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La Venaria Reale
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storia approfondimenti
Corona di delizie:
Venaria e La Mandria nel contesto della "Corona di Delitie"
di Vera Comoli
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a cura di CSIPiemonte - pagina scaricabile da: http://www.lavenaria.it/reggia/ita/storia/dipiu.shtml
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In età moderna e in regime politico assolutistico, il processo di costruzione di una capitale
interessava, nel Piemonte sabaudo, come nell'Europa delle capitali, non soltanto la città
vera e propria, ma l'intero territorio storico di riferimento, entro un più ampio contesto
politico, ambientale e simbolico. Anche per il territorio era ricorrente il riferimento a schemi
tipologici analoghi a quelli urbani - congruità, uniformità, simmetria - con la stessa
accezione linguistica per la definizione della "forma" fisica delle capitali in progrediente
consolidamento: le lunghe strade piane, piantumate regolarmente ai lati con lecci e pioppi,
tracciate "en ligne droite", entravano con un segno determinante nel territorio e nel suo
processo di trasformazione.
La "corona" delle residenze esterne auliche, con la vasta estensione dei giardini e delle
riserve di caccia, disegnava "con opere" il territorio esterno alla capitale come struttura
tangibile e immaginifica del Potere assoluto: il controllo e la continuità territoriale dei
possedimenti attorno alla capitale e l'eliminazione delle enclaves è infatti una delle
caratteristiche dello Stato in età moderna.
Al lucido disegno territoriale delle residenze esterne si accompagnava l'aspetto ludico di
una corte mobile sul territorio, attenta al significato pregnante ed emblematico della
propria presenza, che di per sé "fa Stato", come era spesso espresso dalla retorica delle
corti europee. Anche per Torino l'enfasi con cui il Theatrum Sabaudiae (1682) evidenziava
il primato urbano della capitale si sosteneva infatti non soltanto sull'architettura e sui
progetti per la città e per il territorio, ma anche sulla presenza in loco della corte che,
appunto, avvalorava e motivava di per se stessa la prevalenza fisica e funzionale della
capitale.
Il più bell'ornamento di Torino era individuato infatti dal costante e continuo soggiorno del
duca di Savoia suo sovrano, della sua famiglia e della corte: "Et c'est aussi ce qui a attiré
de toutes parts un grand nombre de nouveaux Habitans à Turin, qui l'a remplie de
richesses, et accrue d'une infinité de très-beaux édifices publics et particuliers". La
relazione del Theatrum sottolineava anche l'operato del duca Carlo Emanuele II,
concreto e operativo rispetto ai programmi edilizi e urbanistici ereditati: "Ce Prince, qui
n'avoit que de grands desseins, a laissé un nombre infini de monumens de sa
magnificence".
Dentro quest'ottica, il Theatrum fu un valido strumento per la divulgazione di un
programma politico che era non solo retorico ed edilizio, ma anche urbanistico e di
pianificazione territoriale nel senso più vasto e che coinvolgeva, insieme con la città
capitale in un ampio ventaglio tangibile di riferimento, le residenze esterne e il territorio
rurale e produttivo. Ne era derivata l'immagine amplificata del Potere accentrato, visto
nella prospettiva diramata di realtà minori e satelliti. Per la città capitale e il suo diretto
territorio storico, per le "maisons de plaisance" del milieu ducale, esso aveva dunque
anche il duplice significato di divulgazione di un programma, con la forza e la persuasione
di un manifesto. Lo si voleva usare in Europa anche come una carta di credito capace di
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decidere l'ingresso di Torino tra le capitali d'Europa: un chiaro progetto territoriale da
esibire per tempo ad una società europea sul punto di realizzare gli stati nazionali, oltre
quelli regionali già assestati o in formazione.
