Punto, linea, città

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Punto, linea, città
cop guida 25-03-2013 11:01 Pagina 1
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L’urbanistica e l’architettura si mostrano come saperi nei quali il visuale è centrale: schizzi, mappe,
schemi, diagrammi, concept, formano immagini di un caleidoscopio di città, luoghi e progetti di cui
questo libro prova a rileggere lo sviluppo suggerendo una sorta di narrazione, che attraversa, in
particolare, il Novecento, arrivando a intercettare i profondi mutamenti nell’attività del progettare
la città e i paesaggi della contemporaneità.
Il richiamo al valore di questo tipo di immagini e della loro produzione e progettazione, appare un
contributo fertile per una disciplina, come l’urbanistica, in trasformazione e che muta spesso obiettivi
e strumenti, con la consapevolezza del ruolo centrale che lo spazio e la sua qualità hanno nel
costruire scenari e visioni di futuro per la città, il territorio e il loro progetto.
euro 12,00
Punto, linea, città
Schizzi, schemi e mappe
nel progetto urbanistico
Schizzi, schemi e mappe nel progetto urbanistico
Giuseppe Guida è architetto e dottore di ricerca in Urbanistica e Pianificazione Territoriale. Insegna
Urbanistica alla Facoltà di Architettura “Luigi Vanvitelli” della Seconda Università di Napoli. È autore di
numerosi saggi sul rapporto tra paesaggio, pianificazione urbanistica e trasformazione dei territori della
contemporaneità, sviluppando i temi della “narrazione” e di un approccio di tipo retorico-comunicativo
all'analisi e al progetto di territorio e città. Tra le sue pubblicazioni: Mutamenti del paesaggio (Graffiti),
Immaginare città. Metafore e immagini per la dispersione insediativa (FrancoAngeli). È opinionista de
“la Repubblica/Napoli” e membro dell’Istituto Nazionale di Urbanistica e del Direttivo dell’Istituto Nazionale
di Architettura.
Giuseppe Guida
Punto, linea, città
Si tratta di riduzioni e interpretazioni necessariamente semplificanti della realtà, artifici icastici e
persuasivi. Immagini “inesatte”, che, per la loro apparente indeterminatezza, consentono di essere
reinterpretate e risemantizzate, di “capirsi meglio”. Non solo materiali dell’esperto, quindi, dell’architetto,
dell’urbanista, ma elementi collocati oramai nell’immaginario visivo contemporaneo, e il loro utilizzo
nel progetto di città è tra i mezzi più ricchi e utili, ponendosi come solida alternativa al paradigma
razionale, eccessivamente codificato e, di conseguenza, non mediato e poco condiviso.
Giuseppe Guida
Tecniche minimali di disegno, punti di vista instabili, confluenze di discipline diverse, retoriche e
modalità di rappresentazione allusive. Il progetto della città è fatto anche di questi materiali,
intercettando uno spazio urbano sempre meno omogeneo e isotropo, ma maggiormente plurale,
molteplice, talvolta drammatico o fantasmagorico.
5 / Urbana Studi per la città contemporanea
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È vietata ogni riproduzione
ISBN 978-88-8497-235-4
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
Grafica
Costanzo Marciano
Comitato scientifico
Pepe Barbieri
Jordi Bellmunt
Alberto Ferlenga
Carlo Gasparrini
Rejana Lucci
Università di Chieti-Pescara
ETSAB, Barcellona
Iuav, Venezia
Università degli Studi di Napoli
Università degli Studi di Napoli
Responsabile scientifico
Manuel Aires Mateus
Pasquale Miano
F. Domenico Moccia
Carmine Piscopo
Mosè Ricci
Michelangelo Russo
USI Università Svizzera Italiana di Mendrisio
Università degli Studi di Napoli
Università degli Studi di Napoli
Università degli Studi di Napoli
Università di Genova
Università degli Studi di Napoli
Responsabile scientifico
La collana vuole selezionare testi e studi che portino un
contributo originale e innovativo sui temi della città
contemporanea e della centralità del progetto nelle
trasformazioni urbane e territoriali.
Ciò significa porre particolare attenzione alle forme del territorio
che cambia, ai fenomeni che nel contemporaneo caratterizzano
gli insediamenti urbani, con particolare riferimento alla multiscalarità delle reti infrastrutturali, ecologiche e di paesaggio, e ai
nessi tra le forme plurali degli spazi e i modi di abitare la città.
Ciò comporta ampliare il significato di progetto, inteso come
pratica in grado di modificare la città e la sua forma, capace di
affrontare una molteplicità di problemi e di questioni che vedono
coinvolti soggetti plurali; di costruire un’adeguata conoscenza e
rappresentazione dei fenomeni, attraverso saperi e tecniche,
capacità analitiche e valutative, modalità interpretative e
descrittive, artefatti comunicativi; di tenere insieme tradizioni
disciplinari e provenienze.
in copertina
David Shriglely,
Tube Map, 2006
Indice
Collana Urbana Studi per la città contemporanea
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12
16
24
31
39
49
56
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Prefazione
Michelangelo Russo
1. Introduzione. Del disegnare ciò che si vuole e ciò che serve
2. La realtà nella rappresentazione: scarabocchi, segni e codici per la città contemporanea
3. Ideogrammi e pittogrammi. Da Otto Neurath ai segnali stradali
4. La semplificazione grafica come strategia comunicativa
5. Mind the map. Dispositivi cartografici come racconti meno razionali di città
6. Schizzi, schemi e concept come racconti di architettura e città
7. Metafore e retoriche come intenzione estetica e indirizzo progettuale
8. Il progetto come persuasione
Riferimenti bibliografici
Sitografia
Prefazione
Michelangelo Russo
In un saggio del 1994 sulla genesi di Theory of Good City Form, Vincenzo Andriello pone in evidenza come la teoria di Kevin Lynch abbia
pesato nel dibattito sui modelli di razionalità dei planners, e in particolare sulla possibilità di teorizzare un collegamento tra valori e forma della
città in modo da mettere in tensione la costruzione razionale degli obiettivi del piano con gli esiti di una pianificazione in grado di produrre soluzioni adeguate in termini di forma urbana, appunto.
