PDF - Spaghetti Writers

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Spirali
Flavio Ignelzi
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3.
Il primo quasi lo investo.
Sterzo a sinistra per puro istinto, sfioro l’ostacolo che mi taglia fiato e carreggiata, mentre il
controllo elettronico di trazione della Jeep mi evita l’uscita di strada. Governo l’auto, dopo lo
slalom tortuoso, togliendo il piede dall’acceleratore e sfiorando appena il freno. Lancio
un’occhiata allo specchietto retrovisore per cercare di capire cos’ho evitato.
I fari non hanno fatto in tempo a illuminarlo. Era grande come uno pneumatico, più o meno,
ma metallico e frastagliato. Nel buio della stradina di periferia non sono riuscito a capire, manco
a intuire, la sagoma.
Rallento fino a fermarmi, m’aggrappo al volante, nocche bianche, muscoli in tensione, e riprendo
fiato, i battiti del cuore scardinano la cassa toracica.
Non era umano o animale, questo è certo, ma non so se quest’informazione può essermi d’aiuto.
Forse dovrei tornare indietro a controllare. È tardi, non transita nessuno, però potrei evitare che
il primo automobilista assonnato, considerata l’ora, passi un guaio.
Aziono le quattro frecce e giro la testa per guardare meglio, ma attraverso il lunotto la strada buia
sembrerebbe libera.
Cerco di ricostruire nella mia mente e mi guizza subito un particolare importante: quella cosa,
non so come definirla, quella cosa non mi ha attraversato la strada; quella cosa piombava
dall’alto. Sì, ne sono abbastanza certo.
Mentre mi sforzo di ricordare, mentre cerco di mettere a fuoco, mentre mi concentro sui dettagli,
si scatena l’inferno.
È un attimo. Proiettili luminosi precipitano dal cielo, brecciolino invisibile colpisce la Jeep, una
detonazione prolungata scuote i finestrini. Riesco a seguire la traiettoria dei frammenti infuocati
che cadono nella notte e rotolano sull’asfalto. Hanno origine da un bagliore in alto, nel cielo
notturno. Cade la volta celeste, piovono pezzi di firmamento, una lamiera grande come una vela
abbatte il segnale di limite di velocità qualche centinaio di metri più avanti, una cartellone
pubblicitario di un mobilificio della zona è tempestato da mitragliate invisibili.
Mi lancio sul sedile passeggero, la cintura di sicurezza scatta e mi strangola, la sgancio e riprovo
ad abbassarmi, questa volta ci riesco e mi schiaccio sulla tappezzeria di pelle della Jeep, stringendo
le mani sulla testa. Chiudo gli occhi e prego che finisca presto.
Altri corpi percuotono il tettuccio dell’auto, grandine di proporzioni mastodontiche, il turbine
attraversa lo spazio, qualsiasi cosa sia sento che si sfracella a terra, spiana il bosco, solca il terreno
fino ad arrestarsi, qualche centinaio di metri più in là, o forse qualche chilometro.
Poi di colpo il silenzio.
E il borbottio regolare del motore al minimo della Jeep.
E qualche crepitio in lontananza.
Riprendo fiato e riapro gli occhi.
Non so cos’è giusto fare, se è prudente rimanere immobile accucciato o se è meglio uscire
dall’auto.
Mi sollevo a sedere senza pensare, guidato più dalla curiosità che dal coraggio.
Fuori è buio, a parte i bagliori delle fiamme, nel bosco in fondo alla spianata, gli alberi piegati, i
rami incendiati.
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Il cellulare incastrato nel portabibite accanto al cambio emette due beep ravvicinati, quelli degli
sms, ma non mi fanno sobbalzare come al solito, sembra quasi che li attendessi. Lo afferro e leggo
il nome sul display. Beatrice, mia figlia. Schiaccio il verde e leggo.
