I materiali di difficile lavorabilità (1a parte)

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I materiali di difficile lavorabilità (1a parte)
RICERCA
■ Vittorio Pesce
I materiali di difficile
lavorabilità (1a parte)
È possibile coniugare le sempre più stringenti esigenze produttive con
le nuove norme di rispetto ambientale e l’utilizzo sempre più massiccio
di materiali di difficile lavorabilità? Durante un importante seminario
tecnico, note realtà industriali hanno cercato di approfondire il tema,
in particolare per quel che riguarda i settori dell’automotive e aerospaziale
obiettivo del seminario tecnico promosso lo scorso settembre dalla Sezione ISML di Cermet, noto organismo di certificazione accreditato, è stato quello di illustrare come sia
possibile coniugare le rigorose esigenze di produttività e
l’utilizzo di materiali normalmente considerati a difficile lavorabilità, con uno sguardo alle prospettive della ricerca e ai futuri
requisiti ambientali nelle lavorazioni meccaniche. L’incontro, ospitato a Bologna presso il prestigioso stabilimento della Ducati Motor e
presentato da Giancarlo Donzelli, consulente per materiali e processi
produttivi di Cermet, è stato pensato prevalentemente per i tecnici e
per il management delle aziende meccaniche che vogliono aggiornarsi sulle nuove tendenze produttive e tecnologiche.
La presenza di relatori provenienti da aziende che hanno fatto e fanno la storia delle lavorazioni meccaniche, come Sandvik Coromant,
Mitsubishi Materials, Blaser Suisslube/Ridix, nonché da qualificate
strutture di innovazione e di competenza sui materiali come il Centro
Ricerche Fiat e le Acciaierie Valbruna, hanno reso il workshop un’occasione proficua di aggiornamento e confronto. Infine, gli interventi
di diverse imprese meccaniche di diversa dimensione ma tutte impe-
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gnate in importanti programmi produttivi, sia nel settore automotive
che aerospaziale, quali DIAD Group, Lombardini, Ferrari, Ponti & Frigerio, hanno completato la giornata trasformandola in un momento
importante per tutti coloro che ancora si appassionano alla scienza
dell’asportazione di truciolo. Di seguito rendiamo un resoconto tecnico dettagliato.
La lavorazione delle ghise ADI e CGI
La tendenza, per i motori automobilistici di nuova generazione, sarà
l’incremento delle potenze specifiche, ovvero la riduzione del peso
e dei consumi a parità di potenza erogata. Secondo Marco Valente,
Specialista di fresatura di Sandvik Coromant, «i motori del domani
richiederanno materiali con proprietà elevate: alberi, basamenti, teste
motore e ingranaggi andranno rivisti alla luce delle nuove prestazioni». Tra i materiali che vanno affermandosi citiamo le ghise ADI (Austempered Ductile Iron) e CGI (Compacted Graphite Iron). Nel primo
caso si tratta di materiali che, rispetto all’acciaio, offrono minori costi di produzione, minore densità, maggiore colabilità e versatilità in
fase di progetto; inoltre possiedono superiori proprietà meccaniche
rispetto alla ghisa sferoidale e alla normale ghisa grigia, anche se il
costo di selezione delle materie prime (Ni, Mo e Cu) e del processo
di colata è maggiore. La ghisa ADI è il risultato di uno speciale trattamento termico di “austenitizzazione”, atto a creare una struttura
austenitico-ferritica; il trattamento di austenitizzazione genera componenti con caratteristiche meccaniche superiori a qualunque altra
ghisa e a molti acciai fusi.
«I componenti tipici che possono essere realizzati con ADI sono: alberi
a gomito, mozzi, bracci sterzo e sospensione, ruote dentate, perni e
staffe, bielle, pulegge, porta satelliti, tiranti per pompe ecc.», riprende lo specialista di Sandvik Coromant.
