Storia della Jugoslavia socialista_di Gregorio Piccin

Transcript

Storia della Jugoslavia socialista_di Gregorio Piccin
1
ALCUNE PREMESSE STORICHE
(Ideologia è pure la storiografia ufficiale che) ha visto nella storia soltanto
azioni di capi, di Stati e lotte religiose e in genere teoriche, e in ogni epoca,
in particolare, ha dovuto condividere l'illusione dell'epoca stessa. Se
un'epoca, per esempio, immagina di essere determinata da motivi
puramente "politici" o "religiosi", benché "religione e "politica" siano
soltanto forme dei suoi motivi reali, il suo storico accetta questa opinione.
Karl Marx
L’obiettivo di questa prima parte é quello di offrire un inquadramento storico
sintetico e sufficientemente chiaro sulla nascita del regno Jugoslavo, su ciò che
accadde nel corso del secondo conflitto mondiale, ma soprattutto sul profondo e
decisivo significato politico che ebbe la guerra di Liberazione dall'occupazione
nazi-fascista.
Per capire le ragioni del ciclo di guerre civili scoppiate nel 1991, sarebbe
assolutamente fuorviante risalire al 1800, alla conquista turca dei Balcani o alla
storia dell’idea di stato-nazione o di crisi di stato-nazione.
Le une appartengono ad altre dimensioni storiche, le altre sono, per loro stessa
definizione, storie delle idee e non delle dinamiche reali e materiali della
società.
Ogni problema, ogni fatto, andrebbe prima di tutto delimitato in un suo contesto
storico specifico; questo é infatti un presupposto inalienabile perché ne segua
un’analisi il più possibile corretta e il più possibile distante dall’inutile
“narrazione-racconto” di grandi imprese politiche o militari.
1.1. LA JUGOSLAVIA DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE:
L’INCONSISTENZA DEL NUOVO REGNO.
“...La prima guerra mondiale rivoluzionò la configurazione politica
dell'Europa. Ciò fu evidente soprattutto nei Balcani, dove il moto
nazionale degli slavi meridionali e la vittoria alleata diedero vita, il 1°
dicembre 1918, al regno dei serbi, dei croati e degli sloveni...”1.
1Ivo J. Lederer, La Jugoslavia dalla conferenza di pace al trattato di Rapallo, Il Saggiatore, Milano 1966, pag.13.
La Jugoslavia come regno di "serbi, croati, sloveni” nasce quindi dopo il primo
conflitto mondiale in seguito alla sconfitta subita dall'Austria-Ungheria.
Dire ciò, comunque, non basta; rilevando il fatto che una nuova entità nazionale
si costituisce bisogna poi addentrarsi nelle determinazioni e nei contenuti di
questo evento per comprenderne fino in fondo la portata più o meno
"rivoluzionaria" (cioé di chiusura col passato e apertura di una nuova fase
storica), per capire cioé se la formazione di uno stato nazionale (e nel caso della
jugoslavia, pluri-nazionale) sia un evento concretamente accettato dal suo
"nuovo" popolo o sia piuttosto un artificio delle sue classi dirigenti.
Effettivamente la costituzione, o meglio, la "comparsa" di una nuova realtà
statale nel vecchio continente fu un fatto di enorme portata geo-politica
(piuttosto che politica), ma su quali presupposti si costituì questo nuovo regno?
Quale fu il livello di adesione popolare che raccolse e quali furono i rapporti di
forza all'interno e all'esterno di esso?
Da bambini impariamo a scuola che la prima guerra mondiale é stata per noi una
guerra di "liberazione" dall'invasore austriaco, e generalmente nella nostra
mente rimangono impressi i nomi di Trento, Trieste, Caporetto, ecc.. Poi, se
abbiamo fortuna, qualche persona onesta ci mette in guardia facendoci notare
che l'Italia entra in guerra nel 1915 quando già i cannoni infuriano e vi entra
chiedendo in cambio, agli alleati, Istria, Dalmazia e Albania2.
Ciò nonostante le rivendicazioni "liberatorie" e irredentiste del governo italiano
erano ben poca cosa rispetto alle prospettive che questa guerra apriva per le vere
potenze in campo: si trattava di fare combattere contadini e operai gli uni contro
gli altri per l'egemonia politica in Europa e quindi per la supremazia economica
sui mercati mondiali attraverso il controllo e lo sfruttamento delle colonie con
tanto impegno conquistate nella dorata belle epoque cioè negli anni a cavallo tra
il 1800 ed il 1900.
Anche per questo i governi alleati erano interessati a schiacciare la fiorente (e
perciò preoccupante) potenza dell'impero germanico piuttosto che smembrare
l'Austria-Ungheria (innocua dal punto di vista della corsa ai mercati mondiali).
Al principio della guerra, l'unione "degli slavi del sud" in un unico regno
ricavato dalla fusione delle provincie croate e slovene strappate all'Austria con il
regno di Serbia e il regno di Montengro era un disegno quanto meno non
2Il 26 aprile 1915 Italia, Francia, Gran Bretagna, Russia firmarono il trattato "segreto" di Londra. All'Italia sarebbero andati
il Tirolo meridionale, il Trentino, Trieste, le contee di Gorizia e Gradisca, la penisola istriana fino al Quarnaro comprese le
isole di Cherso e Lussino (Fiume era rigorosamente esclusa), il porto di Valona e un protettorato sul resto dell'Albania,
l'arcipelago del Dodecanneso, una parte del litorale dell'Anatolia, accrescimenti territoriali in Eritrea, Libia e Somalia, una
giusta quota delle indennità di guerra, un prestito di cinquanta milioni di sterline, l'assistenza navale inglese e francese,
l'esclusione del Vaticano dalla Conferenza di Pace e la promessa che i punti del trattato non sarebbero stati diffusi presso le
potenze non firmatarie (cioè presso il Regno serbo) perché all'italia sarebbe andata anche parte della Dalmazia e di alcune
isole dalmate.
considerato dai governi e dai vari ministeri per gli affari esteri degli alleati (se
non da un pugno di intellettuali e accademici liberali inglesi).
...Se le vicende della guerra nel 1918 non avessero imposto un
mutamento della politica alleata nei confronti dell'impero asburgico,
gli jugoslavi non avrebbero conseguito tanto presto il loro obiettivo...3.
Senza analizzare le vicende militari appare quindi abbastanza ovvio che
l'interesse geo-politico per una Jugoslavia unita da parte del "mondo
occidentale" si mantenne basso praticamente per quasi tutta la durata del
conflitto; questo comportò di conseguenza uno scarso appoggio militare ma
soprattutto diplomatico alla "causa" dell'unificazione degli slavi del sud; e il
trattato di Londra4, del resto, ne è una prova incontrovertibile.
In perfetta sintonia con questa situazione (creata ad hoc per favorire il famoso
voltafaccia italiano nei confronti degli imperi asburgico e tedesco) il governo
italiano guidato dal ministro degli esteri, il barone Sidney Sonnino, entrò in
guerra, come già accennato, in buona parte per annettersi Istria, Dalmazia e
Albania.
Appare quindi ovvio che le posizioni del governo italiano sullo jugoslavismo e
l'unificazione jugoslava si dimostrarono tutt'altro che amichevoli e di favore
nonostante l'Italia fosse diventata ufficialmente "alleata" del regno Serbo.
Fu così che Sonnino, a guerra conclusa, essendo falliti i suoi tentativi di
bloccare la costituzione del regno jugoslavo, cercò con ogni mezzo di spezzarlo
attraverso un blocco economico, frenandone il riconoscimento da parte degli
altri governi e non ultimo l'invio di missioni destabilizzanti.
Vennero avanzate presso i governi alleati
“...proteste jugoslave a proposito dell'invio da parte dell'Italia di agenti
in Bulgaria per creare complicazioni con la Serbia e in questo modo
suscitare all'estero l'impressione che l'occupazione italiana di Fiume e
della Dalmazia era necessaria per il mantenimento dell'ordine nei
Balcani. Si parlò d'ogni sorta d'intrighi, di macchinazioni e di
operazioni spionistiche da parte italiana...” 5.
Non sorprende quindi se Badoglio mise a punto un progetto di destabilizzazione
su tutto il territorio jugoslavo oltre che nelle zone già occupate dall'esercito
italiano nel momento in cui si rese conto che tutte le potenze alleate, sotto la
3Ivi, pag.14.
4Nemmeno la Russia zarista, autorevole "amica" della corona serba, poté o volle opporsi alla stipulazione del trattato.
5Ivi, pag.82.
spinta statunitense, avrebbero riconosciuto e appoggiato il nuovo regno dei serbi
dei croati e degli sloveni proclamato il 1 dicembre 1918.
Il progetto, allegato ad una lettera in cui si richiede l'autorizzazione a procedere
e l'accesso ai fondi necessari, viene recapitata a Sonnino da parte dello stesso
Badoglio il 3 dicembre 19186.
Si tratta di un preciso piano destabilizzante fondato sulla classicissima strategia
del divide et impera e poggiante su tutte le forze in campo.
Anche i soldati italiani già presenti su suolo dalmata, infatti, avrebbero dovuto
contribuire "fraternizzando" con le donne slave, "...la cui facilità (...) favorirà
relazioni i cui risultati non possono che essere benefici..." 7.
Il progetto era suddiviso in due zone d'azione: l'una all'interno dei territori sotto
il controllo italiano, l'altra al di fuori dei territori occupati. Per questa seconda
zona in particolare era stato concepito tutto il piano:
“…1. E' in preparazione una numerosa squadra di agenti
intelligentissimi, ben orientati (...) Già trovato gli individui adatti per
assumere la direzione di quanto si farà in Slovenia, Croazia, Dalmazia.
Spero tra giorni di avere l'individuo adatto anche per la Serbia (...)
2. Sto cercando contatto coi due principali giornali di Lubiana
("Slovenski Narod" e "Slovenec") e coi tre principali di Zagabria
("Obzor", "Hrvatska Rijec'", "Novosti") cercando di compiere su di
essi opera di convinzione .
3. Cercherò contatto diretto cogli elementi malcontenti del passato
regime…”
Ma la previsione dei costi aiuterà sicuramente a comprendere meglio le
dimensioni e la portata del progetto.
Da sottolineare come il clero risulti il capitolo di spesa più cospicuo:
“…-Squadra speciale. Raggiungerà i 200 agenti divisi in 4 gruppi. Si
può preventivare in media una spesa minima di £ 10000 per agente (2
mesi di lavoro). Totale minimo 2.000.000 di lire.
-Stampa. Si può preventivare una spesa di £ 150.000 per giornale.
Dato che i più malleabili sono tre soli... una spesa di 450.000 lire.
-Clero. Lire 3.500.000 mila.
-Dirigenti ex regime. ...Da 2 a 500.000 lire.
6Badoglio a Sonnino, 3 dicembre 1918, n.90 Riservatissima personale, Arch. gab.3687 (12/09/1918), ASME, Roma.
7Inutile specificare il genere di risultati. Ciò comunque dimostra come il così detto "stupro etnico" riscoperto dalla stampa di
oggi con grande scalpore non abbia certo come ultimo riferimento storico il medioevo.
-Nota. Risulta già a me (...) che la propaganda unionista fatta dalla
Francia é accompagnata da larghissimi mezzi. Questo spiega il numero
di agenti ch’io intendo prendere…”
Sei giorni dopo aver ricevuto questa lettera, Sonnino approvò il progetto.
L'obiettivo di Badoglio e Sonnino era chiaro: volevano tentare in tutti i modi di
fare esplodere il neonato regno jugoslavo. Loro malgrado, l'inconsistenza del
nuovo regno jugoslavo non dipese dall'esito di questo piano destabilizzante; o
quantomeno non dipese soltanto da esso. Quello del governo italiano, tuttavia,
fu in questo senso un impegno non indifferente: mettendo insieme blocco
economico, pressione diplomatica, occupazione militare (e connessa
"fraternizzazione con le donne slave"), ma sopratutto manipolazione del clero di
certo riuscì ad ottenere qualche risultato sul piano del disagio materiale e
disorientamento politico della popolazione.
Rimane insoluta però una questione non di poco conto. Perché se all'inizio della
guerra i governi alleati non si curavano della esistenza della "questione
nazionale" jugoslava dopo il 1917 invece, andando contro ai patti presi da loro
stessi col trattato di Londra, presero affannosamente a seguire il presidente
statunitense Wilson nelle sue iniziative di appoggio a tutte le nuove
"rivendicazioni nazionali" dell'europa centrale e non?
Non furono tanto "le vicende della guerra", come sostiene Lederer, a
determinare il nuovo interesse alleato per lo jugoslavismo e la formazione di
una Jugoslavia, quanto piuttosto la sopraggiunta rivoluzione bolscevica
nell'ottobre 1917.
Dall'ultimo ventennio del 1800, riconosciuto da tutti come il secolo della
costruzione e dello sviluppo degli stati nazionali, vigeva il principio della così
detta "taglia minima" cioé della necessità per qualsiasi rivendicazione nazionale
e nazionalista di poggiarsi su una effettiva potenza economica e culturale.
Nessuno può negare che gli stati nazionali formatisi dopo la I guerra mondiale
non possedevano tale potenza.
Nonostante ciò il presidente Wilson fece di tutto per abbandonare il "principio
della taglia minima", ed effettivamente vi riuscì, con gran dispiacere del
governo italiano.
Lo sgretolamento dei grandi imperi dell'Europa Centrale e Orientale (AustriaUngheria e impero Ottomano) ma soprattutto la rivoluzione russa furono allora,
di certo,
“...Eventi che portarono gli alleati a giocare la carta wilsoniana contro
la carta bolscevica. Infatti (...) ciò che sembrava mobilitare le masse
nel 1917-18 era la rivoluzione
l'autodeterminazione nazionale...”8
sociale
più
che
non
Ecco quella che potremmo assumere come la più probabile delle ragioni che
determinarono il mutato interesse degli alleati (con l’eccezione italiana) anche
per la Jugoslavia9. La imprevista rivoluzione d'ottobre fu senza dubbio una
variabile non calcolata dalle grandi potenze occidentali ma soprattutto diventò
un punto di riferimento potentissimo (anche soltanto simbolicamente) per le
classi lavoratrici europee che ormai da tempo, anche dove non erano organizzate
in movimenti o partiti marxisti, esprimevano forti rivendicazioni sociali10.
In modo forse approssimativo ma sufficiente a comprenderne la portata, ho
chiarito le linee politiche dei governi alleati (e in modo particolarissimo
dell'Italia) circa il processo e l'attuazione della unificazione degli slavi del sud
nel Regno Jugoslavo guidato dalla corona serba.
Andrebbero ora considerate le condizioni politiche "interne" tracciando a grandi
linee le posizioni delle classi dirigenti nonché la composizione sociale e il grado
di sviluppo interno dell'area jugoslava per verificare il livello di adesione
popolare alla causa jugoslavista.
E' molto in voga tra gli storici amanti delle grandi gesta "nazionali" paragonare
il ruolo avuto dalla Serbia nell'unificazione jugoslava a quello avuto dal
Piemonte nell'unificazione italiana.
Senza troppi scrupoli potremmo aggiungere alla "lista" anche la Prussia del
cancelliere Bismark all'epoca dell'unificazione dei principati tedeschi in un
unico "reich " germanico nella seconda metà del 1800.
Nello specifico la caratteristica che accomuna queste tre situazioni nonostante la
relativamente breve distanza cronologica é di certo la necessità puramente
strumentale dei tre governi (Piemonte, Prussia e Regno serbo) di espandere il
proprio controllo su regioni geograficamente e culturalmente pressocché vicine
sotto l'egida della costruzione dello stato-nazionale per aumentare, in questo
modo, la propria potenza, sicurezza e indipendenza nei confronti di un nuovo
sistema politico economico e quindi sociale basato di fatto su grandi stati
formatisi da poco nel panorama Europeo (nel caso di Italia e Germania) o già
consolidati da tempo (nel caso che qui ci interessa e cioé della Jugoslavia).
