Nota dei curatori Matteo Belfiore e Salvator John

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Nota dei curatori Matteo Belfiore e Salvator John
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ISBN 978-88-8497-120-3
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
Grafica
Costanzo Marciano
Referenze fotografiche
Le immagini sono di Toyo Ito & Associates, Architects
Nacàsa & Partners Inc., pp. 22-23, 35, 44-45
Ishiguro Photographic Institute, p. 11
HORM s.r.l., p. 15
in copertina e retrocopertina:
Sendai Mediatheque, 2000-2008
(foto di Nacàsa & Partners Inc.)
Nota dei curatori
Matteo Belfiore e Salvator John Liotta
A fine intervista Toyo Ito ci invita a posare con lui
mentre solleva il Leone d’Oro vinto alla Biennale
di Venezia, come se anche noi fossimo stati in
qualche modo coinvolti nella sua vittoria.
Questa è forse l’immagine che meglio rappresenta la forza di questo maestro dell’architettura
moderna: giocare in team, rendere partecipi gli
altri dei processi progettuali, pensare che l’architettura sia una disciplina fondamentale nel
definire le sorti di una società. In lui traspirano
una continua tensione verso soluzioni avanguardiste e un’ottima qualità dell’immaginazione.
Questa stessa qualità ritroviamo nella sua predisposizione a vivere una vita che è anche un
progetto di vita. Ringraziamo Miki Uono, Takumi
Kimura, Keiko Sasahara Abe, Shiori Ito, Taketo
Ohta per il prezioso aiuto e la consulenza tecnica prestataci.
Matteo Belfiore (1979) è dottore di ricerca in Progettazione
Architettonica e Urbana e dal 2010 Postdoc Researcher presso il
laboratorio di Kengo Kuma all’Università di Tokyo. Alla pratica
professionale affianca una costante attività di ricerca sui temi dell’architettura contemporanea.
Salvator-John A. Liotta (1976) è ricercatore presso il laboratorio
di Kengo Kuma all’Università di Tokyo. Ha collaborato con
Domus, Compasses e Area. Suoi progetti sono stati esposti alla
Biennale di Architettura di Venezia, alla Biennale d’Arte di Berlino,
al Museo di Arte Moderna di Varsavia.
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Una sua grande passione è il baseball. In che
modo lo sport ha formato e influenzato il suo
carattere?
Il baseball mi piace moltissimo, l’ho praticato
fino al completamento delle scuole superiori ma
adesso lo guardo solamente perché non ho più
il tempo di praticarlo. È uno sport formativo perché si gioca in team e questo impone uno spirito di collaborazione a chi lo pratica. Mi ha aiutato molto a confrontarmi con gli altri, ha avuto
un’influenza positiva sul mio carattere.
Come ha iniziato il mestiere dell’architetto e
quali sono state le sue prime esperienze professionali?
Ho aperto il mio studio quando avevo 29 anni.
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Di solito, i primi incarichi professionali riguardano case private, architetture piccole di vario
genere, bar, arredamenti di negozi. Personalmente, ho progettato le case di alcuni amici
miei e dei miei genitori e qualche edificio commerciale di piccole dimensioni. Per lungo tempo
ho fatto questo tipo di lavori. Ho costruito il mio
primo edificio pubblico nel 1988, quando avevo
47 anni.
Toyo Ito (1941) e Tadao Ando (1941) rappresentano le due punte di diamante della attuale
scena architettonica giapponese. Il primo
sembra incarnare lo spirito della contemporaneità, il secondo quello della tradizione…
Potrei dire che io sono ciò che dico e ciò che
penso, io sono le mie parole e i miei pensieri.
Nei miei pensieri e nelle mie parole c’è la mia
modernità, ma si annida anche in modo inconsapevole lo spirito tradizionale del Giappone.
Proprio perché è dentro di me in modo involontario, questo spirito della tradizione lotta per
venire fuori anche quando tendo a ricacciarlo
indietro, dentro di me. Gli stili di vita contemporanei tendono a presentare dei tratti comuni a
livello mondiale. È ciò che si definisce omologazione. Per quanto mi riguarda sono nato e cresciuto in Giappone e quindi, anche inconsape8
volmente, la cultura tradizionale giapponese in
me si manifesta spontaneamente, senza che io
possa oppormi. Eppure io la posso filtrare,
interpretare con la mia contemporaneità.
Qual è il rapporto tra teoria e pratica nel
nostro mestiere?
Sono convinto che una teoria che non sia fondata sulla pratica non abbia un vero significato.
Per quanto mi riguarda, ogni volta che metto in
pratica una teoria, mi rendo conto della differenza enorme che vi è rispetto all’idea originaria
che avevo avuto e alla sua realizzazione.