Andriello utilizza con sapienza il contributo di Lynch per dimostrare che
sono possibili solide alternative al paradigma del planning razional-comprensivo, legato a una razionalità tecnica orientata ai mezzi entro cui
inquadrare un sapere ipotetico-deduttivo ed empirico, che si è concretizzato nei modelli di pianificazione legati all’approccio problem-solving piuttosto che alla capacità di costruire obiettivi collettivi basati sui
valori e sull’assunzione dei fini come “dato politico” (Andriello, 1994). Secondo questa impostazione, il problema della pianificazione è quello di
definire obiettivi condivisi (il cosiddetto “sistema di mete”) attraverso un
ruolo di mediazione che il planner spesso è chiamato a rivestire, per
verificare la rispondenza tra forma urbana e obiettivo, attraverso la creativa invenzione di un planning che si fa arte piuttosto che scienza.
Questa posizione - negli anni Novanta - era molto significativa per affermare la centralità di un’azione interattiva nel processo di pianificazione che apriva ampi orizzonti teorici e operativi all’approccio dialogico
alla conoscenza e al progetto del territorio. Il “confronto esplicito tra assunti di valore alternativi”, ampliando l’arena della partecipazione alle
scelte urbanistiche a diversi “sostenitori di proposte diverse”, sovvertiva
la piramide dirigista dei modelli di pianificazione convenzionali che informavano le pratiche correnti nei diversi contesti nazionali, e in particolare di quello italiano del secondo dopoguerra. Un approccio che
apriva a un diverso processo di decisione pubblica, non solo improntato
sulle scelte sostantive ma anche sulle forme di interazione tra i soggetti
che potevano essere mediate da forme di conoscenza e di comunicazione in grado di colmare la distanza - profonda e spesso utilizzata
come strumento di controllo - tra sapere tecnico e sapere comune.
Il contributo di Lynch e soprattutto la rilettura di Andriello costituivano
- alla metà degli anni Novanta - una sollecitazione profonda e molto
costruttiva in un dibattito che in Italia mostrava con crescente insofferenza l’insoddisfazione per i modelli correnti di piano e per le relative
performance di efficacia, palesando una crisi di credibilità del piano urbanistico denunciata dagli urbanisti più accreditati e più avanzati nella
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riflessione teorica e nella sperimentazione progettuale. La definizione
di un sistema di regole prestazionali rappresentava una profonda innovazione di metodo che stabiliva valori e obiettivi tendenziali dei piani, capaci di tradurre la pluralità delle esigenze dei diversi soggetti della
società in progetti e azioni (Gabrielli, 1990). La conoscenza dei soggetti
non tecnici, che spesso coincidono anche con quelli più deboli, meno
ascoltati, reclamava un sistema di interpretazioni condivise del territorio, inteso come modo per partecipare alla definizione dei valori comuni, alla lettura della città e della sua forma, come materiali di base per
formulare una domanda capace di tenere in conto le istanze plurali dei
cittadini e di indirizzare piani e progetti verso scelte adeguate, mirate alla
qualità dello spazio e alla rispondenza alle domande differenziate poste
da gruppi diversi.
Tra le cinque dimensioni prestazionali indicate da Lynch (vitalità, significato, coerenza, accessibilità, controllo, a cui si aggiungono i metacriteri di efficienza e giustizia), nel “significato” risiede il tema della
percezione della città e della qualità dei suoi insediamenti, in forma di
costrutto mentale e culturale degli abitanti derivante dall’incontro tra
l’ambiente e le loro capacità sensoriali e mentali, oltre che alle loro “costruzioni mentali”. Il modo di percepire la città e lo spazio consente di
creare un collegamento tra lo spazio fisico e “altri eventi o luoghi” nel
tempo e nello spazio che è possibile riferire a concetti e a valori che
hanno dimensioni anche diverse da quelle dello spazio.
È il modo per costruire quel principio di territorialità come nesso indissolubile tra gli abitanti e il proprio spazio di vita, che lega una comunità
al proprio territorio attraverso la continua riformulazione dei concetti di
identità e di appartenenza. Identità che per i cittadini è anche capacità
di riconoscersi in elementi simbolici, memoriali ed evocativi, di fare gerarchia tra i valori del territorio, in ultima analisi di non perdere l’orientamento, limitando appunto gli effetti dello spaesamento.
«L’orientamento può essere il muto ricordo dell’atto di navigare (“seguimi”), o una mappa mentale più o meno strutturata (che può variare
da un vago schema topologico a una rappresentazione geometrica in
scala), o una serie di immagini in sequenza da tenere a mente (“svolta
a sinistra dall’albero a fianco della casa verde”), o un insieme di concetti
verbali (“ricchi sobborghi circondano gli slum del centro città”) o alcune
combinazioni di tutte queste possibilità» (Lynch, 1990, p. 136).
