newsletter - Benvenuto

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NUMERO 46 - LUGLIO 2010
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SOCIETÀ
ITALIANA
DEGLI
STORICI
ECONOMICI
GIORNATA DI STUDIO SISE
“ISTITUZIONI ED ECONOMIA”
TRENTO, 12-13 NOVEMBRE 2010
IL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA
DELL’UNIVERSITÀ DI TRENTO
E LA RICERCA STORICO-ECONOMICA
Il Convegno di Studi SISE autunnale sul tema Istituzioni ed Economia si svolgerà il 12-13 novembre 2010 a Trento
presso la Facoltà di Economia in via Inama, 5. I lavori
avranno inizio il 12 novembre 2010 alle ore 15 con i saluti
delle autorità accademiche e la relazione introduttiva di
GIORGIO FODOR (Università di Trento), seguirà la sessione
dedicata a Istituzioni e territorio, articolata attraverso le
relazioni di ANDREA LEONARDI (Università di Trento) su Istituzioni autonomistiche e sviluppo territoriale; di ALBERTO
GUENZI (Università di Parma), su Istituzioni intermedie e
sviluppo locale; di GIOVANNI FEDERICO (Università di Pisa)
su Istituzioni fiscali e sviluppo economico dell’Italia
preunitaria e di GIORGIO BORELLI (Università di Verona) su
Istituzioni centrali e governo dell’economia nel periodo
postunitario. Seguirà la discussione.
Sabato 13 novembre il convegno riprenderà alle ore 9,30
con la sessione Regole e mercati. Sono previste le relazioni
di VITO PIERGIOVANNI (Università di Genova) su Dai Tribunali di mercanzia alle Camere di Commercio; di ALFREDO
GIGLIOBIANCO (Banca d’Italia) su Banca d’Italia e politica
economica: un profilo storico; di AMEDEO LEPORE (Università di Bari) su Cassa del Mezzogiorno e politiche per lo sviluppo e di GIUSEPPE CONTI (Università di Pisa) su Istituzioni finanziarie e mercato mobiliare. Seguiranno la discussione e le conclusioni.
Il Dipartimento di Economia è stato costituito nel 1974,
in concomitanza con la fondazione della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Trento. Esso ha dalle
origini la caratteristica di riunire al proprio interno docenti di più Facoltà (Economia, Sociologia, Giurisprudenza e Ingegneria), e competenze interdisciplinari che vanno
dall’Economia in senso stretto, all’ Economia agraria, alla
Storia economica e alla Statistica economica.
La ricerca di carattere storico-economico, condotta da un
professore ordinario – Andrea Leonardi – e due ricercatori –
Andrea Bonoldi e Cinzia Lorandini – nell’ambito del Dipartimento di Economia, pur spaziando lungo varie direttrici,
si è focalizzata prevalentemente attorno al tema della definizione dei paradigmi economici propri dell’area alpina in
età moderna e contemporanea. Filo conduttore è stato quello dell’individuazione delle linee-guida capaci di spiegare le
caratteristiche delle trasformazioni economiche intervenute nelle varie realtà della montagna alpina nel corso degli
ultimi secoli, fino a spiegare le diverse traiettorie dello sviluppo seguite da queste regioni in rapporto con il processo
di industrializzazione in atto nelle aree che tanto a Nord,
quanto a Sud erano profondamente interrelate con i territori di montagna.
L’analisi effettuata su un contesto territoriale, che tra
il XVII secolo e il 1919 ha conosciuto profondi mutamenti
nel proprio assetto istituzionale, ha inteso soffermarsi ad
individuare come fino ad oggi siano state valutate le
Avviamo da questo numero una ricognizione sulla ricerca storica-economica nei vari Dipartimenti universitari in cui sono attivi docenti e ricercatori della disciplina, iniziando dal Dipartimento di Economia dell’Università di Trento che organizza assieme alla SISE il prossimo convegno su “Istituzioni ed Economia”.
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Attività SISE
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Conferenze e convegni
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Eventi
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interrelazioni, di ordine tanto economico quanto culturale, che hanno reso possibile un processo di crescita economica complesso ed articolato. Partendo dagli stimoli offerti dai più recenti lavori maturati nel contesto internazionale, si è indirizzata la ricerca verso il superamento di una
serie di stereotipi, vecchi o nuovi che fossero, per produrre
uno sforzo di sintesi in grado di offrire una nuova chiave
di lettura di uno sviluppo diversificato dell’area alpina.
Attraverso l’indagine su casi specifici, si sono considerate le modalità di formazione di aree economiche più o
meno specializzate in determinati settori e si sono indagati gli ambiti relazionali, fino a rilevare alcuni precisi indicatori dello sviluppo. Si è poi approfondita l’influenza esercitata dalla mobilità del lavoro, ma anche di quella professionale, individuandola come possibile espressione di una
mobilità imprenditoriale, collegata all’esistenza di
insediamenti manifatturieri o turistici, così come a quella
di un importante apparato di circolazione delle informazioni, con significative ricadute di carattere economico. Se
tali elementi sono stati individuati come variabili importanti dello sviluppo spontaneo, altri fattori sono stati messi in luce nel contesto del cosiddetto sviluppo assistito. E’
stata così indagata la diseguale efficacia delle misure di
politica economica, verificando come di fronte ad iniziative poste in essere dalle istituzioni pubbliche per
riequilibrare il divario tra aree forti ed aree deboli, si siano verificate risposte diversificate. Specifica attenzione è
stata dedicata all’individuazione di una vera a propria rete
di rapporti che, nonostante il mutare dell’assetto istituzionale e lo spostamento dei confini, ha saputo influenzare la traiettoria della modernizzazione della montagna
alpina, fino ad indirizzarla verso lo sviluppo industriale.
Il gruppo di ricerca si è però anche occupato di alcuni
particolari aspetti della storia finanziaria dell’Italia nel secolo XX, svolgendo una serie di ricerche in particolare presso l’Archivio storico della Banca d’Italia a Roma. Le indagini in questo campo si sono rivolte prevalentemente verso
due distinti ambiti. Per un verso si sono infatti indirizzate a
cogliere le caratteristiche operative del credito cooperativo
dal momento dell’esordio delle Casse sociali di credito nel
contesto tedesco di metà Ottocento, fino ai giorni nostri, procedendo anche all’esame di diversi casi aziendali. Per altro
verso si sono finalizzate ad individuare il ruolo degli istituti
di credito speciali operanti in Italia, soprattutto nel periodo
successivo al secondo conflitto mondiale.
Una parte della ricerca si è pure indirizzata a ricostruire la rilevanza economica dell’espandersi del fenomeno turistico, specie nel contesto della montagna alpina europea.
Si è in particolare studiata l’interazione tra domanda e offerta in campo turistico, sottolineando il ruolo assunto in
questo settore da un’imprenditorialità di diversa origine.
Recentemente all’interno del Dipartimento di Economia il gruppo di Storia economica si è anche impegnato su
temi propri della Business History. Si sta infatti percor-
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rendo un filone di indagine - inserito in programmi di ricerca di interesse nazionale e internazionale - mirato ad
individuare il ruolo specifico di una particolare tipologia
di impresa, vale a dire quella costituita dalle istituzioni di
intermediazione finanziaria e creditizia, di fronte alle alterne vicende dell’economia italiana ed europea tra XIX e
XX secolo. Un ulteriore settore di ricerca in cui il gruppo
risulta impegnato, è finalizzato a cogliere la dinamica imprenditoriale nell’attivare nuovi percorsi di innovazione
tecnologica, soprattutto nel campo dell’approvvigionamento energetico ed in quello della modernizzazione delle infrastrutture di comunicazione.
Grazie alla costante collaborazione scientifica con
l’Institut für Wirtschaftsgeschichte della Wirtschaftsuniversität di Vienna, nonché con l’Institut für Wirtschaftsund Sozialgeschichte della Sozial- und Wirtschaftswissenschaftliche Fakultät dell’Università di Innsbruck e
con il Dipartimento di Storia della società e delle istituzioni dell’Università degli Studi di Milano, il gruppo degli
storici economici del Dipartimento di Economia ha organizzato, a partire dal 1994, con il coordinamento scientifico di Andrea Leonardi, un Seminario permanente sulla
storia dell’economia e dell’imprenditorialità nelle Alpi, di
cui si sono finora tenute 10 sessioni di lavoro. In tale Seminario sono coinvolti numerosi studiosi di Storia economica, italiani, svizzeri, francesi, tedeschi e austriaci. Esso
è diventato palestra di confronto tra studiosi che, utilizzando gli strumenti analitici proposti dalla metodologia
storico-economica, rivolgono i propri studi prevalentemente
a quella macro-area in cui si vivono popoli e culture diverse e si compenetrano situazioni economiche che ben si prestano ad analisi di carattere comparativo.
I componenti del gruppo di storia economica hanno
preso parte, in qualità di relatori, a numerosi convegni
scientifici soprattutto di rilevanza internazionale, seguendo
con particolare attenzione gli studi storico-economici nell’area di lingua tedesca. In diversi casi hanno direttamente organizzato convegni scientifici di rilevanza internazionale. A coronamento delle ricerche, svolte con metodologia
di carattere scientifico, hanno prodotto numerose pubblicazioni, sia sotto forma di volumi monografici, che di saggi, apparsi in opere miscellanee e su riviste storiche ed
economiche in Italia, Austria, Germania, Svizzera, Francia, Gran Bretagna e Spagna.
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CONFERENZE E CONVEGNI
Convegno internazionale di Studi: Autour de la
manufacture Balsan. Châteauroux et les cités lanières
d’Europe, Châteauroux (Indre), 5 maggio 2010.
Organizzato dal Centre d’Etudes Supérieures che fa
capo all’Università d’Orléans, in partenariato con altri soggetti pubblici e privati, il 5 maggio 2010 si è tenuto a
Châteauroux (Indre) un convegno internazionale di studi
dedicato all’evoluzione della grande manifattura Balsan
nel quadro della storia del lanificio europeo. Situata al centro di una importante regione laniera francese, la città di
Châteauroux ha assunto,
nel corso della sua evoluzione urbana, il carattere
di una vera e propria villeusine di pari passo con
l’espansione dell’antica
manufacture du Parc, creata dall’intendente delle finanze Trudaine nel 1751
ed acquisita nel 1856 da
Pierre Balsan, che la fece
rinascere e sviluppare fino
a coprire più di 60 mila mq
ad ovest della città. Nel sito
in cui si conserva tuttora
gran parte delle strutture
industriali dismesse oramai da qualche decennio ed attualmente in corso di
recupero e ristrut-turazione. Conosciuto come uno dei complessi industriali più moderni della Francia, lo stabilimento
Balsan ha marcato l’esistenza di numerose generazioni di
castelroussins divenendo un elemento centrale nel patrimonio storico e sociale della città, spazio di una memoria
collettiva ancora viva ed operante nei saperi tecnico-produttivi sedimentati e insieme luogo di innovazione e
modernizzazione urbana basate sulle nuove industrie di
punta e su un’economia della conoscenza sviluppata attraverso uno stretto raccordo tra università, imprese e istituzioni. Il convegno celebrava anche il primo decennale
dell’esposizione “Le città della lana in Europa”, concepita
ed organizzata da GIOVANNI LUIGI FONTANA (Università di
Padova) e GÉRARD GAYOT (Université Lille3), di cui Fontana ha tracciato, in apertura dei lavori, un commosso ricordo a poco più di un anno dalla scomparsa. La mostra, arricchitasi nel corso del tempo e riproposta in occasione del
convegno presso diverse strutture della città, è giunta a
sua volta alla decima presentazione in altrettante “capitali” dell’industria laniera europea ed ha in programma numerose altre riedizioni in diversi paesi del vecchio continente.
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La prima mezza giornata del convegno è stata aperta e
presieduta da GIOVANNI LUIGI FONTANA (Università di Padova), che, dopo l’omaggio a GÉRARD GAYOT, ha introdotto il
tema L’industrie lainière et son territoire, sul quale – dopo
i saluti d’apertura di Y OUSSOUFI TOURÉ, Presidente de
l’Université d’Orléans, di ALAIN DAVESNE, Doyen de l’UFR
Lettres, Langues, et Sciences humaines, e di JEAN-FRANÇOIS
MAYET, Sénateur-Maire de Châteauroux – sono intervenuti, in successione, JEAN-FRANÇOIS BELHOSTE (EPHE, Paris I)
su Manufactures de drap du XVIIIe siècle: un patrimoine
varié encore à découvrir; GUILLAUME WROBLEWSKI (Université
de Valenciennes) su Les destinées divergentes des territoires
manufacturiers de Reims et d’Amiens; CHRISTINE MÉRYBARNABÉ (CILAC) su Manufacture royale et manufacture
Balsan, un patrimoine industriel longtemps malmené; ALAIN
B ECCHIA (Université de Savoie) su L’industrie textile
d’Elbeuf (de la seconde moitié du
XVIII e à
la
première moitié du
XIX e siècle). Agli
interventi dei
relatori è seguito
un vivace ed interessante dibattito
con il folto pubblico presente in
sala.
La sessione pomeridiana, dedicata a Le monde lainier:
une société interdipendente e presieduta da ALAIN BECCHIA
(Université de Savoie), ha visto le relazioni di JEAN-MICHEL
MINOVEZ (Université de Toulouse) su La naissance de la
figure de l’entrepreneur dans la draperie du Midi; di JEANPIERRE SURRAULT (CREDI) su Les ouvriers de la manufacture
du Parc à Châteauroux (vers 1780 - vers 1820); di SAMUEL
GUICHETEAU (CERCHIO) su La laine et ses ouvriers à Nantes
à la fin du XVIIIe siècle e di GIOVANNI LUIGI FONTANA su
Patrons et ouvriers dans l’industrie lainière italienne à
l’aube du XXe siècle.
Al dibattito finale e alla chiusura dei lavori è seguita
la visita all’area degli stabilimenti Balsan e alla mostra
sulle città laniere d’Europa.
Convegno di Studi: Merci, mercati, mercanti. Prospettive di Storia Globale, Padova, 13 maggio 2010.
Organizzato e coordinato da GIOVANNI LUIGI FONTANA e
CARLO FUMIAN (Università di Padova), si è tenuto a Padova
il 13 maggio 2010, nell’ambito delle iniziative organizzate
dalla Scuola di Dottorato in Scienze storiche, il Convegno
di Studi Merci, mercati, mercanti. Prospettive di Storia Globale. CARLO FUMIAN (Università di Padova) ha tracciato il
percorso che ha portato la Global History ad affermarsi
come una delle correnti più innovative e promettenti nel
campo delle discipline storiche, delineandone le origini e
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le più recenti tendenze. Si è quindi soffermato sui diversi
possibili approcci ad una visione globale della storia dell’umanità, dalla storia comparativa alla World History sino
alla Global History, intesa come storia della circolazione
di uomini, merci e capitali su scala internazionale, delle
azioni e reazioni prodotte dai contatti tra civiltà diverse,
vicine e lontane, richiamando infine alcuni tra i contributi
più recenti, innovativi e stimolanti nel settore. CLAUDIO
ZANIER (Università di Pisa) ha preso spunto dall’esperienza dell’insegnamento del corso di Storia dell’Asia orientale che tiene da anni presso l’Ateneo pisano, per sottolineare come ancor oggi manuali e libri di testo universitari
restino legati ad una prospettiva eurocentrica e riservino
uno spazio tutto sommato assai ridotto alla storia dei paesi e delle civiltà extraeuropee. Ciò pone seri limiti alla possibilità di approfondire lo studio di questi paesi anche all’interno di insegnamenti specialistici, in quanto gli studenti mancano delle conoscenze di base necessarie per affrontare lo studio di queste realtà e quindi buona parte
del corso deve essere dedicata alla trasmissione di nozioni
di base. In questo modo il potenziale offerto dalla storia
dell’Asia orientale per analisi comparative di vasta portata viene di fatto mortificato, quando invece lo studio approfondito della storia della Cina e del Giappone mette in
luce differenze ed analogie con lo sviluppo europeo che
possono fornire materia per feconde analisi e riflessioni:
basti pensare al ruolo delle forme di riproduzione dei ceti
dirigenti in Europa e in Cina nel corso dell’età moderna,
alla comparazione tra i livelli di sviluppo e la struttura
delle economie europee ed orientali tra XVI e XIX secolo.
MICHELE BERNARDINI (Istituto Orientale di Napoli) ha
presentato il punto di vista di un orientalista sull’affermazione della Global History, constatando come i nuovi
approcci abbiamo allargato le prospettive di una disciplina assai specialistica, contribuendo a indebolire le barriere che dividevano settori diversi, definiti in primo luogo
sulla base delle competenze linguistiche, e favorendo la
circolazione e lo scambio di informazioni e di idee tra
esperti di diversa formazione. In vari campi gli studi comparati hanno avuto il merito di mettere in crisi interpretazioni consolidate, ma spesso discordanti, nelle diverse
discipline. Un caso emblematico, in questo senso, è rappresentato dagli studi sulla prima espansione dell’Islam
in Asia, all’interno dei quali l’irrompere delle suggestioni della Global History ha fatto si che venissero poste
alle fonti nuove domande, portando ad una rilettura critica dell’apparente uniformità nello spazio e nelle sue
articolazioni sociali dell’islamizzazione religiosa e politica.
I lavori sono proseguiti nel pomeriggio con la presentazione e la discussione di alcune recenti pubblicazioni nel
campo della Global History. GIORGIO RIELLO (Global History
and Culture Centre, Warwick University) ha illustrato il
lungo processo di ricerca, di discussione e di confronto tra
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studiosi attivi in diversi continenti che si è svolto nell’ambito del progetto Global Economic History Network (GEHN)
e con il sostegno del Leverhulme Fund, e che si è tradotto
nella redazione di due volumi miscellanei dedicati alla storia globale del cotone e alla manifattura e commercio dei
tessuti di cotone indiano. Attraverso un percorso veramente
globale, articolato in tredici seminari internazionali tenuti in diversi punti del mondo, da Puna in India ad Aix-enProvence e a Padova, studiosi di paesi diversi hanno avuto
la possibilità di mettere a confronto i risultati delle loro
ricerche sui diversi aspetti, dalla produzione al commercio e al consumo, della storia di una delle principali fibre
tessili. Ne sono derivati due volumi che affrontano il tema
con prospettive e orizzonti diversi: il primo, a cura di Giorgio Riello e Prasannan Parthasarathi, The spinning world:
a global history of cotton textiles, 1200-1850 (Oxford, 2009),
adotta un’approccio di Global History prendendo in esame
nella prima parte i caratteri della produzione e della lavorazione nei diversi continenti e paesi, nella seconda parte
le direttrici e evoluzione dei commerci e nella terza le trasformazioni dei consumi. Il secondo volume, a cura di Giorgio Riello e Tirthankar Roy, How India Clothed the World.
The World of South Asian Textiles, 1500-1850 (Leiden,
2009), si focalizza sul caso della manifattura dell’India,
per secoli la principale zona di produzione di tessuti in
cotone, affrontando i temi della fabbricazione e del commercio di questi beni con l’intento di spiegare all’interno
di un quadro globale quando, come e perchè una grande
industria di secolare tradizione si spostò dall’Oriente all’Occidente.
PETER MCNEIL (University of Technology, Sidney) ha
quindi esposto la sua
esperienza nell’insegnamento della storia
della moda in ambito
autenticamente globale, diviso tra il corso di
Design History presso
la University of
Technology di Sidney e
il corso di Fashion
Studies all’Università
di Stoccolma ed ha presentato il volume curato da lui stesso e da
Giorgio Riello, The
Fashion History Reader.
Global Perspectives, che
ricostruisce attraverso
una raccolta di saggi una storia complessiva e globale
della moda dalla sua origine sino ai nostri giorni proponendosi come un opera di riferimento per gli studenti e
gli studiosi che si avvicinano a questo settore di studi in
rapida espansione.
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Convegno di Studi: La Spagna e l’Italia dal nazionalismo economico alla globalizzazione, Roma, 24–
25 maggio 2010.
Il Convegno si è proposto di intensificare la pluriennale
collaborazione tra le università spagnole ed italiane, che
ha già dato eccellenti risultati scientifici, didattici ed accademici. Vi hanno preso parte studiosi dell’Università
Complutense e dell’Università Francisco de Vitoria di
Madrid, della Facoltà di Economia dell’Università di Roma,
La Sapienza, e del Servizio studi di struttura economica e
finanziaria della Banca d’Italia. L’evento è stato organizzato con la collaborazione dell’Ambasciata di Spagna in
Italia e della Escuela Española de Historia y Arqueologia
a Roma. È intervenuto il presidente della SISE ANTONIO DI
VITTORIO. L’interesse culturale e scientifico del confronto
Italia - Spagna è stato sottolineato sia dal Preside della
Facoltà di Economia dell’Università la Sapienza, ATTILIO
CELANT che dal Consigliere culturale dell’Ambasciata di
Spagna in Italia, JORGE HEVIA.
Nel corso delle quattro sessioni in cui si è articolato il
convegno é stata analizzata l’evoluzione delle due economie
mediterranee, confrontando singoli aspetti dei problemi connessi alle profonde trasformazioni verificatesi nella seconda metà del secolo ventesimo. La prima sessione è stata dedicata all’eredità del secolo diciannovesimo. TOMÁS GARCIACUENCA (Universidad de Castilla La Mancha) ha svolto una
dettagliata analisi quantitativa dell’evoluzione dell’economia spagnola nella seconda metà dell’ottocento. Ha riferito
che in questo periodo l’economia spagnola ha avuto profonde trasformazioni ed un certo grado di industrializzazione.
Il suo tasso di crescita, però, é stato relativamente più basso
di quello degli altri paesi industrializzati, con conseguente
accentuazione della divergenza tra la Spagna e le altre nazioni industrializzate. Diversi partecipanti hanno trattato
il problema della formazione degli squilibri regionali, che é
stato affrontato da angolazioni. RAFAEL DOBADO GONZÁLEZ
(Universidad Complutense, Madrid) ha esaminato l’influenza della geografia nella distribuzione dei fattori produttivi
e, quindi, nella formazione degli squilibri regionali tra il
secolo diciottesimo e la seconda metà del secolo ventesimo.
JOSÉ JURADO SÁNCHEZ (Universidad Complutense, Madrid)
ha riferito sulla formazione del debito pubblico spagnolo e
sulla sua influenza nella politica monetaria. Si è soffermato
sui diversi piani di conversione del debito da parte dei governi e sulle analisi teoriche effettuate dagli economisti contemporanei.
Per quanto riguarda l’Italia, ROSA VACCARO (Università
di Roma - La Sapienza) ha analizzato la politica economica
dagli anni della Destra storica al periodo giolittiano. Sin
dall’Unificazione furono chiaramente percepite due esigenze fondamentali: la necessità di sostenere la crescita delle
aree arretrate e quella di intensificare l’industrializzazione
del paese. Per raggiungere questi obiettivi i diversi governi
unitari elaborarono forme complesse ed innovative di inter-
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vento pubblico, ma dovettero fare i conti con i gravi problemi del bilancio dello Stato e con la formazione del debito
pubblico. Questi vincoli limitarono considerevolmente l’efficacia delle proposte di politica economica.
La seconda sessione del convegno è stata dedicata alla
prima parte del secolo ventesimo, periodo di profonde trasformazioni e di difficili congiunture politiche per entrambi
i paesi. LIDIA SCARPELLI (Università di Roma - La Sapienza) ha svolto una analisi di carattere geografico delle fasi
iniziali dell’industrializzazione italiana, nel corso delle
quali si avviano le misure di politica economica a sostegno dell’industrializzazione del Mezzogiorno. JOSÈ LUIS
GARCIA RUIZ (Universidad Complutense, Madrid) ha analizzato i complessi legami tra banca e industria in Spagna,
soffermandosi sul caso del Banco Popular nel periodo 19261957. È emerso che le politiche di industrializzazione nel
periodo dominato dalla figura di Primo de Rivera furono
sostenute dalla grande banca, che riuscì ad ottenere come
contropartita un decisa riserva del mercato nazionale. Questi orientamenti di politica economica continuarono a prevalere anche durante il periodo franchista.
Il rapporto tra la Spagna e l’Europa è tra gli argomenti
che hanno suscitato maggiore interesse. LUIS PERDICES DE
BLAS (Universidad Complutense, Madrid) ha esaminato le
diverse posizioni assunte dagli economisti su questo problema. Nei primi anni del franchismo, la chiusura dell’economia spagnola ebbe costi sociali e politici elevatissimi.
Fu, quindi, inevitabile avviare una politica di graduale
apertura e integrazione, che ottenne i primi positivi risultati a partire dalla fine degli anni 50. Il periodo successivo, cioè quello della transizione dalla dittatura alla democrazia e dell’integrazione della Spagna nella comunità
europea, è stato illustrato da JUAN HERNÀNDEZ ANDREU
(Universidad Complutense, Madrid). Il suo contributo ha
aperto la terza sessione del convegno, dedicata alla seconda metà del secolo ventesimo, riferendo sul difficile periodo compreso tra l’attuazione del programma di
stabilizzazione monetaria, noto come Patti della Moncloa
(1978), e gli ultimi decenni del secolo ventesimo, caratterizzati da tassi di crescita molto alti, ma anche da forti
squilibri settoriali e da un elevato grado di instabilità.
La relazione inviata da C ARLES M ANERA E RBINA
(Universidad de les Illes Baleares), è imperniata sulla funzione centrale del turismo nello sviluppo economico della seconda metà del secolo ventesimo. YOLANDA RODRIGUEZ (Universidad
Francisco de Vitoria, Madrid) ed EVA ASENSIO (Universidad
Francisco de Vitoria, Madrid) hanno individuato alcuni degli
elementi determinanti della crescita dell’economia spagnola
nello stesso periodo. La prima ha esaminato il ruolo della dotazione di risorse naturali ed i problemi connessi alla
sostenibilità della crescita, soprattutto a partire dalle crisi
energetiche. La seconda ha preso in considerazione gli aspetti monetari soffermandosi sull’importanza per l’economia spagnola dell’incorporazione nel sistema di Bretton Woods e del-
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la convertibilità della peseta che hanno consentito un maggiore inserimento nel mercato internazionale.
