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VINCENZO COTENNA E LA SUA FAMIGLIA, PARTECIPI DEL RISORGIMENTO LUCCHESE Il Risorgimento, che sarà ricordato nella sua data simbolica del 17 marzo del 2011 - quando il nuovo Parlamento, 150 anni fa, proclamò il Regno d'Italia, con capitale a Torino, con sede nel Palazzo Carignano - era una parola che aveva il significato di “risurrezione” della patria. Patria da tempo soggetta alle invasioni straniere ed alle divisioni interne. Ricordo che dopo la calata dei francesi di Carlo VIII alla fine del 1400, e le guerre d’Italia per la supremazia sul nostro paese, si coniò il detto “Franza o Spagna purché si magna” che rende bene l’idea dello smarrimento e dell’impotenza degli italiani di fronte alle organizzate armate straniere. Alla fine del 1700 un altro esercito calava nella Penisola, guidato da Napoleone Bonaparte, nella campagna d’Italia della Francia Rivoluzionaria. Ma stavolta le conseguenze sarebbero state diverse. Anche se involontariamente, l’esercito straniero risvegliò un sentimento nazionale in un paese che da secoli ne era privo. Con l’occupazione francese, pesante e non indolore, si produssero però importanti modifiche politiche, economiche e sociali (faccio riferimento, per brevità, solo al Codice Civile del 1804). Molti italiani intravidero allora un’Italia nascente. Certo il trattato di Campoformio (si pensi alle Ultime lettere di Iacopo Ortis del Foscolo) scosse la fiducia dei rivoluzionari italiani, tanto che dalla fine del 1797 si rafforzò una corrente antifrancese decisa a contare solo sulle proprie forze, che giungerà poi a Mazzini ed al suo disegno di democrazia costituzionale e popolare. Tutto questo, però, non può farci dimenticare il fermento politico portato da Napoleone, figlio dalla Grande Rivoluzione che egli stesso seppellì, dopo averne sparpagliato i semi della libertà. Anche a Lucca, in quegli anni iniziavano a circolare le parole “illuminismo, democrazia, uguaglianza” e la magistratura lucchese dovette impegnarsi per soffocare varie attività cospirative contro il governo aristocratico. La famiglia Cotenna, della quale vi parlerò, sarà un punto di riferimento per i democratici di allora e lo sarà anche nei decenni successivi. Il nome si può prestare all’ironia, che però è smentita dal valore morale e culturale dei suoi componenti. Inizio con Vincenzo Cotenna, nato nel 1772, da una agiata famiglia borghese che aveva residenza principale in una villa di Monte S. Quirico, dove attualmente vi sono i Frati Cappuccini. Versato nelle lettere (conosceva il greco ed il latino, parlava francese, inglese e tedesco), si laureò a Pisa, nel 1795, in giurisprudenza. Qui nacque la sua vena giacobina che si consolidò a Firenze, dove faceva pratica forense. Quando i francesi arrivarono in Italia, si schierò con loro (1797) seguendoli a Massa e, insieme ad altri giacobini, organizzò il colpo di mano su Montignoso del 12 marzo 1798, per aggregare la cittadina della repubblica lucchese, alla Repubblica Cisalpina. Qui fu innalzato il primo albero della Libertà in territorio lucchese. Il 3 gennaio 1799 le truppe francesi, occupavano Lucca e abolivano l’antico governo oligarchico, istituendo la Repubblica democratica. Cotenna era nominato Ministro della Guerra e della Marina. La mattina del 16 piovoso (4/2), anno VII, si ballava intorno all’albero della libertà, in piazza S. Michele. L’abate Jacopo Chelini, autore dello “Zibaldone lucchese”, fonte storica favorevole 1 all’ancien regime, non apprezzava il Cotenna, che - diceva - odiava l’aristocrazia, in virtù del “natural suo maltalento”. In effetti Cotenna fu uno dei democratici più radicali della Repubblica. Decisa ed efficace fu la sua azione allo scoppio delle insorgenze sanfediste (maggio 1799), che furono conosciute come i moti del “Viva Maria”. Nell’aprile erano insorti i paesi del Valdarno, seguiti dal Casentino, da Borgo S. Lorenzo e dalla Val di Nievole, dalla Val di Chiana, poi Volterra, Signa e la Versilia. I primi di maggio insorsero anche gli Aretini, al grido di “Viva Maria”, suggestionati dalla voce di chi sosteneva di avere visto la Madonna su una carrozza in giro per le piazze e incitante alla rivolta. La ribellione ebbe aspetti feroci, in particolare contro gli ebrei toscani. Cotenna, guidato da un presentimento, aveva ordinato per tempo di rinforzare le difese dell’artiglieria di Viareggio, dove si temevano intrusioni, via mare, degli Inglesi. Infatti, un