presente storico o della - Biblioteca Provinciale di Foggia La Magna

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PRESENTE STORICO O DELLA “TEMPORANEA ETERNITA’”: LA RIPETIZIONE, LA VARIAZIONE E L'OSSIMORO
NELLA POESIA DI RAFFAELE ANTINI*
1. Le modalità stilistiche di più ampia diffusione nella raccolta Presente storico di Raffaele Antini appaiono quelle della ripetizione, da una parte, e della
variazione e dell’antitesi, dall’altra.
Le formule ripetitive si diramano a tutti i livelli del testo poetico: da
quello fonico a quello lessicale, da quello sintattico a quello strutturale, investendo un campo estesissimo di applicazioni.
Quasi mai, però, la reiterazione appare come un puro raddoppiamento,
una pura procedura duplicativa, poiché essa è spesso portatrice di un sinuoso
elemento di variazione, di rettifica, se non di contrasto e di opposizione tra i
membri replicati.
La tessitura fonica delle composizioni è così fitta e stratificata, così variamente, e quasi accanitamente, modulata da rappresentare, a volte, una sorta
di autonoma proliferazione-gemmazione, una sorta di fenomeno di autogenesi,
del “significante”, di indipendente (dal livello del “significato”) o parallelo meccanismo musicale, di straordinaria cadenza politonale, slegato dalla semplice
mimesi onomatopeica del referente, e veicolo di ulteriore senso, di raddoppiamento semantico del “contenuto”.
I fenomeni fonici si realizzano quasi totalmente sul piano allitterativo (in
senso esteso) e paronomasico, mentre, correlativamente, è quasi del tutto assente il procedimento della rima, i cui pochissimi esempi, inoltre, sono irregolari, quasi sempre all’interno dei versi, e, quindi, non in posizione canonica.
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*La sezione 2. del presente saggio è apparsa come postfazione a Presente storico,
Forlì, Ed. Forum, 1989, e viene presentata in questa sede con alcune correzioni rispetto al
precedente testo.
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E’ anche da osservare che la proporzione tra le modalità foniche muta
passando dalla prima sezione della raccolta (in cui è più marcata la presenza dei
fenomeni allitterativi e paronomasici) alla seconda ed alla terza parte (in cui è
più accentuata la ricorrenza delle rime, peraltro sempre abbastanza scarse).
Inoltre, anche la struttura compositiva, a livello sintattico, subisce delle variazioni, presentando maggiore complessità ed articolazione nella seconda e, soprattutto, nella terza sezione, così che si manifesta l’interdipendenza tra il fenomeno
della diradazione della tessitura fonica e quello della maggiore saldezza
dell’architettura sintattica (e concettuale).
1.1. Il catalogo delle replicazioni fonetiche è molto ampio, e di esse si
darà una veloce esemplicazione. Proprio ad apertura di libro si nota nel sintagma “L’aTTimo alla riDDa rapiTo - e fioTTa / inTanTo una conTesa Di opposTi...” (L’attimo) il martellante ritorno delle occlusive dentali /d/e/t/ (12 occorrenze su 54 fonemi) che, insieme alle altre occlusive p/e/c/ed alla vibrante /r/
(Ridda Rapito), scandiscono il ritmo duro ed incidente che sottolinea la linea
semantica di opposizione e di contrasto, resa esplicita, a livello lessicale, dal sintagma “contesa di opposti”.
La prima delle Due piccole elegie è costellata della presenza ossessiva del fonema /t/, che spesso si coniuga con i suoni vocalici /e/ed/i/, la cui irradiazione si diparte dal centro emotivo costituito dalle voci pronominali e possessive
di 2a persona singolare che, egualmente, gremiscono la composizione: “MolTe
presenze ha desTaTo la Tua venuTa / e molTi oggeTTi io frugo vanamenTe
per Te...” (10 occorrenze su 68 fonemi); “segni sono TuTTi del morTale passaggio, dal Tuo/all’alTrui. Mi resTano le figure degli oggeTTi. Te li / odio, Te
li amo, caro; miei specchi, Te li/vedo” (12 occorrenze su 114 fonemi), in una
sorta di sillabazione amorosa, di vertigine vocativa rivolta al “figlio lontano”.
(Di passaggio è da notare che la ricorrenza della sorda occlusiva /t/ evoca
spesso, ma non sempre, nella raccolta, l’evento della morte o, come in questo
caso, la situazione di lontananza e di distacco, quasi di “piccola morte”, richiamata, peraltro, sul piano lessicale dalla serie semantica: “fine”, “scomparsa” e la
replicazione di “mortale”).
Jeux presenta una straordinaria tessitura fonica (e musicale: non per nulla
ricorrono in sottofondo memoriale ed allusivo i titoli di composizioni musicali
di Ravel, Debussy e Stravinsky).
Dalla irradiazione omofonica del 1° verso (“Jeux d’eau feux”), che appare come una triplice ondata di echi dilungati e diffusi, alle paronoma160
sie “bRILLò - pRILLi - pRILLasti, SANA - inSANA e FORMe – sFORMa”, dalla catena delle allitterazioni (che sciamano in costellazione densissima
nell’8° verso: “iL nuLLa priLLi, priLLasti” - 7/1/su 22 fonemi - e che scandiscono il 10° verso: “si estingue lo strano Feu; Fu impressione Fu”. - in cui la
ricorrenza martellante della spirante /f/ si somma all’incidenza della rima tronca in /u/ e della sibilante /s/) ai poliptoti “rotola – rotolante” e, ancora, “prilli
– prillasti” (che insistono su un piano contiguo a quello fonico): l’ordito fonoritmico appare gremito e pluristratificato, con molteplici fili che si intersecano e
si sovrappongono, mentre alcuni nuclei fonici (i già citati /f/ed /l/) sono in
antitesi e dissonanza con altre cellule foniche aggregate in versi contigui. E’ da
rilevare la ricorrenza della /t/ in “... roTola, roTolanTe. Ah / già brillò il TuTTo e Tu...”, con l’ulteriore procedura percussiva Tu - Tu rieccheggiata a distanza dalla rima Tu - fu, che appare come una sorta di pietra tombale, di dissoluzione e di perdita definitiva e totale, contrapposte alla brillante levità di Jeux.
Per di più, la dissonanza fonica viene a spostarsi, raddoppiando il suo peso, sul
piano delle figure logiche (che si dispiegano nella serie di antitesi, ossimori, rettifiche, svolgimenti: “eau-feux, intrigo-pace, tutto-nulla, vane-forme-sforma, sana-insana”, con la sottolineatura della rima) e della dialettica temporale presente-passato (“brillò-prilli-prillasti; si estingue-fu”).
I versi iniziali di Primavera hanno come epicentro fonico la parola tematica della composizione: “primavera”, appunto, da cui si irradiano tre linee di
forza allitterativa: la prima, rappresentata dalla nasale /m/, orientata all’indietro,
la seconda, individuabile nella spirante /v/, che realizza la diffusione fonica in
avanti, mentre il terzo nucleo allitterativo, costituito dalla occlusiva dentale /d/,
rappresenta uno svolgimento fonico, originato dall’espansione attributiva di
“primavera”: “insidiosa”, che si dirama in sottili mutamenti paronomasici:
“invidiosa – livida” (nei quali entra in collisione con la deriva allitterativa della
/v/), riecheggiando e rifrangendosi anche nel 3° verso: “Mote, MiasMi riMesta
la luce / di priMaVera insidiosa. InVidiosa, liVida / per il passo di danza in cui
conduci”. Un’altra linea di forza allitterativa (/pr/), originata dalla replicazione
anaforica di “primavera”, si dirama, con la mediazione del poliptoto (perdiperduta), fino alla fine della composizione, sovrapponendosi alla linea di opposizione-confluenza semantica tra la luce e il buio, col quale l’io lirico si identifica
( e la cui situazione è sottolineata dalla triplicazione “a me” a contatto e a distanza): “di Primavera. .. / ... la Perdi . Perduta /Primavera, e Perché ti chini a
me, a me / Per Parole, a me che sono buio?”.