SABRINA PASTORELLI (Banca d’Italia) ha analizzato il ruolo dell’innovazione nello sviluppo economico italiano nella
seconda metà del secolo ventesimo. Ha rilevato che l’incremento di efficienza sperimentato dal sistema produttivo è stato in gran parte alimentato dall’adozione di tecnologie di provenienza estera, piuttosto che dall’autonoma
generazione di nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche. Il limitato impegno finanziario nelle attività di
sperimentazione, l’episodicità delle strategie di intervento pubblico, la mancata razionalizzazione degli assetti di
governo della ricerca hanno condizionato la performance
innovativa ed hanno influenzato negativamente il processo di sviluppo. MAURO ROTA (Università di Roma - La Sapienza) ha trattato della politica monetaria, sottolineando
che l’Italia è stato uno dei paesi, tra quelli maggiormente
sviluppati, con la dinamica inflazionista più accentuata.
Ha individuato le condizioni che hanno concorso a determinarla nelle politiche di bilancio, nelle politiche valutarie e nel meccanismo della formazione dei salari.
La quarta ed ultima sessione del convegno è stata dedicata alla valutazione della sfida che la globalizzazione
ha rappresentato per i due paesi. J AVIER O YARZUN
(Universidad Complutense, Madrid) si è soffermato sull’importanza fondamentale che ha assunto il problema
dell’immigrazione in Spagna. Nel riferire che negli ultimi
venti anni la percentuale di immigranti nella popolazione
spagnola é aumentata dall’uno al dodici per cento, ha rilevato che le conseguenze sono state molto importanti sul
contesto macroeconomico e sulle politiche del lavoro. ANNA
SIMONAZZI (Università di Roma - La Sapienza) ha esaminato gli effetti della globalizzazione sull’economia italiana.
Ha messo in evidenza la scarsa crescita della produttività
che ha caratterizzato questo periodo, soffermandosi sul
ruolo della tecnologia, dell’organizzazione produttiva e
delle istituzioni nella spiegazione di questo fenomeno.
PAOLA MORELLI (Università di Roma - La Sapienza), infine, ha analizzato il problema dei divari regionali italiani
alla fine del secolo. Ha sostenuto che le politiche attuate
per lo sviluppo del Mezzogiorno non hanno contribuito a
ridurli, mentre i meccanismi che governano il mercato globale hanno determinano una competizione esasperata che
ha rafforzato le differenziazioni territoriali. Le posizioni
relative delle regioni periferiche, quindi, sono peggiorate
ulteriormente. E LENA G ALLEGO A BAROA (Universidad
Complutense, Madrid) ha chiuso il convegno con la presentazione del numero 852 della Rivista di Economia,
Información Comercial Española, dedicato al contributo
delle donne allo sviluppo della scienza economica.
Queste giornate di studio hanno consentito una migliore
conoscenza delle problematiche economiche della Spagna e
dell’Italia negli ultimi decenni ed hanno messo, ancora una
volta, in evidenza la grande utilità degli studi comparati.
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Workshop: Arrighi in Padova. I cicli egemonici e
il lavoro degli storici, Padova, 3 giugno 2010.
Il 3 giugno 2010, presso il Dipartimento di Studi Internazionali e il Dipartimento di Storia dell’Università di
Padova, si è tenuto il Workshop Arrighi in Padova. I cicli
egemonici e il lavoro degli storici. Organizzato da
MASSIMILIANO TRENTIN e da FRANCESCO PETRINI (Università
di Padova), l’incontro mirava ad analizzare alcuni dei temi
e categorie analitiche utilizzate dal sociologo-storico Giovanni Arrighi (1937-2009) in base alla più recente
storiografia internazionale e alle ricerche svolte dai partecipanti. La prima sessione Arrighi nella storiografia e
nella storia ha voluto situare in modo critico le opere di
Arrighi nel contesto della storiografia internazionale contemporanea. Con la relazione Arrighi nella Storia delle
relazioni internazionali MAURO CAMPUS (Università di Firenze) ha evidenziato il carattere non-paradigmatico della metodologia di Giovanni Arrighi che, per sua stessa
ammissione, si situava più nell’ambito della Sociologia storica che non negli studi storici tout court. Campus ha sottolineato la problematicità che le previsioni di Arrighi nel
Lungo XX secolo (Saggiatore, 1996) suscitarono nella comunità scientifica, ricordando però come le previsioni siano anche stimolo alla discussione e come l’opera sia
innanzitutto di grande interesse per la centralità assegnata
alla finanza nella storia delle relazioni internazionali. Successivamente, DAVID CELETTI (Università di Padova) ha
focalizzato la sua relazione Arrighi nella Storia economica
sul tema dei cicli di accumulazione e sul rapporto dinamico tra produzione agricola e industriale e finanza quali
settori di accumulazione di ricchezza nelle diverse fasi storiche. Egli ha messo altresì in evidenza le differenze riscontrate nei passaggi dell’egemonia tra le potenze olandesi, inglesi e statunitensi, così come le peculiarità dei
processi di integrazione subalterna nell’economia internazionale del continente africano, dell’India e della Cina nei
secoli più recenti; peculiarità che mostrano le differenze
ma anche i legami tra egemonia e dominio nell’espansione
mondiale delle potenze occidentali. La relazione di FRANCESCO PETRINI (Università di Padova) intitolata Conflitto
sociale e transizione egemonica ha analizzato il legame tra
politica internazionale e dinamiche politiche e sociali nazionali, mettendo in risalto la centralità del timing del conflitto sociale a fronte della competizione tra diverse potenze economiche: ossia, di come il conflitto sociale - inteso
come conflitto multiforme tra capitale e lavoro - sia diventato sempre più rilevante per le trasformazioni dei diversi
cicli di accumulazione, anticipando le crisi sistemiche del
XX secolo invece di seguirle come in passato. In tale prospettiva, si sono analizzate le strategie di contenimento
del conflitto sociale legandole con le dinamiche della Guerra Fredda. Una critica è stata mossa invece circa la
sottovalutazione di Arrighi della mobilità dei fattori produttivi quale motore e stimolo dei processi di crescita del-
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l’economia internazionale. Nella sua relazione su Arrighi
e gli Stati Uniti d’America, DUCCIO BASOSI (Università di
Venezia - Ca’ Foscari) ha proseguito l’analisi concentrandosi sui fenomeni di stagflazione degli anni Settanta ed
Ottanta e sulle politiche di aggiustamento strutturale: in
particolare, si è soffermato sul dibattito e sullo scontro interno alla politica statunitense circa la politica economica
e monetaria da attuare tra il 1977 e il 1979 e, dunque, sul
significato del “Volcker shock” quale decisione economica
e politica.
La sessione pomeridiana su Arrighi nel XX secolo, svoltasi presso il Dipartimento di Storia, si è concentrata su
altri temi delle opere di Giovani Arrighi. MARTA PETRUSEWICZ
(City University of New York) nel suo contributo Arrighi e
il Sud in Italia ha posto in luce la centralità del territorio
e dello spazio sociale quali fattori condizionanti i processi
di sviluppo, di proletarizzazione e di accumulazione: la ricerca sul campo svolta in Rhodesia e in Calabria portarono Arrighi a rielaborare la nozione di centro/periferia in
termini più complessi e differenziati e a distinguere la “logica” territoriale che il potere e l’autorità politica possono
assumere a fronte della “logica” extraterritoriale che, invece, contraddistingue il capitale. Su tale linea, la relazione di FERRUCCIO GAMBINO (Università di Padova), Arrighi e
la crisi coloniale in Rhodesia, ha messo in luce il riconoscimento da parte di Arrighi della contraddittorietà dei processi di proletarizzazione e sviluppo moderno in Africa
orientale, così come lo scontro e il fallimento a metà anni
Sessanta dei tentativi riformisti di pacificazione tra le comunità nere e bianche in Rhodesia. A suo parere, l’utilizzo
sistematico e mai rigido da parte di Giovanni Arrighi dell’analisi di classe gli nega il titolo di “geopolitico” nel senso
comune del termine. Spostando l’attenzione sull’Asia orientale, SALVATORE CIRIACONO (Università di Padova) ha analizzato le diverse relazioni tra economia di mercato e sviluppo capitalistico nel Giappone della dinastia Meiji e nell’Inghilterra del XVIII e XIX secolo, evidenziandone i caratteri unici e soprattutto la centralità in termini reali
dell’espansione del mercato interno. Sulla stessa linea,
infine, ROBERTO PERUZZI (Università di Venezia - Ca’ Foscari)
ha posto sotto esame i processi d’industrializzazione in
Cina nel XIX e XX secolo, dando risalto al ruolo del warfare
dispiegato per reprimere la rivolta dei Taiping nella storia economica del paese asiatico. Al contempo, ha sostenuto come fin dagli anni Ottanta del XX secolo, l’espansione
del mercato interno abbia rappresentato il vero volano di
sviluppo e crescita della Cina, ridimensionando quindi il
ruolo degli investimenti esteri, il tutto sulla base della letteratura autoctona utilizzata sistematicamente da Giovanni Arrighi.
In conclusione, alcuni dei temi comuni affrontati dai
diversi relatori possono essere sintetizzati nel modo seguente: in primo luogo, il concetto e l’esperienza storica di
“ciclo di accumulazione” che, lungi dal dispiegarsi in modo
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lineare e deterministico, vede al contrario una notevole
dinamicità dei fattori fondanti il suo sviluppo. Lo stesso
concetto di egemonia in campo internazionale vede sì il
recupero della nozione gramsciana, mettendo però in risalto la complessità della relazione tra piano nazionale e
globale, tra consenso e dominio. Lo stesso rapporto tra capitalismo e autorità statale è stato descritto come affatto
unilineare, dato che l’integrazione multiforme tra controllo politico del territorio e pratiche di accumulazione di capitale si traduce in molteplici forme di sovranità e sviluppo economico. Infine il tema recente dell’ascesa dell’Asia
orientale e in particolare della Cina, affrontato nell’ultimo Adam Smith a Pechino. Genealogie de XXI secolo
(Feltrinelli, 2008), integra le ricerche di storia economica
e politica con gli odierni processi di cambiamento: quale
assetto e quali caratteri potrà avere un mondo multi-regionale? E, ancora: come potrà ridefinirsi il rapporto tra
capitalismo ed economia di mercato? Tutti quesiti affrontati nelle opere di Giovanni Arrighi e che rimangono oggetto cruciale d’indagine per chiunque voglia cimentarsi
nella comprensione del passato e del presente con il rigore
necessario alla ricerca scientifica.
Convegno di Studi: Nobili imprenditori. Attività
e imprese della nobiltà e dell’aristocrazia veneta in
età moderna, Fanzolo, 12 giugno 2010.
Il 12 giugno 2010 si è tenuto a Fanzolo (Treviso) presso
la palladiana Villa Emo il Convegno di Studi Nobili imprenditori. Attività e imprese della nobiltà e dell’aristocrazia veneta in età moderna, organizzato dalla Fondazione
Villa Emo e dal Dipartimento di Storia dell’Università di
Padova. L’iniziativa ha inteso esplorare, attraverso inediti
percorsi di analisi e ricerche innovative, il ruolo effettivamente svolto dalle aristocrazie urbane nell’ambito della
vita economica della Terraferma veneta età moderna, prendendo in considerazione in primo luogo il patriziato veneziano, ma senza ignorare l’azione delle oligarchie delle città suddite. In particolare ci si è proposti di sottoporre alla
prova la rappresentazione, a lungo dominante negli studi
sulla realtà veneta, di un ceto patrizio quale corpo sostanzialmente parassitario, che rifuggiva dagli investimenti
produttivi per sperperare in consumi di lusso e nel mantenimento di folle di servitori le entrate provenienti dalla
rendita fondiaria e da stipendi e sovvenzioni pubbliche.
Secondo questa concezione, in effetti, i ceti patrizi sono
stati considerati quasi per definizione gruppi improduttivi,
estranei alle dinamiche di crescita economica, marginali
rispetto alle trasformazioni del sistema manifatturiero e
a tutti i processi di rinnovamento e di sviluppo.
Le interpretazioni emerse duranti i lavori del Convegno hanno invece sottolineato come in ambito veneto gli
investimenti nobiliari si siano rivolti alla valorizzazione
di specifici settori produttivi, spesso approfittando ad arte
di condizioni ambientali favorevoli in termini di disponi-
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Via Stazione 5 • 31050 Fanzolo di Vedelago TV • tel +39 0423 476334 • [email protected]
bilità di energie e di materie prime, sino a promuovere la
nascita di specializzazioni produttive territoriali e a spargere il seme per lo sviluppo di aree a precoce industrializzazione. Si è potuto così da un lato ridimensionare le responsabilità del ceto dirigente sui ritardi dello sviluppo
economico regionale, dall’altro evidenziare il collegamento di lungo periodo tra la creazione di ambiti manifatturieri anche di grande rilevanza durante il dominio della
Serenissima e il processo di industrializzazione emerso nel
corso del XIX e del XX secolo.
Dopo i saluti portati dal Presidente della Fondazione
Villa Emo NICOLA DI SANTO, i lavori sono stati avviati dall’ampia introduzione di GIOVANNI LUIGI FONTANA (Università di Padova), che ha svolto una estesa ricognizione
storiografica sul rapporto tra i ceti dirigenti dell’Europa e
dell’Italia moderna e gli investimenti manifatturieri e commerciali. Nell’affrontare questo tema non si deve dimenticare che a Venezia, come a Firenze o a Genova, il
coinvolgimento di
membri del patriziato
urbano nei traffici terrestri o marittimi si
fondava su una tradizione plurisecolare e
in qualche misura costituiva una parte integrante di un’identità cittadina e cetuale.
sabato 12 giugno 2010
ore 9.30 - 13.00 Villa Emo
Certo bisogna tener
Fanzolo di Vedelago
conto che le forme delConvegno di studi:
“Nobili imprenditori”
la partecipazione noAttività e imprese della nobiltà e
dell’aristocrazia veneta in età moderna
biliare alle attività
Interventi di Giovanni Luigi Fontana, Davide Celetti,
Luca Molà, Elisabetta Novello, Edoardo Demo,
produttive non agricoFrancesco Vianello, Danilo Gasparini.
le potevano cambiare
con il tempo e con la
congiuntura, passando dall’esercizio diretto del commercio all’acquisto di edifici e impianti adibiti ad usi manifatturieri che sarebbero stati affittati a mercanti o affidati a
gestori, in modo da ridurre l’esposizione al rischio d’impresa. Ma sarebbe un errore ignorare l’apporto che gli investimenti patrizi diedero alla ripresa dell’economia veneta
nel corso del Settecento finanziando la costruzione di
gualchiere, mulini per la torcitura della seta, cartiere, nell’introduzione dall’estero di nuove tecnologie e con la fondazione di manifatture dai caratteri innovativi. La figura
di Niccolò Tron, che chiamò a Schio e a Follina tecnici stranieri per avviare produzioni tessili di nuovo tipo, rappresentò la punta più avanzata, ma non certo la sola, di questo rinnovato interesse del patriziato per le manifatture
ed il commercio.
DAVID CELETTI (Università di Padova), nella sua relazione dal titolo Investimenti alternativi. Aspetti dell’investimento nobiliare veneziano nella Terraferma in età moderna ha quindi illustrato entro uno schema unitario i
molteplici ambiti di investimento della nobiltà veneziana
in età moderna, sottolineando come le famiglie patrizie
impegnate nella costruzione di grandi proprietà fondiarie
non abbiano trascurato di utilizzare i loro capitali anche
nell’acquisto di immobili destinati ad attività manifatturiere, di diritti d’acqua per muovere seghe, mulini ed altri
tipi di impianti produttivi, nello sfruttamento delle risorse della montagna e nel commercio di prodotti della
silvicoltura e dell’allevamento.
LUCA MOLÀ (Istituto Universitario Europeo), con la relazione Patriziato e impresa a Venezia nel Rinascimento,
ha poi analizzato il rapporto tra patriziato e impresa nella
capitale della Repubblica, passando in rassegna una serie
di casi, alcuni celebri ed altri meno noti, di impegno diretto di figure di primo piano del ceto dirigente. Personaggi
destinati a percorrere tutte le tappe del cursus honorum
riservato ai patrizi impegnato in politica, sino ad assurgere alla massima carica della Repubblica, il dogado, non
disdegnavano gli investimenti in attività produttive e il
coinvolgimento in prima persona nel commercio. Le armi
di una famiglia patrizia potevano divenire un marchio di
fabbrica conosciuto e stimato in tutto il Mediterraneo, come
accadde per il sapone dei Vendramini, ed il nome di un
particolare impianto, come la complessa macchina che consentiva di caricare le barche che rifornivano Venezia di
acqua dolce, poteva aggiungersi a quello della casata aristocratica che lo gestiva sino ad identificarne in modo indissolubile uno dei rami.
ELISABETTA NOVELLO (Università di Padova) ha approfondito il tema delle bonifiche con specifico riferimento
all’opera di Alvise Cornaro nella relazione Alvise Cornaro:
interessi pubblici vs interessi privati nell’attuazione delle
opere di bonifica in età moderna. Ripercorrendo la storia
delle bonifiche nella pianura veneta tra XV e XVI secolo la
relatrice ha sottolineato il passaggio da una fase dominata dall’iniziativa dei privati ad una successiva che vede la
comparsa di consorzi obbligatori, promossi dallo Stato e
sottoposti ad uno stretto controllo da parte delle magistrature veneziane. Pure in questo contesto, che vede un crescente ruolo dello Stato nel controllo e gestione del territorio, vi era chi, come Alvise Cornaro, guardava all’opera
di bonifica da un punto di vista tipicamente imprenditoriale, come ad un processo in grado di trasformare delle
aree umide in terreni di valore nettamente superiore, per
realizzare quindi un ampio e prevedibile profitto.
EDOARDO DEMO (Università di Verona) con un intervento dal titolo Nobili che trafficano. Esempi dalla Terraferma veneta della prima età moderna, secc. XV-XVI ha approfondito il tema, ancora poco esplorato, delle attività
commerciali svolte da membri della nobiltà delle città
venete. A fronte di una consolidata e pluridecennale tradizione di studi che ha descritto le oligarchie delle città di
Terraferma come realtà chiuse e pregiudizialmente ostili
all’esercizio del commercio e agli investimenti in attività
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manifatturiere, lo spoglio degli archivi notarili e della documentazione prodotta dalle magistrature civili ha dimostrato che decine di grandi casate aristocratiche avevano
interessi in iniziative imprenditoriali. La realizzazione che
esponenti di spicco della nobiltà urbana, insigniti di cariche prestigiose ed accolti con un ruolo di primo piano nei
più esclusivi circoli della socialità aristocratica, talvolta
intrinseci di principi stranieri, operassero in prima persona in svariati rami del commercio con compagnie intestate a loro nome solleva dei problemi interpretativi di non
facile soluzione riguardo al rapporto tra norme e pratiche,
tra ideali e comportamenti nella società veneta della prima età moderna.
FRANCESCO VIANELLO, (Università di Padova) nella sua
relazione Investimenti privilegiati. Patrizi veneti e manifattura serica nel Bassanese, XVI-XVIII sec. ha ricostruito
episodi e problemi del coinvolgimento dei patrizi veneziani nello sviluppo dell’industria serica nel Bassanese. Tra
Cinquecento e Settecento il Bassanese si affermò come uno
dei più importanti distretti per la lavorazione del filato di
seta all’interno della Repubblica ed i patrizi veneziani, già
presenti in zona fin dal tempo della dedizione del piccolo
centro alla Serenissima, svolsero un ruolo cruciale nella
diffusione di nuove tecnologie investendo i loro capitali
nella costruzione dei mulini idraulici per la torcitura della seta.
DANILO GASPARINI, (Università di Padova) infine ha approfondito il medesimo tema con riferimento all’esperienza sviluppatasi proprio a Ca’ Emo, trattando di Acqua e
seta: l’edificio di Ca’ Emo a Caselle. La costruzione negli
ultimi anni del Seicento di un grande torcitoio idraulico
intrapresa dalla famiglia patrizia diede origine ad una
specializzazione produttiva che nel corso del secolo successivo assunse sempre maggior rilievo. Alla fine del
diciottesimo secolo, infatti, attorno al torcitoio si estendeva un complesso di edifici, ancor oggi in parte esistenti,
che ospitavano oltre un centinaio di fornelli per la trattura
della seta. Di notevole interesse si presentano anche le
notizie raccolte sull’origine e sui movimenti della manodopera, dalle lavoratrici addette alla trattura ai tecnici
impiegati nella costruzione e manutenzione delle macchine, che mettono in luce delle reti di circolazione delle competenze su scala regionale ed oltre.
Convegno Internazionale di Studi: Les expositions
universelles en France, au XIXe siècle. Techniques,
publics, patrimoine, Parigi, 14–16 giugno 2010.
Organizzato dal Centre d’histoire des techniques et de
l’environnement (CDHTE-CNAM), dalla Bibliothèque del
C NAM, dal Musée des arts et métiers e dalle Archives
nationales, si è tenuto a Parigi dal 14 al 16 giugno 2010 il
Convegno Internazionale di Studi: Les expositions
universelles en France, au XIXe siècle. Techniques, publics,
patrimoine, Fra i partners dell’importante iniziativa il
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Bureau international des expositions (B IE ), il Centre
Maurice-Halbwachs, la Centrale Histoire, il CNRS e il
Centre Alexandre Koyré-Centre de recherches en histoire
des sciences et des techniques (C AK -C RHST ), e infine
l’Institut national de la propriété industrielle (INPI). Il convegno è stato concepito e programmato da un comitato organizzatore costituito da LILIANE PEREZ (Cdhte-Cnam),
CHRISTIANE DEMEULENAERE-DOUYÈRE (Archives Nationales),
ANNE-LAURE CARRÉ e MARIE-SOPHIE CORCY, con il contributo
di un comitato scientifico internazionale di cui hanno fatto parte BRUNO BELHOSTE, JEAN-FRANÇOIS BELHOSTE, SERGE
B ENOÎT , J EAN -L OUIS B ORDES , P ATRICE B RET , T HÉRÈSE
CHARMASSON, GÉRARD EMPTOZ, IRINA GOUZÉVITCH, MIREILLE LE
VAN HO, CHRISTINE MACLEOD, VALÉRIE MARCHAL, YANNICK
M AREC , P ASCAL O RY , C HRISTOPHE P ROCHASSON , A NNE
RASMUSSEN, BRIGITTE SCHROEDER, DENIS WORONOFF e, tra gli
italiani, MARCO BELFANTI (Università di Brescia) e GIOVANNI LUIGI FONTANA (Università di Padova).
All’origine dell’iniziativa sta il rinnovato
interresse
della
storiografia per le
Esposizioni Universali
del XIX secolo: per il
loro prestigio internazionale, per l’attrazione che hanno esercitato sul mondo del commercio e dell’industria,
per la loro capacità di
riunire popoli e oggetti
diversissimi fra loro,
per i milioni di visitatori che sono state capaci di attrarre, le
esposizioni universali
sono considerate oggi come uno dei maggiori dispositivi
mediatici messi in atto nel XIX secolo. Le esposizioni mobilitavano l’opinione pubblica in misura ancora oggi sorprendente, se si pensa ad esempio che all’esposizione parigina del 1900 si registrarono più di 50 milioni di ingressi
paganti. Per quanto sia stato rivalutato il significato delle
esposizioni in quanto network di relazioni su scala mondiale e in quanto mezzo di comunicazione capace di sostenere e incentivare la diffusione di altri media, resta tuttavia fondamentale oltre al medium anche il contenuto, cioè
il tipo di messaggio che esse veicolavano a sostegno del
modello di sviluppo socio-economico dominante all’epoca e
dell’ideologia del progresso a questo correlata. Si trattava
di un messaggio politicamente connotato, non solo quando
era espresso in maniera esplicita e diretta, ma anche quando veniva diffuso indirettamente, in quanto era lo stesso
impianto espositivo che stabiliva gerarchie, orientava gli
sguardi, gestiva visibilità e silenzi. Il pubblico veniva at-
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tratto sia dagli aspetti spettacolari, nuovi, sorprendenti,
dell’innovazione tecnologica, sia dalla ricchezza e dalla
caleidoscopica varietà di questi “paradisi delle merci”. A
fronte di tutto ciò, tuttavia è ancora poco conosciuta l’articolazione e la reale estensione mediatica (nazionale e internazionale) nonché l’impatto effettivo che questi eventi
e la loro pubblicizzazione ebbero su un pubblico culturalmente e socialmente differenziato.
Per queste ragioni, le esposizioni, sono oggi al centro di
un rinnovato interesse storiografico a favore della storia
culturale e della storia culturale delle tecniche. Luoghi di
culto del progresso, di sacralizzazione della tecnica e dell’invenzione del pubblico, esse offrono un campo di analisi
che permette agli storici di interrogarsi concretamente
sulle condizioni materiali dell’emergere di una cultura tecnica nel periodo della rivoluzione industriale. Di qui quindi l’interesse di un convegno in grado di mettere a confronto gli studiosi con i temi dell’impatto della tecnica sulla cultura dell’epoca, vista anche attraverso i successivi
gradienti della sua diffusione e divulgazione a livelli sempre più ampi, e quindi dei diversi tipi di pubblico. Non meno
interessante si presenta la tematica legata al patrimonio,
dato che le Esposizioni, fenomeno apparentemente effimero
e transitorio, hanno lasciato tracce evidenti e durature del
loro passaggio, soprattutto in Francia.
E proprio l’interesse per il processo “culturale” di creazione e diffusione di massa di una cultura tecnica e industriale nel XIX secolo, accanto all’interesse per lo specifico
“patrimonio” culturale creato e tramandato nel corso di
quel processo, hanno costituiscono le tematiche di fondo
del convegno, riflettendo pienamente le tendenze e lo stadio attuale degli studi e delle questioni storiografiche. In
virtù dell’impatto talvolta assai significativo esercitato sulle metropoli ospitanti, in un primo momento le esposizioni
hanno attirato l’attenzione soprattutto degli storici dell’architettura. Più tardi, i sociologi le hanno invece interpretate quali prodromi del mondo dei consumi e dei processi
di “vetrinizzazione” della società contemporanea. Recentemente si è sviluppata una corrente di studi propensa a
vedere nelle esposizioni universali del XIX secolo “i precedenti storici dei processi contemporanei di globalizzazione,
così come dei mondi visuali-virtuali della contemporaneità”. In quest’ottica si è osservato che, oltre ai prodotti e ai risultati tangibili generati da questi eventi – che
esercitarono un profondo influsso sull’urbanistica e sullo
sviluppo economico di alcune delle principali metropoli
mondiali –, risultano particolarmente interessanti i processi ad essi correlati sul piano politico, socio-economico e
culturale tecnologico più generale.