migliaio di rivoltosi insorgevano a Camaiore ed in Versilia. Egli non esitò ad ordinare eventuali fucilazioni sul posto dei capi contro-rivoluzionari e con l’ intervento delle truppe francesi venne stroncata la ribellione. Il 12 maggio la situazione era quasi sotto controllo. Per sedare definitivamente ogni focolaio, furono inviate truppe a Collodi e poi a Medicina, dove i soldati della Repubblica lucchese, arrestarono 17 persone, fra le quali vi era un sacerdote. Le altalenanti vicende militari lo costrinsero ad abbandonare Lucca, insieme ai francesi, che vi rientrarono il 9 luglio 1800, ricostituendo un altro governo democratico, nel quale Cotenna fu Ministro per gli Affari Esteri. Dopo la vittoria di Marengo (giugno), i francesi prendevano in pugno la situazione italiana, fino al 1814. Con l’incoronazione a re d’Italia di Napoleone, nel 1805, Lucca divenne Principato per Elisa Bonaparte e la influenza politica e diplomatica di Cotenna andò a scemare. Il giacobino lucchese si ritirava a vita privata, nella sua villa, che diventava centro di vita democratica, circolo letterario e rifugio di cospiratori. Morì il 20 aprile 1840, non senza essersi interessato ai moti patriottici che stavano riformandosi, mantenendo intense relazione anche con Silvio Pellico. La Restaurazione assegnò a Maria Luisa di Borbone (1817) il principato di Lucca, che venne trasformato in ducato. Alla sua morte, le successe il figlio Carlo Lodovico (1824). Ed era sotto la sovranità di quest’ultimo che avveniva, nel 1847, la fine della secolare autonomia dello stato lucchese, cancellato per sempre dal teatro della storia d’Italia e d’Europa: alle dame della nobiltà locale, all’annuncio della cessione di Lucca, non restava che esclamare sgomente: ”diventeremo Peretola”. Nell’ ex stato di Lucca, nei dodici anni che separarono dalla reversione del ducato, al 27 aprile 1859 (quando la fuga di Leopoldo II sancì la fine del Granducato di Toscana), la vecchia classe dirigente lucchese si trincerò, passiva, dietro le sue categorie di giudizio riducibili al trinomio: ordine, religione, denaro. Era un modello che la avrebbe ispirata anche davanti agli avvenimenti del 1859, visti come inutili e costosi, di cui si poteva benissimo fare a meno: che era il giudizio più duro che un patrizio lucchese potesse dare. Tale modello, non impediva, comunque, l’azione di chi coltivava, nella Lucchesia, gli ideali democratici e lottava per l’unità e l’indipendenza nazionale. Già dopo i fallimenti dei moti del 1831 si erano segnalate presenze repubblicane nel Compitese, dove si diffondeva la Gazzetta del Serchio (1835), manoscritta e 2 riportante sulla testata il motto della Giovine Italia di Mazzini : “Perseguitate colla verità i vostri persecutori. Scrivete”. Pieve Fosciana, (sotto il ducato estense di Modena), aveva conosciuto nel 1831 la “rivolta del tricolore”. A Segromigno, la villa dell’avvocato Binda era ritrovo di cospiratori. A Seravezza e a Pietrasanta, nel 1831 venivano arrestati i fratelli Bichi, Michele Carducci, (il padre di Giosué) e Antonio Gherardi Angiolini, accusati di essere affiliati alla società segreta dei Militi Apofasimeni, fondata dal nobile piemontese Carlo Bianco di Sant Jorioz, che poi confluì nella mazziniana Giovine Italia. Cresceva, poi, un movimento politico democratico, espressione di una borghesia profes-sionale formata in gran parte da avvocati, insegnanti, liberi professionisti, che si spingerà, nel biennio 48-49, su posizioni repubblicane. Per qualche mese circolò “La Campana del Popolo”, un giornale diretto da Spiridione Cipro, attore veneziano stabilitosi a Lucca, che si distingueva per un programma nettamente repubblicano. Nella valle del Serchio, si delineava la importante figura di livello nazionale di Antonio Mordini, intorno al quale un gruppo di giovani dava inizio alla prima fase di quello che il prof. Umberto Sereni definisce il “lungo ciclo del Risorgimento”, durato fino al 1866. Un altro nome importante che segnalo è quello di Nicola Fabrizi, la cui famiglia paterna era originaria di Sassi – Molazzana. Il 26 aprile del 1859 l’Austria dichiarò guerra al Regno di Sardegna: era l’inizio della II Guerra d’Indipendenza. Il giorno dopo, a Firenze, la folla scese in piazza a sostegno dei Savoia, inducendo alla fuga Lepopoldo II che lasciava la città ad un Governo Provvisorio Toscano, subito schieratosi contro l’Austria. A Lucca già dagli inizi del 1858 esisteva un comitato che aveva aderito