Untitled - Tralerighe
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Times MORENA ROSSI CHE M’IMPORTA CHE TU FACCIA LA BRAVA Copyright © 2016 Tralerighe s.n.c. via A. Tantardini, 7 - 20136 Milano Tel. 02/36577292 - Fax 02/92877149 [email protected] - www.tralerighe.biz In copertina: 363 Days of Tea, Day 275 di Ruby Silvious (ispirata a un dipinto di Antonio Macedo). Tutti i diritti sono riservati, compresi la traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione, la comunicazione al pubblico e la messa a disposizione con qualsiasi mezzo e/o su qualunque supporto (ivi compresi i microfilm, i film, le fotocopie, i supporti elettronici o digitali) nonché la memorizzazione elettronica e qualsiasi sistema di immagazzinamento e recupero di informazioni. Per altre informazioni o richieste di riproduzione si veda la sezione «Note legali» sul sito www.tralerighe.biz Prima edizione: giugno 2016 ISBN 978-88-99575-07-6 Que m’ importe que tu sois sage? Sois belle! Et sois triste! (Charles Baudelaire, Madrigal triste) 1 Era difficile per Giorgia ogni volta incastrare la gamba destra tra il bidet e il box doccia. Quello spazio così ristretto, che un idraulico sconsiderato aveva lasciato tra i sanitari del bagno dopo l’ultimo intervento di ristrutturazione voluto dalla padrona di casa, la costringeva sempre a sedersi un po’ di lato. Quando si lavava non le dava granché fastidio, se non che vista dall’alto veniva meno la simmetria tra le sue cosce divaricate, la vasca di ceramica e i rubinetti dell’acqua. Beh, no, le davano fastidio anche gli slip che rimanevano ancorati alle caviglie, quelle rare volte che le capitava di non toglierseli come quella mattina, ma quello forse non era dovuto alla posizione infelice del bidet. Aveva appeso un piccolo specchio proprio lì, all’altezza del suo viso quando era seduta, credo per far capire che lei se lo faceva rivolta con lo sguardo al muro. Poco più in alto su quelle pretenziose mattonelle bianche bordate d’oro, che Giorgia non avrebbe mai scelto, c’erano due quadretti con Andromeda incatenata di Tamara de Lempicka e Autoritratto con scimmie di Frida Kahlo. 8 morena rossi Quelli sì li aveva voluti lei e davano quel tocco pop che le piaceva tanto, insieme alle tende sulla finestra con le stampe dei soli e delle lune di Fornasetti e alla luce sulla specchiera costruita da sé: una lampadina dalla quale spuntavano due piccole ali bianche. E ora che si trattava di direzionare il getto della pipì sulla pennetta del test di gravidanza, la difficoltà di quella posizione la disturbava più che mai, una posizione che non era soltanto fisica. La mano destra reggeva il test, mentre la sinistra teneva la sottoveste perché non si bagnasse. Guardandosi nello specchio, nel contorno dei suoi capelli aveva visto, suo malgrado, la faccia dell’ultimo parrucchiere da cui era stata, quello con cui aveva litigato perché le voleva fare la piastra. E ancora non si capacitava del perché avesse voluto provarne uno nuovo. Lei che coi capelli ha un rapporto così controverso e non solo per la rosa proprio al centro dalla quale si irradiano quei milioni di ammassi cheratinici filiformi che sfidano tutte le leggi delle fisica e a volte anche la superbia di qualche hair stylist (perché quelli che ci cascano si fanno chiamare così) che crede di poterli sottomettere soltanto dandogli una scaldata. Giorgia, nonostante il frangente in cui si trovava, non aveva resistito, aveva messo il lembo di seta della camicia da notte sotto al mento, si era così liberata la mano e si era toccata ancora incredula il ciuffo da Woody Woodpecker che le faceva compagnia a distanza di due mesi. «Ma come si fa? Testa di cazzo! E poi uno dice che non si deve bestemmiare». Le era uscito dal cuore men- che m’importa che tu faccia la brava 9 tre con indice e pollice cercava di capire quanto ancora avrebbe dovuto aspettare per poter avere una lunghezza decente. Il tempo si misura anche con la ricrescita, lei lo sapeva bene. Il suo pube ne era testimone. In quasi quarant’anni di vita aveva ceduto solo una volta alla tentazione di depilarselo totalmente, per poi ricredersi non appena aveva dovuto fare i conti, appunto, con la ricrescita. Più che una depilazione era stato un esperimento erotico-tricologico col suo primo grande amore, Marco. Io me lo ricordo bene