Se le realizzazioni architettoniche, per l’audacia dei
progetti degli ingegneri, hanno contribuito alla spettacolarizzazione e alla notorietà duratura del fenomeno, se i dibattiti sull’estetica e il valore degli oggetti hanno favorito
e si sono accompagnati al crescere, durante il secolo, di
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una visione “inclusiva” dell’industria, e al riconoscimento
di uno specifico valore culturale al “patrimonio” tecnicoindustriale, altri percorsi di ricerca si sono rivolti a comprendere l’impatto delle esposizioni sullo spazio pubblico
della tecnica, sia come campo culturale, strutturato dalle
istituzioni, dalle reti, dalle pratiche e dagli immaginari,
sia come luogo d’espressione in cui si autonomizza una
facoltà di giudizio e si esercitano attitudini a scegliere comunità di linguaggio.
A partire da queste premesse il Convegno, svoltosi su
tre giornate e in tre differenti sedi istituzionali parigine,
ha affrontato le due questioni fondamentali ponendo una
serie di interrogativi. Da un lato il ruolo della tecnica e dei
“suoi pubblici” all’interno delle esposizioni universali: qual
è stato l’impatto reale delle esposizioni universali nell’emergere di un nuovo interesse per la tecnica? Quali mezzi
sono stati utilizzati: che tipi di media, di retoriche visuali
e spettacolari, di intermediazioni (scritti, immagini, stampa ecc). Quali tipi di forme di partecipazione collettiva sono
state messi in opera? La messa in scena della tecnica ha
contribuito a “democratizzare” quest’ultima aprendola ad
pubblico di massa?
Dall’altra
parte il Convegno si è concentrato sui
prodotti e soprattutto sulle
collections
techniques,
con la duplice
ambizione di
interrogare la
storia delle
collezioni uscite dalle esposizioni universali e i loro modi di valorizzazione
attuali in differenti istituzioni: qual è stato il ruolo delle
esposizioni nella costituzione e nello sviluppo delle collezioni tecniche nel XIX secolo? In che modo le esposizioni
universali hanno contribuito alla creazione di musei, biblioteche ecc., in che modo li hanno arricchiti? Questo arricchimento è stato il frutto di una politica pubblica determinata o l’effetto della “vanità” di soggetti singoli o collettivi desiderosi di vedere collocate le proprie opere in un
museo? Il tema appartiene tanto alla storia delle istituzioni della cultura e delle pratiche culturali che a quella delle questioni simboliche come la ricerca di una validazione
del proprio lavoro e di una propria identità duratura attraverso la trasmissione alla posterità.
La prima giornata, svoltasi presso la sede centrale del
Conservatoire National des Arts et Métiers e divisa in tre
sessioni tematiche (Representation - Produits - Mediation),
è stata inaugurata dalla Conférence di A NTOINE PICON
(Harvard University ed Ecole Nationale des Ponts et
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Chaussées). PICON ha centrato la sua relazione sul ruolo,
molto più ampio e radicato di quanto non si potrebbe pensare a prima vista, degli utopisti (saint-simoniani,
fouririesti e leplayani), nelle loro relazioni con la tecnica
in seno alle esposizioni universali parigine del XIX secolo.
La prima sessione dedicata alle rappresentazioni e presieduta da PATRICE BRET e CARLO BELFANTI ha visto il susseguirsi di tre comunicazioni: ANA CARDOSO DE MATOS (Università di Evora) ha centrato il suo intervento su diversi
gruppi di visitatori portoghesi alle esposizioni parigine
cercando di analizzare l’impatto di questi viaggi sullo sviluppo economico e tecnologico del Portogallo; M ARTHA
CARION (Università di Losanna) si è interrogata sul ruolo
dell’arte e degli artisti a partire dall’Esposizione di Parigi
del 1855, la prima a ospitare una sezione espressamente
dedicata all’arte; e NICOLAS WANLIN (Università dell’Artois)
ha presentato un corpus di poemi sulle esposizioni universali scritti da filosofi materialisti e idealisti, che lungi dal
manifestare un’opposizione frontale all’industrializzazione, al progresso tecnico e al positivismo manifestavano una
volontà di integrazione con la cultura classica e gli immaginari tradizionali.
La sessione dedicata ai prodotti, presieduta da ANNE
RASMUSSEN e JEAN-LOUIS BORDES, ha visto il susseguirsi
dei contributi di JEAN FRANÇOIS LUNEAU (Università Blaise
Pascal, Clermont-Ferrand), dedicata ai peintres verriers
francesi e al loro modo di presentare e sperimentare attraverso le esposizioni universali nuovi materiali e innovazioni tecniche, di JOËLLE PETIT (CDHTE-CNAM) sulle strategie di valorizzazione dei mestieri e delle tecniche del
marmo alle esposizioni francesi del XIX secolo, di THIERY
RENAUX (CNAM-Aquitaine) sulla storia dell’alluminio e su
come questo materiale sia stato rivelato e presentato al
pubblico attraverso le esposizioni universali, da quella
del 1855 al 1889 ; la sessione è stata chiusa dalla relazione di SYLVIE VABRE sulla presentazione del Roquefort
all’esposizione del 1867 e sulle strategie di comunicazione dell’impresa di produzione che ha fatto del formaggio
un prodotto fortemente impregnato di pittoresco e indirizzato ad una clientela specifica. La sessione parallela
dedicata al tema delle Médiations, presieduta da LILIANE
PÉREZ, PASCAL ORY e CHRISTOPHE PROCHASSON, è stata aperta
da MARION PERCEVAL (CDHTE-CNAM) con un contributo sul
ruolo dello sviluppo delle tecniche fotografiche durante
la seconda metà del XIX secolo e sulla pratica del fotografo amatore inscritta in un circuito commerciale e tecnico affermatosi in seguito e grazie all’esposizione parigina del 1900. MARIE-SOPHIE CORCY (Musée des Arts et
Métiers, Paris), ha presentato le collezioni tecniche del
Museo del Conservatoire des Arts e Métiers di Parigi;
PAOLO BRENNI (CNR, Fondazione Scienza e Tecnica, Firenze) ha tracciato un quadro degli effetti speciali e delle
attrazioni spettacolari alle esposizioni parigine della seconda metà del secolo e infine JEAN FRANÇOIS BELHOSTE
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(E PHE , Paris) ha mostrato il ruolo degli ingegneri
centraliens , ossia degli ingegneri formatisi presso l’Ecole
centrale des Arts et Manufactures come Alexis Barrault,
Henri di Dion e Gustave Eiffel, nelle esposizioni parigine dal 1855 in avanti.
La seconda giornata, svoltasi presso la sede degli
Archives Nationales, è stata interamente dedicata al patrimonio. La prima sessione, presieduta da G ÉRARD
E MPTOZ e J EAN F RANÇOIS B ELHOSTE , è stata aperta da
M IREILLE LE VAN HO (Biblioteca del CNAM, Paris), che ha
presentato la biblioteca digitale dedicata alla storia
delle scienze e della tecnica costituita dal fondo
patrimoniale della biblioteca del Conservatoire National
des Arts et Mètiers. CHRISTIANE DEMEULENAERE-DOUYÈRE
(Archives Nationales), ha presentato Les Albums du
Parc dell’Esposizione del 1867, due preziosi volumi concepiti per l’imperatore Napoleone III, ricchissimi di disegni e acquerelli, che oggi sono in via di digitalizzazione
e già in linea sul sito degli Archives Nationales. B RIGITTE
LEBHAR (E MOC Paris) ha presentato i documenti degli
archivi delle esposizioni universali conservati al Grand
Palais e PIETRO R EDONDI ha esposto gli affascinati risultati di una mostra digitale sulle immagini del mondo
sottomarino alle esposizioni universali dal 1867 al 1906.
La seconda sessione, presieduta da MIREILLE LE V AN HO
e PIETRO R EDONDI è stata inaugurata dalle immagini in
3D della Vieux Paris d’Albert Robida all’Esposizione del
1900, è stata seguita dalla relazione di MARIA ELIZA L.
BORGES (Università de Minas Gerais, Brasile) sull’impatto dell’Esposizione universale del 1867 di Parigi,
sulla creazione e l’organizzazione del Museu commercial
di Rio de Janeiro; SOPHIE DE BAUNE (Università di Lione
3), ha presentato una collezione di oggetti venus
d’ailleurs alla Esposizione di Lione del 1894. La giornata è stata chiusa da una conferenza finale presieduta dal fotografo parigino SYLVAIN A GEORGES, il quale ha
presentato la sua collezione di foto delle tracce e dei
segni delle esposizioni universali rimasti a Parigi.
L’ultima giornata, svoltasi presso la sede della Cité des
sciences et de l’industrie è stata divisa in 5 sessioni
(Innovations et savoirs tecniques – Produits 2Représentations 2 – Délegués ouvriers – Les Centraliens).
La prima sessione, dedicata alle innovazioni e ai saperi
tecnici, presieduta da T HÉRESE C HARMASSON e D ENIS
WORONOFF, è stata inaugurata da PAULO COELHO MESQUITA
SANTOS (Università di Campinas, Brasile) che ha messo in
luce i rapporti tra l’Ecole des Mines d’Ouro Preto e l’Esposizione universale del 1889, mentre GUILLAUME EVRAD (Università di Edinburgo), ha presentato il padiglione di alcuni costruttori innovatori inglesi a Parigi nel 1878, tra i
quali Dulton, Lascelles e Cubbit. CLAUDINE FONTANON (EHESS
- Parigi) ha rievocato i congressi dedicati all’aereonautica
nelle esposizioni universali all’inizio del XX secolo e
CHRISTIAN CARLETTI (Università di Milano - Bicocca) ha espo-
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sto un contributo sull’attività inventiva nel Lombardo
Veneto prima dell’unificazione nazionale, i rapporti con il
contesto internazionale e le prime esposizioni universali.
Il pomeriggio si è sviluppato su quattro sessioni parallele. Una sessione dedicata ai delegati operai alle esposizioni con contributi di PHILIPPE ALEXANDRE (Università di
Nancy) sui delegati operai e agricoli di Lorena, di ANNA
PELLEGRINO (Università di Padova – CDHTE-CNAM Parigi),
sulla tecnologia e il progresso alle esposizioni parigine
viste dagli operai italiani, e di JEAN-CHARLES GESLAT (Università di Versailles) sulle politiche culturali e pedagogiche de Secondo Impero; un’altra dedicata al ruolo dei
centraliens alle esposizioni, con contributi di JEAN LOUIS
BORDES (Centrale Histoire Paris) sui centraliens stranieri alle esposizioni, di ANNIE LAGARDE-FOUQUET (Centrale
Histoire Paris) sul ruolo di Jules Charton all’Esposizione universale del 1889, di JEAN YVES DUPONT (INRP, Paris)
sul padiglione delle macchine alle esposizioni parigine e
infine di M ICHEL JACOTY (Centrale Histoire Paris) sui
centraliens e l’architettura metallica alle esposizioni. Le
ultime due sessioni, infine, hanno replicato e ampliato
due sessioni tematiche della prima giornata: la prima,
dedicata ai prodotti, presieduta da GIOVANNI LUIGI FONTANA e JEAN-LOUIS BORDES, ha visto il succedersi delle relazioni di EUGÉNIE BRIOT (Università de Marne-la Vallée),
sulla profumeria parigina alle esposizioni universali parigine del XIX secolo, di ANNE HOUSSAY (CDHTE-CNAM Paris)
sulle risorse forestali alle esposizioni universali e quella
di BERNARD JACQUÉ (Università dell’Alta Alsazia), sulle
carte da parati in mostra alle esposizioni attraverso i
prodotti della manifattura Jean Zuber et C. La seconda
ed ultima sessione dedicata alle rappresentazioni, è stata aperta dalla relazione di GÉRALD SAWIKI (Università di
Nancy 2), centrata sull’Esposizione internazionale dell’Est della Francia tenutasi a Nancy nel 1909, e seguita
dalle relazioni di MANUEL CHARPY (Università di ToursLione 2) sulle tecniche arcaiche e i prodotti artigianali
alle esposizioni universali e da quella di FRANÇOIS JARRIGE
sullo spettacolo delle macchine in movimento all’esposizione del 1855 e i connessi rischi tecnici.
Ha chiuso il convegno un rappresentante del BIE, GABRIELE F ASAN, che, a nome del segretario generale M.
V ICENTE GONZALEZ L OSCERTALES , ha proposto alcune linee interpretative per comprendere le esposizioni di ieri
e di oggi : il significato storico delle esposizioni, gli scopi degli organizzatori antiche e nuovi, il ruolo dell’innovazione, della comunicazione e dei media, il ruolo dei
cittadini/visitatori e quello delle città/metropoli nella
promozione e messa in scena delle esposizioni odierne.
Ogni sezione ha visto un serrato dibattito, con la partecipazione di discussants, che è qui impossibile sintetizzare, ma che ci si augura possa essere disponibile molto presto agli studiosi attraverso la pubblicazione degli
atti.
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Incontro internazionale di Studi: One-Day
Workshop on the History of Statistics, Venezia, 21 giugno 2010.
Lo scorso 21 giugno 2010 si è tenuta a Venezia, nella
sede di San Giobbe della Facoltà di Economia dell’Università Ca’ Foscari, una giornata di studi sulla storia della
statistica organizzata da GIOVANNI FAVERO (Università di
Venezia - Ca’ Foscari), cui hanno preso parte come relatori
JEAN-GUY PRÉVOST (Université de Québec, Montréal) e
THEODORE M. PORTER (University of California, Los Angeles).
Nel corso della discussione, sono intervenuti ALBERTO
B AFFIGI (Banca d’Italia), L UC B ERLIVET (C NRS , École
Française de Rome) e MARIA LETIZIA D’AUTILIA (ISTAT), nonché MANFREDI ALBERTI (Università di Firenze) e alcuni studenti del dottorato in Economia di Venezia. PAOLA LANARO
ha dato il benvenuto ai partecipanti e testimoniato del forte
interesse suscitato dal tema.
Nella mattinata, JEAN-GUY PRÉVOST ha presentato un
intervento dal titolo Strategies, Logics and Effects: Italian
Statistics as a Field, 1900-1945, in cui ha discusso
l’impostazione e i risultati del suo recente libro dedicato
appunto alla statistica italiana (J.-G. PRÉVOST, A Total
Science: Italian Statistics, 1900-1945, Montreal: McGillQueen’s University Press 2009). Nel corso del dibattito,
l’attenzione si è concentrata soprattutto sul concetto di
“campo”, elaborato da Pierre Bourdieu e utilizzato dal
relatore come chiave di lettura per interpretare la conquista e il consolidamento di una autonomia disciplinare da
parte della statistica italiana nella prima metà del Novecento, e sulla difficoltà di conciliarlo con altri modelli interpretativi già utilizzati nello studio del rapporto tra la
statistica come disciplina scientifica e come pratica amministrativa, in particolare con il concetto di “dispositivo”,
così come definito da Michel Foucault, e più in generale
con la complessa articolazione di tale rapporto. Nel pomeriggio, THEODORE M. PORTER ha proposto una prima sintesi
di una sua ricerca in corso, dal titolo Asylum Statistics and
the New Science of Human Heredity, 1830-1915. L’indagine da lui condotta sulle origini degli studi sull’ereditarietà
umana in Europa e nel Nord America ha concentrato l’attenzione non solo sul loro ben noto rapporto con lo sviluppo della teoria statistica della correlazione, ma ancor prima con l’ossessione per la raccolta di dati concernenti gli
ospiti delle istituzioni sanitarie e assistenziali. I numerosi spunti problematici emersi nel corso della discussione
hanno riguardato il diverso nesso fra lo studio descrittivo
dell’ereditarietà e l’elaborazione di strumenti atti a modificarne gli effetti sulla popolazione e sugli individui, così
come concepito nell’eugenetica di primo Novecento e nell’attuale genetica umana. Quel che PORTER ha posto in evidenza è l’immane sforzo di misurazione e classificazione
della popolazione manicomiale, ospedaliera e scolastica
condotto a partire dal primo Ottocento allo scopo di rintracciare regolarità nelle manifestazioni “patologiche” de-
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gli individui e di individuarne le cause ambientali e soprattutto quelle collegabili alle loro caratteristiche ereditarie. La giornata si è chiusa con una visita al campus di
San Giobbe e alla Biblioteca di Economia (BEC), nella quale è stata allestita una piccola esposizione di documenti
tratti dall’archivio di Alfonso de Pietri-Tonelli (1883-1952),
a lungo docente di Politica economica e Statistica e per un
breve periodo rettore a Ca’ Foscari, recentemente donato
dal figlio Pietro alla BEC.
Convegno Internazionale di Studi: L’eredità del
mondo classico nella cultura europea del XVIII secolo, Mosca, 28-30 giugno 2010.
Anche gli aspetti economici hanno avuto un loro spazio
nel convegno di studi L’eredità del mondo classico nella
cultura europea del XVIII secolo organizzato a Mosca dal
28 al 30 giugno 2010 per iniziativa del Centro di studi del
XVIII secolo, dell’Istituto di Storia Universale dell’Accademia delle Scienze della Federazione Russia, del Museo
di Ostankino, dell’Istituto Storico Tedesco di Mosca, dell’Istituto di Storia del Pensiero Classico ENS di Lione (Francia) e della Commissione di Studio della Cultura
Illuminista presso il Consiglio Scientifico di Storia della
Cultura Mondiale dell’Accademia delle Scienze della Federazione Russia. Il convegno, coordinato da SERGUEÏ KARP
(Istituto di Storia Universale dell’Accademia delle Scienze della Federazione Russa, Mosca), ha voluto riunire contributi provenienti da studiosi di diverse discipline entro
un unico schema di analisi, volto ad evidenziare i molteplici aspetti dell’influenza che il mondo classico ha esercitato su quello occidentale nell’età dei lumi. L’approccio
interdisciplinare mirante a superare i confini normalmente
stabiliti tra materie e discipline di studio diverse ha permesso non soltanto di stabilire un dialogo tra ricercatori
formatisi in differenti ambiti, aree, nazioni, ma anche di
sottolineare la pluralità dei contributi e delle influenze che
l’antichità greco-romana ha apportato non solo alla pratica culturale, ma anche a quella materiale ad esempio alla
disciplina dell’economia o alla produzione agricola dell’occidente del XVIII secolo.
Il convegno è stato suddiviso in 8 sezioni succedutesi
nei tre giorni di lavori. Numerosi i contributi alla prima
sezione, presieduta da ALEXANDRE GAVRILOV (Istituto di Storia dell’Accedemia delle Scienze della Federazione Russa,
San Pietroburgo), dedicata al tema Du mythe au savoir.
Anche la seconda sezione, presieduta da PIERRE BRIANT
(Collège de France, Parigi), sul tema Quel statut pour
l’héritage antique? Nouveaux horizons,ha accolto interessanti apporti, ripresi anche dalla sezione successiva, presieduta da SERGUEÏ KARP (Istituto di Storia Universale dell’Accademia delle Scienze della Federazione Russa, Mosca). La quarta sezione, presieduta da INGRID SCHIERLE (Istituto Storico Tedesco a Mosca), ha approfondito gli aspetti
politici ed economici dell’eredità classica grazie ai contri-
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buti di H ANS ERICH BÖDEKER (Max Planck-Institut für
Wissenschaftsgeschichte, Berlino), Greek democracy and
Roman republicanism in the discourse of the German
Enlightenment in the second half of the eighteenth century;
SVEN GÜNTHER (Università Johannes Gutenberg, Magonza),
Between Imperium and Libertas. Understanding,
utilization and diversity of interpretation of Roman power
and moral Concepts on European medals and seals in the
eighteenth century; W YGER V ELEMA (Università di
Amsterdam), Classical antiquity contested. Ancient Greece
and Rome in eighteenth-century Dutch political thought;
KOEN STAPELBROEK (Università di Rotterdam), Antiquity and
the challenges of modernity : the political thought of
Ferdinando Galiani reconsidered; DAVID CELETTI (Università di Padova), L’héritage classique dans la pensée et la
pratique agronomiques du XVIIIe siècle. La sezione successiva, presieduta da CATHERINE VOLPILHAC-AUGER (ENS, Lione) ha esaminato la ricezione di aspetti del pensiero classico presso alcuni letterati settecenteschi, mentre la sesta
parte del convegno, presieduta da GUENNADI VDOVINE (Musée
d’Ostankino), è stata dedicata al tema Les pratiques
culturelles. La nouvelle esthétique. La settima sezione si è
concentrata sul lato più direttamente artistico dell’eredità classica, con tematiche ulteriormente approfondite anche nell’ultima sessione. Alla discussione delle relazioni è
seguita la visita al castello e al parco di Ostankino.
Congresso Internazionale: XVI Congresso Internazionale di Storia Orale, Praga, 7-11 luglio 2010.
Dal 7 all’11 luglio 2010 si è tenuto a Praga il XVI congresso internazionale di Storia Orale organizzato dalla
International Oral History Association. Le relazioni sono
state inserite in 108 sessioni, a loro volta collegate a 14
assi tematici: Memorie di violenza, guerra e totalitarismo.
I perseguitati, diritti civili, trauma e oblio; Memoria e politica: esperienza di partecipazione politica; Isole di libertà:
il ruolo della subcoltura, del folklore e della tradizione orale
nella società; Culture alternative, musica, danza e identità; Memorie di famiglia: maternità, paternità e scambio
generazionale; Migrazioni: esilio, movimenti migratori,
dispora e ricerca di identità; Il mondo del lavoro: memorie
e esperienze. Genere e percezione del lavoro; Genere, memoria e la creazione della identità sessuale. Storia orale di
omosessuli e lesbiche; Salute e cura: centri di cura, anziani
e disabili; i lavoratori della salute; Ecologia e disastri: questioni ambientali, patrimonio naturale e trasformazioni
culturali; Condividere/ereditare la fede: religione e storia
orale; Organizzare la storia orale: istituzioni, archivi, musei, organizzazioni e movimenti di base. Questioni di metodo, archivi e tecnologia; Teoria e metodo nella storia orale.
Questioni legali e etiche; Insegnare la storia orale: esperienze nell’educazione formale e informale; Storia orale e
media. La presentazione delle singole ricerche è stata preceduta da una giornata dedicata alle “classi magistrali”,
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di cui due in spagnolo (LAUDA BENADIBA, Historia Orale y
Educación: metodología y análisis de la entrevista
audiovisua; MIREN LLONA, Historia Oral y Subjetividad,) e
quattro in inglese (RON ADAMS, Evidence for what?; SELMA
LEYDESDORFF, Oral History Interview and people with (severe) trauma, ALEXANDER V. PLATO, ALEXANDER FREUD, The
Life-Story Interview: Method and Interpretation; ALESSANDRO PORTELLI (Università di Roma - La Sapienza) Memory
as Process).
Il convegno, svoltosi presso le strutture della Facoltà
di Economia dell’Università di Praga, si è aperto con una
cerimonia ufficiale presso il Karolinum, la sala storica dell’Università della capitale ceca, tenutasi la sera del 9 luglio 2010. Alla conferenza hanno partecipato studiosi provenienti circa 80 nazioni. I ricercatori italiani membri dell’Associazione italiana di Storia orale (AISO) sono stati presenti, oltre che nelle master classes grazie all’impegno di
ALESSANDRO PORTELLI, in due diversi panel ed hanno contribuito allo svolgimento dei lavori presiedendo altrettante sessioni. DAVID CELETTI (Università di Padova) ha presentato una ricerca dal titolo Dying of work: the company,
asbestos and the workers, nell’undicesima sessione dell’8
luglio, mentre nella settantanovesima sessione del 10 luglio hanno esposto le proprie ricerche RAYA COHEN (Università di Napoli e Tel-Aviv), Nakba and Istraeli Society:
disputed histories and memorie of 1948; GABRIELLA GRIBAUDI
(Università di Napoli), The Memories of Violence from
Opposing Sides: the Civilian Population in no Man’s Land.
Italy’s Southern Front, 1943-1944; ALESSANDRO CATTUNER
(Università di Firenze), Multiple Violence and Disputed
Memories in Borderland. The Border between Italy and
Yugoslavia, Apri-June 1945; ANDREA BRAZZODURO (Università di Parigi X), Postcolonial Memories of the Independence
Algerian War, 1955-2010. Nel corso della sessione, presieduta da GABRIELLA GRIBAUDI, ha esposto il suo lavoro sul
tema Narrating Violence, remembering trauma. The
construction of the past on the Italo-Slovene border anche
la ricercatrice slovena KAJA SIROK (Università di Lubiana),
le cui analisi sulla memoria nelle terre di confine italoslovene integrano e completano le ricerche di ALESSANDRO
CATTUNER. GABRIELLA GRIBAUDI, Presidente dell’AISO, ha inoltre diretto la sedicesima sessione, dedicata alla memoria
della violenza e del totalitarismo, mentre DAVID CELETTI,
membro del Comitato Direttivo dell’AISO, ha presieduto
la trentottesima sessione, dedicata alle migrazioni, esilio,
movimenti migratori, diaspora e ricerca di identità.
Per quanto attiene ai lavori di storia economica e sociale, oltre alla ricerca presentata da DAVID CELETTI, segnaliamo gli studi presentati nella 67a sessione del 10 luglio da JAMES KARMEL, Oral History and Economic Crisis:
Personal and Collective Esperieces e LIANA MÜLLER, South
African Mission Schools – Oral History Documentation
Linking tangible and Intangible Dimensions of Place, oltre a quelli esposti nella ottantacinquesima sessione della
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medesima giornata da RICARDO PIMENTA e MARCO SANTANA,
Oral History and workers’ social memory projects: the
Brazilian Unions’ experiences; CORINA ANDREA CIMPOIERU,
Narrating Labour in Postsocialist Romania: the Case Study
of the Industrial City of Rovinari; DANIELA FLEISS, Economic
Structural Change and Change of Identity. An Oral History
Analysis of the Perception of Deindustrialisation; JANA
N OSKOVÁ , Revolutionary Trade Union Movementi in
Czechoslovakia and its Image in Biographical Interviews
with Workers and Intelligentsia. A Coercive Tool in the
Communist Regime or a Harmless
VISTO?
