applicano ulteriori disposizioni ancora più restrittive come il divieto di redigere il bilancio in forma
abbreviata (art. 2435-bis, comma 1°, c.c.), la sottoposizione istituzionale al controllo della Consob
(art. 113 ss. t.u.f.), nonché, se la quotazione ha ad oggetto le azioni, il rigoroso regime pubblicitario
e organizzativo di cui agli artt. 120 ss. t.u.f.
4.6. La società a responsabilità limitata.
Dalla tabella statistica riportata al par. 4.1 risulta che, all’interno delle società di capitali, la
s.r.l. prevale nettamente rispetto alla s.p.a. nelle microimprese (13,4% contro lo 0,3%) e nelle
piccole imprese (55,9% contro il 6,3%), dove essa rappresenta anzi la forma maggioritaria, mentre
viene dalla s.p.a. sia pur di poco superata nelle medie imprese (40,2% contro il 40,6%). Quali le
ragioni che rendono più utilizzata la s.r.l. rispetto alla s.p.a., pur caratterizzate entrambe dalla
responsabilità limitata di tutti i soci per le obbligazioni sociali, nelle due categorie dimensionali
minori?
4.6.1. I profili patrimoniali della s.r.l.
23
I) Sotto questo aspetto, la scelta della s.r.l. da parte delle imprese minori interessate al
beneficio della responsabilità limitata potrebbe intanto risultare obbligatoria per legge,
giacché:
a) per la s.r.l. è previsto in linea di principio un capitale minimo di soli 10.000 euro (art.
2463, comma 2°, n. 4, c.c.), o addirittura di un euro (v. oltre, II a), contro i 50.000 della s.p.a.: il che
rende necessario il ricorso alla s.r.l. da parte di imprese le cui dimensioni in termini di capitale sono
troppo esigue per accedere alla s.p.a. (anche se, non essendo stato fissato un capitale massimo, non
è escluso l’impiego della s.r.l. anche per iniziative di dimensioni pari a quelle della s.p.a.). Si deve
comunque ripetere qui ciò che si è già avuto occasione di dire a proposito di quest’ultima, e cioè
che, a causa della sostanziale mancata rivalutazione dei minimi dopo la c.d. legge Pandolfi del 1977
nonostante la coeva riduzione del potere d’acquisto della moneta, il parametro del capitale ha perso
gran parte del suo valore segnaletico in ordine alle dimensioni dell’impresa, ragione per cui è
pensabile che una s.r.l. con capitale di soli 10.000 (o anche addirittura di un solo euro) possa essere
un’impresa di dimensioni non esigue qualora i suoi “mezzi propri” fossero costituiti, oltre che dal
capitale sociale, da ulteriori apporti a fondo perduto dei soci non imputati a capitale;
b) l’impresa artigiana (piccola impresa ai sensi dell’art. 2083 c.c.) non può costituirsi in
forma di s.p.a. mentre ben può costituirsi in forma di s.r.l., sia unipersonale che pluripersonale,
(artt. 3 e 5 l. 8 agosto 1985, n. 443, come modificati dalla l. 20 maggio 1997, n. 133, e dalla l. 5
marzo 2001, n. 57).
II) La scelta della s.r.l. potrebbe essere motivata dal fatto che le regole del capitale sono
in essa tendenzialmente meno stringenti, e dunque meno costose, che nella s.p.a. Infatti:
a) riguardo al capitale minimo, non solo la cifra ordinaria di 10.000 euro – come si diceva
poc’anzi – è di ben cinque volte inferiore a quella della s.p.a., ma può essere addirittura
ulteriormente contratta, sia pure in via eccezionale: ad esempio, in base al nuovo art. 2463-bis c.c.
(come introdotto dal d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27), qualunque
persone fisica può dar vita ad una “società a responsabilità limitata semplificata” con capitale da 1 a
9999 euro ed esenzione dalle spese notarili, mentre chiunque (anche persona giuridica), in base al
nuovo comma 4° dell’art. 2463 (come introdotto dal d.l. 28 giugno 2013, n. 76, convertito in l. 9
agosto 2013, n. 99), può costituire una s.r.l. ordinaria con capitale inferiore a 10.000, purché pari ad
almeno 1 euro;
b) in ordine ai conferimenti in danaro, stabilisce l’art. 2464, comma 4°, periodo 2°, c.c.
(richiamato, per l’aumento di capitale, dall’art. 2481-bis, comma 4°, c.c.) che il versamento parziale
o totale di tali conferimenti da effettuarsi all’atto della sottoscrizione può essere sostituito dalla
stipula, per un importo almeno corrispondente, di una polizza di assicurazione o di una fideiussione
bancaria con le caratteristiche determinate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri,
sostituibile a sua volta in ogni momento con il versamento del corrispondente importo in danaro da
parte del socio: una soluzione che, in assenza di vincoli comunitari per la s.r.l. in materia di
conferimenti, mira (a detta della Relazione di accompagnamento al d.lgs 6/2003, § 11) a consentire
il decollo di iniziative imprenditoriali «pur nell’attuale mancanza di valori oggettivamente
accertabili»;
c) quanto ai conferimenti di beni in natura e di crediti, l’art. 2465 c.c. semplifica la
procedura di valutazione dei medesimi rispetto alla s.p.a., da un lato, affidando la relazione giurata
di stima non più ad un esperto nominato dal tribunale, ma ad un soggetto incaricato dal conferente,
pur dovendosi trattare di un revisore legale dei conti o di una società di revisione legale iscritti
nell’apposito registro, e, dall’altro, abolendo completamente, almeno in apparenza, il controllo di
merito su tale relazione rappresentato, nella s.p.a., dalla revisione della stima ad opera di
amministratori e sindaci;
d) l’art. 2464, comma 6°, c.c. (richiamato dall’art. 2481-bis, comma 4°, c.c. per il caso di
aumento del capitale sociale) autorizza nella s.r.l. quel conferimento d’opera o di servizi che è
consentito nelle società di persone ma non nella s.p.a. (assecondando in tal modo – secondo le
espressioni della citata Relazione di accompagnamento, § 11 - «la caratterizzazione personalistica
24
di questo tipo societario nel quale il contributo del socio molto spesso si qualifica per le sue qualità
personali e professionali piuttosto che per il valore oggettivo dei beni apportati»), anche se dispone
come contropartita a tale libertà, nell’interesse dei terzi, che gli obblighi assunti dal socio aventi ad
oggetto la prestazione d’opera o di servizi a favore della società siano garantiti, per l’intero valore
ad essi assegnato, da una polizza assicurativa o da una fideiussione bancaria, cioè da
un’obbligazione pecuniaria assunta da soggetti normalmente caratterizzati da un elevato grado di
solvibilità.
III) Un ultimo fattore di attrazione del tipo s.r.l. da parte delle imprese più piccole
potrebbe essere rappresentato dalla relativamente minor mole, e dunque minore costosità, di
alcuni adempimenti e di alcune forme (pubblicitarie o meno).
Si pensi ad esempio ai libri sociali, diversi da quelli contabili, che la società deve
obbligatoriamente tenere: libri i quali sono molto più numerosi nella s.p.a. che nella s.r.l., come
emerge da un semplice confronto fra gli artt. 2421 e 2478 c.c.. Dall’elenco contenuto in
quest’ultima norma è stato tra l’altro recentemente espunto (art. 16, comma 12-septies, lett. a, d.l.
185/2008, convertito in l. 2/2009) il libro dei soci, con importanti riflessi, da un lato, sul terreno del
trasferimento delle partecipazioni, per la cui opponibilità alla società non viene più richiesta, come
avveniva in passato e come avviene ancora oggi per la s.p.a., la trascrizione in tale libro (art. 2470,
commi 1° e 2°, c.c.), e dall’altro sul terreno della pubblicità, in quanto non si applica più alla s.r.l.
(art. 2478-bis, comma 2°, c.c.) la norma dell’art. 2435, comma 2°, c.c. che prevede per la s.p.a. il
deposito annuale presso il registro delle imprese dell’elenco dei soci e dei titolari diritti o beneficiari
di vincoli sulle partecipazioni.
A ciò si aggiunga che il processo di formazione del bilancio può risultare più spedito in
quanto, da un lato, allorché la s.r.l. non nomini un organo di controllo (e si tratta della stragrande
maggioranza dei casi), non occorrono gli adempimenti di cui all’art. 2429 c.c., mentre, dall’altro,
non è necessaria la celebrazione di un’assemblea per l’approvazione del bilancio allorché tale
decisione sia compresa fra quelle da adottarsi, per volontà dell’atto costitutivo ai sensi dell’art.
2479, comma 3°, c.c., mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto.
Si considerino infine le formalità richieste per la stipulazione dell’atto costitutivo, il quale,
nella s.r.l. semplificata, deve sì essere redatto per atto pubblico come in quella ordinaria (art. 2463bis, comma 2°, c.c.), ma con esenzione dagli oneri notarili e dai diritti di bollo e segreteria dovuti
per l’iscrizione nel registro delle imprese (art. 3, comma 3°, d.l. 1/2012).
4.6.2. I profili organizzativi della s.r.l.
Le esigenze di una compagine sociale ristretta, tendenzialmente partecipe alle vicende
sociali e intrinsecamente caratterizzata al proprio interno dalla sussistenza di rapporti reciproci di
natura fiduciaria, trovano appagamento nella s.r.l., ancora più che sotto il profilo patrimoniale
(segnato in fondo, come nella s.p.a., dalla responsabilità limitata per le obbligazioni sociali, con le
connesse esigenze di tutela dei terzi), sotto il profilo organizzativo. Infatti, pur nell’assetto di fondo
tipicamente capitalistico, il regime legale della s.r.l. scaturente dalla riforma presenta tratti di
notevole attenuazione rispetto all’archetipo capitalistico puro rappresentato dalla s.p.a.:
attenuazione nel senso di un maggior peso attribuito alla posizione dei soci.
I) Il maggior rilievo della posizione del socio nel modello legale.
Tale maggior peso, imposto già in sede di delega al Governo per la riforma del diritto
societario (art. 3 l. 3 ottobre 2001, n. 366) attraverso il principio della “rilevanza centrale del socio”,
si manifesta intanto già a livello delle funzioni di controllo sull’operato degli amministratori: simile
controllo infatti, che nella s.p.a. – come si è visto - è sottratto ai soci per essere affidato ad un
collegio sindacale e ad un revisore legale dei conti, corrisponde nella s.r.l., proprio come nelle
società di persone, ad un vero e proprio diritto individuale del socio (art. 2476, comma 2°, c.c.), a
cui si affianca un organo di controllo obbligatorio solo a partire da certi livelli dimensionali (v.
oltre, par. 4.6.3). A ciò si aggiunga che, in esito a tale controllo, ciascun socio (e non il solo
detentore di una quota qualificata del capitale sociale come nella s.p.a.) ha il potere di promuovere
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l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori nonché di chiedere, in caso di gravi
irregolarità nella gestione della società, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli
amministratori medesimi (art. 2476, comma 3°, c.c.).