La questione cruciale sta nel comprendere su quali livelli di adesione popolare e
quindi di coesione sociale si basassero questi nuovi raggruppamenti nazionali
8Eric J. Hobsbawm; Nazioni e nazionalismi, Einaudi, Torino, 1991, pag.154.
9Non di minore importanza, tuttavia, é l'ampliamento dei mercati mondiali e delle possibilità di investimento che la
formazione di nuovi stati nazionali poteva garantire ai governi vincitori della guerra.
10Rientra perfettamente in questo quadro, tra l'altro, la convenzione di Washington che venne stipulata nell'ottobre del 1919
e "...che raccomandava, agli stati che avevano partecipato alla Conferenza internazionale del lavoro, una generalizzata
adozione della settimana lavorativa di otto ore e della settimana di quarantotto..." (G.Garbarini in AA.VV, Questione di ore Orario e tempo di lavoro dall'800 ad oggi, BFS, Pisa 1997).
oppure quale cerchia sociale, quali classi e quali interessi, siano stati in sostanza
le effettive artefici di questa nuova forma di organizzazione.
E' questo un problema storico di carattere generale, nel senso che riguarda la
formazione di tutti gli stati nazionali (comprese non di meno le recentissime
Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, ecc.) che oggi conosciamo e che siamo
abituati a credere come necessaria e naturale concretizzazione di pulsioni
popolari sempre esistite. Spiegare il tutto con una storia della idea di stato
nazione sarebbe quanto meno illegittimo, se non altro perche' avremmo la
pretesa di ficcare nella testa di un popolo intero (producendo un clamoroso falso
storico) le idee di una ristrettissima minoranza di esso. Sarebbe un po' come
volere affibbiare le idee di Mazzini o del conte di Cavour11 a tutte le genti
(siciliani, friulani, sardi, abruzzesi, veneti, ecc.) che popolavano lo "stivale" al
tempo dell'unificazione; ed é questo sostanzialmente ciò che ci tramanda
l'operetta storiografica del Risorgimento italiano.
Non é un caso che Cavour e Bismark "...ebbero cura di isolare l'unità nazionale
da influenze popolari: Cavour, insistendo per fare del Regno d'Italia un
prolungamento del Piemonte, sino al punto di rifiutarsi di modificare il titolo
del suo re Vittorio Emanuele II (di Sardegna) in Vittorio Emanuele I (d'Italia);
Bismark, costruendo nell'ambito del nuovo impero germanico la supremazia
prussiana..." 12.
Sembra abbastanza chiaro allora come l'ideologia romantico-patriottica della
nazione, piuttosto che una "pia" tensione morale verso la così detta "patria
unita" sia stata una sorta di velo con cui coprire interessi meno "nobili" di
annessione e controllo. Questa, del resto, é nella sostanza la concezione
borghese dello stato e della nazione
Fu unicamente con questo disegno che il governo del regno serbo guidato da
Nikola Pasic' del Partito radicale entrò nel primo conflitto mondiale a fianco
degli alleati: si trattava di strappare alla dominazione austro-ungarica la fetta più
ampia possibile di balcani che quest'ultima controllava (Slovenia, Bosnia
Erzegovina, Dalmazia, Croazia e Slavonia) e sottometterla alla corona serba. Fu
per questa stessa ragione che tra gli altri jugoslavi (croati e sloveni) e il governo
serbo non ci fu mai, in quegli anni, una reale e collaborativa intesa. Del resto ai
dirigenti croati e sloveni (tutti di tendenza liberal-democratica) interessava
molto di più una federazione tra stati autonomi dotati di uguali diritti che una
sostituzione del controllo austro-ungarico con quello serbo.
11Lo stesso ammirato conte, i cui monumenti alla memoria tappezzano l'italia intera, che spedì 18.000 piemontesi a
combattere in Crimea. Questi combatterono una sola insignificante battaglia e morirono in 2.000 di colera. E' noto che da
quella guerra il Piemonte non ottenne nulla.
12Eric J.Hobsbawm, Il Trionfo della Borghesia, Laterza, Bari, 1986, pag.89.
Il Comitato jugoslavo (come rappresentante degli slavi sottomessi all'Austria
Ungheria, in prevalenza croati e sloveni) si costituisce immediatamente dopo lo
scandalo suscitato dalla notizia fatta trapelare circa l'avvenuto accordo segreto
di Londra il 26 aprile 1915 con cui gli alleati si comprarono l'intervento italiano
a scapito del ben più marginale regno serbo e di conseguenza a scapito della
possibilità di costruire una Jugoslavia unita.
Gli esponenti del Comitato furono da subito diplomaticamente attivissimi
soprattutto in Gran Bretagna e la loro propaganda presso gli alleati sulla
questione jugoslava fu spesso condotta in aperto contrasto con le politiche del
governo serbo di Pasic'.
Anche quando quest'ultimo e il suo governo decidono di avviare una
collaborazione e invitano il Comitato jugoslavo a Corfù per redigere un comune
programma nel luglio del 1917, le ragioni non sono di sicuro una sopraggiunta
stima o simpatia ma derivano da un radicale mutamento negli assetti politici
europei: lo Zar (principale sostenitore di Pasic' tra gli alleati) veniva rovesciato
la primavera di quello stesso anno lasciando in questo modo l'esecutivo serbo di
Pasic' totalmente isolato. Il Comitato jugoslavo invece, dopo anni di propaganda
nelle capitali europee era sicuramente tra i due il più ben visto dai colleghi
"liberali" francesi, americani ma soprattutto inglesi e cominciava ad avere una
certa visibilità politica e quindi una discreta influenza. Pasic' se ne rendeva bene
conto e la ragione di questo congiungimento non fu quindi una reale e sentita
intesa delle due forze politiche quanto un compromesso vantaggioso per
entrambi: il governo di Pasic', caduto lo zar, necessitava dell'ottima
considerazione di cui godeva il Comitato jugoslavo presso gli occidentali e il
Comitato, poco più di un "gruppo di opinione" (seppur influente) senza alcuna
carica esecutiva doveva necessariamente tentare di procacciarsene qualcuna
appoggiandosi all'unico governo slavo disponibile e ufficialmente riconosciuto
dagli alleati.
La dichiarazione di Corfù, che richiedeva l'unione di tutti gli slavi del sud in uno
stato indipendente retto da monarchia costituzionale (sotto la corona
Karadjordjevic') e chiamato regno dei serbi, dei croati e degli sloveni,
tralasciava ovviamente il grosso problema della struttura politica interna13.
Ciò nonostante quella dichiarazione servì per ammantare di ufficialità, regalità e
legittimità la questione "nazionale" e per suggerire alle corti di strateghi,
diplomatici, presidenti, re e generali occidentali che essa rappresentava una
13Non fu trovato nessun accordo poiché le posizioni delle due forze politiche erano nettamente contrastanti: il Comitato
auspicava rapporti federali mentre il governo di Pasic', ovviamente, una struttura fortemente centralizzata. In questo senso
Corfù non fu altro che il primo di una serie di scontri tra le leadership serba, croata e slovena che avrà un lungo seguito fino
all'occupazione nazi-fascista e allo scoppio della seconda guerra mondiale.
tendenza di fatto irreversibile anche se retta da interessi contrastanti e da masse
popolari non ancora abbastanza coscienti14.
Il nuovo Regno Jugoslavo contava quasi 12.000.000 di abitanti15, i 4/5 dei quali
erano contadini. Emerge l'immagine di un paese quasi assolutamente fondato
sull'agricoltura e su un'economia di sussistenza. Il livello di sviluppo
metropolitano era infatti eccezionalmente basso, all'epoca soltanto tre città,
Belgrado, Zagabria e Subotica, superavano i centomila abitanti. In questo
quadro e considerando la scarsezza ed arretratezza di mezzi e vie di
comunicazione, possiamo immaginarci una situazione in cui, come per l'Italia
del 1861, una volta costruito il Regno Jugoslavo restavano da costruire gli
jugoslavi...
Molto diversa sarà, come vedremo, la partecipazione popolare alla costituzione
della Jugoslavia socialista e federale durante e dopo la guerra di liberazione
dall’occupazione nazi-fascista.
1.2 OCCUPAZIONE DELL’ASSE: LE FORZE IN CAMPO E I
PRESUPPOSTI DELLA GUERRA DI LIBERAZIONE.
Nel 1939 i confini della Jugoslavia si trovano in una situazione di gravissima
pressione: la Germania conclude l’occupazione dell’Austria e della
Cecoslovacchia mentre l’Italia occupa l’Albania. Nonostante la politica estera
del governo jugoslavo fosse fondata su relazioni formalmente amichevoli con i
governi dell’Asse, avere la maggior parte delle frontiere confinanti con nazioni
fasciste o filo-fasciste, pareva certo preoccupante e rischioso per l’indipendenza
del Regno.
14Moltissimi croati e sloveni combatterono (con particolare ardimento) nelle fila dell'esercito austriaco sul fronte italiano.
Questo soprattutto a seguito dello scandalo suscitato dal trattato di Londra che dava forza all'imperialismo italiano ai danni
delle popolazioni slave.
15 Secondo il censimento del 31 gennaio 1921 la popolazione risultava così suddivisa:
Serbo-Croati
8.911.509
Sloveni
1.019.997
Tedeschi
505.790
Magiari
467.658
Albanesi
439.657
Rumeni
231.068
Turchi
150.322
Cechi e Slovacchi 115.532
Ruteni
25.615
Russi
20.658
Polacchi
14.764
Italiani
12.553
Altri
69.878
--------------Totale
11.984.911
In linea con la politica estera sostenuta da diversi anni e per garantire
“l’intangibilità” delle frontiere, il Consiglio della Corona e il governo approvano
il progetto di adesione al Patto Tripartito (Germania-Italia-Giappone) nella
seduta comune del 20 marzo 1941 su esplicito “invito” di Hitler.
Fu chiaramente l’unico modo per i vertici del regno jugoslavo di contrattare la
conservazione del proprio potere con un asservimento della popolazione e del
territorio alle esigenze belliche e strategiche dell’Asse.
Quando l’adesione al Patto Tripartito viene firmata il 25 marzo, l’impopolarità
di questa scelta e la diffusa opposizione che ne deriva si esplicitano in
manifestazioni popolari spontanee la sera stessa in Serbia e nel resto della
Jugoslavia il giorno dopo.
Il Partito Comunista Jugoslavo organizza e dirige in Serbia la contestazione che
culmina con una grande manifestazione di decine di migliaia di persone il 27
marzo a Belgrado.
Questo grande scontento non fu tuttavia generato esclusivamente dall’adesione
al Patto Tripartito: già alla fine del 1938 il Partito Contadino Croato (la forza
maggiormente rappresentativa tra i croati in quel periodo) e i partiti di
opposizione serbi raggiunsero un intesa per opporsi alla politica dittatoriale e
filo-nazista del governo.
Questo atteggiamento subalterno del governo, culmitato poi con l’adesionesottomissione al Patto Tripartito, risultò estremamente indigesta a larghissimi
strati della popolazione, nonché a forze politiche nazionaliste e di sinistra.
Cavalcando la protesta e raccogliendo gli interessi politici di queste forze
estremamente eterogenee (clero e gerarchia ortodossa, partiti contadini,
comunisti e vecchi partiti nazionalisti serbi) il generale Dusan Simovic’ mette a
segno un colpo di stato la notte del 27 marzo.
Il nuovo governo formato dallo stesso generale, da Macek (leader del Partito
Contadino Croato) e da Jovanovic’ (leader del partito contadino serbo) riscuote
immediatamente un consenso generalizzato.
Il colpo di stato e le ragioni apertamente anti-tedesche dell’adesione popolare ad
esso furono una provocazione nei confronti dell’Asse tanto inattesa quanto
“propizia”: nel giro di una decina di giorni Hitler concerta l’occupazione del
Regno (i cui piani erano evidentemente pronti da tempo) con i propri alleati e il
6 aprile 56 divisioni nazi-fasciste attaccano la Jugoslavia varcando tutte le
“intangibili” frontiere mentre Belgrado viene rasa al suolo da uno dei più
tremendi bombardamenti nazisti del secondo conflitto mondiale.
I distaccamenti italiani occupano Dalmazia e Lubiana, quelli bulgari la quasi
totalità della Macedonia, quelli ungheresi occupano la Slavonia orientale e la
regione della Backa mentre le divisioni corazzate tedesche sbaragliano
l’impreparato ed innocuo esercito Reale in tutto il resto della Jugoslavia (Serbia,
Croazia e Bosnia).
Solo undici giorni dopo l’invasione, il 17 aprile, l’alto comando jugoslavo firma
la resa incondizionata a Belgrado e cessa ogni resistenza organizzata mentre il
governo e il nuovo re Petar (diciottenne) si stabiliscono a Londra.
La spartizione che ne segue é immediata: la Germania si annette la metà
settentrionale della Slovenia rimpiazzando con austriaci gli sloveni ammazzati o
deportati; all’Italia spetta tutto il resto della Slovenia (compresa Lubiana)16,
diverse isole ed estesi tratti della costa Dalmata comprese Spalato e Cattaro, la
pianura del Kosovo e la Macedonia occidentale; la Bulgaria si annette il resto
della Macedonia più alcune regioni meridionali della Serbia; l’Ungheria, a nord,
si annette la Backa, una tra le più ricche e vaste regioni del bacino danubiano
dove porta avanti una massiccia politica di “magiarizzazione”. Il Montenegro
rimasto “libero” viene affidato al controllo militare italiano.
Ma il risultato politico più “brillante” dell’occupazione nazi-fascista fu senza
dubbio lo “Stato Indipendente di Croazia” che venne creato dal nulla unendo i
territori non occupati dall’Asse con tutta la Bosnia Erzegovina. Indipendente
soltanto nel nome
“...Lo stato Indipendente di Croazia era un regno; ma il duca di Spoleto, il
principe italiano scelto per salire al trono col nome di Tomislav II, mostrò
una prudente avversione a metter piede nel suo tormentato reame. Perciò,
sebbene in ultima analisi il potere poggiasse sulle armi tedesche e italiane,
il governo dello stato era esercitato dagli ustascia, un movimento che (...)
copiava le tecniche e la messa in scena dall’Italia fascista dove il suo
capo, il poglavnik Ante Pavelic’, aveva trovato asilo, aiuti e finanziamenti
per l’attività terroristica che ora si apprestava a mettere in pratica su scala
nazionale e spaventosa contro ebrei, serbi e tutti coloro che si rifiutavano
di acclamare il nuovo stato fantoccio...”. 17
Non furono i comunisti ad organizzare per primi la resistenza all’invasione dell’asse ma
bensì le formazioni di Cetnici serbi (difensori del re e del regno Jugoslavo). Tuttavia
questi non riuscirono mai ad uscire dalla realtà regionale in cui si confinarono perché il
loro nazionalismo serbo non ottenne mai l’appoggio, se non marginale, nemmeno della
stessa popolazione serba.18
16I massacri perpetrati dalle truppe italiane e tedesche durante l’occupazione in Slovenia sono largamente
quantificati e descritti attraverso un’ampia documentazione nei lavori di Giuseppe Piemontese, ”ventinove mesi
di occupazione italiana nella provincia di Lubiana” (Lubiana 1946), e di Giacomo Scotti, “Bono Taliano”.
Entrambi i volumi sono disponibili presso l’Istituto Gramsci di Bologna).
