Eleonora Caramelli - Ec

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Eleonora Caramelli - Ec
Die Einseitigkeit ist das Schicksal
aller Wahrnehmung
H. Blumenberg, Matthäuspassion
In questo intervento vorrei declinare la costellazione
del rapporto tra senso, sensibile e parola attraverso la
rilettura di alcuni luoghi della Fenomenologia dello spirito, cercando di mettere in relazione la trattazione fenomenologica della tragedia con il capitolo dedicato
alla certezza sensibile. Se nella più tarda Enciclopedia il
linguaggio, in quanto segno evanescente, sembra farsi
vettore di un movimento irreversibile che promuove la
sublimazione del materiale sensibile nella trasparenza
del pensare, qui vorremmo provare a suggerire che il
modello dell’ascesi1 senza ritorno è inadatto a comprendere la funzione della parola nella Fenomenologia2.
Non si tratta, naturalmente, di delegittimare la trattazione enciclopedica del linguaggio, ma di sottolineare
un aspetto che ci sembra di non marginale rilievo. Se
infatti è certamente vero che lo Hegel sistematico assegna al linguaggio, mettendo capo a una vera e propria
semiologia, un ruolo proprio nella cruciale transizione
tra l’intuizione e il pensiero (cfr. Surber 2006, p. 13), ciò
avviene solo in virtù della sua progressiva emancipazione dall’elemento sensibile e dal carattere rappresentativo delle immagini. Nell’operazione della memoria
meccanica, in cui viene scardinato il legame di volta in
volta singolare tra il nome e il suo proprio significato,
l’enunciazione promuove il pensare nella misura in cui
la tara della parola viene completamente elusa nella misura in cui il linguaggio diventa “lo spazio universale dei
nomi in quanto tali, cioè delle parole prive di senso” (§
463). In altri termini, sembra che, nell’Enciclopedia, il linguaggio eserciti un ruolo sistematico proprio al di là di
quella differenziazione rispetto all’elemento puramente
logico, cioè la sua dimensione in senso lato estetica, che
nella Fenomenologia veniva tematizzata proprio come limite e in quanto tale messa a valore3. Il sospetto che tale
paradigma sia insufficiente può essere indotto, inoltre,
dal fatto che anche nella riflessione più matura Hegel
sembra ripensare il movimento del linguaggio come un
movimento dall’andamento duplice. Per quanto solo a
titolo di esempio, sembra indicativo un passaggio delle
Lezioni sulla filosofia della religione, che in altra sede, anche
per il delicato statuto filologico dell’opera, meriterebbe
una più attenta circospezione, in cui Hegel parla del
“duplice significato del significato”4. Nell’introduzione
al corso del 1824, riflettendo sulla differenza tra il divino oggetto della teologia naturale e il divino nella sua
realtà, Hegel si interroga sul senso stesso della significazione, di quel che entra in gioco quando ci chiediamo cosa significhi la sinonimia tra il divino, l’assoluto e
l’idea. Quando ci chiediamo cosa significhi la rappresentazione di una cosa, in verità chiediamo sempre due
cose opposte. Da una parte, il primo significato, in filosofia, sarà l’idea, l’essenza logica. La pura determinazione del pensiero, tuttavia, non è sufficiente a esaurire
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Hegel: tragedia,
linguaggio, ricordo
Eleonora Caramelli
il significato, in essa “lo spirito non si sente a casa propria” (VR III, p. 35; p. 93)5. Il significato del divino sarà
anche l’intuizione che esemplifica il contenuto, prima
dato solo nel pensiero. La rappresentazione sarà allora
qui ciò che poggia sull’intuizione in quanto exemplum:
“solo così lo spirito è presente a se stesso in questo contenuto” (ibidem).