La struttura teorica della mia attività è basata
sulla messa in pratica della teoria, cioè sulla realizzazione di un pensiero teorico. Una volta realizzato, rifletto intensamente sull’esperienza che
ho fatto e da qui nasce un nuovo pensiero teorico. È un processo continuo di feedback e analisi incrociate. Se questo non avviene, allora è
come se ci fosse qualcosa che non sta andando nella direzione giusta.
Secondo lei le teorie di Deleuze e Guattari sulla
nomadologia hanno influenzato in suo lavoro?
Non ritengo che il concetto di nomadologia di
Deleuze e Guattari mi abbia influenzato in modo
diretto. A ogni modo, riconosco che la vita degli
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abitanti nelle nostre città è caratterizzata da ritmi
che non conoscono soste, è scandita da un
movimento continuo che si può paragonare forse a quello dei nomadi.
I legami familiari sono diventati più labili, la consapevolezza dell’identità regionale o nazionale si
è assottigliata, lasciando spazio all’emergere di
relazioni individuali. Per di più, queste relazioni si
intrattengono dentro un sistema dinamico che
non smette mai di muoversi.
Penso che questo tipo di flusso continuo che
coinvolge così tante persone sia un fenomeno
nuovo, di indubbio interesse, del quale ancora
non comprendiamo gli effetti. E ciò rappresenta
per me fonte di continuo stimolo. Mi spinge a
riflettere su quale tipo di spazio, su quale tipo di
architettura possa aver bisogno gente profondamente immersa nel flusso continuo della vita
moderna.
Ed è per questo che, facendo salva l’importanza che devono avere i sentimenti della famiglia,
non ho molto interesse per un’architettura fondata esclusivamente sulla coscienza e sulla
conoscenza del passato. Ciò mi porta quasi
naturalmente a pensare architetture che guardano alle nuove forme di relazione che le persone
intrattengono. Perciò progetto spazi dove siano
la leggerezza e la fluidità a rappresentare il con10
Tama Art University Library, 2002-2007
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tinuo movimento nel quale sono immerse le
nostre vite.
Le Lezioni americane di Italo Calvino possono
averla influenzata sulla definizione di temi quali
la leggerezza e la trasparenza che caratterizzano la sua produzione architettonica?
Non ho letto Lezioni Americane di Calvino, però
ho un ricordo molto vivo de Le città invisibili, e il
modo fantastico con il quale in quel libro si
entra da posti reali e si esce da luoghi immaginari. È un libro che fa sognare, con una concentrazione e una densità incredibili di fantasia. Non
so rispondere con esattezza alla domanda che
lei mi pone. Posso però dire che è un libro che
mi ha sicuramente molto divertito.
Quali sono i caratteri della sua proposta per
un’architettura dell’era elettronica?
Si dice che il XX secolo sia stato il secolo dell’elettricità e che adesso invece siamo entrati in
quella dell’elettronica. Noi sappiamo che le
macchine esistono e rappresentano l’astrazione
all’interno del complesso sistema della natura.
Sono elementi solo apparentemente non-naturali e ci aiutano a rendere efficiente il nostro
sistema di produzione. In altri termini, sto parlando del frequente dibattito tra natura e artifi12
cio, tra anima e tecnologia. La tecnologia è
secondo me un’astrazione naturale che negli
ultimi tempi ha avuto uno straordinario sviluppo.
La differenza sostanziale esistente tra il sistema
delle macchine e il sistema elettronico consiste,
a mio parere, nel fatto che l’era delle macchine
era definita da un sistema basato sull’uso di singole parti assemblate assieme.
Queste singole parti rendevano efficiente la produzione, ma tutto il sistema si basava sulla
autonomia degli elementi che erano scissi dal
sistema superiore al quale davano vita.
Nell’era dell’elettronica assistiamo invece al
nascere del concetto di network: quell’elemento
che prima era scisso, adesso viene messo a
sistema, fa parte di qualcosa di più grande, e ha
anche cominciato a emettere segnali. E questo
in qualche modo lo fa rassomigliare e lo avvicina
al funzionamento complesso della natura. In
buona sostanza, mi sembra che la tecnologia
dell’era elettronica si stia, e ci stia, avvicinando
al mondo della natura dal quale si era temporaneamente allontanata quando mostrava il suo
carattere meramente meccanico.
Nella sua visione del futuro, natura e tecnologia saranno una cosa sola. Ci chiarisce questo
suo pensiero?