G UIDO A LFANI , Il Grand Tour dei Cavalieri
dell’Apocalisse. L’Italia del «lungo Cinquecento»
(1494-1629), Venezia, Marsilio, 2010, pp. 304.
Un tempo oggetto di studi classici di storia economica,
quali La Mediterranée di Fernand Braudel, il Cinquecento
è stato progressivamente trascurato dalla storiografia. Se
Domenico Sella, alcuni decenni or sono, sottolineava a ragione la carenza di studi relativi al Seicento, ormai da vari
anni Alfani suggerisce che il titolo di vero “secolo dimenticato” dalla storiografia economica italiana vada oggi attribuito al Cinquecento: periodo che peraltro presenta molteplici nodi storiografici irrisolti. L’autore si propone di
affrontarne alcuni dei principali, con l’intento dichiarato
“non (...) di concludere (e quindi di chiudere) un fronte di
ricerca, quanto piuttosto di aprirlo: e, forse, di stimolare
nuove ricerche sulla popolazione e l’economia di questo
periodo trascurato” (p. 27).
La chiave di lettura che Alfani propone è quella dell’impatto, demografico ed economico, delle calamità sulle
tendenze di fondo della popolazione e delle economie italiane. La scelta di partire dalla popolazione per illuminare le dinamiche economiche si giustifica con la disponibilità di dati assai più abbondanti (e l’autore propone ampie
ed articolate ricostruzioni demografiche, specie per l’Italia settentrionale, pubblicando anche alcune delle serie più
rilevanti in Appendice e rendendole quindi disponibili ad
altri studiosi interessati a questo periodo), tali da consentire non solo di pervenire a conclusioni solide sotto il profilo statistico, ma anche di procedere ad estese comparazioni. L’approccio comparativo, che caratterizza tutto il libro integrandosi armoniosamente con svariati case study,
trova piena espressione nei grafici per macro-aree impiegati nel quinto e ultimo capitolo. Sono però le mappe a
costituire il vero cuore del libro nonché uno dei suoi aspetti più innovativi sotto il profilo metodologico. Per il loro
tramite, Alfani riesce non solo a valutare l’estensione territoriale e l’intensità delle principali crisi del secolo (la
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peste detta “di San Carlo” del 1575-77 nell’Italia settentrionale; la “crisi alimentare ed epidemiologica” del 152729; la grande carestia del 1590-93, e così via), ma anche a
tracciare spazialmente le dinamiche demografiche – sintomo di economie vivaci o stagnanti – tramite il confronto,
condotto comunità per comunità, delle generazioni di nati
a scadenze selezionate opportunamente. La rappresentazione spaziale degli eventi e del loro impatto è per Alfani
lo strumento sia per confrontarne l’incidenza in aree diverse della penisola, sia per affrontare il nodo cruciale delle
conseguenze redistributive delle calamità. Se la distruzione di uomini, mezzi e capitali è senz’altro caratteristica
dell’azione dei Cavalieri dell’Apocalisse, quella stessa azione non mancò di fornire opportunità economiche assai rilevanti a chi si trovò nelle condizioni di poterne approfittare. Un capitolo specifico, intitolato “Vincitori e vinti”, è
dedicato espressamente al tema della redistribuzione: mostrando ad esempio il modo in cui la grande carestia di
fine secolo poté risolvere scompensi (demografici ed economici) accumulatisi nei decessi successivi alla fine delle
Guerre d’Italia (pace di Cateau-Cambrésis del 1559).
Questo percorso a ritroso, dall’ultimo capitolo ai primi,
ci porta infine all’ampia parte del libro che Alfani dedica
all’azione di ciascuno dei Cavalieri: nell’ordine impiegato
nell’esposizione, Guerra, Carestia e Peste. In questi capitoli tematici, l’autore sviluppa un “approccio olistico allo
studio delle catastrofi: vale a dire una lettura delle loro
conseguenze economiche e demografiche che non trascuri
gli aspetti sociali, culturali, psicologico-comportamentali
così come istituzionali (le istituzioni, anzi, saranno assunte come categoria analitica fondamentale in quanto condizionano sviluppo e conseguenze degli eventi calamitosi, e
in quanto le crisi più terribili si configurano sempre anche
come fallimenti istituzionali)” (pp. 28-29). Capitolo per capitolo, dunque, i danni umani e materiali causati dai Cavalieri dell’Apocalisse vengono analizzati secondo complesse direttrici interpretative che si spingono fino a fornire
una valutazione della mortalità non solo nei termini del
numero di vittime, ma anche dei danni al capitale umano;
a misurare l’efficacia e le modalità dell’intervento delle
istituzioni al pari dei costi da esso comportati; a chiarire
le già menzionate conseguenze redistributive degli eventi.
L’analisi, dunque, condotta alla luce della ricca tradizione
storico-economica italiana così come della storiografia internazionale più recente, e costantemente arricchita dei
molti nuovi dati raccolti da Alfani nel corso delle sue proprie indagini archivistiche, fornisce sia un quadro sintetico dell’azione di guerra, carestia e peste nella prima Età
moderna, sia un’interpretazione complessiva, sia infine
molti spunti per ricerche future.
La tesi conclusiva di Alfani, in questo libro che pure
parte dalle calamità e dalle loro conseguenze, è però che
l’azione dei Cavalieri dell’Apocalisse, contrariamente a
quanto suggerito da una parte importante della storiografia
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e in particolare dalla ricostruzione classica di Carlo M.
Cipolla, non intaccò profondamente né durevolmente la
salute economica della penisola. In questa interpretazione troviamo la vera chiave di lettura del titolo che ALFANI
ha voluto dare al volume: “In questi anni assisteremo all’arrivo in Italia dei Cavalieri dell’Apocalisse, forieri di
morte e devastazione. Tuttavia, come colpiti dalla bellezza, dalla ricchezza e dal bel vivere delle terre in cui si erano avventurati, i Cavalieri si mostrarono clementi e, piuttosto che mietere tutti coloro che gli si pararono sul cammino e distruggere quanto incontrarono, approfittarono
dell’occasione per fare il loro Grand Tour. Visitarono quasi
ogni angolo dell’Italia, lasciandola però in larga parte intatta” (p. 32). Questa tesi, che i dati e le analisi proposti da
Alfani supportano in modo assai efficace sia dal punto di
vista demografico sia da quello economico (come suggerito
da Lorenzo Del Panta nella sua prefazione al volume), induce Alfani a rifiutare la tesi tradizionale dell’“estate di
San Martino” e l’idea che le radici della “crisi del Seicento”
(per quanto relativa e parziale, come mostrato da molti
storici economici a partire da Domenico Sella fino a Paolo
Malanima e altri) vadano ritrovate nel secolo precedente.
Nella sua conclusione, Alfani individua ipoteticamente nelle pandemie pestilenziali secentesche il punto di svolta:
“se immaginiamo di collocarci negli anni a cavallo dei due
secoli, per trovare il principale responsabile delle difficoltà secentesche dovremmo piuttosto guardare al futuro: non
però alla crisi degli anni venti, bensì alle terribili pandemie
del 1629-1631 e del 1656-1657, che assieme coinvolsero
quasi tutta la penisola. (...) Il lungo Cinquecento [14941629] e il breve Seicento [1630-1700], dunque, sarebbero
separati in modo netto da una «caduta» (una catastrofe),
di popolazione e di prodotto, di cui la peste fu la principale
responsabile.” (p. 265). Si tratta in questo caso di un’affascinante ipotesi di ricerca che, come l’Autore riconosce apertamente, necessiterà di ricerche future per trovare piena
conferma: ricerche che peraltro, come questo libro ci lascia
intuire, egli ha già avviato.
D ANIELE A NDREOZZI , L OREDANA P ANARITI . C LAUDIO
ZACCARIA (a cura di), Acque, terre e spazi dei mercanti. Istituzioni, gerarchie, conflitti e pratiche dello
scambio dall’età antica alla modernità, Trieste,
Editreg, 2009, pp. 332.
Il volume, che raccoglie gli atti del Convegno tenuto a
Trieste il 23 e 24 febbraio 2008, affronta il tema del commercio marittimo e della portualità nel bacino del Mediterraneo tra l’antichità e l’avvento della navigazione a vapore. Negli interventi raccolti dai curatori il mondo del
commercio marittimo viene colto attraverso le relazioni di
scambio - non solo economico - intessute da mercanti e
navigatori, come pure attraverso le politiche e le pratiche
messe in atto dalle autorità pubbliche, che a diversi livelli
si sforzarono di indirizzare, disciplinare e spesso di piega-
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re ai propri interessi l’azione degli operatori commerciali.
Gli spazi del commercio terrestre e marittimo appaiono
soggetti a continue trasformazioni, che ne alterano la struttura, infittiscono o diradano le reti dei rapporti tra mercanti e la frequentazione delle rotte, mentre all’interno
delle città e dei centri portuali i confini e gli usi degli spazi
riservati allo scambio e alle attività connesse alla
marineria vengono costantemente ridefiniti.
Aperto da un’introduzione dei curatori, il volume comprende i saggi di Biagio Salvemini, Spazi del mercato, spazi della città: gerarchie sociali ed istituzioni a Marsiglia
fra la Fronda e la Rivoluzione; Arnaud Bartolomei, Le port,
la baie et la côte: les usages différenciés des espaces
portuaires de Cadix à la fin du XVIIIe siècle; Carlo Gatti,
«Liberamente habitare». Spazi degli ebrei, spazi dei mercanti e spazi dei cittadini nella Trieste del ‘700; Marco
Moroni, Reti commerciali e spazi costieri: il caso di Ancona
fra XVII e XVIII secolo; Daniele Andreozzi, «Qual
generatione di fiera si possi introdurre». Spazi dei commerci e pratiche dei mercanti a Trieste e nel Litorale austriaco nei primi decenni del Settecento; Salvatore
Pappalardo, Ambizione politica, commercio e diplomazia
alla fine del XVI secolo: Carlo Cicala; Maria Montacutelli,
Navigando in un mare senza stelle. A proposito della Nautica mediterranea di Bartolomeo Romano e dei suoi ‘debiti’; Charikleia Papageorgiadou-Banis, Roman trading and
traders across the Ionian and Adriatic Sea. The evidence
from settlements and coins; Claudio Zaccaria, “Multa
peragratus ego terraque marique”. Lo spazio dilatato del
mercante romano tra acque e terre visto dall’osservatorio
di Aquileia; Edoardo Demo, Dalla Terraferma al Mediterraneo. Traffici, vie d’acqua e porti dell’Italia centro-meridionale nelle strategie dei mercanti delle città del dominio
veneziano (secc. XV-XVII); Donata Degrassi, Lo spazio altoadriatico nel medioevo e gli scambi tra mondo mediterraneo e mondo centro-europeo (XII-XV secolo); Andrea Mozzato, Scelte produttive e commerciali dei drappieri di Venezia in area adriatica e levantina fra Tre e Quattrocento.
G IAN L UIGI B ASINI , L UCIANO S EGRETO , Credito
Emiliano, 1910-2010. Dalle radici agricole alla diffusione nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 609.
Il Credito Emiliano, o CREDEM, costituisce un’eccezione
nel panorama del sistema bancario italiano, essendo uno
dei pochissimi istituti sopravvissuti alla crisi degli anni
Trenta e rimasti sempre al di fuori del controllo pubblico e
della sfera delle partecipazioni statali. La storia di questa
banca, nata nel 1910 con il nome di “Banca Agricola Commerciale di Reggio Emilia”, attesta il legame profondo con
il territorio in cui essa è sorta e si è radicata. Il volume,
appartenente alla collana Storia delle banche in Italia, ne
segue l’evoluzione e le trasformazioni, tracciando il percorso che dall’iniziale specializzazione come banca al servizio dell’agricoltura, istituita per sostenere il processo di
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modernizzazione e commercializzazione del settore vinicolo e caseario nel periodo prebellico, ha portato il Credito
Emiliano ad accompagnare i cambiamenti di struttura economica e sociale che hanno interessato la regione nel corso del secondo dopoguerra e della rinascita economica. Fino
alle trasformazioni del sistema bancario degli ultimi
vent’anni, che hanno visto l’istituto emiliano protagonista
di un’espansione estesa a tutta Italia, con una successione
di acquisizioni e fusioni che hanno teso a “deterritorializzare” la banca per poi “ri-localizzarla” sull’interno territorio nazionale.
SALVATORE BONO, Lumi e corsari. Europa e Maghreb
nel Settecento, Perugia, Morlacchi, 2005, pp. 311.
Il volume, che raccoglie saggi pubblicati dagli anni sessanta in poi, rivisti ed aggiornati dall’Autore, è dedicato
alle relazioni tra Europa e paesi del Maghreb nel corso del
Settecento. Dopo essere stati protagonisti della “grande storia” nel corso del Cinquecento, dall’ascesa dei
grandi capi corsari, da
Barbarossa a Uccialì, alle
spedizioni di Carlo V a
Tunisi ed Algeri, all’attacco turco a Malta, i paesi del
Maghreb sembrano relegati ad un ruolo marginale,
quando non a scomparire
sullo sfondo di una
storiografia ormai dominata dalle vicende che interessano i paesi europei. Eppure, come documenta con abbondanza di riferimenti l’Autore, nel corso del Settecento l’attività corsara si riduce ma
non scompare, le navi algerine, tunisine e tripolitane continuano a percorrere il Mediterraneo in cerca di prede e le
loro audaci incursioni alla ricerca di uomini e donne da
ridurre in schiavitù mantengono nell’insicurezza le coste
spagnole ed italiane. E molti stati europei intessono rapporti più stretti che nel passato con le reggenze
barbaresche, concludendo trattati a tutela del loro commercio marittimo, con l’effetto indiretto di restringere il
numero delle prede potenziali, e di concentrare l’aggressività dei corsari sul naviglio e sui sudditi dei paesi meno
accondiscendenti alle richieste algerine, tunisine e
tripolitane.
La violenza di arrembaggi e delle razzie ed il ricorso
alle sottigliezze del diritto per stabilire la legittimità o
meno delle prede o per ottenere il completo pagamento di
un riscatto, il conflitto tra religioni e le espressioni di amicizia contenute nei trattati, la persistenza della schiavitù
su entrambe le rive del mare interno ed il mantenimento
di un sistema di istituzioni e di relazioni con gli “infedeli”
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per ottenere la liberazione dei prigioni costituiscono solo
alcune delle polarità, apparentemente contrapposte ma di
fatto complementari, che caratterizzano una realtà complessa e di non facile lettura, tanto per lo storico contemporaneo quanto per gli europei dell’epoca. Un mondo quindi
di cui è difficile definire i caratteri in senso generale, ma
che l’autore indaga attraverso la ricostruzione di percorsi
di vita e di narrazioni individuali, da quelli dei semplici
marinai e viaggiatori ridotti in schiavitù al ricchissimo
principe di Paternò catturato al tramonto del Settecento.
Dei caratteri e dei mutamenti subiti dalla visione del
mondo barbaresco nel corso del Settecento e in seguito alla
diffusione dell’illuminismo l’Autore dà conto nelle pagine
dedicate al console austriaco ad Algeri Carlo Antonio Stendardi, agli Anecdotes Africaines di Jean Gaspard
Fontanelle, alla Summarische Geschichte von Nord-Afrika
di A. L. Schölzer. Di particolare interesse si rivela la lettura – o meglio la rilettura alla luce degli esiti del processo
di decolonizzazione – delle parti del trattato dell’abate
Reynal dedicate alle reggenze barbaresche. L’esponente del
tardo illuminismo francese, noto per la sua posizione critica sul colonialismo in Asia, si fa sostenitore di un’intervento comune europeo con l’obiettivo di “civilizzare” i popoli del Maghreb, secondo logiche che prenderanno piede
nel secolo successivo e verranno utilizzate per giustificare
e legittimare l’occupazione di gran parte del globo da parte delle potenze del vecchio continente.
BRUNO BRACALENTE, LUCA FERRUCCI (a cura di), Eventi
culturali e sviluppo economico locale. Dalla valutazione d’impatto alle implicazioni di policy in alcune
esperienze umbre, Milano, Franco Angeli, 2009, pp.
291.
Il volume è pubblicato nella collana “Economia e management della cultura e delle arti” – nata su iniziativa
dell’International Center of Art Economics (ICARE), creato
nel 1991 dall’Università Ca’ Foscari e dall’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV) – che costituisce
un utile strumento per approfondire i meccanismi materiali della produzione, distribuzione e consumo delle attività e dei beni artistici e culturali. Questa ricerca muove
dalla necessità di un’organica riflessione teorica e
metodologica, a partire da esperienze concrete, sul tema
della valutazione economica dell’impatto a livello locale
degli eventi culturali, di grande importanza per l’Italia e
non solo per gli studiosi, ma anche per i policy makers, gli
operatori economici e le community locali. Essa colma una
lacuna, in quanto le verifiche empiriche su casi specifici
da noi sono state rare; non si tratta, infatti solo di valutare gli effetti economici della spesa dei turisti attratti dagli
eventi culturali (questione sempre più indagata anche nel
nostro Paese), ma di esaminare diversi altri aspetti relativi alla fase dell’organizzazione degli eventi, da cui pure
dipende la capacità degli stessi e della relativa spesa di
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essere un reale volano dello sviluppo locale (analisi dei
loro costi e ricavi, forme di finanziamento, completezza o
carenza delle filiere di approvvigionamento di beni e servizi attivate localmente). I saggi del libro, effettuati da economisti, statistici ed aziendalisti, riguardano una città,
Perugia, e una regione, l’Umbria, caratterizzata da un assetto insediativo fondato su piccoli centri urbani e su un
capitale sociale, consolidatosi storicamente, che ha stimolato la nascita di un diffuso associazionismo locale promotore di molteplici eventi collettivi, talvolta assai dispensiosi,
ma in grado di contribuire a mantenere l’identità dei suddetti centri. Si tratta di iniziative ricorrenti, quali il Festival
dei Due Mondi e Umbria Jazz, oppure di episodiche mostre, che hanno rafforzato la capacità di attrarre i flussi di
turismo culturale. In particolare, l’attenzione degli Autori
si è rivolta a monitorare e a stimare la ricaduta economica
di tre principali manifestazioni culturali e di spettacolo
organizzate negli ultimi due anni a Perugia: il festival
musicale Umbria Jazz e le mostre Pintoricchio e Da Corot
a Picasso, da Fattori a De Pisis. La convizione, sul piano
generale, che esiste un legame virtuoso fra politica culturale e crescita economica si è tradotta, dati alla mano, nella conferma che esse, oltre a rappresentare uno straordinario veicolo promozionale e d’immagine, si confermano
anche un potente stimolo alle attività legate non soltanto
al turismo, ma anche, ad esempio, al commercio e all’artigianato.
I contributi – che consentono di riflettere sulle
potenzialità del terziario, di cui il turismo è componente
essenziale, per favorire l’espansione dell’economia umbra
– sono: Bruno Bracalente e Luca Ferrucci, Eventi culturali
e sviluppo locale: una introduzione; Cecilia Chirieleison, Il
turismo culturale: una risorsa per lo sviluppo economico
locale; Cecilia Chirieleison, Massimo Cossignani, Luca
Ferrucci e Marina Gigliotti, Il festival musicale Umbria
Jazz; La mostra del Pintoricchio e la mostra Da Corot a
Picasso, da Fattori a De Pisis; Massimo Cossignani e Maria Giovanna Ranalli, La segmentazione dei visitatori; Bruno Bracalente e Massimo Cossignani, L’impatto economico
della spesa; Bruno Bracalente e Luca Ferrucci, Eventi culturali, sviluppo economico locale e implicazioni di policy;
Maria Giovanna Ranalli, Appendice. La metodologia delle
indagini campionarie sui visitatori.
ANTONIO DI VITTORIO (a cura di), Patrimonio industriale e funzione economica sull’Adriatico. L’area
nord pugliese-molisana, Bari, Cacucci, 2009.
Il volume raccoglie i risultati delle ricerche svolte sotto il coordinamento di Antonio Di Vittorio dall’Unità di
ricerca costituita presso l’Università di Bari nell’ambito
del Progetto europeo quadriennale Interadria - Interreg
III A Transfrontaliero Adriatico conclusosi nel 2008. Le
indagini condotte nell’ambito del progetto hanno permesso di descrivere nella sua ricchezza e complessità il patri-
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monio di archeologia marittima di una regione caratterizzata da un’importante sviluppo costiero e da una forte proiezione verso il mare. Tra i 54 siti censiti e sottoposti a
schedatura sono rappresentate strutture di epoca differente, dal medioevo all’età moderna all’Otto-Novecento, e
dalle funzioni assai diversificate. Alcune di esse si presentano più direttamente legate ad un’economia marittima quali porti, saline, magazzini, dogane, cantieri navali
e mercati ittici, mentre altre,
pur affacciandosi sul mare,
erano espressione di un’economia di terra, è il caso delle
masserie e abbazie fortificate, dei conventi e degli ospedali crociati. Un patrimonio
archeologico-industriale da tutelare e da promuovere attraverso un’adeguata opera di valorizzazione anche a fini
turistici, dato l’elevato valore storico-economico, artistico
ed architettonico di molte strutture.
Il volume, corredato da un ricco apparato iconografico,
si compone dei saggi di Antonio Di Vittorio, Il patrimonio
industriale marittimo nord pugliese-molisano. Metodologia
di una ricerca; Giulio Fenicia, L’economia della fascia
litoranea sud barese; Maurizio Gangemi, Il mare e l’economia barese tra Ottocento e Novecento; Alessandra Tessari,
A nord di Bari: un’economia volta al mare tra Bisceglie e
Giovinazzo; Potito Quercia, L’economia pugliese dell’area
Tavoliere-Nord barese; Ezio Ritrovato, L’economia
garganico-molisana e il mare (XIX-XX secolo).
TOMMASO FANFANI, CHIARA MANI, ELENA COLOMBINI (a
cura di), Gente di Piaggio. 200 immagini per riconoscersi, Pontedera, Tipografia Bandecchi & Vivaldi,
2010, pp. 227.
Il volume è il catalogo della Mostra organizzata dalla
Fondazione Piaggio presso il Museo Piaggio “Giovanni Alberto Agnelli” a Pontedera dal 12 febbraio al 10 aprile 2010.
Nata nel 1884, la Piaggio si è insediata nella città toscana
nel 1924: da allora l’azienda specializzata in aerei da competizione, quadrimotori e potenti motori aeronautici
“stellari” ha mutato l’oggetto della produzione, passando
nel 1946 a Vespa – un vero simbolo del miracolo economico italiano e della modernizzazione del Paese –, nel 1947
ad Ape e poi a una lunga serie di veicoli a due, tre e quattro ruote che hanno scritto pagine decisive nella storia della
mobilità leggera a livello mondiale e nell’organizzazione e
nella crescita dell’economia e della società civile.
Con questa esposizione la Fondazione ha inteso ricostruire attraverso il lavoro le fasi espansive, ma anche
quelle di criticità economiche, di tensioni sociali, di lotta
18
contro le avversità naturali, quali l’alluvione del 1966 che
colpì anche lo stabilimento. Al materiale, conservato nel
Fondo iconografico dell’Archivio Storico Piaggio e nel fondo librario della biblioteca, si sono aggiunte le fotografie
messe a disposizione dalla “Gente di Piaggio”.
Dopo l’Introduzione di Tommaso Fanfani e la Prefazione dei curatori, l’Anteprima 1930-1980. 200 immagini per
riconoscersi , a cui corrispondeva il corpus principale della
mostra, sono riportate cento immagini in ordine cronologico. Il saggio Territorio e società di Elena Colombini testimonia, mediante alcune delle più significative occasioni
celebrative dell’azienda a Pontedera, le ricadute che l’attività dell’impresa ha avuto sul circondario; Piaggio nel
mondo di Elena Colombini documenta l’internazionalizzazione di Piaggio e il successo di Vespa. Seguono i contributi di Chiara Mani, Tradizione e innovazione, di Elena
Colombini …essere competitivi e nuovamente di Chiara
Mani, Senso di appartenenza e Il lavoro raccontato.
ALESSIO GAGLIARDI, L’impossibile autarchia. La politica economica del fascismo e il Ministero scambi e
valute, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 231.
Il volume ha, come oggetto di studio, l’operato del Ministero per gli scambi e le valuta, durante il periodo che
va dalla nascita, nel 1935, fino all’inizio della II Guerra
Mondiale, quando uscì di scena il suo massimo dirigente,
Felice Guarneri, ed il ruolo di questo organismo subì un
forte ridimensionamento.
Fra gli strumenti utilizzati in questa ricerca, oltre alla
documentazione archivistica, è stato “riscoperto” il libro di
memorie di Guarneri, edito nel ’53, che descrive la vicenda da un punto di vista soggettivo e dal quale Gagliardi
attinge, pur mantenendo le distanze dal taglio cronachistico
e talvolta aneddotico che caratterizza quel volume, solo
allo scopo di trovare eventuali conferme ai dati archivistici
e ricercarvi riscontri di eventuali processi strategici omessi
dal Guarneri.
Nonostante il breve periodo di attività del ministero,
la legislazione in materia economica, valutaria e nel campo del commercio con l’estero cui l’istituzione diede impulso manifestò una intensa progettualità e produttività. Sono
altresì poste in evidenza l’impatto e l’incidenza delle disposizioni di legge in materia, sia sull’economia che sulla
politica italiane. Inevitabilmente, infatti, l’azione legislativa condizionò quella imperialista e ne fu condizionata,
dovendo confrontarsi con un eficit della bilancia dei pagamenti, che indeboliva l’immagine dell’Italia a livello internazionale.