Questo duplice significato del significato ce lo indica l’idea
che, come il concetto interno, come il puro pensiero, procede però parimenti fino all’alienazione di sé, si dà degli
esempi di sé e, nel fare ciò, resta l’elemento essenziale, pur
diventando per se stessa l’esempio di sé (ibidem; p. 95)
Il senso dell’inquietudine costante da cui è animata la
rappresentazione linguistica sembra qui da ricercarsi in
ciò per cui tra i due lati, i due significati del significato,
si dà coimplicazione reciproca e, ancora di più, nella
rappresentazione in quanto exemplum l’idea diventa per
se stessa l’esempio di sé. Questo passaggio sembra suggerire l’idea di una vera e propria reversibilità tra l’uno
e l’altro significato per due ordini di ragioni. In primo
luogo, nel momento in cui la rappresentazione è exemplum dell’idea, essa acquisisce qualcosa di nuovo tanto
in termini ontologici che in termini conoscitivi. Al movimento di ascesa che depura la rappresentazione dal
suo tessuto naturale fa seguito un movimento di discesa
verso un sensibile che questa volta è esempio dell’idea;
il punto è che sembra si diano, qui, i termini per pensare un denominatore minimo comune a entrambi i
movimenti, che si vengono incontro nella misura in cui
sono entrambi reversibili: dall’uno è possibile ritornare
all’altro, dall’altro è possibile ritornare all’uno, e non si
tratta di un movimento a somma zero.
Stando a questa analisi, non solo la parola dà luogo a
un movimento duplice, ma sembra produrre anche una
modificazione essenziale dell’oggetto, ciò per cui esso,
una volta enunciato, da atomo semplice che era di-
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venta una molecola instabile, che oscilla tra il versante
dell’idea e quello del suo concreto exemplum. Così esemplificata la problematica dell’effetto prodotto dall’enunciazione, vogliamo adesso calarla nel contesto fenomenologico, laddove la trattazione della certezza sensibile
sembra fornirne una dialettica concreta.
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1. Il sapere che è il primo oggetto della Fenomenologia è
un sapere immediato, cioè il sapere apparente dell’immediato, dell’oggetto come essente.
Trattandosi di un sapere prediscorsivo, bisogna vedere
come il linguaggio interferisce con la certezza, come la
altera e come dunque perciò la verifica. In questo modo
quel che sembra a prima vista il sapere più ricco si rivela come il più astratto e povero. Quando si trova a dover
appellare l’oggetto, infatti, la coscienza non sa dire altro
che questo: “esso è”(GW IX, p. 63; p. 70). La verità di
ciò che la coscienza sa è solo l’essere della cosa.
Quanto Hegel intende dimostrare fin dall’inizio è non
solo che, in quanto mero essere, il regno del sensibile
nel suo prorompere è ancora precluso alla coscienza6,
ma, ancora di più, che il sapere del mero essere è un
sapere apparente poiché le si dissolve tra le mani non
appena cerca di affermarlo. Nel momento in cui, infatti, è costretta a riferirsi all’oggetto come a un “questo”, essa dice già di più di quel che ha in mente (meynt).
Proprio perché l’elemento deittico ha a che fare con il
δεικνύναι, enunciare che “questo è” equivale ad indicarlo, il che significa che il “questo” è già oggetto di un
rimando indiretto. Sebbene la certezza sensibile creda di
poter indicare immediatamente l’oggetto essente, si dà
invero una certezza solo per mezzo della cosa, e la cosa
è oggetto della certezza solo tramite l’Io. Non appena la
coscienza cerca di catturare l’oggetto, demandando lo
statuto del proprio sapere alla bruta materialità dell’oggetto essente, la sua durezza minerale si dissolve. Quello
che la coscienza ha in mente non regge alla prova della
verbalizzazione. L’ulteriore articolazione del passaggio
mostra che la certezza sensibile, in verità, il questo non
può affatto giungere a esprimerlo. Dato che il deittico
è l’elemento che definisce le coordinate spaziali e temporali di qualcosa in relazione al parlante, il “questo” si
declina come qui e ora. Alla domanda “che cos’è ora”
la certezza sensibile risponderà, se è notte, che è notte,
ma, quando si è fatto giorno, “ora è notte” non è più
vero, e anzi quel che è vero è che “adesso non è notte”,
o che “adesso non è giorno” (cfr. GW IX, p. 64; p. 71);
l’adesso, come il qui, rispetto a questo o quel momento
lì, è una misura negativa, ed in generale è un universale
che in questa negatività si mantiene: “anche il sensibile
lo enunciamo (aussprechen) come un universale” (ivi, p.
65; p. 72).