Marco, ma soprattutto mi ricordo bene Giorgia ai tempi di Marco. Erano a Pavia, nel bagno squallido di quella squallida casa in via Sant’Agata. L’idea era venuta a lui dopo aver visto Le età di Lulù. Il ricordo del prurito e dell’impossibilità di dargli tregua in ogni momento, vista la geografia del pizzicore, quei follicoli rigonfi per l’esuberanza dei peli che pretendevano di uscire bucando la pelle con tanta prepotenza le avevano fatto pensare “mai più”. Marco e i suoi occhi nocciola velati di sensuale malinconia le avevano fatto dire e pensare il suo primo “per sempre”. Quanto aveva riso con lui. E pianto. Se n’era innamorata in prima liceo, al ritorno da una gita scolastica. Seduti nei sedili in fondo al pullman che da Torino li riportava a casa, si erano messi a parlare di Quando si ama, una soap opera che entrambi seguivano. Forse era stata la vertigine storica sperimentata al Museo egizio o forse la vertigine spaziale suggerita dalla Mole Antonelliana, fatto sta che sotto i piedi di Gior- 10 morena rossi gia, là su quei sedili caldi ricoperti di velluto bordeaux dove stava raccontando a un nuovo compagno di classe quella che poteva benissimo essere catalogata tra le debolezze inconfessabili, si aprì una voragine che non si sarebbe mai più richiusa. Sospesa su quel baratro aveva avuto la sensazione di volare aggrappata agli occhi di Marco, per poi sentirsi spacciata subito dopo, quando lui aveva rivolto lo sguardo altrove. L’amore, lo stava imparando, è una faccenda di equilibri e prospettive. È l’attrazione di due precipizi che cercano di compensarsi a vicenda. In alcuni casi l’horror vacui è così potente che si rischia di essere fagocitati, l’uno dentro il burrone dell’altro. Il segreto è sapere dove e chi guardare, di volta in volta, e se necessario sapere anche chiudere gli occhi. Ma su Marco ci torneremo dopo. 2 La prima volta che ho pensato che Giorgia fosse quella giusta lei aveva sei anni. La scuola era cominciata da pochi giorni. C’erano tutti i suoi compagni dell’asilo in classe, qualcuno non si era ancora abituato al cambiamento e piangeva, voleva la mamma. Giorgia no, anzi, non vedeva l’ora di uscire dalla ristretta cerchia dei familiari per far vedere di cosa era capace. Le elementari erano un modo per avere finalmente un pubblico che non fosse di parte. Niente legami di sangue a truccare le carte. Aveva scelto di sedersi nel banco all’angolo di sinistra del ferro di cavallo, dove la fila di banchi di fronte alla cattedra finisce e si innesta sulla sua perpendicolare. Era in qualche modo l’ultima con tutta la responsabilità che questo comporta, senza però subire la solitudine dello spazio vuoto dopo di lei che infatti veniva colmata da un cambio di direzione. Aveva da una parte una compagna di banco, Betty, e dall’altra un semi-compagno, cioè una vicinanza che non impegna ma c’è, ed era Michele, il cugino. 12 morena rossi La maestra Giusy quella mattina aveva deciso di far fare ai bambini un disegno a figura intera per valutare la conoscenza che avevano del corpo umano. Era una maestra che piaceva molto a Giorgia. Era minuta ma mascolina. Aveva sempre un paio di blue-jeans, delle clark scure ai piedi che in inverno venivano messe a riposo per lasciare il posto a stivali di renna col pelo, maglioni attillati a V o a collo alto in base alla stagione e una risata così rotonda che la faceva sentire al sicuro. Un giorno, dalla porta socchiusa della classe, l’aveva intravista nell’atrio della scuola fare una cosa che si sarebbe ricordata per sempre. Nessun altro compagno l’aveva vista, solo lei, per uno di quei casi fortunati del destino che sincronizzano istanti di vite separate per unirle anche solo in un fotogramma che rimarrà in eterno. La bidella era venuta a chiamarla durante l’ora di lezione perché “la desideravano all’ingresso”. E vista la situazione, nessun altro verbo sarebbe stato così aderente alla realtà. Un uomo che avrà avuto su per giù la stessa età della maestra le aveva portato un libro, avevano scambiato due chiacchiere e prima di andarsene che le fa? La tira a sé per i lembi del cappotto aperto che di fretta lei si era buttata sulle spalle. Proprio nel momento esatto in cui Giorgia aveva alzato lo sguardo dal suo banco e si era messa a dare un’occhiata in giro, era rimasta agganciata a quella scena che si stagliava