Ma il maggior rilievo della persona del socio nella s.r.l. rispetto alla s.p.a. si manifesta,
sempre a livello di regime legale, con riferimento alla vera e propria gestione dell’impresa. Infatti,
diversamente dalla s.p.a. dove l’art. 2380-bis, comma 1°, c.c. riserva tale gestione “esclusivamente”
agli amministratori (con la conseguente impossibilità per questi ultimi di sottoporre atti gestori
all’esame dell’assemblea, come avveniva in passato in base all’abrogato art. 2364, n. 4, c.c.), nella
s.r.l. sussiste in capo alla collettività dei soci una competenza concorrente con quella degli
amministratori (visto che, ai sensi dell’art. 2479, comma 1°, c.c., i soci possono decidere su
qualsivoglia “argomento”, dunque anche gestorio, venga sottoposto alla loro approvazione da uno o
più amministratori o dai titolari di almeno un terzo del capitale sociale, con la sola esclusione,
forse, delle poche materie che l’ultimo comma dell’art. 2475 c.c. riserva all’organo amministrativo).
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 2479, comma 2°, n. 5, c.c., alcune operazioni gestionali di
vertice, le quali normalmente sarebbero appannaggio degli amministratori, vengono riservate alla
competenza dei soci addirittura per legge, senza bisogno della sollecitazione di cui sopra .
Viene così realizzato per la s.r.l. quello schema di società intermedia fra società di persone e
s.p.a. di cui parlano anche i lavori preparatori della riforma: schema nel quale, pur prevedendosi la
presenza di amministratori come organo separato dalla collettività dei soci, questi ultimi, potendo
avocare a sé in ogni momento decisioni in materia di gestione dell’impresa, rivestono in tale materia
un ruolo preminente, quasi gerarchicamente sovraordinato, rispetto agli amministratori (secondo,
del resto, un modello adottato in Germania e in Spagna, dove è possibile all’assemblea, anche
indipendentemente da ogni disposizione in tal senso dell’atto costitutivo, intervenire nella gestione
dell’impresa impartendo istruzioni vincolanti agli amministratori o comunque limitando i loro
poteri). Si tratta di uno schema che è stato qualificato fin dall’origine in dottrina - con
un’espressione che ha avuto una certa fortuna - come “capitalistico attenuato”, e che in ogni caso, al
di là delle qualificazioni, risulta sostanzialmente coerente con il principio della “rilevanza centrale
del socio” enunciato dalla legge delega.
II) Il maggior rilievo della posizione del socio nell’autonomia statutaria.
E’ noto come sia rilevante nella s.r.l. il ruolo dell’autonomia statutaria, in particolare proprio
in materia di organizzazione: lo dimostra il passo del già citato art. 3 della legge delega per la
riforma del diritto societario in cui si impone al legislatore delegato di riconoscere ampia autonomia
statutaria riguardo alle strutture organizzative e ai procedimenti decisionali della società
Sotto questo profilo, è unanimemente riconosciuto che l’atto costitutivo di una s.r.l. possa
ulteriormente accentuare la rilevanza del socio attraverso l’adozione di un modello statutario di
organizzazione tendenzialmente personalistico.
Lo si desume principalmente da due fonti. La prima fonte (il comma 1° dell’art. 2479 c.c.)
stabilisce che i soci decidono sulle “materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo”:
disposizione chiosata dalla Relazione di accompagnamento al d. lgs. n. 6/2003, § 11, nel senso che
spetta al contratto sociale, in particolare, “distribuire le competenze tra soci e amministratori”, con
la conseguenza che materie appartenenti nel regime legale agli amministratori potrebbero dall’atto
costitutivo essere rimesse in via esclusiva alla decisione dei soci: decisione, per giunta, che lo stesso
atto costitutivo, in base al comma 3° dell’art. 2479 c.c., potrebbe più o meno largamente
deprocedimentalizzare attraverso la previsione di meccanismi extrassembleari. La seconda fonte (il
comma 3° dell’art. 2468 c.c.) autorizza l’atto costitutivo a prevedere l’attribuzione a singoli soci di
particolari diritti riguardanti, tra l’altro, appunto “l’amministrazione della società”. Da entrambe le
fonti, come si vede, si desume la possibilità per l’autonomia statutaria di incardinare in capo ai soci
- si tratti della collettività di essi oppure del singolo socio - un vero e proprio potere di gestione
dell’impresa sociale, appunto come accade in una s.n.c. Tale scelta viene spiegata dalla ricordata
Relazione di accompagnamento al decreto delegato con la considerazione per cui, dopo la generale
ammissibilità della società unipersonale a responsabilità limitata, la limitazione di responsabilità
26
“non può più ritenersi necessariamente presupporre una rigida struttura corporativa” (in altre parole,
una volta ammesso che il socio unico goda del beneficio della responsabilità limitata pur
esercitando un dominio incondizionato sulla società, non si vede perché dello stesso beneficio non
debba godere un socio chiamato statutariamente, in una società pluripersonale, ad una
partecipazione diretta al governo della medesima senza intermediazione di organi o procedure).
III) Ristrettezza e potenziale chiusura della compagine sociale.
Se si considera che un’impresa di ridotte dimensioni, fino a quando rimane tale, non ha
necessità di reclutare molti soci e quindi non abbisogna degli strumenti che assicurino il facile
allargamento e la facile intercambiabilità della base sociale, e che, per giunta, i pochi soci, essendo
normalmente più coinvolti nel governo della società ed essendo fra di loro vincolati da rapporti di
reciproca conoscenza e fiducia, spesso di carattere familiare, sono interessati a mantenere inalterati
sia il proprio peso specifico all’interno della società sia la composizione personale della medesima,
si può osservare che:
a) il carattere ristretto della compagine sociale è assicurato dalla disposizione dell’art. 2468,
comma 1°, in base alla quale, nella s.r.l., le partecipazioni dei soci, diversamente da quanto accade
nella s.p.a., non possono essere rappresentate da azioni né possono costituire oggetto di offerta al
pubblico di prodotti finanziari, in tal modo impedendosi che la compagine sociale possa facilmente
e repentinamente mutare grazie alla agevole trasferibilità di un titolo di credito o possa facilmente e
repentinamente allargarsi grazie ad una operazione di sollecitazione del pubblico risparmio;
b) l’interesse del socio a mantenere inalterata la propria posizione all’interno della società è
assicurato da norme come quella dell’art. 2481-bis, comma 1°, c.c. in base alla quale il diritto di
sottoscrivere l’aumento di capitale non può essere escluso o limitato a maggioranza dalla delibera di
aumento (diversamente da quanto previsto per la s.p.a. dall’art. 2441 c.c.), o come quelle in base
alle quali le quote di partecipazioni non possono subire modificazioni né in sede di aumento
gratuito del capitale sociale (art. 2481-ter c.c.) né in sede di riduzione del medesimo per perdite (art.
2482-quater c.c.);
c) l’eventuale interesse dei soci a mantenere inalterata, per ragioni di omogeneità e fiducia
reciproca, la composizione originaria della base sociale è garantito dalla possibilità, per l’atto
costitutivo, di vincolare in ogni modo la circolazione della partecipazione (art. 2469 c.c.), mentre
tale possibilità, nella s.p.a., da un lato riguarda le sole azioni nominative e dall’altro non può
consistere nel divieto definitivo di alienare (art. 2355-bis c.c.); si consideri inoltre che, diversamente
dalla s.p.a., la presenza di un limite statutario al trasferimento della partecipazioni ha una certa
efficacia anche nei confronti dei terzi in quanto produce riflessi sulla espropriazione della medesima
da parte dei creditori particolari del socio condizionandone lo svolgimento (art. 2471, comma 3°,
c.c.).
4.6.3. I diversi regimi giuridici della s.r.l.
La disciplina della s.r.l. non è monolitica ma varia più o meno radicalmente al variare di
singoli elementi di volta in volta evidenziati dal legislatore.
Così, ad esempio, in virtù del rinvio operato dall’art. 2478-bis all’art. 2435-bis c.c., anche la
s.r.l., come la s.p.a., può redigere il bilancio in forma abbreviata quando, nel primo esercizio o,
successivamente, per due esercizi consecutivi, non abbia superato due dei seguenti limiti: 1) totale
dell’attivo dello stato patrimoniale 4.400.000 euro; 2) ricavi delle vendite e delle prestazioni
8.800.000 euro; 3) dipendenti occupati in media durante l’esercizio 50 unità;
Si pensi, a titolo di ulteriore esempio, al sistema adottato in caso di pluralità di
amministratori, il quale, se basato sull’opzione statutaria per l’amministrazione disgiuntiva o
congiuntiva anziché collegiale, comporta l’applicazione degli artt. 2257 e 2258 c.c. anziché di quelli
regolanti il consiglio di amministrazione (art. 2475, comma 3°, c.c.), con un effetto di
semplificazione delle decisioni gestorie del tutto identico a quello delle società di persone.
Si pensi, ancora, all’ipotesi in cui i soci, come collettività o come singoli, siano stati
investiti dall’atto costitutivo, sulla base dei già ricordati artt. 2479, comma 1° e 2468, comma 3°,
27
c.c., di poteri in materia di gestione dell’impresa, nel qual caso essi sono solidalmente responsabili
con gli amministratori, ai sensi dell’art. 2476, comma 7°, c.c., se hanno intenzionalmente deciso o
autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi.
Sempre sotto il profilo organizzativo, si consideri la materia di controlli. Accanto infatti al
controllo individuale del socio, che abbiamo visto operare per tutte le s.r.l., queste ultime, in base
all’art. 2477 c.c. (così come modificato, da ultimo, dal d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito in l. 4
aprile 2012, n. 35, e dal d.l. 24 giugno 2014, n. 91, convertito in l. 11 agosto 2014, n. 116), devono
altresì dotarsi di un organo di controllo o di un revisore legale dei conti allorché, anche in
alternativa: a) per due esercizi consecutivi sono stati superati due dei limiti indicati dal primo
comma dell'articolo 2435-bis c.c. (vale a dire totale dell’attivo dello stato patrimoniale pari a
4.400.000 euro; ricavi delle vendite e delle prestazioni pari a 8.800.000 euro; dipendenti occupati in
media durante l’esercizio pari a 50 unità); b) la s.r.l. è tenuta alla redazione del bilancio consolidato;
c) la s.r.l. controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti. In tali casi si applica la
disciplina della s.p.a., anche se, diversamente da questa, l’organo di controllo può essere costituito
da un sindaco unico anziché da un collegio sindacale.
Ma le ipotesi forse più eclatanti di diversificazione normativa all’interno della s.r.l. sono
quelle che derivano dalle nuove subfattispecie di questo tipo societario introdotte dalla recente
decretazione d’urgenza. Un esempio è rappresentato dall’ipotesi in cui la s.r.l. si costituisca con
capitale inferiore a 10.000 euro, com’è consentito sia per la s.r.l. ordinaria (art. 2463, comma 4°,
c.c.) che per la s.r.l. semplificata (art. 2463-bis c.c.): ipotesi per la quale, diversamente da quanto
avviene nella s.r.l. con capitale pari o superiore a 10.000 euro, è previsto, da un lato, che il
conferimento debba essere effettuato necessariamente in danaro e interamente versato all’atto della
costituzione e, dall’altro, che – trattandosi di s.r.l. semplificata – la costituzione possa avvenire
solamente da parte di persone fisiche e l’atto costitutivo debba essere conforme ad un modello
standard tipizzato a livello governativo come condizione per fruire dell’esenzione dai diritti di bollo
e di segreteria e dagli oneri notarili (v. oltre, par. 5.1). Un ulteriore esempio è rappresentato
dall’ipotesi in cui la s.r.l. sia una start-up innovativa, cioè presenti, fra altre caratteristiche, quelle di
avere come oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione e la
commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico, di essere costituita e
di svolgere attività d'impresa da non più di quarantotto mesi e di aver fatto registrare, a partire dal
secondo anno di attività, un valore della produzione annua non superiore a 5 milioni di euro: ipotesi
per la quale l’art. 26 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in l. 17 dicembre 2012, n. 221,
prevede una serie di eccezioni rispetto alla disciplina della s.r.l. ordinaria, come ad esempio quella
per cui, in deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, comma 1°, c.c., le quote di partecipazione in
start-up innovative costituite in forma di s.r.l. possono costituire oggetto di offerta al pubblico di
prodotti finanziari, anche attraverso appositi portali telematici (v. oltre, al par. 5.2).