L’immagine della città e dei fenomeni che ne ridefiniscono lo spazio
può dunque essere catturata da “mappe mentali”, descrizioni dense
ricche di valenze interpretative, istruttorie sul campo e sopralluoghi,
forme di comunicazione trasversali con linguaggi iconici e figurativi:
questi concetti e dispositivi cognitivi hanno caratterizzato i percorsi metodologici del progetto dell’ultima fase dell’urbanistica, in particolare in
Italia. L’urbanistica è tornata a occuparsi dello spazio fisico per uscire
dalla sua crisi e per affrontare le questioni urbane che, dalla fine degli
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Kevin Lynch, mappa
topologica di Boston,
1958.
anni Settanta, sono state poste dalle trasformazioni socio-economiche
del postfordismo. La città e il territorio divengono oggetto di indagine
e di ricerca per rilevare le connessioni sempre specifiche tra fenomeni
del cambiamento e configurazioni insediative e spaziali che ne derivano, mai univoche, sempre differenti e sempre rilevanti. I grandi temi
della città contemporanea, dalla diffusione insediativa alla rigenerazione
delle aree marginali della ritrazione funzionale, dal rapporto critico tra infrastrutture e territorio al recupero dei paesaggi di scarto, al riciclo dei
drosscapes e alla bonifica dei suoli inquinati e all’approccio ecologico
alla pianificazione, dai temi dell’area vasta e della pianificazione delle
reti, richiedono sempre di più immagini interpretative, figure allusive e
“narrative” in grado di ridurre l’astrazione dei settori della pianificazione
- che hanno una diretta influenza sulla forma dello spazio e degli assetti
insediativi - in statement sintetici.
La riduzione del linguaggio codificato dell’urbanista e il suo recupero di
un genere iconico e allusivo, legato al disegno, alla rappresentazione, all’immagine della realtà in forme diverse, dallo schizzo alla fotografia, dal
video alla simulazione grafica, non rimandano solo alla trasformazione
della forma dello spazio della città contemporanea (non più omogeneo
e isotropo, ma plurale, molteplice talvolta drammatico o fantasmago-
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rico) e alla sua crescente resistenza a essere descritto e codificato attraverso riferimenti comuni e difficilmente esportabili (Secchi, 2000), ma
rimanda alla necessità di tornare a comunicare.
Comunicare per costruire visioni e conoscenze interpretative del territorio, dunque per definire - in forma comunicativa e dialogica - obiettivi e
strategie che possano far tornare l’urbanistica e i suoi strumenti (cognitivi, comunicativi, progettuali) a essere una disciplina capace di strutturare un progetto, oltre che tecnico, anche sociale e politico di futuro.
Un’ampia sperimentazione riprende questi temi e, dalla fine degli anni
Ottanta, mette in pratica un modello di urbanistica che vuole ripristinare un dialogo con la società, sia nella fase conoscitiva che nella formazione del progetto, per fare della condivisione una percorso di
efficacia, basato sulla costruzione di immagini, mappe cognitive e visioni radicate al territorio e ai suoi soggetti (un esempio paradigmatico
è il Laboratorio Prato Prg condotto da Bernardo Secchi per la redazione del piano a metà degli anni Novanta).
Questo è il contesto culturale in cui lo studio di Giuseppe Guida mostra
di avere recepito con grande consapevolezza il ruolo e il significato dell’immagine e della sua codificazione per la cultura dell’urbanista e per
la sua pratica operativa: il disegno istantaneo, lo schizzo, la mappa rappresentano forme diverse - spesso correlate - di espressione di una visione del mondo che guida l’agire urbano. Si tratta di forme espressive
che consentono di orientarsi e indirizzare i processi di produzione dei
documenti di pianificazione, derivanti dal concorso di diversi attori,
«dove sono riconoscibili più pratiche, ciascuna delle quali richiede uno
specifico progetto di comunicazione» (Gabellini 2001, p. 415). Ma il disegno istantaneo, la mappa cognitiva, lo schizzo o lo schema non mostrano esclusivamente una funzione comunicativa nel processo di
piano: rappresentano anche un momento profondamente costruttivo
nella metodologia della costruzione del progetto e di una concreta strategia trasformativa. Rappresentano la codificazione sintetica dell’insieme complesso di dati, informazioni, valutazioni che, incrociate con
l’intuizione creativa e con la proposizione di possibili alternative - attitudini proprie del progetto - consentono di mettere in forma le intenzionalità.
Guida esplora in modo convincente casi, esempi e disegni di autore,
mettendo in evidenza una genealogia della modernità densa di riferimenti che rappresentano la costitutiva complementarietà del sapere
urbanistico con la tradizione del linguaggio architettonico, attraverso
una storia delle idee e dei progetti che ha contribuito a codificare il ruolo
del concept come azione-manifesto di ogni proposta progettuale. Nei
progetti urbani e urbanistici più complessi, come nelle grandi strategie
della trasformazione territoriale, l’uso del concept, inteso come invenzione, gesto creativo che definisce un’immagine sintetica evocativa dell’idea progettuale in forma icastica e persuasiva, rappresenta una forma
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consolidata di comunicazione dell’idea-guida ma illustra anche la complessità del ruolo che questo dispositivo riveste nella costruzione (sociale) delle intenzionalità.
Le immagini che produciamo e attraverso cui vogliamo comunicare
mostrano la sedimentazione di diverse visioni della realtà e, per la loro
immediatezza, consentono di intendersi, di superare barriere spesso
artificiali al dialogo con soggetti e saperi, per operare riflessivamente
sulle ragioni dei progetti e per rendere - tali ragioni - accessibili e aperte
al contributo e alla condivisione della società. Il richiamo al valore dell’immagine e della sua produzione come strumento per giungere a visioni condivise appare un contributo molto proficuo alla costruzione di
un modello urbanistico in grado di coniugare equità e inclusività con la
consapevolezza del ruolo che lo spazio e la sua qualità hanno nel costruire visioni di futuro per la città e il territorio.
Adriaan Geuze, Scattered
urbanisation, 1989
(NAI Collection).
Bibliografia
Andriello V., Teoria normativa e forme di razionalità. Sulla genesi di A Theory of Good City
Form di Kevin Lynch, in “CRU-Critica della Razionalità Urbanistica”, n. 1, Napoli 1994.