17Stephen Clissold (a cura di), AA.VV, Storia Della Jugoslavia, Einaudi, Torino 1969, pag. 235-236; titolo
originale “A Short History of Yugoslavia”, Cambridge University Press 1966
18Oltre al fatto che i cetnici non opposero mai una concreta risposta militare all’occupazione tedesca in Serbia
(ritenendo che ciò fosse inutile), concentrarono le loro forze in Bosnia e Montenegro dove organizzarono spesso
Il movimento ultra nazionalista croato degli Ustascia di Ante Pavelic’ (cui Hitler e
Mussolini affidarono i territori occupati) presenta simili problemi di “consenso”
popolare. La forza di questo movimento non fu infatti data dalla militanza dei croati nei
suoi ranghi; fu piuttosto, come sostiene Clissold, una esigua realtà drogata dall’appoggio
dell’asse.
Questa non é cosa da poco. La propaganda nazionalista dall’una e dall’altra parte
avrebbe potuto convincere i rispettivi popoli (retrogradi secondo Badoglio) per condurli
sui “saldi” binari della propria “salvezza nazionale” e per precipitarli in una catastrofica
divisione in tutto e per tutto funzionale alla stessa occupazione nazi-fascista.
I croati avrebbero potuto sposare lo sciovinismo ustascia con l’illusione di accordarsi una
storica rivincita contro l’egemonia della corona serba in Jugoslavia, viceversa i serbi
riconfermare tale egemonia.
Ciò non accadde, il nazionalismo oligarchico e da corte reale venne percepito come un
abbaglio, ed é per questo che parlo di scelta di campo precisa.
Fu tale l’adesione popolare al movimento partigiano jugoslavo da poco
organizzatosi che anche gli alleati, a partire dal 1943, si resero conto che per i
loro interessi militari immediati questo movimento di resistenza era di gran
lunga più utile e rappresentativo di quello dei cetnici del generale Mihailovic’
(presente a Londra con tanto di governo in esilio)19.
La guerra di liberazione in Jugoslavia, animata da ideali di fratellanza e giustizia
sociale, fu quindi anche una tremenda guerra civile; ma a differenza di quella
iniziata nel 1991 essa portò alla costituzione di una Jugoslavia multientica e
federale.
azioni di “disturbo” contro i partigiani, per arrivare già nel 1942 alla totale collaborazione con le truppe dell’asse
in funzione apertamente anti-partigiana.
19Frederick W. Deakin, nel suo “La montagna più alta” (Einaudi, Torino 1972) riporta alcuni telegrammi inviati
al comando inglese del Cairo dall’agente britannico Hudson già dal '42 impegnato a seguire i movimenti delle
truppe di cetnici in Bosnia e Montenegro: “...A Mihailovic’ bisognerebbe dire una volta per tutte che gli inglesi
preferiscono i comunisti ai traditori. La BBC deve smettere di incoraggiare chi collabora con le forze dell’Asse.
I sabotaggi e le azioni contro il nemico rimarranno in numero irrisorio finché (nel Montenegro, in Erzegovina e
in Dalmazia i capi dei cetnici) continueranno a gridare -viva il Duce!- con la benedizione di Mihailovic’...”
2
UN'INTRODUZIONE,
PARTENDO DALLA COSTITUZIONE.
E' interessante il livello di elaborazione che regnava in Jugoslavia dopo la
Liberazione, dal 1945 in poi. Si tratta di un dibattito avvenuto al livello delle
classi dirigenti (o meglio, di alcuni membri di esse) e di alcuni studiosi. Almeno
così pare, dato che le fonti disponibili non documentano di un simile dibattito
avvenuto a livello operaio, contadino, studentesco, professionale. Si tratta forse
già di "storia del pensiero" piuttosto che storia della Jugoslavia Socialista (di
ben difficile ricostruzione). In ogni caso sono preziose riflessioni circa
l'autogestione, il controllo dei lavoratori sul proprio lavoro, l'anti-burocratismo e
persino l'anti-statalismo, sono passaggi teorici che dimostrano una tensione
rivoluzionaria indiscutibile.
Tale dibattito si accese già nel 1948, in seno al Quinto Congresso dell'allora
Partito Comunista Jugoslavo. La "via jugoslava al socialismo" già si scontrava
apertamente con quella stalinista; era uno scontro tra due concezioni, tra due
modi di concepire funzioni e metodi del sistema politico, dello stato socialista e
delle condizioni per lo sviluppo del socialismo stesso. Sono gli anni in cui lo
stesso Josip Broz, detto Tito, elabora le premesse per la svolta autogestionaria in
Jugoslavia. Di lì a poco, nel 1951, sarà Tito a proporre la "legge sui consigli
operai", per mezzo della quale venne avviata la prima destatalizzazione delle
fabbriche con successivo affidamento alle maestranze. In questa occasione egli
ebbe a dire che "...Socializzando i mezzi di produzione finora gestiti dallo stato,
non sono ancora state realizzate le aspirazioni del movimento operaio. -Le
fabbriche agli operai e le terre ai contadini- non é un motto astratto e
propagandistico, é un motto che contiene un significato pieno e profondo, il
programma dei rapporti socialisti di produzione: sia per quanto riguarda la
proprietà sociale, sia per fissare i diritti e i doveri dei lavoratori (...) può e
dev'essere realizzato se pensiamo di costruire il socialismo (...) Oggi, da noi,
saranno gli stessi lavoratori a dirigere le fabbriche, le miniere e il resto.
Saranno loro a decidere come e quando lavorare, sapranno perché lavorano e
come verranno impiegati i frutti del loro lavoro...".20
Due anni prima dell'introduzione dell'autogestione in Jugoslavia Edvard
Kardelj, nel suo intervento "Problemi dell'edificazione del socialismo nel nostro
Paese" dice: "...E' fuori dubbio che nel periodo rivoluzionario di transizione dal
capitalismo al socialismo, il ruolo determinante spetta ai dirigenti del partito
20(riportato in) G. Scotti, Tito l'uomo che disse no a Stalin, Gremese editore, Roma, 1973, pag. 76-77.
proletario (...) Ma é altrettanto chiaro che lo stato maggiore rivoluzionario può
raggiungere il successo solo a patto di basarsi sull'attività creatrice di larghe
masse lavoratrici (...) A nostro avviso non si può lavorare senza commettere
errori, ma riteniamo meno pericolosi gli errori che si commettono quando
l'iniziativa dal basso si fa liberamente sentire che non quelli commessi dai
burocrati che si sono messi in testa di essere infallibili (...) Non tenere conto di
questi principi significa giungere inevitabilmente al burocratismo,
all'isolamento dell'apparato burocratico rispetto alle masse popolari,
all'assoggettamento di tali masse all'apparato burocratico stesso (...) Il
delinearsi di questa situazione nell'ambito di un sistema socialista, per quanto
breve possa esserne la durata, comporta tutta una serie di fenomeni negativi,
quali ad esempio la mania delle ricette belle e fatte, il conservatorismo nei
metodi e nelle forme organizzative, il soffocamento dell'iniziativa creatrice
proveniente dal basso, l'allevamento di una categoria di burocrati invertebrati,
il ristagno ideologico, la deviazione dal retto cammino della politica
internazionalista...".
Come già accennato, non bisogna confondere il pensiero di alcuni dirigenti o
accademici con ciò che in quel Paese succedeva realmente; per tentare di
ricostruire anche questa storia sarà necessario raschiare il fondo, evitare
nostalgie ideologiche per svelare i reali rapporti sociali esistenti in Jugoslavia
dopo il secondo conflitto mondiale, i rapporti tra le classi sociali, gli squilibri
territoriali, l'ingerenza atlantica-occidentale, la regionalizzazione (verso nord)
dell'industria, la rinascita e lo sviluppo (o, se vogliamo, il permanere) di nuovevecchie borghesie nazionali e nazionaliste.
Nel 1945, a guerra conclusa, a Liberazione avvenuta, si mette in moto il
processo di costruzione di un nuovo assetto sociale, produttivo e politico per
l'allora Jugoslavia. In questo senso, per rispettare il titolo di questa introduzione,
risulta utile "lasciare parlare" direttamente il progetto di Costituzione dell'allora
RFPJ (Repubblica Federativa Popolare Jugoslava) e alcuni articoli di essa.
"...La grande maggioranza dei nostri popoli ha eletto l'11 novembre 1945 le due
Camere dell'Assemblea Costituente, il cui compito é di accettare (...) la
costituzione del nostro stato (...) La Costituzione non é altro che la constatazione
giuridica delle condizioni sociali, economiche e politiche dello Stato in un
determinato momento. In tale modo questo progetto della Costituzione della
nuova Jugoslavia viene ad essere fondamentalmente un quadro giuridico della
nostra nuova realtà politica e sociale (...) ovvero la struttura giuridica (...) delle
conquiste realizzate nel corso della dura e vittoriosa lotta di liberazione
sostenuta dai nostri popoli (...)
Nessuno può negare le fondamentali metamorfosi verificatesi nell'organismo
statale nell'ambito dei rapporti tra i nostri popoli. Da una nazione formata da
popoli oppressi e senza parità di diritti é stata creata una libera comunità di
popoli con parità di diritti (...) nella quale il problema delle nazionalità é stato
fondamentalmente risolto sulla base dell'autodecisione (...)
Nella vita economica e sociale del nostro stato si sono verificate delle serie
metamorfosi per il fatto che il potere viene ad essere strappato dalle mani dei
gruppi sfruttatori per passare completamente nelle mani delle masse popolari
fondamentali, cioé nelle mani del popolo lavoratore. In questo modo il settore
statale e con esso pure quello cooperativistico (...) hanno avuto assegnato un
ruolo particolare del tutto differente da quello finora avuto nell'apparato del
potere e dei rapporti politici dell'antica jugoslavia (...)
Il principio fondamentale dell'organizzazione statale é il principio dell'unità di
potere. L'unitario potere popolare viene ad essere concentrato negli organi
rappresentativi del potere statale, che vengono eletti e controllati dal popolo il
quale ha pure il diritto di dimetterli in base ad una determinata procedura
legale(...)
Nel progetto della nostra costituzione vi sono numerose nuove e significative
disposizioni che rappresentano la caratteristica e l'arma della democrazia
popolare. In primo luogo é stabilito che la struttura repubblicana dello stato é
conseguenza e premessa essenziale del federalismo e della democrazia (...)
art.1
La Repubblica Federativa Popolare Jugoslava é uno stato federativo popolare a
struttura repubblicana, una comunità di popoli con parità di diritti, i quali hanno
liberamente espresso la propria volontà di rimanere uniti nella Jugoslavia..."
Le Costituzioni, si sa, sono in realtà una sorta di dichiarazione d'intenti,
rappresentano l'atto fondativo comprendente le leggi, i valori di riferimento,
l'organizzazione dei diversi momenti sociali di quelle comunità di popolo
territorialmente definite che siamo abituati a riconoscere come Stati.
Come facilmente si può intuire, i riferimenti costituzionali non sono sufficienti a
capire, in generale, come é realmente organizzata una società (l'Italia é
sicuramente l'esempio più facile da farsi). Di certo mettono chiaramente in luce
almeno quale sia la cultura politica, il sistema dei valori, il progetto sociale dei
soggetti che hanno dato vita al nuovo assetto statuale. Nel caso specifico dei
popoli jugoslavi appare evidente come questa Costituzione corrisponda a ciò
che é stata effettivamente la loro storia21. Ciò non toglie che la Costituzione ed
il nuovo potere che essa sancirà sarà gestito da dirigenti jugoslavi, molti dei
21La guerra di liberazione dal nazi-fascismo e la guerra civile contro il nazionalismo ed il collaborazionismo
degli Ustascia croati e dei Cetnici monarchici serbi testimonia inconfutabilmente una scelta popolare della
maggioranza di tutte le componenti jugoslave sia contro i vari progetti di nazionalismo etnico presenti allora
(come oggi) sul territorio jugoslavo sia per un nuovo assetto sociale.
quali, di lì a poco, diventeranno ceto politico e ceto manageriale, diventeranno
cioé una classe che intraprenderà la strada della sua propria riproduzione
utilizzando lo stato socialista, alle spalle della rivoluzione.
Al culmine di questo processo si sono inseriti ed hanno agito consapevolmente
come un cuneo dirompente gli interessi e le pressioni dell’imperialismo
occidentale, nel caso specifico Italia, Germania e Stati Uniti.
L’esistenza della Jugoslavia, sin dalla sua formazione nel 1918, è sempre stata
una spina nel fianco delle potenze regionali. Piani di destabilizzazione furono
elaborati, come abbiamo visto più sopra, persino da governi italiani (Sonnino
prima, Mussolini poi) e proseguirono per tutta la storia della Jugoslavia. Gli
ustascia, movimento croato fascista e fondamentalista cattolico guidato da Ante
Pavelic’ noto per le sue efferatezze e per i 700.000 tra serbi, ebrei e comunisti
sterminati nel campo di concentramento di Jasenovac, vennero addestrati in
Italia negli anni ’30 del secolo scorso, insediati al potere dello Stato
Indipendente di Croazia (entità fantoccio creata a seguito dell’occupazione nazifascista), fatti riparare all’estero grazie alla collaborazione attiva dei servizi
segreti statunitensi e Vaticano nelle ultime fasi della Liberazione. Dall’estero il
movimento ustascia inserito nell’internazionale nera costituita all’indomani del
secondo conflitto mondiale dall’allora Oss (Office for Strategic Services – in
seguito Cia) continuò la sua opera destabilizzante attraverso l’organizzazione di
attentati dinamitardi alle ambasciate jugoslave ed entro i confini stessi della
Jugoslavia socialista.
Si pensi al caso molto simile della guerriglia mafiosa dell’Uck, ad un certo
punto addestrata armata e finanziata da Germania ed Usa col preciso scopo di
provocare l’ennesimo intervento dei bombardieri (1999).
Lo smembramento della Jugoslavia avviene sicuramente a causa di un intreccio
micidiale di fattori interni ed esterni: la burocratizzazione su base regionalista,
la disgregazione del mercato unitario jugoslavo, la mancata autogestione,
l’indebitamento e la crisi sociale ed economica degli anni ’80 dovuta
principalmente ai piani di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario
Internazionale, i piani di destabilizzazione stranieri portati avanti praticamente
per tutto il secolo scorso.
Il presente studio vuole essere un contributo al dibattito sul “socialismo
realizzato” aperto dalla rivista Intermarx ma allo stesso tempo un contributo di
carattere storico che aiuti a comprendere le ragioni della guerra civile di tipo
etnico che ha straziato la Jugoslavia a partire dal 1991.
Su questo conflitto, si è riversata una letteratura tanto smisurata e d’effetto
quanto inutile, fuorviante e per nulla esplicativa. Si pensi ai due maggiori filoni
d’”analisi” che hanno ispirato la maggior parte dei volumi usciti in questi anni:
quello più grezzo secondo cui gli slavi del sud si sarebbero sempre detestati a
morte e sarebbero stati costretti alla convivenza dalle rivoltelle titine; e quello
non meno vano (purtroppo fatto proprio dalle associazioni di volontariato di
sinistra) che rileverebbe invece uno scontro tra campagna e città, ossia tra
contadini assetati di sangue contro innocui e multietnici cittadini.
Credo che la storia abbia seguito altri percorsi ben più significativi e
determinanti.
3
CAPITALE STRANIERO, AUTOGESTIONE E
DISTRUZIONE DEL MERCATO UNITARIO
JUGOSLAVO.
3.1 - MODIFICHE ALLA REGOLAMENTAZIONE DELLE SOCIETA'
MISTE IN JUGOSLAVIA22.
La prima regolamentazione della presenza di capitale straniero nelle imprese
jugoslave risale al 1967, viene poi sostanzialmente modificata con la legge
n.312 del 7 aprile 1978 (Gazz.Uff.Fed. n.18,1978).
Queste regolamentazioni successive giungono in un periodo (dalla fine degli
anni sessanta in poi) in cui lo sviluppo dell'autogestione crea le premesse per
una gestione quasi autonoma, da parte delle stesse imprese jugoslave, della
partecipazione del capitale straniero nello sviluppo industriale del paese. Le
ragioni per cui parlo di imprese pittosto che di "operai" emergeranno in seguito.