«ti voglio un mondo di bene dillo pure a mamy e betta»
Il mio tesoro. Fisso il cielo buio senza stelle, poi guardo in direzione del bosco. Il fronte del fuoco
è abbastanza lontano, un solco arato dalle fiamme. Alzo i fari lunghi e illumino la strada. È
disseminata di detriti carbonizzati, alcuni grandi come lavatrici, altri schiacciati come tavole da
surf. La strada pare impraticabile, se non procedendo con cautela a zig zag, scansando lo
scansabile.
Smonto dall’auto per accertarmi direttamente di cosa sia successo.
La fresca brezza autunnale mi sorprende, ma è l’odore di carburante bruciato quello che
m’investe e mi provoca un conato di vomito.
Altri due beep ravvicinati dal cellulare che ho lasciato nell’abitacolo. Mi allungo a prenderlo.
Ancora mia figlia.
«dicono ke se i comandanti non aprono si fanno esplodere»
Perdo respiro e battito cardiaco.
Osservo le luci dell’aeroporto che da qui sembrano lontanissime, quelle intermittenti della torre
di controllo, intuisco a stento quelle rettilinee delle piste d’atterraggio.
L’aereo arriva tra dieci minuti. Io sono un po’ in ritardo ma non mi preoccupo, perché le
procedure di sbarco impiegano sempre un bel po’, anche se il volo è un nazionale e l’aeroporto
quello più sgangherato d’Italia.
Arriva un altro sms, il cellulare stretto in mano. Sempre lei. Sempre mia figlia. Premo il verde.
«Quassù niente campo tizi ke parlano in arabo ma sono italiani dicono bomba e allacbar»
Crollo in ginocchio sull’asfalto. Il cuore esplode, le lacrime allagano la vista, la strada sfuma, il
mondo si spegne come una stella cadente nella notte.
5.
Riprendo conoscenza.
Il viso di mia moglie mi fissa spaventato. Riconosco la nostra camera da letto, l’abat-jour acceso
dal suo lato e la luce fragile dell’alba che filtra dalle tende perché le tapparelle sono abbassate fino
a metà vetro.
Mi chiede se la riconosco. Mi chiede se mi sento bene. Mi dice che stavo piagnucolando nel
sonno. Mi chiede se era un brutto sogno.
Non rispondo a nessuna delle domande e le chiedo di Beatrice. Lei arriccia le sopracciglia, mi
risponde che Bea è a Torino come al solito e Betta è in camera sua. Poi aggiunge un «almeno
credo».
Mi sollevo sui gomiti e mi accorgo di essere accaldato, anzi sudato. Le sorrido e sussurro che si è
trattato di un incubo, un brutto incubo.
Non le dico che ne sto facendo uno simile ogni notte, ogni singola notte, da una settimana a
questa parte.
Mi dice col suo tono da maestrina che gli incubi dell’alba sono quelli che s’avverano, lo afferma
una credenza popolare, e si mette a sedere sul bordo del letto, recupera la sveglia sul comodino e
l’avvicina agli occhi perché senza gli occhiali, lasciati in cucina, è una talpa, afferma una ovvietà
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sul fatto che è prestissimo, poi si alza. La camicia da notte resta sollevata e io le guardo il culo
armonioso sebbene pesante e ingombrante. Un culo notevole per una quasi cinquantenne.
Lei infilza le ciabatte e si trascina fuori dalla camera da letto. Andrà in bagno, prima, e in cucina,
poi, ad accendere il fornello piccolo sotto alla macchinetta del caffè che ha caricato ieri sera,
l’ultima azione di ogni giornata, da che mondo è mondo, prima di coricarsi.
8.
Oggi è accaduto in pieno giorno. A lavoro. Mentre partecipavo alla più importante riunione del
mese.
La meeting room era affollata per la presentazione del piano di sviluppo del quadrimestre: tutti e
dodici i posti del tavolo in noce e acciaio erano occupati, capita raramente; lo erano anche i
quattro posti del salottino in pelle di fronte, sotto il finestrone panoramico, tra i vasi di dracene e
felci.