Lynch K., A Theory of Good City Form, Massachusetts Institute of Technology 1981;
trad. it. K. Lynch, Progettare la città. La qualità dlla forma urbana, Etaslibri, Milano
1990.
Gabellini P., Tecniche Urbanistiche, Carocci, Roma 2001.
Gabrielli B., Introduzione, in K. Lynch, Progettare la città. La qualità della forma urbana,
Etaslibri, Milano 1990.
Secchi B., Prima lezione di urbanistica, Laterza, Bari 2000.
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1. Introduzione.
Del disegnare ciò che si vuole e ciò che serve
“Thinking machine”,
schizzo di Patrick Geddes.
In questo modo si raccolgono realtà viventi - in quanto fenomeni singoli e nelle loro
connessioni. Trarre conclusioni da questo materiale è il compito della filosofia, ed è un lavoro
sintetico, nel senso più alto del termine
Wassily Kandinsky, Punto, linea, superficie, Adelphi, Milano 1968
Spiegando la stesura direttamente in inglese del suo A Theory of Semiotics, Umberto Eco scriveva di come le inevitabili sue carenze lessicali e sintattiche in quella lingua, oltre che il timore di spingersi ad
arditezze stilistiche, l’abbiano costretto a «giocare su pochi termini tecnici eliminandone i sinonimi e non tentando sostituzioni metaforiche:
questo mi ha obbligato a dire solo ciò che volevo dire (o che l’argomento esigeva) e non ciò che il linguaggio talora dice da solo prendendo la mano a chi scrive» (Eco, 1975, p. 6). O disegna, e progetta.
Schizzi, mappe, atlanti, schemi, diagrammi, esito di riduzioni e deformazioni adattive e semplificanti della realtà, non sono solo materiali dell’esperto, dell’architetto, dell’urbanista o del geografo. Sono oramai
elementi dell’immaginario visivo contemporaneo e il loro uso in un progetto di città, di un’architettura o di un pezzo di paesaggio, è tra i mezzi
comunicativamente più ricchi e utili, soprattutto nelle fasi proto-progettuali, di abbrivio al percorso di un progetto e di indagine delle relazioni spaziali e funzionali tra le parti. L’architettura e l’urbanistica, ricorda
Söderström (1995), sono pratiche nelle quali il visuale gioca un ruolo
centrale, e ciò è conseguenza del fatto che il loro scopo fondamentale
è quello di elaborare e collocare oggetti nello spazio.
Come nelle thinking machines di Patrick Geddes1, gli schizzi e gli schemi
grafici manifestano spesso la loro migliore versatilità rispetto a formulazioni esplicitate solamente attraverso parole. Wunenburger (1999), cita
Delacroix nel sostenere «l’impossibilità dell’abbozzo in letteratura, l’impossibilità di dipingere qualcosa con lo spirito, e la forza, al contrario,
che l’idea può sprigionare anche in uno schizzo appena abbozzato. In
letteratura il pressappoco è intollerabile […], lo schizzo in letteratura è
impossibile» (p. 32). Una riflessione, però, utilizzata in maniera strumentale. Lo stesso Wunenburger cita la formula di Klee: «Scrivere e disegnare sono due atti fondamentalmente identici». Ed Eco (1975) riconosce
il ruolo fondamentale dei “concetti sfumati” nel linguaggio non tecnico,
dove forse si può riscontrare un’assenza di logica, ma non di retorica o
di implicita volontà persuasiva2.
In generale, una serie di disegni schematici, schizzi, mappe diagrammatiche, concept di progetto, possono concorrere alla formazione di un
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nuovo sistema di spazio, non euclideo, non prospettico, meno topologico, con coordinate cangianti e poco codificato. In questo senso, questi strumenti grafico-visuali consentono di elaborare sia strategie, sia più
rapide tattiche inedite lungo un percorso progettuale (Söderström, 2000).
La prefigurazione di un progetto attraverso un qualche tipo di disegno
dal carattere schematico e sintetico è trattata, nelle pagine che seguono, in riferimento fondamentalmente al rapporto con l’urbanistica e
l’architettura della città. In questo senso, se si vuole tracciare un obiettivo per questo libro, esso è quello di una ricognizione breve di come
le pratiche di schematizzazione grafica e sintesi iconica, siano tra gli
attrezzi più utili per chi si occupa dell’analisi e del progetto delle trasformazioni urbane, spesso quelli essenziali, i più mostrati e più discussi. Attrezzi molto diffusi, ma dotati di una strutturazione debole,
che sovente li riconduce a semplici prodotti di fantasia, incerte “mosse
simbolizzanti” (Searle, 1955) o figure promozionali, più vicine al marketing urbano che alla pianificazione urbanistica di una città. Il tentativo è
quello di illustrare un percorso lungo il quale l’immaginazione schematizzante abbia un ruolo fondamentale “nel” progetto, e non di rado “è”
il progetto.
I processi di semplificazione grafica, di mapping, di layering, di sintesi
diagrammatica, sono da sempre nel corpus non solo delle discipline
architettoniche e urbanistiche, tradizionalmente equipaggiate con una
carica persistente di razionalità e presunta oggettività, ma di molteplici
altri saperi e persino delle scienze cosiddette “esatte” che hanno
spesso superato impasse di ricerca e disciplinari proprio mediante l’utilizzo ponderato di schemi, ipotesi grafiche, metafore3.
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cativi, da usare per esplorazioni progettuali e immagini esteticamente
valide, sintetiche e significative (Belli, 1996; Guida, 2006).
E così, queste espressioni grafiche, e spesso grafico-testuali4, assumono sovente un’autonomia e un potenziale specifico (Viganò, 2010)5,
diventano strumento svincolato da codici, non direttamente collegato
a geometrie euclidee, con parametri cangianti, e spesso elemento di rischio se non ben comunicato, anche perché si tratta di fatti comunicativi in parte dipendenti dal soggetto ricevente.