Come si vede, la presenza, all’interno del tipo s.r.l., di ulteriori articolazioni o sottotipi fa sì
che di una fattispecie concreta qualificabile come s.r.l. gli operatori debbano altresì valutare
attentamente l’appartenenza o meno ad una o più delle suddette articolazioni, giacché tale
appartenenza potrebbe comportare l’applicazione alla fattispecie in parola di una disciplina
parzialmente diversa da quella applicabile ad altre fattispecie pure riconducibili al tipo s.r.l. e
dunque orientare la scelta dei suddetti operatori in relazione alle proprie esigenze in termini di
partecipazione e di costi nella struttura organizzativa.
4.7. La società cooperativa (a cura del prof. Emanuele Cusa).
I) Premessa
I dati statistici riportati nel § 4.1 (non comprensivi però delle società cooperative operanti nel
settore agricolo, pari a circa a 15.000 unità) evidenziano come le società cooperative, quasi assenti
nelle microimprese (0,8%), sopravanzano gli imprenditori individuali e le società di persone in
modo direttamente proporzionale alla crescita dimensionale dell’impresa, raggiungendo il
28
14,7% delle medie imprese (contro, per la medesima dimensione imprenditoriale, lo 0,5%
costituito dagli imprenditori individuali e il 2,7% costituito dalle società di persone). Da segnalare
inoltre che, secondo dati statistici (aggiornati al 2010) forniti da Confcooperative (la principale
associazione di rappresentanza del movimento cooperativo italiano), il 99,1% delle società
cooperative attive in Italia sono da qualificarsi (secondo la definizione comunitaria) come PMI.
Il fatto che le cooperative siano preferite rispetto alle imprese individuali e alle società di
persone al crescere della dimensione imprenditoriale è probabilmente dovuto non solo alla
necessaria responsabilità limitata dei soci delle prime per le obbligazioni sociali, ma anche (e
direi soprattutto) al loro necessario carattere aperto e democratico e alla loro peculiare forma
organizzativa concepita per perseguire (almeno principalmente, in ogni caso necessariamente)
uno specifico obiettivo: lo scopo mutualistico. Scopo, quest’ultimo, che si può succintamente
descrivere nel senso che i cooperatori della cooperativa, proprio grazie all’esercizio in comune
dell’impresa sociale, soddisfano direttamente propri bisogni (innanzi tutto) economici. Sicché, ad
esempio nelle cooperative di lavoro, la cooperativa offre ai soci lavoratori occasioni di lavoro,
coinvolgendoli direttamente nell’esercizio dell’impresa sociale come contraenti con la stessa loro
società (realizzandosi così il cosiddetto, necessario scambio mutualistico tra soci cooperatori e
cooperativa). In funzione del necessario perseguimento dello scopo mutualistico, alle cooperative
è imposto una più o meno significativa limitazione dello scopo lucrativo (a seconda che siano
cooperative a mutualità prevalente o non lo siano, dovendo le prime rispettare l’art. 2514 c.c.), il
cui perseguimento è comunque eventuale; con la conseguenza che per il diritto comune possono
legittimamente esistere cooperative nonprofit (aventi cioè un divieto statutario di dividere in
qualsiasi momento gli utili tra i soci).
Diversamente dai tipi societari lucrativi, la società cooperativa è un unico tipo societario
includente quattro (non già sottotipi, bensì) modelli legali, attorno ai quali sono state costruite
quattro corrispondenti discipline: (i) il modello della cooperativa basata sulla disciplina della s.p.a.
(coop-s.p.a.) è stato concepito avendo a mente una società con tanti cooperatori (normalmente
disinteressati a gestire personalmente l’impresa o comunque a influenzarne direttamente la
gestione, come parrebbe emergere dall’art. 2545-bis, comma 1°, c.c.) ed esercente un’impresa non
di piccole dimensioni, potenzialmente bisognosa di investimenti in capitale di rischio effettuati
anche da persone diverse dai cooperatori; (ii) il modello della cooperativa basato sulla disciplina
della s.r.l. (coop-s.r.l., con il sub-modello rappresentato dalla piccola coop-s.r.l., disciplinato
dall’art. 2522, comma 2°, c.c.) è stato concepito avendo a mente una società esercente
(argomentando dall’art. 2519, comma 2°, c.c.) una piccola impresa (anzi una microimpresa, se ci
si avvale della definizione comunitaria di microimprese) e con una compagine sociale costituita da
pochi cooperatori interessati a gestire personalmente l’impresa o comunque a influenzare
direttamente la gestione della stessa; (iii) il modello cooperativa a mutualità prevalente è stato
concepito avendo a mente la cooperativa massimamente coerente con il paradigma costituzionale
(ovverosia quella con « carattere di mutualità » e « senza fini di speculazione privata », ai sensi
dell’art. 45 Cost.), il quale è stato tradotto dalla legislazione ordinaria principalmente mediante gli
artt. 2512-2514 c.c.; (iv) il modello cooperativa a mutualità non prevalente è stato concepito
avendo a mente le cooperative prive dei tratti funzionali del precedente modello. Questi quattro
modelli possono nella realtà combinarsi nel seguente modo: una coop-s.p.a. può essere a mutualità
prevalente o non essere non a mutualità prevalente, al pari di una coop-s.r.l. che può essere a
mutualità prevalente o non essere a mutualità prevalente. Naturalmente, chi applica la disciplina
delle cooperative è tenuto ad utilizzare tali modelli (essendo essi legali e non meramente
sociologici e/o economici), nel momento in cui è chiamato ad interpretarla e ad integrarla
analogicamente.
Secondo i dati forniti dal Ministero dello sviluppo economico il 57% delle cooperative
italiane (almeno nel 2007, ma è da ritenersi che negli ultimi anni sia cresciuto il numero delle
cooperative in forma di coop-s.r.l.) è in forma di coop-s.p.a. e il 94,79% delle cooperative italiane
(secondo i dati aggiornati al 2010) osserva il modello della cooperativa a mutualità prevalente.
29
La disciplina delle cooperative si distingue da quella degli altri tipi societari per l’operare
di un particolare parametro: il numero dei soci. Questo parametro, benché sia stato utilizzato per
modulare anche la disciplina dell’impresa societaria lucrativa, assume certamente un’importanza
di gran lunga maggiore nella regolazione delle cooperative. Il legislatore ha infatti correlato
diverse quantità di soci a frammenti dell’ordinamento cooperativo in funzione di queste tre
fondamentali caratteristiche dell’impresa cooperativa: essere un’attività (i) economica, (ii)
mutualistica e (iii) democraticamente controllata. Legate al carattere economico e mutualistico
dell’impresa sono le disposizioni fissanti compagini sociali minimali. In effetti, la cooperativa, per
essere tale, non deve limitarsi a perseguire uno scopo mutualistico (art. 2511 c.c.), ma deve farlo
esercitando un’attività economica (argomentando dall’art. 2247 c.c.), poiché è un’organizzazione
societaria; per conseguenza, il codice civile impone alla cooperativa di avere una compagine
sociale composta da almeno nove soci – o da almeno tre soci in caso di piccole imprese
mutualistiche – poiché ciò fa presumere che l’attività sociale, prima di essere mutualistica (ossia
rivolta soltanto od anche ai cooperatori), sia almeno economica (ossia non in perdita, in ragione di
un numero insufficiente di beneficiari). Legate invece al necessario carattere democratico sono, ad
esempio, gli artt. 2519 e 2522 c.c., mediante i quali le cooperative sono bipartite in coop-s.p.a. e in
coop-s.r.l. Una volta chiarito che democrazia cooperativa significa essenzialmente avere
un’organizzazione capace di garantire una reale partecipazione dei soci alla vita sociale,
l’imposizione del modello coop-s.p.a. alla cooperativa con un’ampia compagine sociale e con
un’impresa non piccola significa salvaguardare la partecipazione dei soci mediante una sua
procedimentalizzazione con significativi tratti di imperatività. Diversamente, in presenza di
compagini sociali ristrette, il modello coop-s.r.l. è l’ideale o addirittura obbligatorio (quando i soci
sono compresi tra tre e otto), essendo quest’ultimo modello per lo più imperniato sull’autotutela
dei soci (presumibilmente, questi ultimi, imprenditori di sé stessi). Naturalmente, più cresce la
compagine sociale, più è difficile garantire una partecipazione diretta di tutti i soci alla vita
sociale; ecco dunque che il legislatore, in presenza di compagini sociali con determinate
caratteristiche, addirittura ne impone il frazionamento in assemblee separate (art. 2540, comma 2°,
c.c.), realizzandosi così una sorta di democrazia indiretta, l’unica possibile quando sono molti i
titolari dei diritti di partecipazione. In questo quadro è però da segnalarsi un’incoerenza del
legislatore, allorquando consente alla cooperativa con un numero illimitato di soci di prescegliere
il modello coop-s.r.l., a condizione che eserciti una piccola impresa (avente cioè un attivo dello
stato patrimoniale non superiore ad un milione di euro, ai sensi dell’art. 2519, comma 2°, c.c.).
II) Strumenti a tutela dei terzi e della collettività.
Come per le società di capitali, così per le società cooperative, il legislatore, a fronte della
responsabilità limitata dei soci per le obbligazioni sociali, ha concepito una serie di strumenti
(s ul pi ano p at rim on ial e, i n fo rm ati vo e organ izz ati vo ) vo lti a evitare che il rischio
di impresa si trasferisca interamente dai soci ai creditori, ai terzi e alla collettività nel suo
complesso; strumenti che, come per le società di capitali, presentano dei costi aggiuntivi rispetto a
quelli di una struttura caratterizzata dalla responsabilità illimitata dei soci.
A) Regole a salvaguardia del patrimonio netto.
La società cooperativa deve avere partecipazioni sociali con (indicazione espressa del)
valore nominale e un capitale sociale variabile (ossia non nominale in ragione del fatto che il
valore del capitale non può corrispondere al contenuto di una clausola statutaria). Da questo
specifico dato strutturale deriva che (in linea di principio e salvo eccezioni) la riduzione del
capitale sociale, al pari del suo aumento, non deve essere di competenza dell’assemblea
(straordinaria, in caso di coop-s.p.a.) dei soci chiamata a modificare l’atto costitutivo o
dell’organo gestorio a ciò delegato. Il che costituisce, in termini di costi, un vantaggio per le
cooperative rispetto alle società di capitali (non dovendo le prime richiedere l’intervento del
notaio per variare il capitale sociale), solitamente giustificato in ragione del loro carattere
necessariamente aperto (ora sancito nella rubrica dell’art. 2528 c.c.).