Tuttavia, il carattere di tali leggi, anche quella del 1978, dal punto di vista del
capitale straniero é abbastanza restrittivo. Ponendo dei "paletti" invalicabili sulla
quantità massima di capitale investibile in una singola impresa, mantenendo
delle detrazioni di carattere sociale sui profitti delle imprese, stabilendo in quali
imprese tale partecipazione non poteva assolutamente verificarsi si creava un
ambiente giuridico poco appetibile per l'investitore estero. Questa scarsa
appetibilità si traduce in una scarsa affluenza di capitale straniero rispetto al
volume totale degli investimenti del Paese, affluenza caratterizzata per lo più
dalla fornitura di tecnologia, attrezzature, materie prime e semilavorati
interessando prevalentemente la produzione per il mercato interno o per il
COMECON.
Secondo stime jugoslave, dal 1967 alla metà degli anni '80, l'ammontare
complessivo del capitale straniero investito nelle imprese miste jugoslave, non
22Fonti: Est/Ovest n.2, 1978 e n.3, 1984.
supera i 320 milioni di dollari, in media 2 milioni di dollari per impresa. Questa
media deve però essere ridimensionata se si considerano i due maggiori
investimenti esteri: Dow Chemical nel complesso petrolchimico Dina (100
milioni di dollari) e General Motors23 nelle fonderie Kikinda (20 milioni di
dollari).
La legge del 1978, non mutando sostanzialmente la situazione di scarsa
affluenza di capitale straniero, crea verso la metà degli anni '80 confronti aspri
tra gli organi federali e gli ambienti legati al settore "autogestito" ed interessati
ad una modifica della normativa in vigore nel senso di una liberalizzazione
pressocché totale dell'investimento estero.
Questo dibattito aveva il fine di modificare alcuni aspetti sostanziali della legge
n.312 per arrivare concretamente alla definizione di un nuovo quadro giuridico
in materia.
In questo senso é interessante dare rilievo ai "punti caldi" del dibattito facendo
dei riferimenti precisi agli articoli della legge per i quali veniva richiesto un
rovesciamento totale.
L'art.1024 vietava l'intervento di capitale straniero nelle attività legate al
commercio e alla sicurezza sociale. Nella proposta per il nuovo progetto di
legge questa barriera si sarebbe dovuta superare.
L'art.1125 prevedeva che l'ammontare dell'investimento straniero in una impresa
jugoslava non potesse superare il 49% del capitale complessivamente investito
in quell'impresa. Ciò per garantire la "proprietà collettiva" dell'impresa stessa.
Nell'articolo é pure contemplata, in via eccezionale, una sospensione di questa
regola per quei settori in sviluppo che eventualmente necessitassero di una
spinta particolare. In questi casi i contratti sarebbero stati stipulati direttamente
dall'Assemblea Federale.
Secondo i manager e dirigenti aziendali jugoslavi il nuovo assetto giuridico non
avrebbe dovuto porre alcun limite all'investimento di capitale straniero nonostante quest'ultimo non avesse mai sfruttato a pieno il 49% a sua
disposizione (dal 1967, infatti, la quota di capitale straniero investito in
23Durante tutto il periodo degli anni settanta, negli Stati Uniti, si assiste ad una crisi del settore dell'acciaio
dovuto alla concorrenza giapponese. Gli investimenti in Jugoslavia delle due multinazionali, entrambe legate
alla produzione dell'acciaio, rientrano nella strategia ancor oggi praticata di dismettere impianti e licenziare
operai in "madrepatria", per trasferire pezzi del ciclo produttivo all'estero dove i costi di produzione risultano
essere minori. Per approfondire la questione si veda: Bruno Cartosio, L'autunno degli Stati Uniti , ed. Shake,
Milano 1998, pag.69-78.
24"...I contratti sugli investimenti comuni non si possono stipulare per svolgere attività nei settori delle
assicurazioni, del commercio e delle attività sociali.
Le disposizioni di cui al capoverso 1 del presente articolo non si riferiscono alla ricerca scientifica..."
25"...Il valore totale dei mezzi che le persone straniere, in base al contratto di investimento, investono
nell'organizzazione di lavoro associato locale, non può essere maggiore del valore totale dei mezzi che investono
le organizzazioni di lavoro locali, né uguale al valore totale di tali mezzi..."
jugoslavia non aveva mai superato il livello medio del 23% circa del capitale
sociale).
L'art.1526 stabiliva che nell'organo amministrativo dell'impresa mista i
rappresentanti del capitale straniero investito non potessero essere in numero
maggiore rispetto ai rappresentanti jugoslavi dell'impresa stessa o delle imprese
che partecipavano all'attività produttiva. La ragione di questa legge si trova nella
difesa del principio dell'autogestione che altrimenti verrebbe compromesso in
sede amministrativa da una rappresentanza estranea agli interessi dei lavoratori
(ciò supponendo, ovviamente, che i rappresentanti jugoslavi rappresentassero
effettivamente e non solo formalmente gli interessi operai...).
Anche questo passaggio della legge 312 viene messo in discussione e le ragioni
sono di natura squisitamente capitalistica. Innanzi tutto l'assetto che l'articolo 15
stabilisce, impedisce all'investitore straniero qualsiasi facoltà di controllo ed
intervento nella gestione dell'impresa, dei costi materiali, dell'ammortamento del
capitale. L'investitore straniero cioé, non ha la facoltà di ricondurre la gestione
economica dell'impresa mista jugoslavia ai canoni di produttività occidentali.
Nel nuovo assetto tale ostacolo verrebbe rimosso in relazione al fatto che ciò
potrebbe consentire un ridimensionamento generalizzato, e per legge, degli
organici delle imprese jugoslave; organici che per numero e qualifica di
lavoratori dovrebbero essere ricondotti ai canoni di una normale ed efficente
impresa capitalistica.
L'art.19 stabiliva che qualora venisse realizzato dall'impresa mista un profitto
superiore a quello fissato per contratto, la parte di questa eccedenza attribuibile
all'investitore straniero sarebbe servita per rimborsargli parte della sua quota
societaria. In questo modo, maggiore era l'efficenza dell'impresa, maggiore la
spinta per estromettere (attraverso il rimborso della quota societaria)
l'investitore straniero. Nel nuovo progetto di legge verrebbe invece sancita la
piena libertà, per l'investitore straniero, di disporre del reddito realizzato e di
trasferirlo all'estero.
Altra significativa proposta era la "attenuazione" di quelle imposte fisse sul
reddito dell'impresa destinate alla costituzione di fondi di solidarietà per
alloggi, borse di studio, premi assicurativi e percepite come "improprie" o non
direttamente collegate alla gestione congiunta.
Ed appare evidente come questo provvedimento sia direttamente speculare a
quello volto alla privatizzazione delle attività sociali-assicurative attraverso un
intervento del capitale straniero in esse (vedi art.11).
26"...Nel caso che nell'organizzazione di lavoro associato locale, per realizzare uguali e comuni attività, vengano
investiti mezzi sia da persone straniere che da altra organizzazione di lavoro associato locale, pure tale seconda
organizzazione dovrà essere rappresentata nell'organo comune amministrativo.
Le persone straniere, nell'ambito dell'organo comune di amministrazione, non possono avere un numero
maggiore di rappresentanti in rapporto a quelli delle organizzazioni di lavoro associato..."
Il 27 novembre 1984 il Parlamento jugoslavo approva la nuova legge sugli
investimenti esteri in organizzazioni di lavoro associato (Gazz.Uff. n°64,
28/11/1984). La nuova legge risponde quasi totalmente alle esigenze
liberalizzatrici emerse dal dibattito circa la vecchia legge del 1978.
L'intervento del capitale straniero nelle attività sociali, assicurative e
commerciali viene limitato alle imprese turistico-ricreative.
L'articolo 11, che fissava nel 49% la soglia massima di partecipazione del
capitale estero nelle imprese jugoslave, viene abolito portando tale soglia al
99%.
L'articolo 15 che impediva all'investitore straniero una presenza maggioritaria in
sede amministrativa non viene formalmente modificato; tuttavia all'investitore
viene concesso il diritto di veto che di fatto ne aumenta il potere decisionale.
Vengono inoltre previste negoziazioni tra le parti sui parametri gestionali
(standards delle spese materiali, tassi di ammortamento, quantità e qualifica dei
lavoratori, ecc.) con l'obiettivo di portare a standards "normali" la produttività
dell'impresa mista. Viene inoltre stabilito, nella nuova legge del 1984, che il
mancato rispetto degli obiettivi pattuiti graverà esclusivamente sulla quota di
reddito spettante al partner jugoslavo.
L'articolo 19 viene aggirato consentendo all'investitore straniero di trasferire il
100% della sua quota di profitto all'estero.
Infine, sempre per rimanere all'interno delle modifiche più significative, gli
oneri derivanti dalle imposte destinate alla costituzione dei fondi per la
riproduzione sociale, per gli ammortamenti superiori alle quote stabilite per
legge, ecc., cioé tutte quelle sottrazioni apportate al reddito finale dell'impresa
non direttamente collegati alla produzione verranno sopportati esclusivamente
dal partner jugoslavo (cioé direttamente dalla sua quota di reddito).
Lo stravolgimento dei rapporti sociali di produzione che la modifica della legge
312 ha comportato, va contestualizzato ed interpretato alla luce delle condizioni
disastrose in cui l'economia jugoslava si trova negli anni ottanta. Schiacciata dal
debito estero, non detiene le risorse per il rilancio degli investimenti produttivi.
E' chiaro come in una situzione di crisi debitoria anche la più radicale delle
liberalizzazioni, volta a creare un ambiente favorevole all'investimento di
capitale produttivo, non può modificare una tendenza di segno opposto, di
carattere meramente speculativo. L'illusione di sostituire il ricorso al credito
estero con l'intervento di capitale estero investito direttamente nelle attività
produttive per rilanciare il tessuto produttivo nazionale, rimase e rimane una
illusione.
Il capitale finanziario-creditizio é protetto dalle garanzie di solvibilità del
governo del paese contraente il credito. I vantaggi -speculativi- della rendita
finanziaria e l'assenza quasi totale di rischi di cui godono i capitali speculativi,
rendono l'investimento di capitale "a rischio" nelle imprese produttive, appunto,
quanto meno "sconveniente".
In generale, é solo quando questa azione speculativa ha esaurito la sua spinta,
lasciandosi alle spalle paesi dissanguati e distrutti nel loro tessuto socioproduttivo (smantellamento dei sistemi di protezione sociale, delle imprese
pubbliche, dei diritti dei lavoratori, ecc.), che l'ambiente adeguato per
l'investimento di capitale produttivo "a rischio" viene stabilito.
A quel punto però, lo sappiamo, anche gli investimenti direttamente produttivi
non avranno ricadute positive né per i lavoratori e per il rilancio
dell'occupazione né per ciò che riguarda l'economia nazionale, in quanto, nel
frattempo, i lavoratori dei paesi in questione si saranno trasformati in massa
senza tutela né diritto. Inoltre, sempre più di frequente i nuovi impianti (o i
vecchi impianti che ora però lavoreranno su appalto straniero) saranno
subordinati alle esigenze del circuito produttivo della multinazionale investitrice
piuttosto che alle esigenze del tessuto economico del paese ospitante ed alle
esigenze del mercato interno.
Tuttavia vi sono alcuni altri fatti da rilevare, in particolare, per ciò che riguarda
la RFSJ:
1) le richieste di modificazione della legge 312, che porteranno alla nuova legge
del 1984, non provengono da direttive "esterne" (come, ad esmpio, dal F.M.I)
ma sono il frutto dello scontro tra il livello politico federale e quelli che
potremmo definire gli "ambienti imprenditoriali" cioé le rappresentanze
politico-tecnico-scientifiche delle imprese autogestite (che effettivamente, negli
anni ottanta, hanno raggiunto il massimo di autonomia rispetto al governo
federale). Ciò nonostante non é assolutamente da escludere il fatto che molti
manager jugoslavi non abbiano agito in assoluta buona fede o solo per proprio
interesse ma per conto dei circoli di potere oligopolistico occidentali;
2) l'impresa autogestita dovrebbe essere l'impresa di cui i lavoratori controllano
attività, gestione, scelte, ecc. Le proposte di modificazione della legge 312, che
provengono direttamente dagli "ambienti imprenditoriali" rappresentanti cioé il
sistema di fabbrica ("autogestita" o meno), non appaiono certo come
l'espressione degli interessi operai e dei lavoratori.
Da questo punto di vista sarebbe interessante citare un intervento di Edvard
Kardelj, nel 1965, apparso su Critica Marxista:
"...La società socialista tende a far sì che le funzioni di organizzatore del
processo produttivo siano veramente "al servizio" dei produttori associati (...)
Ma i conflitti di interesse, l'insufficiente sviluppo del nostro meccanismo di
autogoverno, e il fatto che la classe operaia é ancora relativamente giovane, con
la mentalità ancora gravata della coscienza del piccolo proprietario rurale, fa sì
che le funzioni direttive nelle organizzazioni economiche acquistino (...) una
grande autonomia, tanto che, in maggiore o minore misura assumono le funzioni
di rappresentante del colletivo di lavoro. In tali condizioni, accade anche più
spesso e facilmente che la forza e l'autonomia del rappresentante favoriscano il
soggettivismo tecnocratico, determinati raggruppamenti di interessi (ad es.
regionalistici - nazionalistici, ndr), tendenze e privilegi corporativistici, il
soffocamento della critica, la degradazione dell'autogoverno, eccetera. Anche
queste manifestazioni sociali creano tra gli uomini rapporti specifici che
definiamo burocratismo..."27.
Confronterò più avanti i problemi che qui vengono solo posti con l'analisi del
sistema dell'impresa autogestita. Vorrei comunque già poter suggerire alcune
valutazioni su come negli anni ottanta, in questo ambiente di grave crisi
economica (fomentata dal debito estero, e qui sì protagonista è il Fondo
Monetario Internazionale) e di conseguente grave crisi sociale (aumento della
disoccupazione, impoverimento progressivo della popolazione, perdita delle
garanzie sociali) si sia completata ed abbia attecchito a livello di massa, la
deriva nazionalista, sarebbe meglio dire regionalista, principalmente del partito
comunista sloveno e di quello croato, poi, di riflesso, del partito comunista
serbo. Si tratta di una regionalizzazione su base etnico-nazionalista che é stata
pompata dai papaveri della burocrazia28 degli stati ricchi e più sviluppati
(Croazia, Slovenia), un nazionalismo riattivato artificialmente grazie a quattro
ordini di fattori:
a) la corruzione e l'arricchimento degli alti funzionari di stato o d'impresa;
b) la forte crisi sociale, della quale la nuova borghesia di stato (delle repubbliche
più ricche) indicava le ragioni nelle "regalie devolute" dal governo federale (una
sorta di bossiana "Roma Ladrona") agli stati o regioni autonome più povere ed
arretrate come Bosnia, Kosovo, Macedonia;
c) una fase, già decennale all'inizio degli anni ottanta (quindi in atto già dagli
anni settanta), di progressiva regionalizzazione economica e politica delle
singole repubbliche della federazione, con grande vantaggio per quelle più
industrializzate e dotate di relazioni sviluppate col capitale occidentale;
d) un appoggio interessato, da parte delle potenze imperialiste del Patto
Atlantico, al processo di disgregazione della federazione jugoslava attraverso
piani di destabilizzazione a tutti i livelli.
27Edvard Kardelj, La critica sociale in Jugoslavia, apparso su Critica Marxista n.5-6, settembre-dicembre 1965,
pag. 181.
28ad esempio dirigenti d'azienda, amministratori, grandi commercianti, alti quadri sindacali e di partito...
3.2 LE AUTONOMIE REGIONALI E LE IMPRESE AUTOGESTITE:
DALLA COSTITUZIONE ALL'AUTOCRITICA29.