In piedi, il responsabile progettazione illustrava le cifre. Raccontava un aneddoto per giustificare i
tagli, narrava che nel 1987 American Airlines risparmiò quarantamila dollari togliendo un’oliva,
una singola oliva, a ciascuna delle insalate che serviva sui voli di prima classe. Su una lavagna di
carta campeggiava un istogramma con tutti i loghi delle aziende concorrenti. Quello più in alto,
alla sommità della colonna più lunga, era appena stato cerchiato di rosso. Con una calligrafia da
psicopatico il responsabile progettazione stava aggiungendo «togliere l’oliva».
Mentre cercavo di prendere appunti e confrontare i dati con quelli in mio possesso, ho percepito
qualcosa di strano nel campo visivo, come un particolare fuori posto, una bizzarria impercettibile,
nella coda dell’occhio o da quelle parti lì.
Ho voltato lo sguardo in direzione della finestra e l’ho vista.
All’inizio era una striscia grigia. Poi è diventata una scia di fumo che tagliava il cielo azzurro e
cristallino che si apriva dal finestrone, proprio sopra lo skyline della città.
Ho provato a non pensarci, a tenere bassa la testa sui fogli, a concentrarmi su numeri e
percentuali, a convincermi che fosse un’allucinazione.
Quando ho guardato di nuovo fuori, l’aereo già si distingueva.
I colleghi nella stanza sembravano non essersene accorti. Erano tutti impegnati ad analizzare il
grafico alla lavagna.
Fuori dal finestrone l’aereo puntava dritto su di noi, che eravamo all’ottavo piano del palazzone
centrale.
I vetri tremavano, il rombo era diventato assordante, il muso del velivolo s’avvicinava ad una
velocità supersonica.
Sono scattato in piedi. Devo aver gridato, anche, considerando le facce con cui mi hanno fissato
tutti i miei colleghi. Ho chiesto scusa con un balbettio. L’amministratore delegato, senza perdere
la calma, mi ha domandato se volessi intervenire, poi mi ha osservato meglio e mi ha chiesto se
andava tutto bene. Ho implorato di uscire e senza aspettare la risposta sono corso alla toilette.
Mi sono barricato dentro, raggomitolato accanto al water.
Mi ci è voluta mezz’ora per smettere di piagnucolare.
13.
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Il vaso di girasoli è troppo ingombrante rispetto alle dimensioni della scrivania. Lo penso un
attimo prima che la dottoressa mi chieda di descrivere la sensazione che ho provato.
Cerco di ricordare, chiudo gli occhi per astrarmi e lo studio medico scompare nel buio delle
palpebre. Mi giunge solo il ronzio di un macchinario proveniente da un’altra stanza e la mano di
mia moglie che stringe la mia.
Percepisco la sua fede nuziale all’anulare.
Rispondo che è come una decompressione nello stomaco, come i vuoti d’aria che capitano in
aereo, una turbolenza; dentro di me.
Apro gli occhi e la dottoressa non mi guarda, sta scrivendo qualcosa su carta intestata.
Mi volto verso mia moglie e lei mi sorride, ma solo con le labbra.
21.
Ancora due minuti e soffoco su quest’autobus, tra studenti chiassosi che hanno bigiato scuola e
pensionate depresse al ritorno dal mercato.
Scendo alla mia fermata e respiro l’arietta fresca, la busta del fruttivendolo non pesa niente: c’è
giusto un cespo di broccoli e un caschetto di banane. Percorro il marciapiede malmesso, evito le
mattonelle sghembe per non mettere il piede in fallo, sono prudente sui tappetini di foglie che il
vento mischia come mazzi di carte.
Giungo al chiostro dell’edicolante e mi fermo a esaminare le pubblicazioni in mostra. Sfilo
l’ultimo numero di Quattroruote e inizio a sfogliarlo.