30
Per le cooperative, a differenza delle società di capitali (diverse dalle s.r.l. regolate
dagli artt. 2463, comma 4° e 2463-bis c.c.), il diritto comune non prevede nemmeno un capitale
sociale minimo (significativo), potendo per le coop-s.r.l. corrispondere a 75 euro [pari al
prodotto del valore nominale minimo della partecipazione sociale (25 euro) per il numero
minimo di soci in tale modello (tre)] e per le coop-s.p.a. a 225 euro [pari al prodotto del valore
nominale minimo della partecipazione sociale (25 euro) per il numero minimo di soci in tale
modello (nove)]. Il che costituisce un ulteriore vantaggio per le cooperative rispetto alle società
di capitali. Da segnalarsi in proposito che, secondo i dati (aggiornati al 2010) forniti da
Confcooperative, più del 76% delle PMI cooperative attive ha un capitale sociale inferiore a
10.000 euro.
Dal decreto Ministro della Giustizia 23 giugno 2012, n. 138 (contenente il « modello
standard di atto costitutivo e statuto della società a responsabilità limitata semplificata ») si ricava
che le coop-s.r.l. non possono essere costituite avvalendosi delle agevolazioni (relative al diritto di
bollo e di segreteria e agli onorari notarili) previste per le s.r.l. semplificate di cui all’art. 2463-bis
c.c.
Le cooperative possono essere invece start-up innovative ai sensi dell’art. 25 d.l. 18 ottobre
2012, n. 179 (conv. dalla l. 18 ottobre 2012, n. 221), ovvero piccole e medie imprese innovative ai
sensi dell’art. 4 d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 (conv. dalla l. 24 marzo 2015, n. 33).
Il capitale sociale delle cooperative, nonostante debba essere variabile e possa essere di
importo anche esiguo, assolve in modo crescente sia una funzione organizzativa nell’interesse
dei soci, sia una funzione vincolistica nell’interesse dei creditori sociali. Funzione vincolistica
che è tecnicamente garantita attraverso due doveri (regolati dalla disciplina della s.p.a. o da
quella della s.r.l., a seconda che la cooperativa sia rispettivamente una coop-s.p.a. o una coops.r.l.): quello di appostare al passivo dello stato patrimoniale una voce ideale pari alla somma
dei valori imputati a capitale dei conferimenti eseguiti (in tutto o in parte); quello di sottoporre
(salvo le deroghe previste nella disciplina della s.p.a.) a eterovalutazione da parte di qualificati
professionisti le entità (diverse dal denaro) oggetto di conferimento.
Se la disciplina del capitale delle cooperative, in ragione della sua flessibilità, riduce
(ma non elimina) la funzione vincolistica del capitale sociale, la disciplina delle riserve delle
cooperative, certamente più stringente di quella prevista per le società di capitali, compensa
l’evidenziata riduzione: da un canto, almeno il trenta per cento degli utili netti annuali deve
essere allocato sempre a riserva legale (art. 2545-quater, comma 1°, c.c., da leggersi in
contrapposizione all’art. 2430 c.c., valevole per tutte le società di capitali); dall’altro, vi sono
(nelle cooperative a mutualità prevalente) o vi possono essere (nelle altre cooperative, se
previste in un’apposita clausola statutaria) le riserve indivisibili, le quali offrono ai terzi
creditori una tutela paragonabile (anzi superiore) a quella offerta dal capitale sociale, non
potendo mai dette riserve essere ripartite tra i soci (nemmeno in caso di scioglimento,
diversamente dalla riserva legale) e costituendo le stesse l’ultimo baluardo del capitale in caso
di perdite sociali (art. 2545-ter c.c.). Queste riserve indivisibili, specialmente nelle cooperative
da tempo costituite, sono spesso di valore molto maggiore rispetto a quello del capitale sociale
in ragione degli incentivi (e dei vincoli) tributaristici volti a costituire (e a mantenere) dette
riserve. In molti casi, pertanto, i creditori sociali sono maggiormente garantiti dalle predette
riserve piuttosto che dal(l’esiguo) capitale sociale.
Dunque, dall’intero ordinamento cooperativo emerge limpidamente che l’accertamento
del grado di tutela offerto ai creditori sociali va condotto esaminando la disciplina non solo del
capitale sociale, ma anche, e più in generale, del patrimonio netto: è infatti la funzione
vincolistica di questa parte ideale del patrimonio a bilanciare il beneficio della limitazione del
rischio concesso ai soci di tutte le società con personalità giuridica. Proprio l’esposto legame
tra disciplina imperativa del patrimonio netto (nelle società di capitali) e responsabilità limitata
dei soci giustifica la dovuta applicazione alle cooperative dell’anzidetta disciplina.
Ovviamente, però, alcune disposizioni della disciplina del patrimonio netto potranno
31
disapplicarsi o mutare natura, se ciò serva a risolvere possibili (apparenti) antinomie con
specifiche norme dell’ordinamento cooperativo (dovendo prevalere queste ultime ai sensi
dell’art. 2519 c.c.).
B) Regole che impongono un certo grado di pubblicità.
Diversamente dalle società di persone, per le cooperative, al pari delle società di
capitali, l’iscrizione dell’atto costitutivo e d e l l o s t a t u t o ( e d e l l e r e l a t i v e
l o r o m o d i f i c h e ) nel registro delle imprese ha efficacia costitutiva e tale iscrizione deve
essere preceduta da un controllo di legalità ad opera di un notaio, in modo che i terzi possano
fare affidamento sulla regolarità non meramente formale ma sostanziale dei suddetti documenti.
La disciplina delle cooperative, ancora al pari di quella delle società di capitali, assoggetta a
pubblicità ulteriori atti che non sono invece resi pubblici se predisposti da società di
persone, come, ad esempio, il bilancio d’esercizio.
Come le società di capitali, così le cooperative non possono mai essere esonerate
dall’obbligo fiscale di tenuta delle scritture contabili, ai sensi dell’art. 18, comma 1°, d.p.r. 29
settembre 1973, n. 600 (come modificato dall’art. 7, comma 2°, lett. m), d.l. 13 maggio 2011, n.
70, conv. dalla l. 12 luglio 2011, n. 106).
C) Regole organizzative e i controlli interni ed esterni.
Le cooperative, al pari delle società di capitali, devono avere l’assemblea dei soci. Sicché
nelle cooperative v’è un costo organizzativo in più rispetto alle società di persone, dovendo
decidere l’assemblea nel rispetto del metodo collegiale. Se però la cooperativa ha scelto il modello
coop-s.r.l., sono ammissibili le semplificazioni previste per le s.r.l. in presenza di decisioni dei
soci non assembleari.
L’organo gestorio nelle cooperative (come nelle società di capitali) può essere
monosoggettivo (almeno secondo l’autorità ministeriale competente a vigilare le cooperative,
nonostante il dettato dell’art. 2542 c.c., come si ricava dal modello ministeriale di verbale di
revisione cooperativa) o plurisoggettivo.
Ai sensi dell’art. 2543 c.c., diversamente dalle s.p.a., nelle cooperative (coop-s.p.a. o coops.r.l.) può mancare un organo sociale di controllo; quest’ultimo deve però esservi nelle stesse
ipotesi in cui è obbligatorio nelle s.r.l. nonché quando siano stati emessi strumenti finanziari non
partecipativi (corrispondenti probabilmente a titoli di debito). Poiché l’art. 2543 c.c. menziona
espressamente il collegio sindacale e, al contempo, richiama i commi 2° e 3° dell’art. 2477 c.c., ci
si potrebbe chiedere se alla cooperativa (quand’anche fosse coop-s.r.l.) possa applicarsi la recente
semplificazione prevista per le sole s.r.l., secondo la quale, « se lo statuto non dispone
diversamente, l’organo di controllo è costituito da un solo membro effettivo » (art. 2477, comma
1°, c.c.); alla predetta domanda ha risposto affermativamente il Consiglio Nazionale del Notariato
(con lo studio n. 113-2012 del 9 maggio 2012) e la Commissione centrale per le cooperative (con
il parere del 16 ottobre 2012).
Al pari delle s.p.a., le cooperative, anche se costituite secondo il modello coop-s.r.l., sono
sempre sottoponibili al controllo giudiziario in caso di fondato sospetto di gravi irregolarità nella
gestione, ai sensi dell’art. 2545-quinquiesdecies c.c.
Diversamente dalle società lucrative, qualsiasi cooperativa è vigilanza dall’autorità
governativa (e dall’associazione di rappresentanza cui eventualmente aderisce) ai sensi del d.lgs. 2
agosto 2002, n. 220.
Non si vede ragione in base alla quale alle coop-s.r.l. senza collegio sindacale non possa
applicarsi la recente semplificazione prevista per le s.r.l., le quali, « possono redigere il bilancio
secondo uno schema semplificato » (art. 14, comma 9°, l. 12 novembre 2011, n. 183, disposizione
finora rimasta però inattuata).
Stante il comma 4-bis dell’art. 6 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, il quale menziona la classe
delle società di capitali, potrebbe sostenersi inapplicabile alle cooperative la semplificazione
prevista in detta norma, secondo cui l’organismo di vigilanza di cui al d.lgs. n. 231/2001 può
corrispondere al collegio sindacale, al consiglio di sorveglianza o al comitato per il controllo sulla
32
gestione. Tuttavia, a favore dell’applicazione della predetta semplificazione anche alle
cooperative, si potrebbe addurre l’argomento secondo il quale il legislatore speciale usa non di
rado impropriamente il sintagma ‘società di capitali’ per intendere ‘società con personalità
giuridica diverse dalle società di mutua assicurazione’, come da ultimo esemplifica la disciplina
dell’impresa start-up innovativa (cfr. infatti l’art. 25, comma 2°, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv.
dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221), certamente valevole anche per le imprese in forma di coops.p.a. e di coop-s.r.l.
In qualsiasi forma costituita, una cooperativa (come una società di capitali), se non emette
« strumenti finanziari rappresentativi del capitale quotati in mercati regolamentati o in sistemi
multilaterali di negoziazione » e se non è una banca o una micro-impresa ai sensi del diritto
dell’Unione europea, può utilizzare gli strumenti di finanziamento di cui all’art. 32 d.l. 22 giugno
2012, n. 83 (conv. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134).
III) Alcune opportunità per le PMI cooperative.
La cooperativa (costituita anche secondo il modello coop-s.p.a.) – come la s.r.l. e
diversamente dalla s.p.a. – può essere la forma societaria prescelta dagli artigiani per esercitare la
loro impresa in forma societaria, ai sensi dell’art. 3, comma 2°, l. 8 agosto 1985, n. 443.
La cooperativa potrebbe essere la forma societaria ideale per esercitare attività
professionali; in effetti, oltre al suo necessario carattere democratico (il quale potrebbe contribuire
a salvaguardare l’indipendenza dei professionisti-soci nell’esercizio delle loro prestazioni
professionali in nome e per conto della loro società) l’applicazione alle società di professionisti
dell’art. 2526 c.c. (dopo aver equiparato statutariamente i soci non professionisti ai soci finanziatori
di cui alla predetta disposizione) potrebbe facilitare il rispetto dell’art. 10, comma 4°, lett. b), l. 12
novembre 2011, n. 183, nella parte in cui prescrive che « il numero dei soci professionisti e
la partecipazione al capitale sociale dei professionisti deve essere tale da determinare la
maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci ».