In generale, le ghise di tipo ADI (la cui lavorabilità varia al variare del
tenore degli elementi presenti) evidenziano elevata tenacità e buona
resistenza meccanica all’usura in assenza di trattamenti termici superficiali. A tali vantaggi delle ghise ADI corrispondono peraltro alcuni
problemi: maggiore usura sul fianco, a parità di Vt, rispetto alle ghise
duttili ferritiche o perlitiche (e quindi conseguente necessità di ridurre
Vt); in tornitura e fresatura, gli stress meccanici causano deformazioni
sulla superficie, dando luogo all’effetto SITRAM (stress induced transformation of retained austenite in martensite): l’austenite residua si
trasforma in martensite rendendo più difficile la lavorazione; in foratura si ha la formazione di truciolo discontinuo a causa delle inclusioni
di grafite nodulare; gli stress di compressione nel foro generano martensite localmente. Per ovviare a questi inconvenienti occorre ricorrere
all’ottimizzazione dei parametri di taglio, all’impiego di nuovi processi
di taglio (es. rettifica dal grezzo) o processi ibridi, a trattamenti termici
dopo la lavorazione di sgrossatura. La ghisa CGI è materiale parimenti
importante: essa ha resistenza doppia rispetto all’alluminio, carico di
rottura maggiore del 75% e maggior rigidezza del 45% rispetto alla
ghisa grigia. La resistenza a fatica alle alte temperature risulta fino a 5
volte superiore rispetto all’alluminio, mentre colabilità, conducibilità e
lavorabilità sono di molto superiori alla ghisa sferoidale.
«Con la ghisa CGI esiste dunque la possibilità di progettare componenti più leggeri; essa vanta maggiore resistenza alle alte pressioni in
camera di combustione, mentre ulteriori vantaggi sono la rumorosità
La Sezione ISML di Cermet
Il ricorso a materiali tecnologicamente innovativi, tra cui le leghe leggere,
rappresenta una delle vie che l’Industria mondiale sta percorrendo
con maggiore decisione con lo scopo di migliorare la sostenibilità della
produzione e il bilancio del ciclo di vita. ISML (Innovazione e Sviluppo dei
Materiali e delle Leghe leggere) intende richiamare l’attenzione su quanto
la maggior conoscenza delle tecnologie dei materiali e delle leghe leggere
rappresenti un tema chiave per l’Industria manifatturiera, di importanza
strategica per il mantenimento della competitività.
In alto la struttura della grafite: lamellare (ghisa grigia gCI), “a verme”
(ghisa vermicolare CGI), sferoidale (ghisa nodulare NCI). Dopo il processo
di “austempering” quest’ultima diviene ghisa ADI, con caratteristiche
meccaniche superiori a qualunque ghisa e a molti acciai fusi.
intrinseca ridotta, particolarmente adatta all’uso automobilistico, e la
resistenza all’usura», continua Marco Valente.
Per quel che concerne la lavorabilità, CGI tende a formare trucioli (a
differenza della ghisa grigia che genera polvere), comunque facili da
controllare; il consumo di potenza al mandrino è mediamente superiore del 15-20% se comparato a una ghisa grigia, ma è possibile raggiungere miglior tolleranza e finitura superficiale. Rispetto alla ghisa
grigia, la CGI comporta una notevolissima riduzione della durata dell’utensile (fino al 90% in caso di lavorazioni ad alta velocità utilizzando
inserti ceramici o CBN); per contrastare questo fenomeno, l’utensile deve essere possibilmente in metallo duro, con geometrie dell’inserto positive, e utilizzato con moderate velocità di taglio ed elevati
avanzamenti al dente L’utilizzo di una ghisa CGI può consentire una
riduzione del volume e del peso del basamento motore pari a circa il
15-20% e una riduzione del peso del motore assemblato pari a circa
il 10% (mediamente 1% di riduzione di peso garantisce un risparmio
di carburante di circa 1%). CGI è l’unico materiale utilizzabile nella
costruzione in serie di motori diesel capace di sopportare pressioni di
esercizio superiori a 200 bar. Valente conclude: «Le ghise ADI e CGI
hanno caratteristiche meccaniche più ”nobili” (Rm, A%,…), ottima
colabilità, e consentono una riduzione dei pesi e dei volumi». Le regole sulle emissioni sempre più restrittive e la richiesta di consumi più
contenuti, aprono dunque a tali materiali nuove possibilità applicative,
pur con ricorso a opportune strategie di “lavorabilità all’utensile”, essendo tali ghise, da questo punto di vista, materiali critici.