in uno spazio di pochi centimetri tra il bordo della porta e quello dello stipite, una lingua stretta e lunga che stava aprendo lo spiraglio su una nuova evidente verità. Il sorriso complice della maestra poi, che si era subito che m’importa che tu faccia la brava 13 divincolata come a far intendere al suo interlocutore che quello non era il luogo adatto per smancerie di quel genere, aveva acceso Giorgia. La maestra è anche una donna. Certo. «E disegnate tutto quello che credete ci sia dentro e fuori dal vostro corpo, non abbiate paura. Sarà un autoritratto un po’ particolare», aveva detto la maestra Giusy quella mattina. A Giorgia era salita l’eccitazione. Ancora prima che la maestra avesse finito di spiegare qual era il compito, si era girata sulla sua sedia e aveva aperto la cartella di Holly Hobbie che vi era appesa, aveva preso l’astuccio arancione, estratto la matita, il temperino e la gomma, aveva dato un’annusata generosa a quel profumo di primo giorno che si sarebbe nascosto ancora per poco tra le sue cose e che ogni anno, anche a distanza di anni e a scuola finita, l’avrebbe riportata con la mente a settembre, e aveva atteso con impazienza che la maestra le portasse il foglio bianco sul quale fare il suo capolavoro. Quella mattina – come posso dimenticare – Giorgia aveva una gonna azzurra a pois colorati, lei che la gonna non la metteva quasi mai, una maglietta bianca a manica corta con Vicky Vichingo che si strofinava il dito sotto al naso e il suo solito caschetto biondo cenere a incorniciarle gli occhioni grigi che in base al tempo potevano diventare celesti e a volte persino verdi. E intanto nella sua testa stava già disegnando il suo autoritratto, la mano che impugnava stretta il lapis seguiva con dei movimenti a mezz’aria sul banco la 14 morena rossi sua immaginazione e non appena le venne l’intuizione comparvero sul suo viso quelle due magnifiche fossette sulle guance che si accompagnavano sempre a un sorriso tutto denti. Ora poteva dirlo a tutti che sapeva, era stata la maestra a chiederglielo. E in pochi minuti si era disegnata. Con le ovaie. «Giorgia, e che cosa sono queste?», le aveva chiesto la maestra Giusy indicandole sul foglio le due sfere schiacciate ai lati che lei aveva posizionato nella sua pancia. «Sono le ovaie, tutte le femmine le hanno». «E a cosa servono?». «Servono per fare i bambini quando una goccia di latte arriverà a fecondarle». La maestra le aveva sorriso e le aveva poi chiesto di raccontarlo anche ai suoi compagni, con parole sue, quello che sapeva su queste “ovaie”. E quello che sapeva lo doveva a una sorella maggiore di dieci anni, Lucia, e a un libro che proprio lei le aveva regalato dal titolo Lo sai come si nasce?. Aveva sempre avuto un rapporto molto naturale con tutto ciò che riguardava il suo corpo, Giorgia. Non si scandalizzava mai di nulla, anzi, se poteva, la spingeva oltre, questa sua estrema confidenza, soprattutto se c’era qualcuno cui esibirla. Un modo anche per testare chi aveva di fronte. A pensarci oggi, a distanza di tanti anni, credo sia stato proprio questo a farmi provare nei suoi confronti una profonda tenerezza e vicinanza. C’è stato chi ha cercato di farmi desistere, chi mi ha detto che certe scelte non si possono fare quando lei è in così tenera età, perché è difficile avere le idee chiare quando si è che m’importa che tu faccia la brava 15 ancora piccoli ed è facile rispondere al cosa vuoi fare da grande “l’astronauta e la ballerina” quando tanto sai che puoi cambiare mille volte la risposta. Io invece a quelle domande non ho mai dato seguito, le ho sempre trovate una crudele istigazione a delinquere. Io da grande sapevo che avrei voluto fare me stesso, nient’altro che me stesso e Giorgia mi sembrava mi fosse simile in questo. E le conferme che non mi ero sbagliato arrivavano sempre nelle situazioni più inaspettate. Lei e Lucia dormivano nella stessa stanza. Dividevano un letto matrimoniale, un armadio, un telefono sul comodino e la libreria. Spesso le capitava di assistere ai preparativi di Lucia per le uscite del sabato sera. Lei già in pigiama si sedeva con le gambe incrociate dalla sua parte del letto, quella sopra la quale con gli anni erano arrivati i poster di Nick Kamen e di Tom Cruise appesi con del nastro adesivo agli angoli, quel nastro adesivo che avrebbe