Stante il ruolo mediano occupato dalla parola, che
oscilla tra l’idea e il suo exemplum concreto, tutto questo
significa che l’enunciazione sembra modificare l’orientamento del movimento conoscitivo. Di ciò il testo presenta un’indicazione quando dice che una vera sinnliche
Senso e sensibile · Prospettive tra estetica e filosofia del linguaggio
Gewißheit non è pura immediatezza, ma Beyspiel, exemplum di essa. Quel che alla balbettante certezza sensibile
pare una malia, ciò per cui le è impossibile di dire quel
che meynt, è in verità l’esito del dispositivo dell’enunciazione, che dissolve l’esilissima, pressoché inesistente
trama dell’immediatezza nello sfalsarsi delle due dimensioni dell’exemplum e del rimando all’idea universale. L’enunciazione del «questo è» produce dunque lo
sdoppiamento di ciò che viene nominato e la smaterializzazione della massa altrimenti impenetrabile dell’essere, laddove il dispositivo che dissolve l’immediato
facendone qualcosa che rimanda ad altro, facendone
l’exemplum che rimanda all’universale, non è che il formidabile dispositivo del pensiero.
Se l’enunciazione fa di una cosa l’exemplum che rimanda all’idea, il movimento promosso dall’enunciazione è
dunque antitetico rispetto a quello che intendeva fare la
Meynung della certezza sensibile, cioè catturare l’oggetto
registrandone la mera presenza. Sembra dunque che
il potere della parola di invertire (verkehren) l’intenzione
mentale sia quello di convertire una certa presenza in
una certa assenza.
La certezza sensibile, tuttavia, non è in grado di serbare il ricordo di questa sorprendente conversione.
Limitandosi a balbettare che questo è, il suo idiotismo
sembra soffrire anche di un difetto di memoria (cfr.
Kobau 1990). Essa si ammala di oblio e ricomincia
sempre daccapo, tenendosi ai margini di quella storia
che sembra essere cominciata solo quando è venuta la
parola.
2. Ora, per cercare di capire il significato dell’operazione effettuata dal linguaggio, ovvero la conversione di
una certa presenza in una certa assenza, vorrei rifarmi
alla trattazione fenomenologica del rapporto tra il soggetto e l’oggetto nello spirito etico.
È noto che, nella Fenomenologia, Hegel mutua dalla tragedia attica per illustrare la dialettica dell’edificio etico
immediato. Ed è noto che il deflagrare del movimento
tragico è dato dall’incontro tra il soggetto come pathos
unilaterale e la scissione interna che mina l’eticità immediata, quella tra legge umana e legge divina - da cui
la contrapposizione insanabile tra Creonte e Antigone.
In questo contesto, però, ciò che mi interessa è la valenza gnoseologica della sezione, ciò per cui l’unilateralità
del soggetto è riconducibile al suo modo di percepire
l’oggetto, cioè la sua sittliche Gesinnung7. In questo senso
la modalità in cui il soggetto etico percepisce la sostanza
spirituale nella sua immediatezza è ex professo analoga
al modo che contraddistingue la certezza sensibile, solo
nell’ordine dello spirituale. Non sarà un caso se il risultato dell’agire del soggetto etico è connotato propriamente da Hegel come un enunciare (aussprechen)8.
Ora, cosa accomuna, a una prima approssimazione,
questi due tipi di certezza? Il fatto che il soggetto riconosce il proprio oggetto solo in termini di essere. La relazione tra la legge e l’autocoscienza, infatti, si sostanzia
in questa unica consapevolezza, cioè che le leggi sono.
Dell’elemento etico il soggetto si limita a dire che questo
è giusto e buono, ed escusso più a fondo si limita a dire
che questo è.
Considerata nel suo puro essere, la sostanza spirituale
costituisce, nella sua sussistenza, un “mondo immacolato” (GW IX, p. 250; p. 306): “agli occhi di questa coscienza, l’essenzialità etica costituisce l’immediato, che
non vacilla ed è esente da contraddizione” (ivi, p. 251;
p. 307). Non casualmente, in una sezione precedente,
Hegel dice che questo mondo immacolato e privo di
spaccature può essere concepito sia come una sorta di
Eden originale ormai perso, sia come la determinazione finale, ancora da raggiungere (cfr., ivi, pp. 195-196;
pp. 240-241). Lo spirito, infatti, nel suo immediato essere, costituisce “il fondamento (il Grund), il punto di
partenza inconcusso e indissolubile del fare di tutti” ma
anche, al contempo, “lo scopo e la meta” (ivi p. 239; p.