Con gli emendamenti costituzionali del 1971 e, successivamente, con la nuova
Costituzione del 1974 le repubbliche e le regioni autonome acquistano una
grande libertà nella gestione di questioni primarie. Viene infatti sancito il diritto
legittimo di ogni repubblica e regione autonoma (Voj Vodina e Kosovo) a
gestire e realizzare la propria sovranità economica sul reddito e lo sviluppo del
territorio attraverso specifici e autonomi piani sociali, leggi e politiche
economiche. In alcuni settori vengono quindi ritirati il controllo e la gestione
sovrannazionali da parte degli organi federali i quali manterranno soltanto
quelle funzioni attribuitegli da accordi presi tra le tutte le repubbliche e regioni
autonome.
Questo é il primo aspetto, l'elemento di grande novità che la nuova Costituzione
pone in essere. Il secondo aspetto integra questo nuovo sistema di autonomie
gestionali e legislative per le singole repubbliche in un contesto di reciprocità,
solidarietà e ricomposizione degli interessi locali a livello federale. La acquisita
autonomia delle repubbliche e l'unità della Jugoslavia vengono cioé ricomposti a
livello federale, pensato come "comunità politica" degli stati nazionali.
Testualmente:
"...I lavoratori, i popoli e i gruppi nazionali decidono, sul piano federale,
secondo i principi di accordo delle repubbliche e delle provincie autonome, di
solidarietà e reciprocità, di paritetica partecipazione delle repubbliche e delle
provincie autonome agli organi della federazione (...) nonché secondo il
principio della responsabilità delle repubbliche e delle provincie autonome per il
proprio sviluppo e per il progresso della comunità jugoslava nel suo
complesso..."30
Questo secondo aspetto, diciamo "ricompositivo", viene assicurato
costituzionalmente da due principali meccanismi: intese sociali e accordi di
autogestione. Le intese sociali comprendono un sistema di accordo tra le
differenti repubbliche e le imprese autogestite circa prezzi, stipendi,
occupazione, collocazione della valuta estera, mercato, rapporti economici con
l'estero. Gli accordi di autogestione invece sono contratti interni alle imprese o
fra due o più imprese autogestite.
Il 29 luglio 1971, nel discorso pronunciato all'Assemblea Federale dopo essere
stato rieletto presidente della RSFJ, Tito sostiene che
29fonti: Est/Ovest n.4, 1983; Critica Marxista n.4, 1970; G. Scotti - Tito, l'uomo che disse no a Stalin; AAVV -
Il Sistema jugoslavo, ed. De Donato, Bari 1980.
30Costituzione della RSFJ, Principi fondamentali, I, edizioni Edit, Rijeka 1974, p.60.
"...Sono state create condizioni ancora più larghe per dare piena espressione agli
interessi e alle condizioni specifiche delle singole Repubbliche e Regioni (...)
Diventando potenti centri decisionali, le Repubbliche e le Regioni non devono
mai perdere di vista gli interessi dell'intera comunità (...) Per noi i concetti di
autonomia e di Stato riferiti alle Repubbliche, non sono quelli di tipo classico.
Quando decidemmo di rinunciare allo statalismo federale, noi non miravamo, né
miriamo ora, a creare uno statalismo policentrico (corsivo mio). La ragione
principale che ci ha guidati é stata e resta quella di applicare nel modo più
conseguente il principio dell'autogoverno e della piena eguaglianza
nazionale..."31.
Proprio in questa direzione viene anche riformata la gestione generale del
sistema economico. Sulla linea autogestionaria adottata già nel corso degli anni
'50, viene infatti ridefinita la partecipazione dei lavoratori al processo produttivo
sulla base del cardine dell'autogestione: il lavoro associato. Questo assume
valore giuridico e legale e significa, per i lavoratori, la libera associazione del
proprio lavoro con mezzi di produzione di proprietà sociale all'interno di entità
economiche di base: le organizzazioni di base del lavoro associato (OBLA),
appunto.
Un'OBLA, per intendersi, corrisponde dal punto di vista organizzativo ad un
reparto di impresa32.
Essendo le unità minime di lavoro associato, rappresentando cioé solo una parte
del processo produttivo, le OBLA sono obbligate ad associarsi tra loro per dare
vita alle organizzazioni di lavoro associato (OLA), per dare vita cioé ad unità
produttive corrispondenti, a grandi linee, al concetto d'impresa.
Le OLA così costituite, dovrebbero presentare, per il modo originale in cui sono
organizzate, una certa flessibilità ed una capacità di modificare la propria
composizione come il proprio orientamento produttivo.
L'ultimo livello d'integrazione previsto dal nuovo sistema produttivo jugoslavo é
l'associazione di più OLA in organizzazioni composite di lavoro associato
(OCLA). Queste ultime, essendo costituite da più imprese, corrispondono in un
certo qual modo a dei cartelli o consorzi produttivi veri e propri.
31Riportato in: G.Scotti, Tito - l'uomo che disse no a Stalin , op. cit., p.155.
Verranno utilizzate, in questo lavoro, numerose citazioni da discorsi ufficiali. Tuttavia, come si può notare, sono
state impiegate soltanto quelle parti di discorso esprimenti posizioni critiche ed auto-critiche.
32Viene pensata per aumentare il controllo operaio sul processo di produzione e sul reddito. All'interno delle
OBLA il lavoratore risulta essere il produttore di reddito, sul quale dovrebbe poter controllare formazione,
divisione ed uso. Ogni OBLA, infine possiede uno statuto, i propri conti bancari ed i propri organi di
autogestione.
Questa riforma del sistema produttivo viene introdotta a partire dal 1971, attraverso emendamenti costituzionali;
prosegue nella Costituzione del 1974 per essere completata con la Legge sul Lavoro Associato del 1976.
Già nel '69 Tito pronuncia critiche severe sull'andamento del processo
autogestionario. Non dobbiamo dimenticare che quelle che seguono sono parole
di uno dei dirigenti più rappresentativi e considerati di tutta la storia della
jugoslavia socialista. Quelle che seguono sono accuse chiare, messaggi rivolti
ad una precisa classe sociale. Sono passaggi che in qualche modo testimoniano
di come la lotta di classe in Jugoslavia non fosse per niente terminata con la
liberazione dal nazi-fascismo e con la presa del potere dei comunisti e, al limite,
di come lo stesso Tito fosse, già alla fine degli anni '60, fuori dal gioco dei
processi sociali che di lì a vent'anni avrebbero fornito le basi per la più antipopolare forma di guerra civile: quella scatenata dalle borghesie nazionali in
nome dell'autodeterminazione etnica.
"...Com'é noto, ho più volte parlato, particolarmente in quest'ultimo periodo, di
questo orientamento tendente a togliere i mezzi ai produttori diretti; tendenza
che deriva dall'incontrollato movimento mercantile, dalle posizioni di
monopolio, dall'ingiustificato accumulo di particolari capitali e dal travaso di
una notevole parte del reddito dalle aziende produttrici a organizzazioni quali
banche, aziende commerciali, aziende mediatrici e specialmente a imprese che
operano nel commercio con l'estero. Ma qui voglio, in particolare, riferirmi alle
tendenze burocratico-tecnocratiche all'interno delle stesse organizzazioni di
lavoro (...) In alcune aziende quasi tutto il potere é in mano ad un ristretto
gruppo di dirigenti, esperti, uomini di affari che si comportano come un'equipe
manageriale (corsivo mio). In aziende di questo tipo, ove si trascurano obblighi
e responsabilità di fronte al colletivo di lavoro e agli organi di autogestione dei
redditi, decide questo ristretto gruppo di persone, spesso senza interpellare gli
operai, e si arriva al punto di non chiedere neppure il loro parere. Con una tale
prassi l'autogestione operaia si riduce ad una formalità33. Nei consigli operai di
certe aziende si diminuisce notevolmente il numero degli operai impegnati nella
produzione diretta. Essi vengono sempre più sostituiti da persone che
mantengono posizioni dirigenti nel processo produttivo o che lavorano
nell'amministrazione. A ciò é direttamente collegata la tendenza a diminuire il
numero dei membri dei consigli operai in generale e di prolungare il mandato a
coloro che già lo detengono di tre oppure quattro anni (...) Come marxisti e
leninisti e come comunisti decisamente votati all'autogestione operaia non
dobbiamo permettere il realizzarsi di tali tendenze (...) Dobbiamo lottare anche
perché gli interessi diretti e storici della classe operaia (...) costituiscano il
fattore fondamentale e determinante del nostro sviluppo socialista. Se non
porremo così le cose, ci potrebbe accadere che, dietro il paravento
dell'autonomia del fatto economico, il vero potere nelle organizzazioni di lavoro
33 così come la stessa proprietà sociale o statale dei mezzi di produzione, ndr.
venga assunto da questo strato manageriale anche nelle comunità politicosociali e nell'apparato politico-amministrativo (corsivo mio)..."34.
Questo chiaramente non é un intervento autocelebrativo, da happenig politico di
circostanza real-socialista, bensì, lo ripeto, una dura presa di posizione, dai
contorni precisi, rivolta sicuramente a molti di quegli stessi quadri dirigenti che
quel giorno assistirono ed applaudirono il discorso del maresciallo. Sapendo
come andò poi la storia, il contenuto di queste righe potrebbe già di per sé
esaurire la questione dell'autogestione e delle ragioni che hanno favorito lo
scatenarsi della guerra civile scoppiata nel 1991. Credo invece valga la pena di
approfondire ulteriormente l'analisi per offrire altri elementi che, del resto,
confermeranno quanto già detto ed indicato. Un'ultima acquisizione si può trarre
da questi passaggi: Tito già intravvede la deriva della "dittatura del proletariato"
verso una dittatura esercitata da una specifica nascente e riproducentesi classe
sociale: quella della borghesia e piccola borghesia d'apparato.
3.3 AUTOGESTIONE: L'IDEA
Consideriamo un'impresa di piccole-medie dimensioni (un'OLA) composta
dall'associazione di alcune OBLA. Queste ultime corrispondenti, lo ricordo, a
dei reparti di fabbrica, possono comprendere dai 10 ai 200 membri. Le decisioni
concernenti: assegnazione di posti, condizioni di lavoro, priorità sociali,
distribuzione del plusvalore, assunzioni e dimissioni, ecc. si possono risolvere
entro i confini delle OBLA. Ogni OBLA risolve queste questioni in assemblea;
sempre in assemblea ogni OBLA elegge un presidente con il compito di
rappresentare l'OBLA nel Consiglio dei Lavoratori.
Il Consiglio dei Lavoratori é quindi un secondo livello (più generale) di
decisione e sarà formato, oltreché da tutti i presidenti di OBLA (interessi di
reparto), anche dai presidenti delle varie Commissioni -occupazione,
distribuzione del reddito, ricerca e sviluppo, casa, assistenza, ecc.- (interessi
generali).
Va precisato che le Commissioni hanno solo potere consultivo, i loro rispettivi
presidenti sono eletti per mezzo di un voto generale mentre l'inclusione di
qualsiasi lavoratore all'interno di una Commissione é libera e volontaria nonché
determinata dalle sue personali attitudini. Le Commissioni, pur avendo
solamente un ruolo consultivo, sono importanti in quanto consentono ad ogni
lavoratore di essere praticamente coinvolto nella gestione per ciò che riguarda la
preparazione delle decisioni.
34Discorso pronunciato il 30 novembre 1969, Sarajevo, Accademia delle Scienze e Arti della Rep. di Bosnia ed
Erzegovina. Riportato in G.Scotti, Tito - l'uomo che disse no a Stalin , op. cit., p.150-153.
Il Consiglio dei Lavoratori prende le decisioni sulla base delle raccomandazioni
sviluppate dalle Commissioni e dai Comitati.
I Comitati sono generalmente tre:
a) Comitato esecutivo, il più importante, la cui presidenza spetta al direttore
generale (che riceve l'incarico dal Consiglio dei Lavoratori) é composto dai
segretari d'azienda e dai capi dipartimento;
b) Comitato di Gestione, strettamente legato al Comitato Esecutivo, é composto
dai dirigenti di OBLA (capi reparto) eletti direttamente in assemblea da ogni
sigola OBLA;
c) Comitato di Supervisione, organo di controllo dei lavoratori e supervisore
delle attività gestionali. Il Presidente così come i membri possono essere eletti o
direttamente con voto generale o dal Consiglio dei Lavoratori. Dal Comitato di
supervisione dipendono due commissioni: la Commissione dei Reclami (a cui si
rivolge l'individuo colpito da un'azione della collettività -eletta per mezzo di
voto generale) e la Commissione per le responsabilità di lavoro (dove vengono
attribuite le responsabilità nel caso il comportamento irresponsabile di un
individuo abbia leso gli interessi della collettività -eletta dal Consiglio dei
Lavoratori).
Di norma, il direttore generale detiene l'incarico per quattro anni; detto incarico
viene assegnato dal Consiglio dei lavoratori previa presentazione di un completo
programma di sviluppo. Se il programma proposto viene accettato dal Consiglio
e dalle OBLA esso diventa una sorta di legge interna a cui tutti, dal Consiglio ai
dirigenti, devono rimettersi mentre il Comitato Esecutivo si assumerà la piena
responsabilità per la realizzazione dello stesso.
Al principio di ogni anno finanziario é previsto un dibattito sui risultati dell'anno
trascorso e sui progetti per l'anno successivo all'interno del Consiglio dei
Lavoratori. Qui, al termine del dibattito si esprime un voto di fiducia per il
Comitato Esecutivo. Se il voto risultasse negativo il Comitato di Gestione
verrebbe cambiato e lo stesso direttore generale potrebbe trovarsi nella
posizione di dimettersi nonostante il tempo del suo incarico non sia ancora
scaduto.
Questo schema organizzativo (vedere fig.1) non é da considerarsi come l'unico
modello d'impresa autogestita jugoslava. E' uno schema abbastanza generico in
grado di rappresentare a grandi linee i vari specifici casi di imprese autogestite:
nel caso di imprese più piccole lo schema di gestione si presenterà semplificato;
nel caso di imprese di grandi dimensioni esso sarà ulteriormente articolato.
"...L'autogestione é una organizzazione sociale radicalmente nuova. Le persone,
cresciute e formate con i condizionamenti di un altro sistema, non possono
cambiare dalla sera alla mattina. In particolare gli individui non sono abituati a
valutare le proprie individuali opinioni obiettivamente e non sono pronti a
tollerare decisioni prese senza di essi dai loro pari (...) Non tutto può essere
regolato. In realtà, la sovraregolamentazione ha gli stessi effetti negativi della
regolazione inadeguata. Ciò che occorre é l'esperienza di massa e l'adattamento
sociale. Solo dopo che sono state formate adeguate tradizioni e costumi
possiamo aspettarci che l'organizzazione funzioni adeguatamente (...) L'analisi
presente indica anche fattori che facilitano lo sviluppo della gestione dei
lavoratori. Essi sono:
a) una lunga tradizione industriale. I lavoratori specializzati mostrano un
atteggiamento molto più positivo verso l'autogestione che i non specializzati (...)
b) Lunga tradizione di democrazia politica. Poiché l'autogestione é un processo
politico, la rilevanza di queste condizioni é ovvia.
Le condizioni a) e b) possono essere sostituite -non so quando parzialmente o
pienamente- da una genuina rivoluzione sociale capace di elevare il livello delle
aspirazioni sociali e generare il desiderio di fare sacrifici per la causa.
c) Alti salari che soddisfino i bisogni essenziali (...)
d) Settimana di lavoro corta, che lasci sufficiente tempo libero per le attività di
partecipazione.
e) Alto livello d'istruzione, che riduce le barriere nella comunicazione (...)