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Provo a dare una spiegazione partendo dai
sistemi biologici. Se guardiamo al mondo della
natura, come l’acqua che scorre, o i flussi del
vento, o alla forma degli alberi, o alle forme
viventi ci rendiamo conto che non vi è la presenza di angoli retti. Allora mi chiedo: perché i fiumi
non scorrono in linea retta? Perché i rami degli
alberi non si diramano usando angoli a novanta
gradi? L’architettura invece usa quasi sempre gli
angoli retti e quando non lo fa, usa le forme circolari facendo uso di una geometria elementare,
di una geometria spontanea, ingenua potremmo
dire. Per quanto mi riguarda, ritengo che la vita
degli uomini sia stata influenzata dal mondo della natura. Più mi avvicino alla complessità del
sistema naturale, più spontaneamente cerco di
usare una geometria che esprima una architettura vicina al mondo della natura. Ed è per questo che l’uso del computer, con il quale si possono compiere dei calcoli complessi, ci ha dato
maggiori possibilità di avvicinarci di più a un’espressione “naturale” che appartiene più al XXI
secolo che a quello precedente. Trovo questo
pensiero particolarmente eccitante.
L’artista coreano Nam June Paik afferma che
la videoarte imita la natura, non nel suo aspetto o nella sua dimensione, ma nella sua intrin14
Ripples, 2003
realizzato da HORM s.r.l.
seca struttura temporale. In che modo la sua
architettura imita la natura?
Il primo problema riguarda il trascorrere del tempo. Ciò significa che il mondo della natura non
ferma mai la sua evoluzione, pulsa sempre, in
essa tutto si muove e muovendosi cambia di
continuo. Quando e come l’architettura si inserisce in questa situazione? Innanzitutto, ritengo
che in questo processo l’architettura non vi
rientra sempre e a priori, ma acquista una sua
ragione d’esistere solo quando riesce a instaurare relazioni con la natura, ogni qual volta la
natura stessa pone all’architettura dei problemi.
Concedetemi un esempio che permetterà di
capire facilmente cosa intendo dire.
Sappiamo che l’acqua di un fiume scorrendo
dentro gli argini determina una corrente.
Se provo a mettere dentro questa corrente un
palo, si cominceranno a formare dei piccoli
mulinelli in quella particolare zona del fiume.
Ancor più della corrente - che rappresenta la
condizione dinamica iniziale - come architetto
sono interessato a questi vortici che si vengono
a formare attorno al palo, a ciò che la presenza
del palo è capace di produrre e mutare nella
condizione originaria, nella immagine del fiume
che comunque continua a scorrere.
In generale, quando gli architetti costruiscono
un palazzo è come se piantassero un palo all’interno del tessuto urbano che si può assimilare
al grande flusso d’acqua che scorre.
Certo, esso è più lento nel trasformarsi e non ha
la stessa fluidità della corrente. Sicuramente,
non arrivo a pensare che i palazzi che costruiamo possano muoversi. Per analogia con il palo
e la corrente del fiume, voglio dire che quel
palazzo inserito in un tessuto urbano determina
un cambiamento in quel posto mentre tutto il
resto resta immutato. Io sono interessato al
cambiamento del tessuto urbano in quel punto,
ai mulinelli. Sono interessato alle relazioni con il
contesto, ai flussi che danno forma alla natura e
alla vita.
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La cultura giapponese riconosce i tratti dell’eternità in ciò che vive e perisce rapidamente.
Alcuni templi vengono ciclicamente abbattuti
e ricostruiti, così come molti edifici civili. Ciò
che si vuole tramandare non è la sostanza fisica ma lo stile, il senso celato dietro ogni opera. Che rapporto hanno i suoi edifici con il
tempo?
I templi scintoisti vengono distrutti e ricostruiti
più volte, ed è nella ripetizione di questo gesto
che lo scintoismo rivela ai propri fedeli il rito della trasformazione della vita in morte e della mor-
te in rinascita a nuova vita. La continua ricostruzione simbolizza l’esperienza di ciò che è eterno
e la comprensione del senso dell’eternità è affidata alla reiterazione del gesto di ricostruzione...L’architettura tradizionale giapponese ha
usato il legno come materiale di costruzione, il
suo ciclo di vita è sempre stato particolarmente
breve, soprattutto se lo paragoniamo alle
costruzioni europee in pietra. Ma come riuscire
a far vivere a lungo un’architettura? Credo che
conosciate la tecnica usata nel santuario di Ise.
Lì vi sono due terreni sacri contingui, su uno di
essi vi si trova il santuario che ogni 15 anni viene
abbattuto per essere immediatamente ricostruito nel recinto sacro contiguo. In questo modo si
procede alla purificazione della casa sacra degli
dei che viene ricostruita immediatamente accanto per ospitare i tesori sacri della religione scintoista. In questo modo, attraverso la sua ciclica
ricostruzione, il tempio comunica un messaggio
alle generazioni future. In Oriente, non è la materia che conserviamo ma la tecnica.
Per quanto riguarda le mie architetture, non
voglio che vivano per 100 o 200 anni. Se anche
durassero molto meno, tanto quanto la vita di
una persona,10, 20 o 30 anni, ciò non sarebbe
per me motivo di sconforto perché non è la
durata ciò che desidero per le mie opere.
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Relaxation Park
in Torrevieja, 2002
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