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La composizione (Cos’è lo scampanio) è organizzata dal punto di vista fonico come un’aggregazione multipla e una condensazione pluristratificata di fonemi allitteranti, di modo che tra i vari livelli del testo si determina una sorta di
attrito fonico di nuclei sonori in opposizione, ma anche si realizzano la variazione e lo svolgimento, in quanto alcune cellule foniche in posizione subordinata rispetto alle dominanti all’interno di un verso vengono recuperate e moltiplicate nei versi successivi.
Nei primi due versi le cellule foniche prevalenti sono la sibilante /s/ (7
occorrenze) e l’occlusiva velare /c/ (6 occ.), spesso coniugate colle vocali
aperte o semiaperte /a/ (6 occ.) ed /o/ (7 occ.), che si irradiano dalla parolatema “scampanio”: “CoS’è lo SCampanio ChiaSSoSo /Che ha SCatenato le ire
oSCure”; nel terzo e nel quinto verso sono dominanti le occlusive dentali /d/e/
t/(di cui si individua un’anticipazione in “scatenato” del v. 2): “Di TanTi Dei?
Lo uDimmo TuTTi /... / Da quell’onDa D’urTo, Da suoni e sTrali” (da notare nel v. 5 il martellante ritorno della sillaba /da/), mentre nel v. 4 (“iN SileNzio, SoMMerSi”) viene realizzata la deriva fonica della sibilante /s/ dei vv. 1-2
(che si prolunga anche nel v. 5) e delle nasali /n/ ed /m/, già anticipate nel v. 3
(“taNti”, “udiMMo”), che sciamano nella seconda strofa spesso in posizione di
raddoppiamento: “fuMMo”, “salvaMMo”, “dispoNeMMo”.
Sono da notare nei vv. 8-9 i dilungati valori fonosimbolici suscitati dalla
connessione della /n/ (7 occ.) e della scura, chiusa vocale /u/ (7 occ.): “Ma
Nell’aria UN sUoNo dUrò a lUNgo, / UN sUoNo lUNgo”.
Il meccanismo di moltiplicazione e variazione a livello fonico viene realizzato anche sul piano lessicale, con il recupero nella seconda strofa, ma con
modalità grammaticali diverse e rettifiche semantiche, dei lessemi “silenzio” e
“suono” introdotti nella prima strofa (è anche da sottolineare la posizione di
inquadramento - o ciclo - di “silenzio” e l’epanafora di “suono lungo”).
Altro notevole fenomeno allitterativo è quello individuabile nei primi due
versi di Nomi: “TuTTi anDaTi. Il Tempo / ha Tre lanceTTe o quaTTro sul
quaDranTe” la cui forza fonica, centrata sulla /t/ della parola tematica
“tempo” si diffonde in lenta deriva per altri 6 versi finché non collide con
l’altro nucleo fonico fortemente connotato dei versi 9-10, che si irradia dalla
parola-tema “nomi”: “Borges, ReNato, e NoMi che iNdoviNi /Nella Nebbia,
Nel piaNto o Nel coMputer”, la cui progressione fonica, scandita dalla nasale
/n/ e dalla triplicazione della preposizione, sembra un lungo singhiozzo per il
ritmo lento della ricorrente sillaba /ne/. Il secondo nucleo
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tematico, da cui deriva anche il titolo della composizione, “Nomi” (che si riferisce ai morti testimoni, alle presenze amiche di Borges e di Renato Mantino, per
aspetti diversi care ad Antini) convoglia, per la sua valenza emotiva e semantica,
accentuati fenomeni di replicazione e di variazione anche a livello lessicale: innanzitutto la replicazione della parola-tema, poi le raffinate procedure paronomasiche: “... nomi che indovini / ... / nomi di sassi e d’astri, nomi disastro”
(“disastro” risulta evidentemente dall’innesto dei precedenti termini “DI SASsi”
e “ASTRi”), infine la duplicazione di “Occidente” con la variazione quasi ossimorica degli attributi: “insano-piano” che presentano, d’altra parte, la caratteristica omofonica della rima. Anche il primo nucleo tematico: il “tempo” aggrega fenomeni lessicali replicativi soggetti a variazioni, rettifiche e dislocazioni: il
sintagma “ha tre lancette o quattro sul quadrante/improbabile...” dei versi 2-3 viene
ripetuto e trasformato nei vv. 3-4: “ ... Ho tre più o meno o quattro/frecce...” e
nel verso 15: “lancetta appena mobile, improbabile”.
Altri esempi di una estesa disseminazione fonetica possono essere individuati nella composizione All'inconsolato lamento dei pianeti che presenta nel primo
periodo 19 occorrenze della /t/ e 10 della /d/, su 159 fonemi, che eccedono
nettamente la frequenza standard (nel quarto verso addirittura la /t/ ricorre ben
11 volte: “perché la viTa TuTTa sia mosTraTa, TuTTa l’aTTesa”, e la sua forza
percussiva viene evidenziata dalla presenza di ben tre doppie e dalla ripetizione
quasi a contatto “tutta... tutta”), e nel quarto verso di Tu ed io, in cui le occorrenze della /t/ sono 7: “di TuTTI gli aTTi che si compiono incauTamenTe”, che
costituiscono la deriva fonica del primo verso: “Quando nella noTTe un Tramestio di membra” nel quale è evidente la triplicazione dei nuclei fonici: della /t/
appunto, ma anche della /n/ (4 occ.) e della /m/ (3 occ.).
1.2.1. Passando ad esaminare le modalità delle figure sintattiche (o
dell’ordine), bisogna sottolineare le stesse caratteristiche, già rilevate per le figure
foniche, dell’altissima frequenza, della complessità e della variazione o, addirittura, dell’opposizione semantica delle strutture “ripetitive” della raccolta.
Le prime modalità da esemplificare sono quelle delle ripetizioni a contatto che, sebbene siano istituzionalmente procedure di intensificazione, sono
spesso portatrici in Antini di elementi di rettifica di variazione semantica.
La replicazione a contatto (geminatio) è presente ampiamente nella raccolta: “l’altra, l’altra che sempre urge e urla di lontano” (L’attimo), in
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cui la replicazione, ad apertura di verso, viene condotta sul piano
dell’esplicazione e dello svolgimento; “ ... e lui che gira, e gira solo” (L'amico
assente), in cui viene attuata una puntualizzazione (ed una progressione semantica); “... trama / sulla trama del velo, rete su rete...” (Presente storico), in cui appaiono i motivi della sovrapposizione e della diversificazione; “perché quel che
fui... / e quel che sono è triste, triste / tranne per quell’attimo in cui brilla / riflesso.” (Riflesso), in cui l’iterazione (“triste, triste”) si sviluppa in senso correttivo
o limitativo, ed è correlata ad una ripetizione anaforica (“quel... / quel”) che
egualmente si svolge come variazione o contrasto sul piano temporale (passatopresente); inoltre, lo svolgimento o il cambio di significato del lessema
“tempo”, e la puntualizzazione semantica sono evidenti, rispettivamente, nel
sintagma: “... il tempo, il tempo che si fissa” - oltre che nell’altra replicazione
con interposizione” ... un tempo, lo strappa al tempo” - (Quando gli occhi sono
mari); e in “ ... a morire, a morire nel cielo dei tralicci” (La Luna di Federico); “sul
litorale caldo della ragione, della ragione / che ha smesso tutti i sentieri ed ogni
costrutto” (Naufragio).
Solo in pochi casi il raddoppiamento a contatto appare come una semplice intensificazione di senso: “non so, non so davvero...” (Se nella memoria
d'uno); “ ... m’interroga... la voce, la voce” (Due piccole elegie, II); “Indago, indago
... / ... / ... è breve, è breve.” (La fine); “ ... a me, a me” (Primavera), presentando, tuttavia, qualche variazione, non fosse altro che nella pronuncia espressiva.
