Untitled - Tralerighe

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Untitled - Tralerighe
Times
MORENA ROSSI
CHE M’IMPORTA
CHE TU FACCIA LA BRAVA
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via A. Tantardini, 7 - 20136 Milano
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In copertina:
363 Days of Tea, Day 275 di Ruby Silvious
(ispirata a un dipinto di Antonio Macedo).
Tutti i diritti sono riservati, compresi la traduzione, l’adattamento
totale o parziale, la riproduzione, la comunicazione al pubblico e la
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digitali) nonché la memorizzazione elettronica e qualsiasi sistema di
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sito www.tralerighe.biz
Prima edizione: giugno 2016
ISBN 978-88-99575-07-6
Que m’ importe que tu sois sage?
Sois belle! Et sois triste!
(Charles Baudelaire, Madrigal triste)
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Era difficile per Giorgia ogni volta incastrare la gamba
destra tra il bidet e il box doccia. Quello spazio così
ristretto, che un idraulico sconsiderato aveva lasciato
tra i sanitari del bagno dopo l’ultimo intervento di ristrutturazione voluto dalla padrona di casa, la costringeva sempre a sedersi un po’ di lato. Quando si lavava
non le dava granché fastidio, se non che vista dall’alto
veniva meno la simmetria tra le sue cosce divaricate,
la vasca di ceramica e i rubinetti dell’acqua. Beh, no,
le davano fastidio anche gli slip che rimanevano ancorati alle caviglie, quelle rare volte che le capitava di
non toglierseli come quella mattina, ma quello forse
non era dovuto alla posizione infelice del bidet. Aveva
appeso un piccolo specchio proprio lì, all’altezza del
suo viso quando era seduta, credo per far capire che lei
se lo faceva rivolta con lo sguardo al muro. Poco più
in alto su quelle pretenziose mattonelle bianche bordate d’oro, che Giorgia non avrebbe mai scelto, c’erano
due quadretti con Andromeda incatenata di Tamara de
Lempicka e Autoritratto con scimmie di Frida Kahlo.
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Quelli sì li aveva voluti lei e davano quel tocco pop che
le piaceva tanto, insieme alle tende sulla finestra con le
stampe dei soli e delle lune di Fornasetti e alla luce sulla
specchiera costruita da sé: una lampadina dalla quale
spuntavano due piccole ali bianche.
E ora che si trattava di direzionare il getto della
pipì sulla pennetta del test di gravidanza, la difficoltà di quella posizione la disturbava più che mai, una
posizione che non era soltanto fisica. La mano destra
reggeva il test, mentre la sinistra teneva la sottoveste
perché non si bagnasse. Guardandosi nello specchio,
nel contorno dei suoi capelli aveva visto, suo malgrado, la faccia dell’ultimo parrucchiere da cui era stata,
quello con cui aveva litigato perché le voleva fare la
piastra. E ancora non si capacitava del perché avesse
voluto provarne uno nuovo. Lei che coi capelli ha un
rapporto così controverso e non solo per la rosa proprio al centro dalla quale si irradiano quei milioni di
ammassi cheratinici filiformi che sfidano tutte le leggi
delle fisica e a volte anche la superbia di qualche hair
stylist (perché quelli che ci cascano si fanno chiamare
così) che crede di poterli sottomettere soltanto dandogli una scaldata. Giorgia, nonostante il frangente in cui
si trovava, non aveva resistito, aveva messo il lembo di
seta della camicia da notte sotto al mento, si era così
liberata la mano e si era toccata ancora incredula il
ciuffo da Woody Woodpecker che le faceva compagnia
a distanza di due mesi.
«Ma come si fa? Testa di cazzo! E poi uno dice che
non si deve bestemmiare». Le era uscito dal cuore men-
che m’importa che tu faccia la brava
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tre con indice e pollice cercava di capire quanto ancora
avrebbe dovuto aspettare per poter avere una lunghezza
decente. Il tempo si misura anche con la ricrescita, lei
lo sapeva bene. Il suo pube ne era testimone. In quasi
quarant’anni di vita aveva ceduto solo una volta alla
tentazione di depilarselo totalmente, per poi ricredersi
non appena aveva dovuto fare i conti, appunto, con la
ricrescita.
Più che una depilazione era stato un esperimento
erotico-tricologico col suo primo grande amore, Marco.
Io me lo ricordo bene Marco, ma soprattutto mi ricordo
bene Giorgia ai tempi di Marco. Erano a Pavia, nel bagno squallido di quella squallida casa in via Sant’Agata.
L’idea era venuta a lui dopo aver visto Le età di Lulù.