alla Società Nazionale del La Farina, formato da vari democratici delusi dal fallimento del moto mazziniano di Livorno, del ’57. Ricorrevano anche in questa fase i nomi già presenti nel 1848-49 dell’ingegnere Giovacchino Allegrini, di Tommaso Paoli, dell’avv. Carlo Massei. Dai rapporti della polizia che li controllava, si viene a sapere che circa 200 erano i patrioti che lasciarono il compartimento per partecipare alla guerra. Fra questi, un gruppo di 25 militari che la notte del 18 aprile disertarono, abbandonando la loro caserma. Dalle Valle del Serchio partirono altri giovani la cui età variava da 17 a 27 anni. Anche per la spedizione dei Mille vi fu il contributo della nostra provincia: Giovanni Antonelli, bracciante di Pedona di Camaiore, fu fra i 1089 garibaldini che partirono da Quarto il 5 maggio 1860; alla spedizione si aggiunsero il ventitreenne Fernando Santi, che combatté sul Volturno, ed il suo compaesano barghigiano, Vincenzo Rondina che parteciperà anche alla battaglia di Mentana, nella quale trovò la morte un altro lucchese, il figlio del patrizio Cesare Bernardini, schierato però con la parte avversa, in difesa, come fu scritto, “dei diritti sacrosanti della Santa Sede”. In quegli anni, la democrazia toscana, sensibile alla dottrina associazionistica di Mazzini ed ai fermenti garibaldini, dava vita alla Fratellanza artigiana d’Italia (febbraio del 1861). Uno dei promotori fu il fornaio Giuseppe Dolfi. Negli archivi della Domus Mazziniana di Pisa è conservato un fondo a suo nome, del quale è stato pubblicato recentemente un inventario contenente diverse lettere che confermano la non indifferenza della nostra terra verso le vicende risorgimentali. E in questa corrispondenza ritroviamo anche quei nomi che mi permettono di chiudere il cerchio della mia esposizione. Ossia i nomi delle due donne della 3 famiglia Cotenna di Monte S. Quirico, che continuavano la tradizione patriottica e cospiratoria di Vincenzo. La prima era Gaetana Del Rosso, la moglie vissuta fino al 1860, descritta come tenace nelle sue convinzioni politiche, di grande cultura (si dice che conoscesse tutte le lingue). Apparteneva ad una importante famiglia fiorentina, con possedimenti ad Asciano di Pisa e che a Firenze dette sostegno al movimento liberale toscano. L’altra fu Cleobulina (1810 – 1874), la figlia, il cui inusuale nome è legato alla antica Grecia (era il nome della figlia di Cleobulo, saggio di Lindos, cittadina dell’isola di Rodi, fanciulla virtuosa e sapiente tanto da stare al pari dei maggiori filosofi). Ed è probabile che la scelta del suo nome fosse influenzata dal romanzo patriottico di Vincenzo Cuoco, pubblicato tra 1804 e 1806, Platone in Italia, in cui si narra di un viaggio nella penisola di Platone e Cleobulo, che in sostanza rivendicava il primato filosofico, intellettuale e politico dell’Italia antica. Cleobulina Cotenna si sposò con Gabriello Leonardi di Coreglia, il quale combatté nella I Guerra di Indipendenza, nel 1848, volontario insieme ad altri coreglini. Ebbe sette figli, dei quali sopravvissero i soli Vincenzo, Polissena, Italico. Una tenace tradizione orale sosteneva che nella casa di Monte S. Quirico trovassero ospitalità sia Mazzini, che la sua donna Giuditta Sidoli. Furono ospiti, a Monte S. Quirico, Silvio Pellico, più volte il Guerrazzi e Giacomo Medici. Cleobulina, per il suo impegno politico venne imprigionata nel 1858. Seguì il figlio Vincenzo, volontario nel 1859 sui campi della Lombardia, insieme ad altri volontari, quasi tutti appartenenti alle classi popolari, con l’aggiunta di qualche bracciante e di alcuni studenti. Fornì assistenza ai soldati feriti e partecipò di persona a numerosi fatti d’armi. Nel fondo Dolfi citato figura una corrispondenza fra lo stesso, Cleobulina e sua madre Gaetana Del Rosso, dalla quale apprendiamo che la figlia di Cotenna era coinvolta in quel comitato impegnato a reclutare volontari da inviare in Sicilia con Garibaldi. Augusto Mancini, nel suo saggio “Donne letterate e patriotte lucchesi”, pubblicato sulla Nova Antologia nel 1913, la descrive come donna di grande sentimento, anche eccessivo, irrequieta, con una morbosa eccitabilità nervosa. Pronta ad assistere famiglie ammalate, senza risparmiarsi, oltre che facile preda del suo estro poetico che, quando l’assaliva, le faceva passare nottate insonni. Mangiava pochissimo, trascurando la sua persona, e mostrava un coraggio più che virile, come nell’occasione che la vide