La cooperativa con scopo consortile, visto il suo necessario carattere aperto e democratico,
può essere la forma societaria ideale per la collaborazione e il coordinamento tra PMI, come
spesso accade nel settore agricolo.
____________________
5. La rilevanza delle dimensioni di impresa nella legislazione più
recente.
Alcuni dei provvedimenti legislativi che, nel corso dell’ultimo biennio, ispirandosi ai
principi di liberalizzazione, semplificazione e incentivazione all’innovazione raccomandati dall’UE,
hanno avuto ad oggetto le imprese, specie in forma societaria, sono caratterizzati dal fatto di dettare
regole differenziate in funzione del parametro dimensionale. Tra le novità più significative in
questo senso si possono segnalare quelle in materia di s.r.l. con capitale inferiore a 10.000 euro e di
imprese start-up innovative.
5.1. S.r.l. con capitale inferiore a 10.000 euro.
Certamente riconducibile alla logica delle liberalizzazioni e delle semplificazioni è la
possibilità, per la s.r.l., di costituirsi con un capitale inferiore a 10.000 euro, purché almeno pari
ad un euro: possibilità che, inizialmente riservata alle persone fisiche infratrentacinquenni con la
s.r.l. semplificata di cui al nuovo art. 2463-bis c.c., come introdotto dal d.l. 24 gennaio 2012, n. 1,
convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27, veniva successivamente estesa anche alle persone fisiche che
avessero compiuto i trentacinque anni di età con la s.r.l. a capitale ridotto di cui all’art. 44 d.l. 22
giugno 2012, n. 83, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134.
Una volta soppressa la s.r.l. a capitale ridotto ad opera del d.l. 28 giugno 2013, n. 76, la
suddetta possibilità, in sede di conversione di tale decreto nella l. 8 agosto 2013, n. 99, viene estesa
33
a chiunque, anche alle persone giuridiche, attraverso la semplice modifica delle disposizioni sul
capitale minimo di cui all’art. 2463 c.c. (comma 4°), e dunque rimanendo all’interno della s.r.l.
ordinaria. Viene tuttavia mantenuta la s.r.l. semplificata, la quale, con l’ulteriore beneficio
dell’esenzione dagli oneri notarili e dai diritti di bollo e di segreteria, sia pure condizionato
all’adozione di uno statuto tipizzato a livello ministeriale, è resa accessibile, sia pure con
eliminazione del vincolo anagrafico, alle sole persone fisiche, le quali inoltre, se
infratrentacinquenni, potranno fruire di ulteriori agevolazioni creditizie derivanti da appositi accordi
fra il ministero dell’economia e delle finanze e l’associazione bancaria italiana. In ogni caso,
l’autorizzazione a determinare il capitale sociale in misura inferiore a 10.000 euro trova
compensazione in alcuni correttivi posti a tutela dei terzi quali l’obbligo di effettuare i conferimenti
in danaro e di versarne l’intero importo in sede di sottoscrizione dell’atto costitutivo (comma 4°
dell’art. 2463 c.c.) e soprattutto, da ultimo, la previsione di una riserva legale accelerata e
maggiorata rispetto a quella ordinariamente richiesta (comma 5° dell’art. 2463 c.c.).
La novità sembra avere incontrato, almeno sulla carta, un certo successo: si scopre infatti ad
esempio, scorrendo i dati pubblicati dal Consiglio Nazionale del Notariato sul proprio sito
istituzionale, in ottemperanza all’obbligo di cui all’art. 3 d.l. 1/2012, che, al 31 dicembre 2013,
risultavano registrate ben 17.663 s.r.l. semplificate, le quali, sommate alle 5049 s.r.l. a capitale
ridotto ora riqualificate come semplificate, previa abrogazione della categoria, dai commi 14° e 15°
dell’art. 9 d.l. n. 76/2013, convertito in l. n. 99/2013, ammontavano ad un totale di 22.712 unità,
avendo come tali un capitale necessariamente inferiore a 10.000 euro e occupando dunque una
fascia dimensionale la quale, prima del 2012, anno di entrata in vigore dei provvedimenti in materia
di s.r.l. semplificata e di s.r.l. a capitale ridotto, sarebbe stata riservata alle sole società di persone
(anche se è dubbio che le suddette imprese siano destinate ad operare stabilmente sul mercato, in
quanto si apprende da uno studio recente dell’associazione sindacale dei notai della Lombardia presentato con il titolo Le nuove tipologie di s.r.l. Un bilancio ad un anno dalla loro introduzione:
luci ed ombre nella tavola rotonda tenutasi a Milano il 19 luglio 2013, e reperibile sul sito
www.assonotailombardia.it – che circa il 60% di esse è inattivo, mentre il 90% è privo di
dipendenti e il 45% ha un capitale sociale inferiore a 500 euro).
L’assetto normativo appena illustrato, tuttavia, potrebbe presentare, nel merito, qualche
elemento di criticità. Il dubbio nasce dalla possibilità che i provvedimenti in parola, risultando tutti
finalizzati a realizzare un unico valore, quello dell’efficienza e dello sviluppo produttivo
dell’impresa, non abbiano tenuto in sufficiente conto, o abbiano talora completamente trascurato,
altri valori.
Così, ad esempio, è lecito chiedersi fino a che punto sia conciliabile con la tutela dei
creditori la completa evaporazione della funzione garantistica del capitale minimo implicata dalla
possibilità di costituire una s.r.l. con capitale di un euro. Attenzione: il nostro Paese arriva buon
ultimo, in materia, all’interno di un movimento che coinvolge da tempo i principali Paesi europei e
che si è tradotto in essi, prima in Gran Bretagna, poi in Francia, poi in Germania, poi in Belgio,
infine in Italia e in Spagna, nella possibilità di dar vita ad una società di capitali di un euro proprio
con riferimento ai tipi corrispondenti alla nostra s.r.l. (non per i tipi corrispondenti alla s.p.a. in
quanto esiste un vincolo comunitario rappresentato dalla II direttiva CE che impone per tale società
un capitale minimo di 25.000 euro): movimento al quale l’Italia non poteva estraniarsi, pena
l’emarginazione nella concorrenza con i suddetti Pesi, soprattutto in seguito al consolidarsi della
giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, in base alla quale una società
costituitasi in uno qualsiasi dei Paesi in parola, dunque anche con capitale di un euro, poteva
operare in uno qualsiasi degli altri paesi membri della UE, anche se per ipotesi ostile a riconoscere
al proprio interno la corrispondente fattispecie. Com’è noto, tuttavia, la maggior parte degli
ordinamenti che consentono la costituzione di una s.r.l. con capitale di un euro prevedono dei
meccanismi alternativi per la tutela dei creditori sociali, quali i c.d. solvency tests ( o test di
solvibilità), volti ad impedire che alla sottocapitalizzazione della società si accompagni una
situazione di oggettiva difficoltà in ordine al soddisfacimento delle pretese creditorie: strumenti che
34
il legislatore italiano, nel disciplinare la s.r.l. nummo uno, ha per lungo tempo ignorato. E’ vero che
il medesimo legislatore è corso, sia pure in corner, ai ripari con il d.l. 76/2013, come convertito
nella l. 99/2013, il cui art. 15-ter ha inserito nell’art. 2463 c.c. un nuovo comma 5° in base al quale,
a somiglianza di quanto avviene nell’ordinamento tedesco, in caso di costituzione di una s.r.l. con
capitale inferiore a 10.000 euro, la somma da dedurre dagli utili netti risultanti dal bilancio
regolarmente approvato, per formare la riserva prevista dall’articolo 2430 c.c., deve essere almeno
pari a un quinto degli stessi, fino a che la riserva non abbia raggiunto, unitamente al capitale,
l’ammontare di diecimila euro: riserva la quale può essere utilizzata solo per imputazione a capitale
e per copertura di eventuali perdite e deve essere reintegrata con le stesse modalità di cui sopra se
viene diminuita per qualsiasi ragione. E’ però altrettanto vero che si possono esprimere seri dubbi
circa la reale efficacia correttiva di tali disposizioni, giacché la riserva legale non solo è per sua
natura eventuale (in quanto da formarsi mediante accantonamento di quota degli utili realizzati) ma
è inoltre sicuramente nulla nel primo esercizio di attività della società (in quanto da formarsi
mediante accantonamento di utili risultanti dal bilancio d’esercizio regolarmente approvato), con la
conseguenza che, nelle more dei suddetti accantonamenti, i creditori sociali di una s.r.l. a capitale di
un euro - quanto meno quelli non strutturati impossibilitati a ottenere la garanzia fideiussoria dei
soci – rischiano di trovarsi comunque senza copertura1.
1
Ecco la versione attuale delle fonti normative riguardanti le s.r.l. con capitale inferiore a 10.000 euro
Art. 2463 c.c. (Costituzione)
La società può essere costituita con contratto o con atto unilaterale.
L'atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico e deve indicare:
1) il cognome e il nome o la denominazione, la data e il luogo di nascita o lo Stato di costituzione, il domicilio o la sede, la
cittadinanza di ciascun socio;
2) la denominazione, contenente l'indicazione di società a responsabilità limitata, e il comune ove sono poste la sede della
società e le eventuali sedi secondarie;
3) l'attività che costituisce l'oggetto sociale;
4) l'ammontare del capitale, non inferiore a diecimila euro, sottoscritto e di quello versato;
5) i conferimenti di ciascun socio e il valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura;
6) la quota di partecipazione di ciascun socio;
7) le norme relative al funzionamento della società, indicando quelle concernenti l'amministrazione, la rappresentanza;
8) le persone cui è affidata l'amministrazione e l’eventuale soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei conti;
9) l'importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico della società.
Si applicano alla società a responsabilità limitata le disposizioni degli articoli 2329, 2330, 2331, 2332 e 2341.
L’ammontare del capitale può essere determinato in misura inferiore a euro diecimila, pari almeno a un euro. In tal caso i
conferimenti devono farsi in denaro e devono essere versati per intero alle persone cui è affidata l’amministrazione.
La somma da dedurre dagli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato, per formare la riserva prevista
dall’articolo 2430, deve essere almeno pari a un quinto degli stessi, fino a che la riserva non abbia raggiunto, unitamente al capitale,
l’ammontare di diecimila euro. La riserva così formata può essere utilizzata solo per imputazione a capitale e per copertura di
eventuali perdite. Essa deve essere reintegrata a norma del presente comma se viene diminuita per qualsiasi ragione.
Art. 2463-bis c.c. (Società a responsabilità limitata semplificata).
La società a responsabilità limitata semplificata può essere costituita con contratto o atto unilaterale da persone fisiche.
L’atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico in conformità al modello standard tipizzato con decreto del Ministro
della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro dello sviluppo economico, e deve indicare:
1) il cognome, il nome, la data, il luogo di nascita, il domicilio, la cittadinanza di ciascun socio;
2) la denominazione sociale contenente l’indicazione di società a responsabilità limitata semplificata e il comune ove sono
poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie;
3) l’ammontare del capitale sociale, pari almeno ad 1 euro e inferiore all’importo di 10.000 euro previsto all’articolo 2463,
secondo comma, numero 4), sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione. Il conferimento deve farsi in denaro ed
essere versato all’organo amministrativo;
4) i requisiti previsti dai numeri 3), 6), 7) e 8) del secondo comma dell’articolo 2463;
5) luogo e data di sottoscrizione;
6) gli amministratori.