Resta un'ultima osservazione da fare. Gli ostacoli ad una genuina gestione dei
lavoratori sono veramente formidabili. Ma questa non é una ragione per
disperare. Al contrario. Se siamo interessati a un sistema sociale più umano,
qual é supposto essere il socialismo, la gestione dei lavoratori é il più potente
strumento di trasformazione sociale a nostra disposizione. Esso fornisce un
campo di quotidiano apprendimento per lo sviluppo delle relazioni socialiste di
produzione e per una significativa democrazia politica."35
3.4 AUTOGESTIONE: LA REALTA'
Dove l'autogestione jugoslava non ha funzionato? Quali erano i veri rapporti
sociali di produzione interni alle imprese? Solo tentando di dare una risposta a
queste due domande sarà possibile entrare nel cuore della questione.
La questione é quella di comprendere in che modo, dopo la vittoria
sull'occupazione nazi-fascista e la vittoria della rivoluzione di matrice marxista
si siano potute ricostruire le basi per la presa del potere da parte di nuove
borghesie nazionaliste-regionaliste. Una precisazione va subito fatta: la ragione
per cui si presta tanta attenzione al sistema di fabbrica autogestito non é che
35Branko Horvat, La gestione dei lavoratori , in AAVV Il Sistema Jugoslavo -dall'impresa alla società
autogestita: esperienze e progetto-, ed. De Donato, Bari 1980.
Rimando al lavoro di Horvat per approfondimenti più specifici circa lo schema di autogestione delle imprese in
Jugoslavia.
questo fosse il principale modo di organizzazione delle attività economicoproduttive in Jugoslavia. Nel 1978, su una popolazione attiva di 9.276.000
persone i salariati erano 5.385.000, i disoccupati 735.000, i lavoratori autonomi
(piccoli artigiani, contadini, ecc.) 3.156.000, gli emigrati 800.000.
Osservando questi dati possiamo notare che, escludendo i disoccupati, i
lavoratori autonomi, gli emigrati e una buona parte dei salariati (impiegati in
imprese statali centralizzate, nei servizi, ecc.), i lavoratori interessati da processi
lavorativi autogestiti erano in Jugoslavia una minoranza36.
L'interesse per l'autogestione deriva quindi da una valutazione di ordine politico:
ieri come oggi "...la gestione dei lavoratori é il più potente strumento di
trasformazione sociale a nostra disposizione..." e la Federazione Jugoslava
multietnica e socialista é stata sicuramente il paese dove, nonostante tutto,
maggiormente si é tentato di sviluppare questo aspetto.
Perché allora non focalizzare l'attenzione sulle imprese centralizzate? Perché tali
imprese erano organizzate secondo un modello oligarchico: Le IES (Imprese
Economiche di Stato) erano semplici unità produttive che dovevano realizzare i
piani di produzione preparati dalle agenzie del governo (le AOR). Il direttore
delle IES, al quale spettavano tutte le decisioni, rispondeva direttamente alla sua
AOR di competenza, mentre tutti gli addetti, dagli operai ai colletti bianchi,
rispondevano direttamente al direttore.
In una impresa economica di questo tipo dove il potere é strettamente tenuto
nelle mani di pochi individui, é facile e logico aspettarsi che fenomeni di
corruzione, carrierismo, arricchimento personale possano avere luogo. E'
l'ambiente più fecondo per lo sviluppo (o la riaffermazione) di nuove borghesie.
E' più interessante invece comprendere come, in una situazione suppostamente
differente quale era l'impresa autogestita, si siano potuti sviluppare gli stessi
fenomeni.
Abbiamo già analizzato l'organizzazione formale di un'impresa autogestita di
medie-piccole dimensioni. "Sulla carta" il sistema presentava un alto grado di
redistribuzione del potere tra tutti i lavoratori. Nella realtà la struttura
partecipativa (riunioni e consigli dei lavoratori) si dimostrava spesso
subordinata alla struttura gerarchica (gerarchie esecutive).
Per un certo tipo di imprese, quelle di grandi dimensioni, la ragione si deve
ricercare nel fatto che il passaggio da imprese centralizzate (tipo IES) a imprese
autogestite (OCLA) non era consistita in una effettiva mutazione organizzativa
ma piuttosto in una mutazione formale calata dall'alto. In questa situazione cioé
non si verificava il processo dal basso verso l'alto OBLA>OLA>OCLA ma
l'inverso: impresa centralizzata>OCLA>OLA>OBLA.
36Tenendo presente che in Jugoslavia, alla fine degli anni '70, si chiude la fase di crescita economico-produttiva;
che verrà rimpiazzata da una fase di grave recessione e crisi negli anni '80.
Josip Zupanov37 riporta nel suo lavoro i risultati di un'inchiesta sulle imprese
autogestite svoltasi con criteri simili da alcuni ricercatori jugoslavi nell'arco del
decennio '60-'70. Tali risultati convergono su due punti:
-viene rilevato un modello oligarchico di controllo sia tra i quadri esecutivi che
nel Consiglio dei Lavoratori e nell'Ufficio di gestione;
-viene inoltre sottolineato come la distribuzione dei poteri nel Consiglio dei
Lavoratori stesso fosse direttamente connesso alla stratificazione sociooccupazionale dell'impresa: il Consiglio era dominato dai dirigenti mentre i
lavoratori avevano un potere molto limitato.
Quindi rispetto al modello della Impresa Economica di Stato, oligarchico per
definizione, la situazione nelle imprese autogestite non cambiò poi molto il
livello di distribuzione del potere. Vi fu invece un successo indiscutibile sul
piano dell'autonomia delle imprese e della decentralizzazione economica.
Persino uno studioso americano di sistemi comparati, David Granick, sosteneva
che l'azienda jugoslava nel 1970 era altrettanto autonoma di una corporation
americana. E questo successo, che in prima analisi può apparire una buona cosa,
fu a mio avviso, uno dei fattori concorrenti allo scatenamento della guerra civile
etnico-separatista del decennio 1990-2000.
Josip Zupanov individua 4 differenti strategie emerse alla base del sistema di
autogestione introdotto nei primi anni '50; strategie la cui efficacia viene
considerata dallo studioso jugoslavo alla luce di 28 anni di applicazione. Esse
sono:
a) la strategia della redistribuzione di prerogative formali nell'organizzazione.
Cioé quella che abbiamo qui sopra considerato e che abbiamo visto fallire nella
pratica. Secondo Zupanov, oltre alle ragioni più sopra esposte, la causa di tale
fallimento si deve ricercare nella stratificazione sociale ovvero nella
disuguaglianza sociale strutturata che attraversava la Jugoslavia. "...Nel sistema
jugoslavo di stratificazione la disuguaglianza va individuata nella diseguale
distribuzione del potere economico e sociale. Nel caso dell'organizzazione del
lavoro il problema della redistribuzione del potere comporta che i poteri della
élite tecnico-burocratica siano sostanzialmente tagliati e che i poteri del
lavoratore siano sostanzialmente aumentati. Questo é difficile da ottenere con
riforme amministrative, specie quando si tenga in mente la posizione strategica
della tecno-burocrazia nella struttura organizzativa e nei processi, oltre alle sue
radici sociali in una connessione formale o semi-formale con la burocrazia
politica..."38.
37Josip Zupanov, La struttura organizzativa di lavoro autogestita e il potere sociale, in AAVV, Il Sistema
Jugoslavo, op.cit.
38ibid., pag.82
b) la strategia della sostituzione, nell'organizzazione, di coordinazione formale
con coordinazione di mercato o "quasi-mercato".
Ogni unità economica (OBLA) diviene autonoma in termini economici; ognuna
col proprio bilancio organizza la produzione, vende il prodotto, distribuisce il
reddito.
Le OBLA vendono e acquistano tra loro i beni prodotti. Questa é la situazione di
mercato nella quale si muovono le unità economiche di base. Il coordinamento
di mercato, per potere funzionare senza squilibri (cioé per assicurare che
nessuna OBLA possa acquisire privilegi di mercato rispetto alle altre),
presuppone una situazione di concorrenza perfetta; una situazione in cui nessuna
delle parti sia in grado di controllare il mercato.
E' ovvio che tale situazione é solo teorica, non si dava ne si dà in regime
capitalista e, questo é il caso che ci interessa, non si dava in Jugoslavia.
Le conseguenze di ciò furono che alcune OBLA potevano imporre prezzi di
mercato più alti a scapito di altre OBLA, instaurando con ciò una concorrenza in
grado di minare i presupposti politici dell'autogestione. Essendo infatti alcune
OBLA in una posizione favorevole, essendo cioé abilitate a vendere i loro
prodotti anche al di fuori della propria azienda (OLA), erano in grado,
abbassando l'offerta interna all'OLA di competenza, di fare lievitare i prezzi dei
loro prodotti. Le OBLA più svantaggiate consideravano questa situazione
un'ingiustizia. Si instaurava un clima di conflitto interno per l'equiparazione dei
redditi che permetteva alla direzione aziendale di inserirsi ed intervenire nel
conflitto per recuperare e ristabilire il proprio potere.
La situazione di "quasi mercato" (con prezzi di vendita/acquisto pianificati) si
dà invece quando il prodotto della unità "A" può essere utilizzato solamente
dalla unità "B". Nella situazione di "quasi mercato", condizione pressocché
generalizzata nelle imprese autogestite, i prezzi di vendita/acquisto erano
pianificati in modo tutt'altro che oggettivo dalle singole OBLA. Ogni OBLA
cercava infatti di strappare il prezzo più favorevole, innescando una corsa
all'aumento dei prezzi di tutte le OBLA costituenti l'azienda (OLA). In questo
modo, l'ammontare delle vendite interne (reddito fittizio) poteva superare di
molto il reddito reale realizzato dall'OLA nel suo complesso attraverso le
vendite esterne. Ciò spesso provocava una crisi del sistema di autogestione e
costituiva il pretesto per la direzione aziendale, anche in questo caso, di
ristabilire la propria egemonia.
Alla luce di tutto ciò Zupanov trae le seguenti conclusioni : "...Qualche raro
studioso che ha fatto studi estesi sulle Unità economiche in qualche impresa
leader trova che la completa autonomia di quelle unità é più apparente che reale.
E questo é in pieno accordo con l'opinione della gente più informata in questo
paese. La tecnica applicata dalle imprese leader consiste nel dare alle loro Unità
economiche piena autonomia sulla carta - con normative interne - ma usano
includere alcune disposizioni che nei fatti cancellano le più 'grosse' prerogative.
Sulla carta l'impresa é estremamente decentralizzata, nei fatti la centralizzazione
viene conservata in forma nascosta..."39.
c) la strategia dell'azione diretta o autonoma dei lavoratori.
La definizione di azione diretta e autonoma dei lavoratori indica semplicemente
lo sciopero spontaneo organizzato informalmente; lo sciopero formalmente
organizzato dal sindacato invece é sì autonomo (rispetto alla direzione
aziendale) ma non "diretto" in quanto comunque mediato da una istituzione
(quella sindacale appunto).
L'autonomia rispetto alla direzione aziendale viene esplicitamente definita dal
fatto che lo sciopero rappresenta una alternativa - piuttosto significativa ed
indicativa - rispetto alle normali sedi in cui i lavoratori avrebbero la possibilità
di opporsi, modificare o cancellare una particolare delibera della direzione
dell'azienda autogestita. (Nel momento in cui il sindacato sia già degenerato in
forme di burocratismo tale autonomia, evidentemente, risulta fittizia).
Il dato importante, comunque, é che gli scioperi cominciarono verso la fine
degli anni '50 e si presentarono nella forma di scioperi spontanei svincolati dai
sindacati. Il primo di questi scioperi a cui presero parte circa 4000 minatori si
ebbe nel 1958 a Trbovnik e Harstnik in Slovenia, ma la maggior parte di essi si
verificò nel corso degli anni '60. Dal 1958 al 1969 si tennero in totale 1.906
scioperi con una media di 158 all'anno. Soltanto dal 1964 al 1968 presero parte
agli scioperi 78,000 lavoratori (in realtà poca cosa se si considera che solo nel
1987, cioé all'apice della crisi sociale ed economica, vi furono 1.685 scioperi).
Nel decennio '59-'69 l'85% dei casi vide la partecipazione di lavoratori di
imprese autogestite mentre la composizione degli scioperanti era quasi
esclusivamente operaia. La ragione predominante degli scioperi fu di natura
salariale
immediatamente
seguita
dalla
mancata
realizzazione
dell'autogestione40.
Quindi un dato importante sul quale riflettere é che gli scioperi spontanei non
furono di carattere politico "contro il socialismo" bensì contro la mancata
realizzazione di esso; rappresentavano cioé il persistere di un conflitto di classe
tra gestori e gestiti ossia tra direzione aziendale e operai.
"...Nell'autogestione ogni eccesso di potere della direzione dell'impresa sui
lavoratori é istituzionalmente illegittimo ma se il meccanismo autogestionario
funziona in modo scorrevole, ciò non viene alla luce. La finzione istituzionale
secondo cui l'esecutivo gode della fiducia del Consiglio e quest'ultimo gode
della fiducia dei suoi elettori viene mantenuta, e questa finzione tiene nell'ombra
39Josip Zupanov, op. cit., pag.86.
40Mihailo V. Popovic', Crisis of the Jugoslav Society and Social Conflicts, in Est-Ovest n.5, 1988.
le reali relazioni di potere. La fermata del lavoro infrange questa finzione e
l'illegittimità del potere dell'esecutivo viene alla luce..."41.
Ufficialmente tali scioperi non vennero mai riconosciuti (né tantomeno proibiti).
Comunque sia "non riconosciuti" non significò affatto "non considerati":
quando lo sciopero esplodeva infatti, prontamente intervenivano governo locale,
partito e sindacato per mediare e ricomporre il conflitto. Tale mediazione
strappava nell'immediato qualche punto ai danni della "burocrazia industriale"
(interessante termine utilizzato da Zupanov) ma nella sostanza lasciava inalterati
i rapporti di potere interni e permetteva alla stessa burocrazia industriale di
rimanere al suo posto.
Tutto ciò testimonia ulteriormente il fatto che la lotta di classe nella Jugoslavia
socialista e federale era una realtà.
In ogni caso ciò non nega assolutamente il valore e la necessità rivoluzionaria
della teoria e della pratica socialista autogestionaria.
Per Zupanov, tuttavia, riconoscere o istituzionalizzare il conflitto sarebbe
equivalso ad ammettere una degenerazione della rivoluzione e ciò avrebbe
sovvertito la teoria e la fondazione ideologica della società socialista.
In realtà "riconoscere" e "istituzionalizzare" sono due cose differenti.
L'istituzionalizzazione assomiglia molto a ciò che effettivamente é stato
l'atteggiamento di mediazione e ricomposizione del conflitto che abbiamo visto
più sopra senza ammettere (cioé appunto "riconoscere") l'esistenza del conflitto
stesso. Riconoscere ufficialmente gli scioperi spontanei avrebbe invece
significato, questo sì, dovere altresì riconoscere che la rivoluzione non stava
andando per il verso giusto. Ma una tale ammissione non avrebbe sconvolto la
teoria della rivoluzione né tantomeno scalzato la fondazione ideologica del
socialismo tanto più che gli scioperi, come abbiamo visto, non avevano carattere
politico. Se possiamo immaginarci una rivoluzione che si mantiene viva e
feconda essa non appiana le contraddizioni nella teoria eludendo la realtà ma
riconosce e risolve tali contraddizioni nella realtà per poter coerentemente
rivendicare la propria teoria. Quando lo sciopero é praticato spontaneamente ed
autonomamente diventa un grave errore negarne senso e funzione con
l'argomentazione che esso mette in crisi gli assunti dello stato socialista. Ciò che
mette in crisi sono piuttosto i rapporti gerarchici all'interno della fabbrica e dei
posti di lavoro. Quindi la pratica dello sciopero avrebbe potuto ottenere un certo
successo sul piano del controllo operaio e dei lavoratori sul proprio lavoro se il
partito ed il sindacato non fossero intervenuti in tutti questi casi con una
funzione meramente ricompositrice ed istituzionalizzante.