292). Ma questo mondo può conservarsi senza macchia
solo finché non succede niente. Nella misura in cui la
sostanza etica, nella sua esistenza immediata, custodisce un cuore di essere ancora inconcusso, l’azione, non
appena si verifica, rivolta l’edificio etico come un guanto sventrandone l’immediatezza, così che le due leggi,
le due parti dell’edificio etico, una volta manifestatesi
entrambe per via dell’azione, non sopportando la coesistenza, finiscono per giacere esangui l’una accanto
all’altra.
Ripercorrendo brevemente la sezione, bisogna sottolineare che Hegel, nel capitolo VII “La religione”, chiosa la storia di questo dissolvimento dicendo che, sulle
rovine dell’eticità, si stende la cortina buia del destino
onnipotente e che “il movimento del fare”, ossia l’azione tragica, nel mostrare suo malgrado l’unità delle due
leggi nel loro reciproco declinare, consegna le potenze
etiche all’oblio (cfr., ivi, p. 396; p. 485).
3. Se ho accostato la vicenda della certezza sensibile a
quella tragica della sittliche Gesinnung è per valorizzarne
la prossimità e per riflettere sull’analogia funzionale tra
l’enunciazione, rispetto alla prima, e l’azione, rispetto alla seconda (cfr. Wohlfahrt 1981, p. 161). Come la
certezza sensibile intendeva catturare l’immediatezza
dell’oggetto dicendone l’essere, ma proprio dicendolo
finiva per dissolverlo, così la certezza sensibile spirituale, credendo, con la propria azione, di verificare l’essere
della sostanza, finisce invece per portarla al suo declino9. Se il movimento della seconda è passibile - nella
struttura spiraliforme della Fenomenologia che riprende il
problema dell’immediatezza nell’ordine dello spirituale - di fungere da modello che ci consente di pensare
l’articolazione ulteriore di quello della prima, è forse
lecito ipotizzare che la riflessione sull’effetto prodotto
dall’azione ci permetta di precisare la natura dell’effetto prodotto dall’enunciazione. Del resto l’analogia tra
il comportamento dell’una è dell’altra è strutturale. La
sittliche Gesinnung, infatti, gesinnt l’oggetto, là dove nella
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Grundbeutung di Gesinnen c’è il significato di visieren, ricalcato, secondo il lessico dei fratelli Grimm (Bd. 5, Sp.
4118), sul francese viser, latino visum, che significa scharf
ins Auge fassen, nach etwas zielen, cioè prendere di mira
l’oggetto come scopo – non casualmente la sostanza etica, nella sua immediatezza, è Ziel e Zweck del soggetto.
Se, da una parte, questo ci suggerisce che la vicenda dello spirito è innanzitutto storia, come altresì Hegel dice
della sostanza spirituale immediata, di un Untergang, di
una disfatta, tale lettura può trovare conforto anche a
partire dal senso dell’incipit della Scienza della logica, che
comincia con una proposizione nominale: “essere, puro
essere – senza nessun’altra determinazione” (GW XI,
p. 43; p. 70). Dopo aver mostrato, in un modo che si
oppone del tutto alla Meynung seconda la quale l’immediatezza dell’essere ne è la pienezza, che quest’essere
non è nulla e dunque è nulla, col che si apre la determinazione del divenire, l’essere determinato (Daseyn)
frutto della mediazione “appare però quale un primo”
(ivi, p. 59; p. 103). Sebbene quell’essere indeterminato,
mero nome privo di riferimento (cfr. Simon 1974, pp.
42-46), costituisca l’inizio, esso non può tuttavia essere
un dato originario, perché come tale si toglie immediatamente per farsi essere divenuto, gewordenseyn privo di
consistenza e sussistenza10. Il fatto che il Daseyn appaia
“quale un primo” significa chiaramente che l’assolutezza dell’inizio nell’essere indeterminato è anche il suo
essere ab-soluta in un modo che esaurisce solo il versante
astratto dell’absolutus, cioè irrimediabilmente scissa da
tutto il resto. Il che non vuol dire altro se non che l’essere immediato è andato perso fin da subito, e che ad esso
non si può fare ritorno (cfr. Spieker 2009, p. 99).