L’edicolante mi saluta e io rispondo con gentilezza.
Mi fa notare che è da un po’ che mi vede al mattino. Aggiunge che faccio bene ad aver diminuito
l’orario di lavoro, che bisogna ritagliarsi i propri spazi, che le aziende sono delle sanguisughe, che
tutto il tempo trascorso in ufficio non ce lo ritroviamo più. Mi chiede se sono d’accordo con lui.
Penso un attimo alla risposta, considerando che la domanda l’ha posta una persona che lavora
quattordici ore al giorno, dal lunedì al sabato, e qualche volta anche la domenica. Gli allungo la
banconota per pagare la rivista che ho in mano. Lui rovista nel portaspiccioli e mi porge il resto.
È ancora in attesa della mia riposta.
Giro le spalle e vado a casa.
34.
Sotto la doccia ho pensato al culo di mia moglie, a quanto è morbido e rotondo e a quanto è
piacevole prenderla da dietro. Mi è venuto duro.
Mi sono asciugato in fretta e furia e sono entrato in camera da letto ben attrezzato. Lei si stava
spalmando la crema idratante sulle gambe, seduta sulla poltroncina. Mi ha guardato compiaciuta
e mi ha chiesto di chiudere bene la porta.
Mi ha sussurrato qualcosa sul fatto che da quando ho perso peso le piaccio ancora di più.
Ho perso l’erezione e non l’ho più riguadagnata.
55.
La voce suadente dell’assistente di volo mi sveglia cortese. Si chiama Caren, lo leggo dalla
targhetta dorata sul risvolto della giacca. Mi chiede di allacciare la cintura di sicurezza e di portare
il sediolino in posizione eretta perché incontreremo turbolenze.
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Con gli occhi socchiusi le chiedo cosa sta succedendo. Sono in aereo. Occupo un posto finestrino
sul lato sinistro. Non ho nessuno passeggero alla mia destra.
Caren mi tranquillizza, mi assicura che non c’è niente di cui preoccuparsi e ripete di allacciare la
cintura. Il sediolino lo solleva lei con delicatezza.
Le domando cosa ci faccio in aereo, io non sono mai salito su un aereo, oggi, io dovrei essere a
casa. Lei mi ascolta comprensiva, mi sorride e consiglia di rilassarmi perché mi sono appena
svegliato e potrei essere confuso.
Quindi prosegue il suo giro e va a controllare gli altri passeggeri, prima che io possa proferire
ulteriore replica.
Mi guardo attorno. L’aereo è deserto, intravedo una mezza dozzina di teste in tutto. Guardo fuori
al finestrino, quel grigio dovrebbe essere una nuvola vista da dentro, suppongo.
Le domande iniziano a incolonnarsi nella mia testa. Perché ho preso questo aereo? Dove sto
andando? Perché sono solo, senza la mia famiglia? Ogni interrogativo mi procura uno strattone
soffocante ai muscoli del petto. Non riesco a ricordare.
Poi l’aereo comincia a ballare.
Una scossa scuote ogni cosa, io m’irrigidisco, stringo i pugni, poi arriva un altro sussulto, poi un
altro ancora.
Le luci si spengono e si accendono un paio di volte.
Ho la sensazione di precipitare, ma è comune, dicono che capita tante volte, su tutti i voli.
Un altro brusco sobbalzo fa scattare un cicalino insistente, come quello delle automobili quando
non si allacciano le cinture di sicurezza. Adesso la situazione è critica. Abbiamo preso a scendere
in picchiata, in caduta libera, ci stiamo per schiantare.
L’ennesimo scossone mi sballotta a destra e a sinistra. Tutto trema. Si aprono delle cappelliere,
cade qualche oggetto. Scatta la procedura di emergenza e schizzano fuori le mascherine
dell’ossigeno.
Una voce concitata raccomanda di infilarle e solo in un secondo momento di prestare aiuto agli
altri passeggeri.