Lavorazione di materiali avanzati per il settore
automobilistico e aerospaziale
Massimo Barucci, Direttore Tecnico della Mitsubishi Materials, ha spiegato le nuove tendenze del settore automobilistico: «Le parole chiave oggi non sono più soltanto sicurezza e rispetto dell’ambiente, ma
anche maggior efficienza e risparmio energetico».
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Nanotecnologie applicate al rivestimenti dei nuovi inserti.
Sulla destra il confronto, a parità di numero di urti, tra un
tagliente dotato di un rivestimento di ultima generazione
(in alto) e un tagliente tradizionale (in basso).
Per far fronte a tali nuove necessità, i componenti di un’automobile,
e in particolare quelli che costituiscono il motore, devono possedere
forme sempre più complesse e i materiali con cui sono realizzati caratteristiche chimico-fisiche particolari, che consentano per esempio
la riduzione delle masse in gioco.
«Attualmente – continua Barucci – per questo tipo di applicazioni
sono molto utilizzate le leghe di alluminio, gli acciai ad alta resistenza alla trazione, le ghise ad alta resistenza al taglio, le ghise sferoidali
trattate termicamente, i sinterizzati e i compositi a matrice metallica». In particolare i materiali compositi rappresentano la grande soluzione per gli aerei di ultima generazione. In generali, comunque,
tutti questi materiali sono di difficile lavorabilità e riducono le prestazioni e la vita degli utensili; al momento, gli inserti che offrono le
maggiori garanzie per lavorare questo tipo di materiali sono quelli di
carburo (principalmente di tungsteno) rivestito. Le aziende rivolgono
gli sforzi di ricerca e sviluppo lì dove vedono convergere le tenden-
La microstruttura nel nuovo Cermet: fase dura a base TiCN e legante
speciale ad alta coesione e conducibilità termica.
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ze del mercato: per aumentare la produttività occorre ridurre i costi,
aumentare le velocità di taglio e gli avanzamenti. Tali progressi tecnologici necessitano di utensili adeguati (si pensi che il volume di truciolo è aumentato dal 200 al 500%), e in particolare di rivestimenti
degli inserti all’altezza.
Massimo Barucci entra nel dettaglio: «Le nuove tecnologie di rivestimento fanno leva su bassa conducibilità termica e stabilità chimicotermica; in particolare mirano a un aumento dello spessore del rivestimento stesso, la cui superficie è più liscia e omogenea, e a un miglioramento delle proprietà fisiche dell’interfaccia fra substrato e ricopertura.
Questa è nanotecnologia». Entrando invece nel dettaglio dei materiali
di ultima generazione per il settore automobilistico, lo stato dell’arte è
costituito da carburi rivestiti con PVD di ultima generazione per materiali sinterizzati (alberi a camme, bielle, pistoni) e dal PCD termicamente
stabile per particolari in leghe di alluminio (blocco e testa motore). Un
altro tema interessante riguarda la cosiddetta reperibilità della materia
prima: lo sfruttamento del tungsteno nel mondo sta raggiungendo valori elevatissimi (nel 2004 la domanda superava le 50.000 tonnellate)
e il consumo è destinato a crescere. Per non esaurire le fonti, occorre
ridurre il consumo, riciclare, trovare risorse alternative.