lasciato una strisciata lucida indelebile sull’intonaco azzurrino dei muri una volta tolto. E la sorella a provarsi tutte le mise a disposizione e a rispondere alle domande di Giorgia su dove andava e con chi. Le piaceva seguirla anche in bagno e guardarla mentre si truccava. Si metteva all’angolo del lavandino mentre Lucia si colorava le lunghe ciglia, marchio di famiglia. Una volta messo il mascara, le infilava in un aggeggio che si impugnava come una forbicina ma al posto delle lame aveva una finestrella orizzontale, una specie di ghigliottina gommata, dalla quale le ciglia uscivano perfettamente arcuate. Poi era la volta del phard su que- 16 morena rossi gli zigomi così alti e infine una matita nera a rimarcare sullo zigomo destro una coppia di nei. Un’aggiustata ai capelli ricci e corvini con le dita e una passata di musk oil sul collo e sui polsi. Ed eccola pronta per uscire. «Sono bella?», le chiedeva sempre Lucia. «Bellissima», rispondeva Giorgia. Una sera l’aveva sentita dire alla madre che non sarebbe rincasata ma avrebbe dormito da Barbara, una sua compagna di liceo. «Ma per andare da Baby ti metti le culotte di seta?», aveva chiesto con un pizzico di ironia Giorgia dopo aver visto Lucia rovistare nel cassetto della biancheria intima e scegliere un completino color avorio. Del resto un po’ la infastidiva il dover dormire da sola, se la sorella non tornava doveva fare i conti con la notte e il buio, non ancora suoi compagni di giochi, un letto a due piazze vuoto che solo più tardi avrebbe visto come un vero paradiso per il sonno. E nella sua testa non poteva proprio passarla liscia lei che se ne andava a spasso chissà dove e chissà con chi e poi chissà a fare cosa. «In realtà mi fermo da Fausto», aveva risposto la sorella mentre continuava a vestirsi, «ma tu non lo dire alla mamma, capito?». «Ah, mi sembrava. Certo che non glielo dico». E prima che Lucia lasciasse la stanza dandole un bacio sulla guancia, Giorgia le aveva detto sinceramente «divertiti». Anche se non sapeva bene cosa potesse voler dire per la sorella. Lei per esempio si divertiva a salire sugli alberi in estate e mangiare le ciliegie direttamente dal ramo, si divertiva quando in chiesa si faceva colare che m’importa che tu faccia la brava 17 la cera delle candele sul palmo delle mani e si tappava i buchi che si formano tra le dita, si divertiva in inverno quando c’era la neve e usciva con gli amici a slittare nel prato sotto casa o quando a scuola giocavano a bandiera durante la ricreazione. A diciassette anni divertirsi doveva voler dire qualcosa d’altro e le coulotte di seta probabilmente dovevano far parte del gioco. Così quella sera, avuta anche la buonanotte della mamma, si era messa a rovistare tra i libri della sorella e aveva preso quello con la copertina rossa e le scritte bianche che diceva Atlante della sessualità. Un libro che da poco era comparso tra il Castiglione-Mariotti e il Devoto-Oli. Sempre di dizionario si trattava, ma decisamente più intrigante. In ordine alfabetico c’era tutto, da “Abbandono” a “Zoofilia sessuale” e c’erano persino trentaquattro illustrazioni ad alleggerire l’argomento. In alcuni casi. Qualche mese dopo quella sera delle culotte Giorgia aveva ascoltato una telefonata strappalacrime tra Lucia e Barbara durante la quale la sorella, tra i singhiozzi, raccontava all’amica di aver visto Fausto la sera prima in discoteca limonare in pista con una sconosciuta mentre lei era al bar a prendere da bere. «Quando gli ho chiesto, ma perché lo hai fatto, lui mi ha detto per sfizio, capisci, per sfizio». Chi sarà mai questo sfizio, aveva pensato Giorgia. Chi è che si intromette nelle relazioni di mia sorella? E così teneramente quando Lucia aveva riagganciato e si era tuffata in un nuovo, ennesimo fazzoletto di carta 18 morena rossi per soffiarsi il naso, buttandosi sul letto, Giorgia le si era avvicinata e le si era accoccolata a fianco. «Lucy, ma chi è Sfizio? Dobbiamo spaccargli la faccia». Era riuscita a farla ridere e appena aveva saputo che non si trattava di una persona e aveva compreso il significato della parola, si era sentita ancora più desolata per Lucia. Era stata la prima lezione sul fatto che le parole sono importanti. Che dolcezza. Mi ricordo anche il piacere che provavo quando la vedevo ballare e cantare nella sala di casa