Il ricordo del prurito e dell’impossibilità di dargli
tregua in ogni momento, vista la geografia del pizzicore, quei follicoli rigonfi per l’esuberanza dei peli che
pretendevano di uscire bucando la pelle con tanta prepotenza le avevano fatto pensare “mai più”.
Marco e i suoi occhi nocciola velati di sensuale malinconia le avevano fatto dire e pensare il suo primo
“per sempre”. Quanto aveva riso con lui. E pianto. Se
n’era innamorata in prima liceo, al ritorno da una gita
scolastica. Seduti nei sedili in fondo al pullman che da
Torino li riportava a casa, si erano messi a parlare di
Quando si ama, una soap opera che entrambi seguivano. Forse era stata la vertigine storica sperimentata al
Museo egizio o forse la vertigine spaziale suggerita dalla
Mole Antonelliana, fatto sta che sotto i piedi di Gior-
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gia, là su quei sedili caldi ricoperti di velluto bordeaux
dove stava raccontando a un nuovo compagno di classe
quella che poteva benissimo essere catalogata tra le debolezze inconfessabili, si aprì una voragine che non si
sarebbe mai più richiusa. Sospesa su quel baratro aveva
avuto la sensazione di volare aggrappata agli occhi di
Marco, per poi sentirsi spacciata subito dopo, quando
lui aveva rivolto lo sguardo altrove. L’amore, lo stava
imparando, è una faccenda di equilibri e prospettive. È
l’attrazione di due precipizi che cercano di compensarsi
a vicenda. In alcuni casi l’horror vacui è così potente
che si rischia di essere fagocitati, l’uno dentro il burrone dell’altro. Il segreto è sapere dove e chi guardare, di
volta in volta, e se necessario sapere anche chiudere gli
occhi. Ma su Marco ci torneremo dopo.
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La prima volta che ho pensato che Giorgia fosse quella
giusta lei aveva sei anni. La scuola era cominciata da
pochi giorni. C’erano tutti i suoi compagni dell’asilo in
classe, qualcuno non si era ancora abituato al cambiamento e piangeva, voleva la mamma. Giorgia no, anzi,
non vedeva l’ora di uscire dalla ristretta cerchia dei familiari per far vedere di cosa era capace. Le elementari
erano un modo per avere finalmente un pubblico che
non fosse di parte. Niente legami di sangue a truccare
le carte. Aveva scelto di sedersi nel banco all’angolo di
sinistra del ferro di cavallo, dove la fila di banchi di
fronte alla cattedra finisce e si innesta sulla sua perpendicolare. Era in qualche modo l’ultima con tutta la
responsabilità che questo comporta, senza però subire
la solitudine dello spazio vuoto dopo di lei che infatti
veniva colmata da un cambio di direzione. Aveva da
una parte una compagna di banco, Betty, e dall’altra un
semi-compagno, cioè una vicinanza che non impegna
ma c’è, ed era Michele, il cugino.
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La maestra Giusy quella mattina aveva deciso di far
fare ai bambini un disegno a figura intera per valutare
la conoscenza che avevano del corpo umano.
Era una maestra che piaceva molto a Giorgia. Era minuta ma mascolina. Aveva sempre un paio di blue-jeans,
delle clark scure ai piedi che in inverno venivano messe
a riposo per lasciare il posto a stivali di renna col pelo,
maglioni attillati a V o a collo alto in base alla stagione
e una risata così rotonda che la faceva sentire al sicuro.
Un giorno, dalla porta socchiusa della classe, l’aveva intravista nell’atrio della scuola fare una cosa che si
sarebbe ricordata per sempre. Nessun altro compagno
l’aveva vista, solo lei, per uno di quei casi fortunati del
destino che sincronizzano istanti di vite separate per
unirle anche solo in un fotogramma che rimarrà in
eterno. La bidella era venuta a chiamarla durante l’ora
di lezione perché “la desideravano all’ingresso”. E vista
la situazione, nessun altro verbo sarebbe stato così aderente alla realtà. Un uomo che avrà avuto su per giù la
stessa età della maestra le aveva portato un libro, avevano scambiato due chiacchiere e prima di andarsene
che le fa? La tira a sé per i lembi del cappotto aperto
che di fretta lei si era buttata sulle spalle. Proprio nel
momento esatto in cui Giorgia aveva alzato lo sguardo
dal suo banco e si era messa a dare un’occhiata in giro,
era rimasta agganciata a quella scena che si stagliava in
uno spazio di pochi centimetri tra il bordo della porta e quello dello stipite, una lingua stretta e lunga che
stava aprendo lo spiraglio su una nuova evidente verità.