Per questo sta prendendo piede il cosiddetto “nuovo Cermet”, molto
più “performante” rispetto al Cermet di precedente generazione, che
troverà sempre più spazio nelle applicazioni meccaniche, per esempio
come alternativa al carburo di tungsteno. La microstruttura del nuovo
Cermet presenta una fase dura a base di TiCN, che garantisce bassa
affinità con il ferro, minore formazione di tagliente di riporto ed eccellente finitura superficiale; inoltre il nuovo legante è ad alta coesione
e maggiore conducibilità termica, il che favorisce alta resistenza agli
shock termici e tenacità, rendendolo idoneo al taglio interrotto e alla
lavorazione a umido. Prove di laboratorio indicano mediamente una
durata doppia dell’inserto in nuovo Cermet rispetto al precedente.
Parlando invece di foratura, l’argomento si fa decisamente più complesso «perché – aggiunge Barucci – oltre a nuovi materiali e rivestimenti è necessario sviluppare anche nuove geometrie di taglio, che
ottimizzino l’evacuazione del truciolo e l’adduzione del lubrorefrige-
Macchina Hegenscheidt per la rullatura e raddrizzatura degli alberi
motore a due, tre e quattro cilindri della Lombardini.
rante, soprattutto nel caso in cui si debbano realizzare fori fino a 30
volte il diametro con punte a elica in metallo duro integrale».
Per quel che riguarda il settore aeronautico, le parti strutturali e le ali
degli aerei di ultima generazione saranno realizzati sempre più con
materiali compositi. Lavorare questi componenti è in genere compito assai gravoso, specialmente per ottenere le rigidissime richieste
delle case produttrici, «e in questi casi – conclude Massimo Barucci
– un’ottima soluzione è rappresentata dall’utilizzo di frese integrali
rivestite in diamante».
Nuove tecnologie per il settore automotive
Durante il convegno è stato molto apprezzato il contributo di Antonio
Tallarita, Responsabile delle Lavorazioni e delle Tecnologie di Lavorazione del Gruppo Lombardini, nota azienda produttrice di motori Diesel,
che ha innanzitutto messo a fuoco la differenza tra rettifica di sgrossatura e fresatura in alta velocità. «Le due lavorazioni permettono di
ottenere praticamente gli stessi risultati qualitativi – spiega Tallarita –;
la prima presenta forti vantaggi circa il costo del pezzo, ma la scelta
tra le due deve essere valutata con attenzione, in virtù del diverso tipo
di impatto che hanno sulla sicurezza». Infatti, per quel che riguarda il
“tempo macchina”, l’azienda emiliana vede un vantaggio nella rettifica che consente un risparmio del 37% del tempo di lavorazione
di un albero motore a 4 cilindri e una riduzione del costo utensile per
pezzo pari al 19% (tale confronto è effettuato a pari pezzi prodotti e
senza considerare i tempi di cambio utensili e di cambio mola). Sotto
il profilo della sicurezza, la rettifica di sgrossatura lavora con olio intero e quindi presenta rischi maggiori rispetto alla fresatura, eseguita
invece con emulsione. «Ecco dunque che risulta fondamentale analizzare preventivamente le specifiche di lavorazione, l’incidenza dei costi
e l’ambiente di lavoro per scegliere la tecnologia più conveniente»,
aggiunge Tallarita. Nel settore automobilistico un’altra tecnologia che
trova sempre più applicazione è quella dei centri di tornitura, foratura
L’utilizzo di oli esteri permette l’abbattimento totale della fumosità.
e fresatura multitasking. «Su un centro di lavoro a 5 assi riusciamo a
realizzare tutti i fori inclinati di lunghezza pari a 80 ÷102 mm; inoltre
lavoriamo 12 famiglie di alberi motore differenti a 2, 3 e 4 cilindri e
senza bisogno di riattrezzamenti».