sfidare l’ira superstiziosa della massa rurale inferocita che voleva dare fuoco alla sua casa, alla caduta del governo del Guerrazzi e che di fronte alla sua decisa calma nel fronteggiarla, rinunciò al proposito. Sembra, anche che credesse nella reincarnazione e che fosse convinta di presentire avvenimenti importanti. Non solo, si dice, avesse presentito calamità domestiche od il terremoto dell’agosto 1846, ma che dalla visione di un uccello di elevata grossezza e dai colori anomali, che volava sul suo giardino, avesse percepito i pericoli che Garibaldi stava correndo nelle fasi concitate della difesa della Repubblica Romana. Sebbene avesse scritto alcune novelle che sferzavano il comportamento del clero e avesse difeso, in altri suoi scritti, la libertà di pensiero, Cleobulina viene indicata come donna di profonda “ma libera” religiosità, pronta, come lo fu tutta la famiglia, a prodigarsi per gli altri, spendendo buona parte del suo patrimonio, che impiegato anche per il progetto patriottico, si ridusse, alla fine della sua vita, a poca cosa. Quindi ben diversa dal giudizio del popolino che la dipinse, falsamente, come 4 atea. Poco prima di morire aveva disposto che Riccardo Cerri, un affezionato amico del figlio Italico scomparso, divenisse erede di tutti i suoi beni, compreso la villa che, poi sarebbe divenuta sede del convento degli attuali Frati Capuccini nel 1885 (*). Desidero segnalare, infine, che la storia del Risorgimento lucchese continua anche negli anni successivi al 1860. Dopo l’unità d’Italia, si distinguerà nel nostro panorama la figura di Tito Strocchi (Lucca, 1846– 1879), che combatté con Garibaldi a Mentana e a Digione e che fu partecipe dei moti insurrezionali del giugno 1870. Mazzini lo riteneva uno dei suoi uomini migliori e più fedeli, anche per il suo impegno nelle varie trame sovversive, fra cui i moti insurrezionali lucchesi del giugno 1870, sventati dalle autorità e puniti con il carcere. Moti sviluppatisi in tutta Italia, ed ai quali, a Pavia partecipò il caporale lucchese Pietro Barsanti, fucilato il 27 agosto 1870 a Milano, nel Castello Sforzesco. Ma purtroppo l’ argomento esula da questa trattazione. Vi ringrazio dell’attenzione. Capisco che possiate avere il dubbio sulla utilità pratica di quanto ho esposto, rispetto ai problemi che dovete affrontare nella quotidianità. So anche che il Risorgimento si può prestare ad abusi retorici. Esso non fu una cosa lineare e il movimento politico che lo animò fu molto articolato. Ma pensando al fatto di essere riusciti a costruire l’edificio dello Stato unitario, superando la perdurante ostilità della Chiesa, i problemi del brigantaggio, delle sfortunate campagne militari, della varie sommosse locali e dei vari focolai insurrezionali compreso quelli che coinvolsero Tito Strocchi e Pietro Barsanti sopra citati, passando attraverso la crisi politica di fine secolo, con l’assassinio del re Umberto I, si deve apprezzare la costituzione dello Stato nazionale, il quale, con tutti i suoi limiti e le sue carenze, era pur sempre la prima tappa per l’inserimento dell’Italia nella civiltà moderna. A volte possiamo sentirci a disagio in questo paese, dove se avete successo, anche disonestamente, tutti vi approvano e dove se fallite, anche con onestà, tutti vi ridono dietro. Ma come direbbero gli Inglesi: right or wrong is my country, giusta o sbagliata, è la mia terra. E non bisogna buttare via il bambino con l’acqua sporca. Perché tutto non è da buttare. Il Risorgimento, pur coi suoi chiaro-scuri, è una delle cose buone che dobbiamo conservare. Sappiamo che la Storia non dà ricette magiche per i risolvere i problemi dell’attualità e ognuno deve costruire il proprio futuro rispondendo ai problemi del presente. Però queste risposte possono essere più facili conoscendo meglio le nostre radici, che ci permettono di ampliare il nostro angolo di visuale e, se vogliamo, almeno ci consentono di mostrare un po’ di rispetto a quei portatori della fiaccola della libertà che parteciparono al Risorgimento italiano. Roberto Pizzi 5 (*) Il 20 Novembre 1885 per atto del Notaio Giuseppe Paganini, i Signori Favilla, Giannoni, Tambellini, Carmassi e Martinucci (Cappuccini ma non tali davanti alla legge) realizzando l'antico desiderio, acquistarono dal Sig. Riccardo Cerri, erede della Sig.ra Cleobulina, famiglia ormai estinta, la Villa Cotenna con l'annesso parco che adattarono a Convento. 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