Se questo spiega come mai l’esistenza spirituale immediata deve naufragare per levarsi in quanto mero essere immediato, ci rende anche ragione di come mai
l’immediatezza che aveva in mente la certezza sensibile fosse ineffabile: essa è un dato originario di natura
mitica perso da sempre, che nessuna parola potrà mai
recuperare. Essa non coincide con nient’altro che con
il mito del dato.
Se, nella Fenomenologia, è proprio l’enunciazione ciò che
porta l’essere alla sua mediazione, la parola è al contempo anche ciò che permette di elaborare una perdita
originaria e di ricomporne la storia come una sorta di
Trauerarbeit. Di ciò ci dà un’indicazione il comune riferimento della vicenda della certezza sensibile e della
certezza sensibile spirituale all’elemento dell’oblio (cfr.
Spieker 2009, p. 103). Solo che mentre l’oblio di cui
soffre la certezza sensibile è una sorta di amnesia che la
preserva dalla conversione cui la obbligherebbe la parola, l’oblio cui mette capo la certezza sensibile spirituale
può invece essere concepito come un antidoto che le
impedisce di ricadere nell’atteggiamento della certezza
sensibile tout-court. Solo un supplemento di dimenticanza, infatti, sembra consentire al soggetto etico di effettuare quella conversione, promossa dalla parola, di una
certa presenza in una certa assenza. L’immediatezza
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perduta da sempre, infatti, è passibile di essere ricomposta ma solo in quanto mediata, ovvero è passibile
di essere ricordata11. La parola del ricordo non potrà
tuttavia essere concepita come un riavvicinamento alla
cruda sensibilità del dato, il cui duro e bruto essere si è
rivelato tragicamente fragile, ma come un irreversibile allontanamento dall’origine, cioè da quel dato che è
mito. Il giro di boa messo a segno dalla certezza sensibile spirituale è non casualmente oggetto della tragedia, il
cui linguaggio è per Hegel quello più elevato.
Prima di chiudere, interroghiamoci su un ultimo snodo. Se il movimento dell’enunciazione, che dissolve la
datità del dato, promuove il passaggio dall’ordine muto
dell’immediatezza all’ordine del senso, cosa ne è infine
del sensibile e del movimento del linguaggio, che avevamo detto essere duplice? Per provare a fornire un’indicazione vorrei segnalare un indizio che possiamo ricavare da una suggestione linguistica.
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4. Nel secondo libro della Logica Hegel introduce la dottrina dell’essenza riflettendo sull’etimologia della parola Wesen, ovvero essenza. Nel termine Wesen è inscritto
che l’essenza, destinata ad apparire e a poter essere
enunciata, è la verità dell’essere: Wesen, infatti, viene dal
participio passato del verbo essere, Sein, che fa gewesen.
In altre parole, l’essenza, il Wesen, è la verità dell’essere
nella misura in cui ne rivela la dimensione costitutiva,
cioè che l’essere è già da sempre essere-stato. Ora, nel
corpus hegeliano, compare la parola Beywesen che, nella
sua prossimità a Wesen e gewesen, sembra dare luogo a
una sequenza significativa. Il termine, di cui non possiamo qui elencare le diverse occorrenze12, sembra in
generale designare ciò che spicca nella parvenza delle
cose, nel loro involucro materiale, ma che in verità è
estrinseco alla loro essenza, e che perciò gioca un ruolo
insignificante. L’elemento che dà da riflettere, però, è il
significato della parola Beywesen per come ce lo riporta il lessico dei fratelli Grimm. Nel tedesco di Lutero
Beiwesen13 indica qualcosa di analogo al latino praesentia, ed è dunque l’equivalente del tedesco Anwesenheit,
Gegenwart. Successivamente, invece, il termine va a designare un significato quasi antitetico, assumendo la
valenza di parergon, un’esistenza collaterale, accessoria,
posticcia. Se, in virtù dell’evoluzione storica del suo
significato, Beywesen sembra rientrare nel novero delle
parole che Hegel definiva “speculative”, quelle parole
che veicolano significati contrapposti, è lecito ipotizzare
che questo termine, in sequenza con Wesen e gewesen,
nasconda in sé un’indicazione di lettura dell’alterazione subita dallo statuto del sensibile nel corso dell’enunciazione, che trasforma una certa presenza, il Beywesen
come praesentia, in una certa assenza, il Beywesen come
Nebensache, un’esistenza collaterale e secondaria che
reca tuttavia in sé le tracce di ciò che è gewesen e che è
passato per sempre.