Tuttavia, pur con qualche rischio, è anche disegnando e comunicando
quello che di volta in volta gli appare importante, selezionando ciò che
serve, semplificando e riducendo le questioni e i disegni, che l’urbanista, rinnovato magister urbis, può ancora contribuire alla costruzione
non solo del progetto della città, ma anche dei sogni e delle speranze
dei cittadini che la abitano.
Piano urbanistico per
San Antonio, Texas, 1730.
Note
1.
La semplificazione iconica è, comunque, sempre un’operazione complessa. In essa la realtà rappresentata o ipotizzata deve emergere in filigrana per consentire di riconoscere e interpretare correttamente il
significato dei segni. Il passaggio dalla realtà alla sua semplificazione
produce immagini che non possono più essere considerate, quindi,
una replica analogica della cosa da rappresentare, ma atto interpretativo che presuppone una buona conoscenza dell’oggetto della rappresentazione e una qualche capacità di decodifica da parte del fruitore
finale, al quale è richiesta un’interazione utile, operativa, completante.
Pratiche di rappresentazione che, come apparentemente liberi tasselli
della fondamentale fase di approccio al progetto, si muovono all’interno
di un percorso non unicamente razionale, hanno un ruolo naturalmente
immaginifico e partecipano all’esigenza di una utile retorica del progetto. Esse contribuiscono all’azione comunicativa delle intenzioni progettuali, aiutano a innescare e sostenere la discussione e la riflessione.
E in questo senso, la comunicazione del progetto e nel progetto è essa
stessa elemento da progettare.
Nonostante la tradizione eminentemente razionale e di matrice positivista dell’azione urbanistica, schizzi e schemi sono notoriamente da
sempre parte del progetto di città e lo sono stati pure durante la fase
centrale del razionalismo, nei diagrammi del funzionalismo, nei grafi dell’existenz-minimun, nei pittogrammi di Otto Neurath, così come nei croquis e dessins di Le Corbusier. Questo utilizzo di strumenti e modalità
di disegno non unicamente logiche e razionali, invece di allontanare
l’urbanistica dal suo oggetto di studio verso l’incerto, come pure si poteva ipotizzare, ha consentito e sollecitato, al contrario, l’emergere della
“città fisica”, col ricorso a metafore, schizzi progettuali, diagrammi espli-
14
2.
3.
4.
5.
Geddes utilizzava le “macchine per pensare” come modelli schematici attraverso i
quali operare una sintesi tra cose e campi di saperi diversi. A volte erano elaborati
sotto forma di matrice, altre volte più liberamente tracciati a mano libera (si veda,
tra gli altri, Meller, 1990).
Si tratta, come si può intuire, di un campo aperto. La prevalenza e la maggiore
duttilità di una modalità di espressione rispetto a un’altra si presta a interpretazioni
molteplici. Wunenburger (1999) scrive ancora: «L’espressione linguistica, per
quanto ci allontani dall’immediata presenza del mondo per il fatto di sostituirlo con
dei segni arbitrari, si manifesta con un uso più sfumato e universale rispetto alla
semplice rappresentazione analogica percettiva (figura, disegno, mimema, ecc.)»
(p. 30).
Un utile riferimento in questo campo di ricerca è il noto volume di Lorena Preta
(1992) sull’utilizzo fondante e non solamente esornativo di immagini metaforiche e
diagrammatiche nelle scienze.
Il fondamentale legame fra immagine linguistica e immagine iconica, soprattutto per
quanto riguarda la pubblicità, è stata da tempo oggetto di riflessione, a partire da
Barthes (1964). Wunenburger (1999) ribadisce come «l’abbinamento di parole e
immagini visive costituisce dunque una tecnica frequente nelle attività sintetiche,
artistiche e, oggi, pubblicitarie», e come sia «opportuno riconoscere che la funzione
visiva e la funzione linguistica costituiscono sì due canali divergenti della produzione
di immagini senza tuttavia presupporre che tale ramificazione equivalga a un taglio
netto […]. L’immaginario verbo-iconico costituisce dunque l’asse centrale della vita
delle immagini e della loro teorizzazione» (pp. 36-37).
Paola Viganò (2010) fa esplicito riferimento al lavoro di Umberto Eco (1990), sulla
necessità che anche nel lavoro paziente di selezione e riduzione grafica, il punto di
vista dell’autore tenda a perdere importanza rispetto all’autonomia del prodotto
grafico finale e della semantica dei diversi segni.
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2. La realtà nella rappresentazione:
scarabocchi, segni e codici per la città contemporanea
L’utilizzo del disegno schematico, di sintesi e avvicinamento al progetto
definitivo avviene, naturalmente, senza metodologie e tecniche precise.
Non si tratta di un’assenza voluta di razionalità, ma di una razionalità in
nuce, celata, schermata dalle occorrenze e dai singoli usi che si farà di
quella tipologia di rappresentazione.
Una specie di “utile sregolatezza” come principio e sostrato della quale
si può addirittura intravedere il naturale istinto allo scarabocchio, al tratto
grafico non riflessivo e non strutturato, una sorta di disegno a razionalità zero che si ha «quando la penna scrive da sola, sospesa a un altro
pensiero»6. Pur trattandosi di esercizi grafici marginali e per lo più inconcludenti, infatti, scarabocchi, ghirigori, capricci grafici e testuali manifestano una modalità di espressione che si pone fuori da regole rigide
e impalcature razionali e, di conseguenza, possono determinare novità
espressive e grafiche. Marco Belpoliti (2003) nota che se ci fosse una
scienza degli equivoci grafici si potrebbe chiamare “errografia”. Essa si
occuperebbe delle analogie tra sgorbi, schizzi, sfregi, baffi, esercizi calligrafici, ma studierebbe anche i rapporti che esistono tra mondo animale e mondo infantile, tra animali e personaggi letterari. Senza voler
sopravvalutare lo strumento dello scarabocchio (e quello dell’architetto,
in particolare), magari riconoscendogli «una funzione autoterapeutica,
che libera una scarica grafo-motoria e genera nel corpo una piccola catarsi» (Curcio in Belpoliti, 2003, p. 76), è pur vero che le modalità dello scarabocchiare sono legate allo sviluppo biologico del bambino, alla sua
crescita, e contribuiscono alla formazione dell’adulto e al suo modo
“consapevole” di tracciare segni, anche attraverso lo sviluppo di specifiche abilità tecniche7.