Il sorriso complice della maestra poi, che si era subito
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divincolata come a far intendere al suo interlocutore
che quello non era il luogo adatto per smancerie di quel
genere, aveva acceso Giorgia. La maestra è anche una
donna. Certo.
«E disegnate tutto quello che credete ci sia dentro e
fuori dal vostro corpo, non abbiate paura. Sarà un autoritratto un po’ particolare», aveva detto la maestra
Giusy quella mattina.
A Giorgia era salita l’eccitazione. Ancora prima che
la maestra avesse finito di spiegare qual era il compito,
si era girata sulla sua sedia e aveva aperto la cartella di
Holly Hobbie che vi era appesa, aveva preso l’astuccio
arancione, estratto la matita, il temperino e la gomma,
aveva dato un’annusata generosa a quel profumo di primo giorno che si sarebbe nascosto ancora per poco tra
le sue cose e che ogni anno, anche a distanza di anni e
a scuola finita, l’avrebbe riportata con la mente a settembre, e aveva atteso con impazienza che la maestra le
portasse il foglio bianco sul quale fare il suo capolavoro.
Quella mattina – come posso dimenticare – Giorgia aveva una gonna azzurra a pois colorati, lei che la
gonna non la metteva quasi mai, una maglietta bianca
a manica corta con Vicky Vichingo che si strofinava
il dito sotto al naso e il suo solito caschetto biondo
cenere a incorniciarle gli occhioni grigi che in base
al tempo potevano diventare celesti e a volte persino
verdi. E intanto nella sua testa stava già disegnando il
suo autoritratto, la mano che impugnava stretta il lapis seguiva con dei movimenti a mezz’aria sul banco la
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sua immaginazione e non appena le venne l’intuizione
comparvero sul suo viso quelle due magnifiche fossette
sulle guance che si accompagnavano sempre a un sorriso tutto denti. Ora poteva dirlo a tutti che sapeva, era
stata la maestra a chiederglielo.
E in pochi minuti si era disegnata. Con le ovaie.
«Giorgia, e che cosa sono queste?», le aveva chiesto la maestra Giusy indicandole sul foglio le due sfere schiacciate ai lati che lei aveva posizionato nella sua
pancia.
«Sono le ovaie, tutte le femmine le hanno».
«E a cosa servono?».
«Servono per fare i bambini quando una goccia di
latte arriverà a fecondarle». La maestra le aveva sorriso e
le aveva poi chiesto di raccontarlo anche ai suoi compagni, con parole sue, quello che sapeva su queste “ovaie”.
E quello che sapeva lo doveva a una sorella maggiore di
dieci anni, Lucia, e a un libro che proprio lei le aveva
regalato dal titolo Lo sai come si nasce?.
Aveva sempre avuto un rapporto molto naturale con
tutto ciò che riguardava il suo corpo, Giorgia. Non si
scandalizzava mai di nulla, anzi, se poteva, la spingeva
oltre, questa sua estrema confidenza, soprattutto se c’era
qualcuno cui esibirla. Un modo anche per testare chi
aveva di fronte. A pensarci oggi, a distanza di tanti anni,
credo sia stato proprio questo a farmi provare nei suoi
confronti una profonda tenerezza e vicinanza. C’è stato
chi ha cercato di farmi desistere, chi mi ha detto che
certe scelte non si possono fare quando lei è in così tenera età, perché è difficile avere le idee chiare quando si è
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ancora piccoli ed è facile rispondere al cosa vuoi fare da
grande “l’astronauta e la ballerina” quando tanto sai che
puoi cambiare mille volte la risposta. Io invece a quelle
domande non ho mai dato seguito, le ho sempre trovate
una crudele istigazione a delinquere. Io da grande sapevo che avrei voluto fare me stesso, nient’altro che me
stesso e Giorgia mi sembrava mi fosse simile in questo.
E le conferme che non mi ero sbagliato arrivavano sempre nelle situazioni più inaspettate.
Lei e Lucia dormivano nella stessa stanza. Dividevano un letto matrimoniale, un armadio, un telefono sul
comodino e la libreria. Spesso le capitava di assistere ai
preparativi di Lucia per le uscite del sabato sera. Lei già
in pigiama si sedeva con le gambe incrociate dalla sua
parte del letto, quella sopra la quale con gli anni erano
arrivati i poster di Nick Kamen e di Tom Cruise appesi
con del nastro adesivo agli angoli, quel nastro adesivo che avrebbe lasciato una strisciata lucida indelebile
sull’intonaco azzurrino dei muri una volta tolto. E la
sorella a provarsi tutte le mise a disposizione e a rispondere alle domande di Giorgia su dove andava e con chi.