Un’altra lavorazione che va sempre più affermandosi nell’ambito della
produzione di componenti per automobili è quella della rullatura: si
tratta di un’operazione necessaria per aumentare la resistenza a fatica dell’albero motore. La rullatura, grazie alla compressione delle fibre, genera nello strato superficiale della gola dell’albero motore un
aumento della durezza superficiale, un miglioramento della finitura
superficiale e un incremento delle tensioni di compressione. La nascita
di queste ultime dà origine a un notevole incremento della resistenza a
fatica, in quanto viene ritardata la crescita di fessure fino a fermare la
propagazione delle cricche, nonché uno spostamento verso il centro
delle tensioni, le quali permettono al pezzo di sopportare oscillazioni
di maggiore ampiezza. Dunque, la rullatura esalta al massimo la resistenza del materiale rispetto agli altri processi di lavorazione, migliora
le caratteristiche di concentricità grazie alla successiva operazione di
raddrizzatura, che nelle moderne rullatici è operazione integrata alla
macchina rullatrice. Antonio Tallarita conclude: «Il processo è economico perché dà luogo a: ridotta usura degli utensili; basso consumo
di energia e rumorosità; ingombri ridotti; scarsa influenza della temperatura; impatto ambiente nullo».
Grazie alla nuova tecnologia che prevede la raddrizzatura in process,
alla presenza del dispositivo di controllo rottura utensile e alla presenza di celle di carico che monitorizzano la forza di rullatura, il prodotto rullato risulta garantito qualitativamente in quanto controllato al 100%. Durante il convegno è stato molto interessante anche
il contributo offerto da Ferrari S.p.A., casa produttrice di automobili
da corsa e di vetture sportive tra le più prestigiose e conosciute nel
mondo. Tuttavia non ci è possibile divulgare i contenuti di tale intervento per ovvie ragioni di riservatezza.
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Temperature che si sviluppano tra pezzo, truciolo e utensile durante
la lavorazione: 1 m lineare di acciaio si allunga da 8µ a 12 µ per 1° C
acquisito a causa della dilatazione termica. L’acqua dissipa il calore sei
volte di più rispetto all’olio.
La scelta del giusto lubrorefrigerante
«Il lubrorefrigerante è un male necessario o un investimento?» Questa
la domanda che ha posto Gianfranco Giglietti, responsabile di prodotto in Ridix S.p.A., ben nota società piemontese che ha l’esclusiva della
distribuzione sul territorio nazionale dei lubrorefrigeranti Blaser.
Certamente il lubrorefrigerante perfetto non esiste: il prodotto migliore è dato dal miglior compromesso, in funzione del tipo di lavorazione,
del materiale, della macchina: «Una buona scelta consentirà non solo
di raffreddare e lubrificare l’area di lavoro pezzo-utensile e favorire
l’evacuazione del truciolo, ma anche di ottenere velocità e avanzamenti maggiori, miglior qualità superficiali, riduzione dei tempi morti
e dei costi di smaltimento. Quindi l’aumento di produttività».
I più importanti requisiti di tali prodotti sono: l’utilizzo universale, il
potere antiossidante, i bassi consumi di concentrato, i bassi costi totali
con possibilità di smaltimento e riciclaggio. Inoltre un buon lubrore-
Gianfranco Giglietti, responsabile di prodotto Blaser in Ridix S.p.A.,
durante il seminario svoltosi a Bologna presso la sede della Ducati Motor.
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frigerante deve garantire la maggiore durata dell’utensile, la protezione totale della macchina, la sicurezza per operatori e ambiente, la
stabilità chimico-fisica e batteriologica.
Nella scelta di un lubrorefrigerante occorre tener presenti aspetti vari:
la sempre più elevata velocità di taglio, le forti pressioni di erogazione,
i materiali difficili da lavorare (con particolare attenzione alle nuove
leghe), l’incremento di produttività, le tolleranze sempre più strette,
la rugosità e, non ultima, la conformità alle leggi.
I prodotti si possono dividere in miscibili e oli non miscibili (interi).
Tra i primi possiamo individuare tre famiglie di concentrato: emulsionabile; semisintetico; sintetico. I lubrorefrigeranti si otterranno miscelando i rispettivi concentrati all’acqua, in concentrazioni variabili
a seconda dei casi. Gli oli interi vengono invece utilizzati senza l’aggiunta di acqua: dunque non è importante la concentrazione, bensì
la quantità utilizzata.