Non me lo faccio ripetere. Afferro la mia mascherina e la infilo, l’elastico mi stringe sulle
orecchie, inizio a respirare l’aria pressurizzata sparata dai fori nella plastica.
Mi tengo ai braccioli e chiudo gli occhi cercando di non pensare. Perché l’unico pensiero che
picchietta nel cervello è che sto per morire.
Inspiro. Espiro.
Mi sto per schiantare da qualche parte a bordo di un aereo che non ricordo di aver preso.
Inspiro. Espiro.
Per un motivo che non conosco.
Inspiro. Espiro.
Mentre andavo chissà dove.
Inspiro. Espiro.
Inspiro.
Espiro.
89.
Spalanco gli occhi.
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Un paramedico mi ordina di respirare profondamente, mi schiaccia la maschera dell’ossigeno sul
naso.
Siamo in cucina, a casa mia.
Betta si è appartata in un angolo, tra il frigo e la porta. Mi fissa e non fa niente. È bloccata per la
paura. La guardo e cerco di dirle di non preoccuparsi, ma non ce la faccio a farmi sentire,
appanno la plastica trasparente col fiato. Sono angustiato per lei, per il dolore che le sto
procurando in questo momento.
Il bicchiere di vino non si è rotto, quando mi sono trascinato la tovaglia, cadendo dalla sedia.
Siamo uno accanto all’altro, io e il bicchiere, sul pavimento. Nessuno ci ha tirati su.
Mia moglie entra nella stanza e mi si accovaccia di fianco, la gonna le si bagna col vino versato.
Mi riprende la mano e mi mormora di resistere, sarà a fianco a me in ambulanza.
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Il bip ha una cadenza regolare. Ipnotica. Respirare dalle cannule di plastica è una questione di
abitudine. Prima infastidiscono, poi ci si scorda di averle.
La camera è in penombra. La goccia nella flebo precipita con una frequenza diversa rispetto al
bip.
Seguo lo skyline illuminato della città. Le tende aperte della stanza d’ospedale permettono di
intravedere il firmamento notturno e le illuminazioni urbane.
Passano due infermiere nel corridoio. Una si ferma sull’uscio, si affaccia dentro, entra nella
stanza, si avvicina, si china su di me, nel buio non riesco a distinguerne bene i lineamenti del
viso, ha una targhetta sul camice, leggo Caren in un bagliore passeggero.
Mi chiede se sto bene. Mi chiama per nome. Abbiamo una certa confidenza.
Le chiedo di mia moglie. Lei risponde che è stata con me tutto il pomeriggio insieme a mia figlia,
la piccolina.
Un puntino nel cielo stellato si è spostato. Non è una stella.
Le chiedo dell’altra figlia, la grande. Dice che viene a trovarmi tutte le volte che torna da Torino,
dall’università.
Il puntino nel firmamento sta seguendo una sua rotta.
Diventerà un grande ingegnere, le sussurro, ingegnere aeronautico, proseguo con orgoglio.
Il puntino si sta ingrossando, sembra virare verso di me, verso di noi. È un aereo. Provo a
calcolare quanti minuti abbiamo a disposizione per scappare se scende in picchiata.
Caren percepisce il mio nervosismo, mi chiede se c’è qualcosa che non va.
Osservo il puntino che si è spostato ancora, si è frammentato in più luci, quelle alle estremità
alari e sulla coda, quelle sulla fusoliera. Si inizia anche ad udire il rombo.
Rispondo che non c’è niente che non va. Caren mi crede, mi rimbocca le coperte e mi saluta
augurandomi una buona notte.
Esce dalla stanza nel momento in cui il rombo dei motori inizia ad aumentare di volume, diventa
frastuono. Mi giro nel letto, staccandomi la flebo, e volto le spalle alla finestra mentre i vetri
cominciano a vibrare, a tremare, a scuotersi.
Stringo gli occhi e aspetto.
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