I duchi avevano inciso fortemente sugli esiti urbanistici della città e del territorio non tanto
come soggetti con capacità progettuali personali, ma come soggetti istituzionali, in quanto
portatori del programma politico voluto dall'assolutismo per esprimere il nuovo senso delle
capitali. Esse avevano anche "pris soin d'en embellir les dehors" con la costruzione delle
"maisons de plaisance" che circondavano la città e creavano una corona radializzante di
"delitie". Di essa non va sottovalutata anche la portata funzionale in senso strategico, che
già nella seconda metà del Cinquecento era stata acutamente avvertita e di cui si era
perseguito un costante consolidamento organizzativo con l'acquisizione o la permuta di
terreni, castelli medievali e moderni, di diritti di passaggio e di guado, insomma con un
preciso controllo territoriale attorno alla nuova città-capitale.
La complessa corona di residenze ducali esterne - accanto agli antichi castelli dinastici di
Rivoli e di Moncalieri di impianto medievale e già ristrutturati tra Cinque e Seicento, per
prime le residenze fluviali (il Valentino sul Po, il Regio Parco alla confluenza di Stura e Po,
Mirafiori alla confluenza di Sangone e Po, la Vigna del cardinal Maurizio sulla collina "très
agréable, tant à cause de sa situation à la vue du P?, que par sa structure"), poi le
residenze prevalentemente venatorie (Agliè, Venaria, e ultima Stupinigi) - costituì infatti un
sistema articolato di residenze di loisir e di grandi terreni demaniali o con diritti di caccia,
che prefigurava un disegno territoriale continuo di determinante rilevanza tattica, sia nel
senso economico-produttivo, sia - più aderentemente al periodo storico di stato assoluto e
di perseverante adesione a quel modello - anche nel senso di barriera territoriale per la
capitale e "contro" l'aristocrazia feudale.
Su tale impianto localizzativo radiocentrico delle "maisons de plaisance" (più lontane
quelle venatorie, ma anche provviste di maggior estensione di terreni nelle specifiche aree
vincolate al demanio ducale a causa della grande espansione per le rotte di caccia), si
innestavano le strade radiali dei collegamenti bipolari con la città, con un disegno che
anche nella cartografia coeva appare nitido e duramente segnato sul territorio rurale. Fino
a fine Settecento (e oltre) questo rigido sistema infrastrutturale appariva sovraimpresso al
territorio agricolo delle cascine, delle 'bealere' delle strade vicinali, decidendo una
organizzazione complessiva del territorio - e una sua immagine di lunga durata - la cui
pregnanza va collocata nella dimensione di un autentico progetto territoriale.
La lettura storico-critica di Venaria Reale va dunque collocata entro i precisi parametri
dettati dall'assolutismo europeo, dal linguaggio del Barocco internazionale e dalla stretta
relazione tra architettura, arte, territorio e retorica di corte. Non è possibile prescindere,
per la valorizzazione e per la stessa comprensione di Venaria Reale, dalla integrazione
della Reggia vera e propria con la città di Venaria ("il Borgo" costruito secondo i dettami
economici derivanti dalla politica del ministro francese Colbert del mercantilismo), con il
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sistema dei giardini e del parco di caccia, con le grandi assialità del territorio, con le
relazioni con Torino.
Il contesto è tuttavia anche più ampio, non limitato soltanto alla configurazione fisica e
funzionale dell'architettura e del territorio, ma comprende il suo significato emblematico e
simbolico, la cui lettura e struttura è parte integrante degli esiti, anche attuali.
Forse, per ultimo, Amedeo di Castellamonte aveva guardato alla corte in senso
esclusivo, con risultati adeguati nelle sue fabbriche e nella sua urbanistica; in ciò molto
legato al Tesauro, nel proporre soluzioni che coincidevano con le ragioni della casa
regnante. Sintomatico di questa visione dell'architettura e del territorio come "teatro del
Duca" è il libro Venaria Reale (1672-1674, ma 1679), in cui Amedeo di Castellamonte, pur
definendo se stesso soltanto un "ingegno coltivato più nella continua costruttione di ogni
sorte di fabbriche con la regola, che nelle descritioni di esse con la penna", dà una lettura
teorica e descrittiva - ma anche ideologica - della fabbrica, che fornisce una chiave
essenziale per la comprensione non solo di Venaria Reale, ma anche del periodo,
dell'architettura della città e del suo territorio storico.