Vi sono poi gli additivi (antischiuma, antiossidanti, stabilizzanti quali
battericidi o fungicidi, coloranti e profumanti, ecc.) che possono essere solubili in olio o in acqua e vengono scelti dal “formulatore” in
base alla tipologia del prodotto. L’acqua ha il compito di raffreddare
dissipando il calore generato, l’olio quello di lubrificare. Le temperature che si sviluppano porterebbero però all’evaporazione dell’acqua
e dell’olio, qualora non fossero aggiunti gli opportuni additivi detti di
“estrema pressione” (E.P.) cioè adatti alla zona di contatto tra truciolo
e tagliente. Gli additivi più utilizzati alle alte temperature (quindi dai
250° C ai 900° C) sono: cloroparaffine e composti dello zolfo.
«Quale dunque la scelta da effettuare? Un lubrorefrigerante miscibile o uno intero?», si chiede Claudio Invernizzi, responsabile di prodotto in Ridix S.p.A.
Tale scelta generalmente spetta al produttore della macchina utensile,
ai tecnici che valutano il tipo di utensile e materiale da lavorare, e ai
produttori dei fluidi lubrificanti, che devono stabilire se per una determinata lavorazione è più importante lubrificare o raffreddare.
Bisogna anche tenere in conto che gli oli interi hanno maggior potere lubrificante, ma anche alta nebulizzazione, e questo comporta la
necessità di impianti di aspirazione più complessi e costosi. L’aspetto
ambientale non favorisce dunque la scelta degli oli interi: la formazione di nebbie oleose produce dispersione a bordo macchina e rischio
di incidenti. Fondamentali poi sono le caratteristiche dell’impianto,
in quanto una macchina può essere progettata per lavorare con entrambi i prodotti, ma anche per lavorare esclusivamente con olio intero anziché con miscibile. Dunque per l’asportazione di truciolo e in
rettifica, percentuale d’uso e tipo di prodotto miscibile vanno valutati
di volta in volta, e per questo si rimanda alla consultazione di tecnici
specializzati e alle apposite tabelle.
«Gli oli interi – continua Invernizzi – si differenziano tra loro per natura
dell’olio, processo di raffinazione, viscosità e presenza di additivi E.P.:
lo scopo primario è quello di ridurre gli attriti e di impedire lo sviluppo di alte temperature». Importante è la scelta della giusta viscosità
(un olio poco viscoso dissipa il calore meglio di un olio molto viscoso,
tuttavia è molto fluido e indica bassa resistenza del film oleoso determinatosi). Altro aspetto fondamentale è il rischio di incendio e/o
esplosione che, quando si lavora con oli interi, non deve essere mai
sottovalutato: se l’olio infatti è portato alla sua temperatura di infiammabilità, vengono prodotti vapori che a contatto con la fiamma bruciano rigenerando continuamente l’incendio. Per ridurre tale rischio è
dunque importante inserire aspiratori nell’impianto, utilizzare oli con
alto punto di infiammabilità (> 180°C) e con scarsa tendenza alla nebulizzazione, e fare uso di una vasca termorefrigerata.
Dunque per la scelta dell’olio si deve tenere conto di viscosità, effetto
lubrificante, punto di infiammabilità, evaporazione, nebbia, fumosità;
mentre per gli additivi occorre valutare prestazione al taglio, detergenza, antischiuma, antinebbia, antiossidanti, protezione alla corrosione.
Vi sono ovviamente diverse formulazioni di olio intero (minerali, sintetici, vegetali, esteri ecc.), in cui il processo di raffinazione permette
di ottenere determinati valori di viscosità.
Claudio Invernizzi riprende: «Possiamo affermare che nell’asportazione di truciolo e in rettifica i prodotti più “performanti” sono, nel caso
dei miscibili, le emulsioni con alto tenore di olio (minimo 50%) nel
concentrato, e in assoluto quelli a base di esteri; nel caso invece degli interi i più adatti sono gli esteri sintetici, che spesso si comportano
molto meglio di oli minerali fortemente addittivati».