Le piaceva seguirla anche in bagno e guardarla mentre
si truccava. Si metteva all’angolo del lavandino mentre
Lucia si colorava le lunghe ciglia, marchio di famiglia.
Una volta messo il mascara, le infilava in un aggeggio che si impugnava come una forbicina ma al posto
delle lame aveva una finestrella orizzontale, una specie
di ghigliottina gommata, dalla quale le ciglia uscivano
perfettamente arcuate. Poi era la volta del phard su que-
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gli zigomi così alti e infine una matita nera a rimarcare
sullo zigomo destro una coppia di nei. Un’aggiustata ai
capelli ricci e corvini con le dita e una passata di musk
oil sul collo e sui polsi. Ed eccola pronta per uscire.
«Sono bella?», le chiedeva sempre Lucia. «Bellissima»,
rispondeva Giorgia.
Una sera l’aveva sentita dire alla madre che non sarebbe rincasata ma avrebbe dormito da Barbara, una
sua compagna di liceo.
«Ma per andare da Baby ti metti le culotte di seta?»,
aveva chiesto con un pizzico di ironia Giorgia dopo
aver visto Lucia rovistare nel cassetto della biancheria
intima e scegliere un completino color avorio. Del resto un po’ la infastidiva il dover dormire da sola, se la
sorella non tornava doveva fare i conti con la notte e il
buio, non ancora suoi compagni di giochi, un letto a
due piazze vuoto che solo più tardi avrebbe visto come
un vero paradiso per il sonno. E nella sua testa non poteva proprio passarla liscia lei che se ne andava a spasso
chissà dove e chissà con chi e poi chissà a fare cosa.
«In realtà mi fermo da Fausto», aveva risposto la sorella mentre continuava a vestirsi, «ma tu non lo dire
alla mamma, capito?».
«Ah, mi sembrava. Certo che non glielo dico». E
prima che Lucia lasciasse la stanza dandole un bacio
sulla guancia, Giorgia le aveva detto sinceramente «divertiti». Anche se non sapeva bene cosa potesse voler
dire per la sorella. Lei per esempio si divertiva a salire
sugli alberi in estate e mangiare le ciliegie direttamente
dal ramo, si divertiva quando in chiesa si faceva colare
che m’importa che tu faccia la brava
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la cera delle candele sul palmo delle mani e si tappava i buchi che si formano tra le dita, si divertiva in
inverno quando c’era la neve e usciva con gli amici a
slittare nel prato sotto casa o quando a scuola giocavano a bandiera durante la ricreazione. A diciassette
anni divertirsi doveva voler dire qualcosa d’altro e le
coulotte di seta probabilmente dovevano far parte del
gioco. Così quella sera, avuta anche la buonanotte della
mamma, si era messa a rovistare tra i libri della sorella
e aveva preso quello con la copertina rossa e le scritte
bianche che diceva Atlante della sessualità. Un libro che
da poco era comparso tra il Castiglione-Mariotti e il
Devoto-Oli. Sempre di dizionario si trattava, ma decisamente più intrigante. In ordine alfabetico c’era tutto,
da “Abbandono” a “Zoofilia sessuale” e c’erano persino
trentaquattro illustrazioni ad alleggerire l’argomento.
In alcuni casi.
Qualche mese dopo quella sera delle culotte Giorgia
aveva ascoltato una telefonata strappalacrime tra Lucia
e Barbara durante la quale la sorella, tra i singhiozzi,
raccontava all’amica di aver visto Fausto la sera prima in discoteca limonare in pista con una sconosciuta
mentre lei era al bar a prendere da bere.
«Quando gli ho chiesto, ma perché lo hai fatto, lui
mi ha detto per sfizio, capisci, per sfizio».
Chi sarà mai questo sfizio, aveva pensato Giorgia.
Chi è che si intromette nelle relazioni di mia sorella?
E così teneramente quando Lucia aveva riagganciato e
si era tuffata in un nuovo, ennesimo fazzoletto di carta
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per soffiarsi il naso, buttandosi sul letto, Giorgia le si
era avvicinata e le si era accoccolata a fianco.
«Lucy, ma chi è Sfizio? Dobbiamo spaccargli la faccia».
Era riuscita a farla ridere e appena aveva saputo che
non si trattava di una persona e aveva compreso il significato della parola, si era sentita ancora più desolata
per Lucia. Era stata la prima lezione sul fatto che le
parole sono importanti. Che dolcezza.