Nella sua analisi l’Autore si ripropone di evitare una
lettura dei fatti storici che privilegi la sola logica economica, rendendola avulsa dal contesto politico-istituzionale e
socio-culturale dell’epoca, e al pari rifugge da un’interpretazione che valorizzi unicamente l’autoreferenzialità del
soggetto politico. Sceglie, pertanto, di sottolineare
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l’interazione fra decisioni politiche e necessità economiche e i profondi legami esistenti fra gli attori delle due
aree, quella istituzionale e la comunità economica, che pure
non furono sempre unite da obiettivi strategici comuni. A
partire da questa impostazione metodologica il libro non
si limita a ripercorrere la politica economica di quella fase
storica, ma prende in esame anche la struttura del Ministero, la sua organizzazione e il suo funzionamento, oltre
alla composizione e alla formazione culturale del suo gruppo dirigente. Affianca, cioè, una “storia interna” dell’istituzione a quella “esterna”, costituita dalle conseguenze, a
breve e medio termine, che il suo operato ebbe sulla società e sulle sue varie categorie di rappresentanza.
Emergono alla luce, dalla lettura del testo, alcune
tematiche storiografiche cruciali. A partire da quella che
riguarda la relazione tra gli apparati e le politiche messe
in atto, cioè tra struttura e strategia. Un altro tema importante posto in rilievo è quello della centralità delle trasformazioni, che ebbero luogo negli anni ’30, fra potere
pubblico e soggetti economici privati, nonché quello dell’uso di mediazioni di tipo corporativistico.
L’Autore non trascura di sottolineare come, all’interno
dell’organizzazione statale mussoliniana, non vi fosse un
programma strategico monolitico ma, al contrario, la presenza di posizioni diversificate e di più scelte e politiche
alternative in merito alle questioni economiche. Infine, si
pone l’attenzione sull’intreccio problematico fra decisioni
di politica economica e di politica estera, analizzando come
e quando esigenze di carattere economico potessero influire sulle decisioni di tipo politico-diplomatiche.
PAOLA LANARO, ELENA SVALDUZ (a cura di), Le reti
dello scambio. Uomini, merci, architettura (XV-XIX
sec.), «Cheiron», anno XXV, n. 50, 2008.
Interdisciplinarità e lungo periodo sono le parole-chiave di questo numero di Cheiron curato da Paola Lanaro ed
Elena Svalduz. Naturale sviluppo di quanto emerso nella
macrosezione Le reti dello scambio del IV congresso dell’Associazione Italiana di Storia Urbana (AISU) tenutosi a
Milano nel febbraio 2009, il volume raccoglie saggi di storici dell’economia (Andrea Caracausi, Giovanni Favero,
Marina Romani e Rachele Scuro) e storici dell’architettura (Valeria Frignani, Stefano Zaggia, Tommaso Zampagni
e Stefano Croce) e copre un’arco cronologico che va dal periodo medievale all’età contemporanea.
Il concetto di rete è il tema d’indagine, che viene tuttavia declinato, come affermano le curatrici nel saggio
introduttivo, Uomini, merci, architetture: dalla bottega al
grande magazzino, “sulla concretezza fisica della città, che
nella visione luzzatiana, alla quale si vuole fare riferimento, appare del tutto contigua alla concretezza economica” (p.
7). Reti formali e informali vengono quindi analizzate nel
loro intrecciarsi secondo dinamiche che coinvolgono i centri
urbani su piani regionali, nazionali e internazionali.
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La costruzione di una rete di città è il tema su cui si
concentra l’attenzione dello studio di Andrea Caracausi,
Mercanti e manifatture tessili fra Padova e Venezia. Reti di
scambio e specializzazioni produttive in Età Moderna, che
esamina le interdipendenze tra Padova e Venezia relativamente alle vicende attraversate dalle manifatture tessili in
età premoderna. La costruzione di reti di scambio e i conseguenti processi di specializzazione produttiva e divisione del
lavoro furono il risultato, oltre che delle caratteristiche del
territorio e delle trasformazioni dei mercati internazionali,
anche del rapporto tra strategie degli operatori e contesto
istituzionale e della capacità di quest’ultimo di favorirne o
limitarne lo sviluppo. Se la produzione e la
commercializzazione di manufatti tessili nell’entroterra trovò a livello macroeconomico un fattore di sviluppo determinante nell’emporio realtino, quest’ultimo non impedì la formazione di reti slegate da Venezia in grado di connettere la
città patavina ai mercati dell’Europa centrale e dell’Italia
meridionale. A livello microeconomico, tuttavia, i mercanti
sfruttarono le opportunità offerte dalla congiuntura internazionale attraverso la creazione di “reti di scambio infracittadine che incisero sulle strutture economiche dei territori, favorendo specializzazioni produttive a livello locale e
incoraggiando la circolazione della manodopera in ambito
regionale” (p. 30).
Che la dotazione infrastrutturale rappresenti un elemento imprescindibile per la città e il territorio è una considerazione che, seppur non manifestata in modo esplicito, permea tutto il discorso di Caracausi. A focalizzare comunque la trattazione su questa tematica è Giovanni
Favero con l’intervento Le province «venete» dalla caduta
della Repubblica all’unità: la metamorfosi di uno spazio
regionale, col quale, spostando l’arco di tempo analizzato
all’Ottocento preunitario, si interroga sul “passaggio dalla
compresenza di diverse aree economicamente integrate,
disposte lungo linee approssimativamente coincidenti con
i principali bacini fluviali, a un policentrismo a corridoio
che privilegia i principali centri della pianura” (p. 31). L’attenzione dell’autore si concentra sul processo di
riorganizzazione territoriale guidato dalla politica delle
autorità asburgiche, i cui interventi economici e
infrastrutturali favorirono l’affermazione di vivaci centri
manifatturieri accanto a zone agricole ed aree depresse
lungo la linea stradale e ferroviaria che collegava Venezia
a Milano. A ciò contribuì in misura non secondaria la forte
integrazione economica e finanziaria tra l’area veneta e
quella lombarda, che nel periodo tra il 1859 e il 1866 favorì non poco “il diffondersi dell’irredentismo anche tra i ceti
possidenti, tradizionalmente più moderati” (p. 45).
I lavori di Frignani e Zaggia offrono la possibilità di
affrontare il tema comune a tutti i saggi del volume attraverso l’occhio dell’architetto. Le diverse dinamiche del rapporto tra momento economico e struttura urbanistica vissute da Milano e Mantova costituiscono l’oggetto dell’ana-
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lisi di Valeria Frignani, Giustizia e commercio, palazzo pubblico e ragioni private: commistioni a Mantova e Milano
fra Basso Medioevo ed Età Moderna, che nota come gli spazi
dell’attività economica nella città meneghina si inserirono e sovrapposero al tessuto urbano dei grandi edifici pubblici seguendo un criterio di netta separazione tra luogo
istituzionale e spazio economico-commerciale. Diverso è il
caso di Mantova dove l’iniziativa privata di artigiani e commercianti favorì una forte compenetrazione tra la componente architettonica commerciale e quella destinata allo
svolgimento dell’ufficio politico-istituzionale. Il tema della permanenza e della trasformazione del tessuto urbano
è al centro dello studio di Stefano Zaggia, Palazzi pubblici
e spazi urbani mercantili: permanenze e trasformazioni in
Età Moderna, che si pone in un rapporto di stretta
complementarietà con il lavoro di Frignani. Il conflitto tra
la volontà di procedere ad un ridisegno complessivo dello
spazio urbano e le resistenze opposte a questi progetti molto
spesso trovò sintesi in una “semplice ridefinizione degli
ambiti funzionali e delle attività comunitarie” (p. 61) come
dimostra, tra gli altri, il caso del Palazzo della ragione, o
dei Trecento, di Treviso.
La formazione di reti nel mondo ebraico è il focus dei
saggi di Scuro e Romani. Rachele Scuro nel contributo intitolato Reti bancarie, reti commerciali, reti familiari. Scambi all’interno delle comunità ebraiche della Terraferma
veneta quattrocentesca articola il suo ragionamento su tre
piani d’analisi che trattano la dimensione internazionale
e trans-regionale, quella regionale e quella urbana. Se il
matrimonio è il fulcro di un plesso di reti parentali, finanziarie e culturali, il legame con la terra d’origine e i
correligionari di vicina nascita sono gli elementi portanti
della struttura di relazioni organizzata dalle comunità
ebraiche nello spazio internazionale. La situazione non è
diversa a livello regionale, dove acquistano un’importanza fondamentale i banchi aperti nei centri minori soprattutto in seguito all’espulsione delle comunità ebraiche dalle
città più importanti. A livello urbano la rete emerge nella
sua doppia valenza di network economico (nel senso di una
compartecipazione di diverse famiglie nei banchi) e materiale. Per quanto riguarda questo secondo aspetto è interessante notare come la scelta della localizzazione dei banchi emergesse da un contrasto tra la necessità economica
e il bisogno di auto-rappresentazione all’interno della città, entro un perimetro segnato dai vincoli legislativi che
precludevano l’accesso ai luoghi simbolicamente più significativi come la piazza principale e le zone prossime ad
edifici sacri.
Reti cristiane e reti ebraiche costituiscono il tema indagato da Marina Romani nel saggio Reti socioeconomiche
cristiane e reti socioeconomiche ebraiche nelle città dell’Italia centro-settentrionale tra basso medioevo e prima età
moderna: un raffronto possibile? La diversità delle
precondizioni per la costituzione di reti e capitale sociale
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(l’assenza nel mondo ebraico delle cosiddette nationes e di
un’autorità statale di riferimento) condizionano la struttura e le finalità dei network predisposti dalle due comunità sia in senso orizzontale che verticale (se per gli ebrei
si trattava di mitigare la posizione di contraente debole
oggetto del pregiudizio del microcosmo che lo circondava,
per la compagnia mercantile l’obiettivo era l’ottenimento
del privilegio dall’autorità statuale). Anche i diversi effetti patrimoniali del matrimonio determinarono disegni strategici differenti, favorendo nel mondo cristiano una forte
compenetrazione tra famiglia e azienda (dalla forma unitaria alla holding) agevolata dalla cancellazione dell’autonomia patrimoniale della sposa; la donna ebraica invece
“poteva, almeno potenzialmente, modellare e rimodellare
alleanze e costituire, quindi, un tassello attivo della rete”
(p. 107). Da questi presupposti discende quindi la differente natura della rete che per il cristiano, garantito dalla
presenza di un’autorità statale, diveniva uno strumento
sopratutto economico, mentre per l’ebreo era il mezzo che
“consentiva l’integrazione senza l’assimilazione e da qui
l’autopoiesi, il continuo rigenerarsi, della costellazione
unitaria” (p. 114).
L’indagine varca i confini italiani per studiare l’intreccio di cambiamenti sociali e urbani a Costantinopoli nel
saggio di Tommaso Zampagni su Commercio e finanza: l’immagine della cultura europea nel sistema architettonico di
Costantinopoli nella seconda metà del XIX
secolo.L’architettura svolge qui il ruolo di binario di
un’europeizzazione che venne giudicata alternativa migliore rispetto alla elaborazione di soluzioni originali da parte
di un cosmo socio-economico incapace di sostenere le sfide
dei nuovi processi di sviluppo.
Il lavoro finale di Stefano Croce, La galleria contemporanea: evoluzione compositivo-tipologico-funzionale di un
principio organizzatore spaziale, porta l’attenzione sul luogo dello scambio che forse maggiormente costituisce la sintesi delle dinamiche evolutive vissute dai processi economici di distribuzione commerciale e dello sviluppo del pensiero compositivo-architettonico. Gli esempi proposti dall’autore indicano che, pur all’interno dei vincoli posti dalle
strategie commerciali della committenza, l’opera
architettonica può ancora mostrare quei caratteri di varietà e qualità in un connubio che unisce i caratteri della
galleria tradizionale ad altri principi topologici non di rado
opposti.
P IERGIORGIO L AVERDA , Le macchine agricole
Laverda. La storia, i protagonisti e tutti i modelli
prodotti a Breganze dal 1873, Dueville, Agorà Factory,
2009.
Il volume, riccamente illustrato, ripercorre la storia
della Laverda sotto tutti i punti di vista, ma con particolare riferimento alle macchine agricole, in cui fin dalle origini la ditta di Breganze si specializzò. La narrazione pren-
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de le mosse dai natali del fondatore Pietro Laverda, nel
1845, e arriva fino al 2008, che segna l’uscita della
mietitrebbia n. 5000 costruita dal Gruppo, nel nuovo assetto societario, terzo al mondo nel campo della
meccanizzazione agricola. Al racconto, anche fotografico,
di oltre un secolo e mezzo di storia si accosta l’importante
e completa catalogazione dei prodotti Laverda dalle origini fino ad oggi. Questo meticoloso lavoro di catalogazione
ha risposto, nelle intenzioni dell’Autore, ad una duplice
esigenza: da un lato dar conto del percorso di sviluppo tecnologico delle macchine Laverda, dell’ampio spettro
tipologico della produzione e del suo stretto rapporto con
l’evoluzione della meccanizzazione agricola in Italia (e non
solo); dall’altro fornire un supporto conoscitivo ai collezionisti di attrezzature e
macchine agricole
d’epoca utile all’identificazione dei diversi
modelli, al loro restauro e alla loro conservazione. Naturalmente,
non si può parlare delle macchine agricole
Laverda prescindendo
da una accurata e completa ricostruzione della storia dell’azienda,
compito di cui l’Autore
si dà carico, facendo riferimento ai lavori precedenti, alle fonti e alle
testimonianze, in primo luogo di famiglia. Più in generale,
infatti, la pubblicazione è nata dall’esigenza di valorizzare la grande mole di documenti, immagini e notizie raccolte da quindici anni di ricerche dedicate, in particolare da
Giovanni Luigi Fontana e dallo stesso Piergiorgio Laverda,
alla storia della famiglia e dell’omonima industria meccanica. La Laverda è la più antica azienda italiana produttrice di macchine agricole ancora in attività e la sua storia
in buona misura coincide con la storia stessa dell’agricoltura italiana e, in particolare, della sua progressiva
meccanizzazione. Dal libro emerge un profilo aziendale
tutto improntato da una “meccanica di perfezione” che non
si esaurisce nelle macchine agricole, come evidenzia
icasticamente il bel manifesto pubblicitario del 1973 con il
quale la Laverda celebrava i suoi primi cento anni di vita
nel campo della meccanica: “100 anni di solide esperienze,
di continue ricerche, di tecnologia avanzata, Laverda è ‘creatività meccanica’: crea sempre nuovi prodotti nei tre settori in cui opera: macchine agricole, moto, roulottes. La
Laverda è infatti strutturata in tre aziende che operano
indipendentemente l’una dall’altra, con un continuo scambio di esperienze. Macchine agricole Laverda: perfetti complessi meccanici che aiutano l’uomo a produrre per l’uo-
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mo. Moto Laverda: le prestigiose 750 e 1000 cc che hanno
creato uno stile italiano in questo settore. Roulottes
Laverda: tecnicamente studiate per un confortevole tempo libero. Laverda è qualcosa in più: 4 stabilimenti, 1700
dipendenti”.
Così la Laverda a 100 anni dalla sua fondazione, dei
quali i primi venticinque passati da Pietro Laverda a produrre torchi da vinacce, pigiatrici per uva, sgranatoi per
pannocchie, trebbiatrici manuali per le piccole gestioni
contadine (tutti repertoriati nel libro, con molte interessanti notazioni), con l’ausilio di una locomobile a vapore
per azionare le macchine utensili presso l’officina nella
parte alta di Breganze, dove si trasferì nel 1884 su sollecitazione dei famosi monsignori Scotton, fino al grande balzo a cavallo del ‘900, propiziato dalla produzione dei cannoni grandinifughi, iniziata nel 1898 e perfezionata nel
1901 con il modello brevettato Laverda di cannone
antigrandine a mortaio-bossolo, fornito con successo a numerosi consorzi grandinifughi allora in piena espansione
su tutto il territorio veneto. A cavallo del secolo a Pietro
Laverda si affiancano i figli Francesco, elettromeccanico,
ed Antonio, principale collaboratore del padre, che nel 1904
si occupa del passaggio nel grande stabile in centro a
Breganze, dove la fabbrica avrà sede fino alla conclusione
degli anni ’70. Appena un anno dopo si perfeziona l’accordo commerciale con la Federazione dei Comizi Agrari, poi
Federconsorzi, che sarà per quasi 80 anni distributrice
esclusiva delle macchine Laverda in Italia. L’altro passaggio importante nell’evoluzione tecnologica della ditta è
costituito dall’esperienza delle forniture per l’esercito durante la prima guerra mondiale, quando la lavorazione di
proiettili (1916) verrà decentrata a Mandriola, vicino a
Padova, e dopo Caporetto a Pistoia, mentre la produzione
di macchine agricole e di altri materiali per l’Esercito resta a Breganze. Perduto prematuramente il figlio Antonio,
Pietro prosegue nella gestione della ditta assieme all’altro
figlio Giovanni fino alla morte nel maggio 1930, quando,
nel pieno della crisi, l’azienda viene affidata ai due giovani nipoti Pietro Jr e Giovanni Battista, figli di Antonio,
che negli anni successivi saranno coadiuvati dai fratelli
Angelina, Francesco e Giorgio. Sono Pietro e Giovanni
Battista gli artefici delle scelte decisive per uscire dalla
grave crisi economica e per imprimere alla Laverda una
“svolta storica”, sancita nel ’32 dalla costituzione della ditta
Pietro Laverda Sas, accomandita di famiglia con presidente
Giovanni Battista Laverda.
Nel 1934 nasce nelle officine breganzesi la prima
falciatrice meccanica italiana a traino animale, vero e proprio tornante produttivo nella storia della Laverda. Nel
1938 viene presentata la prima mietilegatrice, la ML 6,
capostipite di una fortunata serie di macchine da raccolto.
Attraversata, tra molte difficoltà, ma senza danni, la seconda guerra mondiale, l’azienda presenta nel 1947 la prima motofalciatrice progettata da Francesco Laverda. E’ lo
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stesso Francesco, che in una nuova fase di acuta crisi economica, ad avviare la diversificazione nel settore delle motociclette, creando nel 1949 la Moto Laverda Sas i cui modelli
avranno grande successo nei decenni a venire. Un’ulteriore
svolta si ha nel 1956, quando entra in produzione la
mietitrebbia Laverda M60, prima macchina semovente di
questo genere costruita in serie in Italia, con la quale inizia
una nuova stagione produttiva che caratterizzerà la successiva storia aziendale. Sull’onda di questi successi, la ditta
cresce di dimensioni e nel 1960 si inaugura il grande stabilimento per la produzione di mietitrebbie all’esterno del centro di Breganze. Il ’66 segna l’apertura della terza linea di
prodotti con l’acquisizione dello stabilimento aeronautico
Caproni di Trento e con la costituzione, ad opera di Francesco Laverda, della consociata Laverda SpA Trento per la
fabbricazione di aerei da turismo, roulottes ed altri prodotti
per il tempo libero.
Le innovazioni si susseguono con crescente intensità.
Appena un anno dopo con l’autofalciatrice condizionatrice
AFC 110 la Laverda entra con forza nel mercato delle grandi macchine foraggere e a distanza di altri tre anni, nel
1970, nasce la M 100 AL, prima macchina autolivellante
mondiale, creata per le zone collinari italiane. In questo
modo Laverda diventa leader assoluto di questa macchine
ad alta specializzazione. Al traguardo del primo centenario di vita, l’azienda breganzese è il maggiore produttore
italiano di macchine da raccolto ed uno dei maggiori del
mondo. I suoi prodotti arrivano a coprire il 60% del mercato italiano e sono esportati in decine di paesi stranieri.
Nel ’75 l’antica “Pietro Laverda” diventa società per azioni, ma il ’77 segna l’inizio di una nuova fase storica, segnato dall’accordo commerciale tra Laverda e Fiat Trattori con
il passaggio del 25% del pacchetto azionario all’azienda di
Modena. Le performance tecnologiche dell’azienda continuano, ma dal 1981 l’impresa viene a gravitare interamente
nell’orbita di Fiat Trattori SpA, cui la famiglia Laverda
cede l’intero pacchetto azionario. Il 1983 segna, al
contempo, l’epilogo della presenza attiva dei Laverda nell’azienda e la sua trasformazione in multinazionale:
Laverda acquisisce infatti la Hesston S.A. e la francese
Braud, produttrice di macchine per la vendemmia. Nel 1987
Laverda SpA viene incorporata assieme a Fiat Trattori
nella holding Fiat Geotech. Il percorso si completa nel 1992
con l’ingresso dello stabilimento di Breganze nella multinazionale New Holland. Il processo di innovazione tecnologica tuttavia non si interrompe: lo stesso anno, infatti,
viene presentata la nuova gamma di mietitrebbie serie L,
tra cui spicca il modello integrale con un innovativo sistema di livellamento.
Nel 2000, infine, si attua un nuovo fondamentale passaggio, una sorta di ritorno alle origini: la holding New
Holland cede lo stabilimento di Breganze alla società Argo
della famiglia Morra. Il marchio Laverda torna sul mercato con una nuova gamma di mietitrebbie. Nel 2004, l’inau-
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gurazione del museo aziendale, una rivisitazione della gloriosa storia Laverda, coincide con l’acquisizione di un’altra storica azienda europea di macchine da fienagione, la
tedesca Fella Werke GmbH, che dà ulteriore impulso allo
sviluppo del percorso di rinnovamento della gamma. E si
arriva così, nel 2007, alla ricollocazione della Laverda ai
vertici mondiali del settore con la cessione da parte di Argo
del 50% del pacchetto azionario ad Agco, una corporation
americana, realizzando la saldatura di due storie della
meccanizzazione, quella europea e quella americana, e costituendo il terzo gruppo mondiale nel settore della
meccanizzazione agricola.
FABIO LAVISTA, La stagione della programmazione.
Grandi imprese e Stato dal dopoguerra agli anni Settanta, Bologna, Il Mulino, 2010.
Il volume analizza uno dei nodi cruciali, dal punto di
vista economico e politico, che caratterizzò una lunga fase
della storia italiana, compresa tra la fine della II Guerra
Mondiale e la metà degli anni Settanta circa: quello relativo alla programmazione economica. Se inizialmente questo approccio rispondeva ad un’esigenza operativa dei soggetti incaricati di erogare i finanziamenti internazionali
per la ricostruzione post-bellica, negli anni Sessanta esso
divenne uno dei cavalli di battaglia della nuova coalizione
governativa di centro-sinistra.
L’approccio interpretativo dichiarato dall’Autore si
avvale di una duplice chiave di lettura, che esamina le ragioni della scelta di tale indirizzo da parte della classe
politica e il dibattito che si svolse all’interno alla dirigenza delle grandi imprese, soprattutto di quelle pubbliche.
Infatti, proprio questo tipo di azienda era già abituata a
tenere in considerazione una rigorosa programmazione, a
causa della necessità di pianificare la produzione riuscendo, preventivamente, a “indovinare” lo scenario futuro dei
mercati internazionali.
Partendo da esempi concreti, come quello della Olivetti
e del suo Ufficio Studi Economici, vengono ricostruiti dunque dibattiti e realizzazioni, quando e dove ve ne furono, di
quegli anni proficui di studi e progettualità, precursori anche di sviluppi che poi diverrano temi centrali nella programmazione più strettamente territoriale e settoriale. È
bene tener presente, inoltre, come quello italiano sia stato
un caso atipico nel campo della programmazione, in quanto
i piani economici nazionali non vennero poi attuati, ma si
limitarono a fornire l’occasione per esprimere posizioni di
principio e concludere accordi tra forze politiche e sociali.
Pur tuttavia, nei casi in cui si riuscì a tradurre questa
pianificazione in una pratica industriale, essa dette modo
alle aziende interessate di approdare ad una
modernizzazione effettiva, nella loro struttura e nei processi produttivi. A fare da contraltare rimasero però i gravi disequilibri economici, regionali e settoriali dovuti alla
mancata attuazione di una programmazione economica
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nazionale. Non bisogna poi dimenticare che si verificò anche una degenerazione del sistema, laddove gli strumenti
operativi previsti vennero sì istituiti, ma furono utilizzati
solo per raggiungere obiettivi elettorali e clientelari.
Il libro si conclude mettendo in evidenza i fattori che
fecero naufragare il progetto industriale che stava alla base
della programmazione. In primo luogo, si sottolinea il disaccordo, su alcune delle modalità per la sua realizzazione, fra correnti politiche diverse: fra chi propendeva maggiormente verso gli interessi dell’imprenditoria privata e
chi invece sosteneva le richieste dei sindacati. In secondo
luogo, pesò la volontà di primeggiare delle diverse tipologie
di istituzione investite, a vario titolo, del compito di programmare, e realizzare, la politica economica: Bilancio,
Tesoro, Banca d’Italia, CIPE. Come ultimo elemento, a partire dagli anni Sessanta, influì anche la congiuntura economica, che cominciò a diventare sempre più negativa, fino
alla crisi degli anni Settanta.
Tutti questi fattori, facendo fallire il progetto di programmazione, determineranno negli anni successivi il rallentamento significativo dello sviluppo italiano, e non solo
dal punto di vista economico.
L’Autore è convinto, in ogni caso, della validità di questo esperimento che, pur con tutte i limiti elencati, costituì
probabilmente l’ultimo progetto sul paese di stampo “unitario” volto, a partire da una ristrutturazione economica,
a rinforzare il valore della democrazia mediante lo sviluppo di una società più moderna.
CORINE MAITTE, ISSIAKA MANDE, MANUELA MARTINI,
DIDIER TERRIER (a cura di), Entreprises en mouvement.
Migrants, pratiques entrepreneuriales et diversités
culturelles dans le monde (XV e -XX e siècles),
Valenciennes, Presses Universitaires de
Valenciennes, 2009, pp. 450.
Il tema dell’emigrazione imprenditoriale e delle diaspore
mercantili è uno dei più classici e meglio esplorati nel campo della storia economica dell’età medievale e moderna, basti pensare alle pagine scritte da Sapori nell’immediato dopoguerra sui mercanti italiani in Europa. Ma assume carattere di pressante attualità se si tiene conto delle grandi correnti di emigrazione che nel corso degli ultimi decenni hanno portato milioni di persone a trasferirsi dai paesi in via di
sviluppo nell’Occidente industrializzato.