La replicazione a contatto appare nella raccolta anche in formulazione
tripla o quadrupla, come avviene in Tu ed io: “ciò che guardano è oltre, e oltre
c’è un oltre / oltre cui non si giunge...” , in cui i 4 membri replicati (gli ultimi
due in posizione di anadiplosi, a chiusura e ad apertura di verso) rappresentano
le ondate progressive di un continuo superamento o scavalcamento semantico
fino all’invalicabile ostacolo finale; ed in Il mattino: “... il non vederci / ti confina
alla meta, alla Meta. E la Meta / non è luce, né scamiciarsi né donne. Né maggio, /è Meta...”, in cui appare l’estensione semantica segnata dalla maiuscola e
l’esplicazione indotta dalla doppia negazione (con l’ulteriore deriva della replicazione a distanza).
L’altra modalità di raddoppiamento a contatto è rappresentata
dall’anadiplosi (in cui la vicinanza sintattica è allontanata artificialmente dalla divisione metrica) che si può individuare in L'attimo: “... batte, / batte come stoino il corpo...”; in Due schizzi: “ ... la luce / luce di sbieco...”; in “... segni: / segni
sono tutti del mortale passaggio...” (Due piccole elegie,
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I); nel già citato “…oltre/oltre cui non si giunge…”, in Tu ed io (nella cui sequenza è anche presente, per il cambiamento semantico della parola replicata, la
figura dell’anaclasi); in “ ... un vano astratto al corpo.// E il corpo da quel
punto dilaga...” (Naufragio), in cui il contatto, allontanato dalla divisione metrica
della strofa e da quella sintattica della frase, si svolge semanticamente in un altro
territorio di discorso.
1.2.2. Estesissimo è il catalogo delle replicazioni a distanza: sia quelle in
cui il contatto tra le parole ripetute viene allontanato per l’interposizione di un
lessema, sia quelle in cui la distanza risulta progressivamente maggiore: e
all’interno delle composizioni, e in posizione esterna: all’inizio (anafora) o a
chiusura (epifora) dei versi.
Guazzo presenta, dando ragione al titolo, una composizione pittorica di
pochi elementi cromatici e semantici sovrapposti e variamente accostati, e una
trama fittissima di replicazioni a distanza: la parola tematica “luce” ricorre ben 5
volte (4 in anafora), ed è in connessione più o meno stretta con attributi, ad essa
riferibili, disposti in una lunga serie sinonimica (in senso lato): “candidi, bianco,
limpidi, diffusa, riflessa”. (E’ anche da notare il collegamento ossimorico con
l’acqua, deducibile dalla metafora “zampilli di luce”). Altri lessemi ricorrenti
nella composizione sono: “tavoli”, il cui raddoppiamento appare all’inizio ed
alla fine diversi abbastanza distanziati (in posizione di epanadiplosi, o ciclo);
“commensali”, la cui triplicazione presenta un disegno particolare (anafora posizione centrale - quasi epifora); “parole”, la cui triplicazione assume una figurazione diversa da quella precedente, presentando un accostamento quasi a
contatto (e lo svolgimento semantico dettato dalla comparazione) tra i primi
due termini e un collegamento epiforico-anaforico tra il secondo e il terzo (“si
scambiavano parole, credo; parole / assai simili a limpide bolle. / C’erano
commensali: sì, bigiognoli, / e parole...”).
La composizione riscatta la sua staticità con sfumate, sottili variazioni tonali e tematiche, attuate con una tecnica di accostamenti di notazioni di oggetti,
e con procedure sintattiche di tipo paratattico e folgoranti ellissi, e, tuttavia,
l’inserimento nella dimensione del passato e lo straordinario rilievo dei valori
luministici collocano la scena in una zona di perfezione intoccabile, nella definizione memoriale di un tempo assoluto e vitale.
Anche la composizione Se nella memoria d’uno è giocata sull’aggregazione,
la ripetizione accanita e la variazione di pochi elementi lessicali e figurali che sono organizzati in serie plurime di replicazioni a distanza: il lessema “memoria”
presenta il fenomeno ripetitivo di più rilevante
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ampiezza in quanto ricorre ben 6 volte (3 in posizione di epifora e 3 di quasi
epifora) ed è inserito in un campo semantico che contiene anche i lessemi:
“ricordo”, “rammemorare” (anch’essi in posizione epiforica) e “dimenticare
(che rima col precedente); se poi si tien conto che “memoria” ricorre nei versi
estremi della composizione e che l’ultimo verso presenta in concentrazione figurale una metafora (“trottola”), una bellissima paronomasia, nonché rima derivata (“diurna di diuturna” elementi organizzati in figura di chiasmo, col suggello finale di “memoria” (“... trottola diurna di diuturna memoria”), bisogna
affermare che la parola tematica appare ossessivamente dominante nella composizione. Le altre serie replicative sono costituite da “prati” (2 volte in epifora,
e una volta in posizione interna al verso), “bandolo” (un membro centrale e
l’altro anaforico), “d’aver visto” (2 occorrenze in posizione anaforica ed interna), “davvero” (2 unità interne), ed, infine, “non so” che presenta un disegno
perfettamente bilanciato, con 4 membri disposti: 2 in anafora, uno a contatto,
uno in epifora, il che configura l’ulteriore modalità dell’epanadiplosi o ciclo.
Nella composizione, inoltre, compaiono meccanismi disgiuntivi, a livello microgrammaticale, e di scomposizione dei sintagmi e di nuove aggregazioni dei
membri degli stessi: “prati” e vicoli”, in un primo tempo legati dalla congiunzione, poi inseriti in un sintagma di disgiunzione (“ ... prati / o vicoli...”) e allontanati dalla divisione metrica del verso, vengono inseriti in sintagmi separati,
ciascuno dei quali di disegno disgiuntivo (“vicoli o sogni, memorie o prati”)
con l’ulteriore allontanamento dei due lessemi prima uniti, collocati l’uno
all’inizio, l’altro a chiusura del verso.
Tutte le modalità predette evidenziano il filo dialettico che attraversa
tutto il campo tematico (e temporale) della composizione: la memoria personale e quella collettiva dell’umanità, ed, ancora, l’impossibilità della vanificazione
memoriale del tempo sostanziale, che si diffonde in ondate successive, in cerchi
concentrici dal centro profondo alla riva della psiche, e la dialettica passatopresente-futuro (indotta dal sistema dei tempi verbali).
La linea dialettica e dinamica (di svolgimento e variazione) è evidentissima in Alba, in quanto vengono visualizzati nella ‘topografia’ della composizione
i movimenti (ed i rapporti) di luce e buio. Nei primi 3 versi il “buio” (6 occorrenze complessive, oltre ai lessemi “nel fondo” - 3 volte - e “notte” che fanno
parte dello stesso campo semantico di oscurità) si accampa con la triplice presenza anaforica (rafforzata dalla replicazione a contatto, nel 3° v., e dall’altra
epifora, nel 5° v., di “fondo”) mentre la
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“luce” è relegata in epifora; progressivamente il “buio” indietreggia nel centro
dei versi fino alla quasi epifora finale, mentre la “luce” (4 occorrenze complessive oltre ai lessemi “illumini” e “rifletti”, semanticamente affini) avanza gradatamente dalle posizioni epiforiche del 4° (5°) e 8° verso, affermandosi
nell’anafora, anzi nello spazio totale del verso 9° (legata significativamente con
l’anadiplosi al verso precedente), e nell’anafora pronominale (“che”) dell’ultimo
verso (“che, calma, le mille ampolle del buio ricolma”), realizzando anche sul
piano metaforico e su quello omofonico (delle due quasi rime che, in uno
schema simmetrico, replicano fonicamente le parti esterne del verso riferite alla
luce: “calma ... ricolme”, e quelle intermedie: “ ... mille ampolle...” che rimandano all’oscurità) la supremazia sul “buio” (che il verbo “ricolma”, in posizione di
inversione sintattica, evidenzia puntualmente).