L’incancellabile duplicità del termine sembra suggerire
come il movimento della parola possa trasformare l’essere fragile e ineffabile dell’immediatezza nella presen-
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za di un’assenza, exemplum sensibile passibile di rimandare all’ordine del senso in un movimento di andata e
ritorno. Si tratterebbe a questo punto di domandarci,
tuttavia, se e come questa circolarità attivata dal plus
della parola, cioè una circolarità che si produce storicamente e che conferisce spessore o consistenza mnestica
alle cose facendone degli eventi, possa istituire anche
una sorta di double bind tra l’elemento storico e la sua
ricostruzione discorsiva.
Note
1 Campione di questa lettura è Derrida, al quale sembra
che, in Hegel, il linguaggio sia una sorta di male necessario,
valevole solo in un processo di ascesi in cui il segno, nella sua
naturalità, deve eclissarsi completamento in vista della trasparenza del senso (cfr. Derrida 1970, pp. 41 e sgg. in particolare). Per una problematizzazione dell’impostazione della questione nel quadro sistematico e la sua differenziazione dalla
Fenomenologia, si rimanda al primo capitolo di Garelli (2010).
2 Di contro a una lettura “continuista” come quella di Th.
Bodammer (1969), il quale, passando in rassegna tutti i luoghi
hegeliani in cui ricorre una riflessione sul linguaggio (dagli
scritti jenesi fino all’Enciclopedia), giustifica le differenze tra le
trattazioni a partire dalla plurivocità e inesauribilità del linguaggio, che verrebbero valorizzate dai diversi contesti, un
interprete come J.P. Surber rileva una drammatica frattura
d’intenti tra la riflessione sul linguaggio dell’Enciclopedia e
quella sviluppata negli scritti precedenti (cfr. Surber 2011, p.
257).
3 Non sarà un caso, in tal senso, se A. Nuzzo (2012, p.
98) commenta il passaggio hegeliano dicendo che in questo
spazio vuoto, in cui i nomi hanno perso il loro contenuto rappresentativo, si profila una forma puramente logica indistinguibile dalla pura forma del pensiero. Per quanto anche tale
questione sia, alla luce della letteratura critica, poco meno
che controversa, ci sembra che la trattazione hegeliana della
proposizione speculativa, nella prefazione all’opera del 1807,
sia esemplificativa di questa differenza nella considerazione
e valorizzazione del linguaggio tra la Fenomenologia e l’Enciclopedia. Stando a un interprete acuto e tuttavia fedele alla
lettera come W. Marx (1967), se da una parte la proposizione,
speculativamente intesa, è il luogo in cui il concetto costringe
la forma rappresentativa e perciò inadeguata della parola a
funzionare filosoficamente, è d’altronde proprio il carattere
estetico dell’Ausdruck ad essere necessario alla Darstellung speculativa, e dunque ad essa essenziale proprio in virtù del suo
proprio, autonomo limite (cfr., ivi, pp. 32-33).
4 Dopo il punto e virgola si segnala sempre anche il numero di pagina delle traduzioni di riferimento, che nel caso
saranno le seguenti: Lezioni di filosofia della religione, a cura
di Garaventa, R., Achella, S., Guida, Napoli 2008-; La fenomenologia dello spirito, trad. it. e cura di Garelli, G., Einaudi,
Torino 2008; La scienza della logica, trad. it. di A. Moni, revisione di C. Cesa (1968), Laterza, Roma-Bari 2008.
5 Come viene detto nella Fenomenologia, “l’essenza semplice ed eterna, qualora rimanesse ferma alla rappresentazione
e all’espressione di tale essenza semplice ed eterna, sarebbe
spirito soltanto nel senso della vuota parola” (GW IX, p 410;
p. 502).
6 In tal senso, come nota K. Düsing (1973), il regno della
sensibilità è precluso alla coscienza perché la conoscenza sensibile comincia solo con la percezione, mentre il mondo del
concreto funge qui da mero esempio.