L’intento dei curatori del volume è stato quello di ricorrere alla storia economica per far emergere nuove questioni
e problemi, sino ad ora trascurati da una sociologia del lavoro che tende a descrivere la condizione dell’emigrato come
bloccata in ruoli subordinati, quando non condannata ad un
destino di sfruttamento senza uscita. Questa visione pessimistica trascura il ruolo del lavoro, e quindi dell’azienda,
come principale ambito di integrazione economico-sociale
dei migranti. Essenziale per cogliere questa dimensione del
mondo del lavoro è il superare una concezione riduttiva del-
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l’impresa come realtà puramente economica, per prendere
coscienza della sua natura di micro-società fondata su rappresentazioni collettive, comportamenti ed abitudini consolidate e su un grado più o meno ampio e partecipato di consenso. Una chiave per penetrare in questa dimensione complessa dell’esistenza dell’azienda e dei rapporti di lavoro,
dei fenomeni di mobilità imprenditoriale e dell’emigrazione, può essere rappresentata, secondo i curatori, dal concetto di cultura d’impresa, di cui finora è stata scarsamente
approfondita la dimensione storica.
Il volume, aperto da un’introduzione dei curatori
Corinne Maitte e Manuela Martini, si divide in tre sezioni. La prima, dal titolo Entrepreneurs migrants, cultures
de l’entreprise et lieux d’accueil, raccoglie i contributi di
Catherine Verna e Anthony Pinto, Les Basques dans les
forges de Catalogne: migration, culture technique et industrie rurale (XIVe-début XVIe siècle); Marie-Louise PelusKaplan, Migrations, mobilité et culture d’entreprise dans
les villes de la Hanse au XVIe siècle; Vincent Demont, Apport
de savoir ou perturbation des pratiques? Marchands
migrants et pratiques comptables a Hambourg au XVIIe
siècle; Gérard Gayot, Verleger et Verlagssystem hors de leur
territoire dans l’Europe mercantiliste; Ibrahima Thioub, Les
Libano-Syriens en Afrique de l’Ouest. De la fin du XIXe siècle
à nos jours; Claire Zalc, Partenaires économiques et
insertion locale. Une entrepreneuse immigrée à Lens dans
l’après-guerre; Olga Alexeeva, Les entreprises chinoises en
Russie et la dynamique relationelle entre les entrepreneurs
chinois et les employés russes. La seconda parte, Education,
formation et integration a l’entreprise, è formata dai saggi
di Mary Louise Nagata, Migration et entreprise à Kyoto au
début de l’époque moderne; Didier Terrier, Main-d’œuvre
immigrée et patrons du textile à Foumiers à la fin du XIXe
siècle; Jean-Paul Depretto, L’intégration des migrants dans
l’entreprise à Moscou dans les années 1930; Mariela Ceva,
Les migrants et la construction de l’espace de travail en
Argentine. Deux études de cas: La Fábrica argentina de
Alpargatas et l’Algodonera Flandria, 1884-1960; Claude
Hamon, Coolies, gangmasters, travailleurs à régime spécial
(Thesu gongren): migrants en Mandchourie aux houillères
de Fushun; Issiaka Mandé, Gérer l’entreprise coloniale: le
colonat européen et la question de la main-d’œuvre migrante
en Côte d’Ivoire, 1936-1945; Laurence Marfaing, Pêcheur
sénégalais et contrats de pêche en Mauritanie. Identites,
Cosmopolitisme et multiculturalisme dans l’entreprise è il
titolo della terza parte che raccoglie contributi di Laurence
Fontaine, La gestion des appartenances dans les réseaux
de marchands migrants: l’Europe moderne au miroir des
analyses contemporaines; María Inés Barbero, Stratégies
d’entrepreneurs italiens en Argentine. Le Grupo Devoto;
Antoine Pécoud, Le cosmopolitisme des entrepreneurs turcs
a Berlin; Dennis D. Cordell, Entreprises, immigrés et statuts
d’immigration: trois entrepreneurs nigérians à Dallas/Fort
Worth, Texas; Marin Pâquet, Immigrants, investisseurs au
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Québec. Objectifs et stratégies provinciales, 1830-1960;
Sébastien Arcand, Joseph Facal, L’Entrepreneurship
immigrant dans une société nationale minoritaire: le cas
du modèle quebécois; Gilles Guiheux, Entrepreneurs
transnationaux, le cas du détroit de Taiwan.
Roberto Parisi (a cura di), Paesaggi del lavoro in
Molise. Itinerari culturali tra storia e valorizzazione,
Roma, Aracne, 2009.
Archeologia industriale o memoria del lavoro? La lettura di questo volume, che riunisce contributi e materiale documentario su una delle regioni meno conosciute d’Italia, ci
consegna questo stimolante interrogativo, al quale si aggiungono una serie di questioni storiografiche e politiche che qui
vengono messe alla prova della ricerca sul campo: i segni
industriali in una terra senza industrializzazione, il processo di costruzione del paesaggio, la patrimonializzazione dei
beni storici, il rapporto tra tutela e valorizzazione e quello
tra patrimonio culturale e turismo. Per questi motivi il lavoro curato da Roberto Parisi riveste un particolare valore
non soltanto per i contenuti originali delle ricerche, ma anche perché rappresenta una operazione culturale degna di
nota in quanto frutto della collaborazione di giovani studiosi, quasi tutti alle prime armi, attorno a un’idea di fondo che
a ben pensare può essere assunta come utile indicazione
metodologica, valida anche aldilà dello specifico contesto
locale: collegare la conoscenza storica alla valorizzazione turistica del patrimonio protoindustriale e industriale di una
regione, sfruttando a tal fine una proficua sinergia tra didattica e ricerca.
L’esperienza del Molise sembra indicare che non c’è un
rapporto scontato e univoco tra industria e industrializzazione, nel senso che ci può essere industria senza industrializzazione. Le ricerche qui raccolte dimostrano come
anche il piccolo e arretrato Molise, dove l’arretratezza e
l’isolamento hanno finito per diventare griglie
interpretative forse troppo rigide, può offrire la possibilità
di ricostruire un panorama industriale e protoindustriale
incentrato sul lavoro. Il “lavoro come bene culturale” – dice
Parisi – e in questo mutamento di prospettiva (dall’impresa al lavoro) sta a mio parere il merito della più recente
evoluzione disciplinare dell’archeologia industriale, che ai
resti architettonici e alle macchine viste nel loro significato monumentale, tende ad aggiungere gli uomini, le pratiche, le abitudini di intere generazioni di lavoratori, di imprenditori e di maestranze. L’obiettivo del volume è quello
di seguire le tracce che il lavoro dell’uomo ha lasciato nel
paesaggio, contribuendo a costruirlo insieme al più
pervasivo apporto dell’attività agricola, e proponendo una
conoscenza sistematica di questo insieme di segni che si
fanno patrimonio culturale e che, in quanto tali, finiscono
per rappresentare una risorsa di base per lo sviluppo di
un turismo diffuso in grado di portare linfa vitale alla povera, ma non irrimediabilmente perduta, economia regio-
24
nale. Però questo patrimonio non è ancora sufficientemente
conosciuto. Da qui la necessità e la proposta di un censimento di queste emergenze, di cui le stesse ricerche degli
autori, con la schedatura di oltre 130 siti disseminati nelle due province di Isernia e Campobasso, rappresentano
un primo e significativo passo. Si tratta di strutture puntuali o diffuse, opifici e infrastrutture, percorsi e
insediamenti che nel tempo hanno modificato il territorio
e che oggi attendono una più organica rilettura. Alcuni di
questi casi sono descritti nei cinque contributi che compongono l’opera e riassunti e interpretati nel saggio
introduttivo del curatore.
I numerosi ponti che nel tempo hanno consentito ai
molisani di passare da una parte all’altra del Biferno, il
fiume che divide in due la regione, spesso distrutti e ricostruiti, in molti casi semplici passerelle e in altri architetture complesse, si rivelano nell’analisi di Maddalena
Chimisso come elementi di connessione di un sistema territoriale, economico e culturale. Un insieme di manufatti
che costituiscono anch’essi oggetti di archeologia industriale da censire e studiare, non solo come monumenti alle
tecniche infrastrutturali tradizionali, ma anche come punti
nodali di accesso al più vasto patrimonio dei beni culturali
diffusi sul territorio, offrendo materia utile per un
it“ inerario attrezzato nell’ottica di un turismo culturale
e ambientale attento al territorio e ai segni della sua
antropizzazione.
Il fiume è un elemento vivo. Oltre ai ponti che nelle
varie epoche l’hanno attraversato, il Biferno, come altri
corsi d’acqua minori, ha visto sorgere lungo le sue sponde
numerosi mulini che sfruttando l’energia idromeccanica
hanno esercitato un ruolo importante nell’economia regionale. Attraverso una ricerca archivistica e puntuali indagini sul campo, Francesca Annecchini ne mette in luce le
funzioni, le tipologie costruttive, i legami con l’agricoltura
locale fino alla trasformazione dei principali impianti in
centrali idroelettriche ai primi del Novecento. Una rassegna di alcuni casi, che mette in luce anche lo stato di conservazione dei vecchi mulini, prelude all’idea di un museo
dell’acqua come perno di itinerari sul territorio incentrati
su tematismi storico-ambientali.
Dati statistici (ISTAT) e analisi degli strumenti urbanistici offrono invece a Camillo Marracino la possibilità di
studiare il patrimonio edilizio di alcuni comuni dell’Alto
Molise (Agnone, Capracotta, Pescopennataro, Pietrabbondante, Vastogirardi) nei quali le diverse ondate di emigrazione transoceanica, da quella tardo ottocentesca a
quella del secondo dopoguerra, hanno lasciato una diffusa
eredità di case vuote, una sorta di “paesi fantasma” che
hanno subito un fenomeno di dismissione abitativa e che
oggi pongono invece il tema del riuso di questo patrimonio
architettonico e sociale, di cui occorre tenere conto nella
rivalutazione turistica dei territori, ma in primo luogo nella
elaborazione dei nuovi piani urbanistici, che dovranno sem-
25
pre più orientarsi alla tutela e al recupero del patrimonio
edilizio esistente, piuttosto che alla previsione di nuovi
interventi.
In un altro saggio Paola Palombino, partendo dai concetti e dalle implicazione normative delle esperienze europee e italiane di ecomuseo e di museo diffuso, focalizza
l’attenzione sulla transumanza, una attività che assieme
a quella molitoria ha costituito per secoli l’asse portante
dell’economia molisana e meridionale. Ne scaturisce la proposta di un ecomuseo dei tratturi, intesi non soltanto nel
loro valore documentale, ma come pluralità di elementi
(percorsi, taverne, riposi, mulini, impianti di lavorazione
della lana, ecc.) che soprattutto dalla fine del medioevo
all’800 hanno contribuito in misura fondamentale a definire il sistema infrastrutturale e insediativo del Molise. Il
progetto, che non risparmia critiche alle normative regionali in materia, si articola in una serie di itinerari (della
lana, dei mulini, delle taverne, dell’arte sacra, dell’archeologia) che nel loro insieme consentirebbero una
ricomposizione culturale e testimoniale di tutto ciò che ha
caratterizzato il paesaggio della fascia di territorio compresa tra i due grandi tratturi Castel di Sangro-Lucera e
Pescasseroli-Candela, che insieme a quello reale L’AquilaFoggia legavano strettamente le montagne abruzzesi con
il Tavoliere delle Puglie.
L’ultimo contributo è dedicato al mare e alla costa, un
breve tratto di territorio con al centro la città di Termoli
che permette al Molise di affacciarsi sull’Adriatico e che
ha rivestito in diversi periodi storici (si pensi all’egemonia
commerciale veneziana, ma per certi versi anche all’attuale
regione euroadriatica) una finestra sul vivace sistema di
scambi economici e culturali tra l’Italia e i Balcani. Lucia
Checchia ripercorre così l’importanza degli approdi minori (Campomarino e Petacciato) e soprattutto dello scalo
Termoli che dopo la lunga parentesi dell’età moderna, in
cui svolse al massimo la funzione di “caricatoio”, dovette
subire tra Ottocento e Novecento un travagliato iter
progettuale per poter finalmente riacquistare la dignità
di porto solo intorno alla metà del secolo scorso. Le torri
costiere, gli approdi, i primi stabilimenti balneari e quelle
particolari e suggestive “macchine da pesca” che erano i
“trabucchi”, dei quali ormai restano poche tracce, sembrano anche in questo caso prefigurare le condizioni per progettare un polo museale del mare, anche in relazione agli
altri musei marittimi esistenti sulle coste adriatiche che
opportunamente l’autrice passa in rassegna.
Alle appendici iconografiche di ciascun contributo, si
aggiunge un report fotografico finale sul patrimonio industriale del Molise, realizzato da Giuseppe Lamelza, che va
a costituire il primo catalogo illustrato delle emergenze di
archeologia industriale della Regione nell’ottica di quel
censimento ripetutamente proposto e che rappresenterebbe una base essenziale di conoscenza, non solo per gli studi, ma anche per buone politiche pubbliche territoriali e
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culturali di cui, in Molise come nell’intero Paese, si avverte sempre più uno stringente bisogno.
GIORGIO RIELLO, TIRTHANKAR ROY (a cura di), How
India Clothed the World. The World of South Asian
Textiles, 1500-1850, Leiden, Brill, 2009, pp. 489.
I saggi raccolti nel volume, rielaborazione delle comunicazioni e degli interventi presentati alle conferenze organizzate a Puna, Aix-en-Provence e Padova dal Global
Economic History Network (GEHN) nell’ambito di una ricerca promossa dalla London School of Economics tra 2003
e 2007 e sostenuta dal Leverhulme Trust, affrontano il
tema della produzione, commercio e consumo dei tessuti
in cotone indiani come caso paradigmatico per lo studio
della storia dello sviluppo industriale su scala globale. Il
processo di globalizzazione, sostengono i curatori, è stato
oggetto di analisi svolte prevalentemente nell’ambito delle scienze sociali, con un
approccio privo di profondità temporale. Affrontare la questione di quando,
come e perché si è verificata la “grande divergenza” tra Oriente ed Occidente e chiedersi per quali motivi i centri della produzione di tessuti in cotone si spostano da est ad
ovest è, in questa prospettiva, un modo per riportare la storia ad una prospettiva globale.
All’inizio del Cinquecento, quando i primi
navigatori europei si affacciarono sull’Oceano indiano, i tessuti in cotone erano al
centro della attività manifatturiera del subcontinente ed
alimentavano una rete di traffici a lunga distanza che si
estendeva dall’Indonesia e dal Giappone sino all’Arabia e
alle coste dell’Africa. Nel commercio di questi prodotti erano coinvolti una moltitudine di intermediari e reti commerciali ben più ampie di quelle formate dalle comunità
mercantili originarie dell’India. Lo scambio tra i tessuti di
cotone indiani e le spezie era, come scoprirono ben presto i
colonizzatori europei, un passaggio chiave nella lunga catena di transazioni che legava l’Insulindia, l’Asia meridionale, il Vicino Oriente e, ultima e per lungo tempo marginale appendice di questo sistema di circolazione di beni e
capitali, il Mediterraneo. Il crescente coinvolgi-mento in
questi traffici delle compagnie commerciali anglo-olandesi nel corso del Seicento aprì nuovi sbocchi alla produzione indiana, ma ancora nel secondo Settecento, quando l’Inghilterra muoveva i primi passi nel processo di industrializzazione, si stima che nei paesi affacciati sull’Oceano in-
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diano si concentrasse forse un quarto della produzione tessile mondiale e di una porzione ancora maggiore del commercio di questi beni.
Il volume, aperto dall’introduzione dei curatori e dotato di una sezione iconografica che consente al lettore di
cogliere appieno l’altissimo livello di qualità raggiunto dalle
produzioni tessili dell’India moderna, si divide in tre parti. Nella prima, intitolata Regions of Exchange: Textiles in
the Indian Ocean and Beyond, sono compresi i saggi di
Anthony Reid, Southeast Asian Consumption of Indian and
British Cotton Cloth, 1600-1850; Pedro Machado, Cloths of
a New Fashion: Indian Ocean Networks of Exchange and
Cloth Zones of Contact in Africa and India in the Eighteenth
and Nineteenth Centuries; Joseph E. Inikori, English versus
Indian Cotton Textiles: the Impact of Imports on Cotton
Textile Production in West Africa; H.V. Bowen, British
Exports of Raw Cotton from India to China during the Late
Eighteenth and Early Nineteenth Centuries; Kaoru
Sugihara, The Resurgence of Intra-Asian Trade, 1800-1850.
La seconda parte del volume è dedicata al tema Regions of
Production: Textiles in South Asia e si articola nei saggi di
David Washbrook, The Textile Industry and the Economy
of South India, 1500-1800; Ian C. Wendt, Four Centuries of
Decline? Understanding the Changing Structure of the
South Indian Textile Industry; Om Prakash, From MarketDetermined to Coercion-Based: Textile Manufacturing in
Eigheenth-Century Bengala; Lakshmi Subramanian, The
Political Economy of Textile in Western India: Weavers,
Merchants and the Transition to a Colonial Economy;
Bishnupriya Gupta, Competition and Control in the Market
for Textiles: Indian Weavers and the English East India
Company in the Eighteenth Century. Nella terza ed ultima
parte della raccolta, Regions of Change: Indian Textiles and
European Development, la questione dei rapporti tra le
produzioni tessili del subcontinente e le compagnie commerciali, i mercati ed i manufatti europei viene affrontata
nei saggi di Giorgio Riello, The Indian Apprenticeschip: the
Trade of Indian Textiles and the Making of European
Cottons; George Bryan Souza, The French Connection:
Indian Cottons and their Early Modern Technology; Bervely
Lemire, Fashioning Global Trade: Indian Textiles, Gender
Meanings and European Consumers, 1500-1800; Maxine
Berg, Quality, Cotton and the Global Luxury Trade;
Prasannan Parthasarathi, Historical Issues of
Deindustrialization in Nineteenth-Century South India.
Il Rinascimento italiano e l’Europa, opera in XII
voll. diretta da GIOVANNI LUIGI FONTANA e LUCA MOLÀ, vol.
VI: Luoghi, spazi, architetture, a cura di DONATELLA
C ALABI e ELENA S VALDUZ, Costabissara (Vicenza) Treviso, Colla Editore - Fondazione Cassamarca, 2010.
Il volume affronta il tema dell’architettura del Rinascimento a partire dall’analisi del modo in cui venne concepita l’organizzazione degli spazi e degli ambienti nei di-
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versi contesti. I curatori si sono quindi posti il problema di
confrontare i metodi ed i percorsi utilizzati per riorganizzare gli insediamenti e per elaborare nuovi modelli e nuove convenzioni formali, in grado di operare un recupero
dell’eredità classica in forme adeguate ai contesti culturali e alle esigenze sociali del tempo.
Una prima sezione dell’opera è dedicata alla città, ai modi
di rappresentarla e descriverla, alle nuove fondazioni urbane e alle trasformazioni cui sono oggetto i centri
tardomedievali. Si
passa quindi a cogliere i nuovi modi di organizzare gli spazi
urbani nelle nuove o
rinnovate funzioni
svolte durante l’età
del Rinascimento,
dallo scambio di beni
e di denaro nei mercati, nelle fiere, nelle
borse e nei fondaci, ai
luoghi legati al potere, quali i palazzi pubblici o del governo, ai
luoghi della cultura, i
teatri, le biblioteche,
le università e gli studi. Centri di elaborazione culturale, di sperimentazione e
diffusione di nuovi linguaggi architettonici e visivi sono le
corti, da quella papale ai circoli artistici che si riuniscono
attorno a principi e signori italiani. Le grandi monarchie
europee, in un secondo tempo, svolgeranno un ruolo di collegamento tra la cultura dell’umanesimo italiano e le tradizioni costruttive locali operando sintesi originali tra il gotico e il recupero della classicità. Particolare attenzione viene
riservata alla affermazione e diffusione del palazzo, fattore
di distinzione sociale e elemento chiave nei processi di trasformazione della ricchezza e del potere in prestigio e status
sociale. L’influsso del Rinascimento si proietta anche fuori
dal mondo occidentale, attraverso le descrizioi e le rappresentazioni dei centri urbani orientali ed extraeuropei. Una
sezione a parte è stata riservata specificatamente all’architettura religiosa, dalla straordinaria fioritura della Roma
capitale della Controriforma, alle diverse interpretazioni
delle suggestioni italiane date nei paesi cattolici e riformati, per prendere quindi in considerazione le specificità dell’edilizia dei luoghi di pellegrinaggio.
Aperto dall’introduzione di Donatella Calabi e di Elena Svalduz il volume si divide in sei sezioni. La prima, dal
titolo La città e i suoi limiti, è formata dai saggi di Lucia
Nuti, La rappresentazione della città: ricerche, soluzioni,
prototipi; Donatella Calabi, Le città nuove in Europa; Elisabetta Molteni, Le cinte murarie urbane. Innovazioni tecniche per un tema antico. Ai Luoghi urbani di uso colletti-
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vo è dedicata la seconda sezione, che comprende contributi di Evelyn Welch, Luoghi e spazi di mercati e fiere; Donatella Calabi, Le banche, le borse e le vie del denaro; Uwe
Israel, Fondaci: città nelle città sulle sponde del Mediterraneo; Elena Svalduz, Palazzi pubblici: i luoghi di governo
e le sedi dell’amministrazione cittadina; Maria Ida Biggi,
Il teatro italiano e l’Europa; Elisabetta Molteni; Ospedali
e ospizi: carità pubblica. La terza sezione, I luoghi del sapere, si articola nei saggi di Joseph Connors e Angela
Dressen, Biblioteche: l’architettura e l’ordinamento del sapere; di Stefano Zaggia, Architetture universitarie: collegi
per studenti e palazzi dello Studio; Rosella Lauber, «Dritto
al mio studio»: un percorso dallo studiolo verso la galleria.
Il tema della quarta parte è Le corti, con interventi di
Monique Chatenet, La corte del re di Francia; di Fernando
Marías, Il palazzo di Carlo V a Granada e l’Escorial; di
Deborah Howard, «Un compendio del mondo intero»: l’architettura di corte nei paesi del Mare del Nord; di Marco
Folin, La dimora del principe negli Stati italiani; di Andrea Spiriti, La corte dei governatori spagnoli a Milano; di
Francesco Ceccarelli, Architettura, fortificazioni e città nei
piccoli principati padani; di Claudia Conforti, La corte
vaticana e le famiglie cardinalizie a Roma; di Maria Giuffrè,
Nel Regno delle Due Sicilie. A Case, ville e quartieri degli
stranieri è dedicata la quinta parte, con saggi di Bianca de
Divitiis, I palazzi dei nobili e dei mercanti; di Howard
Burns, Castelli travestiti? Ville e residenze di campagna
nel Rinascimento italiano; di Donatella Calabi, La città
degli ebrei in Europa; di Heleni Portfyriou, La presenza
greca in Italia: chiese, confraternite, collegi; di Donata
Battilotti, Una città internazionale: il caso di Livorno; di
Jelle de Rock, Jeroen Puttevils e Peter Stabel, Stranieri
ad Anversa: mercanti, commercio e luoghi commerciali, di
Lud’a Klusáková, Lo sguardo dell’altro: l’Europa centrale
e i Balcani. La sesta sezione, Architettura religiosa e luoghi dei pellegrinaggi, si articola nei saggi di Claudia Conforti e Micaela Antonucci, Architettura religiosa a Roma;
di Gianmario Guidarelli, Le chiese in Europa; di Eva
Renzulli, Pellegrini, pellegrinaggi e santuari cristiani, cui
fa seguito l’atlante delle immagini e gli indici.
EMANUELA SCARPELLINI, L’Italia dei consumi. Dalla
Belle Époque al nuovo millennio, Roma-Bari, Laterza,
2008, pp. IX-316.
I beni di consumo sono apparsi a società diverse dalla
nostra e, in particolare, a quelle non sviluppate, come l’aspetto più macroscopico ed anche più desiderabile della moderna civiltà occidentale. Tuttavia, nonostante la sua rilevanza
e la sua pervasività, il tema ha ricevuto relativamente scarsa attenzione o, almeno, “non è stato considerato come una
categoria autonoma degna di entrare nella ‘narrativa’ della
storia contemporanea”. Questo è, invece, quanto si propone
di fare l’Autrice che guarda al consumo come un elemento
centrale nella vita del nostro Paese, dalla lotta contro la
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povertà dei governi liberali postunitari, durante il fascismo
(quando entra nella politica di italianizzazione del regime e
nell’autarchia), nei lunghi decenni repubblicani, fino ad arrivare alle politiche del welfare e ai movimenti del consumo
critico dei nostri giorni. La tesi centrale del libro è che “la
cultura materiale legata ai consumi si è dimostrata in grado di strutturare la società, di marcare i confini di classe,
genere, generazione e le differenziaioni regionali; ha avuto
riflessi nel mondo dell’arte e della letteratura; è stata parte
integrante dei processi di produzione economica, come pure
del mondo commerciale; infine ha ispirato le politiche di
governo”. Una storia dei consumi, dunque, che si snoda in
parallelo con le grandi linee di sviluppo della storia politica,
economica, sociale e culturale. A tal fine, l’Autrice si è concentrata principalmente sui beni materiali e in parte su quelli immateriali e i servizi, purché fossero davvero alla base
della vita quotidiana; non si è limitata alla fase finale del
consumo, l’acquisto e la ‘distruzione’ del bene, ricostruendone il ciclo completo - si vedano le pagine dedicate al mondo
della produzione e agli spazi del commercio (mercati, negozi, botteghe, grandi magazzini); ha utilizzato una prospettiva interdisciplinare allo scopo di ricreare le molteplici
sfaccettature delle pratiche di consumo; si è misurata con il
carattere fortemente transanazionale del mondo del consumo (le merci circolano, le tecnologie si trasferiscono, i modelli e gli spazi di vendita si internazio-nalizzano, i consumatori si spostano). Riguardo, infine, alla questione se sia
possibile parlare di una vera e propria rivoluzione dei consumi e, in caso di risposta affermativa, in quale periodo essa
si collochi, ha individuato, più che un unico momento in cui
i consumi “esplodono”, una serie di tappe significative tra la
fine dell’Ottocento e l’inizio del XXI secolo. In altre parole,
“come un filo rosso, i consumi corrono lungo tutte le vicende
del paese, contribuendo a creare un’identità e a dare un linguaggio comune agli italiani”.
THOMAS A. STAPLEFORD, The Cost of Living in America: A Political History of Economic Statistics,
Cambridge, Cambridge University Press, 2009, pp. 421.