41Josip Zupanov, op. cit., pag. 88-89.
d) la strategia di cambiamento del sistema di informazione e comunicazione, in
corrispondenza del sistema di autogestione dei lavoratori.
Questo é sicuramente uno dei problemi più delicati che riguardano
l'autogestione (e non solo). Infatti per partecipare attivamente a qualsiasi
processo decisionale é fondamentale disporre di tutte le informazioni necessarie
allo studio e alla scelta delle varie opzioni/alternative. Senza un'informazione
adeguata, quindi con un'informazione parziale non sussiste nessuna reale e
concreta possibilità di intervento/partecipazione: in definitiva non può esservi
autogestione.
Il monopolio dell'informazione é potere ed il potere é monopolio
dell'informazione; i due termini sono in relazione circolare tra loro. E' stato
rilevato che nelle aziende autogestite chi detiene il monopolio delle
informazioni e dei canali di comunicazione é la direzione aziendale che
ovviamente fonda buona parte del suo potere sulla detenzione di tale monopolio.
Come privare la direzione del suo potere ovvero come socializzare le
informazioni necessarie alla partecipazione ed alla presa di decisioni?
Zupanov cita il lavoro dello studioso jugoslavo P.Novosel, "Il sistema
informativo dell'autogestione", dove viene presa in particolare considerazione,
tra le altre, una fabbrica di macchine utensili a Zagabria. Dopo uno studio
attento e comparato con altre unità produttive Novosel elaborò e sottopose alla
fabbrica di Zagabria un piano concreto per l'installazione di un sistema di
autogestione delle informazioni, non ottenendo però nessuna fattiva
collaborazione.
In buona sostanza nemmeno la strategia del cambiamento del sistema di
informazione e comunicazione ha funzionato; anche se ciò che pare più
credibile é che non sia nemmeno stato possibile il suo perseguimento.
3.5 - LA FRAMMENTAZIONE
JUGOSLAVO: IL FENOMENO.
DEL
MERCATO
UNITARIO
Tra i presupposti ed i fattori che hanno permesso ed hanno preparato la guerra
civile separatista e lo smembramento della RFSJ in piccole repubbliche etniche
bisogna sicuramente annoverare anche e soprattutto la distruzione del mercato
unitario jugoslavo.
Ciò per una ragione molto semplice: qualsiasi gruppo di potere che intenda
assumere il controllo su una porzione di popolazione e di territorio,
separandosi da una comunità più ampia, avrà risolto gran parte dell'operazione
se prima riuscirà ad acquisire il controllo degli aspetti produttivi, commerciali
e politici di tale territorio. Il problema dello scontro militare che la secessione
può introdurre é certo importante, ma, come il caso jugoslavo dimostra, sarà
l'ultimo aspetto ad essere pianificato. Soprattutto sarà un aspetto che, anche
quando non sufficientemente preparato, potrà essere facilmente integrato
dall'intervento imperialista di stati terzi, esterni, fortemente interessati ai
processi secessionistici in atto. Si presenta infatti estremamente difficoltosa la
preparazione di un esercito vero e proprio prima della secessione; molto più
agile sarà invece stringere accordi preventivi con ufficiali ed alti quadri di
comando ma soprattutto con gli stati esterni "protettori", che, al momento
opportuno, sapranno e potranno attivarsi a tutti i livelli (politico, diplomatico,
militare, economico).
Ma torniamo alla questione del mercato unitario jugoslavo. Già con gli
emendamenti costituzionali del 1971 e la promulgazione della Costituzione del
1974 vengono sancite le competenze primarie delle singole Repubbliche e
Regioni Autonome (d'ora in poi repubbliche/r.a.) e viene contemporaneamente
legittimata una effettiva sovranità su reddito, sviluppo del territorio, leggi, piani
sociali e politiche economiche. Non a caso é proprio a cavallo tra gli ultimi anni
'70 e i primi anni '80 che gli studiosi jugoslavi rilevano un fenomeno
estremamente grave per gli equilibri federali: la frammentazione del mercato
interno jugoslavo in una serie di sub-mercati regionali (o nazionali). Ciò da tutti
i punti di vista: degli investimenti e delle attività industriali, delle politiche dei
prezzi e delle tariffe, dei servizi bancari, della tassazione, dei servizi pubblici
(elettricità, ferrovie, ecc.) dei rapporti col capitale straniero. Si rende manifesta
una sempre più accentuata autarchia su base regionale. In alcuni casi si é trattato
di una mancata integrazione, cioé di una latente incapacità dell'economia
federale di fondersi unitariamente; in alcuni altri si é trattato di un vero e proprio
processo di disintegrazione, di protezionismo su base regionale, di premeditata
costruzione di barriere interregionali all'interno della federazione.
3.6 LA DISINTEGRAZIONE DEL COMMERCIO.
Per ciò che riguarda lo scambio di merci e servizi nel 1970 esso si svolgeva per
un 59,6% all'interno delle singole repubbliche, per il 27,7% tra le differenti
repubbliche e per un 12,7% con paesi stranieri o verso l'esercito federale; nel
1980 il 69% degli scambi si svolgeva all'interno delle repubbliche, il 21,7% tra
le repubbliche, il 9,3% con l'estero o rivolto all'esercito. Sono dati che si
acuiranno nel corso di tutti gli anni '80.
TAB.1 - Quota (in %) degli scambi di merci e servizi all'interno di ogni
Repubblica o Regione Autonoma (Kosovo e Vojvodina).
1970
1980
59,6
69,0
RSFJ
63,2
71,1
Bosnia Erzegovina
48,7
71,9
Montenegro
62,8
72,3
Croazia
66,5
62,3
Macedonia
57,8
63,5
Slovenia
60,0
69,2
Serbia
56,6
62,9
Kosovo
50,0
65,3
Vojvodina
TAB. 2 - Quota (in %) di scambi tra le repubbliche sugli scambi totali.42
Aquisti al di fuori delle
Vendite al di fuori delle
Repubbliche
Repubbliche
1970
1978
1970
1978
27,1
36,8
30,6
Bosnia Erzegovina 36,9
61,8
45,3
51,3
32,2
Montenegro
27,4
20,3
37,2
28,9
Croazia
36,2
30,3
35,5
35,4
Macedonia
23,9
21,3
42,2
35,5
Slovenia
32,6
26,1
40,4
30,8
Serbia
53,7
47,6
43,3
37,1
Kosovo
30,8
27,5
50,6
34,7
Vojvodina
3.7 LA DISINTEGRAZIONE PRODUTTIVA.
Come abbiamo visto in premessa al paragrafo 2 le riforme costituzionali del
1971 e la promulgazione della nuova Costituzione del 1974 prevedevano ben
precisi articoli per riequilibrare in senso federale gli interessi di ogni singola
repubblica/r.a. In realtà tutti questi articoli sono rimasti nella sostanza disattesi
ed incompiuti. I dati delle tabelle 1 e 2 dimostrano chiaramente che "...circa i
42Dati tratti dal Bollettino dell'Ufficio Repubblicano per la Statistica della Serbia.
2/3 della produzione delle repubbliche/r.a. sono diretti ai loro stessi mercati, il
che esprime una tendenza verso la territorializzazione della produzione e del
commercio, accentuando la crescente autarchia economica delle varie parti della
Jugoslavia. Questa situazione favorisce nei mercati locali, e soprattutto in
presenza di scarsità di determinate merci, l'assunzione di posizioni
monopolistiche, contrarie ai principi costituzionali del mercato unitario..."43.
Uno degli obiettivi della Costituzione del 1974 era saldare gli interessi delle
diverse repubbliche/r.a. favorendo l'integrazione delle OBLA su scala
interregionale, ossia costituire delle imprese autogestite (OLA) o aggregati di
imprese (OCLA) con i propri reparti dislocati in due o più repubbliche/r.a.
Un'idea sicuramente innovativa ed illuminata rimasta però, come abbiamo visto,
anch'essa disattesa (tab. 3 e 4).
TAB. 3 - OBLA situate al di fuori della propria repubblica/r.a.
1976
1981
n. totale delle OBLA
15.302
n. di OBLA fuori della 461
propria repubblica/r.a.
n. di OBLA fuori della 3,01
propria repubblica/r.a.
in %
21.820
422
1,93
TAB.4 - OLA situate fuori della propria repubblica/r.a.
1976
1981
n. totale delle OLA
887
n. di OLA fuori della 2
propria repubblica/r.a.
n. di OLA fuori della 0,00
propria repubblica/r.a.
in %
3.079
46
1,49
43Milica Uvalic', Il Problema del Mercato Unitario Jugoslavo, Est-Ovest n.4, 1983.
3.8 LA DISINTEGRAZIONE DELLA TECNOLOGIA.
L'intero sistema produttivo venne pensato, in teoria, per spingere
all'integrazione interregionale le singole unità produttive e aveva anche come
prevista conseguenza l'integrazione tecnologica delle stesse. Nella realtà ciò che
si produsse, in perfetta sintonia con tutti gli altri dati, furono sistemi tecnologici
sostanzialmente incompatibili. Una delle cause può essere attribuita sicuramente
alla estrema liberalità delle leggi che regolavano l'importazione della tecnologia
dall'estero: "...nella prassi le OLA si collegano più facilmente con partner
stranieri che fra di loro; e tutto ciò provoca una importazione poco selettiva, un
numero eccessivo di partner stranieri, di doppioni di brevetti per prodotti simili
e uno sperpero delle già scarse divise. Così aumenta non solo la dipendenza
univoca delle OLA dalla tecnologia estera, ma si forma pure una forte
concorrenza interna..."44. Come diretta conseguenza di tutto ciò si ebbe un
approccio tecnologico rivolto maggiormente alla programmazione territoriale
piuttosto che settoriale.
3.10 LA DISINTEGRAZIONE DELLA POLITICA DEI PREZZI, DELLA
POLITICA FISCALE E DEL SISTEMA BANCARIO.
Nel corso degli anni '80 i prezzi all'ingrosso erano per il 46% di competenza
della federazione e per il 54% delle repubbliche/r.a; per ciò che riguardava i
prezzi al consumo il 30% era di competenza della federazione mentre il
rimanente 70% delle singole repubbliche/r.a. La situazione era ancora peggiore
per i prezzi dei servizi: con un 9% di competenza federale ed il rimanente 91%
alle autorità locali.
Tra l'altro i prezzi di merci e servizi si formavano ad almeno tre livelli distinti:
1 - come accordo tra produttori e consumatori;
2 - attraverso le leggi di mercato;
3 - imposti a livello regionale o federale.
Tale situazione non poteva che generare enormi disugaglianze tra le varie parti
del paese se pensiamo che persino un bene come l'energia elettrica presentava
differenze di prezzo notevoli a seconda che venisse erogata in BosniaErzegovina piuttosto che in Serbia o in Croazia45.
Per ciò che riguarda la politica fiscale é possibile riscontrare in quegli anni una
situazione analoga a quella dei prezzi: circa 17.000 erano i soggetti abilitati ad
44Milica Uvalic', op. cit.
45In Bosnia Erzegovina il prezzo dell'energia elettrica era di 237,50 para per KW/h (100 para = 1 dinaro), in
Montenegro 231,25, in Kosovo 211,25, in Croazia 293,75, in Macedonia 226,25, in Slovenia 225, in Serbia
201,25 ed in Voivodina 271,25. Dati tratti da Ekonomska Politika, 22.08.1983, pag. 16-17.
introdurre imposte di vario tipo in seguito ad una massiccia decentralizzazione
che aveva trasferito le funzioni fiscali dalla federazione alle diverse
repubbliche/r.a e alle diverse comunità socio-politiche (provincie, comuni, ecc.).
Sul fronte del sistema bancario le cose non andavano certo in controtendenza.
Dal 1977, anno in cui é stata introdotta una decentralizzazione delle competenze
monetarie a favore delle repubbliche, le banche si sono organizzate su base
territoriale (8 repubbliche/r.a => 8 banche “nazionali”) ed hanno perseguito
sostanzialmente interessi locali.
3.10 LA DISINTEGRAZIONE DEL SISTEMA INFRASTRUTTURALE.
Uno degli aspetti sicuramente più dirompenti rispetto all'unitarietà del mercato
interno jugoslavo se non della Jugoslavia stessa fu senza dubbio la
regionalizzazione delle infrastrutture e dei grandi sistemi tecnici come energia,
acqua, trasporti su strada e ferrovia, posta e telefono.
Mentre la teoria prevedeva di giungere all'unità tecnica di tali sistemi; la
costruzione ed il funzionamento di ognuno di essi diventarono definitivamente
competenza delle repubbliche/r.a.
Nel caso di un settore strategico come la produzione, l'approvigionamento e la
distribuzione di energia si riscontra una vera e propria corsa all'autarchia da
parte delle singole repubbliche ognuna tendente ad assicurarsi il proprio
fabbisogno senza prendere in considerazione le condizioni energetiche a livello
federale. I vari governi regionali decidono la locazione, il tipo di energia da
produrre ed il suo prezzo senza un razionale piano che si colleghi alle
necessità/capacità delle altre repubbliche/r.a, e senza perciò poter valorizzare le
diverse risorse (anche sottoutilizzate) in un quadro più generale. Moltissimi
progetti per la costruzione di nuovi impianti non vennero mai realizzati per
l'impossibilità, da parte delle repubbliche, di giungere ad un accordo sul
finanziamento ed i diritti di utilizzazione.
"...Il caso estremo si registra per l'energia elettrica il cui settore, parcellizzato in
8 sottosistemi, é entrato nel 1981 in una profonda crisi sfociata in gravi e
persistenti limitazioni nell'erogazione (...) Le repubbliche ricche di risorse non
investivano perché la produzione copriva il fabbisogno interno, dall'altro le
repubbliche povere di energia contavano sull'energia delle altre
repubbliche..."46.
Inoltre, proprio in corrispondenza degli anni in cui il costo del petrolio aumentò
notevolmente (ossia dalla crisi petrolifera del 1974 in poi) i nuovi impianti
costruiti per la produzione di energia elettrica funzionavano con combustibili
46Milica Uvalic', op. cit., pag 28
liquidi; con ciò aumentanto la quota di petrolio nell'ammontare energetico totale
ed il debito estero.
3.11 LA DISINTEGRAZIONE DELLA POLITICA ECONOMICA CON
L'ESTERO.
Alla fine degli anni '70 una nuova legge spezzettò la bilancia dei pagamenti in
tanti sottosistemi quante erano le repubbliche/r.a.
Ogni repubblica/r.a., diventò autonoma nella gestione della propria bilancia e
quindi anche direttamente della politica economica con i paesi stranieri.
Il governo federale, per evitare un eccessivo indebitamento delle singole
repubbliche/r.a con l'estero decise di vincolare le importazioni alle esportazioni.
Le repubbliche e le rispettive imprese, per importare ciò che ritenevano
opportuno avrebbero dovuto procurarsi la valuta estera attraverso le
esportazioni.
Questo vincolo, pensato ed applicato dal governo federale per limitare i danni di
un eccessivo indebitamento causò notevoli guai al sistema economico jugoslavo
e contribuì in buona misura a disfare il mercato unitario.
La corsa alla valuta estera che si venne determinando riorientò ulteriormente la
produzione delle varie repubbliche verso l'esportazione al di fuori dei confini
federali, ovviamente a diretto scapito degli scambi interregionali e del mercato
interno. Due esempi concreti possono rendere più chiaro tale fenomeno. Nel
1983 la INA di Zagabria (la principale industria petrolchimica jugoslava) pagò
un debito contratto con l'estero di 251,1 milioni di dollari attraverso
l'esportazione di 500.000 tonnellate di nafta grezza, 226.0000 t. di derivati della
nafta e 160.000 t. di concimi chimici (in quel periodo la Jugoslavia dipendeva
per 2/3 dall'importazione di petrolio dall'estero). Sempre in quell'anno dalle
campagne della Voj Vodina vennero esportate enormi quantità di grano,
zucchero, farina e olio per risanare un debito di 80 milioni di dollari proprio nel
momento in cui vi era scarsità di tali prodotti sul mercato interno.