Dallo scarabocchio alla modellizzazione schematica, interpretativa e
meta-progettuale il passo, però, non è breve. Dall’immaginazione intesa
come visione di tipo fantastico, si passa gradualmente a quella “ragionata” (Wunenburger, 1999). Essa deve portare a un rinnovamento della
configurazione del reale attraverso una riduzione grafica che, come nel
caso del progetto urbano e di architettura, non deve limitarsi a illustrare,
ma favorire un percorso cognitivo, previsivo e comunicativo, che contribuisca alla costruzione di scenari per la città.
Volendo ricostruire una tassonomia semplice della rappresentazione
per elementi grafici di sintesi, si può operare una catalogazione in base
alle funzionalità che essi si prestano a esprimere, delineando una grammatica poco convenzionale, ma analiticamente utile.
Branzaglia (2003) propone un breve inventario, che riprende da Massi-
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roni e Anceschi, di elementi grafici catalogati a diversi livelli, in base alle
tecniche e alle funzionalità cui possono essere riferiti.
Partendo dall’elemento segnico di base, se ne possono distinguere tre
tipi. Il primo è il segno oggetto, quello nel quale il tratto si identifica con
l’oggetto rappresentato: per esempio una linea ricurva per rappresentare un bastone. Si tratta del tipo di segno più sintetico e il suo utilizzo
si riduce ai casi in cui prevale l’astrazione: i diagrammi, i grafi, i segnali
stradali, ecc. Per l’interpretazione del segno oggetto è necessaria,
come negli schemi progettuali molto semplificati, una elevata capacità
di completamento da parte dell’utente, sia esso esperto o meno. Il
segno contorno è quello che, invece, delimita l’area occupata dall’oggetto tramite una traccia grafica. È anch’esso molto sintetico ma può
comportare contenuti informativi maggiori. È molto diffuso nell’incisione
e nei fumetti, dove, in particolare, esso definisce anche i cosiddetti balloon, attraverso i quali c’è il completamento dell’illustrazione mediante
parti testuali (Falcidieno, 2006). Infine, il segno tessitura, determinato dall’utilizzo di tecniche più complesse. In questo caso le textures definiscono volumi, creano sfumature, layers, raggiungendo un grado di
realismo superiore.
Ovviamente i diversi segni possono essere combinati tra loro. Attraverso
questa combinazione, e mediante l’utilizzo di tecniche grafiche diverse,
è possibile definire differenti funzioni della rappresentazione, ciascuna
adeguata al livello comunicativo e di rappresentazione voluto, o necessario. Proprio lungo questo percorso, Branzaglia propone tre famiglie di
funzioni associate agli elementi grafici di sintesi indicati in precedenza.
Conseguentemente, ognuna di queste famiglie può essere associata a
diverse funzioni della rappresentazione.
La prima funzione è quella tassonomica. Con essa è possibile individuare le caratteristiche peculiari di un referente. L’esempio più immediato
è l’illustrazione scientifica: si tratta di immagini non realistiche nelle quali
l’astrazione deve rendere evidenti solo specifici particolari, e dove un sovraccarico segnico e iconico oltre a essere inutile, potrebbe portare a difficoltà di comprensione e decodifica.
A prevalere, nella funzione tassonomica, è il segno contorno accompagnato dal segno tessitura.
La funzione illustrativa fa invece uso prevalente del segno tessitura,
mette in mostra la realtà e ha un livello di astrazione minimo: render fotorealistici, fotografia, illustrazioni, televisione, sono i campi in cui tale
funzione naturalmente prevale. La funzione operativa è fortemente legata proprio al campo del progetto di architettura e di città. Essa riguarda, cioè, graficizzazioni che devono essere interpretate da un
esecutore per realizzare un qualcosa: piante, alzati, schemi elettrici o di
montaggio, disegni strutturali, ecc. In questo caso prevalgono la linea
oggetto o di contorno e i singoli elementi sono “misurabili”. Tale funzione, quindi, non è semplicemente comunicativa o persuasiva, ma si
inserisce in una famiglia di rappresentazione che prevede una succes-
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siva interpretazione ed esecuzione. In generale, il sistema di famiglie di
segni proposto, definisce gradazioni di rappresentazioni che vanno da
un massimo a un minimo di realismo, da un minimo a un massimo di
astrazione e, infine, da un minimo a un massimo di competenza ed expertise richiesta per riconoscere e valutare l’oggetto della rappresentazione stessa.
In ultimo, Massironi (citato in Branzaglia, 2003) introduce la categoria di raffigurazioni che egli definisce “ipotetigrafia”. Si tratta, in sostanza, di artifici
grafici che definiscono cose dalla morfologia indeterminata proponendo
modelli di conoscenza e interpretazione di fenomeni intangibili e slegati da
una percezione diretta nella realtà. È il caso, ad esempio, della schematizzazione del Dna come un’elica, oppure lo schema circolare dell’atomo,
i diagrammi delle tensioni in una trave, ecc.