L’accanita, ossessiva ripetizione della parola tematica “rosa” (presente
anche nelle variazioni flessive della lingua latina e transcodificatorie) delinea nella
composizione Verso il centro della Rosa una sorta di rosa verbale, una imitazione
della struttura della rosa realizzata con la disposizione stratigrafica delle parole.
La ricorrenza del lessema “rosa” per ben 12 volte viene articolata in quasi tutte
le figure replicative: dai poliptoti (la declinazione latina del nominativo-genitivo:
“rosa rosae”, e la relativa transcodificazione in italiano: “rosa della rosa”) alla
ulteriore declinazione latina in anadiplosi (“ ... Rosa rosae / rosae...”), dalla triplicazione delle anafore alle 5 epifore, dalle tre epanadiplosi, che realizzano il
cortocircuito tra l’inizio e la fine dei versi, al ciclo massimo istituito tra l’inizio e
la fine della composizione, che chiude in circolo il discorso. Nella costellazione
delle ‘figure’ si rivela il disegno di una dilungata metafora sintattica, s’intravede
la parvenza di un centro miracoloso con i numerosi petali-parole che vengono
convogliati, appunto, verso un centro illusorio e mitico (“ ... Non c’è che un
segno / per cui mirare al punto / intorno al quale tutto si svolge / e che non
c’è, ma è un segno / che non si vede...”: da notare è la replicazione negativa che
sottolinea l’illusorietà della figurazione, del ‘segno’, appunto, che appare in duplicazione epiforica).
1.2.3. Accanto alle replicazioni anaforiche ed epiforiche, altre modalità di
raddoppiamento a distanza assumono rilievo nella raccolta: sono quelle
dell’epanadiplosi (o ciclo) ed, in una prospettiva di maggiore ampiezza o distanza dei segmenti replicati, della ripetizione di interi versi (o di parti estese di
essi), e del riecheggiamento testuale da una composizione ad un’altra, modalità
sempre articolate in funzione dell’espansione, variazione (o contraddizione) semantica.
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Per quanto riguarda l’epanadiplosi, si aggiungono agli esempi già dati
precedentemente, di passaggio, quelli tratti da Due schizzi, Tempo II: nei vv. 1-6
della prima parte (“ribelle / cirro e cirro bizzarro / di generosa nuvola, e cirro
vano / fondo di vita forse / in cui per tratti di canzona andare / e minuto cirro”) l’epanadiplosi (la replicazione di “cirro” all’inizio del 2° verso ed alla fine
del 6°) si complica con la ripetizione a contatto e con il chiasmo: “ribelle/cirro
e cirro bizzarro” (con i due aggettivi esterni e i due sostantivi interni), con la
sinonimia cirro-nuvola (e, sul piano fonico, con la potente carica allitterativa
della vibrante /r/). Nei versi 5-7 della seconda parte (“vanno / gelano forse /
(forse non vanno)” l’epanadiplosi di “vanno”, che scocca tra l’inizio del 5° verso e la fine del 7°, si innesta nell’anadiplosi di “ ... forse / (forse...”, rovesciando
l’affermazione nella negazione di “non vanno”.
La ripetizione a distanza di interi versi (o segmenti consistenti di essi) viene attuata in Il mattino: “... lo scamiciarsi delle donne / ... / ... né scamiciarsi né
donne... /... /... si scamiciavano donne” (con la consueta tecnica di variazioni,
scomposizioni e rovesciamenti semantici e temporali); in L’esatto punto del presente: “Prendiamo un punto ad esempio / ... / prediamo il punto”; in Presente degli
specchi: "E lì s’incarna il mondo / comunque / o s’incarnò o s’incarnerà / di sé
amante / ... / è lì che s’incarna / assai amante di sé” (con i soliti innesti e variazioni e con l’introduzione della dialettica presente-passato- futuro); ed in Tra
ombre viaggiando: “infine e per sempre / ... /le fissammo infine e per sempre”.
Addirittura il sintagma “infine e per sempre” è riecheggiato, da poesia a poesia,
nella composizione Presente degli specchi (che insieme a L’esatto punto del presente e al
predetto Tra ombre viaggiando costituisce il trittico Preparativi per il viaggio).
1.2.4. Si farà ora velocemente cenno all’espansione sinonimica attuata
nella raccolta, in funzione della progressione o del martellamento semantico (e
fonico); si notino, ad esempio, le sequenze: “ ... nebbie, caligini, veli” (oltre ai già
esaminati campi lessicali contrapposti centrati su “voce” e “silenzio”), in Sopra
una piana colma di nebbie; “...t’illumini, abbacini” (con variazione di senso), in
Quella prigione di luce; ... risacche, sciabordii, riflussi”, in All’inconsolato lamento dei
pianeti; ... dilaga, mareggia” e “ ... spiaggia ... litorale”, in Naufragio.
1.2.5. La funzione ripetitiva viene anche attivata (pur nella variazione lessicale e semantica degli enunciati) col ricalco del profilo sintattico delle frasi, sia
per il riecheggiamento a distanza della stessa cadenza intonativa
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- con la reiterazione e l’intensificazione delle stesse strutture microgrammaticali,
spesso collocate nell’evidenza della posizione anaforica - (“Poiché parole più non
aprono i segni / ... / ... poiché parole / ... /più non si danno... / ... /poiché parole
l’animo più non inquieta...”, in Il bacio, in cui si sommano la replicazione sintattica e quella lessicale; “non so se dire che ricordo / ... / non so, non so davvero se
potrò / mai dimenticare... / ... non so / se potrò mai confessare di rammemorare”, in Se nella memoria d'uno, in cui s’evidenzia anche la serie delle progressive
variazioni lessicali), sia per la replicazione a contatto, martellante, della pronuncia
interrogativa delle frasi, che rivela l’accanita inquisizione dell’ ‘io lirico’ sulla propria identità e sul significato della sua presenza sulla scena del mondo (cfr. “Chi
parla di vento? E insinua dialoghi / nell’etere? Forse un mio moto inconsapevole / nel sonno, il tradimento oscuro della mente / slittata nella nebbia a un
tratto?... / ... / Lapsus? / Epifanie? O minacce, forse, fosche intimidazioni /
del sonno stesso, che per essere colmo / di sé mi nega, mi estrania da sé, mi
strema / nella veglia di domande? Ed è una voce / la mia che bisbiglia i nomi
delle voci, delle ingerenze / vocianti, purgatoriali, in cerca d’eco?”, in Le voci; la
triplice interrogazione che esaurisce totalmente la prima strofa di Diario; e l’altra
serie interrogativa di Quando gli occhi sono mari, di cui si parlerà in seguito: “Ma tu
chi sei? Tu sei? O non sei altro che l’altro di te in cui mi specchio?”).
1.3. Tra le figure logiche, quelle che ricorrono maggiormente nella raccolta sono l’antitesi e l’ossimoro che, con la loro carica bivalente, o polivalente,
provocano spesso il cortocircuito concettuale e logico, ma anche temporale,
figurativo ed, ancora più in profondità, tra diverse manifestazioni psicologiche,
esistenziali, e raffigurazioni del mondo e della realtà.
Il primo dei Due schizzi (nella sezione Tempo I) prospetta un quadro di
opposizioni spaziali e contrasti cromatici (luce-buio, bianco-nero) che si rivelano nell’anadiplosi, già ricordata: “ ... la luce / luce di sbieco...” (che presenta un
cambiamento del punto di vista o prospettico: “di sbieco”), nell’antitesi “ ...
offro e ripiglio”, nell’epifora (con poliptoto) “ ... buia / ... bui” (che si colloca
in posizione contrapposta al predetto binomio luminoso, configurando
un’antitesi potenziata), e nella replicazione quasi a contatto “strappata dai metrò,
velocemente, dai metrò bui”, in cui si evidenzia il processo di allontanamento,
la dialettica vicino-lontano.