Mi ricordo anche il piacere che provavo quando la vedevo ballare e cantare nella sala di casa sua. Lei avrà avuto
nove, dieci anni. Abitava in un piccolo paese sul lago di
Garda, uno di quei paesi dove si conosco tutti, a maggior
ragione perché sua madre, l’Angelina, aveva un ristorante
e il padre, il Guido, faceva il fornaio. La casa, che poi
era tutt’uno col ristorante, aveva una vista da togliere il
respiro. C’erano certi giorni che le montagne e il lago
sembrava si potessero toccare dalle vetrate. E Giorgia, ne
sono convinto, era così anche perché era cresciuta con lo
sguardo rivolto a quello spettacolo. Il mondo che le aveva
dato le prime immagini da elaborare poi era quello di un
locale pubblico. Difficile rimanere indifferenti al viavai di
visi sconosciuti che ti fanno “ghenghè” nella culla se questa per comodità è posizionata all’entrata di un bar. La
tetta della mamma poi immagino sapesse di cucina. Le
dita che strizzavano il capezzolo per renderlo più agevole
alla sua boccuccia erano state fino a pochi istanti prima
a mondare basilico e a pulire aglio, a tagliare cipolle e a
impastare patate per gli gnocchi. Che meraviglia deve essere stato per Giorgia. Le sue narici, larghe e generose per
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bearsi al meglio di tanto ben di dio, avevano avuto il privilegio di sentire l’odore della mamma e insieme a quello
l’odore della tradizione. Una tetta aromatizzata che aveva
visto da molto vicino per ben diciotto mesi. Dovendo
lavorare nelle ore dei pasti era stato più comodo allattarla
che svezzarla, così gliel’aveva venduta l’Angelina. Chiaro
che la spiegazione non avrebbe soddisfatto nessuno psicologo: per una mamma che passa la maggior parte del
tempo in cucina, forse è più comodo scaldare un pentolino che estrarre la sua quarta e far poppare la figlia. Comunque sia, tutto quel latte materno non le aveva fatto
male. Era cresciuta sana e forte. E quella era stata l’unica
invadenza nella sua vita da parte della madre, peraltro.
“Cercherò, mi sono sempre detta, cercherò. Troverai,
mi hanno sempre detto, troverai. Però oggi sto con me,
mi basto, nessuno mi vede e allora accarezzo la mia
solitudine”. Quando i suoi non c’erano e il ristorante
era chiuso, metteva l’ellepì della sorella a tutto volume,
quello con la statua della libertà in copertina. “Fammi
l’amore, forte sempre più forte come fosse l’America”,
diceva senza risparmiarsi la Nannini. E Giorgia la cantava, eccome se la cantava. Anzi no, non la cantava solamente, la urlava al suo futuro di donna, quella che in
quelle parole ci si trovava così bene, pur senza sapere
ancora del tutto cosa volessero dire. “Quanta fantasia ci
vuole per sentirsi in due, quando ognuno è da sempre
nella sua solitudine e regala il suo corpo ma non sa cosa
chiedere, chiedere, chiedere, chie-de-reee”. E il tempo
di sapere cosa chiedere sarebbe arrivato presto.
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Il suo essere così libera, senza pregiudizi, già da piccola, mi dava ogni volta la conferma che ci sarebbe stato un futuro per noi. Era di una persona così che avevo
bisogno. Anche quando cercavano di appesantirla col
macigno dei falsi moralismi, lei si lisciava le piume delle ali e pensava ai voli gloriosi che l’aspettavano una
volta avuta l’età per farlo.
Era successo quell’anno in cui era andata al mare
con uno di quei gruppi organizzati dalla parrocchia del
paese. Lei appena undicenne e i suoi capezzoli che stavano per sbocciare. Niente seno ancora, solo due antiestetici bottoncini dei quali avrebbe fatto volentieri a
meno, ma che non le creavano nessun imbarazzo quando era in spiaggia con i soli slip, come si conviene a una
ragazzina di undici anni. Almeno non fino a quando
una delle animatrici timorate di dio le aveva fatto notare che “non sta bene” e che se non aveva un due pezzi o
un costume intero era meglio indossare una maglietta.
La stessa animatrice che la sera interrogava le amiche
di stanza di Giorgia sui loro flirt estivi, indagando con
domande pruriginose il cosa ti ha detto, cosa ti ha fatto, che “la volontà di sapere” di Foucault sarebbe impallidita davanti a tanta subdola destrezza. Comunque
quell’esperienza le fece giurare a sé stessa che una volta
avute davvero delle tette che si fossero potute chiamare tali, le avrebbe esibite in pubblico a ogni occasione
buona. E nessuna spiaggia l’avrebbe mai vista col pezzo
di sopra. Mai. E vi posso assicurare che mantenne la
promessa.