L’ultimo livello è quello dell’astrazione assoluta. Sebbene, in genere,
sommariamente considerati appannaggio delle espressioni di tipo artistico e fatti grafici meramente concettuali, schemi e diagrammi astratti,
e quindi avulsi da geometrie e contesti spaziali reali, sono importanti
Gustav Eiffel, disegno
strutturale per l’ossatura
della Statua della Libertà,
1880.
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nella rappresentazione dei fenomeni urbani. Patrizia Gabellini (2009), ad
esempio, introduce il percorso creativo verso l’astrazione di Kandinsky
nei problemi legati alla raffigurazione e comunicazione del piano urbanistico. Dai paesaggi naturalistici alle composizioni astratte, Kandinsky,
com’è noto, elaborò la graduale frequenza delle tre tipologie delle sue
opere: “impressioni”, “improvvisazioni”, “composizioni”. Un percorso
controllato, paradigmatico dell’attuale tendenza all’uso del concept.
In generale, la produzione di nuovi prodotti visivi da parte di architetti e
urbanisti racconta la ricerca di nuove strade per il progetto e di un consenso sempre più indispensabile per muovere azioni e creare immagini
gratificanti anche per le amministrazioni committenti. Si tratta di un approccio tipicamente riconducibile alla modernità.
Già Sigfried Giedion (1984), negli anni tra le due guerre, scriveva della necessità, per il pianificatore moderno, di elaborare una nuova sensibilità:
nel localizzare correttamente una funzione urbana, egli dovrebbe andare
oltre la superficie dei territori, provandone a sentire con “perspicacia tattile” il sostrato e individuare di volta in volta le aree più idonee. Un’immagine che ricorda l’affermazione, negli stessi anni, proprio di Wassily
Kandinsky, secondo il quale «l'uomo deve sviluppare una nuova facoltà
che gli permette di passare sotto la pelle della natura e toccare la sua essenza, il suo contenuto». Concetti peculiari di quegli anni (ma anche di
quelli precedenti, si pensi ai primi diagrammi schematici e atopici per le
garden cities) che, oltre alle connessioni con le parallele esperienze artistiche, avranno una forte influenza sulle modalità di rappresentazione e
sugli esiti formali ed estetici dei progetti per la città nuova.
I parchi e i giardini progettati da Roberto Burle Marx, ad esempio, attraverso composizioni riconducibili direttamente all’espressionismo
astratto e all’informale, hanno costituito uno spartiacque nella progettazione del paesaggio e per la tradizionale arte dei giardini, oltre che in
buona parte dell’immaginario comune sugli spazi pubblici aperti e contemporanei. I grafici di progetto, simili per struttura e conformazione ai
lavori delle coeve esperienze artistiche, sono state parte essenziale del
loro successo, prima in Brasile e poi a livello internazionale.
La forza immaginifica delle linee e l’equilibrio di forme e colori (nonché
un’ampia conoscenza dell’aspetto botanico) consentì a Burle Marx di
superare il rischio di una progettazione del paesaggio eccessivamente
epidermica, trasformando il “volume zero”, il segno astratto e distante
dal classico, le “storie” botaniche e lo spazio aperto, in materiali del
progetto. Un itinerario non facile che unisce teoresi, etica ed estetica,
e che ha fatto di Burle Marx uno dei più attenti interpreti del Novecento.
Molto più di recente, sono alcune esplorazioni grafiche di Zaha Hadid
a verificare il rapporto tra prodotto grafico artistico e progetto urbano,
con una forte incidenza dell’apporto informatico e della progettazione
parametrica e frattale. La scomposizione di diversi tipi di rappresentazione segnica proposta in precedenza, è allineata anche a una sua og-
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Roberto Burle Marx,
disegni, schemi e schizzi,
(progetto per il Ministero
da Educaçào e Saude).
Roberto Burle Marx,
progetto non realizzato per
la Rosa-Luxemburg Platz,
Berlino, 1993.
Zaha Hadid, One north
masterplan, Singapore,
2001-2021.
20
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gettività liminare e ai differenti livelli di comprensione per interpretare le
molteplici famiglie di segni.
Ovviamente, la capacità di elaborazione da parte dell’utente (soggetto
interpretante), non è in genere legata a una maggiore analogia o mimetismo dell’immagine, ma a diversi fattori: sociali, culturali, multidisciplinari. Come rileva Sorlin (2001), fino alla fine dell’Ottocento le
persone di media cultura leggevano meglio un disegno che una fotografia, solo tempo dopo le illustrazioni analogiche e più realistiche
hanno avuto la meglio, per essere poi integrate, negli ultimi anni, da ricostruzioni virtuali che ricostruiscono, in modi meticolosi e convincenti,
fatti del futuro oppure eventi che non hanno mai avuto luogo o manufatti mai realizzati (Belpoliti, 2003). I disegni degli ingegneri dell’Ottocento
sono esemplari in questo senso. Essi assorbono nella loro funzione
meccanica una più generale tendenza fatta di “funzione-ragionegenialità”, nella quale l’elemento di classicità può essere individuato
proprio dalla linea pura del contorno. In quel tipo di disegno-progetto,
sono tracciati i segni indispensabili e le linee “giuste”, fatte con il tiralinee di acciaio e inchiostro indelebile (Brusatin, 1993).
nella pagina accanto
J.M. de Casseres, mappa
del Piano di espansione di
Eindhoven, 1930.
Note
6.
7.
A scrivere è Nicola Valentino, citato in Belpoliti (2003, p. 78).
«Gli scarabocchi aprono buchi, svelano mostri e lemuri, nascosti in segreti, riposti
cassetti, tradiscono smarrimenti».