Nel dialogo tra Lorenzo Bernini e lo stesso Castellamonte in funzione simulata di guida
alla Venaria Reale, il Bernini, il "Cavagliere", chiede infatti le ragione dell'inizio di un nuovo
palazzo "mentre ne ho veduti tanti altri di piacere attorno questa Città di Torino, quali non
essendo […] ancor finiti, poteva S.A.R. col perfezionarli goder più prontamente". Ma
Castellamonte, il "Conte", chiarisce il senso del disegno territoriale complessivo in atto,
che era da completare: "Volendo tuttavia ad imitatione dei suoi Reali Antenati fabbricar
ancor lui il suo Palazzo, non vi restava che questa parte di mezza notte, non occupata per
compir un'intiera Corona di delitie à quest'Augusta Città di Torino".
Non va sottovalutato l'accenno topografico "non vi restava che questa parte di mezza
notte", ben palesato nella enunciazione di Castellamonte e da assumere anche nel senso
del completamento ambientale di un disegno direttamente correlato, nel territorio esterno
alla capitale, alla definizione di una bipolarità - sviluppata appunto 'a corona', tra i
possedimenti demaniali attorno alla capitale e la città-capitale stessa.
Al termine di "corona di delitie" si accompagna strettamente il valore ludico e di
rappresentanza. Ma valeva anche un altro modo, circolare attorno alla capitale, di uso del
territorio: oltre che in direzione radiale, per lo svago della Corte, si poteva infatti percorrere
l'intero territorio "in maniera che, chi sarà partito dal Castello di Rivoli, e facendo il giro frà
questi Palazzi trà loro distanti poco più di tre miglia Italiane per uguali intervalli, havrà
nella Venaria Reale compito il viaggio d'una giusta giornata frà delitie de boschi, frà
Magnificenze di fabbriche, frà le amenità di fontane, di Allee, e di Giardini; cosa
veramente rara, e forsi da V.S. non osservata in altri Paesi d'Italia".
L'elogio messo in bocca al Bernini dal Catellamonte è più che un'osservazione critica: è
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un programma preciso e un modello "barocco" per la dimensione e i caratteri della cittàcapitale del Seicento e comprende l'attenzione riservata al borgo progettato come "porta"
della Reggia, risolto secondo i criteri aulici della trattatistica e dei nuovi modelli di
uniformità architettonica della facciata continua: "e questo grand'Arco di forma trionfale, e
quella longhissima strada, che per l'apertura d'esso io scorgo fabbricata con ugual, e
uniforme simetria di Palazzi, mi paiono l'ingresso d'una ben ordinata Città, e non d'un
picciolo Villaggio"; dichiarazione questa, coeva alla costruzione del complesso che ben
evidenzia la stretta relazione di città di Venaria Reale, di Castello, di Giardini e territorio di
caccia.
La giustificazione della costruzione di "fabriche sì magnifiche" stava, secondo Amedeo
Castellamonte, nell'esercizio della "magnificenza" da parte del duca, a causa
dell'abbandono forzato di un'altra virtù regia, la Fortezza, in tempi di pace: "perciò
abbracciando con tutto l'Animo la seconda, cioè la Magnificenza in quella parte, che ha
per fine l'Eternità, l'Utilità, e il Decoro, e ha per oggetto le Fabriche, quali con la mole loro
rendono immortale il Nome degli Edificatori, con la construttione, utilità a' Popoli, e con la
proportione, e simetria, ornamento, e decoro alle Città, si è attorno queste divertito
qualche parte del tempo del suo Governo".
Un programma, questo, che aveva la forza di un manifesto e che inserì Venaria Reale
nello stretto giro delle grandi realizzazioni europee del Barocco, alla luce, appunto, della
Magnificenza.