Anche il secondo dei Due schizzi, Tempo I, presenta le caratteristiche dinamiche e oppositive del primo, incentrandosi sulla quadruplicazione
169
del lessema “alba” (che ricorre in triplicazione quasi a contatto: all’inizio, al centro ed alla fine del primo verso, ed inoltre alla fine del 3° verso) e svolgendosi
attraverso tutta una serie di figure: raddoppiamenti, combinazioni, contrasti
(l’opposizione spaziale sopra-sotto, la replicazione quasi epiforica di “acqua”, il
poliptoto “morti-muore”, il chiasmo “... morti verbi ad erbe marce...” e la
metafora massima “... l’acqua alba”) per mezzo delle quali procedure si realizza
l’indentificazione tra l’alba e l’acqua per cui la fenomenologia connotativa di
discesa spaziale (“sotto l’acqua”) e di decadenza, disfacimento e morte
(“morti/marce”) del secondo termine (“acqua”) viene assunta anche dal primo,
che viene poi investito anche sul piano denotativo della definizione della sparizione (“muore”). In tal modo nella metafora massima acqua-alba confluiscono
le due serie del dinamismo e dell’antitesi (ascesa-discesa e luce-oscurità).
La struttura, fin troppo accanitamente architettata, delle 2 composizioni è
la dimostrazione più evidente delle procedure di raddoppiamento e di antitesi:
in particolare, le modalità di replicazione vengono attuate in funzione ossimorica, affinché l’antitesi risulti potenziata, moltiplicata in una serie di echi o di rimandi speculari.
Anche La Sala presenta una fitta trama di ossimori e di antitesi, e di
campi lessicali in collisione, legati strettamente ai fenomeni reiterativi i quali, in
tal modo, addensano e sottolineano la funzione oppositiva o dialettica: dagli
ossimori “ ... pace cantata...”, “...tu vai vien via” e “... muori viva”, che sigillano
in apertura e in chiusura (della prima strofa e totale) la composizione, alle pluristratificazioni lessicali: “pace” (che ricorre 2 volte), “silenzi” (3 volte), “muta”
collocate in antonimia all’altra serie: “voce” (2 volte), “cantata”, “richiamo”,
“udito”, “cantore”, “odi”; infine, è da segnalare la contrapposizione attuata con
forme negative che segna totalmente la 2ª strofa: la serie “ ... più non traversa”,
“...ti sottrasse…”, più non odi…” si collega strettamente all’ossimoro già ricordato, “…e muori viva” il cui ultimo termine (“viva”) ripete, in epifora conclusiva, l’anafora iniziale della strofa. La presenza nella composizione di fenomeni
di replicazione fonica (la frequenza altissima - 9 volte – del fonema /v/ negli
ultimi 4 versi, con le allitterazioni percussive iniziali nonché l’anagramma nel
sintagma VAI VIen VIA, che sottolinea l’antitesi vai-vien raddoppiata dal
cambio di persona) si pone così in funzione di rispecchiamento delle modalità
logiche e sintattiche.
2. La costante formale del libro di Raffaele Antini appare, dunque, la replicazione a tutti i livelli: da quello fonico a quello sintattico e logico, ma
170
l’addensarsi fittissimo delle modalità ripetitive, che formano una sorta di costellazione fonica e lessicale, procede per lente, costanti variazioni, si dirama in
articolatissime sequenze contrappuntistiche, mentre egualmente rilevante è la
tensione antitetica e dialettica dei testi. Queste modalità stilistiche trovano corrispondenza ed espansione nella tessitura tematica delle composizioni, in quanto
la ripetizione, la variazione e l’antitesi investono tutto l’orizzonte comunicativo
della raccolta e ne modulano le ragioni profonde, l’organizzazione semantica, la
visione della realtà.
Il nucleo centrale del mondo poetico di Antini è costituito dal rapporto
dialettico ed ossimorico tra il tempo circolare (ciclico e mitico) e quello lineare
(storico) le cui rispettive modalità di manifestazione sono quelle della ripetizione, della ricorrenza, e quelle dello sviluppo e della variazione.
Ma il meccanismo delle due contrapposte misure temporali è più complesso, in quanto anche nel tempo ciclico sono individuabili mutamenti (e travestimenti) che increspano, talvolta, la sostanza profonda del fenomeno, mentre il
dinamismo del tempo lineare è scandito nella ripetizione delle singole frazioni
temporali.
I motivi tematici e figurativi che si accampano nella raccolta sono modulati secondo le procedure della ripetizione, della variazione e dell’antitesi, rispecchiando la grande metafora (dialettica) del tempo. La caratteristica sostanziale della ricorrenza (e circolarità) è presente nelle arditissime costruzioni e fantasie letterarie, nelle rappresentazioni oniriche, nelle figurazioni ‘mitiche’ femminili ed infantili (che pure, talvolta, sono attraversate da un’increspatura di movimento e di mutamento): tutte manifestazioni che si pongono in rapporto antitetico o dialettico con gli eventi e le sequenze della realtà e della storia, governati dalla legge dello svolgimento e della progressione, ma attratti, talvolta, nelle
traiettorie della ricorsività. (E’ evidente che la dialettica tra le due diverse prospettive temporali - e figurali - si propaga all’interno di ciascuna di esse).
Le altre figure tematiche: la situazione di specularità, la rappresentazione
teatrale e lo scambio pronominale presentano i caratteri di ripetizione sdoppiamento e di alternativa-variazione, attivando i meccanismi della finzione, del
parallelismo e dell’antitesi con la vita.
La poesia di Antini è, quindi, il teatro, il centro mentale e strategico, di
una collisione dialettica apertissima e vitale (o mortale?) tra il tempo lineare
(progressivo, storico) e quello circolare (mitico), dialettica che è luminosamente
rivelata dal bellissimo ossimoro “temporanea eternità” (Riflesso).
171
Le due prospettive antropologiche e psicologiche, che si incentrano sulle
due modalità temporali, si accampano in una lotta accanita, in una guerra di
posizione e di movimento, dando luogo ad accecanti dissonanze, a visioni dialettiche: la prospettiva storica appare spesso revocata in dubbio di fronte alla
sequenza sostanziale del tempo circolare. La progressione del tempo lineare,
frazionata negli innumerevoli lampi del presente, viene contemplata nel momento stesso del suo apparire già nell’evidenza della morte e della dissoluzione.
Illuminante è già il titolo, felicemente ambiguo, della raccolta, che realizza
una figurazione ossimorica: presente storico, da interpretarsi (con cautela) o
come l’affiorare e condensarsi della storia individuale e collettiva in una linea
continua e invariabile che si identifica o si dilunga nel presente, o come
l’immagine intravista e quasi scomparsa del presente, il suo guscio vuoto, privo
di sostanza vitale, retrocesso, precipitato nel tempo.
In questa dialettica temporale, la memoria appare, da un lato, come procedimento di archiviazione, certificazione di morte degli avvenimenti passati, e
‘ripetizione’, in quanto continuo riappropriarsi della morte. In Riflesso, la memoria ha proprio la funzione della definitiva attestazione della implacabilità del
tempo, della sua potenza devastatrice ed annientatrice: “Allunga dita affusolate
tra i compagni / d’un tempo, li snida dalle rocce del mio cuore / passandoli
nella più triste rassegna; / me ne contraddice i tratti; ne giudica / e ne equivoca
la ferma attendibilità. / Non ho difese, e non ne cerco neppure, / contro questo assalto...”. E’ da notare che tutta la composizione presenta un lessico bellico
che sottolinea la inesorabilità della guerra scatenata dal tempo (“passare in rassegna”; “con armi”; “non ho difese”; “assalto”; “soccombo”; “rifugio”), i cui
effetti vengono anche evidenziati dalla contrapposizione dei tempi verbali:
“perché quel che fui, tra i compagni, è scomparso /e quel che sono è triste, triste”.
D’altra parte, però, la memoria è l’attualità dell’essere, l’eterno presente,
la vitalità e la totalità dell’esperienza rifluente nell’esistenza.