Le clausole del modello standard tipizzato sono inderogabili
La denominazione di società a responsabilità limitata semplificata, l’ammontare del capitale sottoscritto e versato, la sede
della società e l’ufficio del registro delle imprese presso cui questa è iscritta devono essere indicati negli atti, nella corrispondenza
della società e nello spazio elettronico destinato alla comunicazione collegato con la rete telematica ad accesso pubblico.
Salvo quanto previsto dal presente articolo, si applicano alla società a responsabilità limitata semplificata le disposizioni del
presente capo in quanto compatibili.
Art 3 d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, come convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27.
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____________
5.2. Imprese innovative
5.2.1. Imprese start-up innovative
Ispirata alla volontà di incentivare l’innovazione quale fattore propulsivo della crescita è
certamente la disciplina delle c.d. imprese start –up innovative, vale a dire di quelle società di
capitali che abbiano come oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo e la
commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico e che svolgano la
propria attività da non più di quarantotto mesi, operando peraltro in una fascia dimensionale ridotta,
come si desume dal requisito di aver fatto registrare, a partire dal secondo anno di attività, un valore
della produzione annua non superiore a 5 milioni di euro.
A tali imprese il più recente dei provvedimenti del Governo Monti, vale a dire il d.l. 18
ottobre 2012, n. 179 (convertito in l. 17 dicembre 2012, n. 221 e modificato, ultimamente, dal d.l.
24 gennaio 2015, a sua volta convertito in l. 24 marzo 2015, n. 33), riserva, oltre ad una serie assai
variegata di benefici come alcune agevolazioni fiscali e l’esonero dalle procedure concorsuali
ordinarie, una disciplina ampiamente derogatoria rispetto al diritto societario comune, ed in
particolare al diritto della s.r.l. ordinaria. Infatti, l’art. 26 del suddetto decreto stabilisce che in una
start-up innovativa costituita in forma di s.r.l.: a) l’atto costitutivo può creare categorie di quote
fornite di diritti diversi e, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto
delle varie categorie anche in deroga a quanto previsto dall’art. 2468, commi 2° e 3°, c.c.; b) le
suddette categorie di quote, in deroga all’art. 2479, comma 5°, c.c. possono non attribuire diritti di
voto o attribuire al socio diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione da questi
detenuta ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di
particolari condizioni non meramente potestative; c) il divieto di operazioni sulle proprie
partecipazioni stabilito dall’art. 2474 c.c. non trova applicazione qualora l’operazione sia compiuta
in attuazione di piani di incentivazione che prevedano l’assegnazione di quote di partecipazione a
dipendenti, collaboratori o componenti dell’organo amministrativo, prestatori di opera e servizi
anche professionali; d) l’atto costitutivo può altresì prevedere, a seguito dell’apporto da parte dei
soci o di terzi anche di opera o servizi, l’emissione di strumenti finanziari forniti di diritti
patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nelle decisioni dei soci ai sensi degli
articoli 2479 e 2479-bis c.c.; e) in deroga a quanto previsto dall’art. 2468, comma 1°, c.c., le quote
di partecipazione in start-up innovative costituite in forma di società a responsabilità limitata
1.(Omissis)
2. Con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro dello
sviluppo economico, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, viene
tipizzato lo statuto standard della società e sono individuati i criteri di accertamento delle qualità soggettive dei soci.
3. L’atto costitutivo e l’iscrizione nel registro delle imprese sono esenti da diritto di bollo e di segreteria e non sono dovuti
onorari notarili.
4. Il Consiglio nazionale del notariato vigila sulla corretta e tempestiva applicazione delle disposizioni del presente articolo
da parte dei singoli notai e pubblica ogni anno i relativi dati sul proprio sito istituzionale.
Art. 44 D.l. 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), come convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134
(Omissis)
4-bis. Al fine di favorire l'accesso dei giovani imprenditori al credito, il Ministro dell'economia e delle finanze
promuove, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, un accordo con l'Associazione bancaria italiana per fornire
credito a condizioni agevolate ai giovani di età inferiore a trentacinque anni che intraprendono attività imprenditoriale attraverso
la costituzione di una società a responsabilità limitata semplificata.
36
possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, anche attraverso gli appositi
portali per la raccolta di capitali2.
Si tratta di opportunità che erano finora riservate solo alla s.p.a. e che mettono ora anche la
s.r.l. in condizione di contribuire, attraverso la sollecitazione del pubblico risparmio, a creare quel
contesto favorevole all’innovazione che, secondo i voti espressi dallo stesso legislatore, rappresenta
un imprescindibile fattore propulsivo dello sviluppo.
Particolarmente interessante è l’ultima delle ricordate eccezioni: quella contenuta nel
comma 5° dell’art. 26, in base al quale, in deroga a quanto previsto dall’art. 2468, comma 1°, c.c., le
quote di partecipazione in imprese start-up innovative costituite in forma di s.r.l. possono formare
oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari.
Per comprendere la ragione di questa deroga, si consideri che una delle più sentite esigenze
delle imprese start-up innovative in genere è quella volta a provvedersi del capitale di rischio
necessario per fronteggiare le eccezionali alee legate non solo all’oggetto delle attività da esse
svolte (settori tecnologicamente avanzati) ma anche, più specificamente, alla fase di avvio di tali
attività: esigenza alla quale il legislatore viene incontro, oltre che defiscalizzando in parte i
conferimenti da parte di investitori professionali (art. 29), anche e soprattutto, appunto,
incentivando la possibilità di ricorrere al mercato per la raccolta del capitale di rischio. Per la verità,
tale possibilità già sussisteva (e sussiste) istituzionalmente per la s.p.a., con la conseguenza che
un’impresa start-up innovativa ben potrebbe, costituendosi in forma di s.p.a., attingere al mercato
del capitale di rischio offrendo al pubblico in sottoscrizione le proprie partecipazioni senza bisogno
di alcun intervento eccezionale del legislatore. Poiché, tuttavia, il bisogno di rivolgersi al suddetto
mercato è proprio dell’impresa start-up innovativa in quanto tale, indipendentemente dalla forma
giuridica rivestita, e poiché la s.p.a richiede un capitale minimo di 50.000 euro, i soci che non
fossero in grado di raggiungere tale soglia, e fossero costretti quindi ad adottare la forma della s.r.l.,
vedrebbero frustrato il suddetto bisogno in quanto, nella s.r.l. ordinaria, in base all’art. 2468,
comma 1°, c.c., le partecipazioni non possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti
finanziari: ed è proprio per ovviare a tale inconveniente - come espressamente afferma la relazione
ministeriale al disegno di conversione in legge del d.l. n. 179 – che l’art. 26 del decreto deroga
all’art. 2468 c.c. estendendo alla s.r.l. la possibilità di raccogliere il proprio capitale di rischio sul
mercato mediante offerta al pubblico delle proprie quote, anche attraverso gli appositi portali
telematici.
Ora, la possibilità di offrire al pubblico le proprie quote, magari attraverso un’operazione
tipica di crowdfunding come quella che si realizza attraverso i suddetti portali telematici e che non è
diretta solo a investitori professionali ma anche al pubblico indifferenziato dei risparmiatori, può
comportare l’ingresso nella compagine sociale di una s.r.l. start-up innovativa non solo di quei soci
imprenditori che sono tipici della s.r.l. e che sono caratterizzati da una forte vocazione partecipativa
al governo della medesima e da un’altrettanto forte capacità di autotutela, ma anche di quei soggetti
meri risparmiatori che sono estranei alla tipologia della s.r.l. ordinaria in quanto privi della suddetta
vocazione partecipativa, e che risulterebbero perciò portatori di un bisogno di eterotutela simile a
quello di un azionista. Solo che, mentre, nella s.p.a., questo bisogno di eterotutela del socio estraneo
alla gestione viene perseguito attraverso un apparato tendenzialmente imperativo diretto a
contrastare comportamenti opportunistici degli amministratori e basato fondamentalmente sulla
previsione di stringenti doveri di trasparenza, lealtà e diligenza a carico di questi ultimi (basti
pensare a disposizioni come quelle contenute negli artt. 2381 e 2391 c.c.), nulla di simile viene
2
I portali in questione sono ora regolati dal testo unico dell’intermediazione finanziaria (così come modificato, da ultimo,
dall’art. 4, comma 10°, d.l. n. 3/2015, convertito in l. n. 33/2015), il quale, dopo aver definito come tali, nel comma 5-novies dell’art.
1, quelle piattaforme online che abbiano“come finalità esclusiva la facilitazione della raccolta di capitale di rischio da parte delle
start-up innovative, comprese le start-up a vocazione sociale, delle PMI innovative e degli organismi di investimento collettivo del
risparmio o altre società che investono prevalentemente in start-up innovative o in PMI innovative”, affida nell’art. 50-quinquies la
gestione dei medesimi portali alle imprese di investimento, alle banche e ad altri soggetti iscritti in un apposito registro tenuto dalla
Consob in base ad un regolamento da essa emanato, e detta nell’art. 100-ter, in parte direttamente e in parte attraverso delega alla
sunnominata Consob, una disciplina delle offerte al pubblico condotte attraverso uno o più dei predetti portali, anche ai fini di
tutelare gli investitori non professionali.
37
previsto dall’art. 26 del decreto con riferimento alla s.r.l. start-up innovativa, anche se quest’ultima
potrebbe trovarsi nella stessa situazione di una s.p.a. per aver raccolto, del tutto lecitamente,
capitale di rischio fra il pubblico. Di conseguenza, il suddetto bisogno di protezione risulterebbe
nella s.r.l. completamente frustrato senza che tale frustrazione trovi alcuna giustificazione razionale
nelle particolari esigenze dell’impresa start-up innovativa, giacché, pur essendo tali esigenze
presenti anche nella start-up innovativa costituita in forma di s.p.a., scattano tuttavia ugualmente in
quest’ultima quei meccanismi protettivi dei soci che sono giustificati dalla tendenziale apertura
della compagine sociale, e che dovrebbero quindi trovare applicazione, pena violazione del
principio di ragionevolezza, anche alla s.r.l. allorché sia caratterizzata da uguale apertura,
quantomeno tendenziale, della propria compagine, com’è appunto la s.r.l. start-up innovativa3.
3
Ecco la versione attuale delle fonti normative riguardanti le imprese start-up innovative
D. l. n. 179/2012 (convertito in l. n. 221/2012), come modificato dall’art. 9, comma 16°, d.l. n. 76/2013 (convertito in l. n.
99/2013) e dall’art. 4 d.l. n. 3/2015 (convertito in l. n. 33/2015)
Articolo 25 (Start-up innovativa e incubatore certificato: finalità,definizione e pubblicità)
1. Le presenti disposizioni sono dirette a favorire la crescita sostenibile, lo sviluppo tecnologico, la nuova imprenditorialità
e l'occupazione, in particolare giovanile, con riguardo alle imprese start-up innovative, come definite al successivo comma 2 e
coerentemente con quanto individuato nel Programma nazionale di riforma 2012, pubblicato in allegato al Documento di economia e
finanza (DEF) del 2012 e con le raccomandazioni e gli orientamenti formulati dal Consiglio dei Ministri dell'Unione europea. Le
disposizioni della presente sezione intendono contestualmente contribuire allo sviluppo di nuova cultura imprenditoriale, alla
creazione di un contesto maggiormente favorevole all'innovazione, così come a promuovere maggiore mobilità sociale e ad attrarre
in Italia talenti, imprese innovative e capitali dall'estero.