7 L’espressione compare, principalmente, nel sesto capitolo
della Fenomenologia, paragrafo b) L’azione etica, il sapere umano e il sapere divino, la colpa e il destino (p. 256; p. 312) e alla
fine della sezione c) Ragione esaminatrice di leggi del capitolo
quinto (p. 236; p. 289).
8 “Das Handeln spricht gerade die Einheit der Wirklichkeit
und der Substanz aus, es spricht aus, daß […]” (ivi, p. 255; p.
312) (corsivo nostro). L’inscrizione dell’agire etico nel dominio dell’enunciazione può essere confortata anche dal fatto
che, nella sezione B. L’effettuazione dell’autocoscienza razionale
(cap. V), in cui l’eticità compare per la prima volta, l’unità
etica immediata viene definita come ciò in cui si parla il linguaggio universale della legge (cfr. p. 195; p. 239).
9 Tale analogia funzionale è suggerita anche da un luogo
del quinto capitolo del testo, in cui Hegel parla della prossimità tra linguaggio e lavoro (cfr., ivi, p. 209). Sull’indicativa
paradossalità, in generale, di una certezza sensibile che è al
contempo spirituale, si vedano anche le osservazioni di H.S.
Harris (1997, pp. 159 e sgg.), in cui viene sottolineato come
l’intera sezione sullo spirito vero possa essere letta come la
vicenda di una consapevolezza la cui natura è fondamentalmente estetica.
10 Con ciò è altrimenti dimostrabile, inoltre, che il discorso
sull’essere che apre la Scienza della logica è lungi dall’essere di
natura ontologica. Come dice L. Eley (1976, p. 43), l’incipit
hegeliano impedisce l’accesso all’ontologia come discorso che
fonda la primarietà dell’essere nel momento stesso in cui fa
dell’essere un mero nome.
11 Del resto che la parola divenga il tramite grazie al quale l’Erinnerung prende corpo nella memoria è un esito insito
nello stesso percorso linguistico del religioso, in cui l’inno,
contrapponendosi unilateralmente al carattere cosale della
statua, esprimeva ancora l’aspetto soltanto dileguante della
temporalità, cioè il tempo astratto che “quando c’è, immediatamente non c’è più” (p. 382; p. 468).
12 Il termine ricorre in questo senso, innanzitutto, ne Lo
spirito del cristianesimo e il suo destino, (cfr. W I, p. 377), in
cui, per quello che vale la pena sottolineare, i termini Wesen e
Beiwesen si susseguono nella loro antitesi e insieme nella loro
remota appartenenza per definire il processo cui va incontro
l’immagine del Cristo in quanto risorto, tra trasfigurazione e
oggettivazione (cfr., ivi, p. 408).
13 In questa occorrenza riportiamo il lemma secondo la
grafia con cui si trova nel lessico dei Grimm, diversamente dal
modo in cui esso ricorre nel corpus dei Gesammelte Werke, cui
noi abbiamo fatto riferimento costante in questo contributo,
fedele al tedesco di Hegel che presenta la grafia più arcaica
(la y al posto della i, come anche in Meynung, Beyspiel etc.).
Da segnalare che, al contrario, i Werke in zwanzig Bänden,
cui facciamo riferimento nella nota precedente, riportano i
lemmi interessati nella grafia tedesca corrente.
e della Deutsche Forschungsgemeinschaft, Meiner,
Hamburg.
G.W.F. Hegel, 1970, Werke in zwanzig Bänden (=W) , a cura
di Moldenhauer, E., Michel, K.M., Suhrkamp, Frankfurt
a.M.
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Religion (=VR), in Vorlesungen. Ausgewählte Nachschriften
und Manuskripte, vol. 3/I-III, a cura di Jaeschke, W.,
Felix Meiner Verlag, Hamburg.
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L’Aia.
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Düsing, K., 1973, Die Bedeutung des antiken Skeptizismus
für Hegels Kritik der sinnlichen Gewissheit, in "HegelStudien", Bd 8, pp. 119-130.
Eley, L., 1976, Hegels Wissenschaft der Logik. Leitfaden und
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ISSN (print): 1973-2716
© 2013 AISS - Associazione Italiana di Studi Semiotici
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