sua. Lei avrà avuto nove, dieci anni. Abitava in un piccolo paese sul lago di Garda, uno di quei paesi dove si conosco tutti, a maggior ragione perché sua madre, l’Angelina, aveva un ristorante e il padre, il Guido, faceva il fornaio. La casa, che poi era tutt’uno col ristorante, aveva una vista da togliere il respiro. C’erano certi giorni che le montagne e il lago sembrava si potessero toccare dalle vetrate. E Giorgia, ne sono convinto, era così anche perché era cresciuta con lo sguardo rivolto a quello spettacolo. Il mondo che le aveva dato le prime immagini da elaborare poi era quello di un locale pubblico. Difficile rimanere indifferenti al viavai di visi sconosciuti che ti fanno “ghenghè” nella culla se questa per comodità è posizionata all’entrata di un bar. La tetta della mamma poi immagino sapesse di cucina. Le dita che strizzavano il capezzolo per renderlo più agevole alla sua boccuccia erano state fino a pochi istanti prima a mondare basilico e a pulire aglio, a tagliare cipolle e a impastare patate per gli gnocchi. Che meraviglia deve essere stato per Giorgia. Le sue narici, larghe e generose per che m’importa che tu faccia la brava 19 bearsi al meglio di tanto ben di dio, avevano avuto il privilegio di sentire l’odore della mamma e insieme a quello l’odore della tradizione. Una tetta aromatizzata che aveva visto da molto vicino per ben diciotto mesi. Dovendo lavorare nelle ore dei pasti era stato più comodo allattarla che svezzarla, così gliel’aveva venduta l’Angelina. Chiaro che la spiegazione non avrebbe soddisfatto nessuno psicologo: per una mamma che passa la maggior parte del tempo in cucina, forse è più comodo scaldare un pentolino che estrarre la sua quarta e far poppare la figlia. Comunque sia, tutto quel latte materno non le aveva fatto male. Era cresciuta sana e forte. E quella era stata l’unica invadenza nella sua vita da parte della madre, peraltro. “Cercherò, mi sono sempre detta, cercherò. Troverai, mi hanno sempre detto, troverai. Però oggi sto con me, mi basto, nessuno mi vede e allora accarezzo la mia solitudine”. Quando i suoi non c’erano e il ristorante era chiuso, metteva l’ellepì della sorella a tutto volume, quello con la statua della libertà in copertina. “Fammi l’amore, forte sempre più forte come fosse l’America”, diceva senza risparmiarsi la Nannini. E Giorgia la cantava, eccome se la cantava. Anzi no, non la cantava solamente, la urlava al suo futuro di donna, quella che in quelle parole ci si trovava così bene, pur senza sapere ancora del tutto cosa volessero dire. “Quanta fantasia ci vuole per sentirsi in due, quando ognuno è da sempre nella sua solitudine e regala il suo corpo ma non sa cosa chiedere, chiedere, chiedere, chie-de-reee”. E il tempo di sapere cosa chiedere sarebbe arrivato presto. 20 morena rossi Il suo essere così libera, senza pregiudizi, già da piccola, mi dava ogni volta la conferma che ci sarebbe stato un futuro per noi. Era di una persona così che avevo bisogno. Anche quando cercavano di appesantirla col macigno dei falsi moralismi, lei si lisciava le piume delle ali e pensava ai voli gloriosi che l’aspettavano una volta avuta l’età per farlo. Era successo quell’anno in cui era andata al mare con uno di quei gruppi organizzati dalla parrocchia del paese. Lei appena undicenne e i suoi capezzoli che stavano per sbocciare. Niente seno ancora, solo due antiestetici bottoncini dei quali avrebbe fatto volentieri a meno, ma che non le creavano nessun imbarazzo quando era in spiaggia con i soli slip, come si conviene a una ragazzina di undici anni. Almeno non fino a quando una delle animatrici timorate di dio le aveva fatto notare che “non sta bene” e che se non aveva un due pezzi o un costume intero era meglio indossare una maglietta. La stessa animatrice che la sera interrogava le amiche di stanza di Giorgia sui loro flirt estivi, indagando con domande pruriginose il cosa ti ha detto, cosa ti ha fatto, che “la volontà di sapere” di Foucault sarebbe impallidita davanti a tanta subdola destrezza. Comunque quell’esperienza le fece giurare a sé stessa che una volta avute davvero delle tette che si fossero potute chiamare tali, le avrebbe esibite in pubblico a ogni occasione buona. E nessuna spiaggia l’avrebbe mai vista col pezzo di sopra. Mai. E vi posso assicurare che mantenne la promessa.