2. Ai fini del presente decreto, l'impresa start-up innovativa, di seguito «start-up innovativa», è la società di capitali,
costituita anche in forma cooperativa, le cui azioni o quote rappresentative del capitale sociale non sono quotate su un mercato
regolamentato o su un sistema multilaterale di negoziazione, che possiede i seguenti requisiti:
a) [abrogata]
b) è costituita e svolge attività d'impresa da non più di sessanta mesi;
c) è residente in Italia ai sensi dell’articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, o in
uno degli Stati membri dell’Unione europea o in Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo, purché abbia una sede
produttiva o una filiale in Italia;
d) a partire dal secondo anno di attività della start-up innovativa, il totale del valore della produzione annua, così come
risultante dall'ultimo bilancio approvato entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio, non è superiore a 5 milioni di euro;
e) non distribuisce, e non ha distribuito, utili;
f) ha, quale oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi
innovativi ad alto valore tecnologico;
g) non è stata costituita da una fusione, scissione societaria o a seguito di cessione di azienda o di ramo di azienda;
h) possiede almeno uno dei seguenti ulteriori requisiti:
1) le spese in ricerca e sviluppo sono uguali o superiori al 15 per cento del maggiore valore fra costo e valore totale della
produzione della start-up innovativa. Dal computo per le spese in ricerca e sviluppo sono escluse le spese per l'acquisto e la
locazione di beni immobili. Ai fini di questo provvedimento, in aggiunta a quanto previsto dai princìpi contabili, sono altresì da
annoverarsi tra le spese in ricerca e sviluppo: le spese relative allo sviluppo precompetitivo e competitivo, quali sperimentazione,
prototipazione e sviluppo del business plan, le spese relative ai servizi di incubazione forniti da incubatori certificati, i costi lordi di
personale interno e consulenti esterni impiegati nelle attività di ricerca e sviluppo, inclusi soci ed amministratori, le spese legali per la
registrazione e protezione di proprietà intellettuale, termini e licenze d’uso. Le spese risultano dall'ultimo bilancio approvato e sono
descritte in nota integrativa. In assenza di bilancio nel primo anno di vita, la loro effettuazione è assunta tramite dichiarazione
sottoscritta dal legale rappresentante della start-up innovativa;
2) impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in percentuale uguale o superiore al terzo della forza lavoro
complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso un'università
italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di
ricerca pubblici o privati, in Italia o all'estero, ovvero, in percentuale uguale o superiore a due terzi della forza lavoro complessiva, di
personale in possesso di laurea magistrale ai sensi dell’art. 3 del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’istruzione,
dell’università e della ricerca 22 ottobre 2004, n. 270;
3) sia titolare o depositaria o licenziataria di almeno una privativa industriale relativa a una invezione industriale,
biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori o a una nuova varietà vegetale ovvero sia titolare dei diritti relativi ad
un programma per elaboratore originario registrato presso il Registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché tali
privative siano direttamente afferenti all’oggetto sociale e all’attività di impresa.
3. Le società già costituite alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e in possesso dei
requisiti previsti dal comma 2, sono considerate start-up innovative ai fini del presente decreto se depositano presso l’Ufficio del
registro delle imprese, di cui all’articolo 2188 del codice civile, una dichiarazione sottoscritta dal rappresentante legale che attesti il
possesso dei requisiti previsti dal comma 2. In tal caso, la disciplina di cui alla presente sezione trova applicazione per un periodo di
quattro anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, se la start-up innovativa è stata costituita entro i due anni precedenti,
di tre anni, se è stata costituita entro i tre anni precedenti, e di due anni, se è stata costituita entro i quattro anni precedenti.
4. Ai fini del presente decreto, sono start-up a vocazione sociale le start-up innovative di cui al comma 2 e 3 che operano in
via esclusiva nei settori indicati all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155.
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5. Ai fini del presente decreto, l’incubatore di start-up innovative certificato, di seguito: «incubatore certificato» è una
società di capitali, costituita anche in forma cooperativa, di diritto italiano ovvero una Societas Europaea, residente in Italia ai sensi
dell’articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, che offre servizi per sostenere la nascita e lo
sviluppo di start-up innovative ed è in possesso dei seguenti requisiti:
a) dispone di strutture, anche immobiliari, adeguate ad accogliere start-up innovative, quali spazi riservati per poter
installare attrezzature di prova, test, verifica o ricerca;
b) dispone di attrezzature adeguate all’attività delle start-up innovative, quali sistemi di accesso in banda ultralarga alla rete
internet, sale riunioni, macchinari per test, prove o prototipi;
c) è amministrato o diretto da persone di riconosciuta competenza in materia di impresa e innovazione e ha a disposizione
una struttura tecnica e di consulenza manageriale permanente;
d) ha regolari rapporti di collaborazione con università, centri di ricerca, istituzioni pubbliche e partner finanziari che
svolgono attività e progetti collegati a start-up innovative;
e) ha adeguata e comprovata esperienza nell’attività di sostegno a start-up innovative, la cui sussistenza è valutata ai sensi
del comma 7.
(Omissis)
8. Per le start-up innovative di cui ai commi 1 e 2 e per gli incubatori certificati di cui al comma 5, le Camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura istituiscono una apposita sezione speciale del registro delle imprese di cui all’articolo
2188 del codice civile, a cui la start-up innovativa e l’incubatore certificato devono essere iscritti al fine di poter beneficiare della
disciplina della presente sezione.
9. Ai fini dell’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese di cui al comma 8, la sussistenza dei requisiti per
l’identificazione della start-up innovativa e dell’incubatore certificato di cui rispettivamente al comma 2 e al comma 5 è attestata
mediante apposita autocertificazione prodotta dal legale rappresentante e depositata presso l’ufficio del registro delle imprese.
(Omissis)
16. Entro 60 giorni dalla perdita dei requisiti di cui ai commi 2 e 5 la start-up innovativa o l’incubatore certificato sono
cancellati d’ufficio dalla sezione speciale del registro delle imprese di cui al presente articolo, permanendo l’iscrizione alla sezione
ordinaria del registro delle imprese. Ai fini di cui al periodo precedente, alla perdita dei requisiti è equiparato il mancato deposito
della dichiarazione di cui al comma 15. Si applica l’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 23 luglio 2004, n. 247.
17. Le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, provvedono alle attività di cui al presente articolo
nell’ambito delle dotazioni finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente.
Articolo 26 (Deroga al diritto societario e riduzione degli oneri per l’avvio)
1. Nelle start-up innovative il termine entro il quale la perdita deve risultare diminuita a meno di un terzo stabilito dagli
articoli 2446, comma secondo, e 2482-bis, comma quarto, del codice civile, è posticipato al secondo esercizio successivo. Nelle startup innovative che si trovino nelle ipotesi previste dagli articoli 2447 o 2482-ter del codice civile l’assemblea convocata senza
indugio dagli amministratori, in alternativa all’immediata riduzione del capitale e al contemporaneo aumento del medesimo a una
cifra non inferiore al minimo legale, può deliberare di rinviare tali decisioni alla chiusura dell’esercizio successivo. Fino alla chiusura
di tale esercizio non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484,
primo comma, punto n. 4), e 2545-duodecies del codice civile. Se entro l’esercizio successivo il capitale non risulta reintegrato al di
sopra del minimo legale, l’assemblea che approva il bilancio di tale esercizio deve deliberare ai sensi degli articoli 2447 o 2482-ter
del codice civile.
2. L’atto costitutivo della start-up innovativa costituita in forma di società a responsabilità limitata può creare categorie di
quote fornite di diritti diversi e, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle varie categorie anche in
deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, commi secondo e terzo, del codice civile.
3. L’atto costitutivo della società di cui al comma 2, anche in deroga all’articolo 2479, quinto comma, del codice civile, può
creare categorie di quote che non attribuiscono diritti di voto o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non proporzionale
alla partecipazione da questi detenuta ovvero diritti di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di particolari
condizioni non meramente potestative.
4. Alle start-up innovative di cui all’articolo 25 comma 2, non si applica la disciplina prevista per le società di cui
all’articolo 30 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e all’articolo 2, commi da 36-decies a 36-duodecies del decreto-legge 13 agosto
2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.
5. In deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, comma primo, del codice civile, le quote di partecipazione in start-up
innovative costituite in forma di società a responsabilità limitata possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti
finanziari, anche attraverso i portali per la raccolta di capitali di cui all’articolo 30 del presente decreto, nei limiti previsti dalle leggi
speciali.
6. Nelle start-up innovative costituite in forma di società a responsabilità limitata, il divieto di operazioni sulle proprie
partecipazioni stabilito dall’articolo 2474 del codice civile non trova applicazione qualora l’operazione sia compiuta in attuazione di
piani di incentivazione che prevedano l’assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori o componenti dell’organo
amministrativo, prestatori di opera e servizi anche professionali.
7. L’atto costitutivo delle società di cui all’articolo 25, comma 2, e degli incubatori certificati di cui all’articolo 25 comma
5 può altresì prevedere, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, l’emissione di strumenti finanziari
forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nelle decisioni dei soci ai sensi degli articoli 2479 e
2479-bis del codice civile.
8. La start-up innovativa e l’incubatore certificato dal momento della loro iscrizione nella sezione speciale del registro delle
imprese di cui all’articolo 25 comma 8, sono esonerati dal pagamento dell’imposta di bollo e dei diritti di segreteria dovuti per gli
adempimenti relativi alle iscrizioni nel registro delle imprese, nonché dal pagamento del diritto annuale dovuto in favore delle
camere di commercio. L’esenzione è dipendente dal mantenimento dei requisiti previsti dalla legge per l’acquisizione della qualifica
di start-up innovativa e di incubatore certificato e dura comunque non oltre il quinto anno di iscrizione.
(Omissis)
39
5.2.2. PMI innovative
A distanza di poco più di due anni dalla introduzione nel nostro ordinamento della start-up
innovativa, il legislatore interviene di nuovo in materia di innovazione con il d.l. 24 gennaio 2015,
n. 3 (convertito in l. 24 marzo 2015, n. 33), contenente “misure urgenti per il sistema bancario e gli
investimenti”, il cui art. 4, estende in parte la disciplina delle start-up innovative ad una fattispecie
diversa, quella delle “piccole e medie imprese innovative”.