Oltre a ciò la legge del 1977 ebbe gravi ripercussioni anche su altri aspetti del
sistema economico interno: aumentarono enormemente le transazioni interne
condotte (illegalmente) direttamente in valuta estera, aumentò il mercato nero
valutario e di conseguenza incominciò un lento ma inesorabile processo di
destabilizzazione del dinaro come mezzo unitario di pagamento a livello
federale.
PROVVISORIE CONCLUSIONI.
1.
La Jugoslavia socialista appartiene da tempo al passato e la sua esperienza
interessantissima pure. Il fatto è che tale esperienza, come molte altre, è stata
semplicemente dimenticata, accantonata forse nemmeno mai opportunamente
affrontata, analizzata, rivisitata, dibattuta alla luce dell'ultimo ciclo di guerre
cominciato nel 1991.
Processi sociali estremamente significativi e colmi di conseguenze si sono fusi
tra loro e sono stati alla base della storia di un paese, la Jugoslavia, dal 1941 al
1991. Questi sono: lotta armata partigiana, liberazione nazionale, rivoluzione,
socialismo (come transizione verso la società comunista).
In questo paese, come del resto in molti altri, tali processi sono stati elaborati,
vissuti ed intrapresi con incredibili sacrifici producendo sia avanzamenti sociali
e culturali indiscutibili sia errori fatali.
Non è superfluo porre l’accento sul fatto che mentre gli avanzamenti sociali e
culturali si sono posti in continuità diretta con l’ideologia comunista
(internazionalismo, fratellanza tra i lavoratori, giustizia sociale) così come
questa emerse dal Manifesto di Marx ed Engels nel 1848, alcuni altri fenomeni
tra cui il burocratismo ed il regionalismo se ne sono sicuramente discostati e
sono stati la conseguenza diretta sia di errori commessi in buona fede sia di
opportunismi e conservazione/riproduzione di potere personale ed interessi
particolari. Non dimentichiamoci inoltre delle consistenti e continuate pressioni
esterne volte a destabilizzare la Jugoslavia, come sappiamo sin dalle sue origini
nel 1918. Tutto ciò ha portato al ciclo di guerre civili di tipo etnico-regionalista
iniziato nel 1991, facendo piazza pulita di ogni residuo della rivoluzione e di
ogni possibile sforzo volto a realizzarla pienamente.
Tutto il bagaglio di sperimentazioni, specificità, esperienze, lotte (anche
interne), repressioni, storture, errori, successi, insomma il meglio ed il peggio
delle rivoluzioni del secolo scorso (nel caso che abbiamo parzialmente
esaminato, della Jugoslavia) è stato preso di peso e buttato nelle discariche della
storia.
Anzi questa è la fine che ha fatto "il meglio", perchè "il peggio" ci viene
costantemente vomitato addosso sotto forma di luoghi comuni.
Non intendo negare l'esistenza di un "peggio", ma piuttosto considerare i primi
tentativi di realizzazione del socialismo attraverso un bilancio complessivo.
Questo bilancio non deve servire a riabilitare o giustificare o addolcire
nostalgicamente il passato e nemmeno a rilanciare insensati battibecchi su chi
aveva ragione: cinesi piuttosto che sovietici, jugoslavi piuttosto che cubani, ecc.
Infatti nessuna delle rivoluzioni del secolo scorso ha raggiunto il suo obiettivo,
nessuna di esse è riuscita a costruire un socialismo in grado di traghettare la
società al comunismo, mentre qui in occidente, come giustamente ricorda
Delfino, nessun partito comunista dopo il 1945 ha seriamente e
conseguentemente imboccato la strada rivoluzionaria (con ciò contribuendo in
maniera significativa, se non determinante, al naufragio globale).
Il socialismo cubano sta resistendo come può ma ha poche speranze se in
Colombia e in altri paesi centro e sud-americani non si innescano altrettante
insurrezioni in grado di produrre uno sganciamento continentale dall'egemonia
statunitense; La Cina è in pieno e dichiarato “Socialismo di Mercato” e non
credo che questo sia l'anticamera del comunismo; in Nord-Corea stanno molto
male; mentre sul sito web della Cia il Vietnam è considerato (e di fatto è) un
governo che offre interessanti opportunità di investimento per il capitale
straniero.
Il bilancio appare già, ad una prima superficiale occhiata, negativo.
Tuttavia, come suggerisce Catone nel suo intervento, il bilancio complessivo sul
socialismo del secolo scorso potrebbe davvero tornare utile per elaborare
un'organica alternativa socialista a quello in corso.
E questo è davvero urgente.
Ciò che più ci dovrebbe spaventare, infatti, non sono i missili e i bombardieri o
la Cia e i servizi segreti o le logge massoniche, bensì la totale assenza nella
stragrande maggioranza dei movimenti e delle organizzazioni che definisco
genericamente "contro", di un qualsiasi progetto di società alternativo ossia altro
dal capitalismo (o dal capitalismo riformato). Ci si ritrova di volta in volta
contro il transgenico, contro l'inquinamento, contro la guerra, contro il Wto e
l'Fmi, la povertà, Berlusconi, ecc. ma non si ragiona con determinazione e
continuità alla via di uscita, sulla necessità/opportunità di porre fine a questo
scempio umano e ambientale che è il capitalismo.
Quest’ultimo, insieme al just in time e all'automazione spinta mantiene e
ripropone forme di sfruttamento del lavoro tardo-settecentesche e ottocentesche
(schiavismo compreso) nonchè guerre imperialiste che ricordano i tempi in cui
gli inglesi prendevano a cannonate i porti cinesi per obbligare quel popolo a
comprare l'oppio e a strafarsi.
Ciò che più ci dovrebbe spaventare è quindi l'assenza o la scomparsa o la
tendenza alla scomparsa dell'idea stessa di rivoluzione. Parlare di lotta di classe,
rivoluzione, socialismo e considerarli passaggi necessari per il superamento del
capitalismo sembra oggi nel nostro paese (ma in generale all'interno del
movimento internazionale così detto no global) cosa di cui vergognarsi; pare
qualcosa che puzza di stantio, di velleitario, di illusorio.
Già perchè rivoluzione e socialismo non sono un pranzo di gala e poi
impongono di affrontare il problema della presa del potere. Scherziamo? Il
potere? Come dice il comandante Marcos, icona sacra ed intoccabile del
movimento no-global: "...Noi non vogliamo il potere!...".
A quanto pare, il potere di decidere sul nostro presente e sul nostro futuro è
meglio lasciarlo ai consigli di amministrazione delle grandi banche e delle
grandi multinazionali ed ai loro lacchè nei parlamenti nazionali e nelle forze
armate. Ciò che possiamo fare, al massimo, è prenderci delle mazzate dalla
celere o farci sparare da un carabiniere per domandare ai padroni della terra di
essere meno cattivi o, nel migliore dei casi, per fargli sapere che ci hanno rotto
le palle.
Come ricorda Catone nel suo intervento per la posizione subalterna che il
proletariato occupa nella società, la trasformazione dei rapporti sociali non può
intervenire in misura significativa prima della conquista del potere politico.
Sono convinto che sia davvero necessario e fondamentale organizzarsi: per
opporsi e contestare le scelte di politica economica piuttosto che estera dei
propri governi, per mantenere vivo e sviluppare un impegno ed una capacità
militante, per manifestare (più o meno pacificamente non ha grande importanza
e dipende sempre dalle situazioni specifiche) un anti-imperialismo sempre più
all’ordine del giorno e riprendersi strade e piazze. E in effetti, ciò che manca
non è questo. Quello che manca è un progetto socialista da proporre e opporre
allo sfacelo capitalista, una progettualità che possa catalizzare le lotte e
conferire una percezione strategica alla fatica della quotidiana militanza. Ciò
che ci manca, in realtà, è un briciolo di fantasia.
Credo che in Italia il ciclo di crisi che già da tempo si è aperto, si debba ancora
abbattere con tutte le sue conseguenze sulla testa delle classi lavoratrici.
Nonostante lo smantellamento dei diritti dei lavoratori e della contrattualità,
nonostante la divisione del lavoro e dei contratti in centinaia di sotto categorie,
nonostante il carovita galoppante e l'immiserimento costante della società,
nonostante lo scontento (che da solo non è necessariamente rivoluzionario) ci
sia e sia destinato a crescere, nonostante lo stato di guerra permanente, si
continua sia nel movimento sia nel partito a dimostrare l'incapacità (o la non
intenzione?) di elaborare un progetto e quindi una politica socialista.
La socialdemocrazia ed il riformismo sotto forma di movimento con tanto di
scontri di piazza sono purtroppo l'ultima frontiera della schizofrenia politica che
ci ha colpiti dopo il millenovecentottantanove: “…Siamo per la rivoluzione e la
nonviolenza…” ha recentemente affermato Fausto Bertinotti.
2.
Il dibattito sul socialismo mi sembra un poco viziato. Una delle ragioni può
essere il fatto che esso è animato prevalentemente da intellettuali oramai in età,
ossia persone che un tempo portavano fideisticamente una bandiera: quella
sovietica, piuttosto che cinese, quella polpottiana piuttosto che la bandiera della
critica assoluta e accanita a tutti i socialismi realizzati, così come quella della
ricerca del vero-soggetto-rivoluzionario. Ritrovo infatti il riflesso e la rigidità di
queste impostazioni in alcuni interventi apparsi su questa ed altre riviste.
L'intervento di Melchionda è uno di questi: sostiene che gli operai sovietici
erano legati a filo doppio con Stalin e la sua classe dirigente (argomento peraltro
messo in seria discussione dall'intervento di Testasecca) quindi oggi non può
essere la classe operaia il vero soggetto rivoluzionario. Ecco fare capolino il
vizietto di ciò che Marx definiva generalizzazioni indebite. E' forse possibile
tracciare la fisionomia di un soggetto rivoluzionario mondiale che sia tale in
Italia, Burkina Faso, Colombia, Giappone, Stati Uniti, Russia, Cina, ecc.? La
risposta è ovviamente no, e sarebbe anche una immane perdita di tempo. Ogni
realtà ha specificità di organizzazione e lotta sue proprie.
Appare ovvio che non sono più soltanto gli operai (in senso stretto) i portatori
reali e potenziali di istanze di radicale cambiamento anche perchè il capitalismo,
nel suo procedere, ha creato ed esteso nuovi ambiti di sfruttamento del lavoro
(non necessariamente operaio) e li ha, fra l’altro, opportunamente frammentati;
del resto è altrettanto ovvio che una rivoluzione senza operai (in particolare
modo nei paesi a capitalismo avanzato) è pura fantascienza.
3.
Di fronte allo sfacelo generale, questo breve studio sulla Jugoslavia socialista
appare ed è sicuramente insignificante. Rispetto al dibattito sul socialismo
apertosi su questa rivista credo invece possa risultare di qualche utilità.
Innanzi tutto per ricordarci che l'Unione Sovietica non era un'isola e che non
può considerarsi l'unica esperienza da prendere in esame se l'intenzione è
davvero quella di iniziare uno "studio militante" sulla questione.
Poi perchè trovo assolutamente vera l'affermazione di Horvat: "...Gli ostacoli ad
una genuina gestione dei lavoratori sono veramente formidabili. Ma questa non
é una ragione per disperare. Al contrario. Se siamo interessati a un sistema
sociale più umano, qual é supposto essere il socialismo, la gestione dei
lavoratori é il più potente strumento di trasformazione sociale a nostra
disposizione. Esso fornisce un campo di quotidiano apprendimento per lo
sviluppo delle relazioni socialiste di produzione e per una significativa
democrazia politica…".
L’esperienza jugoslava (come probabilmente altre che non conosco) è piena di
spunti e di stimoli interessanti anche per capire (o vedere confermate) alcune
delle ragioni che hanno determinato la mancata realizzazione della democrazia
popolare.
Dallo studio che qui ho presentato emerge con sufficiente chiarezza che nelle
unità produttive autogestite (ma a maggior ragione in quelle centralizzate) è
risultato drammaticamente significativo lo scollamento d’interessi tra la
categoria dei quadri tecnici e dei manager e la classe lavoratrice in senso stretto.
Non essendosi costruita negli anni tale saldatura il deragliamento di tutta
quell’esperienza risultò in effetti inevitabile.
Vi è poi un altro grosso nodo che ritengo davvero cruciale: se a fianco delle così
dette relazioni socialiste di produzione non cresce l’uomo nuovo, l’autogestione
stessa così come le autonomie regionali si possono trasformare in incubatrici di
pericolosissimi interessi e sentimenti corporativo-particolaristici in grado di
segnare definitivamente la fine di qualsiasi esperienza.
4.
Più in generale ritengo sia davvero importante recuperare interesse e dare
centralità ai temi del lavoro e della organizzazione produttiva non solo
ovviamente nella dimensione della fabbrica ma in ogni luogo ove il capitale
sfrutti il lavoro di donne e uomini. Nei paesi a capitalismo avanzato e quindi
anche nel nostro il ciclo di trasferimento all’estero della produzione è ancora
evidentemente in corso e non vi sono elementi che lascino presagire un suo
esaurimento. La scelta del capitale è chiara: per certe produzioni o frammenti di
esse costa meno l’estrazione del buon vecchio plusvalore assoluto nelle
semicolonie e nelle periferie piuttosto che l’innovazione/automazione per
aumentare la produttività e succhiare maggiori quote di plusvalore relativo. Vi è
anche un altro fenomeno: la permanenza degli impianti sul territorio nazionale e
l’importazione di maestranze (in particolare dall’est europeo) con forme
contrattuali e salari dei paesi di provenienza.
Di fronte a ciò, alla dissoluzione della coscienza di classe (figuriamoci
dell’internazionalismo) e alla carenza di organizzazione appare vano discutere
di socialismo e autogestione.
E’ però un fatto incontrovertibile che il processo di concentrazione che ha
accompagnato il capitalismo sin dalle sue origini senza mai fermarsi crea in
qualche modo esso stesso un terreno sempre più adeguato alla ricostituzione di
tale coscienza: multinazionali agroalimentari, estrattive, dei servizi,
dell’industria pesante, di qualsiasi settore non possono essere contrastate nelle
loro politiche di sfruttamento se non attraverso scioperi internazionali (unico
esempio reale e vincente che conosco quello UPS) che mettano insieme i
lavoratori di tutta la filiera nei diversi paesi ove questa si articola.
E’ altrettanto incontrovertibile che dopo l’ottantanove, per ovvie ragioni,
l’imperialismo e la fase neoliberista hanno subito un’accelerazione
impressionante e solo i tordi non se ne sono accorti prima d’ora. Questo non
significa solo guerra, significa pure fine della pace sociale, della concertazione,
dell’equilibrio riformista (e fittizio) tra capitale e lavoro.
Forse dico un’ovvietà sostenendo che non è primariamente la soggettività
rivoluzionaria a determinare la possibilità di una rottura con un sistema sociale e
l’apertura di una nuova fase ma sono gli scontri inter-capitalistici a determinarne
le condizioni.
Del resto se all’interno di questi scontri non esiste alcuna soggettività comunista
essi sono destinati a ricomporsi in forme disastrose comunque funzionali al
sistema (generalmente guerre civili di tipo etnico-regionalista).
Ecco allora che l’elaborazione/rielaborazione di un’alternativa socialista e
autogestionaria (per ciò che concerne l’organizzazione dei rapporti sociali nella
produzione) risulta essere una delle cose da fare in tempi non troppo lunghi cioè
scrollandosi di dosso quel fideismo nella corrente di riferimento o quello
snobismo derivante dalla smania di re-inventare in continuazione nuovi metodi
e approcci alla realtà.
Gregorio Piccin,
febbraio 2004