Si potrebbe dire che questo libro offre un resoconto affascinante delle trasformazioni storiche della filiera produttiva che collega la rilevazione, l’elaborazione e la pubblicazione di informazioni quantitative sul costo della vita
negli Stati Uniti al loro uso amministrativo e consumo
pubblico. Fuor di metafora, questa è una storia delle definizioni e degli impieghi mutevoli del principale indicatore
statistico prodotto dal Bureau of Labor Statistics (BLS),
vale a dire l’indice dei prezzi al consumo o Consumer Price
Index (CPI), come venne infine denominato nel 1946.
La storia delle statistiche sul costo della vita negli Stati
Uniti è seguita da Stapleford a partire dalla costituzione
del BLS nel 1884 in un contesto di crescente attenzione
alle condizioni dei lavoratori da parte dei fautori delle riforme sociali. La prima guerra mondiale, favorendo l’ado-
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zione generalizzata nelle industrie mobilitate di arbitrati
salariali collegati all’indice nazionale dei prezzi, spinse il
BLS a concentrare la propria attività sulla produzione di
dati su salari e prezzi utili come punto di riferimento nelle
relazioni industriali. Tuttavia, il rudimentale sistema di
concertazione industriale emerso durante la guerra finì
per disgregarsi rapidamente una volta chiusa la fase di
emergenza legata al conflitto.
Solo con la Grande Depressione e con l’affermarsi di
una interpretazione sotto-consumistica della crisi, le statistiche federali dei prezzi recuperarono una funzione cruciale per la definizione delle politiche economiche di sostegno alla domanda avviate con il New Deal, favorendo
nuove dotazioni di bilancio e una completa
riorganizzazione del B LS . Durante la seconda guerra
mondiale, emerse una contraddizione nell’uso fatto delle
statistiche del costo della vita sia per adeguare i salari
che per monitorare l’inflazione, che fu all’origine di
un’aspra polemica tra il sindacato e gli uffici statistici
governativi. Nel tentativo di evitare l’insorgere di conflitti simili, nel dopoguerra venne dato un nuovo nome
all’indice dei prezzi (CPI) e furono istituiti due commissioni parallele, una per i sindacati (LRAC) e l’altra per gli
industriali (BRAC), cui furono affidati compiti consultivi
sull’attività del BLS. Questi sviluppi andarono di pari
passo con l’introduzione di clausole di indicizzazione dei
salari al costo della vita (cost-of-living adjustment, COLA)
nei contratti di lavoro riguardanti le grandi imprese fortemente sindacalizzate.
Nei decenni successivi, gli usi amministrativi dell’indice
dei prezzi si estesero dalle relazioni industriali ai programmi sociali federali (pensioni e sussidi) e alle politiche fiscali,
mentre la crescente attenzione della teoria economica per gli
aspetti relativi alla crescita favorì fondamentali cambiamenti nella stessa concezione dell’indice. Al dibattito teorico sul
concetto di indice dei prezzi come misura del prezzo variabile
di un ammontare costante di beni, piuttosto che di una utilità
costante per il consumatore, Stapleford dedica pagine notevoli per la capacità di evitare tecnicismi senza semplificare
eccessivamente i termini della questione.
Data la natura interdisciplinare del suo oggetto, il libro deve tenere assieme diversi approcci specialistici, ricorrendo a una letteratura che spazia dalla storia dell’amministrazione a quella del lavoro, fino alla storia del pensiero economico e statistico. Dal punto di vista teorico, i
riferimenti vanno dal dibattito storico e filosofico sulla
quantificazione e sull’oggettività fino alle recenti discussioni in ambito economico su possibili misure alternative
della ricchezza e del reddito. Le precedenti ricostruzioni
della storia del Bls sono poste sotto attento scrutinio, spesso
proponendo spiegazioni alternative dei fatti fondate su
nuove fonti primarie, comprendenti documenti ufficiali, corrispondenza privata e archivi di storia orale. Stapleford
mette abilmente insieme questi materiali per ottenere una
28
thick description di come l’indice del costo della vita sia
stato costruito e modificato nel tempo.
La ricostruzione che il libro propone di questi sviluppi
costituisce un caso di studio esemplare dell’emergere degli indicatori statistici in quanto strumenti privilegiati per
la razionalizzazione del governo dell’economia in America. Stapleford spiega bene come, a fronte di una crescente
concentrazione del potere a livello federale nel corso del
Novecento, il ricorso ai dati quantitativi abbia potuto fornire un espediente per depoliticizzare l’intervento dello
Stato nella vita economica, offrendo al tempo stesso un
comodo mezzo per limitare i conflitti all’interno di un quadro fortemente regolamentato.
Il vero scopo del libro è però di mostrare la natura contingente di questa strategia, inevitabilmente legata alla
contraddizione implicita nel tentativo di usare le statistiche come strumento per depoliticizzare le questioni più
scottanti, facendone allo stesso tempo uno degli elementi
più rilevanti per le stesse scelte politiche. Le ambiguità
che caratterizzano la definizione statistica di concetti come
il costo della vita emergono ogniqualvolta questi vengono
utilizzati in termini operativi, mostrando le conseguenze
politiche di quelle stesse definizioni e dando origine a polemiche che finiscono per mettere in discussione i loro presupposti metodologici. Da questo punto di vista, il sottotitolo corrisponde in pieno al contenuto del libro, che è davvero una storia politica delle statistiche economiche, capace di mostrare quanta politica c’è dentro la costruzione
statistica degli indici dei prezzi.
La soluzione che Stapleford propone per risolvere
operativamente il problema di questo ambiguo rapporto
tra statistica e politica consiste nel riconoscere esplicitamente la necessità di tener conto appunto del significato
politico di scelte che a prima vista potrebbero sembrare di
pertinenza esclusivamente tecnica. Per farlo, ritiene necessario da un lato coinvolgere istituzionalmente le “parti
sociali” nella costruzione delle statistiche pubbliche, e dall’altro lavorare sulla formazione universitaria degli statistici e degli econometristi, che dovrebbe fornire loro non
solo competenze tecniche specifiche, ma anche la capacità
di riconoscere le modalità con cui posizioni ideologiche o
scelte politiche possono giungere a influenzare procedure
di calcolo apparentemente neutrali. A questo scopo, la storia delle scienze sociali e dei loro artefatti concettuali può
fornire una palestra insostituibile.
DONATELLA STRANGIO, Decolonizzazione e sviluppo
economico. Dalla Cassa per la circolazione monetaria della Somalia alla Banca nazionale somala: il
ruolo della Banca d’Italia (1947-1960), Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 95.
Sia gli storici che gli economisti hanno mostrato in
questi ultimi anni un rinnovato e significativo interesse
per le vicende coloniali del nostro Paese, non più focalizzato
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sulla politica espansionistica ottocentesca o sull’imperialismo fascista. Con un approccio volto a tener conto, da un
lato, del punto di vista dei territori africani, dall’altro, delle dinamiche e degli equilibri politici ed economici internazionali, si sono affermati nuovi indirizzi tematici e differenti metodologie. L’attento studio di Donatella Strangio,
che si avvale delle fonti conservate presso l’Archivio Storico della Banca d’Italia e si inserisce nel filone di ricerche
volto ad indagare i meccanismi di funzionamento propri
del sistema coloniale, mira a ricostruire alcuni decisivi
passaggi del processo di decolonizzazione somalo, in particolare la questione monetaria, per certi versi cruciale
dell’amministrazione fiduciaria italiana fra il 1950 e il ‘60.
In tal modo, il ruolo della nostra Banca centrale viene letto nel quadro della riorganizzazione del sistema monetario della Somalia, delle relazioni fra i due Paesi, del contesto internazionale e dei cambiamenti nell’economia mondiale del secondo dopoguerra, i cui effetti si fanno oggi sentire sul processo di globalizzazione. L’Autrice si sofferma
sulla storia della presenza bancaria italiana in Somalia,
sui rapporti fra le nostre istituzioni e quelle del paese africano, sulle scelte politico-monetarie italiane durante la
ricostruzione e il primo miracolo economico ed evidenzia
come tutto ciò non avvenga in maniera lineare e priva di
zone d’ombra. Nonostante la scelta della Banca d’Italia di
creare in Somalia un sistema monetario stabile e un istituto centrale che fosse espressione delle forze locali e in
cui la popolazione autoctona potesse riconoscersi, pesarono negativamente la precaria situazione dell’economia reale somala e la volontà del governo di controllare la nuova
banca di emissione. Malgrado i miglioramenti realizzati
dalla Somalia nel decennio preso in esame, la storia dell’impegno italiano nell’ultimo periodo dell’amministrazione coloniale appare quella di un insuccesso economico, legato alla realtà somala, alle caratteristiche del mandato
ricevuto dall’ONU, al clima internazionale influenzato dalla guerra fredda. Del resto, come ben chiarisce il lavoro,
l’Italia vi era ritornata senza alcun preciso disegno di ordine politico, economico e sociale, il che originò difficoltà,
incertezze e ritardi nelle decisioni assunte a Roma, tanto
più che i nostri interessi economici in Somalia erano alquanto scarsi e non tali da giustificare da soli una politica
di aiuti (tutte le attività produttive, sia agricole che industriali, erano andate distrutte durante il conflitto e la presenza italiana non superava le 5.000 unità). In ultima analisi, la restituzione, in amministrazione fiduciaria, della
Somalia all’Italia ebbe “il carattere di un compenso psicologico e di prestigio di fronte alle nazioni vincitrici e fu
alimentata da motivi ideologici e tradizionali più che economici”. Come ha osservato Angelo Del Boca, era “un mediocre esame di riparazione (…) per dimostrare al mondo
che eravamo in grado di inaugurare nel paese una politica
nuova, non più di sfruttamento, ma di collaborazione. Il
nostro successo in Somalia ci avrebbe offerto il miglior ti-
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tolo per una pacifica penetrazione in Africa”. Le cose andarono, invece, diversamente e – conclude l’Autrice - la
regione “ancora reca, oltre alle cicatrici della presenza italiana, anche le tracce dei suoi errori, del suo dilettantismo, tutti elementi che hanno contribuito a rendere più
intricata la matassa del Corno d’Africa”.
DONATELLA STRANGIO, Turismo e sviluppo economico. Latina e il suo territorio, Roma, Casa Editrice Università La Sapienza, 2008, pp. 271.
Nella storia dell’Italia repubblicana e delle diverse direttrici di sviluppo che si sono succedute, il turismo si presenta “come mediatore glolocal dei problemi di crescita
produttiva ecosostenibile e diffusa sul territorio del cosiddetto made in Italy degli anni Duemila”. Il settore, però,
nonostante sia sostenuto da enormi potenzialità
competitive, richiede, per espandersi ed esercitare appieno
la propria azione propulsiva, “una trasversalità degli indirizzi normativi e delle azioni (dalla formazione al
marketing, dalle politiche per gli ostelli alla tutela dei prodotti tipici, dall’ecosostenibilità alla promozione della
certificazione)”.
L’Autrice ha ben presente tutto questo e ricostruisce il
turismo nella provincia di Latina che costituisce un interessante case study; analizza i diversi segmenti e le rispettive potenzialità di espansione, mettendo in evidenza la
complessità del fenomeno.
Nelle Note introduttive si sofferma sulla ricerca e la
definizione di una regione – il Lazio – e sul ruolo dei suoi
“territori”; a queste seguono: Da Littoria a Latina, L’organizzazione istituzionale del turismo; Il turismo e le caratteristiche della provincia di Latina; Il fenomeno turistico
nella provincia di Latina e la sua evoluzione, capitoli corredati da tre appendici ricche di dati quantitativi.
GIULIA VERTECCHI, Il «masser ai formenti in Terra
Nova». Il ruolo delle scorte granarie a Venezia nel
XVIII secolo, Roma, Università Roma Tre-Croma,
2009, pp. 195
Obiettivo del volume è di mettere in luce che il sistema di stoccaggio del grano, oltre ad essere regolato dagli
indirizzi della politica economica, si basava su aspetti
tecnici e su figure professionali altamente specializzate.
La costituzione delle scorte granarie, strettamente connessa alle caratteristiche del territorio e alle scelte del
governo in materia di politica economica, permetteva di
compensare le fluttuazioni dovute all’imprevedibilità dei
raccolti quando ad un’annata di abbondanza seguiva
un’altra relativamente scarsa. Ma che cosa succedeva invece quando ad una congiuntura, di penuria o di abbondanza, ne seguiva un’altra uguale, evento tutt’altro che
raro? Per quanto tempo si poteva conservare il grano e
come avveniva la rotazione e il ricambio delle partite di
grano nei magazzini?
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Gli studi sull’annona si sono per lo più concentrati
sulle crisi di sussistenza e sulle carestie che hanno
afflitto le città: in tale prospettiva quindi il funzionamento dei magazzini e il ruolo delle scorte è stato visto come uno strumento di governo e un sistema, per
sua stessa costituzione, sempre in perdita, perché finalizzato a vendere il grano a prezzo più basso di quello di mercato nei momenti in cui il prodotto scarseggiava. Poca attenzione è stata dedicata alle congiunture eccedentarie che si verificavano quando, alla sutura dell’anno agricolo, nei magazzini il livello delle
scorte era ancora alto. Come smaltire il surplus e come
evitare che il prezzo del grano scendesse con gravi conseguenze per l’economia?
Il volume intende fornire, attraverso l’esempio di Venezia, elementi che possono contribuire a chiarire il complesso ruolo delle scorte. L’analisi si basa su una ricca
documentazione d’archivio che è rimasta fino ad oggi
per lo più inedita e che invece è di enorme valore, perché entra nel vivo della modalità di gestione delle scorte e rende conto degli ampi dibattiti che attorno a questo tema si sviluppavano in Senato. Nelle deliberazioni
settecentesche del Senato e nelle scritture delle magistrature, vi sono chiari riferimenti al dibattito sulla libertà del commercio del grano rispetto al quale la Repubblica aveva adottato, come affermano i Provveditori
alle Biave nel 1769, “un rimedio che è tutto suo”. Amministrare le scorte significava sostenere costi e rischi
talvolta elevati: la deteriorabilità del grano, l’incertezza dei raccolti, la manutenzione dei magazzini, il personale, erano alcuni dei fattori con cui il governo si doveva costantemente confrontare. All’interno del complesso apparato amministrativo veneziano emergono
impiegati e funzionari che ricoprivano cariche più o
meno prestigiose e remunerative, tra le quali in
particolar modo si distingue la figura di “masser ai
formenti in Terra Nova”, ovvero l’amministratore di tutti
i granai pubblici. A questa carica erano affidati compiti
di grande responsabilità che comportavano un’alta preparazione tecnica: tra le sue competenze, la più rilevante era sicuramente quella legata alla conservazione
del grano. La buona conservazione del grano era infatti
una condizione indispensabile per la costituzione di consistenti scorte granarie. Nonostante questo argomento
sia ben presente a che iunque si sia occupato di sistemi annonari o di commercio del grano, esso occupa spesso un posto marginale nelle trattazioni e non è sviluppato in tutte le sue implicazioni, forse anche per mancanza di una sufficiente documentazione archivistica di
supporto. Eppure, disporre di qualità di grano idonee
ad essere conservate per lunghi periodi di tempo piuttosto che di mediocre o cattiva qualità, influiva non poco
nel determinare le decisioni e le strategie della politica
economica.
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EVENTI
Reusing the Industrial Past. First joint conference
of ICOTECH- TICCIH-Worklab. Tampere, Finland, 10- 15
agosto 2010
La città di Tampere, importante polo industriale legato alla produzione di energia idroelettrica e scenario di
rilevanti casi di riuso e di valorizzazione del patrimonio
industriale, ospita, nelle sedi dell’Università di Tampere e
della Finlayson factory, la prima joint conference di The
International Committee for the History of Technology
History (ICOTECH), The International Committee for the
Conservation of the Industrial Heritage (TICCIH) e Worklab
- International association of labour museums.
La cerimonia di apertura, che si terrà il 10 agosto presso
l’Università di Tampere, avrà inizio con il discorso di benvenuto del, il professor Pertii Haapala, vice rettore dell’Università di Tampere e presidente del local organising
committee; seguiranno le presentazioni di Icotech, TICCIH,
Worklab. Ad introdurre il tema del convegno sarà la
Kranzberg Lecture dal titolo Reusing the Industrial PastThe Challenges of Interpretations, presentata dal professor
Hakon With Andersen (NTNU, Norway).
I lavori avranno inizio il giorno 11 agosto e proseguiranno fino al giorno 15 agosto, integrando, alle oltre 90
sessioni parallele previste, la possibilità di conoscere e visitare il patrimonio culturale locale, tra cui Verla Mill,
patrimonio dell’Umanità UNESCO, e di svolgere attività di
workshop.
Una joint conference dai contenuti ampi, volta ad accogliere i differenti approcci al tema di quasi 290 partecipanti,
quali docenti, ricercatori e studenti, di provenienza europea
ed extraeuropea. Ci limitiamo qui a dare conto della presenza
di studiosi di università e istituti di ricerca italiani.
La prima sezione W1 avrà inizio il giorno 11 agosto
presso il Main Building dell’Università di Tampere; l’intervento conclusivo della sessione W1E, Room C8. In or
out of the global box? Industrial heritage from different
perspectives, organizzata da Gyorgyi Nemeth (University
of Miskolc, Hungary) e da B. Smith (TICCIH Secretary, UK),
sarà ad opera di Francesco Calzolaio (Venti di Cultura,
Consorzio Venezia Nuova), che alle ore 9,30 presenterà
Global Cultural Frameworks for Local Industrial
Patrimony.
Alla seconda sezione T1, che si terrà il giorno 12 agosto
presso il Main Building dell’Università di Tampere, parteciperà Ciro Paoletti, con un intervento d’apertura della
sessione T1B, Room A4: Symposium on the social history
of military technology III, organizzata e presenziata da
Barton C. Hacker (Smithsonian Institution, USA), presentando una relazione dal titolo Introducing Torpedoes in the
Italian Royal Navy.
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Parallelamente, si svolgerà la sessione T1C, Room C5
:Valuation and Reuse I, organizzata da Tuija-Liisa Soininen
(Pirkanmaa Provincial Museum, Finland) e presieduta da
Massimo Negri (European Museum Academy, The
Netherlands), che, dalle ore 9, 30 alle ore 10,00 ospiterà
interventi di: Mikko Järvi (City of Tampere, Finland), The
History and Reuse of the Industrial Buildings on the Banks
of Tammerkoski In the Centre of Tampere; Seija Linnanmäki
(National Board of Antiquites, Finland), Architectural and
Historical Values of the Technical Services in the Reuse of
Industrial Buildings; Ulla Lähdesmäki e Vadim Adel
(Pirkanmaa Provincial Museum, Finland), Archaelogical
Approach to Reusing Industrial Past. Discussing the
Valuation of the 19th Century Pulp Factory by the
Tammerkoski Rapids; alla precedente, succederà la seconda sessione T2C: Valuation and Reuse II, dalle ore 10,30
alle ore 12,00, con interventi di Mark Watson (Historic
Scotland, UK), Cotton Mill Cities and Power Canals in
Scotland, Finland, Estonia and America; Maria Leus
(Artesis University College Antwerp, Belgium), Reuse
Concepts and Models as Instruments for Industrial
Heritage Regeneration; Aida Štelbienè (Centre of
Architecture, Lithuania), Emphasis on Sublime of
Industrial Heritage- the Best Way for Its Reuse.
Durante la sezione S1 conclusiva del convegno, che si
aprirà il giorno 14 agosto alle ore 8.30, presso la Finlayson
Area si terrà la sessione S1A. Narratives and experiences
at the industrial museums, presso il Werstas Auditorium, e
vedrà gli interventi di René Capovin (Fondazione
Micheletti), Mirror effects. Advertising and Targets at the
Museum; e di Rosaria de Fazio, che presenterà una relazione dal titolo The Museum of the Post Time after Time.
Analogamente, Francesco Gerali (Accademia
Luningianese di Scienze), parteciperà alle ore 9,00 alla
sessione S1B. Technology of oil and gas II, presso la
Vooninki Hall, presentando Hint on the Development of
the Italian Oil Industry in the Emilian Apennines.
European Business History Association, 14th
Annual Conference, Glasgow, 26-28 agosto 2010.
Il Centre for Business History in Scotland dell’Università di Glasgow ospita il quattordicesimo convegno annuale
della European Business History Association, che si aprirà il 26 agosto presso la Lilybank House con la registrazione dei partecipanti, la riunione del Consiglio dell’Associazione, la reception e la cena sociale.
Il 27 agosto i lavori avranno inizio con i saluti e l’apertura di Anton Muscatelli, Principal e Vice-Chancellor dell’Università di Glasgow, di Albert Carreras (Presidente
EBHA, Università Pompeu Fabra, Barcellona), di Ray Stokes
(Direttore del Centre for Business History in Scotland),
per proseguire poi in più sessioni parallele. Ci limitamo
qui a dare conto della presenza di studiosi di università e
istituti di ricerca italiani. Alla prima sezione, che avrà ini-
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zio alle ore 9,30 del 27 agosto, parteciperà alla sessione
1G. Embeddedness of firms Valerio Varini (Università Bocconi, Milano) con la relazione Firms and welfare: Company
towns in Italy (19th-20th century).
Alla seconda sezione, a partire dalle ore 11,30, parteciperanno nella sessione 2C: Philanthropy and
entreprenurship I Monika Poettinger (Università Bocconi,
Milano), From economy to philantropy and back: business
organization in 19th century Milan; nella sessione 2F:
Management, competitiveness and context, Alan Mantoan
(Università Bocconi, Milano), Localizing scientific management: Alfa Romeo in southern Italy, 1838-1943; nella sessione 2G: Business operations in international context,
Luciano Segreto (Università di Firenze), The international
timber trade in Europe: organisational capabilities and
business strategies, 1870-1939.
Nella terza sezione, che si svolgerà nel pomeriggio dalle ore 14,45 alle ore 16,45 saranno presenti nella sessione
3A: Entrepreneurs, Statistics and the Problem of
Uncertainty, Maria Letizia D’Autilia (ISTAT), Statistics. The
Ideas and Actions of Giovanni Montemartini to Modernize
Government e Simone Misiani (Università di Teramo), The
culture of national accounting and the emergence of the
“Southern Question” in Fascist Italy; nella sessione 3B:
Aspects of Gender and Business History: 16th to 20th
Centuries coordinata da Paola Lanaro (Università di Venezia - Ca’ Foscari) parteciperanno Andrea Caracausi (Università di Venezia - Ca’ Foscari), Disciplining work. Women
and children in premodern Italy e Stefania Licini (Università di Bergamo), Behind the scenes: women in business in
19th century; nella sezione 3G: Business, politics and
economic development Franco Amatori (Università Bocconi, Milano) e Daniela Felsini (Università di Roma) presenteranno una relazione dal titolo From corporations to
agencies for Italy’s economic development: Iri (1950-1980).
Il 28 agosto i lavori del convegno riprenderanno alle
ore 9 con la quarta sezione alla quale parteciperanno nella sessione 4C: Business and fashion Carlo Belfanti (Università di Brescia), Renaissance and Made in Italy: History
as an intangible asset for the fashion business; Francesca
Polese e Marina Nicoli (Università Bocconi, Milano),
Identifying an industry: the building of a successful
international image of creativity: the case of italian fashion
and cinema; Elisabetta Merlo e Mario Perugini (Università Bocconi, Milano), Pucci: the revival of a fashion brand
as a collaborative innovation; della sessione 4D. European
car multinationals and the crisis of the 1970 fa parte la
relazione di Sigfrido M. Ramierz Pérez (Università Bocconi, Milano), The european automobile industry between
economic crisis and european integration (1973-1981); la
sessione 4F: Business and merchant networks in historical
perspective: toward a formal approach presieduta da Andrea Caracausi (Università di Venezia - Ca’ Foscari) con
discussant Giovanni Favero (Università di Venezia - Ca’
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Foscari) vedrà la partecipazione di Anna Moretti e Michele Tamma (Università di Venezia - Ca’ Foscari), Networks
of complementarities.
Alla sesta sezione, dalle ore 14,30 alle ore 16, nella sessione 6C: Not for profit sono raggruppati gli interventi di Riccardo
Cella (Università di Verona), Accounting for philantropy: the
development of accounting practices in the Italian non-profit
sector e di Francesca Fauri (Università di Bologna), Non-profit
aims in Italy’s industrial policy toward the engineering sector
after the Second World War, mentre Francesca Polese (Università Bocconi, Milano) sarà discussant della sezione 6F:
Retailing, licit and illicit e nella sessione 6G: Pictures and
stories Marina Nicoli (Università Bocconi, Milano) presenterà la relazione The commoditization of images: the changing
landscape of photojournalism.
La sezione conclusiva, che si aprirà alle ore 16,30, vedrà Andrea Colli presiedere la sessione 7B: The family firm
mentre nella sessione 7D: Politics, planning and industrial
structures Fabio Lavista e Giandomenico Piluso (Università Bocconi, Milano) presenteranno la relazione Can
managers ignore debts? Politics, planning and governance
of state-owned firms in Italy, 1955-1981.
International Symposium: Sesto San Giovanni. A
History and a Future Industrial Heritage for the Whole
World, Sesto San Giovanni, 24-26 settembre 2010.
Si svolgerà a Sesto San Giovanni dal 24 al 26 settembre 2010 il Simposio Internazionale Sesto San Giovanni.
A History and a Future Industrial Heritage for the Whole
World organizzato e promosso dal Comune di Sesto San
Giovanni e dal Comitato Sesto San Giovanni per l’UNESCO.
I lavori si apriranno alle ore 9,15 di venerdì 24 settembre presso la Sala consiliare del Palazzo Comunale in Piazza della Resistenza, 5. Dopo i saluti di Felice Cagliari, Presidente del Consiglio comunale di Sesto San Giovanni e
della Commissione consiliare speciale per l’UNESCO, avrà
inizio la prima sessione dal titolo Per Sesto San Giovanni
patrimonio mondiale dell’umanita. Il perimetro della candidatura e le parti costitutive del dossier, presieduta da
Maria Bonfanti, Presidente del Comitato di sostegno e nella
quale interverranno Federico Ottolenghi, (responsabile del
progetto di candidatura, Città di Sesto San Giovanni), Louis
Bergeron (Presidente onorario T ICCIH ), Jean-Daniel
Jeanneret (La Chaux de Fons, Svizzera), Sachiko Ishibashi
(Prefettura di Gunma, Giappone), Marie Patou (Bassin
Minier Uni, Francia), Giovanna Rosa (Università di Milano), Adele Cesi (Ministero dei Beni e Attività Culturali).