La globalità temporale è attualizzata dalla ‘memoria inconscia’, legata alle
profondità, al fiume oscuro dell’essere (e che, in qualche modo, si spinge a
comprendere la memoria della stirpe, la memoria collettiva -come è già stato
notato nella sezione 1.2.2., a proposito della composizione Se nella memoria
d’uno); è la memoria che sboccia nel sogno: nelle visioni oniriche ma anche nelle
fantasie poetiche, nelle architetture letterarie e
172
nelle raffigurazioni mitiche, e che si estende in quello che la psicologia contemporanea (Schneider), utilizzando la concezione einsteiniana del tempo come
quarta dimensione dello spazio, ha definito “il tempo-spazio”, il continuum quadridimensionale legato ai meccanismi primari della psiche (E’ veramente
straordinario che Antini giunga, per penetrazione poetica, alla stessa formulazione della connessione spaziotemporale: “prendiamo il punto / pencolante /
tra un dove e un quando / dove nel dove non puoi non leggere dei quando”,
in L’esatto punto del presente).
L’ambivalenza caratterizza anche l’essenza del presente. Il momento che
fugge può apparire potentemente suggestivo (cfr. la balenante immagine della
“gioiosa giovinezza” che “tutta si scamicia”), può rivelare la carica di attrazione
e di vertigine che agisce sul soggetto lirico, anche se la memoria annientatrice,
antagonista del momento presente, può dissolvere la bellezza che fluisce (“ ... la
memoria / si accanisce con armi inedite al mio balcone, / mi sottrae diorama e
panorama / mi priva d’una bella chioma d’albero, del mare / che sempre
ammicca con ironia, / del viavai delle fanciulle che si cullano / nella grazia della
loro temporanea eternità.”, in Riflesso), ed anche se la prefigurazione delle
“colme estati” viene vanificata ed annientata, per cui la “stagione / che ci appartenne a maggio, con rose e tutto, / ... a giugno già declina nella notte, principiando” (Stagione).
Ma altre volte gli eventi del presente sono vissuti come aggressione e
violenza fisica e psichica, come “urlo e furore” o, almeno, come confusione,
caos, inessenzialità.
Anche il ritmo del tempo viene attratto nella prospettiva dialettica o antitetica: esso è soggetto alle opposte sollecitazioni della fluidità, della vorticosità,
da una parte, e, dall’altra, del rallentamento e quasi dell’immobilità (situazione
resa nel raddoppiamento etimologico: “ ... E’ un viaggiare lento, rallentato / ad
arte da un dio...”, in Naufragio, e nell’ossimoro: “ ... viaggiare, in sosta, sulla slitta
del tempo.”, nella composizione inaugurale di Tempo II).
Quando viene immesso nella dimensione della totalità dell’esistere, della
dilatazione mitica, il movimento temporale è solo apparente, è soggetto a ciclici
ritorni: “... enumera risacche sciabordii riflussi /ed altri apparenti modi del
moto escogita / perché la vita tutta sia mostrata...” (All’inconsolato lamento dei pianeti), così che la linearità si trasforma in circolarità.
D’altra parte, la vorticosità, la violenta accelerazione dei ritmi temporali
possono condurre al black out totale per una sorta di cortocircuito
173
esistenziale e di civiltà, come appare in Nomi. In questa composizione la compresenza (e la dialettica) delle due prospettive temporali è evidentissima, rispecchiando le modalità formali esaminate in precedenza. Il “sentimento” della
morte e della forza annientatrice “del tempo” viene vissuto con profondo strazio, ponendosi in antitesi con il tema della mitica figura femminile (che incarna
la pienezza, anche fisica, della vita) che sarebbe stata ardentemente appetita dai
“complici assenti”, e contro la quale si indirizza la ‘vendetta’ (“... Ho tre più o
meno o quattro / frecce per colpire”) dell’io lirico diviso e dilaniato tra le opposte visioni della totalità vitale e della egualmente totale irrevocabilità della
morte. In questa dimensione esistenziale è impossibile trovare un punto di riferimento: i parametri temporali sono vorticosamente dilatati e moltiplicati (“... Il
tempo /ha tre lancette o quattro sul quadrante / improbabile...”), risultano, alla
fine, impazziti, illogici, bloccati (“lancetta appena mobile, improbabile”) e condizionati dalla follia e dalla violenza della civiltà occidentale (“Occidente insano”
e, ironicamente, “piano”) che, pure, rappresenta lo scenario sostanziale
dell’esistenza.
La raffigurazione della morte appare nodale, centrale nell’universo tematico di Presente storico (ed, in modo anche più marcato, della raccolta parallela
Natura di pronome), si colloca al punto di confluenza o di intersezione delle due
diverse visioni del tempo, evidenziando il paradosso logico dell’estrapolazione
dell’evento luttuoso dal continuum temporale nell’ellissi o nella circolarità della
memoria (mitica), di modo che il principio dell’assenza diventa ricordo di una
presenza ricorrente, e, tuttavia, la carica di dolore e di strazio che accompagna
la nominazione dell’evento della ‘scomparsa’ potenzia l’ineluttabilità del tempo
storico.
Il tema del tempo e della “memoria incessante”, legato alla figurazione
della morte, è implacabilmente latente, presente e nascosto insieme; è l’idea ossessiva e sempre allontanata e rimossa che trova strade e varchi inattesi, imprevedibili per manifestarsi: è presente nella nominazione degli assenti (come si è
visto, in Nomi), nella prefigurazione del mortale pericolo (Tu ed io), nella situazione di distacco dal figlio (Due elegie).
Le fantasie letterarie, le figurazioni mitiche femminili (o infantili), le avventure oniriche riconducono fatalmente alla dimensione dell’infanzia, dello
spazio protetto e riparato (in opposizione allo spazio esterno, e nemico, del
mondo), al recupero di un tempo totale, alla riconversione del tempo lineare in
tempo circolare (o, se si vuole, alla inversione di direzione della freccia del tempo nel tentativo di allontanare o esorcizzare la morte).
174
La vita speculare, la scena teatrale, il balletto pronominale hanno la funzione di
uscire dalla ‘corporeità’, di costruire un ‘doppio’ illusorio e protetto dalla vita.
Bisogna a questo punto avvertire che le modalità stilistiche ed i nuclei
tematici individuati ed esposti, per comodità d’analisi, quasi sempre separatamente, a livello di descrizione molecolare, presentano nei testi collegamenti e
interazioni fittissime ed illuminanti che certificano la globalità vitale e la profonda dialettica delle composizioni, di un paio delle quali si proporrà una lettura
complessiva per documentare la precisione e la complessità del funzionamento
stilistico-semantico della poesia di Antini.
La concentrazione e il rispecchiamento dei moduli stilistici e delle componenti tematiche del testo Quando gli occhi sono mari fondano un sistema semantico coerente e bilanciato.
La replicazione accanita dei lessemi “tempo”, simmetricamente collocati
nella fascia centrale della composizione (nel 4° v. la ripetizione a contatto con
ripresa esplicativa: “ ... il tempo, il tempo che si fissa / entro battiti di morte e
temperate forme”; nell’8° la ripetizione a distanza con valore negativo o antitetico al precedente: “...non ha tempo...”; nell’11° v. la ripetizione quasi a contatto
con valore egualmente oppositivo tra i due termini: “ ... un tempo, lo strappa al
tempo”) presenta il motivo temporale nella diversità delle sue attribuzioni e
manifestazioni, coniugandolo strettamente ai temi della morte, della figurazione
mitica, dell’amore, dello specchio e dello scambio pronominale.