La fattispecie viene così individuata dal primo comma del suddetto art. 4:
“Per "piccole e medie imprese innovative", di seguito "PMI innovative", si intendono le
PMI, come definite dalla raccomandazione 2003/361/CE4, società di capitali, costituite anche in
forma cooperativa, che possiedono i seguenti requisiti:
a) la residenza in Italia ai sensi dell’articolo 73 del testo unico delle imposte sui redditi,
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive
modificazioni, o in uno degli Stati membri dell'Unione europea o in Stati aderenti all'accordo sullo
spazio economico europeo, purché abbiano una sede produttiva o una filiale in Italia;
b) la certificazione dell'ultimo bilancio e dell’eventuale bilancio consolidato redatto da un
revisore contabile o da una società di revisione iscritti nel registro dei revisori contabili;
c) le loro azioni non sono quotate in un mercato regolamentato;
d) l'assenza di iscrizione al registro speciale previsto all'articolo 25, comma 8, del
decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012,
n. 221;
e) almeno due dei seguenti requisiti:
1) volume di spesa in ricerca, sviluppo e innovazione in misura uguale o superiore al 3 per
cento della maggiore entità fra costo e valore totale della produzione della PMI innovativa. Dal
computo per le spese in ricerca, sviluppo e innovazione sono escluse le spese per l'acquisto e pe la
locazione di beni immobili; nel computo sono incluse le spese per l’acquisto di tecnologie ad altro
contenuto innovativo. Ai fini del presente decreto, in aggiunta a quanto previsto dai principi
contabili, sono altresì da annoverarsi tra le spese in ricerca, sviluppo e innovazione: le spese
relative allo sviluppo precompetitivo e competitivo, quali sperimentazione, prototipazione e
sviluppo del piano industriale; le spese relative ai servizi di incubazione forniti da incubatori
certificati come definiti dall’articolo 25, comma 5, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179,
convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221; i costi lordi di personale
interno e consulenti esterni impiegati nelle attività di ricerca, sviluppo e innovazione, inclusi soci ed
amministratori; le spese legali per la registrazione e protezione di proprietà intellettuale, termini e
licenze d'uso. Le spese risultano dall'ultimo bilancio approvato e sono descritte in nota integrativa;
2) impiego come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in percentuale uguale o
superiore al quinto della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di titolo di dottorato di
ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso un'università italiana o straniera, oppure
in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso
istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all'estero, ovvero, in percentuale uguale o superiore a
un terzo della forza lavoro complessiva, di personale in possesso di laurea magistrale ai sensi
dell'articolo 3 del decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca 22 ottobre 2004,
n. 270;
3) titolarità, anche quali depositarie o licenziatarie di almeno una privativa industriale,
relativa a una invenzione industriale, biotecnologica, a una topografia di prodotto a semiconduttori
o a una nuova varietà vegetale ovvero titolarità dei diritti relativi ad un programma per elaboratore
4
In base all’art. 2 dell’allegato I a tale Raccomandazione, la categoria delle PMI (comprensiva delle microimprese, delle
piccole imprese e delle medie imprese) “è costituita da imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera
i 50 milioni di EUR oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di EUR”.
40
originario registrato presso il Registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore, purché
tale privativa sia direttamente afferente all'oggetto sociale e all'attività di impresa».
Basta mettere a confronto la surriportata nozione legislativa di PMI innovativa con quella di
start-up innovativa fornita dall’art. 25 del d.l. 179/2012 per cogliere la notevole differenza che,
nonostante la comune ispirazione di fondo rappresentata dal generico favor verso l’innovazione,
intercorre fra le due figure.
Così, ad esempio, per le PMI innovative: a) non vengono fissati limiti temporali, salvo
eccezioni, ai fini dell’applicazione della relativa disciplina, mentre per le start-up innovative si
richiede, al medesimo fine, che esse siano costituite e svolgano attività d’impresa da non più di
sessanta mesi; b) vengono fissati, sempre ai fini della disciplina speciale ad esse applicabile, limiti
dimensionali molto più ampi di quelli previsti per le start-up innovative (basti pensare che il valore
della produzione annua di queste ultime, a partire dal secondo anno di attività, non può essere
superiore a 5 milioni di euro, mentre le PMI innovative possono permanere in tale categoria, sulla
base dei parametri comunitari, non superando i 50 milioni di euro); c) non è richiesta, diversamente
dalle start-up innovative, la mancata distribuzione di utili; d) non si circoscrive l’oggetto sociale
(neppure quello prevalente) – sempre in difformità da quanto accade per le start-up innovative - alle
sole attività di sviluppo, produzione e commercializzazione di beni o servizi ad alto valore
tecnologico; e) non si vieta, come avviene invece per le start-up innovative, che esse possano
materializzarsi in seguito ad una fusione, ad una scissione o ad una cessione di azienda o ramo
d’azienda; f) i requisiti opzionali devono sì essere presenti in misura superiore rispetto alla start-up
innovativa (due su tre anziché uno su due) ma, se si eccettua la titolarità di privativa industriale
oppure di software registrato, risultano meno stringenti (volume di spesa in ricerca, sviluppo e
innovazione pari almeno al 3%, anziché al 15%, della maggiore entità fra costo e valore totale della
produzione; team formato per almeno un quinto, anziché un terzo, da dottorandi o ricercatori con
almeno tre anni di esperienza, oppure per almeno un terzo, anziché due terzi, da personale in
possesso di laurea magistrale); g) occorre la certificazione dell’ultimo bilancio e dell’eventuale
bilancio consolidato redatto da un revisore contabile o da una società di revisione iscritti nel
registro dei revisori contabili, requisito non richiesto per le start-up innovative.
Come si vede, la fattispecie della PMI innovativa, così come viene delineata dal legislatore,
presenta confini globalmente assai più ampi rispetto a quella della start-up innovativa, sotto il
profilo sia temporale (non viene fissato, salvo eccezioni, alcun limite di durata), sia dimensionale
(basta rientrare nei parametri comunitari delle PMI), sia merceologico (non occorre avere come
oggetto esclusivo o prevalente attività di sviluppo, produzione e commercializzazione di beni o
servizi ad alto valore tecnologico)5.
Alla suddetta più ampia fattispecie il legislatore del 2015, nel segno evidente di un sempre
più accentuato favor verso il fenomeno dell’innovazione, valutato come imprescindibile volano
della concorrenza sia interna che internazionale6, estende in larga misura i benefici previsti a suo
tempo per le sole start-up innovative e dunque per sola fase di avvio dell’impresa7. Nel comma 9°
dell’art. 4 qui considerato, infatti, la maggior parte delle disposizioni del d.l. 179/2012 contenenti la
5
La differenza è evidenziata dal fatto che l’art. 4 qui considerato, dopo aver individuato al comma 1° l’assenza
di iscrizione alla sezione speciale del registro delle imprese dedicata alle start-up innovative come uno dei requisiti
essenziali delle PMI innovative, stabilisce al comma 2° che queste ultime devono essere iscriversi presso una diversa
sezione speciale del suddetto registro ad esse appositamente destinata.
6
Si legge infatti nella Relazione illustrativa al disegno di conversione in legge del d.l. 3/2015 che, con tale
provvedimento, si è inteso ovviare all’inconveniente per cui, pur rappresentando gli investimenti in ricerca e
innovazione “l’elemento distintivo delle aziende di successo”, “una quota significativa dell’innovazione realizzata dalle
imprese non viene esplicitata, con riflessi negativi sia sulla competitività delle imprese che sulla collocazione dell’Italia
nelle graduatorie internazionali per diffusione di innovazione”.
7
L’intenzione di andare oltre la fase di avvio dell’impresa è esplicitata dalla Relazione di cui alla nt.
precedente, dove si assegna al nuovo provvedimento la funzione di creare “un circolo virtuoso che spingerebbe le PMI a
investire costantemente in innovazione per mantenere nel tempo il requisito di PMI innovativa”.
41
disciplina delle start-up innovative vengono dichiarate applicabili anche alle PMI innovative, sia
pure con alcune eccezioni vistose come quelle dell’art. 28 contenente deroghe alla disciplina del
rapporto di lavoro subordinato, e dell’art. 31 in materia, tra l’altro, di esenzione dalle procedure
concorsuali ordinarie.
Di particolare interesse, ai fini del presente lavoro, è l’estensione alle PMI innovative (fatto
salvo l’obbligo del pagamento dei diritti di segreteria dovuti per adempimenti relativi alle iscrizioni
nel registro delle imprese nonché del diritto annuale dovuto in favore delle camere di commercio,
industria, artigianato e agricoltura) dell’intero art. 26 d.l. 179/2012, di quello cioè che, in materia di
start-up innovative, deroga al diritto societario comune e precipuamente, come illustrato nei
paragrafi precedenti, alle disposizioni sulla s.r.l. ordinaria.
In virtù del suddetto richiamo, infatti, anche nella PMI innovativa costituita in forma di s.r.l.,
esattamente come nella start-up innovativa costituita nella medesima forma):
a) il termine entro il quale la perdita deve risultare diminuita a meno di un terzo stabilito
dall’art. 2482-bis, comma 4°, c.c., è posticipato al secondo esercizio successivo, mentre, ricorrendo
l’ipotesi prevista dall’art. 2482-ter, l’assemblea convocata senza indugio dagli amministratori, in
alternativa all’immediata riduzione del capitale e al contemporaneo aumento del medesimo a una
cifra non inferiore al minimo legale, può deliberare di rinviare tali decisioni alla chiusura
dell’esercizio successivo: chiusura fino alla quale non opera la causa di scioglimento della società
per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, comma 1°, n. 4, c.c.;
b) l’atto costitutivo può creare categorie di quote fornite di diritti diversi e, nei limiti imposti
dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle varie categorie anche in deroga a quanto
previsto dall’articolo 2468, commi 2° e 3°, c.c.;
c) l’atto costitutivo, anche in deroga all’articolo 2479, comma 5°, c.c., può creare categorie
di quote che non attribuiscono diritti di voto o che attribuiscono al socio diritti di voto in misura non
proporzionale alla partecipazione da questi detenuta ovvero diritti di voto limitati a particolari
argomenti o subordinati al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative;
d) in deroga a quanto previsto dall’articolo 2468, comma 1°, c.c., le quote di partecipazione
possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, anche attraverso appositi
portali telematici per la raccolta di capitali8, nei limiti previsti dalle leggi speciali;
e) il divieto di operazioni sulle proprie partecipazioni stabilito dall’articolo 2474 c.c. non
trova applicazione qualora l’operazione sia compiuta in attuazione di piani di incentivazione che
prevedano l’assegnazione di quote di partecipazione a dipendenti, collaboratori o componenti
dell’organo amministrativo, prestatori di opera e servizi anche professionali;
f) l’atto costitutivo può altresì prevedere, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi
anche di opera o servizi, l’emissione di strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di
diritti amministrativi, escluso il voto nelle decisioni dei soci ai sensi degli articoli 2479 e 2479-bis
c.c.
Come si vede, con il d.l. 3/2015 l’alterazione del tipo s.r.l. attraverso la sua contaminazione
con elementi caratteristici della s.p.a. va ben oltre l’originale portata, che era quella delle start-up
innovative, per estendersi al più vasto ambito delle PMI innovative, non più legate alla mera fase di
avvio dell’impresa. Valgono pertanto – e a fortiori direi, attese le maggiori dimensioni del
fenomeno - le riserve a suo tempo espresse con riferimento alle prime (anche in termini di
costituzionalità) circa i possibili inconvenienti derivanti dal fatto che, una volta recepite le tecniche
sollecitatorie proprie della s.p.a., la s.r.l. possa raggiungere il pubblico dei risparmiatori pur senza le
garanzie, in termini di capitalizzazione e di controlli, che sono tipici, appunto, della s.p.a.
8
Si tratta dei meccanismi già descritti nel paragrafo precedente.
42
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