Nel pomeriggio l’attività convegnistica riprenderà con
la seconda sessione Memoria del futuro: la città fra identità e sviluppo, presieduta da Monica Chittò (Assessore all’Educazione e Cultura, Comune di Sesto San Giovanni) e
articolata attraverso le relazioni di Gianni Cervetti (Presidente della Fondazione ISEC), Alberto Bassi (Archivio
Giovanni Sacchi), Paolo Cavallo (Galleria Campari), Anto-
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nio Valentino (Presidente Istituto Spinelli), Angelo Cappellini (Società per le Belle arti ed Esposizione permanente), Renato Covino (Presidente AIPAI, Università di Perugia),
Ewa Bergdahl (Capo dipartimento del pubblico dei musei
svedesi), Belem Oviedo (Museo delle miniere di argento di
Pachuca, Messico).
Sabato 25 settembre i lavori riprenderanno alle ore 9
presso lo Spazio MIL - Archivio Giovanni Sacchi in via Granelli con la terza sessione, Il patrimonio industriale, una
risorsa strategica per lo sviluppo urbano, presieduta da
Demetrio Morabito (Vicesindaco e assessore all’urbanistica del Comune di Sesto San Giovanni). Sono previste relazioni di Fernando Barreiro (Responsabile scientifico del
progetto europeo NET-TOPIC), Federico Oliva (Presidente
INU, Politecnico di Milano), Giancarlo Consonni (Politecnico di Milano), Massimo Preite (TICCIH Board, Università di
Firenze), Klaus R. Kunzmann (Technische Universität
Dortmund), Carolina di Biase (Politecnico di Milano), Luciano Crespi (Politecnico di Milano).
La quarta sessione, Un patto per il riuso, avrà inizio alle
ore 14 e sarà presieduta da Maria Teresa Pontois (EHESS,
Paris) con le relazioni di Carlo Lio (Milano Metropoli agenzia di sviluppo), Giovanni Luigi Fontana (Past President
A IPAI , Università di Padova), Renzo Piano Building
Workshop, Multiplicity Lav, Aspasia Louvi (Fondazione culturale della Banca del Pireo), Pierre-Antoine Gatier, (ICOMOS).
Seguiranno le conclusioni di Giorgio Oldrini, Sindaco di Sesto San Giovanni, e alle ore 18 l’inaugurazione della sede
della Fondazione ISEC a villa Mylius in Largo La Marmora.
Domenica 26 settembre alle ore 10 si terrà una visita
al patrimonio industriale di Sesto San Giovanni.
Centro Interuniversitario di Ricerca per la Storia Finanziaria Italiana (CIRSFI), VIII Seminario,
Cassino, 25-26 ottobre 2010.
Il 25 e 26 ottobre 2010 si svolgerà, con il patrocinio
della SISE, l’VIII Seminario CIRSFI organizzato in occasione del 150° anniversario dell’incontro di Teano (26 ottobre
1860) e in collaborazione con la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Cassino. La giornata di studio
si focalizzerà sulla situazione finanziaria delle diverse aree
e regioni del nostro Paese a ridosso dell’Unificazione concentrandosi sull’impatto, le novità e le conseguenze di questo processo sui diversi contesti territoriali.
CALL FOR PAPERS
V Congresso dell’Associazione Italiana di Storia
Urbana (AISU), Fuori dall’ordinario: la città di fronte
a catastrofi ed eventi eccezionali, Roma, 8-10 settembre 2011.
Al centro dell’attenzione del V Congresso dell’AISU
dedicato al tema Fuori dall’ordinario: la città di fronte a
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catastrofi ed eventi eccezionali vi è tutto ciò che va a sconvolgere l’ordinaria amministrazione: non soltanto disastri
naturali e fatti calamitosi, come terremoti, eruzioni e incendi, ma anche episodi di carattere eccezionale, come il
trasferimento della capitale, il repentino mutamento di un
quadro politico, l’assegnazione di un grande evento come
olimpiadi, esposizioni universali.
Quel che interessa non è tanto la descrizione dell’episodio in sé, quanto il meccanismo che ha consentito di fare
fronte all’emergenza e il processo di adattamento che ne è
seguito: ovvero le trasformazioni avvenute su più livelli
(amministrativo/normativo, economico/sociale, fisico/edilizio) di fronte ad un mutato quadro di riferimento.
Al centro dell’interesse, più che l’evento traumatico,
vi saranno perciò le sue conseguenze soprattutto sul medio e sul lungo periodo. Formulata diversamente, la domanda di fondo può essere così riassunta: in che modo e
con quale grado di profondità, l’episodio calamitoso o eccezionale ha modificato la città (o le città) non soltanto nei
suoi indirizzi strategici e nei suoi meccanismi decisionali,
ma anche nel suo assetto sociale ed economico, nella sua
fisionomia bi e tri-dimensionale, nei suoi rapporti con l’intorno territoriale?
Nell’ambito di questa tematica generale sono aperte
Call for Session (scadenza 10 ottobre 2010) per le seguenti
quattro sezioni in cui saranno divisi i lavori del Convegno:
Geofisica e Vulcanologia) [email protected]; Melania Nucifora
(Università di Catania) [email protected].
I disastri di origine naturale. Soprattutto se di elevata entità, distruzioni sismiche, eruzioni, maremoti e inondazioni assumono un forte ruolo periodizzante nella storia delle città. Tali impatti la riplasmano sul piano materiale e immateriale, costituendo importanti occasioni di
ripensamento della sua stessa immagine; profilano nuove
dimensioni (non sempre in senso migliorativo), facendo
emergere in modi diversi l° identità locale, il rapporto fra
i poteri, il dialogo fra culture urbane e comunità scientifiche. La sessione mira ad analizzare le risposte elaborate
da istituzioni pubbliche, comunità, protagonisti privati di
fronte alle calamità che colpiscono gli ambienti urbani: dal
ridisegno della città ad eventuali politiche di prevenzione,
dall’impatto economico e sociale a quello culturale, dal rapporto centro-periferia all’uso politico dei disastri. L’arco
temporale è esteso dall’antichità ai giorni nostri.
Possibili temi oggetto di sotto-sessioni verteranno
sulla gestione dell’emergenza (gli aiuti, la solidarietà, il
ruolo di città, stato, comunità internazionale), sulla ricostruzione (poteri straordinari, piani e progetti, trasformazioni urbane, urbanistica e prevenzione), sulla società postcataclisma (gli impatti sociali, politici e culturali della catastrofe), sulla percezione della catastrofe (premonizioni,
credenze, responsabilità: dalla punizione divina alla lettura scientifica del rapporto uomo-ambiente).
Coordinatori: Marco Folin (Università di Genova)
[email protected]; Emanuela Guidoboni (Istituto Nazionale di
Le congiunture. Rientrano fra i temi della sessione
improvvise impennate o decrescite demografiche legate a
epidemie, guerre e carestie o, ancora, crisi e boom congiunturali connessi all’inversione del ciclo economico generale
e/o locale: i primi (gli shock demografici) in epoca medievale-moderna, le seconde (le congiunture economiche) su
un arco cronologico anche contemporaneo. Al centro dell’interesse vi sono, ugualmente, cambi di rotta suscettibili
di produrre ascese o declini di città-emporio e/o di città
capolinea, colti nelle loro molteplici conseguenze sociali,
economiche, politico-amministrative, architettoniche e
materiali. Particolare attenzione sarà anche dedicata al
ruolo dei fattori congiunturali nel sovvertire gerarchie
urbane pre-esistenti o nel crearne di nuove.Vi rientrano
boom e crisi demografiche legate a epidemie, carestie, o a
fattori economici: le prime collocata in epoca medievalemoderna, i secondi su di un arco cronologico anche contemporaneo. Vi rientrano anche cambi di rotta alln:’origine
di ascese e declini di città-emporio e/o di città capolinea.
Coordinatori: Michela Barbot (Università Bocconi, Milano), [email protected]; Aldo Castellano (Politecnico di Milano) [email protected]; Paola Lanaro
(Università di Venezia - Ca’ Foscari) [email protected].
Gli incendi. Il fuoco e gli incendi hanno avuto un
grande impatto sulla storia delle città e rappresentano una
costante di lunghissimo periodo che va dalla Roma di Nerone alla Londra del XVII secolo alla Dresda del secolo
scorso. Trattare degli incendi urbani significa in primo
luogo affrontare gli aspetti negativi del fuoco come elemento di distruzione. In proposito diversi sono gli approfondimenti possibili, dagli aspetti normativi e tecnici di
prevenzione, alle cause degli incendi (che possono anche
non essere casuali) e alla loro estensione, fino a un tema
rilevante come la memoria e la rappresentazione (il fuoco
nelle fonti iconografiche, narrative e nei più recenti
dispositivi multimediali). Al tempo stesso però gli incendi,
denotando una natura ambivalente, sono anche portatori
di un aspetto positivo legato alla ri-costruzione. Al riguardo paiono di notevole interesse sia le ricadute economiche
(nuovi edifici, assicurazioni ecc.) sia quelle politico-urbanistiche, visto che le distruzioni degli incendi offrono una
delle occasioni più importanti per ridisegnare la città.
Coordinatori: Andrea Caracausi (Università di Venezia - Ca’ Foscari) [email protected]; Luca Mocarelli (Università di Milano-Bicocca) [email protected]; Elena Svalduz (Università di Padova) [email protected]
Gli eventi straordinari. La sessione si propone di
studiare il rapporto tra città ed eventi straordinari e in
particolare di osservare l’impatto di questi ultimi su un
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ampio spettro di fenomeni urbani, tra i quali la costruzione fisica degli spazi e delle architetture, le forme dell’economia e della società, le forme della governance, l’uso e la
percezione dei luoghi, i mutamenti delle culture e degli
stili di vita, distribuiti nel lungo periodo fra medioevo e
contemporaneità.
Ci si propone in particolare di indagare: a) gli aspetti
progettuali legati alla preparazione di un evento, risultato di programmi che già nella fase di ideazione si pongono,
tra gli obiettivi generali, l’instaurazione di un carattere di
straordinarietà; b) la circolazione dei possibili modelli organizzativi e di intervento e il diverso ruolo che eventi straordinari tra loro comparabili possono svolgere all’interno
di diversi contesti locali; c) il rapporto tra le forme di razionalità legate all’evento straordinario e quelle legate all’ordinario e il modo in cui queste si influenzano e si intrecciano reciprocamente.
Tra i possibili oggetti di interesse si segnalano: il trasferimento o la creazione di città capitali; le esposizioni universali, mondiali o nazionali; i grandi eventi sportivi; le fiere e
altre grandi manifestazioni commerciali; i grandi eventi collegati alla sfera religiosa; le grandi manifestazioni culturali.
Coordinatori: Filippo De Pieri (Politecnico di Torino)
[email protected]; Roberta Morelli (Università di
Roma - Tor Vergata) [email protected]; Donatella
Strangio (Università di Roma - La Sapienza)
[email protected].
Le guerre, le rivoluzioni, le invasioni. Gli eventi
straordinari attinenti alla sfera politica e militare pongono
le città e i loro abitanti di fronte a situazioni eccezionali e
spesso drammatiche. Al tempo stesso, essi possono produrre fermenti di innovazione di natura sia teorica che pratica
e determinano processi di adattamento e trasformazione a
livello economico, sociale, culturale e amministrativo, oltre
che nella struttura fisica degli aggregati urbani. Oggetto
della sessione sono dunque le rivoluzioni (intese in senso
ampio, comprendendo anche quelle economiche, legislative
e/o di riforma religiosa) e i cambi di regime, le perdite e/o
acquisizioni di nuovo status, le invasioni, i saccheggi, le occupazioni militari, i bombardamenti, le guerriglie, gli attentati e gli atti terroristici, considerati nelle loro complesse
relazioni con i contesti urbani e con la vita dei cittadini.
Ritrovare le tracce delle mutazioni dovute a questi
eventi, nel breve e nel lungo periodo, richiede infatti una
riflessione intorno ai temi proposti, ricchi di contaminazioni e che possono spaziare dall’età dei miti agli eventi
degli anni recenti, sia intrecciando meccanismi, processi e
forme degli stessi sia affrontando i nodi del dibattito delle
avvenute mutazioni.
Coordinatori: Bruno Bonomo (Università di Roma La Sapienza) [email protected]; Maria Luisa
Neri (Università di Camerino) [email protected]; Gian Luca
Podestà (Università di Parma) [email protected].
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VIII Congresso dell’Associazione Internazionale
per la Storia delle Alpi (AISA), Terre alte, terre basse:
storia delle disparità, Ascona - Monte Verità (Svizzera), 17-19 agosto 2011.
Quando, nel 1934, il geografo francese Jules Blache
pubblicò il suo studio pionieristico L’homme et la Montagne, espresse il suo scetticismo in merito alle prospettive
di sviluppo delle regioni di montagna. Egli credeva che
alcune delle loro caratteristiche e, soprattutto, i loro aspri
rilievi rappresentassero un impedimento per la loro economia e le comunicazioni. Inoltre, questi svantaggi sarebbero cresciuti nel tempo, in particolare durante il processo
di modernizzazione, accentuando le disparità tra le terre
alte e le terre basse, tanto che: “Dopo aver svolto, agli inizi
dell’insediamento, un ruolo preponderante, sembra che le
montagne siano state trascurate dagli uomini.”
Sulla scia di J. Blache, numerose inchieste si sono occupate delle disparità tra le terre alte e le terre basse. Studi
recenti suggeriscono che la tesi di Blache rimanga un valido punto di partenza per ulteriori interrogazioni. Essa fa
scaturire una serie di interessanti questioni tra cui: le disparità tra le terre alte e quelle basse sono aumentate
nel tempo e come si possono verificare queste tendenze?
Ci sono significative controtendenze a livello micro, meso
o macro? Come appaiono le disparità tra terre alte e terre
basse se confrontate con altre disparità (zone rurali/urbane, costiere/dell’entroterra, deserte/umide, ecc.?) Quali sono
le implicazioni delle disparità fra terre alte e terre basse
nell’ambito politico e culturale?
L’ottava conferenza dell’Associazione Internazionale
per la Storia delle Alpi ha lo scopo di dare risposta a queste domande articolandole in diversi campi e in diverse
dimensioni cronologiche e geografiche.
1. Ambiti: i contributi possono riguardare, per esempio, la demografia, l’urbanizzazione, l’economia ed estendersi alla politica e alla cultura (o viceversa).
2. Cronologia: gli interventi possono riguardare differenti periodi storici e prendere in esame periodizzazioni
di lungo termine o rapidi cambiamenti e repentine evoluzioni nel corso di brevi periodi storici.
3. Geografia: le presentazioni possono trattare di disparità regionali nelle Alpi e nei loro dintorni, nei sistemi montuosi europei, anche con indirizzi intercontinentali e globali.
Nel suo insieme, il Convegno intende essere un momento di indagine e fornire un importante punto di vista
sia per gli studiosi/ricercatori che per il grande pubblico.
Esso si svolgerà ad Ascona (Monte Verità), dal 17 al 19
agosto 2011.
Vi invitiamo a trasmetterci la vostra proposta che dovrà consistere in un titolo e in un testo di 2.500 caratteri
entro il primo dicembre 2010 a: [email protected].
Ai relatori invitati saranno rimborsate le spese di viaggio
e soggiorno proporzionalmente alle risorse finanziarie a
disposizione degli organizzatori.
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RICORDO DI ENRICO STUMPO
Si è spento il 13 giugno, per una malattia che lo
aveva costretto al pensionamento anticipato nel
marzo scorso, l’amico e collega Enrico Stumpo, studioso acuto e dotato di insaziabile curiosità intellettuale, docente disponibile e dalla efficace comunicativa, animatore instancabile di iniziative scientifiche e culturali, uomo dalla cordialità prorompente
ma garbata, appassionato e sincero,
sensibile e generoso. Era nato nel
1946 da una famiglia di origini siciliane; dal padre, Tenente Colonnello della Marina Militare, aveva ereditato un grande amore per il mare
e la vela. Lascia la moglie Irene Cotta, i figli Elisabetta e Michele e la
nipotina Viola. E lascia un vuoto
incolmabile, scientifico e affettivo,
in tutti coloro che lo hanno conosciuto e apprezzato e che con lui
hanno condiviso il senso dell’impegno del mestiere di storico.
Enrico Stumpo si era formato
alla scuola di grandi storici: Rosario Romeo, col quale si era laureato nel 1969; Armando Saitta, che
aveva frequentato nei cinque anni
di permanenza all’Istituto storico
italiano per l’età moderna e contemporanea; Marino Berengo, al quale lo legava un rapporto profondo di stima e di amicizia; Alberto Tenenti e Fernand
Braudel, con i quali aveva collaborato a Parigi con
una borsa di studio del CNR nel 1981. Dopo una breve esperienza di insegnamento nei licei e un periodo di lavoro negli Archivi di Stato di Torino e Firenze, nel 1978 aveva iniziato la sua carriera accademica insegnando Storia Economica all’Università di Sassari dapprima come professore incaricato,
poi come associato e infine come professore ordinario. Dal 1988 è stato docente prima di Storia economica e poi, dal 2001, di Storia moderna presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo dell’Università di Siena.
I suoi interessi di ricerca lo hanno condotto ad
approfondire temi quali la fiscalità dello Stato Pontificio, lo sviluppo dello Stato Sabaudo, il primato
dell’economia italiana nella prima età moderna, la
storia della medicina con particolare riguardo alla
malattia mentale, la storia militare intesa anche dal
punto di vista politico, economico e sociale, con un
taglio di carattere interdisciplinare. Oltre a nume-
rosi saggi sulle principali riviste storiche, in atti di
convegno o in volumi collettanei, si possono ricordare le monografie Finanza e Stato moderno nel Piemonte del Seicento (Roma, 1979), Il capitale finanziario a Roma tra Cinque e Seicento (Milano, 1985), I
bambini innocenti: storia della malattia mentale in
età moderna (Firenze, 2000). È stato inoltre autore
di apprezzati manuali di storia per la Scuola Media
Inferiore (La memoria e la storia), gli Istituti Tecnici e i Licei (Le parole della storia; Nuova storia) e
l’Università (Il mondo moderno).
A partire dall’importante seminario di riflessione sulle problematiche
degli Antichi Stati italiani tenuto
presso l’abbazia di Farfa sul finire
degli anni Settanta, Enrico Stumpo
ha dato prova di notevoli capacità
di organizzatore culturale: socio della SISE fino dalla sua fondazione, è
stato eletto nel Consiglio direttivo
per due quadrienni (1993-96 e 20012004) sotto la presidenza di Antonio
Di Vittorio; fondatore e animatore
del Centro Interdipartimentale per
lo Studio delle Malattie Mentali
presso l’Università di Siena; fondatore, nel 2003, e per un biennio
vicepresidente della Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna
(SISEM); membro del CIRSFI, Centro
Interuniversitario per la Storia della Finanza Pubblica; socio della Deputazione di Storia Patria della
Toscana; membro del comitato scientifico della Fondazione Mario Tobino; nel comitato scientifico della
rivista «Studi storici Luigi Simeoni»; fondatore e coordinatore degli Annali di storia militare europea
«Guerra e pace in età moderna», edita da
FrancoAngeli con il contributo del Dipartimento di
Studi storico-sociali e filosofici di Arezzo.
Grande attenzione Enrico Stumpo ha sempre
generosamente prestato ai giovani studiosi: moltissimi di loro hanno avuto modo di apprezzare
il suo costante incoraggiamento e le innumerevoli occasioni di sostegno alla ricerca che ha saputo organizzare, anche come impegnato docente del Dottorato in Storia Economica con sede
presso l’Università di Verona. Per questo, a lui
sarà dedicata l’iniziativa “Attraverso la Storia”
organizzata dalla S ISEM presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo nei giorni 23, 24 e 25
Settembre 2010: tre giornate nelle quali presenteranno le loro ricerche ben ottanta giovani dottori in storia.
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PATRIMONIO INDUSTRIALE – A. IV N. 5/2010
RIVISTA SEMESTRALE DELL’AIPAI
È finalmente nata la nuova rivista sul patrimonio industriale italiano, “Patrimonio Industriale”, rivista semestrale dell’Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale-AIPAI, diffusa inizialmente come notiziario on line e dal n.
4/2009 edita a stampa dalla casa editrice Crace di Perugia.
Questo nuovo numero della rivista, che si è ora dotata
di un comitato scientifico internazionale, si apre con un
editoriale di Roberto Parisi su Archeologia industriale, beni
culturali e turismo, mentre la parte monografica, curata
da Roberto Giulianelli, è dedicata al tema Economia e architettura del mare. Cantieri navali, arsenali e porti nell’Italia del XIX-XX secolo con saggi di Francesca Castanò
(Castellammare), Sara De Maestri (La Spezia), Pasquale
Ventrice (Venezia), Renato Covino con Antonio Monte (Taranto e Brindisi), Marco Doria (Genova), Angelo Nesti (Livorno), Giulio Mellinato (Monfalcone) e lo stesso Giulianelli
sul cantiere e il porto di Ancona. Seguono, nella rubrica
“Salvaguardia e tutela”, i saggi della De Maestri su Sistemi Informativi Integrati per la salvaguardia del patrimonio industriale ligure, un interessante sollecitazione critica della giovane storica Ewa Kawamura sul patrimonio
industriale alberghiero giapponese e un articolo di AntoConsiglio direttivo della SISE
Prof. Antonio Di Vittorio, Presidente. Ordinario di Storia Economica presso
l’Università di Bari
Prof.ssa Paola Massa Piergiovanni, Vice-presidente. Ordinario di Storia
Economica presso l’Università di Genova
Prof. Andrea Leonardi, Vice-presidente. Ordinario di Storia Economica
presso l’Università di Trento
Prof. Nicola Ostuni, Segretario. Ordinario di Storia Economica presso
l’Università di Catanzaro
Prof. Carlo Marco Belfanti, Tesoriere. Ordinario di Storia Economica presso
l’Università di Brescia
Prof. Giovanni Luigi Fontana, Consigliere. Ordinario di Storia Economica
presso l’Università di Padova
Prof. Paolo Frascani, Consigliere. Ordinario di Storia Economica presso
l’Università di Napoli “L’Orientale”
Prof. Angelo Moioli, Consigliere. Ordinario di Storia Economica presso
l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Prof. Giampiero Nigro, Consigliere. Ordinario di Storia Economica presso
l’Università di Firenze
Collegio dei Revisori dei Conti
Prof. Luciano Palermo. Associato di Storia Economica presso l’Università
“Guido Carli” di Roma
Prof.ssa Paola Pierucci. Ordinario di Storia Economica presso l’Università
di Chieti, sede di Pescara
Prof. Mario Taccolini, Ordinario di Storia Economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia
Presidenza
Università di Bari, Dipartimento di Studi Europei - Sezione di Storia
Economica, via Camillo Rosalba 53, 70124 Bari; tel. 080 504 92 26; fax
080 504 92 27
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nio David Fiore sul regolatore di luci del Teatro dell’Opera
di Roma. Nella rubrica “Itinerari e destinazioni”, Manuel
Ramello propone alcune schede sugli interventi di recupero
architettonico e urbanistico condotti sul patrimonio industriale esistente nel quartiere Poblenau di Barcellona,
mentre la nuova rubrica “Heritage Forum”, curata da Massimo Preite e destinata a raccogliere contributi di esperti
stranieri nel settore, viene inaugurata con un saggio di
Miljenco Smokvina, della Society for Promoting and
Preserving Rijeka’s Industrial Heritage, sulla storia della
fabbrica di siluri di Rijeka in Croazia.
La seconda parte della rivista, come di consueto e sempre all’interno di spazi dedicati, raccoglie più brevi articoli
e segnalazioni su tesi di laurea discusse negli atenei italiani (Claudio Cordella e Carmelina Amico sul Canapificio di
Crocetta al Montello), su archivi e musei (Concetta Damiani
sull’archivio della Camera di Commercio di Napoli e Claudia Bottini con Chiara Berichillo sul Museo del Vetro di
Piegaro), ai quali si aggiungono alcune rassegne sulle risorse on line (Maddalena Chimisso sugli archivi digitali), su
convegni e mostre organizzate nel corso nell’ultimo semestre e su “libri e segnalazioni”. Infine, il numero si chiude
con alcune riprese di Mario Ferrara nei siti di Sparanise
(Caserta, stabilimento Richard Ginori) e di Falconara Marittima (Ancona, stabilimento ex Montecatini).
Comitato di redazione
Giulio Fenicia, Giovanni Luigi Fontana, Renato Giannetti, Carlo Maria
Travaglini
Coordinatore
Giovanni Luigi Fontana
Redazione
Università di Padova, Dipartimento di Storia, Via del Vescovado 30, 35141
Padova; tel. 049 827 85 01 / 85 59; fax 049 827 85 02 / 85 42
Segreteria di redazione: Francesco Vianello
Hanno contribuito a questo numero:
Guido Alfani, Cristina Badon, Erika Bossum, Andrea Caracausi, David
Celetti, Riccardo Cella, Giuseppe De Luca, Giovanni Favero, Andrea
Leonardi, Daniela Manetti, Federico Ottolenghi, Roberto Parisi, Anna
Pellegrino, Roberto Pazzagli, Renzo Sabbatini, Mara Tommasi, Rosa
Vaccaro, Giulia Vertecchi, Francesco Vianello.
SISE Newsletter è pubblicata ogni 4 mesi: marzo, luglio e novembre. Tutti i soci della SISE la ricevono gratuitamente in formato elettronico. È
inoltre disponibile sul sito internet della società: http://www.sisenet.it
Pubblicazione quadrimestrale della Società Italiana degli Storici Economici
Direttore Responsabile: Giovanni Luigi Fontana
Autorizzazione del Tribunale di Padova n. 2226
Tip.: CLEUP sc, via G. Belzoni 118/3, Padova. Tel. 049 65 02 61