La risonanza psichica dell’immagine femminile (la cui durata “oltre i
giorni e le parole” è rispecchiata nella ricorrenza allitterativa “...Di Lei L’oDore
Dura”) rivela per contrasto il tempo progressivo che si svolge “entro battiti di
morte, il tempo che ristabilisce la sua funzione distruttiva e mortale in opposizione alla dimensione protettiva, nutritiva ed atemporale della mitica figura
femminile-materna (“Ecco si muore, senza più quel seno. E’ amore /quello che
dunque un po’ fremendo viene. /E’ amore e non ha tempo. Viene / lieve
sull’ala dell’aliante, svola / su basse nuvole e poi stacca / ritmicamente un tempo, lo strappa al tempo / che ci contenne, ci preme...”) la cui forza salvifica
(evidenziata dal raddoppiamento epanaforico di “E’ amore” ed epiforico di
“viene”) si oppone alla distruttività della morte (sottolineata dalla figura etimologica “morte-muore”). E’ la sintonia con la mitica immagine, è l’amore - nel
senso più ampio - che può affrancare col suo volo dalla prigione del tempo (e
la gremita serie
175
allitterativa “Lieve suLL’aLa deLL’aLiante, svoLa” - in cui appare la diffusione della sillaba radicale del volo, il quale anche dal punto di vista lessicale aggrega un ampio campo semantico: “ali, lieve, aliante, svola”, avvalorato dalla figura
etimologica “ala-aliante” - sottolinea il movimento ascensionale), che può staccare un tempo ritmico, ciclico, dalla linea temporale che si prolunga dal passato
al presente (come le forme verbali “contenne-preme”, legate, tra l’altro,
dall’assonanza e dalla sinonimia, segnalano).
Infine, il tema del rispecchiamento, coniugato allo scambio pronominale
(lei-tu), si svolge attraverso la serie delle replicazioni dei segmenti testuali (e della
pronuncia interrogativa) e delle progressive variazioni ed antitesi: la domanda
sull’identità della figura mitica (“Ma tu chi sei?”) si trasforma in quella (“ ... Tu
sei?”) sulla sua esistenza — con la variazione del significato del verbo essere - e
poi nel dubbio (“…O non sei / altro che l’altro di te in cui mi specchio?”) che ella
non sia che il riflesso di un alter ego, in cui l’io lirico si rispecchia (e il profilo della
serie speculare fonico-sintattico-lessicale fa balenare, sul piano tematico, un rimando di specchi all’infinito).
Un altro testo in cui si manifestano in modo marcato la dialettica (e la
contaminazione) tra le diverse prospettive ed emergenze temporali, e il rispecchiamento o il collegamento delle figure del significante e di quelle del significato è Pioggia.
La fin troppo accanita volontà costruttiva fa sì che il testo diventi quasi il
pretesto di riprese contrappuntistiche, di motivi che si alternano e alla fine si
congiungono dando origine alle folgoranti metafore del “tempo-pioggia” e del
“filante tempo”. Le tre linee dei “fili”, della “pioggia” e del “tempo”, attraverso le replicazioni e le variazioni, alla fine si fondono, disegnando un quadro di
dilatazione temporale e spaziale.
L’effetto fonico (la gremita ricorrenza allitterativa della liquida /1/ per
22 volte e della dentale /t/ per 26 volte, sui 252 fonemi della composizione,
per cui i due fonemi totalizzano una frequenza altissima: 1/5 sul totale),
l’accanita replicazione delle parole tematiche: “fíli” (5 volte), “filante”, “tempo”
(4 volte), “pioggia” (2 volte), “umido” (2 volte) appaiono come l’equivalente
fonico-sintattico, come una straordinaria metafora ritmica, dell’aspetto visivofigurativo (“FiLi sgomitoLa da tempo La pioggia, di naiLon./L’intrico fitto
ha inghiottito umidi giorni /e bevuto cicaLanti notti dagLi occhioni Lucenti.
/Ma soLo fiLi di naiLon durano. FiLi esiLi./(Dove s’è ceLata L’attività? Tra i
fiLi /sparita, negata dai fiLi? È’ iL tempo umido / che ce La sottrae, iL tempo-pioggia, iL fiLante tempo?)”).
176
A sua volta, la figurazione è slegata dal dato puramente referenziale, dal
fenomeno naturalistico, così che viene realizzata con la tessitura fonico-sintattica,
come in laboratorio, una struttura artificiale, una straordinaria architettura letteraria (cfr. il riferimento alla sostanza sintetica: il nailon in cui è mutata la pioggia).
Viene attuata, insomma, una sorta di trasmutazione alchimistica: la naturalità è trasformata in artificiosità, in sinuosa mitologia poetica la quale inghiotte,
cancella il tempo dell’attività quotidiana (ma con qualche rimpianto o esitazione,
individuabili nella forma interrogativa), blocca il movimento del presente e lo
sostituisce con una dimensione totale, dilatata del tempo, attuata per mezzo del
rallentamento, della sospensione temporale.
Un altro esempio di elaboratissima costruzione di fantasia poetica, di invenzione e di illusione dell’oggetto letterario, è rappresentato da Verso il centro
della Rosa.
E’, per dirla pasolinianamente, una “poesia in forma di rosa”, una figurazione linguistica e letteraria, una sorta di onomatopea visiva, che inventa e
replica la gremita struttura della rosa sul piano gremitissimo dei raddoppiamenti lessicali e delle immagini letterarie, ma i riferimenti, i riecheggiamenti di
luoghi letterari sono tutti impliciti, vengono tutti riassorbiti senza residui nella
‘forma letteraria’ (da Dante ad Eco, da Eliot al rilkiano “innumerevole fiore ...
corpo fatto sol di luce”, Sonetti ad Orfeo, VI, II parte). Si può affermare che la
letteratura della citazione, che caratterizza le precedenti raccolte di Antini fino a
Gli Arcadimenti, si è tramutata in pronuncia espressiva, in assoluta modulazione
letteraria.
La figurazione mitica che “ci giunge... dal tempo della rosa” (che presuppone, appunto, una inversione temporale, un’uscita dalla tangente del tempo
storico) è avvalorata e sostenuta da un’altra figura miracolosa, mistica o mitica
(“il bambino venuto dagli astri / e che coabita / ora nel giardino con me, o
con la vita / e mi contiene...”), una sorta di Gesù bambino o, almeno, un emblema di innocenza e dell’eterna fanciullezza, con la capacità di vedere la vita
con occhi ingenui (in cui è, forse, ravvisabile anche l’accenno al “fanciullino”
pascoliano), che evoca uno scenario di sospensione del tempo.
Sul piano del mito (di una mitologia personale, ma anche di proiezione
collettiva) campeggia la raffigurazione di un’entità femminile nella quale confluiscono molteplici connotazioni e proiezioni psicologiche.
Questa mitica figura femminile che ricorre nelle pagine della raccolta appare quasi l’archetipo della donna, della femminilità in senso esteso, che
177
comprende anche la figura protettiva ed amorosa della madre, e forse è anche
la proiezione della poesia. Verso questa immagine l’io lirico assume una posizione di ambivalenza, essendo soggetto alle due forze contrapposte
dell’avvicinamento e dell’allontanamento, dell’attrazione e del riserbo o del distacco. Così avviene, per esempio, in Sopra una piana colma di nebbie (“mi tiro da
una parte... e lascio / un vuoto fedele e caro tra me e lei”) in cui si realizza
l’identificazione tra una città (Modena, slegata però dall’individuazione puramente referenziale) e una signora dalle “benevole braccia” (la presenza affettuosa e protettiva). La composizione che, all’inizio, prospetta l’identificazione con
assoluta precisione e coincidenza (“ ... tenera signora città”), lascia poi intravedere l’autonomia dei due termini della connessione, pur non attuando la disgiunzione tra essi (“Se sia città... o sia signora / ... non posso... / dire...”), prefigurando, comunque, per la città uno spazio interno, protettivo ed accogliente,
opposto allo spazio esterno, nemico o indifferente (“ ... una piana colma di
nebbie, caligini, veli”). Altre figure mitiche femminili, con il loro potere di attrazione in una sfera di atemporalità e di profonda risonanza psichica, sono presenti in alcuni luoghi della raccolta: (Ma è pavesianamente), Allo specchio, Gioiosa giovinezza, La Sala (oltre ai già toccati Nomi e Quando gli occhi sono mari).
Nella prima composizione sono evidenti lo stretto collegamento tra
mito e letteratura, in quanto la figura femminile appare nell’alone degli echi pavesiani e zanzottiani (La Beltà), e la duplicità della situazione: la ricerca e la dissolvenza.