Gli oli esteri sono lubrificanti senza IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici,
dannosi per l’uomo) e per lo più biodegradabili, e sono attualmente
in forte crescita come utilizzo. Si contraddistinguono per un’estrema
capacità lubrificante e detergente, un punto di infiammabilità molto
alto (oltre i 300° C), e una ridottissima tendenza all’evaporazione. Gli
altri punti di forza di tale prodotto sono: alta resa utensile/mola e aumento della produttività, qualità dei pezzi lavorati e assenza di nebbia
e fumosità. «Insomma, la scelta di un adeguato olio estere può davvero contribuire a migliorare la produttività anche per lavorazioni difficili,
come dimostrano numerosi casi seguiti», riassume Invernizzi.
Oltre a scegliere lubrorefrigeranti altamente tecnologici, è fondamentale adeguare l’utilizzo per le diverse realtà delle officine e tipologie
degli impianti, e solo una buona “educazione” degli utilizzatori può
garantire lunga durata e le alte prestazioni richieste. Un lubrorefrigerante, per durare a lungo, deve vivere in un ambiente “pulito”, con
adeguati sistemi di filtrazione e disoleazione, per impedire che veicoli
sporcizia e particelle dannose: un cattivo impianto può richiedere interventi ogni 2-3 mesi, un buon impianto può essere lasciato senza
interventi anche per anni.
La legge n° 626 obbliga i produttori a informare gli utilizzatori, attraverso apposita documentazione (STMS – etichettatura), sulla pre-
Test di fresatura con grandi asportazioni su monolite in titanio: dopo
120 min di contatto l’usura dell’inserto è molto maggiore con un
prodotto a base di olio minerale (55% nel concentrato) con EP paraffine
solfoclorurate, piuttosto che dopo 180 min di contatto con un prodotto
a base di olio esteri sintetici (53% nel concentrato) senza EP paraffine
solfoclorurate.
senza nei prodotti di sostanze tossiche, irritanti, nocive, cancerogene,
ecc., indicandone il nome e la quantità. Il prodotto etichettato è più
pericoloso di un prodotto non etichettato; la legge non vieta l’uso di
prodotti etichettati ma obbliga il datore di lavoro, “sempre se ciò è
tecnicamente possibile”, a utilizzare i prodotti migliori per l’aspetto
“ambiente e sicurezza”. «La legislazione e le norme sulla classificazione di sostanze e preparati pericolosi sono in rapida evoluzione sia
a livello comunitario che a livello nazionale, e periodicamente vengono emessi nuovi adeguamenti normativi. Per esempio dal gennaio
2007 la Francia si è adeguata alle indicazioni della IARC classificando
la formaldeide e relativi donatori quali cancerogeni “gruppo 1”, imponendo notevoli misure di precauzioni nell’uso. Se tale restrizione
verrà allargata alle altre nazioni europee ben presto tutti i produttori
di lubrorefrigeranti dovranno profondersi in grandi cambiamenti»,
riprende e conclude Giglietti.
Rimane comunque fondamentale il principio secondo cui occorre
“riciclare anziché smaltire”, pulendo dal punto di vista chimico-fisico
e batteriologico l’emulsione che poi potrà essere riutilizzata. Questo
trattamento di pulizia dei lubrorefrigeranti può essere applicato a
tutti i prodotti, ma con maggiore beneficio sui prodotti Biodinamici.
La stabilità batteriologica di un lubrorefrigerante può essere ottenuta con due sistemi: biostatica, cioè l’impiego di battericidi che impediscono lo sviluppo di qualsiasi flora microbica, molto efficaci ma
nel tempo più a rischio per aspetto ambiente/sicurezza; biodinamica,
cioè lo sviluppo naturale di microrganismi aerobici non patogeni che
costituiscono una difesa naturale senza l’impiego di battericidi, l’uso
massiccio e frequente dei battericidi inevitabilmente aumenterebbe
il livello di tossicità dei lubrorefrigeranti.
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Fine prima parte – continua
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