Bartezzaghi (2009), propone un parallelo con le espressioni linguistiche:
«Nel disegno come nella lingua ci sono almeno tre possibilità. Il discorso senza
senso, che poi del tutto senza senso non è mai, nel disegno si chiama
scarabocchio e nel discorso verbale è la chiacchiera, che oggi si nomina un po’
volgarmente ma non senza precisione “cazzeggio”; il discorso che ha un senso,
che poi del tutto senza doppi sensi non è mai, nel disegno si chiama disegno e nel
discorso si chiama discorso; il discorso che ha due sensi (entrambi precisi e ben
distinti l’uno dall’altro) nel disegno si può chiamare ambigramma e nel discorso
verbale si può chiamare enigma» (pp. 89-90).
Wassily Kandinsky, Munich
Schwabing with the
Church of St Ursula, 1908
(in alto) e Modello di figura
per la scena XVI.
Walter Jonas, Intrapolis,
1966.
22
23
3. Ideogrammi e pittogrammi.
Da Otto Neurath ai segnali stradali
L’ideografia, secondo il dizionario Treccani, è un «sistema di scrittura
che non tiene conto dell’aspetto fonologico del linguaggio, ma fa uso
di simboli (ideogrammi) che si pongono in rapporto immediato con un
contenuto mentale». Un singolo ideogramma, quindi, rappresenta un
concetto e non un valore fonologico: le cifre 1, 2, ecc. sono ideogrammi. Nella rappresentazione grafica di dati statistici, l’ideogramma
fa parte di una forma di rappresentazione dei dati ottenuta mediante
l'uso di figure di diversa grandezza. Tali ultimi segni grafici si possono
anche definire istogrammi “a figure”.
La pittografia è legata concettualmente e graficamente all’ideografia. I
pittogrammi sono definibili quali disegni di un oggetto, eseguiti per richiamare l’attenzione su alcuni aspetti dell’oggetto reale cui fanno riferimento, definiti da specifici particolari del disegno stesso.
L’architettura, e soprattutto l’urbanistica, hanno fatto largo uso di queste figure, riutilizzandole anche in forme meno logico-matematiche, più
creative e declinate negli utilizzi più vari in piani e progetti.
Esempi “classici” di come semplici riduzioni grafiche siano molto più
comprensibili e immediate di analoghe immagini mimetiche, sono i segnali stradali, codice di uso collettivo e comunque riconoscibile (sebbene necessiti di una “formazione” del fruitore), oppure le icone dei
sistemi operativi dei pc, oramai parte dell’immaginario comune, i logotipi di molte importanti aziende, le indicazioni negli edifici pubblici (wc,
ascensori, percorsi protetti, ecc.). La progettazione e la pianificazione
della città attingono a piene mani a questo campo della comunicazione
per immagini, riuscendo in molti casi a farlo proprio e a reinventarlo.
Com’è noto, una prima elaborazione di codici ideogrammatici in urbanistica avviene durante i primi decenni del Novecento. Riferimento imprescindibile per gli studi, la divulgazione e l’influenza degli esiti in
questo campo, fu l’austriaco Otto Neurath. Filosofo, sociologo, economista, membro del Circolo di Vienna e fondatore del Museo della Società e dell'Economia (Gesellschafts und Wirtschaftsmuseum), Neurath
(1882-1945), elaborò diverse idee in sostegno del self help urbanism,
una sorta di riforma urbanistica dal basso. Tra le sue sperimentazioni
tese a “umanizzare” la conoscenza, ci fu proprio l’elaborazione di modalità grafiche fatte di mappe, pittogrammi, schemi, segni grafici accessibili al grande pubblico. Un sistema segnico che sfocerà nell’Isotype
Pictorial System8, mediante il quale riuscire a trasporre concetti astratti
in rappresentazioni accessibili a tutti e in grado di fornire una visione
generale e semplificata dei fenomeni.
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Gerd Arntz, Pittogrammi.
Per facilitare la standardizzazione nella rappresentazione, nel sistema
Isotype vengono stabilite alcune regole: a ogni oggetto deve corrispondere un simbolo, i diagrammi devono essere bidimensionali (e non
prospettici), non bisogna dire più del necessario, il colore deve essere
usato come strumento di lettura e differenziazione9. La forza dell’Isotype
è la capacità di fornire una visione globale dei fenomeni utilizzando delle
piccole unità componibili e riproducibili serialmente. Oltre all’elaborazione teorica di Neurath, la progettazione dei simboli e dei pittogrammi
fu opera soprattutto della moglie Marie Reidemeister e di Gerd Arntz,
un artista tedesco la cui opera si rivela determinante per il successo e
la diffusione internazionale di questo sistema di segni e figure.
Per realizzare il suo programma di divulgazione, Neurath elaborò una
solida impalcatura teorica (alla base del cosiddetto “metodo viennese”)
per la rappresentazione e la comprensione visiva di dati complessi,
come quelli statistici, geografici, urbanistici, basata sul fatto che l’apprendimento avviene in modo più immediato e intuitivo tramite immagini semplici, rispetto alle esplicitazioni spesso ambigue fatte solamente
con testi. I cittadini, per Neurath, possono essere messi in condizione
di vedere il loro mondo in termini di patterns, sistemi di comunicazione
strutturati con pittogrammi e sistemi segnici (in qualche caso coadiuvati da brevi testi), che dovevano trovare un riferimento diretto nel fatto,
nella cosa, nell’evento che dovevano comunicare: «Il linguaggio basato
sui pittogrammi è in relazione a tutte le cose che si possono vedere
tutti i giorni», sosteneva ironicamente Neurath, «per esempio, l’uomo ha
due gambe; il pittogramma relativo ha due gambe; ma il segno-parola
“uomo” non ha due gambe» (Vossoughian, 2011, p. 66).
Neurath, in questo senso chiaramente contemporaneo, era consapevole
del ruolo sempre maggiore che le immagini stavano assumendo nell’ambito della comunicazione. Egli intuì che già la società di allora riceveva
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