La figura femminile della Sala, evocata in un’atmosfera rarefatta tra il
balenìo delle “vaganti luci” e l’eco di sfumati suoni e voci, e fluente
nell’evanescenza (delineata dal ricorrente lessico di negazione: “non traversa...
nell’immoto ... ti sottrasse... non odi ... muori”), si inserisce quasi in una dimensione teatrale, si muove su una scena allusiva e astratta o in incantato mondo
sognato.
La vicenda onirica rappresenta, ovviamente, la regressione, l’inserimento
nella dimensione dell’inconscio (la “coscienza degradata”, nell’espressione della
lirica Presente storico), nella cronologia circolare della profondità dell’essere. Il
sogno appare a volte come una fuga, un riparo (non sempre sicuro) dalla violenza del tempo e della memoria cosciente (cfr. “Dopo gli assidui, inutili ripari
/ nei labirinti vaghi del sogno, la memoria / si accanisce con armi inedite al
mio balcone” in Riflesso), a volte come l’immissione in una dimensione temporale non legata alla progres178
sione implacabile, ma aperta a inversioni folgoranti, a lunghissimi flash-back, a
identificazioni straordinarie (in cui vengono annullate la linearità cronologica e la
diversità delle condizioni psicologiche ed esistenziali).
Ciò appare, con la massima evidenza, nella situazione onirica rappresentata in Presente storico, in cui si realizza l’identificazione tra l’io ‘narrante’ (“ ...
adulto /mummificato, livido /e di nostra vecchia conoscenza...”), retrocesso,
nel sogno, all’età preadolescenziale (“ ... fanciullo mummificato, livido / e di
nostra vecchia conoscenza...”), e il figlio, preadolescente nel presente della
composizione, in una sorta di sovrapposizione di “ ... trama / sulla trama del
velo, rete su rete...”.
Come lo spazio onirico, anche il teatro è un ‘luogo’ privilegiato nella
poesia di Antini. L’evento scenico è la ripetizione della vita (o, meglio, della ‘vita
della fantasia’), ma anche la sua straordinaria differenza. E’ la rappresentazione
di atti, gesti, emozioni slegati dalla connessione di esistenza, dal fluire del tempo,
dalla collocazione nello spazio della realtà e immessi nell’astrazione del tempo e
dello spazio illusori.
Dalla creazione della nuova dimensione spazio-temporale proviene il
gioco delle ellissi e delle inversioni temporali e quello delle finzioni spaziali. La
dialettica tra il tempo e lo spazio diegetici ed extradiegetici, ossia tra le dimensioni della storia rappresentata e quelle della rappresentazione scenica, è - come
si afferma in All’inconsolato lamento dei pianeti – “l’abile rito della ribalta”, ripetizione e rispecchiamento ma anche allontanamento dell’evento (resi anche dal
punto di vista fonico dal quasi perfetto anagramma ABiLe RITo - RIBALTa).
Anche lo specchio, come il teatro, è il riflesso, il ‘doppio’ della vita: è il
luogo dell’immagine virtuale, dell’annullamento della corporeità, ma anche della
sorpresa e della rivelazione dell’io di fronte al mondo parallelo dell’immagine
riflessa. Il soggetto assume un duplice atteggiamento: il primo, di ricerca o di
individuazione della propria identità di fronte ad uno strumento che rimanda,
oggettivandola, l’immagine. “O specchio specchio! Chi dunque? Son io” interpella la voce recitante di Allo specchio, alla ricerca di un riferimento stabile, di una
risposta che non viene (e i fenomeni di duplicazione sintattica: il vocativo speculare, la doppia interrogazione con scambio pronominale, oltre all’allusione
ironica alla favola di Biancaneve: “Specchio delle mie brame, chi è la più bella
del reame?”, sottolineano il rispecchiamento, l’inquisizione e la retrocessione nel
mondo infantile).
La seconda prospettiva del soggetto lirico è quella della fuga di fronte
all’invadenza, alla brutalità del tempo (e della memoria del tempo), del
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“naufragio” in uno spazio intemporale ed illusorio, in un “riflesso” del fluire
della vita: “ora soltanto mi accorgo che infilarsi/ dentro uno specchio è l’ultimo
/ atto di salvataggio nella peregrinazione” (Riflesso).
Nello ‘scenario’, delineato dalla poesia di Antini, di fluidità delle prospettive temporali, dell’accelerazione o rallentamento dei ritmi storici,
dell’evanescenza delle collocazioni spaziali (si è già notato che Antini non descrive luoghi: le città, i panorami appaiono come spazi ‘astratti’, sono riconducibili
ad una topografia puramente mentale), delle incertezze esistenziali e ‘culturali’, è
naturale che le forme pronominali diventino gli indicatori più sensibili della situazione del ‘mondo rappresentato’. (A margine, e resistendo alla tentazione di
approfondire qui ulteriormente il complesso problema, si vuole rammentare
almeno che la seconda raccolta di Antini, Gioconda & Io, accampa sin dal titolo,
come protagonista, il pronome di 1? persona singolare, e che un’altra sua plaquette, pubblicata quasi contemporaneamente e per molti versi complementare a
Presente storico, è sintomaticamente intitolata Natura di pronome).
I pronomi - come afferma E. Benveniste - sono “segni ‘vuoti’ ... che diventano ‘pieni’ non appena un parlante li assume in ogni situazione del suo discorso... E’ identificandosi come persona unica che pronuncia io che ciascun
interlocutore si pone alternativamente come ‘soggetto’ “. (Cfr. “La natura dei
pronomi”, in Problemi di linguistica generale. Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 304305).
Lo scambio delle forme pronominali di 1a e 2a persona singolare denota, quindi, la crisi della soggettività, la fluttuazione o evanescenza dell’ego: il ‘tu’
diventa nient’altro che la proiezione labile ed evanescente dell’ ‘io’, privato della
sua consistenza e durata, dissolto quasi nel flusso e nella metamorfosi del tempo, non inseribile durevolmente nelle coordinate storiche e spaziali.
Alla luce di queste osservazioni può essere compreso il valore, nella raccolta, degli indicatori pronominali che prospettano il rovesciamento tu-io, in
quanto l’io si sdoppia nel tu (“ti sorprende”, “io a volte inclino a un verso”, “io
che mi perdo”, in Tu ed io), l’incapacità - o indifferenza- ad identificare
l’appartenenza del corpo all’io parlante (“il corpo, mio forse, che si srotola...”,
in L’attimo), l’interscambiabilità o confluenza della destinazione della comunicazione (“ ... là dove lui /a tratti si confessa/ con un tale, che sia io / o lui non è
importante ed anzi è uguale.”, in L’Amico assente), la fluidità dell’esperienza non
riconducibile ad un soggetto ben definito (“…E si agita / lietamente il destino
delle trasformazioni. / E non
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hai più sonno. Indaghi”, in Il mattino, l’interrogarsi sulla propria identità (“ ... Chi
dunque? Son io?”, in Allo specchio; “Ma tu chi sei? Tu sei? O non sei / altro che
l’altro di te in cui mi specchio?”, in Quando gli occhi sono mari, in cui è decisivo il
rispecchiamento pronominale).
E’ evidente lo scacco di un pallido ‘io’, fantasma vagante nelle zone più
rarefatte e lontane dell’esistere, fluttuante in una sorta di limbo della condizione
umana e continuamente attratto dai vaporosi e biancheggianti paradisi
dell’infanzia, dal mondo illusorio degli specchi, dalla vertigine nebulosa del sogno, dagli intricati sentieri dell’inconscio personale (e collettivo).
Sulla ‘scena’ del mondo si muove un ‘io’ alienato, disperso, ‘inondato’
dagli oggetti, sollecitato dai crudeli meccanismi della ‘civiltà tecnologica’, e immesso nella vorticosa, pluviale foresta del linguaggio in cui vive e rivela la frattura e la nevrosi, l’attrazione e la repulsione del nostro tempo.
Luigi Paglia
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